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In attesa del miracolo

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Catalogo della mostra personale di Paola Marzoli curata da Elena Pontiggia alla Galleria Schubert di Milano

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PAOLA MARZOLI

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Il libro aperto e la ferita

“… in quegli anni avevo abbandonato la professione e l’insegna-mento dell’architettura e mi ero ritirata (ritirata è la parola giusta) in campagna. I libri, la pittura, la musica, la bellezza del paesaggio toscano, il silenzio assoluto dell’ora prima dell’alba e lo strepito improvviso di tutti gli animali al sorgere del sole erano la mia gioia. Nella vacanza dalle incombenze civili si dischiudeva il libro bianco in cui a punto in croce un ago ricamava la ferita…”

Sopra un leggìo di quercia è nell’altana,

aperto, il libro…. Un uomo è là, che sfoglia dalla prima

carta all’estrema, rapido, e pian piano

va, dall’estrema, a ritrovar la prima…

(Pascoli)

Su di un leggio vediamo aperto un antico volume, le pagi-

ne sono numerose e la loro usura dà l’idea di essere state

sfogliate da tante mani o dalla stessa mano tante e tante

volte, eppure queste pagine sono bianche, su di esse nulla

è scritto. Solo un ago infilato le ferma, o meglio, le ferisce,

le segna a rosso fuoco, rosso sangue: Punto in croce, san

Sebastiano… riferimenti crediamo non casuali, ma forse

inconsapevolmente scelti per l’ impatto emotivo che croce

e martirio portano nell’animo umano.

La vita, il libro, pur densa di cultura raffinata e preziosa, ad

un certo momento svela la sua inconsistenza, il suo non sen-

so, come un volume dalle pagine inutilmente bianche. For-

se è tutto da riscrivere, parole nuove e più convincenti, più

dense possono ritornare a vergare i fogli delle nostre giorna-

te, parole marchiate a fuoco, parole fissate con il sangue, un

dramma aperto che aspetta il ristoro di una risposta.

1977 – 1979

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La prospettiva rinascimentale e la finestra sull’infinito

La pittura di Paola è caratterizzata da un filo rosso, da co-

stanti che si rendono sempre più evidenti man mano si sfo-

glia il suo curriculum artistico.

Se i libri della sezione precedente ci parlavano della cultura,

quale irrinunciabile punto di riferimento e punto di vista

nell’esperienza umana della pittrice, ora un filo rosso, teso

e leggero, ci riallaccia ad un nuovo caposaldo: la cultura

pittorica italiana del Quattrocento.

I titoli dei quadri e le evidenti suggestioni visive sono d’aiu-

to anche al più inesperto per l’identificazione quegli origi-

nali, studiati ed analizzati da Paola con precisa e scientifica

attenzione: Piero della Francesca, Mantegna …. L’autrice

ha ritrovato lo scheletro, l’ossatura delle più famose tavole

del primo Rinascimento, ne ha individuato, con precisione

d’architetto, le costruzioni prospettiche, ha cercato, an-

cora una volta la “forma”, la “finestra” che permette di

inquadrare il reale, così da poterlo leggere, comprendere,

interpretare, ordinare. Ma queste perfette ed asettiche pro-

spettive, svuotate di ogni umana presenza, sono ancorate

sul vuoto, o forse su l’infinito, in un continuo e drammati-

co dialogo tra infinito ed indefinito. La semplice visita alla

casa di Leonardo, a Vinci, suggerisce a Paola proprio que-

sta contrastante dimensione in cui si colloca ogni essere

umano: il limite e l’illimitato. Eppure il filo rosso continua

e si svolge in imprevisti sviluppi: sul cielo infinito si staglia

netto il telaio a forma di croce di una finestrella.

1978 – 1980

PA O L A M A R Z O L I A N N A R O D A

“… Piero della Francesca mi era sempre stato maestro. In Tosca-na mi era vicino. Sentivo nell’architettura di quei posti, come nel paesaggio coltivato attorno alla mia casa, la sua misura. Misuravo e rimisuravo i suoi quadri ritrovandovi le partizioni au-ree, le geometrie di cerchi e quadrati, la dolcezza della prospetti-va centrale. Sentivo la gioia di Piero e dei suoi amici quando, nel cono dello sguardo dell’uomo proiettato all’infinito, raccoglieva-no, ordinandolo e misurandolo, tutto il cosmo. Eppure lo spazio infinito sfuggiva al mio controllo: era sempre fuori, sempre oltre, sempre altro. Nel serramento a forma di cro-ce della finestra della casa di Leonardo a Vinci mi era apparsa una immagine salda, indecifrabile, per allora impraticabile: l’indi-cazione di un passaggio per l’infinito in cui la sofferenza riparava dal naufragio… ”

