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monografia italo scelza
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a mio padre
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italo scelza
in itinereper “Progetto”: Memorie e Macchine
testo diMarcello Carlino
edizioneNUOVA STAMPA
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Amministrazione Provinciale di AvellinoOPERA
con il patrocinio del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
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Il catalogo monografico dell’artista avellinese Scelza è la prima opera illustrata,
realizzata con il contributo della nostra Amministrazione.
Il valore e l’importanza di questo lavoro ripaga ampiamente il nostro sforzo.
Scelza ci ha per altro fatto dono di un suo trittico di grandi dimensioni, già esposto
alla Quadriennale di Roma e che farà parte della nostra pinacoteca.
Il trittico è dedicato alla nostra terra e il titolo, “Gli uomini della ricostruzione”,
ricorda quanto sia stato duro per la Provincia di Avellino intraprendere la lunga opera
di ridare vita alle proprie genti.
Il nostro compito è quello di promuovere manifestazioni artistiche, in ogni loro
forma, che pongano la nostra terra ed i nostri figli all’attenzione del Paese.
Il Presidente dell’Amministrazione Provinciale
Ing. Francesco Maselli
Avellino, 10.09.1999
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Il percorso della memoria di Italo Scelza si legge in questo catalogo che l’Amministrazione Provinciale di Avellino ha voluto dedicargli quale figlio di questa terra e promotore della sua conoscenza fuori dagli angusti confini della nostra realtà.Questa raccolta è riferita ai suoi quarant’anni di attività. Tutta la sua carriera viene qui ripercorsa nelle sue varie fasi, nelle sue diverse espressioni e moti dell’animo. E’ fortemente leggibile, nell’opera di Italo Scelza, una indissolubile connessione tra artista e territorio e tra artista e società. Fin dagli esordi, traspare il suo impegno nel denunciare il disagio dell’uomo nella società industriale, l’allontanarsi dalla terra e da una realtà contadina che sembrano avere lapide nel ferro del trattore.Il sogno dell’artista, che deve e può cambiare la realtà sociale, sembra disperatamente dissolversi nelle assenze bianche delle sagome umane nei deserti industriali.Ma non è l’uomo a soccombere, è il deserto a rimanere solo. L’uomo perde la bianca angoscia attraverso catartici “inabitacoli” di interiorità, riscoprendo la voglia di rimettere le mani su cose che per troppo tempo ha abbandonato. A suon di musica, egli ricostruisce lo scenario della propria esistenza. Ridipinge le strade, le piazze, riprende le tradizioni popolari danzando, godendo del rumore dei propri passi sul legno del palcoscenico. Gli “stucchi colorati dal sole” ci aprono gli occhi su cose che da troppo tempo non venivano guardate, e ci restituiscono il barocco di Catania ed in generale il barocco di casa nostra. In barba alla parvenza di morte del deserto industriale, noi ci appropriamo dei suoi frutti, dei suoi scarti, rendendoli matericamente vivi nella plasticità dei mosaici. Noi, “le sagome senza volto” siamo stati raccontati da Italo Scelza attraverso la sua “humanitas” pregna della memoria dei luoghi e dei materiali e dei luoghi della memoria. Questi sono quelle stanze della mente che ci salvano da naufragio della società e dalla fine del sogno. L’uomo naufraga sulla “zattera” dell’ideologia, ma si salva rivolgendosi a più profondi e duraturi valori, approdando alla memoria di sé.Le linee generatrici di Mondrian portano dritte al passato, riappropriamocene tracciando una evoluzione di una nostra personale poetica. L’ Amministrazione Provinciale, con questo catalogo, inaugura un impegno con i cittadini dell’Irpinia: d’ora in avanti chi ha fatto conoscere la nostra terra e chi si è imposto quale figlio di questa terra, non potrà non essere onorato dal ricordo della sua terra.
Giampaolo Palumbo Assessore alle Politiche Culturali Provincia di Avellino
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Edizione a cura di
Francesco Ruggiero Sebastiano Palumbo
Patrizia Basile
Testo diMarcello Carlino
Testimonianze diVito Apuleo
Italo AvellinoEnzo Bilardello
Mario De MicheliFloriano De Santi
Guido GiuffréDomenico Guzzi
Mario LunettaDaniele MajoneDario MicacchiDuilio MorosiniGiuseppe NeriCarlo Pedretti
Paolo PortoghesiGianni Pozzi
Franco SimonginiSergio Zuccaro
BiografiaGraziella Fargnoli
Foto diMimmo Capone
Alfio Di BellaSandro FiloniFranco MulasItalo ScelzaOscar Savio
TraduzioniDaniela CapaldoSimona Bernabei
Pierfrancesco Paolini
Realizzazione grafica diLoreto Pantano
Piero Luigi Albery
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IN ITINerePer “PrOgeTTO”: MeMOrIe e MAcchINe
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Case a Salento, 1959 /60 - tecnica mista cm 70x100
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Italo Palumbo in arte Scelza nasce ad Avellino nel 1939.
Negli anni cinquanta è a Napoli per motivi di studio. Nella città
partenopea viene influenzato pittoricamente da due dei suoi
insegnanti: Spinosa e Corrado Russo, grossi esponenti, allora,
della pittura astratta-informale a Napoli e nel mezzogiorno. Il
suo trasferimento a Roma avviene per gradi, intorno al 1961
sostando per ragioni di insegnamento in Ciociaria; tiene
continuamente contatti con l’ambiente artistico romano
esponendo a Roma nel 1964 alla Galleria “Passeggiata di
Ripetta”. Senza escludersi dalla vita artistica ciociara, conosce il
pittore Domenico Purificato che lo presenta in una mostra
personale ed il critico d’arte Duilio Morosini che lo recensisce
positivamente in una mostra del “Gruppo 5”, operante negli
anni sessanta in Ciociaria.
Era il periodo in cui a Roma nacque, fondato dai critici
Micacchi, Morosini, Del Guercio e dai pittori Attardi, Calabria,
Farulli, Guerreschi, Gianquinto, Vespignani, Romagnoni il
gruppo del “Pro e Contro” e gran parte dei giovani artisti che
orbitavano intorno all’ambiente artistico romano venivano
affascinati dalle operazioni culturali di quel gruppo. Risale al
1968, stimolato da Antonello Trombadori, il vero impatto con il
grande centro urbano; lo precede in provincia una attività di
ricerca in cui i fatti del mondo, i grossi problemi politici e
artistici impegnano la sua coscienza.
L’interesse per la macchina si accentua ed il fascino per un tipo
di pittura più netta ed essenziale l’avvia al discorso pittorico
all’interno di una dimensione industriale tecnologica-urbana
che lo aveva interessato già precedentemente nel periodo in
cui, girando per le campagne ciociare, dipinge bozzetti di
trattori per eseguire poi un grande quadro sull’affrancazione
delle terre, commissionato dall’Alleanza contadina di
Frosinone.
In questa occasione conosce Carlo Levi che lo incoraggia a
continuare la sua ricerca sul sociale.
L’interesse pittorico è rivolto, in questo inizio, a Mondrian -
l’importanza della linea come generatrice di immagini - e a
Léger - assimilazione della civiltà industriale al suo nascere
attraverso vie di dinamismo pittorico .
Espone a Roma nel 1971, presentato dal critico Guido Giuffrè,
alla galleria “Ciak”, ed è sostenuto da una critica positiva.
Intanto i rapporti con artisti e critici diventano sempre più
frequenti. Si serve della geometrizzazione tenendo presente
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anche il linguaggio formale di alcuni realisti tedeschi - come -
Crossberg - nella sua possanza. Tiene alcune mostre personali
a Modena, Brescia, Cortina d’Ampezzo e Bari. È in continua
ricerca e desideroso di conoscere - prende studio a Milano per
potersi inserire nell’ambiente culturale ed artistico del
capoluogo lombardo. Conosce i critici Vittorio Fagone e
Raffaele De Grada, frequenta Mario De Micheli e i pittori
Ruggero Savinio, Dino Vaglieri ed Ernesto Treccani.
La tensione ed il dinamismo della metropoli lo affascinano,
intanto la situazione socio-politica del paese è in piena crisi e
di conseguenza la sua ricerca riflette il momento storico.
D’improvviso, il suo mondo si disintegra e cade in un lacerante
pessimismo dove l’uomo sembra abbia perso la propria
dimensione di vita; ciò nonostante resta l’illusione che lo stesso
non sia disposto ad escludersi completamente.
Partecipa nel 1973 ad un’importante operazione di gruppo sul
territorio in rapporto all’artigianato locale promossa da Dario
Micacchi per il comune di Gualdo Tadino, “Immaginazione e
potere” (Editori Riuniti), con gli artisti e con lo stesso critico
contemporaneamente partecipa ad un’altra operazione
territoriale sul nucleo industriale di Ottana, promossa dall’ENI,
esperienze queste che offrirono agli operatori l’occasione per il
recupero di un rapporto tra arte e popolo, tra cultura e lavoro.
In questa occasione conosce Gianquinto, Basaglia, De Vita, e
R. Vespignani che lo presenta in una mostra personale alla
galleria Nuova Pesa di Roma. Partecipa sempre nel 1973 al XXI
Premio del Fiorino di Firenze - Biennale internazionale di Arte
- e contemporaneamente tiene una personale a Firenze alla
galleria S. Croce.
Nel 1977 il Comune di Bettona (Perugia) unitamente al
Comune di Anagni organizzano una retrospettiva con una
raccolta di 80 opere dal 1965 al 1977, corredata da una
monografia edita dalla galleria “Lastaria” allora operante in
Roma. L’artista si accinge, nello stesso periodo, a sperimentare
l’uso del video-tape assemblando immagini e suoni sui
drammatici avvenimenti politici e culturali del ‘77.
In quell’anno viene nominato docente all’Accademia di Belle
Arti di Reggio Calabria da dove si trasferisce poi all’Accademia
di Belle Arti di Firenze, infine a Roma, tuttora sede del suo
insegnamento di pittura.
Subito dopo si dedica ad una ricerca sulla condizione umana,
nasce una serie di opere che rappresentano ambienti ristretti,
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angusti, drammaticamente rappresentati dove è evidente il
tragico frantumarsi delle cose. Questa serie di dipinti, intitolati
“Inabitacoli” sono esposti nel 1980 nella galleria “Carte Segrete”
in Roma. Successivamente l’amore per la dinamica teatrale lo
porta a intraprendere una serie di dipinti, in cui, la forza e la
persuasività del suo lavoro stanno proprio in una lucida e
incalzante re-invenzione della realtà. Questa serie di quadri
viene esposta nel 1981 in una personale nella galleria “Le Ore”
di Milano presentata dallo scrittore Michele Prisco, e poi ad
Arezzo nella galleria d’arte comunale presentata da Dario
Micacchi, completata da una più ampia raffigurazione di studi
su balletti contemporanei ispirati a Béjart e Linpsay Kemp. Il
ciclo delle opere non fu terminato. Nel 1982 una parte di
queste opere viene esposta alla galleria d’arte comunale di Jesi
in una mostra organizzata da Dario Micacchi intitolata “La
Ruota del presente - una situazione romana”.
Nel 1983 partecipa alla rassegna “De umbris idearum”
intervento sulla macchina della memoria di Giordano Bruno
organizzata da Gianfranco Proietti e tenutasi al Convento
occupato di via del Colosseo in Roma - riproponendo il suo
discorso artistico in una selezione di opere pittoriche, raccolte
sotto il tema “macchina della memoria” ispirate appunto agli
scritti del filosofo nolano.
Nel 1984 l’interesse si sposta su di una ricerca particolare
riguardante il barocco catanese, dovuta alla sensibilità e alla
disponibilità del gallerista Virgilio Anastasi che gli commissiona
un’operazione culturale straordinaria tutta articolata intorno ai
problemi del patrimonio artistico di Catania. Il lavoro nasce
formando un laboratorio di ricerca, in cui operano uno
scenografo ed un ebanista, dove si ricostruisce un clima
artigianale che fu proprio della ricostruzione della città dopo il
terremoto del 1693. P. Portoghesi, che lo presenta nel volume,
così scrive: “Italo Scelza ci mette di fronte, dopo averli
decontestualizzati, brandelli di città, frammenti di architettura
scelti in funzione della loro densità, della loro ricchezza
formale. Il barocco meridionale, le cornici di pietra intagliata
servono di spunto per una indagine fredda su alcuni
catalizzatori della memoria collettiva, all’interno dei quali il
pittore ritrova la sua immagine rimossa.
Queste opere su Catania, intitolate “Gli stucchi colorati dal
sole” sono esposte prima a Roma nella galleria “L’Ariete” di via
Giulia e poi nello splendido palazzo Gottifredo di Alatri, sede
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Hiroscima, 1963 - olio su tela cm 160x140
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Roma ore 24, 1965 - olio su tela cm 160x120
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Morire a Madrid, 1964 - olio su tela cm 140x160
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del Museo Civico. Le caratteristiche di questo momento sono
sia lo studio delle forme classiche di pale; polittici; trittici ecc.,
sia l’uso del supporto pittorico che diventa legno e vive in
simbiosi con esso. Nasce così un suo modo di fare pittura che
ancora oggi perdura.
Nel 1985 la mostra tenuta all’“Art-message” di Roma è tutta
incentrata sul tema di un polittico “Il giardino degli ornelli” che
verrà esposto subito dopo a Castel Sant’Angelo in occasione di
una rassegna intitolata “Un panorama di tendenze” curata da
Luciano Luisi.
Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale di Roma con un
grande trittico intitolato “Gli uomini della ricostruzione” dipinto
a ricordo del terremoto dell’ 80 in Irpinia, sua terra natale.
Nello stesso anno l’amministrazione comunale di Supino,
luogo della Ciociaria, dove Italo Scelza lavora nel suo studio di
campagna, gli commissiona un’opera per la Sala Consiliare e
che egli intitola “La valle degli ornelli” in cui rappresenta le
varie fasi della nascita e della storia del paese ciociaro.
Gli viene ordinato poi dal giovane collezionista Ivo Ruzza un
trittico, che rappresenta una sorta di allegoria della campagna
e il cui titolo si presta ad una interpretazione ambigua: “Il
gioco degli scuri”.
Si dedica successivamente ad una grande scenografia. Il
Comune di Nola gli commissiona la realizzazione in legno e
cartapesta di una grande struttura alta 31 metri che deve
rappresentare l’arte ed il mestiere del sarto, in occasione della
festa dei “Gigli”. Il giglio, la cui realizzazione si basa su due
concetti fondamentali, uno scultureo-architettonico e l’altro
pittorico-surrealista, occupa la piazza della città, che si
trasforma in palcoscenico, e la grande guglia ne diventa la
protagonista principale. Gli studi preparatori ed il plastico del
Giglio del Sarto vengono esposti all’interno di una chiesa
sconsacrata. Interessato, come sempre, alla cultura di altri
paesi, decide di avere un’esperienza nell’America del Nord. Ne
1989 espone in Canada, al Columbus Centre di Toronto, una
serie di 50 opere che richiamano l’attenzione di un folto
pubblico. Successivamente alcune di esse vengono esposte a
San Francisco. Soggiorna per un periodo di tempo a New York
dove prende contatti con il mondo artistico americano.
Ritornando in Italia, per i Mondiali di calcio, gli viene
commissionato dall’EDMA editrice - Modena, una grande
edizione grafica intitolata “Itinerario 90”.
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In occasione di un concerto eseguito nell’Aula Magna
dell’Università “La Sapienza” di Roma con musiche di
Monteverdi dal Coro Franco Maria Saraceni diretto dal Maestro
Giuseppe Agostini, Italo Scelza cura la scenografia eseguendo
con materiale di recupero (cartone e legno) due grandi cavalli
che raffigurano il combattimento di Tancredi e Clorinda e che
fanno da fondo alla tragedia in musica ispirata Tasso. G.
Agostini scrive in questa occasione..... “Scelza è uno specialista
della venerazione per la memoria storica come tale ma
rivissuta, rieducata e riedificata con lo spirito inquieto e
dialettico della cultura contemporanea”.
