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Il romanzo in Italia III. Il primo Novecento A cura di Giancarlo Alfano e Francesco de Cristofaro Carocci editore Frecce vol3.indd 5 vol3.indd 5 30/03/18 10:26 30/03/18 10:26

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Il romanzo in ItaliaIII. Il primo Novecento

A cura di Giancarlo Alfano e Francesco de Cristofaro

Carocci editore Frecce

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1a edizione, 2018© copyright 2018 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino

isbn 978-88-430-8523-1

Siamo su: www.carocci.itwww.facebook.com/caroccieditorewww.twitter.com/caroccieditore

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Indice

Premessa

1. La prosa della modernità di Francesco de Cristofaro Dove comincia il Novecento

Sentirsi moderni

Il genere fuori di sé stesso

«Si tratta anche di te»

L’impatto della Storia

2. Il modernismo internazionale e il rinnovamento delle tecniche in Italia

di Federico Bertoni I nomi

Un «rumore di cose che si rompono»

Linee di frattura

Realtà e rappresentazione

Narratore

Tempo e trama

Personaggio

3. Luigi Pirandello di Marina Polacco Abbattere barriere

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8 il romanzo in italia

Una sfi da, scrivere in prosa

Beff e della morte e della vita

Umorismo e romance

Cosa rimane della storia (e del romanzo)

Tra melodramma e riproducibilità tecnica

Il cerchio si chiude

4. L’umorismo di Giorgio Forni Il riso della libertà

Tra parodia e sogno

La catastrofe del reale

5. Il romanzo futurista di Antonio Saccone Percorsi di Marinetti romanziere

Il caso Palazzeschi

Il romanzo dell’occulto

6. Il romanzo femminile di Mariella Muscariello Le trasgressive

Voci dalle isole

Donne moderne

7. Federigo Tozzi di Massimiliano Tortora Tozzi e il modernismo italiano

Il romanzo oltre il romanzo: Bestie

I temi ricorrenti: il giovane, il padre, la violenza

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indice 9

La linea Con gli occhi chiusi-Ricordi di un giovane impiegato-Gli egoisti

La linea Il podere-Tre croci

8. Forma breve e forma lunga di Silvia Acocella L’inversione del rapporto tra romanzo e racconto

Quanti di romanzo

Il bisogno di conchiglia

Comunicare attraverso i vuoti: lo stile tardo del romanzo modernista

9. Il romanzo russo in Italia di Stefano Aloe Alcune premesse. L’“anticanone” russo e la sua prima

ricezione in Europa

Il romanzo russo e la letteratura italiana tra fi ne Ottocento e inizio Novecento

I russi diventano classici. Gli anni Venti e le conferme successive

Qualche lacuna da colmare

10. Rubè di Ambra Carta Rubè e il romanzo negli anni Venti

Struttura e temi

Modelli e forme. Categorie interpretative

Bilancio critico. Fortuna e destino di un personaggio

11. Verso una nuova soggettività. Psicologia e romanzo tra Otto e Novecento

di Paolo Trama Premessa: di qualche mito storiografi co da sfatare

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10 il romanzo in italia

La lunga transizione al modernismo

La crisi del “soggetto atomo”: psicologia e psichiatria nella Francia dell’Ottocento

Per una nuova soggettività romanzesca: realisti versus idealisti

Aspetti strutturali, tematici, linguistici

12. La coscienza di Zeno di Nunzia Palmieri La materia del narrare

Storia del testo

«Un’autobiografi a e non la mia»

Svevo e la psicoanalisi

L’universo femminile

Fine della cura come iniziazione alla vita

13. Gli indiff erenti di Simone Casini «Un titolo storico»

1925, fabula incipit…

1926, lectores in fabula

1927, tangenze novecentiste

1928, «a remarkable achievement»

1929, e oltre

14. Le riviste e la scrittura del romanzo di Maria Panetta La fi ne degli anni Venti e il rilancio della narrativa

Dal rinnovato interesse per la realtà al “ritorno all’ordine”

Modernismo di “Stracittà” ed europeismo di “Solaria”

Oltre il “realismo magico” (e oltre il realismo)

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indice 11

L’ambito fascista e quello cattolico

La letteratura di denuncia

Alla ricerca di nuovi linguaggi

15. L’esordio di un romanziere: Gadda negli anni Trenta di Monica Marchi I primi tentativi di scrittura romanzesca: l’esperienza di

Retica e del Racconto italiano di ignoto del Novecento

Il romanzo «imperfettamente compiuto»: La meccanica

Dal racconto breve al romanzo: Un fulmine sul 220

Il romanzo familiare: La cognizione del dolore

17. Il romanzo del fascista italiano di Emanuele Canzaniello Genesi e genealogie

Il fascismo e il suo gradiente di letterario

Il romanzo fascista

18. Tommaso Landolfi di Paolo Zublena Racconto, romanzo, diario

Racconto fantastico vs realismo e romanzo

Né romanzo né vita quotidiana

Scene (fantastiche) dalla vita di provincia

Manierismo stilistico e forma breve

Il racconto come parodia del romanzo

Altri racconti di secondo grado

Un romanzo-diario?

Tentazione e impossibilità del romanzo

Letteratura come morte, enigma e racconto

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19. Tradurre gli americani di Nicola Turi Alla scoperta dell’America: la fondazione di un mito

Il pioniere Pavese

Vittorini e l’antologia Americana

Precario è il canone: repentini ripensamenti

Una protratta lezione di stile

20. Città e campagna di Massimiliano Tortora Città vs campagna: l’Ottocento

Township modernism

Città e campagna negli anni del “nuovo realismo” (1929-41)

La campagna degli anni Trenta: tra mito e politica (Vittorini, Alvaro, Silone)

La città negli anni Trenta: moderna, diffi cile, corrotta

21. Il romanzo tedesco in Italia di Irene Fantappiè e Daria Biagi Il romanzo tedesco in Italia dal Werther a Th omas

Bernhard: una ricezione intermittente

Il ruolo della letteratura tedesca nello sviluppo del romanzo italiano: gli anni fra le due guerre

Conclusioni. I romanzi stranieri e le trasformazioni del canone italiano

22. Romanzo e teatro nel Novecento italiano di Enrica M. Ferrara La crisi dell’uomo e la forma teatrale

Dialogo, plurilinguismo e “drammatizzazione dell’epos”