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La porta dell’annunciazione e l’Hortus Conclusus

“… cercavo, stando dietro le piccole finestre delle case toscane, la luce che veniva da fuori e guardavo e riguardando, sui manuali della Garzanti, le porte e le finestre nelle Annunciazioni rinasci-mentali. Osservando quella del Bellini, mi sono accorta che la luce non entrava dalla porta aperta sul paesaggio naturale, ma veniva, con l’angelo, dal buio…”

“…L’angelo dal buio mi aveva colpito, come il serramento a croce della finestra di Leonar-do: era stato un indizio. Un altro indizio mi era venuto a volo da una parola. La parola era ‘Hortus conclusus’ e mi ave-va spostato dalla fissazione a quel rettangolo di luce proiettato dalla porta sul pavimento,

alla percezione di uno spazio interno. Oserei dire ‘interno al mio corpo’ o al ‘corpo della donna’. Allora ho indagato nelle Annun-ciazioni del Beato Angelico e di Domenico Veneziano lo spazio dell’attesa: spazio cintato e aperto verso il cielo. Nei miei quadri c’era molto cielo, ma anche uno sprofondamento in acque scure, al centro, sul pavimento. Mi turbava, ma c’era.”

Continua negli anni ’80 la ricerca di Paola a partire dalla

suggestione dei grandi artisti del Rinascimento: Bellini, Al-

tdorfer, Van Eyck… ma ora la visione si precisa, trova un

punto d’approdo: l’Annunciazione.

Spogliate da ogni presenza sacra, le costruzioni prospet-

tiche diventano esse stesse protagoniste: una stanza, una

porta, una finestra. La porta senza uscio si apre su una

natura silente, incontaminata, assolutamente immobile e

spesso immersa nella penombra; dalla finestra invece, per

strano contrasto, entra il bagliore della luce.

Gli studi della Marzoli trovano un punto di snodo in L’an-

gelo di San Gottardo. L’impianto prospettico è tratto dal-

l’Annunciazione di Piero della Francesca. Due gli elementi

che catturano l’occhio: a sinistra l’ombra dell’angelo sul

pavimento, al centro la fuga degli archi, che ritmano len-

tamente lo spazio.

Questa fuga prospettica cieca si apre, nei successivi quadri,

su un giardino: l’ambientazione ora avviene in un cortile,

in riferimento ai dipinti dell’Angelico; il cortile è aperto su

un giardino eppure, al contempo, è separato dal resto del

mondo da un alto muro. Hortus conclusus che riflette le

nubi dense del cielo. L’aria non è ferma, spira il vento che

a sinistra fa alzare le tende di una porticina a rivelare la

presenza misteriosa dello spirito.

1980 – 1987

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Ianua cieli. L’irruzione dell’infinito‘Il mare aperto non cura la ferita’.

“... A metà degli anni ottanta una malattia ha interrotto tutto (ma non la pittura). Continuavo in quegli anni a girare attorno al po-littico della Misericordia di Piero. Sovrapponevo la figura centrale della Madonna-colonna alla colonna tra leoni rampanti che so-vrasta la Porta dei leoni di Micene. Paragonavo Atena, ‘custode delle porte urbiche’, alla ’Ianua cieli’ della tradizione mariana. In Grecia la dea era una colonna sopra la porta della città. In Piero, sopra la Madonna-colonna, stava il crocefisso. Lo sguar-do di Cristo, dal vertice di un triangolo perfetto, restituiva il figlio alla madre e la madre al figlio, dopo millenni di separazione… Tutto si bilanciava e corrispondeva stabilmente in Piero, ma il mio quadro tra ripensamenti e cancellature non trovava la strada. La porta si apriva su un infinito e il mare irrompeva a chiedere un naufragio. Demetra senza braccia sedeva in trono alle radici del-l’albero primordiale...’In un verso delle poesie di Anna Roda ho trovato, dopo lunga sospensione in quell’indefinito, il titolo per il quadro ripreso da Piero e mai finito: ‘Il mare aperto non cura la ferita’.

L’hortus non è sempre e solo conclusus. D’improvviso nella

pittura di Paola la gabbia prospettica, che crea ordine, che

dà sicurezza, si apre: cielo sopra, cielo sotto; l’infinito così

a stento trattenuto oltre il perimetro sicuro della cultura e

delle costruzioni geometriche irrompe e tutto travalica.

E ancora Piero della Francesca diventa punto di riferimento

in questo sguardo indagatore di Paola.

Per una strana sovrimpressione la pittrice “vede” nella

Vergine della Misericordia la colonna tra leoni che decorava

le porte d’ingresso delle città pre-elleniche.

