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Ildegarda di Bingen - anteprima

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Carmina - Symphonia armonie celestium revelationum a cura di Maria Emanuela Tabaglio

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Opere di Ildegarda di Bingen pubblicate da questa editrice:

Ildegarda di Bingen, Ordo Virtutum. Il cammino di Anima verso la sal-vezza, a cura di Maria Emanuela Tabaglio

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Ildegarda di Bingen

CARMINASymphonia armonie celestium revelationum

traduzione e cura di

Maria Emanuela Tabaglio

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Carmina

© Il Segno dei Gabrielli editori, 2014Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona)tel. 045 7725543 – fax 045 6858595mail [email protected]

ISBN 978-88-6099-235-2

StampaIl Segno dei Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), ottobre 2014

Progetto graficoLucia Gabrielli

Prima di copertina: La porta della Salvezza (particolare), Liber divinorum operum, MS 1942, Lucca, Biblioteca Statale.Quarta di copertina da sinistra: L’uomo nell’universo, Liber divinorum operum, MS 1942, Lucca, Biblioteca Statale; Il cosmo, Scivias, Riesenkodex, Wiesbaden Staatsbi-bliothek; L’influenza esercitata sulla terra dalle sfere del fuoco, dell’aria e dell’acqua, Liber divinorum operum, MS 1942, Lucca, Biblioteca Statale.

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A Pino, per forza di cose.

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inDiCE

Vita di Ildegarda di Bingen 9

Symphonia armonie celestium revelationum: strutture e temi 23

La musica della symphonia 65

Carmina - Canti spirituali 75

Appendice:Estratto dalla lettera ai prelati di Magonza 185

Bibliografia 191

Sitografia 202

Videografia 202

Indice dei Carmina 203

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Johannisberg

1. Dislocazione dei corrispondenti di Ildegarda, secondo i più antichi manoscrittti e la Vitadella badessa di Bingen.

2. I luoghi ildegardiani trala Nahe, il Glan e il Reno.

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VITA DI ILDEGARDA DI BINGEN

Per parlare di Ildegarda di Bingen, per comprendere a fondo il suo pensiero, per abbracciare la sua complessa personalità, e per ascoltare il suo messaggio di salvezza per l’umanità, bisogna abbandonare – solo per poche pagine – il nostro tormentato presente ed immergerci in un altrettanto tormentato Medioevo.

Siamo nel 1098, nei pressi della città di Magonza che sor-ge cinta di mura in prossimità del Reno, proprio dove questa trafficatissima via di comunicazione confluisce con il Meno e curva quasi ad angolo retto, dirigendosi verso nord. Voltiamo le spalle alla città e indirizziamo lo sguardo verso ovest: la valle, prima ampia e placida, ora si restringe e a tratti le sue rive sono quasi impervie; se ci spingessimo in questa direzione seguendo la corrente giungeremmo a Bingen, da cui Ildegarda prende il nome. La nascita e l’infanzia di Ildegarda sono legate ad un luo-go poco distante da Bingen, a sud, verso Worms: Bermersheim vor der Höhe.

Guardiamoci ora intorno: colline morbidissime increspano appena il paesaggio, fitti boschi di latifoglie si estendono come grandi macchie di verde tenero, vicino ai centri abitati il ter-reno si scompone in mille appezzamenti coltivati a frumento, orzo, segale, farro, in ricche ortaglie, in campi di rape e patate. Le rive del Reno già da alcuni secoli sono destinate alla coltiva-zione della vite, i vigneti sono tutti di proprietà di monasteri e di famiglie nobili: le viti, allineate in filari bassi, solcano i terre-ni a volte scoscesi ed offrono per la vendemmia ricchi grappoli di uve rosse e bianche. Il Reno, grazie ad incessanti opere per limitarne la natura sabbiosa e favorirne la navigabilità, si pre-senta affollato di chiatte pesanti e di altre imbarcazioni che tra-

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sportano merci, persone e cultura verso Colonia, o da una riva all’altra. È una giornata qualunque, il lavoro, il commercio, il raccolto, le conversazioni, le novità, le preghiere, il desinare, la salute e la malattia, l’amore, i figli. Davvero, non sono poi così diversi i nostri giorni!