In questo periodo Italo Scelza ha due importanti commesse:
una dal Comune di Sesto Fiorentino, con quattro grandi
mosaici che esegue con tre giovani artisti già suoi allievi
all’Accademia di Firenze; l’altra dal Comune di Arpino e
dall’amministrazione provinciale di Frosinone per affrescare la
Sala Consiliare del Comune della Città natale di Cicerone e del
Cavalier d’Arpino. Quest’ultima opera, per ragioni burocratiche,
non è mai stata eseguita.
In questi ultimi anni di riflessione ideologica e pittorica, Italo
Scelza rivede e interpreta un’opera dell’800 francese, “La
zattera della medusa” di Theodore Géricault che rappresenta
l’ammutinamento e il naufragio al largo della costa africana di
una nave francese con la conseguente lunga odissea dei
superstiti.
L’opera viene presa ad esempio e trasfigurata in una serie di
dipinti su legno dove ipoteticamente si avverte il grande
dramma del naufragio dell’uomo di oggi e la disfatta di ogni
ideale.
I dipinti sono prima esposti nella galleria “Ca’ d’oro” di Roma e
poi a Catania presso la moderna “Art Club”. Partecipa poi a
Vasto alla 2ª rassegna di tendenze “Dall’informale alla nuova
figurazione” a cura di Floriano De Santi.
Italo Scelza espone per conto dell’Hammer Museum di Los
Angeles una serie di opere dedicate a Leonardo. Curatori della
mostra e del volume sono Giuliano Allegri, direttore della Casa
Editrice “La Bezuga” di Firenze e il prof. Carlo Pedretti
responsabile artistico del museo Hammer. La mostra su
Leonardo diventerà itinerante e sarà esposta in importanti città
italiane, europee ed americane (Miami, Los Angeles, Stoccolma,
Malmo, Goteborg, Catania, Roma, Amalfi, Anagni).
Nel 1994 è invitato a tenere un corso di pittura presso
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l’HUMBOLD University, in California. In quella occasione
esegue un grande trittico ispirato alla foresta delle Sequoie. Il
dipinto è di proprietà della Pinacoteca Universitaria.
Nel 1995 espone una serie di Cartoni ispirati alle Isole di
Leonardo nella Galleria L’Indicatore di Roma, a cura di Pino e
Teresa Purificato.
Sempre nel ’95, espone al Castello di Fumone una serie di
opere che continuano il ciclo di Leonardo.
Nel 1996 l’artista è impegnato in una serie di interventi
culturali, tra questi ricordiamo l’omaggio che il teatro “L’Agorà”
di Roma gli rende traducendo alcune sue opere in immagini
teatrali con la regia di Enrico Antognelli.
Nello stesso anno partecipa alla rassegna curata da Loredana
Rea e Massimo Carrillo “Omaggio al Cinema di Carlo Ludovico
Bragaglia”.
Nel 1997 partecipa alla mostra “Arte a Roma” nella galleria
Civica di Arte contemporanea della capitale.
A caratterizzare questo lungo percorso artistico di
ITALO SCELZA è stata la stretta amicizia con gli scrittori, i poeti
e i musicisti; con loro non sono mancate delle vere e proprie
collaborazioni, perché nelle sue ricerche storico-pittoriche
quasi sempre i poeti e i musicisti hanno partecipato. Per citare
alcune di queste occasioni, ricorderemo una delle ultime
fatiche di SCELZA su Leonardo. “Schemata”, è infatti il titolo
della pubblicazione che ha visto protagonisti i musicisti
Giuseppe Agostini, Fabio Agostini, Luca Salvatori, Antonio
D’Antò e Lorenzo Pietrandrea, i poeti Mario Lunetta, Paolo
Guzzi, Claudio Rendina, Lamberto Pignotti, Sergio Zuccaro e
Gianni Godi. Nel 1997 SCELZA partecipa ad una serie di
rassegne in Ciociaria, a Boville Ernica, Veroli e Alatri. Nel 1998
tiene una mostra personale a Roma presso l’accademia di
Egitto esponendo una serie di quadri sulle Piramidi, in
occasione produce con Gianni Godi un video-clip a tema. Nel
1999 tiene una personale a Roma alla Galleria ca’ d’Oro, una al
Palazzo della Regione ed una terza mostra nella Chiesa
sconsacrata del “Triggio” di Avellino. Nel 2000 terrà una grande
antologica organizzata dal comune di Anagni, città dei Papi, in
occasione del Giubileo, a New York aeroporto Kennedy a cura
dell’”Alitalia” e a Toronto nella storica “ Casa della Corte”.
Didascalie foto1 - Gente di città, 1961 - tecnica mista cm 40x50 2 - Il cammino, 1962 - tecnica mista cm 50x30 3 - La spiaggia Niza, 1962 - tecnica mista cm 30x454 - Crocifissione, 1963 - tecnica mista cm 30x50 5 - Omaggio a Michelangelo, 1964 - olio su tela cm 160x1206 - La terrazza, 1964 - olio su tela cm 220x220 7 - Terrazzo a Sperlonga (Particolare), - tecnica mista cm 250x1108 - Moto a Roma, 1965 - olio su tela cm 110x1809 - I trattori della valle del Sacco (particolare), 1966 - olio su tela cm 500x130 10 - Omaggio a Kafka, 1967 - olio su tela cm 100x7011 - Il volto nella struttura, 1968 - olio su tela cm 160x12012 - La Vigna del Polvino, 1968 - olio su tela cm 160x12013 - Le immagini del tempo, 1970 - tecnica mista cm 60x50 14 - Le immagini del tempo, 1970 - tecnica mista cm 60x50
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SOMMArIO
Biografia
Presentazione
La città
Le costruzioni
Gli oggetti
Le immagini del tempo
Inabitacoli
La danza, il teatro
Interni
Gli stucchi colorati dal sole
Le grandi scenografie
L’uomo l’ambiente
Il mosaico e la piscina
La zattera
La casa rossa di Humboldt
Le macchine di festa
Le isole di Leonardo
Desertiade
La città morta
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PER “PROGETTO”: MEMORIE E MACCHINE
A considerare alcune delle opere di Scelza, che appartengono
a questo decennio prossimo a scadere, e a chiudere il secolo,
colpisce la funzione, di motore e di perno, che vi svolge la
memoria: quella memoria cui sono solite richiamarsi,
dichiarandone la centralità, le più recenti autobiografie
scelziane, scritte in catalogo per mano d’autore, e della quale,
già nel 1980, rendeva testimonianza, riconoscendone fin dal
titolo il valore fondante e l’energia costruttiva, un intervento
dedicato al grande eretico di Nola, a Giordano Bruno.
Sono esercizi di memoria, infatti, le riscritture e le
rielaborazioni compiute, con puntualità e scrupolo analitico,
con acribia, su modelli iconici e, in specie, su un unicum
testuale di Géricault; sono lavori di memoria quelli che si
improntano, intrattenendoli in uno studio e in un confronto e
derivandone ispirazione e materia (e cifre e logiche di
composizione da restituire e da riusare), ai modelli progettuali
e, si direbbe, ai protocolli di ricerca di Leonardo.
La memoria è per Scelza, intanto e in essenza, memoria di
arte, di stili e di tradizioni pittoriche, di iconografie (nel testo
e in margine ad esso) che hanno sollecitato l’immaginario
collettivo e animato in profondo percorsi di cultura. La
memoria è, in forza di ciò, riconoscimento dell’opera (quella
che si va facendo: l’opera nel suo farsi) quale complesso,
multiplanare itinerario di viaggio fra segni, codici e linguaggi
espressivi, quale esplorazione anche a ritroso che rincontra e
rivede (e lo fa di necessità, secondo una prassi voluta e
inevitabile) il già fatto, quale cammino e procedura
intertestuale. Epperò - lo comprova che si dialoghi, come in
uno spazio mentale, con protocolli di ricerca, e dunque con
qualcosa che non è stasi o conclusione, ma movimento,
apertura, divenire; e ne reca conferma che le variazioni sul
tema di un ipotesto costruiscano una articolata sequenza di
discorso - la memoria non è qui ristretta nelle forme chiuse di
una sterile citazione; non è una memoria, insomma, che
incorre in una paradossale conversione e che, alle corte, si
piega ad un’autonegazione e ad una abiura, neutralizzandosi
in un mero, smemorato allineamento di reperti, nel quale
l’originalità e l’autenticità stanno per intero, valori residuati
solo in pallide tracce e evanescenti, dalla parte del citato,
mentre l’atto della citazione non può caricarsi di alcun
significato forte e, scontata una definitiva fine della storia,
non può pensarsi come progetto né può pensare un futuro
(si penserà, semmai, come coazione a ripetere, come sbiadito
e innocuo divertimento o, all’estremo, come delirio
claustrofilo e resa senza lotta al nonsenso): che è poi quanto
ha trovato riparo, consentendo un ampio stuolo di fautori e
di laudatori, sotto l’ombrello capace e protettivo dell’ideologia
del postmoderno.
All’ideologia del postmoderno la pittura di Scelza non cede
nemmeno un poco; ed è proprio la memoria il suo punto di
resistenza, la sua leva di opposizione: una memoria la cui
pratica, a me pare, deve molto ad una indicazione, o meglio
ad un principio filosofico, di Giordano Bruno.
Si sa che il pensatore, condannato dall’inquisizione romana e
morto sul rogo, sosteneva che la conoscenza non è solo
scienza, ma anche heroico furore e spasmodica tensione (ad
altissima temperatura poetica), dovuta certo, a parte subjecti,
ad una smania incoercibile di trovare un senso pieno
all’umano stare al mondo, ma pure ingenerata, a parte
objecti, dalla provvisorietà o dalla trasmutabilità del vero: una
trasmutabilità ed una provvisorietà, inscritte, per dir così,
nell’ordine dell’universo. E infatti egli, benché fosse nella
filosofia della natura assai vicino alle teorie copernicane,
sostenne con straordinar ia lungimiranza, in c iò
differenziandosi da Copernico, che non si dà un centro
immobile dell’universo, neanche il sole possedendo questa
prerogativa o essendo investibile di tali predicati.
Ora, come una ipotesi siffatta porti a ricusare, per principio,
qualsiasi monocentrismo, e autorizzi, al contrario, un
policentrismo di per sé antidogmatico e fertile di significative
potenzialità culturali, è cosa su cui altri ha già discusso
lungamente, e utilmente; lo si dia per assodato, qui, e se ne
ricavi, del tutto conseguentemente - del resto, l’intervento
bruniano del 1980 aveva per nome aggiunto La macchina
della memoria - che giusto l’inesistenza di una stella fissa o di
un motor immobilis e l’ammissione del policentrismo
governano il viaggio della memoria di Scelza.
Non si tratta, cioè, nel caso, di procedere a ritroso, finché ci si
imbatte in un punto (una immagine, una figura, un
linguaggio, uno stile) che è, o si accetta, per fermo e
immodificabile, sottratto alla dialettica del confronto. E non si
tratta neppure di un percorso, ad imbuto, verso il fuoco della
prospettiva: dal molteplice (l’esperienza in cui siamo gettati)
all’uno (l’origine, l’archetipo stagliato come un’isola felice). Il
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punto che si incontra, invece, è soggetto a spostarsi anch’esso
ed è colto in movimento, dimensione che si rinnova e si
arricchisce come in una sollecitazione energica e tenace, o in
un fecondo divenire; e non è unità semplificatoria e
riducente, preordinata e limitativa, è complessità polimorfa e
polisensa - perforata da aperture, da spiragli di passaggio, da
scorci - la stazione raggiunta nel viaggio, tanto che sembra
che da essa si debba ripartire, e anzi non si possa che
ripartire, senza soluzione di continuità, senza smettere il
cammino della ricerca. Nel che la memoria rintraccia la sua
fattualità, la sua concretezza storica, il suo ruolo agonistico e
attivo, nient’affatto nostalgico o pago di una verità data e
immutabile, da accettare tal quale; e frappone una distanza
incolmabile da quella memoria (o statica, o inerte, o disattenta
e rinunciataria) la cui meta e il cui effetto sono al dunque, lo
si sia voluto e programmato o no, l’amnesia (così nelle
pratiche ispirate all’ideologia del postmoderno; così
purtroppo, e sempre più frequentemente, nella cultura di
oggi).
Scelza usa la memoria dinamicamente, la incarica di un
compito propositivo, storicamente attivo, di analisi laica e di
ricerca e di rilancio della complessità.
Si guardi, per reperirne esempi con valore di prova, ad alcune
opere del ciclo “leonardesco”. Intanto è loro caratteristica, più
volte sottolineata, la disponibilità al movimento, il loro
costruirsi e materiarsi di movimento. È movimento rotatorio
quello innescato dalla struttura come di trottola di una base
circolare raggiata (che ripropone alcuni modelli - frammenti
di macchine, parti di congegni scientifici - tracciati dai disegni
di Leonardo) e trasmesso (con esiti di sfrangiamento e di
moltiplicazione centrifuga dell’immagine, la quale pare girare
vorticosamente come su un perno; una sorta di rotore
compariva, sbalzando un motivo analogo, in una tela del
1982, Le immagini che ruotano) alla figura di fanciulla
sovrastante, profilata secondo canoni quattrocenteschi e
sbozzata su iconografie leonardesche, che rotando compone
una sfera (sferica, appunto, come la terra o come la
rappresentazione tradizionale, geometrica e simbolica,
dell’universo). È sventagliamento di oggetti e materie nello
spazio, a partire da un nucleo che accumula (un accumulo di
tensione, appunto) piani inclinati, setti prospettici, ingranaggi
e tiranti e corde, quello che si produce, quasi a seguito di una
esplosione, nell’Isola di Leonardo, che sta dabbasso come
sede di innesco. Dinamiche spiraliformi e moti a pendolo,
precisi come in un meccanismo ad orologeria, frequentano
pressoché tutti i pezzi in mostra in Macchine di festa.
Dire di questi movimenti in atto, e in opera, significa, al
tempo stesso, dire che per essi, o intorno ad essi, la memoria
si rende occasione di incontro, e lievito e incremento nel
dialogo, di linguaggi diversi. La forma quasi di sezione di una
conchiglia, in un cartone, racchiude e tende la figura
femminile in proscenio, e la inarca e la stilizza, fino a che
essa prende sembianze somiglianti al liberty. Un reticolo,
fatto di materia da arte povera, e provvisto di segnali che
rinviano ai collages delle avanguardie storiche o alla
numerologia costruttivistica, stringe in una morsa e soffoca,
altrove, un nudo che parrebbe di maniera umanistica e che,
nella stretta, sta per deformarsi e per accostarsi alla tipologia
di un prigione michelangiolesco (altre figure e stilemi da
Michelangelo, e in particolare la mano della creazione,
altrove Scelza ha frequentato). Sotto i Ponti di Leonardo la
corrente si avvolge in fibre di colore intrecciate e trasporta
relitti la cui fattura, talora, deve alla iconografia del cubismo:
quei vortici a treccia, a loro volta, non appaiono distanti dalle
silhouettes, prossime all’astrazione, in uso nella stagione
simbolista a cavallo tra Ottocento e Novecento, o dalle
rappresentazioni dinamico-plastiche tra pre-futurismo e
futurismo (penso a Medardo Rosso e al primo Boccioni). Nel
mentre, il cielo colorato dalla pirotecnia, che proietta in alto
materie e oggetti, richiama palesemente i cieli surrealisti, da
Chagall a Mirò.
Il variare di queste esperienze e l’attraversarle e il riusarle
nella loro ricchezza, avendo cominciato da Leonardo e
ricominciando una volta incontratolo da vicino, pennello a
pennello, nella multiformità della sua arte (un arte come
ricerca e come progetto), contiene più significati insieme:
non c’è fatto (o scritto o detto o dipinto) che non si rifaccia (o
riscriva o ridica o ridipinga) quando viene portato, quando
irrompe come cosa viva nel tempo qui ed ora dell’esperienza;
non c’è studio (o confronto o dialogo) che non si allarghi e
non c’è memoria vera che sia monodirezionale o la cui
pienezza non sia un’escursione a largo raggio, una catena di
associazioni, una sistema di ponti che mette in relazione e in
tiro dialettico il simile e il dissimile; non c’è esperienza
29
creativa che non sia, perciò, essendo anche altro, ricerca e
progetto, dove progetto, alla lettera, è un gettar(si) fuori, oltre
il consueto, verso il futuro.