Per un gioco di scambi la Vergine-colonna diventa essa

stessa porta, Ianua coeli, in una ricerca d’assoluto, di spazi

infinti, ma tale traguardo porta a questa sola certezza, il

mare non cura la ferita.

1985 – 1996

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Ancora una misura

“… Vagavo per strade tortuose cercando un riferimento. Dipin-gevo bambini in bicicletta su tornanti. Quando sono arrivata nel luglio del 99 davanti al tempietto del Tesoro degli ateniesi a Del-fi mi sono detta che lì potevo fare una sosta. Una pietra scolpita trilingue (per via dei lavori in corso) avvertiva ‘vietato salire’. La facciata del tempio era schermata dal reticolo dei ponteggi. Ho visto in quel reticolo, simile ai quaderni a quadretti delle ele-mentari, simile alla quadrettatura accademica per la copia dei qua-dri, simile alle grate che usano gli archeologi per rilevare il terre-no scavato, una misura possibile. Una misura che, abbandonata la gloria della prospettiva rinascimentale, fornisse solo una griglia di orientamento. Un tramite per avvicinare la sacralità del corpo. Colonne corrose, corpi feriti sul campo di battaglia, andati a mi-schiarsi con la terra...

Dopo il tentativo di apertura sull’infinito, ritorna ancora e

con ossessione la misura.

I viaggi di Paola nei siti archeologici più noti della civiltà

greca (Delfi, Atene, Agrigento) le riempiono gli occhi di

immagini e suggestioni.

Davanti a noi vediamo l’imponenza dei templi antichi, co-

struiti e realizzati secondo precise misure e geometrie, ep-

pure queste non tengono il passare del tempo, e il passare

stesso delle esperienze umane, soprattutto quelle dram-

matiche come la malattia e la morte.

Ecco allora una misura sulla misura, una gabbia metalli-

ca che ingabbia la misura degli antichi. Questa partizioni

sono come protesi della nostra conoscenza, sono divisioni

del tutto in frammenti per permettercene la conoscenza.

2000 – 2002

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L’origine: il centro, la spirale.E la scrittura

“… seguendo la quadrettatura come un bambino, cautamente ho riavvicinato il corpo. La colonna come il corpo della madre. Sca-nalato come nelle pieghe della veste della Madonna della Miseri-cordia. Toccando il corpo scanalato sono andata verso l’ombelico. Il centro. Guardando i sassi ai miei piedi nel luogo dell’oracolo antico di Dodona mi sono sentita guardata da un occhio origina-rio. Da quella origine ho rivisto la storia del corpo diviso, cono-sciuto e segnato dal lavoro dell’uomo: nei solchi del campo, nelle scanalature della pietra, nella scrittura cuneiforme. Corpo pene-trato per cavarne il mistero e sempre misterioso…”

Dall’astrazione perfetta e geometrica alla densità della pie-

tra e della materia. Continuano i viaggi di Paola alla ricerca

dei luoghi sacri dell’antichità, alla ricerca del centro.

Dodona era uno di questi, sede dell’oracolo più antico del-

la Grecia. Gli uomini andavano pellegrini per un responso

che aprisse loro le porte del futuro. Paola ci è andata per

ricercare un centro, il centro che le aprisse la porta della co-

noscenza di sé, della vita e della realtà in cui era immersa. I

quadri di questi anni ripropongono in modi diversi gli stessi

temi: il centro, la spirale, la scrittura.

L’ammonite, l’echino, la Sfinge… tutti hanno un centro

vuoto, un gorgo forse, che li genera, perché attorno ad

esso si addensa la materia, si coagula la vita.

Insistente il ritorno alla materia con gli ingrandimenti di

frammenti di colonne aggrediti dal tempo, dalle muffe,

dagli agenti atmosferici. Palpitano di vita sotto l’occhio

di Paola questi dettagli architettonici e si trasformano in

campi arati, ritmiche teorie di onde, scale che ascendono.

Un microcosmo che attrae ed affascina, tanto da svelare la

sua alterità insondabile, la sua sacralità nascosta.

2002 – 2004

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Le radici

“… Nell’orto del Getsemani la colonna ha affondato le sue sca-nalature nella terra e le ha allungate in radici fino all’acqua sor-giva. La riflessione giunta al più arduo ‘tirarsi su’ e ‘ripiegarsi dolorosamente su di sé si è sciolta in riconoscenza... E allora uno sventolio di foglie grigie e argentee come i campanel-li che annunziano la resurrezione nella messa di pasqua...

Interni o aride pietre hanno caratterizzato fino al 2004 la

pittura di Paola. Dopo i viaggi nei luoghi più significativi

della storia dell’uomo d’occidente, la Marzoli si avventura

nel “luogo”per eccellenza, oseremmo dire: Gerusalemme,

luogo d’origine e riferimento delle tre religioni monotei-

stiche, luogo-ombelico a cui e in cui convergono conflitti

e inesausti desideri di pace. Così, a lungo atteso e ovun-

que ricercato, d’improvviso, quasi nuovo e inaspettato

sorgere della luce, nascono questi ulivi, questo giardino

d’ulivi, questo orto del Getsemani.