Ma se da questo operoso hic et nunc così circoscritto ci al-lontaniamo, se ci immaginiamo ad un’altezza vertiginosa che consenta di abbracciare con un solo sguardo non solo la vallata del Reno, non solo i territori dell’odierna Germania, ma l’Euro-pa tutta, e se dilatiamo questo istante e lo trasformiamo in una manciata d’anni, potremo collocare Ildegarda non solo nel pae-saggio dei suoi luoghi natali, ma nel contesto culturale, politico e religioso di un’Europa densa di avvenimenti.

Siamo sempre verso la fine dell’anno Mille, nel 1098 per la precisione. Sul soglio pontificio siede Urbano II, che guida una Chiesa fortemente segnata da un degrado morale senza prece-denti, minacciata da movimenti eretici che raccolgono sempre più seguaci, impegnata in una estenuante lotta per le investitu-re, ma al contempo in una fase di ricchissima elaborazione teo-logica. Anselmo d’Aosta, la scuola di Chartres, Pietro Abelardo e Bernardo di Chiaravalle sono solo alcuni nomi fra i tanti che contribuirono a sviluppare e a fissare la dottrina cristiana nei suoi concetti fondamentali. Forti sono anche le voci che si le-vano per stigmatizzare la mondanità della Chiesa ed il suo pro-gressivo allontanamento dall’insegnamento di Cristo, quella di Arnaldo da Brescia ad esempio, coetaneo di Ildegarda, le cui ceneri vengono sparse nel Tevere nel 1155, e quelle dei catari il cui movimento si espande a macchia d’olio in tutta Europa, toccando anche la zona del Reno. Fioriscono tra il X e il XII secolo le fondazioni e le riforme monastiche, si pensi a quel-la gregoriana iniziata nell’XI per rinnovare profondamente la Chiesa dal suo interno, nel 1098 viene fondato a Citeaux l’ordi-ne dei cisterciensi. Appena due anni prima, nel 1096, era partita la prima crociata popolare per liberare la Terra Santa, crociata che seminerà fin dal suo inizio morte e distruzione fra le comu-nità ebraiche della zona renana. Altre ne seguiranno, saranno

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ben tre nell’arco della vita di Ildegarda. Imperatore è Enrico IV, egli regna su quello che ancora porta il nome di Sacro Roma-no Impero, ma che in pratica è un insieme assai ridotto di ter-ritori, il resto di quello che un tempo era stato l’impero risulta spezzettato nelle mani di nobili e vescovi, che hanno giurato sì sottomissione ed obbedienza, ma che poi agiscono e governano come fossero indipendenti.

Le strade che attraversano l’Europa sono affollate di viandan-ti, mercanti, pellegrini, mercenari, vagabondi, studenti, clerici, musici, soldati, predicatori e guaritori. Trasportano merci e cul-tura, saperi e notizie. È in quest’Europa brulicante di vita e di viaggi, di guerre e di scontri, ingiustizie e misfatti, di riforme e di rinnovamento, di appassionata cultura e di desolata barbarie che vede la luce, a Bermersheim vor der Höhe, Ildegarda di Bingen.

Decima e ultima figlia di una famiglia appartenente alla no-biltà terriera, Ildegarda trascorre i primi otto anni della sua esi-stenza in seno alla sua famiglia. Conosciamo i nomi di sette dei suoi nove fratelli. Drutwin, il maggiore, erediterà i beni ed il titolo della famiglia. Dei restanti, ben quattro seguiranno la car-riera ecclesiastica, in particolare Hugo, maestro di cappella ed educatore presso il duomo di Magonza, con il quale Ildegarda resterà in stretto rapporto, e Clementia, il cui nome appare fra le monache del Ruperstberg. Altrettanto degno di nota è il po-tere della famiglia, che si evidenzia nelle posizioni di grande ri-lievo che alcuni esponenti della stessa occupano: uno dei nipoti di Ildegarda, Arnold, è arcivescovo dal 1169 al 1184 della dio-cesi di Treviri, uno dei prelati più potenti della chiesa tedesca, e il fratello Wezelin è preposto della chiesa di St. Andrea a Colo-nia. Ildegarda è ben consapevole delle sue origini, rivendica la nobiltà ed il potere che si accompagnano al suo nome, anche se sarà sulla base di ben altra autorità che prenderà poi la parola.