Il dialogo teatrale e la dissoluzione dell’io epico

Travestimento dell’io e performatività di genere

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23. Romanzi della Resistenza di Alessandro Baldacci Fra continuità e discontinuità

Documenti e narrazioni della storia

La precisione della fantasia

24. Uno sguardo sulla violenza: l’ultimo Pavese tra mito e storia

di Monica Lanzillotta La produzione eversiva di Pavese

La poetica del destino

«Tuo padre sei tu»: la ricerca dell’identità nella Luna e i falò

La consapevolezza del destino nella storia di doppi della Luna e i falò

25. Il romanzo neorealista di Nicola Turi Una controversa defi nizione di territori

L’azione della storia: per un rinnovamento delle coscienze

I casi esemplari di Pratolini e Pavese

La Liguria di Calvino

Un panorama comunque frastagliato: da Viganò a Fenoglio

26. Natalia Ginzburg di Beatrice Manetti Tra racconto e romanzo: un lungo apprendistato

Donne, uomini, famiglie: i temi ricorrenti

Vicissitudini di un io narrante

Le voci e le vite degli altri: da Tutti i nostri ieri alle Voci della sera

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La conquista dell’autobiografi a: Lessico famigliare

I romanzi degli anni Settanta e Ottanta

La fortuna critica

27. Romanzo e cinema di Attilio Motta Premessa

L’impatto del cinema sulla letteratura

I Quaderni di Serafi no Gubbio operatore

Il romanzo cinematografi co dopo Pirandello

Dagli anni del Neorealismo a Il disprezzo di Moravia

Da Calvino all’ipercontemporaneo

28. Il romanzo e la scienza di Antonio Saccone «La qual cosa non potranno mai fare i fi sici né i chimici»

«Maledetto sia Copernico!»

«E la terra tornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie»

«Una molteplicità di causali convergenti»

«Ménage à trois»

«L’arte di separare, pesare e distinguere»

Breve (provvisoria) conclusione

29. Il secolo dei fanciulli. Vie italiane al romanzo per l’infanzia di Francesco de Cristofaro Un Pinocchio bolscevico

Qui comincia la sventura

Nella provincia profonda

Il paradiso dei semplici

Alla corte di Gian Burrasca

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Schede

1. Sibilla Aleramo, Una donna (1906) di Gennaro Schiano2. Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista (1909) di Gennaro Schiano3. Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà (1911) di Bernardo De Luca4. Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani (1913) di Luca Marangolo5. Grazia Deledda, Canne al vento (1913) di Carmen Gallo6. Giovanni Boine, Il peccato (1914) di Natalia Manuela Marino7. Massimo Bontempelli, La vita intensa (1919) di Marcella Maria Caputo8. Maria Messina, La casa nel vicolo (1921) di Mariangela Tartaglione9. Ignazio Silone, Fontamara (1930) di Valentina Panarella10. Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte (1930) di Luca Torre11. Elio Vittorini, Il garofano rosso (1933) di Fausto Maria Greco12. Carlo Bernari, Tre operai (1934) di Giuseppe Liberti13. Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro (1938) di Mariangela Tartaglione14. Romano Bilenchi, Conservatorio di Santa Teresa (1940) di Marcello Sabbatino15. Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari (1940) di Felice Messina16. Cesare Pavese, Paesi tuoi (1941) di Felice Messina

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17. Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia (1941) di Fausto Maria Greco18. Giuseppe Berto, Il cielo è rosso (1947) di Luca Marangolo19. Anna Banti, Artemisia (1947) di Alberta Fasano20. Ennio Flaiano, Tempo di uccidere (1947) di Ornella Tajani21. Curzio Malaparte, La pelle (1949) di Antonio Del Castello

Bibliografi a

Indice dei nomi e delle opere

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10Rubèdi Ambra Carta

Rubè e il romanzo negli anni Venti

Anno 1921. L’editore Treves dà alle stampe la prima edizione di Rubè, il romanzo che segna la svolta narrativa di Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), critico militante, narratore, poeta, drammaturgo, tra le voci critiche più vivaci della Italia letteraria del primo Novecento.

A circa dieci anni dalla raccolta di saggi critici in tre volumi La vita e il libro (1910-13), appare la prima prova narrativa di un intellettuale che fi no a quel momento si era dedicato quasi esclusivamente alla critica letteraria e alle vicende politiche nazionali e sovranazionali. L’anno di pubblicazione del romanzo segna per Borgese il “tempo di edifi care”, per usare il titolo di una sua raccolta di saggi critici (1923), ovvero l’ora di una rinascita etica ed estetica, il tempo della costruzione del grande edifi cio del romanzo dopo un ventennio di frammentismo e dannunzianesimo.

L’Italia letteraria uscita dal primo confl itto mondiale, infatti, non ave-va dato grandi opere – a giudizio del critico – né poetiche né in prosa. Con Rubè Borgese intende tornare al genere del romanzo inteso come rappre-sentazione complessiva di un’epoca, dei suoi protagonisti e dei loro vaghi ideali, mirando alla sintassi chiara e solida di un edifi cio organico e unita-rio come una grande architettura. Borgese off re così agli italiani il raccon-to antropologico e politico degli anni della guerra, le lotte tra interventisti e neutralisti e la vicenda esemplare di un personaggio inetto, Filippo Rubè, ossessionato dalla retorica, cinico e incapace di sentimenti autentici, un antieroe vittima degli eventi, il quale, dopo un labirintico girovagare alla ricerca della propria realizzazione, muore a Bologna schiacciato dalla cari-ca di una cavalleria lanciata su un corteo di manifestanti.