Le colonne degli antichi templi pagani prendono vita, si

animano in questi tronchi secolari, la cui corteccia, segna-

ta e ispessita dal passare degli eventi e degli accadimenti,

si inabissa in un fondo senza dimensioni, stranamente fa-

migliare, ma sempre nuovo e misterioso. Dai tronchi an-

tichi sorgono rami antichi e rami nuovi, polloni e getti,

gemme e foglie.

La tavolozza della Marzoli si trattiene nei toni, è parca di

colori: il verde spento, il bianco, il grigio, il color brunito,

il violetto nelle ombre; non si vuole turbare con i colori la

densità vibrante dell’istante. Tutto è trattenuto, anche la

luce , che talvolta piove discreta sui grossi rami contorti;

tutto è trattenuto e tutto è silenzio. Sofferenza e dolcezza

sono i poli attorno a cui gravita l’animo di Paola, un ani-

mo che quasi cerca rifugio in questi tronchi, quasi vuole

entrarvi per respirare con essi e in essi.

2004 – 2005

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I n a t t e s a d e l m i r a c o l o

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L’ultima provvisoria tappa del cammino di Paola Marzoli si

concentra tutta in due anni, 2005-2007.

Dopo la ricerca nella cultura figurativa rinascimentale,

dopo i viaggi-pellegrinaggi alle sorgenti del mito e dell’es-

sere, Paola approda in Palestina, vi è approdata e in questa

terra ha messo radici, per ora, la sua pittura.

Prima meta: Gerusalemme e lo splendore silenzioso e di-

screto degli ulivi millenari del Getsemani. Secondo arrivo:

l’acqua limpida e cristallina del fiume Giordano.

La dimensione delle tele si apre in misure dilatate, Paola

sembra ora rifiutare ogni riduzione del reale, vuole cogliere

la realtà nelle sue vere dimensioni, vuole trasferire nel qua-

dro l’imponenza stessa di ciò che ha colpito i suoi occhi.

E cosa vediamo? Sassi, erbe, ramoscelli… tutto qui? Sì e

non è poco.

I sassi sul fondo del fiume brillano attraverso la trasparenza

dell’acqua, sassetti minuscoli, pietre levigate dal passaggio

del flusso lento e costante del fiume, sabbia biancastra,

sottile ed impalpabile, fili d’erba ondeggianti, bastoncini

dolcemente incastrati tra i massi più consistenti.

Tutto un mondo minuscolo e vivissimo si apre ai nostri

occhi. L’acqua, simbolo millenario, antico quanto è antico

l’uomo, scioglie la durezza della visione, la fredda, punti-

gliosa, intellettuale ricerca di Paola in uno sguardo rinato,

vibrante di luce riflessa nella quale la stessa pittrice pare

illuminarsi.

Per la prima volta ascolto il tuo farmi nascere: così titola

Paola uno dei quadri più imponenti di questa serie. Il qua-

dro è tutto giocato su una diagonale di luce, che delimita

nettamente due zone: a sinistra l’ombra a destra la luce.

Nella luce i sassi sono minuti, piccoli piccoli, nell’ombra

notiamo alcune pietre un poco più grosse, ma il mosaico

d’insieme è equilibrato, controllati i rapporti tra le parti,

trattenute le tonalità di colore.

La pittrice lavora con pazienza certosina per riportare sul-

la tela i frammenti che costituiscono l’alveo del Giordano,

quella stessa pazienza, osiamo dire, che animava il lavoro

degli amanuensi chini sulle carte che vergavano, talvolta

senza comprenderle a pieno.

Anche Paola ha scelto questa nuova modalità di pittura,

che solo alla fine le riserba la novità di ciò che man mano

dipinge. Infatti essa dipinge tenendo la tavola orizzontale

su un appoggio e cola lentamente e con parsimonia il co-

lore, fino a rendere la liquida densità delle acque e la luce

cristallina dei riflessi del fiume.

Paola osserva questo microcosmo e in esso si riflette, a

ritrovare ora sulla tela quel senso di pace, frescura, riposo

cercato, e invano, in tanti luoghi della civiltà umana.