Nella Vita di Ildegarda, scritta in tempi diversi dai monaci Gottfried e, dopo la morte di Ildegarda, da Dietrich von Echter-nach, entrambi i biografi sottolineano che l’esistenza della pro-fetessa fu segnata fin dalla primissima infanzia dalla malattia e dalla debolezza. Così racconta Ildegarda: «non potei venire a co-

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noscenza di molte cose mondane a causa delle frequenti malattie di cui soffrii fin da lattante, e che hanno indebolito il mio corpo, privandomi delle forze».1 Eppure sin dall’infanzia si manifesta in lei il dono della visione, a volte sotto forma di improvvisa ed ac-cecante luce, che la piccola non riesce a interpretare e a capire, e che la riempie di paura e di insicurezza.

La Vita racconta che la famiglia, anche a causa della salute così malferma dell’ultimogenita, decide di donarla alla Chiesa come decima. La decisione dei genitori di Ildegarda viene raf-forzata dal fatto che una nobile fanciulla, Jutta di Sponheim, decide proprio in quel periodo di abbandonare la vita mondana e di farsi reclusa in una cella presso il monastero benedettino di Disibodenberg.

Fermiamoci ora per un istante, e guardiamoci intorno: siamo sul Disibodenberg, un colle ai cui piedi i fiumi Nahe e Glan si fondono in un unico corso, e sulla cui sommità sorge il monaste-ro fondato da san Disibodo, monaco ed eremita irlandese di cui Ildegarda scriverà la Vita,2 e al quale dedicherà alcuni dei suoi carmina. Ora non restano che le rovine, il timpano dell’ospeda-le e alcune mura della foresteria resistono ancora, ovunque si guardi il muschio rigoglioso ammorbidisce i contorni squadrati delle pietre degli edifici crollati. Il sentiero che porta alla cima del colle è in terra battuta, si snoda sinuoso in mezzo al bosco accompagnato dallo stormire delle fronde e dal composito cin-guettìo di uccelli di specie diverse. Non ci si sente soli fra queste rovine: la presenza della natura è viva e palpabile, la sua energia vibra nel terreno, scorre nei tronchi degli alberi, si effonde nelle loro chiome e avvolge ogni creatura in un abbraccio che è vita. Viriditas la chiama Ildegarda: forza verde, rigoglìo; l’effetto ter-reno della volontà creatrice di Dio.3

1 Vita, 1. 2.2 Vita sancti Disibodi.3 La Viriditas compare in alcuni carmina: in particolare nel n. 34 O viri-

ditas digiti dei dedicato proprio a san Disibodo, e nel n. 41 O nobilissima viriditas dedicato alle vergini, oltre che nei nn. 19 e 20.

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Torniamo ora a Ildegarda, che all’età di otto anni secondo la Vita, di quattordici secondo altre cronache, viene affidata a Jutta insieme a un’altra bambina della stessa età. Viene indica-ta la data del 1106 per la cerimonia che vede le oblate entrare nella cella, anche se recenti studi hanno messo in discussione questa data. La Vita di Jutta di Sponheim infatti, redatta nel 1137 e pubblicata solo nel 1992, racconta che la cerimonia ebbe luogo nel 1112, data questa più compatibile con il fatto che in quest’anno gli imponenti lavori di ristrutturazione del convento di Disibodenberg fossero terminati, facendone un luogo sicura-mente più accogliente per il primo nucleo di quella che diverrà in seguito una comunità monastica femminile. La cella, ma non è escluso che si trattasse di più locali, che accoglie le tre recluse viene murata dopo il loro ingresso. Non vi sono molte infor-mazioni sulla effettiva sistemazione delle tre donne. Guiberto di Gembloux, l’ultimo segretario di Ildegarda, parla di una fi-nestrella attraverso la quale le recluse, in determinate ore, po-tevano conferire con i visitatori, e attraverso la quale venivano loro passati cibo ed altri oggetti necessari per la sopravvivenza. Menziona anche una porta di legno ostruita con pietre, in modo da rendere impossibile l’uscita.4 Nello stesso anno del loro in-gresso nella cella le tre donne prendono il velo.