Rubè pone fi ne a una lunga stagione artistica dominata dalle riviste let-terarie e dallo sperimentalismo formale delle prime avanguardie storiche, che avevano rinunciato alla funzione costruttiva delle composite archi-

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tetture in prosa e in versi in favore del verso libero, del frammento lirico o della prosa in versi. Nei confronti di tale stagione Borgese assunse ben presto una posizione di netto rifi uto, come testimonia la rassegna di saggi critici raccolti nei tre volumi di La vita e il libro, ricca di acute, sottili e talvolta presaghe letture critiche delle tante voci emergenti nel panorama letterario di quegli anni (Debenedetti, 1998, pp. 125-63)1. Nonostante il diffi cile carattere che gli costò antipatie e polemiche in ambiente lettera-rio, da Benedetto Croce a Renato Serra, ai vociani2, il merito principale dell’attività critica di Borgese va riconosciuto nell’aver contribuito a co-struire una critica attenta oltre che al fatto estetico anche a quello etico, nell’avere favorito una letteratura impegnata a dialogare con la realtà con-temporanea, estranea alla torre d’avorio dell’estetismo. In tutto l’arco del-la sua vita Borgese si impegnò per la costruzione di un edifi cio letterario e critico ispirato all’insegnamento dei grandi maestri del passato, da Dante ad Alessandro Manzoni, esempi di un’arte fondata sull’intreccio di etica ed estetica. Per tali ragioni, la letteratura dei giovani contemporanei – dai crepuscolari, che pure aveva tenuto a battesimo, ai futuristi – non poteva coincidere con il suo ideale di letteratura e critica classicamente ispirate. A partire dalla fi ne del 1905, infatti, matura il suo congedo dal gruppo di giovani letterati legati alle riviste “Leonardo”, “Hermes” e “il Regno” ognuna delle quali stava compiendo svolte programmatiche in direzione le prime fi losofi ca, l’ultima nazionalista. Matura cioè la coscienza di vole-re intraprendere una strada autonoma improntata a un’idea di moralità e onestà nell’arte che lo spinge da un lato ad avvicinarsi al lavoro intel-lettuale di Giovanni Amendola, fondatore del “Rinnovamento” nel 1907 ed esponente di un liberalismo militante e impegnato nel quale le idee di Borgese si trovavano confermate, dall’altro a intraprendere la strada del giornalismo militante (Olivieri, 1988). La vocazione moralistica a una let-teratura e una critica impegnate a svolgere una funzione sociale e politica lo avvicinano al magistero desanctisiano nel cui modello Borgese ritrova le radici di una responsabilità civile e morale dell’intellettuale (Langella, 1982; Raimondi, 1990). Pertanto, si comprende bene il signifi cato di un giudizio così severo e netto quale quello impresso nell’incipit di Tempo di edifi care (1923, p. vi): «La generazione alla quale io appartengo ebbe un destino per certi aspetti troppo pesante e per certi altri un po’ futile. Fu costretta a rifarsi tutto da capo: il gusto, la cultura, le convinzioni, le idee». Sui frammenti scomposti di quella cultura irrazionalistica e orfana di maestri Borgese lancia la scommessa di Rubè.

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Struttura e temi

Il romanzo ha una struttura complessa, articolata in quatto parti e venti-quattro capitoli, distribuiti equamente per ognuna delle parti. La vicenda si snoda tra Calinni, paese natio di Filippo, Roma, il fronte italiano della Prima guerra mondiale, Milano, Parigi e infi ne Bologna dove Rubè tro-va la morte. La prima parte (capp. i-viii) racconta dell’arrivo a Roma in casa dell’onorevole Taramanna, «un uomo massiccio tutto scuro che lo soverchiava dalla spalla e gli toglieva il sole» (Borgese, 1994, p. 5), della propaganda interventista, della partenza per il fronte e della esperienza della guerra acclamata come risanatrice del mondo, divina necessità nel suo purifi cante splendore. La seconda parte (capp. ix-xii) inizia a guerra fi ni-ta, con il ritorno di Filippo, traumatizzato dall’orrore del combattimento, dalla giovane Eugenia conosciuta in casa Berti e sua futura sposa. Per conto di Taramanna Filippo parte per Parigi dove conosce casualmente la bella Celestina Lambert. Con lei trascorre giorni svagati mentre, dimentico di Eugenia che agogna il suo rientro a casa, rimugina tra sé il fallimento della propria vita: «Io ero una baracca nel ’14, sono un mucchio di rovine nel ’18» (ivi, p. 178). La terza parte (capp. xiii-xviii) si svolge tra Milano, dove Filippo ha trovato lavoro presso la ditta siderurgica Adsum di Adolfo De Sonnaz, uno dei maggiori capitani di industria della nuova generazione, e Parigi. Sposa Eugenia senza alcun trasporto sentimentale, e riesce a farsi licenziare quasi subito avendo incautamente espresso idee socialisteggianti nell’arroventato clima antibolscevico del 1918. Nel frattempo, è il 19 aprile 1919, assiste per caso all’assalto fascista al giornale “Avanti!” a Milano. Tra gli squadristi riconosce il volto di Massimo Ranieri, l’alpino conosciuto al fronte, sulle Dolomiti, patriota ispirato e ora travolto nello scontro tra neri e rossi nel biennio del dopoguerra. Dopo avere appreso della gravidanza di Eugenia, Filippo tenta la fortuna al gioco. Vince una somma e decide di raggiungere Parigi ma alla stazione incontra per caso Celestina e i due decidono di fermarsi qualche giorno presso l’Isola Bella. Durante una gita in barca sul lago, però, un improvviso rovesciamento della barca causa la morte per annegamento della donna. Filippo ne rimane traumatizzato e intraprende il viaggio di ritorno a casa dove Eugenia l’aspetta in pena.

La quarta parte (capp. xix-xxiv) narra il lento declino di Filippo sem-pre più schiacciato dal senso di colpa e di fallimento esistenziale, fi accato da deliri ossessivi e in cerca di redenzione, pace, purifi cazione. L’ultima parte del romanzo è costellata dai dialoghi con gli amici – Federico Mon-

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ti, il medico mutilato di guerra, marito della bella Mary Corelli, neutra-lista alla vigilia del confl itto e adesso sempre più convinto che la guerra è stato un enorme errore e che anche la fi ducia nel progresso della scienza ha fallito – e con padre Mariani, di fronte al quale l’arroganza di Filippo ha modo di scontrarsi e vacillare. Gli ultimi capitoli sono quasi un accom-pagnamento alla morte di Rubè, un ritorno all’origine, scandito dai rin-tocchi del calendario religioso, l’Ascensione, la Pentecoste, e da una fi tta rete di rimandi lessicali al campo della resurrezione, della rinascita e della fede. Gli ultimi atti della vita di Filippo sono dominati dal caso: «Se io non ho creduto nella mia vita ad altro che alla Fortuna, è giusto che sia il Caso a decidere» (ivi, p. 381). Per un incontro mancato, perde l’appun-tamento con Eugenia e procede in treno fi no a Bologna. Qui, giunto per caso nei pressi di una manifestazione di bolscevichi, viene travolto dal-la folla urlante “Viva Lenin” e poi dalla carica di cavalleria all’assalto dei manifestanti. Conteso dall’una e dall’altra delle due fazioni in confl itto, muore in ospedale tra le braccia della sposa Eugenia, accorsa alla notizia dell’incidente.