Ha parentela metonimica con il progetto, nella sua giusta
accezione semantica, la nascita, battuta in tema e installata a
fulcro di senso, i cui segni si colgono nella forma ovoidale,
nel nucleo raggiato inscrittovi, nel cordone ombelicale che ne
fuoriesce legato ad una macchia che è quasi una sagoma
antropomorfa: la memoria, nel suo senso pieno, è anche -
antifrasticamente - preludio, inizio, nascita; e non si dà
nascita completa - nascita che sia promessa e speranza -
senza memoria. Se Leonardo è il genio più grande
dell’umanesimo, dedicargli un’esperienza di studio e di
ricerca è per Scelza, con tutta probabilità, volgersi a
quell’umanesimo e indicare la necessità di un nuovo
umanesimo, che si costruisca incontrando i linguaggi, le
anime e le forme che hanno segnato la nostra storia e che
dobbiamo ritrovare, investire di domande, riusare per
prestarle al futuro, per “pro-gettarle”, con un lavoro di
memoria. E solo in un nuovo umanesimo, che si configuri
quale cammino aperto e consapevole e multidirezionale di
ricerca, sta una via sia pure lunga, una alternativa, una
possibilità di rinascita, della cui urgenza e della cui
indifferibilità siamo invitati a farci persuasi.
Quale sia il perché, e quali siano il contesto e le prospettive
storiche entro cui si giustificano un bisogno e una volontà di
rinascita, a me sembra sia detto da Scelza nel ciclo
immediatamente precedente, intitolato alla Zattera e
realizzato tra gli ultimi anni Ottanta e i primi Novanta. È
Géricault, stavolta, l’interlocutore.
La scelta di confrontarsi con l’opera del pittore romantico,
che traeva spunto da un fatto realmente accaduto - il
naufragio della nave «La Medusa» - , appare tutt’altro che
occasionale o preterintenzionale. Potranno essere intervenute,
come spesso accade, suggestioni d’un attimo e in parte
immotivate, seduzioni di strutture, di orchestrazione pittorica
e di colore, che si sono nel tempo solidificate e sedimentate
fino a costituire l’incipit e dare abbrivo alla ricerca; ma non
v’è dubbio, a mio avviso, che sia stato il tema iconografico, in
aggiunta al fatto che esso venisse elaborato da Géricault in un
periodo storico cruciale, in un’epoca di svolta, a rafforzare e
determinare in Scelza la volontà di un corpo a corpo - di
analisi, di interpretazione e di riscrittura - con La Zattera della
Medusa.
Niente più di un naufragio, infatti, include il senso
dell’apocalisse, di un’era che finisce, di un destino che si
compie: con i relitti di cui la natura e la storia e la dialettica
del potere disseminano la superficie tutta d’intorno, con le
rotture e le frammentazioni che ogni rivolgimento comporta,
con l’angoscia e con l’orrore e con la disperazione che
accompagnano la fine e la morte, con i tentativi di scampare
al disastro e di resistere e di riprendere e di ricominciare.
Elementi, questi, che Géricault aveva preso in attenta
considerazione, compulsando dapprima i documenti e i
resoconti della sciagura avvenuta in mare, dandosi poi a
minutissimi studi anatomici e raccogliendo infine il tutto nel
complesso, accurato, veemente racconto su tela.
L’iconografia del naufragio, ripresa da Géricault e che
Géricault aveva a suo volta ripercorso in un viaggio della
memoria (guardando fra gli altri a Michelangelo e a
Caravaggio) e riformulato, diviene in Scelza la metafora (di
significato tanto più forte, poiché liberata da qualunque
impegno di documentazione e di trascrizione realistica) di
un’apocalisse storica, della mutazione epocale che
sopravviene negli ultimissimi anni Ottanta: con sistemi politici
e sociali che vacillano e rovinano e cadono, con ideologie
prima e a lungo trainanti che si eclissano sembrando non
trovare più spazio nella storia, con una falsa bonaccia (di
seguito alla tempesta devastante e contagiosa) che pare fatta
di rassegnazione all’esistente o di inerme accettazione
dell’ineluttabilità delle cose e che però a malapena copre
gorghi di contraddizione (i cadaveri, i vinti, i relitti del
naufragio non ancora restituiti dal mare).
La memoria, in questo ciclo pittorico scelziano, lavora a
trovare strumenti e tarare linguaggi, innestando registri e stili,
per riferire ancora del presente e irrompervi. Anche gli
affioramenti del mito, che punteggiano il discorso, hanno una
pertinenza all’attualità: essi dicono di mitologie al crepuscolo
(che è fra i nomi e i titoli adoperati), o di un crepuscolo degli
dei (e delle ideologie) che chiude il sipario sul passato (e su
ciò che nel passato era valore ingiudicato, sacrale) senza
escludere nuove mitopoiesi (e qui la tensione proiettiva e lo
slancio dinamico delle muse, garanti e protettrici delle arti,
che paiono fendere acqua e aria, hanno molto di
30
emblematico; emblematico è, in rapporto a loro, l’ornello,
pianta della manna, che le fiancheggia e le accompagna e le
sostiene) e senza rinunciare a pensare e a fingere nuovi
scenari. Perché il naufragio è apocalisse, ma è pure
palingenesi; e Scelza a me pare ponga l’accento, in questo
ciclo ispirato a Géricault, più sulla palingenesi che
sull’apocalisse: sul nuovo inizio, insomma, che è da sperare,
e da cercare (e da cercare facendo appello alla memoria e a
un nuovo umanesimo), in quella che ora si mostra come una
terra desolata, una landa sconvolta abitata dalla morte e dal
senso della fine.
Sebbene il quadro della rappresentazione si incentri
ricorrentemente su immagini di devastazione (assi e pali e
alberi spezzati), la semantica di un nuovo inizio è in realtà
inscritta, in questi testi pittorici di Scelza, con segno tanto
marcato e insistito da mostrarsi dominante: a ribadire che la
responsabilità di un compito attivo e propositivo (la volontà
di sperare, la tenace resistenza all’accettazione dell’esistente)
non può scomparire dall’orizzonte ideologico e dal campo di
tensioni e dai compiti dell’arte. Proprio la forza centrifuga
degli elementi, catapultati a raggio sul mare dal piano della
zattera, palesemente richiama, in una con la distruzione, ma
come polo antagonista, la dimensione costruttiva di un
metaforico tendersi in volo, di uno sfuggire alla stretta, di un
librarsi verso un altrove nel quale altri scenari e altri destini,
altre utopie siano pensabili ed abbiano spazio. Chi ha
sottolineato come questo ciclo scelziano sia caratterizzato da
affioramenti del rimosso, e dalla libertà concessa a dinamiche
inconsce, ha certamente ottime ragioni, purché si aggiunga,
però, che ritorni o liberazioni siffatte, e quel “che” di
manipolazione ludica che si ravvisa nei legni e nelle tavole (e
nella reiterazione variata - quanto alle stesse tecniche
adoperate - dell’iconografia del naufragio; l’ascolto del
rimosso si coglie, del resto, anche nel fatto che Géricault sia
qui interpretato e praticato in una chiave preminente, quella
visionaria), risponde appunto ad un disegno culturale
riconoscibile: di richiamare e rianimare, per un nuovo
umanesimo, anche le risorse del soggetto prima solo in parte
sfruttate (le risorse più recondite, quelle di norma immolate
sull’altare del super-Io, del controllo sociale e della logica
dell’arte) e di prestarle alla attivazione di ulteriori potenzialità
del lavoro artistico, alle aperture di altre frontiere di discorso.
Di raccoglierle, insomma, nell’ambito di un progetto.
Non casualmente, infatti, tra la zattera, i cui frammenti sono
sparsi tutti d’intorno come semi di ricostruzione che potranno
attecchire e fruttificare, e l’ isola leonardesca con utopici cieli
surrealisti sovrastanti, che è il luogo per antonomasia in cui si
esprimono fantasia e ragione, concorrendo a disegnare un
“più umano” diverso futuro, (il futuro in cui, inoltre, le
scissioni e le fratture, le divisioni dell’io sono ricomposte e il
soggetto è recuperato nella sua totalità intera), si dà un filo di
continuità nettissimo, forte ed evidente, tanto che questa
esperienza non potrebbe essere, di fatto, senza quella. E non
casualmente, nelle assi di legno dell’imbarcazione sconnessa
e violata dai marosi, se è dato rintracciare parecchie
suggestioni o sintonie (dal tema e dall’impianto delle
crocifissioni tardocinquecentesche fino alle sequenze di
scritture lignee di Ceroli), si ha netta l’impronta, a mio
giudizio, delle sculture di Mastroianni, nelle quali, secondo
una cifra stilistica costante, il senso della distruzione
(racchiuso nei bracci di ferro minacciosi e inquietanti, che
assomigliano a congegni bellici) si connette immancabilmente
alla energia costruttiva (tradotta in un dinamismo
d’ascendenza futurista) dello slancio plastico che organizza la
materia e le conquista spazio e respiro.
Certo è che la vocazione plastica della pittura di Scelza è
cocciuta, tenace, di una fisicità prepotente; e non le basta il
peso dei corpi, presi in una serrata dialettica di pieno e di
vuoto, scavati dalla luce (spesso da una rasoiata di luce) e
modellati da violente escursioni chiaroscurali (e questa è una
delle anime del Gioco degli Scuri, del 1986, polivalente già
nel titolo): corpi che il linguaggio della nuova figurazione
piega e volge dal realismo barocco all’espressionismo,
secondo una cifra di stile che Scelza non ha mai dismesso.
Quella vocazione plastica ha bisogno di un habitat più vasto
in cui realizzarsi: ha bisogno di fuoriuscire dalla superficie
dipinta per prolungarsi e diramarsi all’esterno, per interagire
e comunicare confacendosi in pieno al ruolo e al compito
pubblico dell’arte. Si spiega siffattamente perché, almeno da
vent’anni a questa parte, nella produzione artistica di Scelza
le installazioni abbiano così tanta rilevanza, sia da sole sia in
rapporto, come di testo tridimensionale con il testo
bidimensionale a fronte, con le tavole e i legni e i cartoni e le
tele; e si spiega allo stesso modo perché le sue elaborazioni,
31
e gli eventi a cui esse sono legate, si connotino comunque
per una prospettiva di intervento sul territorio. Un progetto
non è tale davvero, del resto, se non in riferimento alla
determinatezza storica e geografico-culturale di un contesto e
in riferimento ad uno specifico orizzonte d’attesa. In
riferimento ad un territorio, insomma: un territorio come
corpo, organismo vivente con le sue memorie, con i suoi
valori da ritrovare e da restituire contro i disvalori imperanti,
con un suo umanesimo da strappare alla barbarie che lo
incalza: un territorio da riottenere e da abitare. Sono pensate
per il territorio, per esservi immerse e per darne
testimonianza, per estrarne una storia altra da quella corrente
e per improntarvi l’immagine e il senso di una possibile storia
a venire, di segno radicalmente diverso (il segno della “festa”,
il segno di una vita collettiva recuperata), le opere degli
Stucchi colorati dal sole, un intervento, del 1984, compiuto
nella città di Catania: un intervento, tutt’altro che ispirato alla
logica di una estetizzante decontestualizzazione (di una
enucleazione di elementi fine a se stessa, di un gratuito
piacere del testo), in cui la messa in scena barocca di alcuni
lineamenti peculiari e distintivi della città, occultati da una
frequentazione abitudinaria o disturbata, comunque corriva
(una frequentazione ad occhi chiusi, che lascia semmai
guardare, non più vedere), significa per allusioni la messa in
piazza dell’intera città, la sua uscita in pubblico, dunque la
sua agibilità, la riappropriazione che essa fa di sé, il restauro
e il ripristino che essa realizza della propria identità
conculcata e negata. Stucchi e balconi, e legni e cartoni, nella
loro polimatericità, oltreché nella loro esuberanza plastica,
nella loro matrice officinesca e artigianale (e, talora, collettiva)
e nella loro fattura, nello stabilire una continuità e un nesso
dialettico tra interno ed esterno (che è prodotto culturale
elettivo del barocco e, in specie, dell ’architettura
borrominiana), appartengono alla categoria delle macchine,
che sono un po’ il filo conduttore unitario - la struttura
invariante - delle esperienze scelziane degli ultimi vent’anni.
Macchine come coacervi barocchi, macchine teatrali (che
erano in uso nelle rappresentazioni secentesche e
accompagnavano, nel finale, il colpo di scena), macchine
sacrali e rituali, macchine di festa: macchine come ciò che di
articolato e complesso l’uomo realizza, in forza di esperienza
e passione e conoscenza: macchine come meccanismi e
congegni realizzati per intero dal lavoro di progettazione,
dalla fantasia e dalla ragione umane: strumenti la cui struttura
consiste in un rapporto cinematico di componenti e una cui
funzione, tra le altre, è anche la trasformazione e la
trasmissione di energia.
Un sottotitolo come La macchina della memoria, di sigla e
di chiosa all’intervento bruniano del 1980, a questo punto
riassume e dichiara in essenza le ragioni di fondo delle
esperienze artistiche successive di Scelza. Ha valore di
pronostico quel nome, macchina, che emblematicamente
carica di tensione dinamica e di forza propulsiva la memoria;
ma ha anche valore retrospettivo e serve a precisare, a mio
parere definitivamente, gli ambiti e i contorni del lavoro
pittorico dell’artista nel decennio, e poco più, precedente.
Il confronto con l’universo tecnologico che allora Scelza
veniva rea l izzando, convergendo con a l t r i che
sperimentavano su oggetti “sociali” analoghi un loro
linguaggio “neofigurativo” (si è fatto, opportunamente, il
nome di Calabria, di Turchiaro), mi pare si caratterizzi, infatti,
per il suo polimorfismo e la sua polivalenza: per il fatto di
essere condotto, insomma, da più angoli prospettici e di
tenere in conto, dunque, diversi punti di vista.