L’educazione spirituale e religiosa di Ildegarda è quindi af-fidata a Jutta, e segue presumibilmente sin dall’inizio i dettami della Regola benedettina.5 Le monache imparano a leggere e a scrivere, esercitandosi sui salmi. La Bibbia e il Salterio sono i fondamenti della loro cultura latina. Non è previsto invece l’in-segnamento delle sette arti liberali, grammatica, dialettica e re-torica, e aritmetica, geometria, astronomia e musica. Anche per questo motivo Ildegarda in seguito si definirà indocta, mentre

4 Guiberto inizia a sua volta a scrivere una Vita di Ildegarda, la quale però resterà incompiuta. Guiberto di Gembloux, Vita sanctae Hildegardis, in J.B. Pitra, Sanctae Hildegardis Opera Omnia, Monte Cassino, 1882, pp. 407-15.

5 Ildegarda scriverà anche un commento alla Regola: Explanatio Re-gulæ Sancti Benedicti.

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traspare chiaramente dai suoi scritti una poderosa conoscenza delle Sacre Scritture, dei testi dei Padri della Chiesa e dei testi naturalistici consacrati dalla tradizione.6

Come trascorrono il loro tempo Jutta e le due ragazzine che le sono state affidate? Non è azzardato pensare che la vita di una comunità monastica femminile seguisse la medesima orga-nizzazione delle comunità maschili. Ancora una volta dobbia-mo tornare indietro nel tempo, e fare a nostra volta ingresso nella cella. La giornata si organizza intorno alla recita degli otto Uffici Divini. Alle due del mattino le donne si alzano e recitano il mattutino in modo che tutti i centocinquanta salmi vengano ripetuti ogni settimana. Dopo un breve intervallo seguono le lodi, alle prime luci dell’alba, e di seguito gli Uffici di prima, terza, sesta e nona ora. Alla sera, quando ancora vi è luce, è la volta dei vespri, e con il tramonto si recita la compieta. Il tem-po libero tra un Ufficio e l’altro viene occupato con il lavoro, esso è una componente importante della Regola ma non si deve intendere necessariamente con esso un lavoro manuale, un uso privilegiato delle mani. Possiamo ipotizzare per Ildegarda e le sue compagne la pulizia della cella, lo studio dei testi sacri e lo studio della musica. Successivamente Ildegarda dedicherà qua-si sicuramente parte del suo tempo all’ospedale, assistendo e curando i malati che lì trovano conforto e soccorso. Nel con-vento sul Rupertsberg che la magistra fonderà successivamente vi sarà anche uno scriptorium in cui le monache copieranno le visioni di Ildegarda e le illustreranno con preziose miniature. In una giornata così densa di occupazioni vi deve essere posto anche per il cibo, ovviamente. La Regola di Benedetto prevede che il cibo dei monaci sia frugale; un pasto singolo in inverno, e due in estate, con variazioni in base all’anno liturgico. Ai bam-

6 Peter Dronke [1996] e Angela Carlevaris [1978] presumono che Il-degarda avesse conoscenza diretta di testi stoici ed ermetici, e di un buon numero di autori, tra cui Beda, Calcidio, Claudiano Mamerto, Costanti-no Africano, Ambrogio Autperto, Gregorio Magno, Tertulliano e Scoto Eriugena, Agostino, Sulpicio Severo, Gregorio di Tours, Giovanni Criso-stomo, Cassiodoro e Apuleio, insieme a molti altri.

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bini e agli anziani o ai malati viene servita una prima colazione che consiste in una bevanda ed un pezzo di pane. Per quanto ogni monastero adatti queste indicazioni della Regola ai propri climi e ai prodotti del proprio territorio – ma si ha notizia an-che di monasteri in cui l’attenzione alla qualità e alla quantità del cibo risultava assai superiore di quella destinata alla qualità della preghiera e alla quantità del lavoro svolto – non è diffici-le immaginare cosa mangiassero le tre donne nella cella: cereali – Ildegarda è una fervida sostenitrice delle virtù del farro – le-gumi, uova, pesce e formaggio, forse, occasionalmente, del pol-lame. I pasti vengono presumibilmente forniti dalla cucina del convento e, sempre secondo la Regola, ciascuno di essi consiste in due pietanze cotte seguite da verdura o frutta. La Vita con-ferma che Ildegarda fu cresciuta proprio così, con cibi frugali e vesti semplici. La frugalità del cibo sarà anche successivamente indicata da Ildegarda come una componente essenziale per la salute dell’uomo.