Il romanzo intreccia una molteplicità di temi che ne hanno alimen-tato, negli anni, le diverse letture critiche. Il tema più evidente è quello della guerra, a cui è strettamente legato quello storico-politico, in quanto il romanzo getta luce sugli anni compresi tra la vigilia del primo confl itto mondiale e il cosiddetto “biennio rosso” (1918-20). A questi temi se ne intrecciano numerosi altri quali l’inettitudine, il viaggio inteso letteral-mente e metaforicamente come percorso di formazione mancata e, infi ne, il tema religioso che occupa uno spazio non secondario nell’economia complessiva del romanzo sia per la trama di rimandi simbolici al campo semantico della resurrezione e della rinascita sia, in senso più generale, perché rifl ette l’alternativa alla crisi del materialismo di fi ne Ottocento, riallacciandosi ad altre opere dello stesso Borgese, da I vivi e i morti (1923) a Tempesta nel nulla (1931) dove il simbolismo spiritualistico è altrettanto forte.

Modelli e forme. Categorie interpretative

Rubè nasce programmaticamente nel nome di Giovanni Verga, con cui Borgese conduce una battaglia culturale contro il frammentismo degli ul-timi dieci anni:

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Il bello e sontuoso edifi cio della letteratura italiana di fi ne e principio di secolo si è frantumato come un palazzo d’esposizione universale, con un gran polverìo di calcinacci. Quella grande lirica personalistica si è polverizzata […]. Il Verga ri-chiama a sé come intorno a un restauratore, quelli che desiderano ricominciare di là da questa dissoluzione anarchica. Egli richiama ad una costruzione classica ed umanistica, ad un’indagine di problemi dell’anima, ad uno stile essenziale da cui la decorazione venga abolita. Tutti quelli che vogliono qualche cosa di serio e di duraturo e cercano nell’arte recente un esempio di volontà ferma, radicata, incorruttibile, si riferiscono a Verga (Borgese, 1923, p. 22).

Il giudizio è molto severo nei confronti della cultura degli anni Dieci, così lontana dalla forma romanzesca, quale Borgese voleva ricomporre rifi u-tando la tendenza alla polverizzazione delle strutture liriche e narrative compiuta dalle avanguardie del primo Novecento. I modelli ai quali Bor-gese guarda sono Verga e Manzoni, tuttavia, come vedremo, a dispetto del-le intenzioni, Rubè cresce e si sviluppa intorno a una sfasatura signifi cativa tra la forma e il personaggio ovvero tra la complessa architettura formale, ispirata ai modelli ottocenteschi, e un personaggio inetto, Filippo Rubè, che si rivela stretto parente degli inetti sveviani, pirandelliani e tozziani (Borgese, 191o-13, vol. ii, p. 94; 1923, pp. 1-63 e 243-57). Su questa non trascurabile disomogeneità tra la sintassi formale della struttura e la voca-zione centrifuga del protagonista, sull’eccesso di intellettualismo, di auto-biografi smo e sullo stile così antitetico al gusto rondista della bella pagina, furono formulati i primi giudizi critici non sempre favorevoli al romanzo (Cecchi, 1921, «l’esecuzione è, e resterà fi no alla fi ne, convenzionale, ap-prossimativa, sciatta»; Pancrazi, 1941, pp. 153-9, parlò del «romanzo di un critico»), che solo a partire dagli anni Settanta ha ricevuto una riabili-tazione critica3, confermata dalla riscoperta degli anni Ottanta e dalla sua fortuna fi no a oggi4.

Recensendo Gli indiff erenti (1929) di Alberto Moravia, fu proprio Bor-gese a cogliere il valore storico della nuova possibile categoria letteraria della inettitudine in riferimento al proprio Rubè: «“Gli indiff erenti!” Po-trebb’essere un titolo storico. Dopo i crepuscolari, i frammentisti, i cal-ligrafi , potremmo avere il gruppo degli indiff erenti» (Borgese, 1929). A coniare la categoria letteraria del romanzo dell’inettitudine, limitandone la lettura in chiave quasi esclusivamente sociologica e storica, fu per primo Debenedetti (1977, p. 74) cui seguirono Tedesco (1970), che inserì Rubè tra i crepuscolari insieme a Italo Svevo, Luigi Pirandello, Federigo Tozzi, Corrado Alvaro, Francesco Jovine e Moravia, Pullini (1976), Licata (1982)

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e Genot (1968), che parlò di velleitarismo. Natali (1979), Biasin (1983), Kuitunen (1982) e Giannantonio (1994) lo accostarono ai personaggi di Gabriele d’Annunzio, Antonio Fogazzaro, Pirandello, Svevo e Tozzi, men-tre Olivieri (1993) all’Innocente (1892) dannunziano.

Non v’è dubbio che Filippo Rubè sia un personaggio in crisi d’identità e che il suo girare a vuoto alla ricerca di una realizzazione, sociale e profes-sionale, sia da riferire a un vuoto originato dalla perdita di padri genera-zionali e ideali:

“Strano aff are questo del nome. È stampato sopra un’anima e si dovrebbe subito sapere che cosa c’è dentro l’anima, come quando s’è letta un’etichetta sopra una scatola. Invece no. Non dice niente. […] Ma-a-mma, voglio sapere il mio nome! Sì, lo voglio sapere anch’io il mio nome. Voglio sapere chi sono […] Io non sono né un martire né una vittima. Io sono un avvocatuccio spiantato” (Borgese, 1994, p. 323).