Il susseguirsi di elementi tubolari è talvolta un vero e proprio
labirinto (e il labirinto è caos, ma pure ordine; è sintomo di
smarrimento e di erranza ed è, insieme, un simbolo di sfida; e
nasce come sfida, nella mitologia classica, il labirinto), che
dall’interno, dal chiuso di una fabbrica si trasferisce nello
spazio esterno della città (coniugando, nel mentre,
industrializzazione ed urbanesimo). La sinusoide di una scala
di ferro (con sotto un’ombra d’uomo reclina) indica un
percorso di alienazione e, allo stesso modo dell’edificio che è
un montaggio di solidi geometrici in forma di tritacarne, con
sopra il collo di una torre sottile e, all’apice, un orologio privo
di lancette, che ha molto di un occhio prensile e inquisitorio,
capace di una ferrea vigilanza censoria, di un dominio
incontrollato e assoluto (è Città, del 1973), appartiene alla
famiglia delle macchine infernali, come quelle che, lugubri e
minacciose, e profetiche, fanno sovente da sfondo al bianco
e nero dei vecchi capolavori del cinema espressionista (e
macchine infernali sono gli Altiforni, realizzati nei primi anni
Settanta). Una simil-olivetti per dattiloscrivere, ma inquadrata
di lato sicché la sua funzione abituale è gran in parte
32
occultata, negata (e, intanto, il “taglio” laterale della
rappresentazione appare, a tutti gli effetti, un modo di
trattamento straniante dell’oggetto da pop art citato e dei
dettagli iperrealistici che punteggiano la sua superficie), e i
contenitori con pertugi e fughe di porte e fili elettrici non si
sa a cosa collegati, e di che cosa motori (gli abitacoli sono
quinte teatrali, piuttosto, e i serbatoi misteriosissimi congegni,
o scatole di sorprese; siamo tra il 1974 e il 1975), li diresti
invece, senza tema d’errore, macchine celibi (sul modello
delle macchine sceniche barocche e di una strabiliante
invenzione delle avanguardie), stornate dall’uso corrente e
forse da qualunque uso. Infine, se il lirismo (magari
dietro suggerimento di una mitologia
contadina declinata su un futuro di
progresso, del quale è fatta
richiesta alla civiltà delle
macchine: così mi sembra
d i l e g g e r e n e l l a
Affrancazione delle terre,
un’opera ormai più che
trentenne) può investire
e c o p r i r e o r d i g n i
tecnologici e mutarsi in
l i r ismo della materia
(quella, in alcune tele di
S c e l z a , a c c e l e r a t a
vertiginosamente e deformata
dalla corsa libera e potente, rombante
di luce, di una moto), e se il montaggio di
paesaggio naturale e paesaggio industriale può
ingenerare sospens ioni e microc l imi meta f i s ic i
(particolarmente indicativa, sotto questo profilo, Fabbrica
del 1972), pure c’è il controcanto di una tuta di protezione e
di un fantoccio meccanico a vietare ogni estatica illusione, a
confutare idilli stordenti; e il garbuglio di strutture tubolari,
prossimo ad essere una macchia raggrumata di colore, andrà
attribuito, quanto alle sue motivazioni profonde, ad un
impeto gestuale di sapore liberatorio (ad una imposizione del
gesto pittorico oltre le costrizioni mimetiche, fuori della
gabbia di un universo perfettamente regolato e ordinato), e
tuttavia, in alleanza con il lavorio erosivo del tempo, vorrà
significare, anche, una implosione del mondo macchinizzato
e, insieme, sarà segno di crisi e di critica, di deliberata e
ironica cancellazione in sequenza dei luoghi tecnologici
deputati e della topografia simbolica della città. Ecco, il
“doppio carattere” di quelle matasse filamentose di tubi e,
insomma, la varietà delle declinazioni del tema della
macchina, non segue alcuna storia puntuale e lineare che
riguarda la civiltà tecnologica in cui siamo immersi: secondo
un tracciato che va dall’attrazione alla ripulsa, dal mito alla
demistificazione, dall’utopia alla disillusione, dal sogno al
risveglio. La varietà e la polivalenza dei ruoli e degli usi - e le
macchine di produzione, le macchine di tortura, le macchine
di festa - sono, invece, presenti contemporaneamente, in
azione simultanea, in tutte le fasi di questa
stagione d’esordio di Scelza. E si
r e n d o n o , a l d u n q u e ,
manifestazioni e sintomi della
curiosità golosa e vorace ma
c o n s a p e v o l e ,
dell ’attenzione critica
epperò propositiva e
capace di progetto e di
speranza, con le quali la
sua arte, fin dall’inizio, si
volge alla modernità e la
vive.
Marcello Carlino
33
FOR “PROJECT”: MEMORIES MACHINES
In considering some of Scelza’s paintings, that belong to this
expiring decade, at the end of this century, strikes us the
role, of motor and hinge, that the memory develops: that
memory, which the most recent scelzian autobiographies,
written in catalogue by himself, are used to relate, and to
that same memory that, since 1980, an intervention
dedicated to the magnificent heretic of Nola, Giordano
Bruno, bore witness, recognising just from the title the basic
value and the constructive energy.
Infact, rewriting and rielaboration are exercises of memory
accomplished with punctuality and analytic diligence, on
iconic patterns and, in particular, on a textual unicum of
Géricault; they are works of memory, which refer to the
planning patterns and, or better, to the research files of
Leonard.
Memory is for Scelza memory of art, stiles and painting
traditions, of iconographies (in the text and in its edge)
which have stimulated the collective imaginary and have
deeply animated cultural paths. Memory is, for this reason,
the recognition of a work as a complex, multiform itinerary
of voyages among signs, codes and expressive languages,
even as a backward exploration, that meets and sees again
(and does it necessarily according to a wished and inevitable
praxis) what has been just done, as an intertestual
procedure. But memory is not here pressed on the closed
forms of a sterile quotation; it is not a memory that runs into
a paradoxical conversion and that, in short, complies to a
self-negation and to an abjuration, neutralising itself in a
forgetful alignment of reperts, where the originality and the
authenticity are completely on the side of the mentioned
author, while the quoted act cannot burden itself with any
strong meaning and cannot be thought as a project, neither
as a future: all this, then have found a cover, to allow a
large band of supporters and praisers, under the capacious
and protective umbrella of the post-modern ideology.
Scelza painting doesn’t give up even a little to the post
modern ideology, and it is just memory its resistance point,
its opposition lever: a memory that refers, I think, to a
suggestion or - better - to a philosophic principle of Giordano
Bruno.
We know that the thinker, censured by Roman Inquisitor
and suffered at the stake, affirmed knowledge is not only a
science, but also a heroico furore, a spasmodic strain (in a
very high poetical temperature), due certainly, a parte
subjecti, to an incoercible fever to find a full meaning to the
human life in the world, but generated also, a parte objecti,
by the temporaries and transmutability of truth: a
temporaries and a transmutability written in the laws of
universe. Infact, although he was near to the Copernican
theories concerning the philosophy of nature, he affirmed
with extraordinary far-sightedness, unlike Copernico, that
there was not an unmoveable centre in the universe.
Now, many people have just discussed, for a long time and
without success, as a such hypothesis could incite to refuse -
on principles - any monocentrism and could authorise, on
the contrary - an antidogmatic polycentrism, fertile of
significant cultural potentialities; let it is ascertained, in this
contest, so it derives, on consequence, that just the
inexistance of a fixed star or of a motor immobilis and the
admission of polycentrism, rule the memory journey in
Scelza, on the other hand, the brunian intervention in 1980,
had as an added name “La macchina della memoria”.
There is no matter to go backwards, until we run into a
point (an image, a figure, a language, a style) that is or can
be accepted, as steady and unmoveable, conceded to the
dialectic of comparison. And it has nothing to do with a
funnel path, towards the prospective focus: from the
multiplicity (the experience where we have thrown ourselves)
to the unity (the origin, the archetype).
Scelza uses memory in a dynamic way, committing it in a
propositive and historically active task, of laic analysis,
research and complexity flinging. In finding examples with
value of test, we look to some paintings of the cycle “after the
manner of Leonard”. For one thing, their characteristic,
already underlined, is the availability on movement. It is a
rotator movement that is primed by the structure as a
spinning top with a circular radial base (that reproposes
some patterns - fragments of machines, parts of scientific
apparatus - traced by Leonard’s designs) and conveyed
(with results of fraying and centrifugal multiplication of the
34
image, that looks like spinning vortically as on a pin; a kind
of this rotor appeared also on a painting, in 1982, “Le
immagini che ruotano”) to the figure of an overhanging girl,
outlined according to the fifteenth-century canones and
roughed on Leonard’s iconographies; that figure turns
around and forms a sphere (spherical, exactly, like the Earth
or like the traditional, geometrical and symbolical,
representation of the Universe). It is a fanning of objects and
materials in the space, as from a nucleus that accumulates
(a tension accumulation, exactly) inclined planes,
perspective sectors, gearing, tierods and ropes, all that is
produced after an explosion, like in the “Isola of Leonardo”,
that is in the bottom like primer centre. Spiral-shaped
dynamics and pendulous swings, accurate like in a
clockwork, haunt almost all the showed pieces in “Macchine
di festa”.
Saying about these movements, in act and in work, means,
at once, saying that, for them or all round them, the memory
becomes an occasion of meeting for different languages. A
plain art made of grid, with signals that send to the collages
of the historical vanguards, holds - as if in a vice - and
stifles, somewhere, a nude of humanistic style, that - in the
vice - is becoming disfigured and similar to the typology of a
Michelangelesque prison (somewhere Sc. has haunted other
Michelangelesque figures and, in particular, the hand of
Creation). Under the “Ponti di Leonardo” the stream wraps
up itself in interwoven colour fibres and carries wreckage
whose workmanship - sometimes - reports to the cubism
iconography. Those plaited whirlpools, once more, are not
different from the silhouettes, next to the abstraction, used
in the symbolist season between the nineteenth and twentieth
century or by dynamic-plastic representations between pre-
futurism and futurism (I think to Medardo Rosso and the
first Boccioni) In the same moment, the coloured sky by
pyrotechnics, that projects on high material and objects,
recalls manifestly surrealistic skies, from Chagall to Mirò.
The variation of these experiences, the going across them
and reusing them in their copiousness, having begun from
Leonard and beginning again once that he meets him very
closely in the variety of his art (an art as research and
project) includes other meanings: there is not an event (or
writing or word or painting) that is not made up (or written
or expressed or painted again) when it’s carried in the time
of the experience; there is not study (or comparison or
dialogue) that is not widened and there is not true memory
whose fullness is not a large-ray excursion, a chain of
associations, a bridge system that puts in touch and in a
dialectical situation the like and the unlike; there is not
creative experience that is not, for this reason, research and
project, where the project, literally, I mean throw out oneself,
towards the future.
The birth has metonymical relationship with the project, in
its right semantic meaning; the birth is beaten in theme and
set up as a sense lynch-pin, whose signs are individuated in
the ovoid-shape, in the inwriting radial nucleus, in the
umbilical cord tied up to an anthropomorhous shaped stain:
the memory, in its full meaning, is also - antiphrastically -
prelude, beginning, birth: and there is not a full birth - a
birth that is a promise and hope, too - without memory. If
Leonard is the greatest genius of Humanism, a study and a
research experience dedicated to him, can mean for Scelza,
in all probability, to turn himself to that Humanism and to
grasp the necessity of a new humanism, that is built meeting
languages, souls and shapes that have marked our history:
we have to find them again, shoot them questions, reuse and
lend them to the future, to “pro-ject” them with a memory
work. And only in a new Humanism, that shows itself as an
open, conscious and multidirectional course of research,
there is a long way, an alternative, an opportunity of
renaissance.
Whatever the reason, the context and the historic prospects,
in which a need and a will of renaissance are justified, it
seems to me that it has been said by Scelza in the
immediately previous cycle, entitled “Zattera” and realised in
the last years of Eighties and at the first of Nineties. But, for
this time, Géricault is his interlocutor.
Choosing to compare himself with the work of art of the
romantic painter, that took inspiration from a real fact - the
wreck of “the Medusa” ship -, it is not a question of occasion
or unintentionity. As it often happens, might have the
35
suggestions of a moment occurred, seductions of structures,
of pictorial orchestration and colour, that have solidified
and sedimented so much themselves in the time that they
have set up the incipit and given gather way to the research;
but there is not doubt, in my opinion, that it has been the
iconographic item, worked by Géricault in a crucial
historical period and in a era of changing to strengthen and
determine in Scelza the will of analysis, interpretation and
ri-writing with “La zattera della Medusa”, as in a hand to
hand fighting.
The wreck iconography, taken from Géricault and that he
himself also had run again in a memory journey (looking at
Michelangelo and Caravaggio, among others), becomes in
Scelza the metaphor (of a strong meaning, because freed
from every engagement of documentation and realistic
transcription) of an historical apocalypse, of the epochal
mutations in the last years of Eighties: with political and
social systems that wobble, spoil and pull down, with trainer
ideologies that disappear because they seem to find not space
in the history anymore, with a false dead calm (after the
devastater and infection storm) that seems to made of
resignation towards everything that is in existence. Or by
unarmed acceptance of things ineluctability that hardly
covers whirlpools of contradiction (bodies, beaten, wrecked
pieces not already rendered from the sea).
Memory, in this scelzian pictorial cycle, works finding
instruments and calibrating languages, inserting registers
and styles, to report about present and to break into. Even
the emergencies of myth, that mark the discourse, have a
pertinence to the actuality: they talk about towards the end
(that is among the used names and titles) or about a twilight
of gods (or of the ideologies) that drops the curtain on the
past (and on all that has a sacral, iniudged value in the
past) without excluding new “mitopoiesi” (and here the
projective tension and the dynamic fling of the Muses,
guarantees and protectresses of arts that seem to cut water
and air, are very emblematic; emblematic is, in relation to
them, the manna-ash - the manna tree, that flanks, escorts
and supports them) and without resigning to think and
imagine new scenaries. The wreck is apocalypse, but
palingenesy, too; and Scelza - in my opinion - places the
accent, in this cycle inspired to Géricault, more on the
palingenesy than on the apocalypse: on the new beginning,
that we have to hope and to look for (and to look for
appealing to the memory and to a new Humanism), in a
waste and troubled land, where death and end-sensation
live.
Although the representation sight centres itself recurrently on
destruction images (broken axles, poles and trees), the
semantics of new beginning is written, in reality, in these
Scelza pictorial texts, with a so marked and persistent sign to
show itself dominant: to confirm the responsibility of an
active and intentional task (the will to hope, the strong
endurance to the existing acceptance) cannot disappear
below the ideological horizon, below the tensions field, below
the art tasks. Just the centrifugal force of the elements,
catapulted radiantly on the sea from the raft level, recalls
manifestly, together with the destruction but also as
antagonist polo, the constructive dimension of a
metaphorical stretching in flight, of a slipping from a pang,
of a soaring towards another place where other scenaries,
other destinies, other utopias can be imaginable and can
have some space. Who has pointed as this scelzian cycle is
characterized by removal emergence and by freedom
accorded to unconscious dynamics, has certainly excellent
reasons, on condition that it is added that the returns or
such liberations, and “everything of ludic manipulation that
is recognised in the woods and in the tables (and in the
varied reiteration of the wreck iconography; the listening
removal is gathered also in the reason that here Géricault is
interpreted and practised in a preminent key, that is
visionary) answers just to recognisable cultural design: to
recall and reanimate, for a new Humanism, also the subject
resources exploited before only in part (the most recondite
resources, those usually are sacrificed on the altar of the
super-ego, of the social control and of the art logic) lending
them to the activation of further potentialities of the artistic
work, to the opening of other discourse frontiers. To pick up
them, to conclude, in the ambit of a project.
Not casually, in fact, a very clean continuous thread there is
36
between the raft, whose fragments are strewn all around like
reconstruction seeds, that will be able to take root and bear
fruit, and the Leonard isle with utopian surrealist overhung
skies, because it is the place “par excellence”, where fantasy
and reason express themselves contributing to draw “more
human” different future (a future, also, in which, scissions,
breaks, and “ego” divisions are recomposed and the subject
is recovered in its whole totality. This continuous thread is so
strong and obvious that this experience could not exist,
really, without that one. And not casually, we can trace
many suggestions or syntonies, in the wooden boards of the
disjoined and surge broken boat (from theme and plant of
late-sixteenth century crucifixions to the sequences of Ceroli’s
wooden-writings). We can feel the clear trace, in my
opinion, of Mastroianni’s sculptures, in which, according to
a steady stylistic code, the destroying sense (contained in the
menaced and worrying iron arms, that are like war
machines) links itself, inevitably, with the constructive
energy (put in a futurist ancestors dynamism) of the plastic
fling that organized the material and gets it space and
breathing.
The plastic vocation of Scelza painting is certainly
obstinate, strong and of an overbearing physics; and it is not
enough the bodies weight, taken in a concise dialectic of
full and empty spaces, hollowed by the light (often by a
razor-slash of light) and modelled by violent “light and
shade” excursions (and this is one of the souls of “Gioco
degli Scuri”, in 1986, that is polyvalent even in the title):
bodies that the new figuration language folds and turns
from the Baroque realism to the Expressionism, in conformity
with a style that Sc. has never given up. That plastic vocation
needs a vaster habitat in which realising itself: it needs to go
out the painted area stretching and branching outside, to
interact, communicate and to agree completely with the rule
and the public task of art.
In this way it is possible to explain because, in his artistic
production of the later twenty years, the installations have so
much prominence, either alone or in connection with tables,
woods, cartoons and painting, as in a tridimensional text
with a bidimensional one on the opposite page; that it is
possible to explain also how Scelza elaboration, and the
events to which they are linked, distinguish themselves in
any case for a prospect of presence on the territory. On the
other hand, a project is not really the some if it is not
reported to a historical and geographic-cultural exactitude
of a contest and in reference to a waiting specific horizon.