Gli anni passano senza che nella vita di Ildegarda intervenga alcun fatto nuovo. La forza con cui sopporta la malattia e la de-bolezza la rendono un modello per le altre consorelle. La vita della comunità segue i ritmi della Regola benedettina, con l’al-ternanza di veglia e di riposo, di preghiera e di lavoro, di mo-menti comunitari e di momenti dedicati alla riflessione solitaria. In questo contesto il dono visionario della profetessa non è mai venuto meno; Jutta in quanto magistra e il confessore Volmar, che in seguito diverrà il segretario di Ildegarda, ne sono a co-noscenza. Probabilmente anche le consorelle, dato che in uno spazio così ristretto e con numerosi momenti di vita comunita-ria tenere il segreto doveva essere pressoché impossibile. Jutta muore il 22 dicembre del 1136. All’età di 38 anni Ildegarda viene nominata magistra della comunità femminile del Disibo-denberg.

È probabile che questa nuova condizione, segnata dal co-mando e dall’autorità ma anche dalla responsabilità di condur-re la comunità sulla via della salvezza, contribuisca a maturare in Ildegarda l’esigenza di rendere pubblico il suo dono visiona-

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rio. Nel 1141 la luce vivente le impone di dire e scrivere quanto le verrà manifestato nelle visioni.

La reazione di Ildegarda a tutta prima è di grande timore. Timore di non essere all’altezza del compito grandissimo affi-datole, quello di far conoscere la parola divina così come le si manifesta, timore degli incolti, dei sapienti, dei suoi superiori che potrebbero mettere in dubbio la veridicità delle sue vi-sioni, l’autorità delle parole che deve ripetere, che potrebbero ritenerla superba, o in malafede. Ildegarda si ammala, grave-mente, giace a letto e non riesce a muoversi. Solo l’insistenza della voce che la esorta a scrivere ciò che vede e che sente rie-sce a scuoterla, e nell’istante in cui si accinge davvero ad assol-vere il suo compito si sente improvvisamente bene, è guarita, piena di forza e di energia. Inizia così la stesura del primo libro di visioni, lo Scivias, e viene coadiuvata in ciò da Volmar che resterà al suo fianco fino al 1173. Il compito di Volmar è quello di trascrivere in forma più corretta quanto Ildegarda traccia su tavole di cera.

A proposito delle natura delle visioni, Ildegarda scrive: «Que-ste cose non le percepisco con le orecchie esteriori, né le penso se-gretamente fra di me, né le apprendo mediante l’uso congiunto dei cinque sensi; posso dire soltanto che le vedo nell’anima, e che le mie orecchie esteriori sono aperte, cosicché mai in esse ho su-bito il mancamento dell’estasi; io le vedo di giorno e di notte, ma sempre da sveglia».7 La stesura dello Scivias si protrarrà per dieci anni. L’opera tratta dei tre momenti principali della storia della Salvazione, la Creazione, la Redenzione, la fine dei tem-pi, consta di ventisei visioni che vengono spiegate dalla voce di Dio, e tratteggiano un universo in cui uomo e cosmo sono indis-solubilmente legati alla figura del Creatore.

Il supporto di Volmar nella stesura delle visioni presuppo-ne l’approvazione dell’abate del Disibodenberg. Ma questo non basta a Ildegarda. In preda a fortissimi dubbi compie il primo