Alla continua ricerca di un ubi consistam, Rubè non sa cosa sia la vita e sconta il vuoto della propria coscienza «simile a un anfi teatro dopo la rappresentazione del circo equestre: un infi nito sbadiglio con ciche di sigarette e bucce di arance» (Rubè, p. 6). Rubè è un reietto, privo per-sino della complice solidarietà del narratore che ne disprezza la velleità ideologica e il continuo mulinare pensieri a vuoto. Se la ricerca di un nome lo accosta ai personaggi pirandelliani, dei quali possiede il rovello gnoseologico, tuttavia la scomposizione del personaggio non determina quella della trama, come invece avviene nel romanzo pirandelliano. Que-sto aspetto dell’opera è stato al centro della rifl essione di Bigazzi (1978, pp. 404-500) e, in anni recenti, di Giovanni de Leva (2010). Il primo ha notato come il volgersi degli strumenti di analisi dalla realtà esterna alla coscienza interna del personaggio sia un segnale chiaro e inequivocabile della caratterizzazione psicologica del romanzo. Il secondo ha mostrato come la formazione mancata di Rubè determini la deriva centrifuga del-la trama a vantaggio della centralità del personaggio, come avviene nei coevi romanzi modernisti. Tuttavia, il romanzo di Borgese non possie-de la vocazione sperimentale del modernismo, ovvero la tendenza alla scomposizione della forma, né il controllo pieno delle nuove tecniche narrative, rappresentate principalmente in Rubè dal discorso indiretto, alternato all’indiretto libero e a isolate forme di monologo interiore pre-senti perlopiù nella terza e quarta parte del romanzo. Contradditorio è

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dunque il rapporto con il modello pirandelliano e altrettanto lo è quello con il modello dannunziano, come tra i primi osservò Debenedetti (1998, pp. 125-37)5. La logica da spaccare il capello in quattro con cui il narratore stigmatizza il carattere di Filippo è un’arma di autoanalisi distruttiva che agisce nella direzione opposta al superomismo dannunziano. Anziché condurre a un eccesso di volontà, il delirio di sillogismi di Rubè fi nisce, infatti, con il portare a una dissoluzione della personalità, all’inettitudi-ne, appunto, degli uomini senza qualità.

A certo dannunzianesimo Borgese era stato legato in gioventù dalla moda letteraria dei coetanei fondatori delle prime riviste del secolo ma il suo itinerario critico molto presto segnò, come si è detto, strade diverse, ispirate a un ideale etico ed estetico nell’arte e a un amore incondizionato per il maestro Francesco De Sanctis, costruttore ed edifi catore della nuova stagione letteraria italiana. Una nuova stagione letteraria che superi la crisi originata dalla perdita di ideali, dal disorientamento etico e politico che aveva condotto al primo confl itto mondiale e agli scontri ideologici del primo immediato dopoguerra. Tuttavia, la complessità tematica e l’intrec-cio dei motivi narrativi sopra enucleati rende conto della ricchezza e della molteplicità di letture possibili. Rubè, infatti, non è soltanto il romanzo della coscienza malata di una generazione di intellettuali (Zarcone, 1985), è anche un romanzo politico dell’Italia anni Venti, divisa tra interventisti e neutralisti, infuocata dalla propaganda bellicista di spregiudicati sedicenti intellettuali che di lì a qualche anno avrebbero portato alla ascesa del fasci-smo. In questo senso, Rubè può anche leggersi come un romanzo politico sulla cosiddetta “Quarta guerra d’indipendenza” strettamente legato agli scritti politici di Borgese tra la vigilia del primo confl itto e l’immediato dopoguerra6. Borgese svolse infatti un’intensa attività culturale, diploma-tica e politica prima come inviato a Berlino del “Mattino” di Napoli e della “Stampa” di Torino (1907-08), da cui risultò il volume La nuova Germa-nia (1909), poi come interventista a partire dal 1915. La sua attività politica si svolse nella direzione di una possibile alleanza slava in funzione antia-sburgica e della costruzione di uno Stato jugoslavo. Le sue idee politiche gli costarono l’estromissione dal “Corriere della Sera” anche a causa dell’e-sito delle trattative di pace postbelliche che alimentarono la propaganda dannunziana al grido di vittoria mutilata. Deluso dal deterioramento del dibattito politico, Borgese condensò molta parte delle rifl essioni morali e storico-politiche nel romanzo Rubè, che rifl ette il confuso clima pre e postbellico italiano tra capitani d’industria, profi ttatori di guerra e una

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borghesia intellettuale sbandata e cresciuta al gusto delle ascensioni defi ni-tive ma incapace di stringere se non il vuoto7. Fra i personaggi più ambigui, Rubè incontra Garlandi e Ranieri al fronte. Garlandi è un sottotenente di artiglieria, «adatto alla vita» (Borgese, 1994, p. 30), che Filippo incon-tra la prima volta in treno diretto al fronte e poi di nuovo a guerra fi nita a Milano, dove per caso si imbatte nell’assalto fascista all’“Avanti!” (ivi, pp. 228-9). Ranieri, invece, è l’alpino dagli occhi azzurri di vergine, fi eri e supplichevoli a un tempo, che implora Rubè travolto da un ennesimo cupio dissolvi di non privare i soldati della fede, senza la quale «Questa vita sarebbe una cosa indegna» (ivi, p. 102).

Tra coloro che hanno avanzato riserve su un’interpretazione del ro-manzo in chiave esclusivamente psicologica, evidenziando i limiti e la ge-nericità della categoria della inettitudine applicata a Filippo, si deve anno-verare Giudicetti (2005, pp. 69-113), il quale insiste sulla specifi ca, diversa inettitudine di Filippo, di natura essenzialmente morale e religiosa rispet-to a quella dei personaggi tozziani, pirandelliani e dannunziani8. Oltre al simbolismo dell’acqua (De Maria, 1980) legato alla parabola esistenziale del protagonista, del fi ume come metafora del caos bellico, delle acque paludose, della morte per acqua di Celestina, Giudicetti sottolinea la pre-senza di un piano metafi sico cui la trama romanzesca allude e corrisponde, rintracciandolo specialmente nelle descrizioni paesistiche disseminate nel romanzo, dalle ascensioni dolomitiche alla montagna su cui sorge Calinni, il paese natio di Filippo:

Subito dopo Campagnammare i monti salivano vertiginosi come fi amme. Uno spacco simmetrico, drammatico tra le due rupi nude che scendevano verso il mare, lasciava vedere sino in fondo. […] molto più in alto, molto più addentro, c’era il secondo scalino, il paese di Montebello, coi tetti rossi, avvolto in un azzurro da pala d’altare. In fondo c’era la montagna di Calinni, proiettata di sghembo verso il cielo. […] La montagna sorpassava di poco i mille metri […] Guardata dalla riva del mare, pareva inaccessibile e sacra (Borgese, 1994, p. 355; cfr. Giudicetti, 2005, pp. 80-113).