In conclusion, in reference to a territory: a territory is like a
body, a living organism with its own memories, its own
values to refind and return against the prevailing disvalues,
a sort of its own Humanism to snatch out to the barbarity
that presses it: a territory to achieve again and in which live.
The paintings Stucchi colorati dal Sole are thought for the
territory, to be soaked inside, bear witness, extract another
history from that current, to impress the imagine and the
sense of a new possible history, of a radically different sign
(the sign of the “festivity”, the sign of a new recovered
collective life). The paintings Stucchi colorati dal Sole are an
intervention made in Catania in 1984, an intervention, of
course, not inspired to the logic of an aesthetic
decontextualization (of a self- turned enucleation of
elements, of a free pleasure of the test). In this work the
baroque performance of some particular outlines of the
town, hidden by a usually or troubled habitual visiting (an
habitual visiting with closed eyes, that let more look at than
see), means allusively the performance of the whole town, its
turning out in public, so its feasibility, its self-appropriation,
the restoration of its frustrate and denied identity that the
same town realises.
Stucco-works and balconies, woods and cartoons, belong to
machine category in their variety of materials and also in
their plastic exuberance, in their workshop and handcraft
die (and collective, sometimes) and in their making, in
finding a continuity and a dialectic link between interior
and exterior (all this is a chosen cultural product of Baroque
and, in particular, of borrominian architecture). In fact,
the machine is a little the unitary thread - the invariable
structure - of Scelza experiences of his last twenty years.
Machine like baroque piles, theatrical machine (that were
used in seventeenth-century representations and
accompanied the “coup de théatre”, in the ending), sacral
37
and ritual machines, machines of festivity: machines like all
that of articulate and complex man can realise, for
experience, passion and knowledge: machines like
mechanisms and apparatus realised interlay by a project
work, by human fantasy and reason: instruments whose
structure consists in a kinematic relation of components
and whose function , among the others, is also the
transformation and energy transmission.
A sub-title as “La macchina della memoria”, marks and
comments to the brunian intervention in 1980, at this point
sums up and declares essentially the basic reasons of Scelza
next artistic experiences. That name, machine, has a
prognostic value and loads, emblematically, the memory
with dynamic tension and propulsive force: but it has also a
retrospective value and serves for specifying, definitively in
my opinion, ambits and edges of his pictorial work in his
former ten-year period.
The comparison with the technological universe that Scelza
was realising in that time, drawing together with others that
were experimenting their own “new-figurative” language on
“social” objects (it was named, opportunely, Calabria and
Turchiaro) seems to me being characterised for its
polymorphism and its polyvalence: this comparison, in fact,
is led from more perspective corners and so it has to consider
different points of view.
The tubular elements sequence is sometimes a really true
labyrinth (and labyrinth is chaos, but order too; it is a
dismay and wandering symptom and, together, a challenge
symptom; on the other hand, it is born as a challenge, in the
classic mythology), that moves from the interior, from a
factory enclosure, to the town outside (matching, meanwhile,
industrialization and urbanization). The sinusoid of an
iron stair (with below a man’s bending shadow) points out
an alienation path and belongs to the family of the infernal
machines, like those, gloomy and threatening, that often are
the background to the black and white old masterpieces of
the expressionist cinema (and infernal machines are
Altiforni , realised in the first Seventy years). Similar is the
building in City, in 1973, that is an assemblage of a mincer
shaped geometric solids, with a slim tower over and, on the
top, a handless watch, similar an inquisitorial eye, able of a
strong censorial supervision and of a uncontrolled and
absolute dominion. At last, the lyricism (perhaps suggestion
of a rural mythology waned on a future of progress, that is
required by the machine civilisation: so I intend in
Affrancazione delle terre, a more then thirty-year-old
painting) can also invest and cover technological implements
and changing itself into a lyricism of the material ( in some
Scelza paintings, that material dizzily accelerated and
deformed by the free, potent, light roared run of a motor-
bike. At last, the assemblage of natural and industrial
landscape can also generate suspense and metaphysical
microclimates (from this point of view particularly
indicative, is Fabbrica in 1972), but there is the contrast
between a protection overalls and a mechanic puppet to
forbid every ecstatic illusion, and confuting stunning idylls.
And the embroilment of tubular structures, on the point of
becoming a clotted stain of colour, will be attributed to a
gesture surge of liberating smack, and nevertheless, in
alliance with constant work of erosive time, it will mean an
implosion of mechanised world. All this will be a sign of
crisis and criticism, of a deliberated and ironic striking off
in sequence of the deputed technological places and of the
symbolic topography of the town.
That is the “ double character” of those threadlike skein of
pipes and, in short, the variety of the machine theme
declinations that does not follow any punctual and linear
history that concernes the technological civility in which we
are soaked: according to a lay-out that goes from the
attraction to the repulsion, from the myth to the
demystification, from the utopia to the disillusion, from the
dream to the reawakening. The variety and the polyvalence
of rules and uses - and the production machines, torture
machines, festivity machines - are, instead, present in
contemporaneity, with a simultaneous action, in all the
phases of his Scelza beginning season. And so are given
manifestations and symptoms of a greedy and voracious but
aware curiosity , of the a critical attention, that is also
propositive and able of a project and a hope, with whom
his art, from the beginning, turns towards the modernity
38
IPOTeSI dI creScITA TecNOlOgIcAlA cITTA’
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...Poi la tua fuga su una collina ciociara: i boschi, le montagne
tutte intorno, la solitudine dei campi divennero nutrimento
quotidiano. Nacquero in quella pace, i i tuoi piccoli anelli,
«come una manciata di coriandoli», come un esercito di
bocche di ramoscelli gridanti dalle erbe all’uomo il loro
accorato legame. Sulla collina l’amicizia di Aldo Turchiaro si
aprì fiduciosa alla scelta delle tecniche migliori e
all’approfondimento delle problematiche proprie della pittura.
Finché volesti Roma (1967).
Furono duri i primi tempi: alzarsi all’alba era una necessità per
raggiungere la scuola lontana, ma erano contro il sole
nascente che si stagliavano gli infiniti tubi tutti intorno alle
strutture in cemento armato grattacieli dell’EUR: quelle
strutture ti affascinavano, ti stordivano e subito divennero
elementi della tua anima. Non più dalle erbe, ma da un mare
di metallo, le bocche di ramoscelli mutate in alberi giganteschi
invitavano al riposo tra tanti colori.
Ecco: cominci a costruire con ogni sorta di metallo visioni di
un mondo in cui ogni struttura è legata a un geometrismo
esasperato e insieme sospesa nel vuoto, in un assurdo e quasi
folle incrociarsi di panchine, sedie a sdraio, nuvole-uccelli e
piccoli uomini fatti di gesso; perché anche questi in realtà non
sono uomini ma soltanto oggetti che ricordano l’uomo, piccoli
automi. Nell’orditura delle mille cose presenti, ferme o
sospese nello spazio, nel gioco dei blù, rossi, dei grigi lucenti,
il gesso degli uomini seduti, al confronto, è sì affermazione di
finitezza, di accettazione supina dell’arcano, ma anche di
serenità, di gioioso adattamento a una nuova realtà fantastica
nella quale ogni interrogativo non ha più senso e tutto è
diventato un balletto senza requie nell’infinito azzurro del
nulla.
Sogno? Volontà di evasione da una realtà angosciosa in cui
sembra che l’uomo abbia perduto ogni traccia di spiritualità e
che ogni fiducia in lui va smarrendosi ?
Può darsi, ma soprattutto bisogno di tradurre in poesia del
colore vertigini dell’anima, amplessi strazianti col mistero del
nostro vivere e del nostro morire.
E cosa è un tuo « HABITAT»? Immagine di una consapevolezza
costruttiva nell’ambito di una dimensione urbana, ma anche
porzione di cristallo dalla quale traspare la tua pena segreta,
la tua speranza dolente di un mondo fatto di bellezza e di
amore.
E di silenzio anche. Quel silenzio di cui, per tua mano, erano
pervasi i disegni dei tuoi primi allievi e che ora ritorna.
Ma, ora, l’urlo è dentro le immagini, perché tutto è immerso
nel vuoto: porte e finestre viste come frammenti di una realtà
metafisica, sono indicative di un’esperienza che non consente
più illusioni sull’abitabilità umana di una città.
Le immagini successive, materiali plastici e metallici,
fabbriche, hangars, stadi, edifici ci danno la conferma di una
vocazione costruttivista, legate come sono al mondo della
tecnica. Esse sono costruite con un geometrismo allucinante e
se indubbia è la presa che afferra per un deciso nitore
cromatico, si sente tuttavia che una sorta di ambiguità viene
alla superficie per il dramma incombente: da un lato il fascino
della bellezza che è conquista dell’uomo - il prodigio
tecnologico è ormai incontestabile - , dall’altro la paura che è
nell’inconscio, come uno spettro che è in noi, che a mano a
mano ci divora, vanificando ogni tentativo di liberarcene: la
macchina perfetta che abbiamo costruito per inseguire un
sogno, ci scoppierà tra le mani e sarà la fine...
Daniele Majone
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Mare a Pozzuoli, 1968 - olio su tela cm 70x120
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A MAN FROM THE SOUTH IN THE MEGALOPOLISApril 1972
UN MERIDIONALE NELLA MEGALOPOLIAprile 1972
Italo Scelza, che proviene dal «profondo Sud» dell’Irpinia,
racconta nelle sue tele l’angoscia del meridionale che incontra
la megalopoli. Una angoscia, che si manifesta con degli ampi
squarci bianchi su tappeti metallici di tubi rosso minio, ma che
conserva una poesia antica e delicata. Può esserci poesia in una
struttura metallica, in una metropoli schematica e impersonale?
Scelza risponde affermativamente anche se questa poesia è
piena di nostalgia e di angosce. Non è l’alienazione
consumistica; è la grande solitudine dell’uomo nella megalopoli.
Nell’efficace «Piazza d’ltalia», nel «Giardini Pubblici», nel «Grande
Albero», nella gamma degli azzurri puliti e dei rossi aggressivi
nella loro monotonia e vastità, si ritagliano solitarie delle
sagome bianche senza volto: gli uomini della grande città. La
solitudine degli uomini separati dalla struttura urbanistica o
dalla selva di tubi scarlatti. L’uomo, la fabbrica, la città. I tre
elementi delle megalopoli che però si trovano su piani diversi:
sembrano vicini e frammisti, ma sono talmente lontani perché
su dimensioni diverse che non si incontrano mai. Si possono
confondere, ma non si incontrano. Questo il messaggio che
Italo Scelza trasmette con le sue tele con pudore e molta poesia,
senza violenza ma con molta angoscia? E con una tecnica
pittorica veramente importante che ripudia il facile e
l’impreciso. Eppoi gli «alberi»: gli strani alberi di Italo Scelza fatti
anch’essi di tubi aggrovigliati. Alberi decorativi, tracciati
minuziosamente a mano con migliaia di cerchi grigi, verdi, blu,
gialli, viola: alberi o ciminiere? Decorazione non «natura», come
è il «verde» nelle grandi città. Metafisico fantastico e metafisico
surreale? Entrambi. Perché le megalopoli sono sempre più
fantastiche e sempre più surreali. Scelza coglie questa realtà nei
suoi «alberi» che sono, assieme alle sagome bianche e agli
squarci candidi e angosciosi, i temi ricorrenti di questa sua
prima «personale» cui il giovane pittore meridionale è giunto
dopo una intima crisi che gli aveva fatto appendere al chiodo
tavolozza e pennelli. L’impatto col metallo risveglierà poi la sua
vena pittorica, la sua indole poetica fatta di angosce e paure
che il pittore esalta con la nitidezza della sua grafia, con la
chiarezza dei suoi colori. Nessun crepuscolo, molta solitudine.
Dove andrà Italo Scelza? Una risposta c’è, a nostro avviso,
nell’ultima delle sue tele: «il Grande prato». Un quadro notevole.
Uno squarcio di pianura composto da un tappeto di tubi verdi,
azzurri, marrone che si perde nell’orizzonte: la campagna
metafisica di domani ?
Italo Avellino
Italo Scelza, coming from the “deep South” of Irpinia, narrates
in his paintings the anguish of the Southern man meeting the
megalopolis. His anguish expresses itself through big white
lacerations on metallic rugs made of minium red pipes, but it
keeps an ancient and delicate poetry. Can poetry exist in a
metallic structure, in a schematic and impersonal metropolis?
Scelza affirms it can exist, even though this poetry is full of
anguish and nostalgia. It is not the alienation of the consumer
goods era; it is the deep loneliness of man in the megalopolis. In
the effective “Piazza d’Italia”, in “Giardini Pubblici”, in
“Grande Albero”, ir the range of clean blue and red colours,
aggressive in its monotony and vastity, there are solitary white
shapes with no face: men in the big city. The solitude of men
kept away from the urbane structure or from the wood of scarlet
pipes. Man, factory, city. The three elements of a megalopolis are
on different levels: they seem near and mixed, but in fact they
are very far, because they find themselves in different dimensions
that never meet. They can get mixed, but they never meet. This is
the message Italo Scelza is conveying through his paintings,
showing chastity and poetry, but also a deep sense of anguish,
and through a very important pictorial technique refusing what
is easy and not precise. And then there are “trees”: the strange
Italo Scelza trees also made of entangled pipes. They are
ornamental trees, drawn in detail by hand through thousand of
grey, green, blue, yellow, violet circles: are they trees or
chimneys? They are more a decoration than “nature”, like
“green” spaces are in big cities. A fantastic metaphysical or a
surrealistic metaphysical element? Both, because a megalopolis
is more and more fantastic and metaphysical. Scelza portrays
this reality in his “trees” that, together with the white shapes and
the innocent and painful lacerations, are the most significant
topics of his first one-man exhibition, which the young Southern
painter has attained after a long crisis, during which he had
stopped painting. The impact with metal will wake his pictorial
creativity, his poetry made of anguish and fears exalted by the
painter through his shining graphics, and his clear colours.
There is no dusk, but still a deep loneliness. In what direction is
Italo Scelza going? We think the answer is in his last painting:
“il Grande Prato”. This is a remarkable picture portraying a
plain structured as a rug of green, blue, brown pipes dissolving
in the distance: is this the metaphysical country of tomorrow?