L ’ a c q u a

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Paola non si ferma alla leggera bellezza del Giordano, la

sua ricerca continua inesausta, mai appagata di ciò che

ha incontrato, o meglio solo appagata da ciò che conti-

nuamente le si svela in questo scavo profondo della realtà

e di sé stessa. Però anche una indefessa ricercatrice come

lei talvolta si ferma, per prendere respiro, forse anche per

divertirsi un poco nella serena solarità delle mattine di Pa-

lestina. Sul tetto della basilica del Santo Sepolcro alcuni

monaci etiopi hanno costruito un piccolo monastero e una

cappelletta. Davanti a questi luoghi di preghiera e medi-

tazione, nel posto più sacro della storia della cristianità, si

trovano due seggioline di legno. L’occhio attento di Paola,

ora attirato dalla nascosta bellezza degli oggetti e capace

di farla trasparire ai nostri occhi disattenti, si è soffermato

su di esse. Le sedie diventano così protagoniste pur nella

precarietà e trascuratezza della loro condizione: sono ver-

niciate d’azzurro, ma il colore è sbiadito, il legno è corro-

so, il tutto nell’insieme ci pare poco stabile. Quante scarpe

sfondate ha saputo guardare il genio di Van Gogh per ri-

trovare in esse la bellezza? Ci pare che Paola abbia fatto lo

stesso, abbia allenato il suo animo e il suo occhio in una

personale ricerca che sa ora nutrirsi e riposarsi su oggetti

così meschini, così banali, così rovinati. L’artista è giunta

ad una essenzialità ingenua, ad un incantato candore che

vede l’interessante negli angoli riposti del reale.

Dopo il ristoro di una sosta si riparte, si riparte verso il de-

serto. Il Deserto di Giuda costituisce il secondo momento

di questa ricerca della Marzoli. I quadri non sono numero-

si, ma ci paiono molto significativi.

Anche in questo caso è la luce a determinare lo spazio, in

I l d e s e r t o

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un gioco non facile di tono su tono.

La pietra scartata dai costruttori: le dimensioni ridotte della

tela ci costringono in una concentrazione dello sguardo e

dell’animo. Al centro una pietra dalla forma a gradino, la

luce piena del giorno illumina con decisione le due facce

verticali e proietta un’ombra violetta, un’ombra di tenue e

ricercata frescura a lato; tutto attorno la sabbia giallastra

del deserto, i sassolini che fanno corona al masso centrale.

L’occhio però non ne ricava un’impressione di arsura, di

solitudine; il quadro comunica certezza, ferma solidità, fe-

sta di luce calda ed avvolgente, dagli effetti visivi promana

calore e silenzio e il nascosto messaggio che in tutto ciò

vi è il ristoro di un’oasi di penombra e pace. La bicicletta

abbandonata nel deserto: in quanti quadri della fine degli

anni Novanta Paola ha ritratto bambini in bicicletta? Bam-

bini che vagavano senza meta, che con la fatica dello loro

pedalate cercavano di guadagnare i chilometri?

Ora, pare dire questo quadro, ho deposto la bicicletta,

sono disposta a fare un mio cammino, con i miei piedi,

toccando la terra, la sua sassosa realtà, le sue interne aspe-

rità, io e non un altro al mio posto.

La bellissima bicicletta è abbandonata sul terreno ocra del

deserto, la minuziosa ricerca di Paola, il suo non acconten-

tarsi delle apparenze, ha indagato i nascosti meccanismi

del cambio, dei raggi, delle ossature metalliche; spicca il

rosso delle cromatura e il reticolo fitto delle ruote, spicca

nella luce densa e cristallina, spicca sul chiaro brunito della

sabbia.

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Arriviamo così all’ultima tappa: Tabgha, Tiberiade, sempre

acqua. Paola è rimasta molto colpita dal lago di Tiberiade

e da tutto ciò che attorno a quello specchio d’acqua è

capitato: i pescatori, le barche, la serenità di una vita con-

quistata a prezzo di un tradimento e di un perdono, dato

ed accettato.

Sui sassi di Tiberiade sono rimaste impresse le impronte di

quelle parole, di una promessa che può sfidare il tempo.

“…Fermarmi per mesi a dipingerli è per me come cura-

re quella promessa, stare fisicamente in quel luogo: stare

in quei sassi , passati dal fuoco del vulcano e accarezzati

dall’acqua del lago, neri se bagnati, bianchi se calcinati di

nuovo dal sole…”. Con queste parole Paola ci introduce

nell’ultimo momento della mostra.

Tele grandi, quasi incapaci a contenere l’ampiezza dello

sguardo che ora connota la visione dell’artista, tele mo-

nocrome, sacrificate nel facile effetto dei colori: grigio-

bianco, nero-blu, violetto-cenere.

La tavolozza si trattiene per far parlare, ancora una volta,

le pietre in dialogo con l’acqua.

In Giordano le pietre erano nell’acqua, dolcemente abban-

donate ed accarezzate dal flusso dell’onda, qui le onde

vengono e poi si ritraggono, bagnano alcuni sassi, altri

solo li lambiscono, altri ancora sono asciutti.