7 Sabina Flanagan, Ildegarda di Bingen. Vita di una profetessa, Firenze, Le Lettere, 1991, p. 202.

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passo alla ricerca di un riconoscimento ufficiale della Chiesa; scrive quindi, intorno al 1146/1147, a Bernardo di Chiaravalle, spiegandogli i suoi timori e sperando in un riconoscimento del-la sua facoltà visionaria e del suo compito profetico. La rispo-sta di Bernardo è laconica e non particolarmente incoraggiante, non scioglie i dubbi della profetessa e si limita in pratica a feli-citarsi per il dono delle visioni. L’occasione per una conferma autorevole giunge però solo un anno più tardi, quando il sinodo di Treviri raccoglie in questa città assai vicina al Disibodenberg religiosi provenienti da tutta Europa, e fra questi anche Bernar-do. L’abate del Disibodenberg Kuno si adopera affinché l’arci-vescovo di Magonza parli ai partecipanti al sinodo di Ildegarda e delle sue visioni. Il papa Eugenio III invia una commissione al monastero per accertare e verificare il dono visionario della magistra. L’esito è positivo, e il papa legge all’assemblea alcune parti dello Scivias. Bernardo stesso esorta il papa a non lasciare che una tale luce resti celata, e a confermare in virtù della sua autorità la grazia che Dio ha voluto elargire per bocca di Ilde-garda. La lettera di autorizzazione papale cambia radicalmente la vita della magistra. Non solo la libera dall’angoscia e dai timo-ri, ma la mette al riparo da accuse di eresia e di malafede, e le conferisce un’autorità ben superiore al suo status di nobildonna e di magistra.

È da collocare in questo periodo la decisione di Ildegarda di lasciare il convento di Disibodenberg e di trasferirsi al convento di Rupertsberg, un edificio in rovina che aveva ospitato il mona-co celtico Ruperto. L’esigenza nasce probabilmente dagli spazi sempre più ristretti, dato che la fama di Ildegarda richiamava un numero sempre crescente di novizie, ma penso si possa ipotizza-re anche un desiderio di indipendenza e di autonomia. Ildegar-da comunque presenta questa decisione come il volere divino manifestatole in una visione, e confida che ciò rimuova tutti gli ostacoli. Si sbaglia. Le obiezioni sono molte, a partire dall’abate Kuno, cui le monache, compresa Ildegarda, devono obbedien-za. Costui teme di veder svanire in un colpo le ricche doti delle novizie accettate nella clausura femminile e anche gli introiti e

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le donazioni che un numero sempre crescente di pellegrini e di fedeli richiamati dal dono di Ildegarda fanno confluire nelle cas-se del monastero. Non solo, le famiglie delle sue consorelle e di-verse consorelle stesse tremano davanti a questo cambiamento. Perché, si chiedono, lasciare un luogo accogliente e sicuro per trasferirci in una zona solitaria, senz’acqua, lontana ed inospi-tale, senza un tetto sulla testa? In effetti queste obiezioni sono in buona parte infondate: il colle del Rupertsberg si trova a un punto di confluenza delle principali vie fluviali e terrestri che collegano Colonia, Magonza e Treviri, a poca distanza quindi dai maggiori centri del potere spirituale, economico ed imperiale. È bensì vero che non esiste in quel luogo una struttura in grado di accogliere una comunità femminile.

Di fronte a questa aperta ostilità Ildegarda cade gravemente ammalata: la Vita così racconta della sua malattia: «I piedi non la sostenevano, e lei non poteva più alzarsi dal letto, e da questo non la si riusciva a spostare. Non soffrì solo in quell’occasione di tale malattia, ma essa si ripresentò tutte le volte che il volere di-vino trovava resistenza in lei o in coloro che erano attorno a lei».8 Di fronte a tale disagio, e grazie all’intervento della nobile fami-glia von Stade, una cui figlia è affidata a Ildegarda, le resistenze dell’abate capitolano e questi concede il permesso di allonta-narsi dal Disibodenberg. Ildegarda ed una ventina di consorelle di nobile origine si trasferiscono quindi sul Rupertsberg, in un alloggio di fortuna, e prende l’avvio la costruzione del nuovo convento. I primi anni sono segnati dalla povertà e dalle diffi-coltà, diverse consorelle abbandonano la comunità per cercare sistemazioni più consone al loro status. In una fase così turbo-lenta della sua vita Ildegarda porta a termine la stesura dello Scivias, e poco dopo viene terminata anche l’edificazione del nuovo convento, la cui costruzione la magistra ha seguito atten-tamente, impartendo ordini precisi sulla disposizione dei locali,

8 Ines Koring, “Hildegard von Bingen. Leben”, in aa.vv, Hildegard von Bingen 1098-1179, Mainz am Rhein, Verlag Philipp von Zabern, 1998, p. 10; mia la traduzione dal tedesco.