Italo Avellino
43
Tra le tante ipotesi sull’esito di una crescita tecnologica postulata come alienante, questa di Italo Scelza non è poi la peggiore, e si direbbe anzi, stando al giuoco sottile dell’ironia che la pervade, ch’è da sottoscrivere senz’altro, a scanso di più temibili approdi. Troppi discorsi su codesti approdi, facili profezie spontanee o indotte di tanta giovane pittura fino a ieri, sono stati sgambettati dal loro stesso pessimismo: non tanto per essersi fatti più realisti del re, quanto per l’acquisita coscienza di uno spreco, soggettivo e oggettivo, che avrebbe potuto in verità assumersi in linea di principio prima ancora d’essere registrato nei fatti. Scelza, diciamolo subito, non è epigono di un’arte denunciataria che ha fatto il proprio tempo, se mai ha avuto un tempo proprio; la sua pittura non ha semplici o facili equivalenti verbali, non è insomma, per smentirci prontamente, un’ipotesi, bensì appunto pittura, con tutta l’autonomia, la complessità e la specificità che ne consegue. Evitata con questa pregiudiziale la remora della prevaricazione socio-politica vediamo ora liberamente qual’è il mondo prospettato dalla fantasia di Scelza, sicuri dunque che di fantasia appunto si tratta e non di programma ideologico. Quel mondo si desume facilmente dalla lettura dei singoli quadri, seppure lettura ancora parziale e di comodo espositivo. Da una parte si vede un «Giardino pubblico», di null’altro costituito che di una serie di piani orizzontali in fuga verso un orizzonte inesistente, con panchine, che sono astratte prospettive mentali, popolate di omini di gesso, e la vegetazione ridotta ad alberelli assai poco verdi ed assai poco lussureggianti. Nell’«Albero sulla fabbrica», sui tetti rossi dell’opificio, tagliati ed appena visibili, quasi emarginati come appendice d’un mondo superato, giganteggia un albero di trucioli metallici, di retìna tagliata in brevi filtri ricurvi, sul quale gli stessi omini gessosi, quasi membri anonimi di un medesimo anonimo esercito, se ne stanno come in vacanza, si direbbe assunti in eterna vacanza. Il «Grande albero» è una sorta di sagra dai colori vivaci, come una manciata di coriandoli che prendono corpo e diventano selva di tubi colorati, cespugli metallici, sedie a sdraio sospese in un festoso tecnicolor dove gli uomini si aggirano o siedono smemorati. Nella «Piazza d’Italia» non sono manichini né statue silenti, ma fredde squadre d’acciaio a misurare uno spazio asettico, un ordinatissimo labirinto di tubi sul quale operai senza volto sono intenti a un lavoro misterioso. Si potrebbe continuare, ma ognuno vede, nella breve caratterizzazione che se n’è data, i tratti di un mondo snaturato, dove tutto è fittizio ed inutile. La natura ha preso la consistenza assurda di un metallo, a sua volta quasi organico
e come verminoso; le strutture urbane seguono una lucida follia senza storia né scopo, non hanno funzione alcuna e non sono in alcun modo utilizzabili - eppure risultano abitate da uomini che sembrano trovarsi a tutto loro agio. È indifferente che l’albero nasca dalla terra o resti sospeso nel vuoto, e i tubi che popolano la «Fabbrica sulla spiaggia» sono animata congerie da cui si leva un brusio indecifrabile. Il sogno di Scelza non è quello di Chagall, manca del sorriso e della malinconia, del dolce, accorato, appassionato stupore che sono di un vecchio mondo in cui si è vissuto e amato e sofferto. È piuttosto il sogno reale e allucinante di Gregorio Samsa, o quell’altro, cui ci conducono i binari scorrevoli di questa vertigine tecnologica, laica e consumistica.Ma siffatta lettura è ancora parziale, e Scelza non è moralista ma poeta. Se l’uomo di codesto suo strano mondo non sembra registrare alcun disagio bisogna pure riconoscere che l’ambiente in cui esso vive compie uno sforzo considerevole per confortarlo.Un bioccolo spumoso di detersivo levato dal vento a offendere, a contaminare la chioma pure farraginosa di un albero è in realtà nuvola, gigantesca farfalla che si posa tra grigi verdeazzurri. L’albero non frutta rifiuti, tubi o ferraglia, ma questi son frutti sognati, dove il vermiglione canta sull’oltre mare e il bianco vi s’accorda vibrante. E nel giardino, la singolare verzura ricciolata, come di bigodini non ancora tolti, si leva in volo, a sciogliere nella fantasia i nodi della ragione. L’artista, in altre parole, si muove lungo una prospettiva scelta con la partecipe coscienza di appartenere a un tempo che di scelte non ne lascia troppe - e lo dimostra il cammino compiuto dalla sua pittura, da una materia corposa e da una visione mossa, anzi sommossa da una spinta romantico-espressionista, all’approdo di queste calcolate politezze; ma su quella prospettiva opera poi con ammirevole fedeltà alla matrice lirica ch’è la sua più profonda, ad essa riducendo ogni assunto intenzionale, che senza smentirsi cambia tuttavia natura, e il giudizio si colora d’ironia, e lo sgomento stupisce in una estasi incantata e disincantata insieme. Prendiamo coscienza, sembra voler dire Scelza, dello slittamento pericoloso e assurdo che stiamo vivendo; ma la sua pittura confonde la semplicità di quel concetto, lo smentisce e lo arricchisce, ne annega il senso letterale in quello di un’esperienza ben più complessa e implicante, dove la ragione è quella appunto della fantasia, e non v’è rischio senza la salvezza - limitante quanto risolutiva - dell’arte.
44
IPOTESI SULL’ESITO DI UNA CRESCITA TECNOLOGICARoma, 1971
45
La piazza d’Italia, 1970/71 - olio su tela cm 180x220
46
La fabbrica sulla spiaggia, 1970/71 - olio su tela cm 155x147
47
La primavera di plastica, 1970/71 - olio su tela cm 125x125
48
Albero alla Magliana, 1970 - olio su tela 150x160
49
GARDENS OF THE FUTUREPaese Sera, Novembre 1971
There will be a day when you have quarters and gardens
with a lot of space, and where everything is going to look
cleaner, as if washed by a tanker. Polaroid plates (for
rational dosing and filtering of light) will protect and
regenerate daily in its large spaces your sight, put on test by
work. Undergrounds with thermic power stations and
irradiation plants of ultraviolet rays, now urban structures,
will guarantee climatization and eliotherapy in colder
seasons. You will breathe air and you will absorb water with
no smog e no bacteria: purified by huge ozone distributors.
From this world, analysed with screens and filters (in which
neurosis will be a memory of the past), from this very rational
habitat, you will look at the Fourier Falansterio as if looking
at a prehistoric episode of utopistic philosophy. This could be
one of the ways of reading the futurist fable painted by young
Italo Scelza (Ciak Gallery). Of course, as with all fables, this
too has a moral.
The moral consists, as obvious, in saying that everything
would be too clear, too frozen, too tediously “hygienic” to
reflect our desires; that if in today world there is too much
disorder, in that Falansterio (distorted projection, with a light
hand, of certain little promises made, but not kept, by tv
consolers of the moment) there is too much order. In other
words, the moral says that we do not need such a number of
corrections to our discomfort.
As if to say, as a conclusion: do not “rebuild” nature, make it
better (or, at least, do not abandon it to what technology is
doing at its back, prevaricating it). Give us half of what you
are foretelling, which will be enough for our life to be human
(and will leave a little margin to our legitimate “appetite for
disorder’’).
Should we interpret this as a funny invitation to read such
representation of utopia upside down? No, this is an
exaggeration. Scelza is a lyrical artist, and he does not want,
or cannot drive us to touch a complete fraud, hidden behind
such a clear representation of the possible future, as his
rappresentation is.
Giuffré is right in his preface, when saying that the possible
deception about the meaning of such a painting is in that
limbo of enchantments where the artist lives and makes
others live.
Duilio Morosini
I GIARDINI DEL FUTUROPaese Sera, Novembre 1971
Verrà il giorno in cui avrete quartieri e giardini con uno spazio
da vendere ed in cui tutto vi apparirà più che pulito, passato
all’autoclave. Nelle sue grandi distese, lastre di polaroide (per il
dosaggio e filtraggio razionale della luce) proteggeranno e
rigenereranno quotidianamente la vostra vista messa alla prova
dal lavoro. Sottosuoli con centrali termiche ed impianti di
irradiazione di raggi ultra violetti - diventati servizi urbani - vi
garantiranno climatizzazione ed elioterapia nelle stagioni più
impervie. Respirerete aria ed assorbirete acqua senza smog e
senza batteri: depurate da giganteschi distributori di ozono. Da
questo mondo, passato al vaglio di tanti schermi e filtri (nel
quale la nevrosi resterà un brutto ricordo del passato), da
questo razionalissimo habitat, guarderete al Falansterio di
Fourier come ad un preistorico episodio della filosofia
utopistica. Ebbene, questo potrebbe essere uno dei modi di
leggere la favola avveniristica dipinta dal giovane Italo - Scelza
(Galleria Ciack). Naturalmente, come tutte le favole, anche
questa ha la sua morale.
Una morale che consiste - è ovvio nel dire che tutto ciò sarebbe
troppo nitido, troppo terso, troppo ibernato, troppo
noiosamente «igienico» per corrispondere ai nostri desideri.
Che, se nel mondo di oggi, c’è troppo disordine, in quel tale
Falansterio (proiezione distorta - da una mano leggera - di certe
più spicciole promesse che ci vengono fatte - e non mantenute
- dai televisivi consolatori di turno) ci sarebbe troppo ordine. In
altre parole che non abbiamo bisogno di una tale dovizia di
correttivi al nostro disagio. Come dire, per concludere: non
«ricostruiteci» la natura, miglioratecela (o, perlomeno, non
abbandonatela alla prevaricazione che la tecnica sta
esercitando, oggi, alle sue spalle). Dateci, insomma, la metà di
quanto profetizzate, che basterà all’umana misura alla nostra
vita (e lascierà al nostro legittimo «appetito di disordine» quel
minimo di margine che gli ci vuole). Ebbene, dobbiamo
interpretare tutto ciò come uno spiritoso invito a leggere a
rovescio questa figurazione dell’utopia? No, non esageriamo
Scelza è un lirico, e, come tale, non intende - né può - indurci a
toccare con mano una totale impostura, occultata dietro una
tanto limpida rappresentazione del futuribile, quale è la sua. Ha
ragione - ecco - , il prefatore - Giuffrè - la dove dice che
l’equivocabilità circa il significato di una pittura come questa,
resta pur sempre sospesa nel limbo degli incantamenti di cui
l’autore vive e fa vivere.
Duilio Morosini
50
Per come stanno, oggi, i rapporti tra arte e società, non credo
sia di qualche utilità derivare dalle opere più certe di un
pittore o magari di una corrente viva qual è quella attuale dei
giovani neometafisici attivi tra Roma e Bologna (di contenuti
urbani e non mitici mediterranei) una ricetta di pittura della
realtà con una pronta indicazione ideologica di maggiore
utilità sociale, di più efficace comunicazione, insomma di un
lirismo urbano al servizio della lotta di classe.
Questa del lirismo urbano è una ricerca in atto e va lasciata
libera, anche se ora aiutata o contraddetta nell’analisi e nei
risultati da noi che facciamo cronaca e critica. Anche perché è
difficile dire, oggi, se si riesca a dare forma esatta al senso
storico-esistenziale del tempo e dell’ambiente nostri più con
la potenza del comico e dell’ironia, oppure con la violenza
del terribile, oppure ancora con la grazia del lirismo metafisico
che dà evidenza all’apparizione di nuovi segni, oltre quelli già
manifestati nello spazio del quadro, d’una «profondità abitata»
contemporanea tutta da conoscere e da far conoscere. E
lascerei posto anche all’ipotesi che si debba, invece,
sgomberare il campo dell’esperienza di tutti o quasi tutti i
vecchi segni, magari per dare soltanto evidenza contestatrice
e provocatoria al rifiuto vero, al vuoto, al nulla.
Lo si potrà dire per un’esperienza di tempo lungo. Intanto,
ciascuno, artista o storico o cronista, o anche negatore di tutto
ciò, stia dentro il tempo, contribuisca a fare quello che egli
crede sia il nostro tempo, con senso umano ricco e esatto,
tendenzioso e combattente ma senza ricette per mentire sul
fatto di tenere o no in pugno la vita.
Italo Scelza, dal 1969 in qua, ha avviato una ricerca solitaria,
che è nella sua natura, nel suo modo di vedere e pensare, ma
con lo sguardo bene attento alle ricerche tra analitiche e
visionarie di altri giovani: ha visto la «tessitura» visionaria di
verdi, azzurri, grigi e bianchi dei fantasmi sociali di Ennio
Calabria, ha visto anche la favola primitiva e ironica «alla
maniera del Doganiere Rousseau» sulla natura che si mangia
la tecnica che va dipingendo Aldo Turchiaro.
Le immagini di città e di natura che qui presenta Italo Scelza
sono ricche di significati e la serenità della visione è come la
preparazione a un’apparizione altra portatrice di significati
altri. I quadri sono sempre costruiti con energia, grazia, ironia.
Il fatto che il mondo sia dipinto come uno spazio dove
l’immaginazione può muoversi con movimenti quasi musicali,
di balletto - il «ballet mécanique» di Fernand Léger, perché no?
-, non significa cancellazione o svista dei contenuti tragici e
violenti del mondo, anzi.
Italo Scelza parte dalla realtà ma corre avanti con
l’immaginazione. Venuto alla città da luoghi di antica
campagna e di più antica natura, ora ne restituisce
un’immagine costruita dal punto di vista della città, con le
idee e l’esperienza della città industriale, tecnologica e
consumistica.
Le occasioni poetiche per quella che diventerà l’immagine
visionaria possono essere le più quotidiane e banali: i
materiali plastici e metallici dei cantieri, le fabbriche, le
macchine industriali, le vernici, i vapori chimici, il gioco e il
conflitto di tutto ciò con l’antica natura: ne viene fuori un
«palcoscenico» lirico neometafisico con un balletto di forme e
colori bene armonizzati tra il minerale e l’organico. E quello
che poteva essere un carattere originale ma sperduto in
un’immagine tradizionale della natura - il costruire «tubista»
già usato da Léger negli anni venti e da Malevic realista
cubista alcuni anni prima - viene ripetuto ossessivamente,
anche se con grande armonia, fino a diventare un carattere
tipico e fondante per la metafora. Ha capito il lirismo urbano
di Titina Maselli.
Tutte le immagini sono molto costruite e non c’è posto per
niente che non sia costruito e non segua, nella crescita, un
metodo, una geometria; le piazze d’Italia (De Chirico forse ci
si orienterebbe borbottando ma abbastanza soddisfatto), i
giardini, le spiagge, le valli, le case, gli alberi, le nuvole, le
acque è tutto ricondotto alla visione di una fabbrica generale
con sagome di troppo grande e incontrollabile.
L’immagine ironica ha una sua calcolata ambiguità: c’è bellezza
delle cose ma anche spettralità. Da pittore intensamente lirico
com’è, Italo Scelza lascia all’uomo, e non alla tecnologia e alle
macchine, il significato e la prospettiva della costruzione.
Dario Micacchi
I CONTENUTI URBANIAprile, 1972
51
...Italo Scelza starts from reality, then goes on to imagination.
He moved to the city from places of old country origin and
from an even older landscape, and he now gives us back a
picture filtered by the urban viewpoint, based on ideas and
experiences of the industrial, technological city, a city of
consumer goods.
The poetic inspirations of what becomes the visionary image
can be very common and off everyday life: plastic and
metallic materials used in construction sites, factories,
industrial machines, paints, chemical exhalations, the game
and conflict of modernity with old nature; the result is a
lyrical and neometaphysical “stage” where a dance of forms
and colours is performed, a harmony between the mineral
and the organic elements. What could be an original feature,
but lost in a traditional image of nature - the “tubist”
structuring already used by Léger in the 20s and by realist
cubist Malevic some years before that - is here repeated
obsessively, even though with deep harmony, to become a
typical and basic feature of metaphor. He has an
understanding for the urban lyricism of Titina Maselli.
All images are structured pretty much, and there is no place
for what is not built and does not use a method, a geometry
in growing; the Italian squares (De Chirico would probably
look at them grumbling, but he would be rather satisfied), the
gardens, the beaches, the valleys, the houses, the trees, the
clouds, the waters, everything is united in a vision of a
factory with too big and uncontrollable figures.
The ironic image shows a calculated ambiguity: there is beauty in
things, but also a ghostly feeling. Italo Scelza is an intensely lyrical
painter leaving to man, and not to technology or to machines, the
meaning and perspective of building.
Dario Micacchi
URBAN CONTENTSAprile, 1972
52
Canta un inno, auguri di primo maggio: «Compagno sole, /
non drizzare gli aculei, non sgattaiolartela! / Ordina / alle
nubi / di liberare le strade. / La festa odierna / è la festa dei
lavoratori. / E non sabotare: / Sorgi e illumina!».
Majakovsky
A hymn sings, have a happy first of May: "Comrade sun, /do
not erect your stings, do not run away! / Order / clouds / to
free the streets. / Today's feast / is workers feast. / And do not
sabotage: / Rise and illuminate!"
Majakovsky
53
54
Officina uno, 1972 - olio su tela cm 170x170
55
Stadio, 1972 - olio su tela cm 150x150
56
Officina tre, 1972 - olio su tela cm 120x120
57
Case al Salario, 1972 - olio su tela cm 100x110
58
59
glI OggeTTI
60
... ecco un altro materiale d’uso ed anche assai
volgare, portato alla poesia con invenzione
luminosa. Mi riporta alla terra e alle stagioni Italo
Scelza con il suo trittico di verdi, bleu e con
bianchi poeticamente rubati alla pittura murale
delle sacre pareti umbre: colore-materia di una
Italia che si può amare, colore-materia di un
Mediterraneo che può essere ancora grembo, di
una natura da vivere dentro la storia con
naturalezza, con dolcezza, con amore che mi
riporta all’antica arte.