La luce ha un ruolo fondamentale in questa essenzialità

di elementi: stacca dal fondo le pietre, non anonime com-

parse, ma ognuna voluta e, nel momento della creazione,

amata. Le cose stanno bene sotto uno sguardo così, le cose

sorridono, pur in un dramma che si compie, un dramma

che è sempre in atto. Le cose sorridono pacificate, poiché

hanno un posto, il loro posto. Così queste pietre, molto

diverse dai sassi di Dodona, che quasi ingoiavano la luce,

famelici pur nella loro quieta ed imperturbabile apparen-

za, nel loro geometrico disporsi.

I sassi di Tiberiade conoscono le lotte della vita, le fatiche

e le sconfitte, le povertà e le miserie umane, eppure sor-

ridono sotto la luce delle mattine di Palestina, sorridono

piano, discrete nei mezzi toni del loro colore, occorre un

occhio attento a scoprirli, occorre un sorriso dell’animo

per comprenderli.

I l s o r r i s o

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Note sulla tecnica

Come Galleria Schubert abbiamo fatto la prima mostra

personale di Paola Marzoli nel 1979, e in questi trenta anni

ne ho seguito il percorso e visto le opere ‘da vicino’.

Dal mio particolare punto di vista non posso non essere

colpito da come negli anni la materia pittorica sia cambiata

fino a giungere al risultato finale dell’ultimo ciclo di dipinti.

Non è credibile che nell’opera di un’artista completa e col-

ta come Paola Marzoli ci possa esser qualcosa di casuale.

Il cambiamento di soggetto è sempre conseguente ad un

cambiamento di condizione vitale e a un’attenta riflessio-

ne analitica. Si è visto come la sua cultura l’abbia spinta a

cercare conforto nei grandi passaggi della storia. Si è visto

inoltre come il suo spirito d’osservazione e la sua analisi

formale l’abbiano spinta a cercare elementi compositivi da

estrapolare dal contesto originario e ricollocarli nella pro-

pria rappresentazione del mondo, plasmandoli alle proprie

esigenze espressive.

Ma in tutto ciò possiamo considerare la tecnica come risul-

tato casuale, o studio asettico del modo di dipingere? Si

può credere che la tecnica sia quell’elemento insignificante

rispetto al contenuto, soprattutto dopo aver visto lo studio

formale che precede la creazione di un’opera (intendendo

qui per opera un ciclo di dipinti) per Marzoli? Può la tecnica

essere considerata elemento neutrale rispetto al contenu-

to? Possiamo considerare sempre come soggetto dell’ope-

ra l’oggetto che essa rappresenta, oppure non sarebbe più

giusto aprire uno spiraglio anche alla tecnica usata dall’ar-

tista lasciandola partecipare alla rappresentazione finale

dell’opera? E se la tecnica, non essendo più considerata

elemento neutrale nella produzione dell’opera, potesse ad-

dirittura arrivare al punto di essere essa stessa il contenitore

del messaggio dell’artista più di quanto non sia lo stesso

soggetto rappresentato?

Non è necessario cercare risposte immediate a queste do-

mande ma l’importante è porsele soprattutto quando l’in-

tento è quello di creare un quadro sinottico che, in un pro-

cesso evolutivo pragmaticamente diacronico, tenta di mo-

strare l’operato complessivo dell’artista coprendo un arco

temporale molto ampio. Perché è proprio di un processo

evolutivo irreversibile che stiamo parlando: la numerazione

progressiva che scandisce la produzione di Marzoli è a tutti

gli effetti interpretabile come una volontà di oggettivare

l’irreversibilità della narrazione di una storia, la propria e del

mondo che la circonda. Una storia che giorno dopo giorno

può essere letta nei quadri, veri e propri frammenti creativi

dell’esigenza comunicativa dell’artista.

Per poter vedere come e quanto la tecnica si sia modifi-

cata, basta un semplice confronto fra due periodi lontani

nel tempo, che costituisce il gradiente evolutivo delle te-

matiche di Paola Marzoli. Osservando le opere degli anni

70 e 80 noteremo come esse fossero realizzate su supporti

rigidi, alcune volte lavorati da altri, dove l’intervento dell’ar-

A N D R E A S C H U B E R T

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tista non nascondeva l’altrui lavoro, ma lo rispettava traen-

done significati ulteriori rispetto all’opera dipinta. L’atteg-

giamento potrebbe essere visto come quello dell’architetto

che ordina all’artigiano un’opera e con rispetto dell’altrui

perizia la colloca nella propria composizione. Gli armadietti,

i leggii, dipinti in quegli anni, trovano sulle loro superfici

stesure ad olio delicate e leggere: pigmenti non violenti che

rispettano la vena del legno. E sulle tele di lino a grana fine

il colore è steso in sottilissima velatura sfumando in om-

breggiature appena accennate.