I motivi dell’ascensione e della resurrezione rimandano simbolicamen-te al tormentato percorso purgativo dell’anima di Filippo che aspira alla pace assoluta. D’altronde, tali motivi torneranno nella successiva opera narrativa di Borgese, collegati anche lì ad allusioni metafi sico-religiose (Borgese, 1923).

Sul fi lo di questa lettura simbolico-metafi sica, se ne intreccia un’al-

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tra che contribuisce a rovesciare il paradigma naturalistico ma anche il modello superomistico del personaggio tutto risolto nell’azione. Lo sfi -brante esercizio della logica in Filippo è, infatti, il segno del vuoto di azio-ne, a cominciare dallo scontro bellico che si riduce a essere quasi un atto mancato, per dirla con Sigmund Freud (Kroha, 2000). Rubè si tiene di-stante dal corso della realtà, manca a tutti gli appuntamenti della vita: la guerra, l’amore, la professione, la fede; guarda la vita che scorre attraverso le palpebre chiuse prima di sprofondare in un salvifi co naufragio della coscienza, incapace di agire e trascinato dal corso vorticoso degli eventi. Il caso e la fortuna prendono quindi il posto della logica concatenazione dei fatti. La vincita al gioco, che replica quella analoga di Adriano Meis e ripropone il tema dell’azzardo nella letteratura di fi ne secolo, devia il percorso di vita di Filippo sospingendolo verso l’approdo defi nitivo, una morte anonima.

Il romanzo è attraversato dalla ricerca di una fede e dal suo fallimento, sia nei valori religiosi sia in quelli morali e civili. Ammalato di superbia intellettuale, Filippo rappresenta una certa cultura italiana di fi ne secolo materialistica e atea:

[lo Spirito Santo] è il protettore, il difensore, quello senza la cui protezione è vano anche l’esame di coscienza, quando non si sappia distinguere il dritto dal torto e il vero e il falso, e l’atto di contrizione può diventare una sfi da e l’umiliazione del peccatore una bestemmia. […] Ecco l’eresia! Voi v’immaginate di non avere religione, di essere un ateo, uno spirito forte. E invece no, no, anche voi avete una religione, come tutti ce l’hanno. Soltanto è una religione feroce. Voi siete un pro-testante, come quasi tutti i vostri contemporanei, e un feticista del successo […]; devoto di una religione che soggioga la realtà del creato alle frenesie della ragione (Borgese, 1994, pp. 311-2).

Dietro le accuse di padre Mariani può leggersi il rifi uto di Borgese di una società malata di materialismo e vuota di fede, di ideali. Intervallato dai versi della Pentecoste manzoniana (1822), il capitolo xx del romanzo in cui l’episodio si inserisce segna il culmine dello scontro tra il sofi smo violento di Rubè e la mite fi ducia nell’avvento di un’epoca senza violenza di padre Mariani e anche del medico Federico Monti, che alla fi ne del romanzo off re la sua pacifi cata visione della vita al nevrotico e irrequieto amico Fi-lippo. La fede nel progresso materialistico e il trionfo della scienza con cui si era chiuso il xix secolo lasciano sulla scena della Storia solo le macerie e le rovine della guerra delle idee che aveva lacerato il tessuto della socie-

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tà italiana. Anche l’amico Federico Monti, neutralista della prima ora, è approdato a una più serena visione della vita priva di quegli eccessi di im-maginazione e di logica con i quali Filippo si è, letteralmente, fatto a pezzi (Rubè, p. 340):

Poi spiegò che secondo lui l’avvenire era affi dato a quegli uomini che fossero capa-ci di credere in cose giuste senza aspettarsi dalla loro fede palingenesi spettacolose e universali, a uomini rassegnati ad ammettere che il male fosse inestirpabile e il bene una divinità debole e pericolante (ivi, p. 341).

Insomma, l’inettitudine di Filippo non è ironica come quella di Mattia Pascal o di Zeno Cosini, è piuttosto dettata dalla perdita di un ordine su-periore cui subordinare le azioni umane. La contorsione e l’intellettuali-smo, di cui i primi critici accusarono il romanzo (Cecchi, 1921; Pancrazi, 1941), sono propri del suo personaggio non della struttura.

Bilancio critico. Fortuna e destino di un personaggio

Fin dall’apparizione di Rubè sulla scena letteraria italiana, la critica, anche la più benevola, ebbe ad esprimere le proprie riserve sulla qualità della sua prosa. Erano riserve non nuove nel nostro costume letterario. Non pochi scrittori, già nel se-condo Ottocento, erano stati tacciati di scrivere male. Sul Verga stesso, in pieno Novecento, pesava, come lo stesso Borgese ebbe a sottolineare, una simile accusa. Specialmente all’epoca della pubblicazione del romanzo, in clima di imperante rondismo, strano doveva suonare il ritmo di quella prosa spesso zeppa di paralle-lismi vistosi, […] talvolta freddamente analitica e lucidamente raziocinativa (Li-cata, 1982, pp. 60-1).

Con queste parole Licata commenta le prime fredde reazioni critiche all’uscita di Rubè dovute a un gusto letterario educato al calligrafi smo del-la bella pagina, impreparato a cogliere la tensione etico-conoscitiva bor-gesiana che aveva spinto lo scrittore a riedifi care il genere del romanzo. Come testimonia una lettera di Marino Moretti, primo lettore del mano-scritto di Rubè, Borgese stesso si aspettava, e ne era contento, una chias-sosa reazione di critici all’uscita della sua prima prova narrativa9. I primi critici si appuntarono sullo stile aspro e sul cerebralismo del personaggio, parlando perlopiù di romanzo della crisi dell’intellettuale (Giannantonio, 1983, p. 63). In pochi ne difesero la struttura e lo stile nervoso (Piovene,

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1974, poi in Borgese, 1994, pp. 397-401; 1930, pp. 502-15) perché, pur con alcuni limiti, Rubè era quanto di più dignitoso, anche in senso morale, gli anni Venti avessero generato come segno del superamento dell’estetismo dannunziano e del rondismo. Si parlò di “romanzo di un critico”, defi ni-zione coniata da Pietro Pancrazi (1941) e Arrigo Cajumi (1927), si criticò l’artifi ciosità della trama e il realismo facile, le ridondanze dello stile e la sciatta esecuzione dello stile (Cecchi, 1921) fi no addirittura ad accusarlo di «schietta volgarità» (Palmieri, 1928, p. 64).