Dario Micacchi
... there is another material of use, and very
popular too, carried to the poetry with a light
invention. Italo Scelza carries me again to the
earth and to the seasons with h is trittic of green,
blue and white poetically rubbed from the mural
painting of the umbre sacral walls: color-material
of a lovely Italy, color-material of a Mediterranean
that can be still womb, of a nature that can be
lived into the history withty, with sweetness, with a
love that carries me again to the old art.
Dario Micacchi
61
Quella dell’ironia è una linea maestra nella vicenda artistica del nostro novecento, e lo è con una varietà di gradazioni tanto ricca quanto composita, dall’iroso sarcastico al beffardo acidulo al satirico blando, finalmente alla grazia sorridente, all’umorismo lieve, al capriccio. I busti per una galleria da allestire idealmente contro il tetro museo della retorica patria o del pigolìo intimistico non mancano, magari senza sovrabbondare: e computando doverosamente e con onesta sapienza gli imprestiti e gli incroci e le generose contaminazioni tra creatività figurativa e creatività letteraria, per esempio, peraltro plateali in epoca di avanguardie storiche, si può abbastanza agevolmente giungere a riempirne tutte le nicchie. Svevo e Palazzeschi, tanto per cominciare, occuperebbero forse le due più grandi, e comunque le due più visitate: loro che, quanto a amicizia e frequentazione di artisti non sono secondi a molti, nel secolo.E coi risultati che sappiamo. Tra l’altro, in modi anche imprevedibili e di grande iniziativa fantastica, a me pare che il palazzeschiano lasciatemi divertire! continui a lievitare, e a dar frutti, almeno in tutta una già matura fase dell’operosità di un pittore giovane come Italo Scelza, tra il ‘69 e il ‘72: naturalmente, con tutta la capacità evocatrice di sottile disagio che ogni «divertimento» e ogni lirica grazia oggi comportano.Colpiva, nelle sue tele di questi anni recenti, una sorta di innocenza impassibile che si trasformava di colpo in identificazione magica con gli oggetti e col paesaggio. Quanto di allucinato emergeva da quelle spettacolose vegetazioni cilindriche, da quelle fantasie ballerine di tubi in cui restavano come impigliati in una giostra, sedie, macchinari, omìni pallidi e sfocati bioccoli nuvolosi di detersivo, non implicava comunque da parte del pittore alcuna soggezione feticistica. Il suo occhio coglieva la loro aggregazione geometrica e la loro disintegrazione plastica e cromatica con assoluta, gioiosa imperturbabilità: il baratro con tutto il suo orrore si apriva sempre un attimo prima, o un attimo dopo. Quella che Lacan chiama jouissance, marcava il fiabesco universo tecnologico di quel periodo della figurazione scelziana di significati dai quali rimaneva costantemente assente qualsiasi oscurità viscerale, qualsiasi buio dell’angoscia. Lo spettacolo fruiva di una luce totale, mediterranea, abbagliante: e l’unico coefficiente di malessere veniva comunicato, stranamente, dal rigore fanatico dell’esecuzione, dall’esibizione tranquilla e quasi impudica delle forme che celebravano una coesistenza pacifica (il cui prezzo non veniva enunciato se non dall’esiguità minuscola delle sagome umane, tanto simili a innocui ectoplasmi) tra mondo della tecnica, mondo vegetale e presenza dell’uomo. Le opere e i maestri che la pittura di Scelza aveva attraversato con la sua deliziosa turbolenza venivano immediatamente alla mente e allo sguardo, per sparire subito dopo, pacatamente travolti dopo l’uso dalla sua grazia felice, dalla sua (im) pertinente ironia: Mirò e le «piazze d’Italia» di De Chirico debitamente degradate al livello dell’ovvio, il Léger «tubista», Malevic, la Maselli spogliata della sua più caratteristica aggressività. Da questo viaggio pieno
di coincidenze non certo casuali veniva fuori un’autonomia liberata senza sforzo: la faccia di quel viaggiatore lirico che era Italo Scelza era una faccia ben sua. Sono vicende appena di ieri; ma tutti sappiamo quante cose siano successe, quante prospettive cambiate, quante monete svilite da appena poche ore a questa parte. Sulla tersa cosmogonìa scelziana dev’essere passato un brivido, che ne ha cancellato la proliferante vivacità e il luccicante splendore, costringendolo di colpo a una riduzione violenta, seccamente traumatica. L’occhio odierno di Scelza non è più occhio di Tarzan che segue con quieta festevolezza la gloria esuberante di una giungla sia pure artificiale: è l’occhio del cacciatore bianco, omicida e possibile vittima al contempo, carico di sospetto e di allarme. Ed è fisso su un obiettivo alla volta: una macchia per scrivere arancione, che occupa interamente il fondo bleu della grande tela, con la leva di scorrimento pronta a scattare come una mannaia, in un clima di esecuzione la cui emozionalità timbrica agisce tanto brutalmente da eludere qualsiasi sollecitazione di neutralismo pop; o ancora un oggetto-serbatoio realizzato su una ricca scala di verdi, che scatena una suggestione enigmatica, intrigante: un quadro che agisce sullo spettatore per gradi, con sinuosa perfidia, e il cui fascino profondo produce una lenta, pertinace aggressione sull’incauto che vi si esorbitano da ogni naturalismo «magico» o «metafisico» in virtù del drammatico frantumarsi delle linee e del colorismo vivacissimo; o la «valvola» che assume, in una specie di repentina «zummata», aspetto di moschea, una mostruosa moschea carica di bianco, calcinata e metallica, sormontata da un minareto molto fallico, incivettito, come da uno stemma che meno surrealista e meno magrittiano non potrebbe essere, da un improbabile orologio privo di lancette: capriccio e ironia contro il bieco sfondo scuro dentro cui si staglia il profilo malvagio, gelido di una costruzione mica tanto ospitale.Su queste chiavi si muove la recentissima pittura di Scelza. La sua «felicità» terrestre sembra definitivamente incrinata, e comunque messa in crisi dallo spaventoso «raziocinio» di eventi della nostra storia di oggi non più misurabili in termini figurativi che non implichino la tragedia, l’angoscia, infine una disperazione senza romanticismo. La fermezza e la lucidità del pittore in questo confronto non lasciano dubbi sull’esito espressivo, sulla sua implacabile ricchezza metaforica, sulla sua spesso lancinante acutezza visionaria. Pur «congelati» dalla sapienza del suo attuale PROGETTO, i doni di Scelza (la sua corposità sensuale, la sua immediata fisicità) e le contraddizioni della sua ideologia e della sua storia personale (il suo costante rapporto di amore-odio, di attrazione-rigetto con la macchina e il manufatto tecnologico) continuano a possedere una carica straordinariamente attiva e a sprigionare una densità stilistica tutt’altro che frequente tra gli artisti italiani della sua generazione. Mario Lunetta
62
UNA “FELICITà” TERRESTRE DEFINITIVAMENTE INCRINATA
A TOTALLY UNDERMINED MUNDANE "HAPPINESS"
63
Irony is a crucial reference for art in the XX century in its
various rich and compound tones: from angry-sarcastic, to
mocking-sharp, eventually to smiling grace, light humour,
fancy. There are quite a few busts to create a gallery fighting
against the grey museum of national rhetoric or of intimist
peeping, even without exaggeration: and if, for example, we
seriously and honestly consider what literature lent art, and
the crossings and rich contaminations between the two
creative forms, very clear in the epoch of historical avant-
gardes, we can easily refer to them to fill up all niches.
Svevo and Palazzeschi to begin with, would be placed into
the two largest, maybe most popular niches: not many people
in this century had friends among artists as they did. And we
know the results of such friendships. I think that Palazzeschi’s
“Let me enjoy myself!” (“Lasciatemi divertire!”) influenced, in
a manner unpredictable and full of fantastic grace, an
already mature phase of a young painter’s activity between
1969 and 1972: that of Italo Scelza.
We must take into account, of course, the slight awkwardness
that every “divertissement” and lyrical grace provoke
nowadays.
What caught one’s attention in Scelza’s recent paintings, was
a kind of impassive innocence, transforming quickly into a
magical identification with objects and landscape.
There was no hint of feticism in the hallucinated visions of
the painter: spectacular, cylindrical vegetation, moving
fantasies made of tubes in which, as a merry-go-round,
chairs, machines, little pale men and focusless washing
powder clouds were entangled.
The painter’s eye caught their geometric aggregation and
plastic-coloured disaggregation with an absolute and joyous
calmness: the chasm always opened one moment before or
afterwards.
What Lacan defines jouissance marked the fairy-tale
technological universe of Scelza’s imagination of that period
with meanings bearing no inner obscurity, no painful
darkness.
The scenery offered a total, Mediterranean, blinding light: the
only distress was conveyed, in a strange way, by the painting
severity, and by showing forms celebrating a peaceful
coexistence in a calm and almost chaste way (the price of
which was not described, if not through the little human
figures, that were so similar to harmless hectoplasms) between
the technological world, the plant-world, and human
presence.
The works and masters that Scelza’s art had gone through
with delicious turbulence immediately came to one’s mind
and sight, to disappear immediately afterwards, peacefully
caught after they had been used by his positive grace, by his
(im)pertinent irony: Miro and De Chirico’s “Italian Squares”
appropriately brought to the obvious, the “tubistic” Léger,
Malevic, Maselli without her characteristic aggressiveness.
This journey full of unincidental coincidences gave birth to
an easily attained autonomy: the face of that lyrical traveller,
who in fact was Italo Scelza, was one of his typical faces.
We are describing events that just happened yesterday: but we
all know how many things occured, how many perspectives
changed, how many coins became less precious in the last
few hours.
Mario Lunetta
64
DAL DIARIO DI GUALDO
L’idea di realizzare a Gualdo Tadino un Centro Promozionale
per l’artigianato e la piccola industria maturò dall’esigenza di
porre le basi per la rinascita culturale ed economica di una
città in cui emigrazione e sottoccupazione andavano
assumendo proporzioni preoccupanti per l’inadeguatezza
delle deboli strutture produttive artigiane.
Coscienti che il problema dell’occupazione e dello sviluppo
civile può essere risolto soltanto dal successo delle grandi
lotte in corso nel Paese per una diversa politica
programmatica, ritenemmo tuttavia possibile mobilitare a
livello locale tutte le risorse disponibili per valorizzare e
potenziare le capacità esistenti.
L’incontro degli Artisti con Gualdo Tadino vuole essere la
prima esperienza di collegamento diretto e di lavoro comune
tra artisti, artigiani, operai e giovani studenti; l’occasione per
il recupero di un rapporto organico tra arte e popolo, tra
cultura e lavoro. L’incontro vuole essere anche un esempio di
come sia possibile rivitalizzare e popolarizzare i beni culturali
troppo spesso soffocati da una concezione statica dei musei e
delle pinacoteche.
Purtroppo ancora oggi l’idea del centro promozionale di
Gualdo Tadino, non dà cenni di vita, probabilmente anche
questo tentativo di rinascita culturale viene soffocato da un
ingranaggio politico-burocratico nel quale tutti i presupposti
di nascita delle grandi lotte culturali nel Paese vengono
spesso volutamente dimenticate.
Italo Scelza
FROM GUALDO DIARY
The idea of creating in Gualdo Tadino a Centre promoting
craftsmanship and small industry came from the need to
build thefoundations for the cultural and economic rebirth
of a town, where emigration and underemployment were
becoming a really worrying problem, because of the
inadequacy of the weak productive handicraft structures. We
were conscious of the fact that employment and civil
development can be overcome only if the big fights going on
in the country to achieve a different political planning will
be successful: still we thought it would be possible to involve
all local resources we could use, to develop and give the right
value to what already existed. The Meeting of Artists with
Gualdo Tadino is the first experience in a direct connection
and common work of artists and artisans, workers, and
young students; it is the chance to rebuild an organic
relationship between art and the people, between culture and
work. The Meeting is also an example of how one can
revitalise cultural resources and make them popular, which
are too often belittled by a very static concept of museums
and art galleries. Today the project for this Centre in Gualdo
Tadino has not yet been realised. Also this attempt to make
culture live again is probably being belittled and made
impossible by politics and bureaucracy, which too often make
people forget all foundations of remarkable cultural fights.
Italo Scelza
65
UNA CRESCITA POETICA NELLA PRASSI
Risale al 1969 il mio vero impatto
con il grande centro urbano. Mi
precede, in provincia, un’attività di
ricerca in cui i fatti del mondo, i
g r o s s i p r o b l e m i p o l i t i c i i n
discuss ione, impegnano la mia
coscienza umana più che la mia
volontà di fare arte.
S t r u t t u r e c u l t u r a l i i n e s i s t e n t i
al l ’ intorno, scarsa possibil i tà di
stabilire rapporti con l’esperienza
altrui, una Capitale vicina ma ostile a
ogni tentativo di approccio fanno sì
che il discorso pittorico sia difficile e
lontane le soluzioni.Finché l’ansia di
sapermi inserito al più presto nel
vivo di un dibattito a livelli più alti
sull’arte contemporanea, mi spinge
verso la città definitivamente. Qui ho
modo di rendermi presto conto che il
discorso sull’arte deve essere prima
di tutto discorso di coscienza politica.
Il modello culturale è quello tipico
del la soc ie tà dei consumi con
i n t e r l o c u t o r i i n p o s i z i o n e d i
contestazione, che vanno da gruppi
i n t e l l e t t u a l i a l m o v i m e n t o
studentesco fino alle organizzazioni
della classe operaia. C’è sì diffuso un
bisogno, una ricerca di verità, ma gli
sforzi sono isolati e il capitalismo
t r o p p o m a t u r o p e r c e d e r e
minimamente di fronte ad attività
artistiche prive di un vero organizzato
respiro politico. Si tratterebbe invero
di investire il sistema da ogni lato, a
tutti i livelli, quello dell’arte in testa e
« raccogl iere intorno al la c lasse
operaia, ogni altra forza produttiva,
favorendo i l suo distacco dal la
complicità del sistema», ma i mezzi di
lotta di cui si servono gli artisti sono
soggettivi, slegati, e non può essere
d ive r samente da to che ques t i
operano ritirati in se stessi, chiusi in
una sorta di individualismo; e il
lavoro in solitudine sembra l’unico
comportamento possibile per gli
artisti nell’illusione che la solitudine
possa evitare la loro trasformazione
in puri strumenti di produzione nelle
mani del sistema. Si continua a
parlare della necessità di elaborare
«una strategia culturale in concreto,
intesa a cost i tuire dovunque è
poss ib i le s t ru t tu re d ’appogg io
alternative alle strutture ufficiali», si
afferma che una lotta si vince solo
«spingendo avanti un progresso
generale di trasformazione della
società, portando avanti, giorno per
giorno, ostinatamente, le proprie
istanze all’interno e unitariamente
alle istanze di tutto il movimento alla
cui testa è la forza rivoluzionaria più
conseguente, il proletariato», ma poi
ci si accorge che tutto resta fermo al
l ivel lo di proteste più o meno
individuali. In questa situazione
cerco di avviare un mio discorso
p i t t o r i c o a l l ’ i n t e r n o d i u n a
dimensione industriale, tecnologica,
urbana, in cui ci sia spazio per la
fantasia e, perché no?, per l’ironia e
la speranza. Procedendo, ho la
preoccupazione costante di creare
rapporti plastici, insieme di forza -
s t ru t tu re u rbane geomet r i che ,
sospese nel vuoto, congerie di tubi e
di bulloni, di architetture metalliche,
saldati gli uni alle altre - uomini
fragili e malinconici ai quali non
resta che accettare l’ambiente in cui
vivono.