Tali lavori appaiono molto differenti confrontandoli con le

opere degli ultimi anni. Le recenti campiture nette che sot-

tolineano passaggi di luce senza sfumature e mezzi toni,

sono lontanissime dai morbidi panneggi che richiedevano

adeguata morbidezza nella stesura del colore.

Così come le pennellate quasi materiche delle lumeggiatu-

re sulle pietre dei templi greci contrastano con la materia

sottile delle tavole trompe l’oil delle opere dei tardi anni

settanta. E ancora, il disegno, la traccia costruttiva sotto-

stante lasciata intravedere, il non finito che lascia lo sfondo

intuibile e godibile del ciclo della fine degli anni novanta è

ben diverso dalla completa copertura della superficie pitto-

rica delle ultime tele.

Alcuni artisti lasciano al caso, ma io direi alla sapienza della

mano che molto sa più della testa stessa, la scoperta del-

l’opera, in una sorta di automatismo psichico di derivazione

surrealista. Così diceva Castellani a Carla Lonzi in un in-

tervista pubblicata poi nel libro “autoritratto”: “un artista,

quando comincia, io penso che non abbia tanti problemi, lo

fa… abbastanza visceralmente, credo no? Perché gli piace,

che so, manipolare certi materiali … usare certe tecniche.

Via via da un contenuto a questo fare … almeno, così è suc-

cesso a me…”. Da questo frammento di discorso si evince

come alcuni artisti si lascino trasportare “dall’estro”. Quel-

l’estro che è l’insopprimibile voglia di fare e che li spinge

anche a prescindere dalla “forma” con cui fare, seguendo

maggiormente il “sentimento” che scaturisce dalla frenesia

artistica. Un modo di fare che vede evolvere lo stile e il con-

tenuto delle opere in maniera prevalentemente sincronica

con una selezione naturale di quanto non sia ritenuto va-

lido dall’artista. Un’evoluzione naturale, questa, connotata

da ritorni e ripensamenti, in attesa di trovare quella “cifra”

connotativa e quello schema forte e personale in grado di

dare il contributo fondamentale all’evoluzione della storia

dell’arte.

Ma questo comportamento non può essere preso neces-

sariamente a norma. Nessuna norma può applicarsi oggi

al fare artistico. La riflessione e la “forma” nulla possono

e debbono togliere al sentimento dell’artista che maggior-

mente si sente incline a studiare e “progettare” il modo in

cui esprimersi, sia per quanto riguarda i contenuti sia per il

modo di realizzarli.

Contenuto e tecnica di rappresentazione viaggiano in sim-

biosi anche in artisti che fanno della metafora lo strumento

privilegiato della loro arte.

Che l’arte sia presentativa e non rappresentativa potrebbe

essere già un dato provato, ma vale sempre la pena richia-

mare questo aspetto ogni volta che si cerca di inquadra-

re, all’interno del caos evoluzionistico delle arti figurative,

l’opera di un artista che usa mezzi tradizionali rappresen-

tativi, ignorando ogni forma di presunta modernità esclusi-

vamente presentativa. Il presunto primato presentativo del-

l’arte aniconica si fonda su un falso presupposto che ignora

un aspetto fondamentale della tecnica.

Se consideriamo la tecnica come l’abilità di ottenere degli

effetti sensibili o emozionali, nell’interesse della trattazione,

allora si capisce come non possa essere considerato ozioso

porsi la domanda di come questa si sia evoluta nel lavoro

della Marzoli. Quale elemento conscio od inconscio l’abbia

spinta a diluire il colore in alcune opere (o ciclo di opere)

ed ispessirlo in altre, cosa l’abbia spinta a lasciare ombre

dure o sfumate, cercare superfici lisce o scabre, rimane una

domanda senza risposta, ma porsela significa cercare di co-

gliere nel ‘segno’. Questo perché ogni elemento compositi-

vo contribuisce alla costruzione della metafora costituente

l’opera stessa: costituisce cioè l’elemento estetico che su-

pera l’apparenza e ci pone di fronte al nostro personale

problema del “cosa significa?”.

La tecnica, come abbiamo detto, è l’abilità di ottenere degli

effetti emozionali, e se qualcuno arriva a porsi questa do-

manda, allora l’opera ha già raggiunto il suo scopo.