Una delle critiche più frequenti era l’eccessivo autobiografi smo del ro-manzo (Piovene, 1974, p. 401; Cecchi, 1921) come rifl esso dell’egotismo del suo autore, seguita da quella, riferita a Rubè, di essere un allucinato, un alienato mentale (Gargiulo, 1931), accusa estesa dal critico rondista a tutta la letteratura dei nevrotici, quali Tozzi o Moravia. Nonostante le incomprensioni di tanti contemporanei, tuttavia, almeno Momigliano (1921) e Giusso (1929) ne avevano invece sottolineato l’uno l’affl ato spiri-tuale che pone termine alla tormentata esistenza di Rubè, collegandolo al cammino di fede di Eliseo Gaddi, protagonista del secondo romanzo di Borgese, I vivi e i morti, l’altro il complessivo superamento della ideologia nietzschiana. Non mancò, tra i primi, chi colse il movente religioso tra le cause della crisi del protagonista (Gillet, 1921). Come ricorda Leonardo Sciascia, alla base delle critiche dei contemporanei e del pluridecennale silenzio su Borgese e la sua opera vanno rintracciate cause di ordine po-litico:

Il silenzio su Borgese, insomma, è calato dopo: nel trionfante antifascismo che dal fascismo, dall’eterno fascismo italiano, sembrò ricevere certe consegne. Perché bisogna dire che se i fascisti volgarmente lo odiavano (ma al vertice con una certa timidezza o pudore: ci volle l’emigrazione e il rifi uto di prestare il giuramento fascista perché Mussolini si decidesse – ma nel 1936, otto anni dopo la becera denuncia del rettore Fantoli – a chiudere il caso Borgese con questa annotazione: “Gli si poteva perdonare il passato. Non l’oggi. Continua ad essere un nemico”; parole che a noi oggi suonano come il più sintetico e giusto elogio che a Borgese si potesse tributare); se, dunque, i fascisti volgarmente lo odiavano, molti che fascisti non erano più o meno sottilmente lo detestavano (“la detestazione comincia da forte disapprovazione, per lo più manifestata in parole”). Lo detestava “La Ron-da”, anche se non forse tutti i rondisti (Sciascia, 1994, p. 401).

Dal 1931 al 1945 Borgese è in esilio in America e da lì profetizza un amaro destino per i suoi libri e la propria memoria personale: «Il Fascismo proi-

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bisce ancora la ristampa dei miei libri in Italia […]. Fra trent’anni o più i miei libri saranno totalmente irreperibili e io sarò sconosciuto» (Lettera di Borgese a Robert J. Clemens, studente di Borgese all’Università di Chi-cago e poi preside della Facoltà di Letteratura comparata all’Università di New York, citata in D’Alberti, 1971, pp. 13-4).

Il silenzio critico fu interrotto soltanto quasi vent’anni dopo la morte (1952) da Battaglia (1979), che parla di congiura del silenzio con cui la critica uffi ciale ha voluto tenere le opere di Borgese nel più assoluto di-scredito.

Prima della rivalutazione critica avviata da De Maria (cfr. Borgese, 1974), Genot (1968) inaugura insieme a Battaglia (1967, pp. 578 e 586) la critica storicista e sociologica, insistendo su un’interpretazione del prota-gonista come rappresentante dell’intellettuale borghese italiano velleitario e interventista, pur negandogli qualsiasi valore artistico. In questa ottica, Rubè diventa il prototipo dei romanzi di guerra. Per Battaglia è la biografi a dell’intellettuale che sperimenta il proprio fallimento nei confronti della società contemporanea e indaga la fatalistica defezione dell’intellettuale, che gli anni recenti hanno continuato a rendere più esasperata e insanabile. Negli stessi anni, Debenedetti parla di «prepotente capolavoro di intel-ligenza, doppiato dal continuo rischio di un fallimento artistico», rico-noscendo al romanzo però il merito di una svolta nel panorama narrativo italiano degli anni Venti (Debenedetti, 1998, p. 10).

A dispetto dell’autoesegesi fornita da Borgese nella prefazione all’e-dizione statunitense del romanzo (Borgese, 1923, Una prefazione a Rubè, in “Arte e vita”, febbraio, iv, 2, p. 56), la critica del quindicennio 1970-85, come si è ricordato, si orientò verso una lettura storicista e sociologica del romanzo. Nel 1970 Isnenghi identifi ca in Rubè il fallimento storico dell’interventismo italiano (cfr. Isnenghi, 2014, pp. 209-12), Licata (1982) la biografi a dell’intellettuale primonovecentesco; secondo Giannantonio (1994) il romanzo rispecchia la crisi e l’incoerenza della piccola borghesia e la fuga o l’impotenza degli intellettuali di fronte all’ascesa del fascismo, sulla stessa linea interpretativa della critica francese, da Gillet a Crémieux (1928, p. 166) a Laroche (1978, pp. 165-92).

Una svolta nella linea critica di Rubè comincia nel 1974 con la lettura simbolica di De Maria che mette in evidenza lo statuto simbolico del ro-manzo, ne difende lo stile vivo e moderno, e insieme a Piovene si soff erma sulla tecnica del monologo interiore (Borgese, 1974). L’analisi psicologica avviata da De Maria prosegue con Natali (1979, p. 16) che ascrive Rubè alla

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categoria degli inetti, degli uomini senza qualità con una superiore capa-cità di spietata autoanalisi che provoca l’obnubilamento della coscienza e coglie l’importanza del caso come fattore determinante nelle svolte nar-rative del romanzo. Sulla stessa linea si muove la lettura di Biasin, il quale oltre a sottolineare la rappresentazione della crisi delle ambizioni sociali della piccola borghesia, approfondisce la lettura simbolica dei campi se-mantici legati all’acqua, al cavallo e alla malattia.