Tracciando un breve riassunto potremmo sintetizzare il pro-

cesso evolutivo per passi “discreti” e non come movimento

fluido di evoluzione continua. Considerando il periodo che

intercorre tra la fine degli anni 70 e la metà degli 80 notere-

mo come Marzoli persegua una pittura che potremo defini-

re da “leggio”. Le sue opere sono di dimensioni contenute,

si nascondono dietro le ante di armadietti o si appoggiano

su tavoli come i libri sui leggii. Le citazioni colte si consu-

mano sulle pagine dei libri dipinti. I contrasti tra materiali

“duri” come il legno e “leggeri” come la carta appaiono

caratteristiche evidenti di una ricerca la cui sottigliezza non

è immediatamente coglibile. Così come alludono ad un al-

trove senza dichiararsi il filo rosso che serpeggia nei quadri,

come anche le prospettive, la ricerca della “misura” ideale,

e quel rapporto delle dimensioni auree che nella tradizione

doveva essere mantenuto a tutti i costi nel “bel dipingere”.

Poi, sempre in quegli anni, le architetture si animano e dal-

l’interno si comincia a intravedere un esterno. Un’apertura

verso una porta da cui uscire e la pittura acquista materia.

La vegetazione non è più semplicemente velata ma viene

rappresentata con colore più spesso. Il tratto diventa ener-

gico quasi che l’energia della natura non potesse essere

che rappresentata dal vigore del colore e dallo spessore

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della materia, mantenendo un contrasto con il manufatto

architettonico, quasi apparenza di sogno, di intonaco liscio

e colore vellutato.

Tale delicatezza, quella dei muri, la ritroviamo tra la secon-

da metà degli anni ottanta e la prima metà degli anni no-

vanta. Colori gessosi, sbiaditi, quasi memorie di affreschi

slavati caratterizzano le opere della mostra “Viaggio alle

madri”. Le immagini si sovrappongono, si affiancano. La

“Historia” di Leon Battista Alberti diventa una narrazione

a più trame. Story board di filosofia, che emergono dalla

memoria, lavati dal tempo. La storia, la metafora, in ogni

singola pennellata assume “spessore in se” e perde mate-

ria pittorica. Un ritorno al disegno. La quadrettatura traspa-

re sotto la materia leggera, quasi acquerellata. Il soggetto

appare “studiato”, proposto come studio, o ‘memoria’ di

studio. Una pittura da cavalletto, meditata e volutamente

mostrata come indagine sulla pittura.

Finisce il secolo e l’indagine procede. La tecnica muta, cam-

bia e si rinnova. La densità del colore aumenta, l’attenzione

si concentra su parti di edifici monumentali o frammenti ar-

cheologici. La pietra rappresentata, sia che venga estrapola-

ta dal contesto, sia inserita nel complesso archeologico, ini-

zia a presentare lumeggiature materiche decise, pennellate

vigorose a rappresentare la ruvidezza del soggetto rappre-

sentato e, forse, del soggetto rappresentante. Il contrasto

con le pareti degli edifici intonacati appare evidente. Sono

sempre superfici dure, ma osservate in maniera notevol-

mente differente. La superficie non è più un piano astratto,

ma diventa materia densa di accidenti: diventa l’oggetto

dell’indagine e la tecnica si adegua alle esigenze. Nelle

opere ‘greche’ Marzoli parte da fondi scuri aggiungendo

luci. La pittura è densa, l’olio non viene diluito. Il dettaglio

inizia a formarsi dal “gesto casuale” del pennello sulla tela

guidato solo dalla sapienza della mano. L’intento proget-

tuale rimane, sia nella composizione che nella scelta del

taglio, l’esecuzione invece accetta il rischio dell’errore del

movimento della mano ormai sapiente ed abile. Il nuovo

millennio vede un ulteriore variazione. Una pittura che de-

finiremo frattalica inizia a far intravedere la propria natura

già nei tronchi d’ulivo per procedere in successive zoomma-

te su materiali di vario genere e varia natura. Una sorta di

scomposizione e ricomposizione della materia. Un processo

di affinamento, di sensibilizzazione. Marzoli sperimenta su

differenti soggetti la propria tecnica. Arriviamo ad oggi. Le

nuove opere dove la pittura frattalica ci sorprende. Il taglio

della composizione cerca visioni prospettiche ortogonali ai

sassi che rappresenta. Il quadro disceso dal cavalletto viene

eseguito in piano, anche per opere di grandi dimensioni. Si

assiste alla negazione, o forse sublimazione, delle prospet-

tive cercate negli anni settanta e delle proporzioni auree

tanto agognate. Abbandonata la necessità del punto di vi-

sta centrale e della misura rinascimentale, scartando le sug-

gestioni impressive ed espressive ottocentesche, la materia

si declina per un suo ordine labirintico interno.

Siamo di fronte al nuovo capitolo e ancora non abbiamo

trovato risposte alle domande iniziali, ma abbiamo posto i

presupposti per poter guardare le opere: vederle veramen-

te nel loro farsi.

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