Gli anni Ottanta segnano un ritorno dell’attenzione critica a Borgese e alla sua attività narrativa, critica, giornalistica e politica, in occasione del centenario della nascita (Rampolla del Tindaro Dominici, 1984; Santan-gelo, 1985; Sipala, 1983).

A partire dal 1986 si susseguono alcuni studi monografi ci sullo scrit-tore, tra i quali giova ricordare quello di Cavalli Pasini (1994, pp. 251-2) che sottolinea la crisi esistenziale e intellettuale di Rubè caratterizzandone l’inettitudine in chiave distruttiva e tragica. Sia Parisi (2000) sia Langella (1986, pp. 397-414) hanno ripreso invece la linea della lettura in chiave religioso-simbolica, richiamando, soprattutto il secondo, il modello man-zoniano. Rovesciando la lettura sociologica e storicista, secondo la quale Rubè rappresenterebbe il fallimento storico della piccola borghesia inter-ventista, Langella propone una lettura in chiave religiosa secondo cui la morte di Filippo segnerebbe la fi nale ascensione dell’animo tormentato del protagonista, la resa della logica raziocinante alla fede e non la fuga dell’intellettuale impotente di fronte alla Storia.

Accanto a uno studio comparatistico di Terrile (1997), che torna a in-sistere sulla crisi del personaggio individuando una certa distonia tra la fuga centrifuga di questi e la complessa struttura romanzesca, si segnala la monografi a di de Leva (2010) che riprendendo Bigazzi (1996) si incen-tra su un’analisi strutturale e formale delle tecniche romanzesche tesa a dimostrarne l’ascrivibilità alla categoria letteraria del modernismo. Nella medesima direzione del superamento della struttura verista del romanzo si segnala anche un articolo di Innocenti (1999, pp. 361-82) per la precisione dei rimandi intertestuali ai romanzi della recente stagione verista e/o de-cadente con chiaro intento parodico.

Il novantesimo anniversario della prima edizione di Rubè ha fornito l’occasione di una rilettura critica dell’opera (cfr. Carta, 2011) che, collo-cata sullo sfondo della più ampia attività politica e critica di Borgese, ne rivela l’impegno etico e morale come edifi catore di una nuova epoca del romanzo italiano.

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Note

1. Parisi (2000) distingue tra il critico militante, a cui non sfuggiva saggio critico, poesia o romanzo nuovi che puntualmente recensiva nelle pagine dei giornali e che gli permise di scoprire grandi scrittori – Federigo Tozzi, Alberto Moravia, Guido Piove-ne, Mario Soldati –, poeti – Umberto Saba, Clemente Rebora –, e ancora Piero Jahier o Carlo Michelstaedter, e il teorico della letteratura e accademico non sempre convin-cente. Sull’attività critica di Borgese, cfr. Cavalli Pasini (1994); sull’attività letteraria del critico, Giudicetti (2005, cap. 3, pp. 23-46).2. Debenedetti (1974, pp. 160-80) vede in Serra e Borgese i due poli opposti della criti-ca. Nel primo prevarrebbe lo stile, il gusto e la raffi natezza dell’espressione, nell’altro la forza espressiva, un concetto di arte come strumento costruttivo ed etico. Cavalli Pasi-ni (1994, p. 32) a questo proposito sottolinea: «Certo tra i due critici si apre – almeno apparentemente – un abisso: nel concepire l’uno la letteratura come un fatto privato […] e l’altro come un proclama pubblico […]. Dove l’uno cesella, l’altro ambisce a “costruire”». Quanto al rapporto con Croce, dopo il primo favore con cui il fi losofo accolse la collaborazione giovanile di Borgese a “Leonardo” (Firenze, 1903) e la pubbli-cazione della sua tesi di laurea, Storia della critica romantica in Italia (1905), il rapporto tra i due cominciò a deteriorarsi dopo la cattiva recensione di Borgese al volume cro-ciano La fi losofi a di G. B. Vico (1911). Sul rapporto Croce-Borgese, cfr. D’Alberti (1971, pp. 95-106); Sansone (1985, pp. 113-34); Cavalli Pasini (1994, pp. 117-91); il Carteggio Croce-Vossler, 1899-1949 (1991, pp. 145-7); Borgese (1910-13, pp. 247-304).3. Battaglia (1967); Isnenghi (19701); Debenedetti (1998); Piovene (1974); Borgese (1974); Bigazzi (1978); Tedesco (1979).4. Licata (1982); Zarcone (1985); Terrile (1995); Innocenti (1999); Kroha (2000); Giudicetti (2005); de Leva (2010).5. Nota molto opportunamente Innocenti (1999, p. 364) che lo stesso titolo Tempo di edifi care fa esplicito riferimento alla polemica con il dannunziano capitolo v del Trionfo della morte (1894), intitolato Tempus destruendi.6. Borgese (1909; 1915a; 1915b; 1916; 1917); su questa proposta di lettura cfr. Carta (2015).7. Per una lettura politica del romanzo, legata all’antifascismo di Borgese e alla sua atti-vità diplomatica prebellica, continuata ancora oltre il 1921 e dall’esilio americano (1931-52), cfr. l’Archivio dell’Università degli Studi di Milano, fascicolo G. A. Borgese; Tosi (1973); Valiani (1985); Mezzetti (1978); Consoli (2010); Gigante (2012); Librizzi (2013).8. I primi a parlare di simbolismo in Rubè furono De Maria (1980) nell’Introduzione a Rubè; Natali (1979, pp. 117-44); Biasin (1983); Cavalli Pasini (1994, pp. 255-60). In anni più recenti si sono aggiunti Parisi (1997); Giudicetti (2005).9. Una lettera di Marino Moretti, in Borgese (1983, pp. 398-9). Per una rassegna critica sulla prosa narrativa di Borgese fi no al 1982, cfr. Giordano (1982); D’Aquino Creaz zo (1983, pp. 39-52). Un aggiornamento critico al 2009 è off erto dalla Bibliografi a critica nel Catalogo del Fondo Giuseppe Antonio Borgese della Biblioteca Umanistica dell’U-niversità degli Studi di Firenze (Macconi, 2009).

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Bibliografi a

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