Mi sono presenti in questo inizio
Mondrian - l’importanza conferita
a l la l inea come generat r ice d i
immagini - e Léger - assimilazione
della civiltà industriale al suo nascere
attraverso vie di dinamismo pittorico.
Intanto i rapporti con artisti e critici
marxis t i d iventano sempre più
frequenti e si fortifica la convinzione
66
che le possibilità di successo nella
lotta contro il sistema capitalistico
« s o n o s o p r a t t u t t o l e g a t e a l l a
decisione dell’artista, alla fermezza
dei suoi propositi, che tuttavia non
possono resistere che in rapporto
con le correnti più vive e attive del
pensiero moderno e più ancora con
quel committente ideale che sono
appunto tutte le forze antagonistiche
in azione dentro e contro il sistema
capitalistico». E’ progettata in questo
periodo l’attuazione di un collettivo
di lavoro con la finalità precisa che la
prospettiva finale di questa lotta
deve essere quella «di una società
futura dove l ’ar t i s ta perderà i l
privi legio di essere qualcosa di
speciale, di diverso dagli altri uomini
poiché la concentrazione del talento
artistico in singoli individui - è una
tesi di Marx - «con la conseguente
soppressione di simile dote nella
grande massa degli uomini, è una
conseguenza della divisione del
lavoro» . In tale società «non vi
saranno pittori, ma, al limite, uomini
che, tra le altre cose, si occuperanno
anche di dipingere». Non la morte
dell ’arte quindi, bensì la morte
dell’artista in quanto tale. Ma in
questa prospettiva ci si accorge che è
molto difficile, se non impossibile,
operare . I l mio lavoro in tanto
p r o s e g u e s u i b i n a r i d i u n a
prospettiva diversa: la potenza della
tecnica è ormai incontestabile; è
l’uomo ad affermarla e solo l’uomo
potrà liberarla dai motivi che la
rendono a lui osti le e nemica -
ordi ture metal l iche degl i s tadi ,
a rch i te t ture tese e lev iga te d i
padiglioni, macchine - torri, ciminiere
d’acciaio.
C o n t i n u o a s e r v i r m i d e l l a
geometrizzazione tenendo presente
anche i l l inguaggio formale dei
realisti tedeschi. Vedo Grossberg ma
mentre il mondo di Grossberg è
senza speranza perché la macchina e
la standardizzazione hanno spento la
pianta dell’amore, io non mi sento
nei miei dipinti di dimenticare del
tutto l’uomo quasi a tenere vivo uno
spiraglio di speranza e di salvezza
per lui.
E’ a questo punto che si inserisce
l’invito rivolto a 12 pittori da parte
del comune di Gualdo Tadino con la
sua proposta d i esper ienza d i
comportamento non necessariamente
l ega to a l l a p i t t u ra , che deve
esprimersi in piena libertà nell’ambito
delle strutture architettoniche della
città. Si tratta di un lavoro collettivo
che rappresenta oltre che il tentativo
d i usc i re da l le s t re t to ie d i un
esasperato individualismo anche un
passo avanti contro la coercizione
del sistema, ostile all’artista e alla sua
produzione, per salvare anche la sua
creatività dalla mercificazione. Penso
a un trittico in ceramica - dimensione
2,20x1,70 - materiale questo che può
ot tenere i mig l ior i r i su l ta t i d i
levigatezza e lucentezza cromatica -
nel quale far convergere, verso
un’oggettività lirica, esterni, interni e
f igura umana. Da una par te e
dall’altra cielo, campagna, roccia, da
cui attingere motivi di serenità, e al
centro l’uomo, roccia egli stesso,
nella sua antica dimensione operaia.
Italo Scelza
67
Oggetto macchina, 1974 - olio su tela cm 113x100
68
Oggetto serbatoio, 1974 - olio su tela cm 160x160
69
La città, 1974 - olio su tela cm 120x120
70
LE IMMAGINI DEL TEMPO
72
Ancora due anni fa Italo Scelza dipingeva una sorta di favola
costruttiva, un sogno moderno, una vera e propria
prefigurazione, in cui la nostra inquieta esistenza riusciva a
conciliarsi coi nitidi prodigi del mondo tecnologico. Non era
un sogno di natura positivistica tuttavia, poiché toccava
all’uomo stesso liberare le potenze della tecnica dai motivi
che ce la rendono ostile. La trama metallica degli stadi, le
taglienti architetture dei padiglioni, le sagome rigide degli
edifici razionalisti, le macchine-torri della seconda rivoluzione
industriale, le ciminiere d’acciaio, s’accampavano allora sulle
sue tele con intatto e netto splendore, si alzavano nel cielo
con strutture perfette, con totale evidenza. La sua era insomma
una visione di trasparenza, tersa come un cristallo di rocca
Utopia dunque?
Questo io mi chiedevo, presentando come oggi una sua
«personale» fiorentina. Era possibile, dentro ai violenti contrasti
della storia di cui siamo protagonisti, mantenere una simile
visione? Fino a che punto Scelza avrebbe potuto sostenere la
tensione ideale che animava così lucidamente le sue immagini
ottimistiche? Erano indubbiamente interrogativi legittimi di
fronte ai suoi quadri che rifiutavano di corrispondere, nella
loro ordinata coerenza, all’incoerenza del disordine in atto
nella realtà.
Ora Scelza ritorna con un gruppo cospicuo di opere: e ci
accorgiamo che la sua visione è mutata. La preoccupazione
nei confronti del mondo moderno, la preoccupazione
legeriana di essere nel ritmo del proprio tempo, rimane. È
caduta però la «profezia», la prospettiva o l’anticipazione
metaforica della liberazione dell’uomo. Non più quindi, nelle
sue tele, armoniche e compiute strutture, definite costruzioni,
esatti profili di macchine o strumenti, bensì il groviglio
meccanico, il relitto tecnologico, il coacervo, lo scarto. È
chiaro dunque che, oggi, Scelza propone un traslato diverso
dalla metafora di ieri. Questi «scribilli» metallici che egli
dipinge sospesi nello spazio, sullo sfondo vuoto di un telo,
questi «oggetti» rotti, inutilizzabili, vogliono appunto indicare
la fine traumatica dell’utopia. Eppure Scelza non ha interrotto
il suo discorso, anche se il senso ne appare adesso rovesciato.
Osserviamo questi quadri recenti. Il metodo e il carattere della
sua pittura non sono cambiati: egli cioè pone lo stesso
puntiglio a dipingere oggi i suoi «scribilli» metallici come lo
impiegava ieri a dipingere le sue più elaborate e perfette
architetture. È per questo che la sua pittura, come prima, è
una pittura senza ombre, di squillante timbro cromatico, netta,
ferma, scandita.
Ecco il punto: oggi come ieri, per Scelza, la pittura è
un’operazione in cui il dominio razionale dello stile è
fondamentale, ma è fondamentale perché il processo creativo
è per lui, essenzialmente, un processo di conoscenza.Come
non era neoromantica la radice della sua utopia, così non è
irrazionale l’immagine del «negativo» che egli intende
rappresentare nelle sue ultime prove. In fondo il suo giudizio
sul «negativo» prende significato proprio dalla natura o qualità
della sua utopia precedente.
Scelza intellettualizza le sue emozioni, dà loro pungente
precisione, calzante sigillo formale. Anche la rappresentazione
del «negativo» si dichiara con una fisionomia plastica limpida e
tesa. Solo la bellezza, in arte, possiede il potere della
persuasione. E Scelza ci persuade del «negativo». I suoi
«grovigli» sono quindi il motivo emblematico, enunciato con
rara perspicuità, di ciò che non funziona nella funzionalità
della società tecnologica, sono l’indice catotico celato sotto
l’apparente perfezione del sistema.
Ma si badi: al tempo stesso tali «grovigli», nella bellezza della
loro enunciazione formale, fanno ricrescere in noi il desiderio
di veder restituire il valore della strumentazione tecnologica al
servizio dell’umano. È così, nuovamente, il «negativo» si
rovescia nel suo contrario. L’utopia rifiorisce.
Mario De Micheli
LE IMMAGINI DEL TEMPOMilano 28 febbraio 1976
73
Two years ago Italo Scelza was still painting a kind of
constructivist fairy-tale, a modern dream, a kind of
prefiguration, in which our disquieting existence succeeded
in conciling with clear prodigies of the technological world. It
was not only positivist, however, because it was a man who
had to free technology forces from what makes it hostile to us.
The metallic stadiums, the cutting architectures of pavillions,
the rigid shapes of rationalistic buildings, the machine-towers
of the Second Industrial Revolution, steel chimneys, were still
subject of his paintings bearing the same splendour, they
went up in the sky with their perfect structures, with a
complete evidence. His was a transparence vision, terse like
crystal rock, was it Utopia?
This was what I asked myself, introducing like today, his one-
man-show in Florence. Was this vision possible among the
deep historical contrasts we are witnessing? To what extent
could Scelza support the ideal tension that so clearly
animated his optimistic visions? These questions were
legitimate when facing his paintings, refusing to correspond,
in their coherence, to the disorderly uncoherence of reality.
Scelza, however, is coming back with a generous number of
works: and we realize his vision changed. What remains is
his Legerian attention to be inside the rhythm of his time.
What is not there anymore is “prophecy”, the metaphorical
perspective or anticipation of man’s liberation. In his
paintings there are no harmonious and accomplished
structures, defined buildings, exact profiles of machines and
instruments, but there is mechanical entanglement, the
crucible, the waste-material.
It is therefore clear that Scelza offers today something different
from yesterday's metaphor. These metallic “scribilli” he paints
hanging in space, on the empty background of a cloth, the
broken “objects”, no more usable, mean the very traumatic
end of Utopia. And yet Scelza has not interrupted his
discourse, even though its meaning seems inverted.
Let us observe these recent pictures. His painting method and
character have not changed: that is, he is so precise in
painting his metallic “scribilli” today as he used to be
yesterday when he painted his most elaborate and perfect
architectures. This is why his painting , like before, has no
shadows, has bright colours, is clear, firm, defined.
This is the main point: today like yesterday painting for
Scelza is something in which the rational supremacy of style
is crucial, because the creative process is for him basically a
knowledge process. His utopia was not of neoromantic origin,
in the same way as his image of the “negative”, that he is
trying to portray in his latest pieces, is not irrational. His
judgement on the “negative” derives its meaning from the
nature or quality of his preceding utopia.
Scelza’s emotions are intellectual, he makes them precise as a
sting, an appropriate formal seal. Even the representation of
the “negative” bears a clear and tense plastic character. Only
beauty in art has the power of persuasion. And Scelza
persuades us of the “negative”. His “entanglements” are an
emblem, expressed with a rare clearness, of what does not
work in the functionality of technological society, they are
hidden under the apparent perfection of the system.
Be careful though: at the same time, such “entanglements”,
in the beauty of their formal structure, make us hope again
that technological instruments will be at the service of
humanity.
So, once again, the “negative” turns into its contrary. Utopia
reflourishes.
Mario De Micheli
TIME IMAGESMilan, february 28, 1976
74
75
Viva l’Italia, 1975 - fotogrammi dal film “Officina italiana” di Italo Scelza
76
Le immagini del tempo, 1977 - olio su tela cm 120x110
77
Le immagini del tempo due, 1977 - olio su tela cm 110x110
78
Le immagini del tempo tre, 1977 - olio su tela cm 130x130
79
Le immagini del tempo quattro, 1977/78 - olio su tela cm 130x130
80
Ipotesi per un paesaggio, 1977 - olio su tela cm 190x220
81
Paesaggio con nuvola, 1976 /77 - olio su tela cm 100x100
82
83
INAbITAcOlI
84
Inabitacolo uno, 1977/78 - olio su tela cm 110x110
85
Inabitacolo, 1977/78 - olio su tela cm 140x140
86
Inabitacolo con oggetti, 1977 - tecnica mista su cartone cm 50x30
87
Inabitacolo inondato 1978 - tecnica mista su cartone cm 50x30
88
Interno inabitacolo, 1977 /78 - olio su tela cm 60x60
89
Inabitacolo - abitato, 1978 - tecnica mista su carta cm 120x120
90
91
lA dANzAIl TeATrO
92
Interno, 1980 olio su legno - cm 60x60
93
Omaggio Lindsay Kemp, 1981 - olio su legno cm 75x110
94
Laboratorio scenico
95
Lindsay e lo specchio, 1981 - tecnica mista cm 45x30
96
Il laboratorio della danza, 1982 - tecnica mista cm 50x70
97
Omaggio a Bèjart, 1982 - tecnica mista cm 70x50
98
L’uccello danzante, 1981- tecnica mista cm 70x100
99
Contorsionista 1981- tecnica mista cm 70x100
100
101
INTerNI
102
Officina veneziana, 1979/80 - olio su tela cm 200x220
103
Interno con gabbia, 1980 - olio su tela cm 125x135
104
Interno con finestra, 1980 - olio su legno cm 100x60
105
Serenella e la sedia, 1980 - olio su legno cm 60x40
106
Interno fiorentino, 1980 - olio su legno cm 45x35
107
Interno fiorentino uno, 1980 - olio su legno cm 60x40
108
Lo stipo a muro, 1980 - olio su tela cm 140x140
109
Scuro dipinto per un ritratto, 1979 - olio su legno cm 90x80
110
Il gioco degli scuri - Trittico (particolare), 1981 - olio su legno cm 220x200
111
Il gioco degli scuri - trittico, 1980 - olio su legno cm 220x200
112
113
glI STUcchI cOlOrATI dAl SOle
114
Gli anni Ottanta saranno ricordati - è facile prevedere - come
“il decennio della memoria”. In quasi tutti i campi della
cultura i temi della “registrazione”, della riemersione degli
archetipi, della memorizzazione, del ricordo, dominano
incontrastati e vengono celebrati come una sorta di vendetta
storica nei confronti dei lunghi anni dell’amnesia che hanno
preceduto questo decennio. Ma che senso ha questa memoria
protagonista? E’ sintomo di nostalgia o di distacco, di ritorno,
quello appunto che ha come insegna la memoria del
computer e i l nuovo immaginar io tecno log ico
dell’informatica?
Italo Scelza ci mette di fronte, dopo averli decontestualizzati,
brandelli di città, frammenti di architettura scelti in funzione
della loro densità, della loro ricchezza formale. Il Barocco
meridionale, le cornici di pietra intagliata servono di spunto
per una indagine fredda su alcuni catalizzatori della memoria
collettiva, all’interno dei quali il pittore ritrova la sua immagine
rimossa. Per chi vive nella città storica i segni dell’architettura
tradizionale entrano a far parte fin dall’infanzia di abitudini
visive radicate, che condizionano la immaginazione e per
questi segni la lettura storica e filologica costituisce solo una
remota possibilità. Generalmente di questi segni il nostro
inconscio dà di preferenza una lettura astorica, schiacciandoli
in un orizzonte senza tempo.
La città è una seconda natura, un paesaggio e le testimonianze
di epoche diverse concorrono a formare una identità
complessa di cui è ormai parte integrante la nostra vita
convulsa, il traffico, la visione frammentaria e disattenta
indotta dalle condizioni psicologiche in cui viviamo. Scelza,
con grande forza evocativa e con la spregiudicatezza di chi
persegue un fine istintivo, ci racconta il nostro raffronto
viscerale e ambiguo con la città, il nostro attaccamento ai suoi
sogni, la nostra rinuncia a collegarli in un tessuto rigoroso e
pedante. E’ un omaggio alla città inteso come “foresta”, alla
maniera del Milizia. “Quanto più in questa composizione
regnerà la scelta, l’abbondanza, il contrasto, e fin anche
qualche disordine, più sarà pittoresca e conterrà più bellezze
piccanti e deliziose...” Vuol essere insomma la città - sempre
secondo Milizia - un quadro variato da infiniti accidenti; un
grande ordine nei dettagli: confusione fracasso e tumulto
nell’insieme”. Scelza, con le sue ispirate riflessioni ci aiuta a
far luce su quel “grande ordine nei dettagli” che è la grande
forza delle città antiche, la grande eredità perduta da
ritrovare.
Paolo Portoghesi
The 80s will be very likely remembered as a “decade of
recollection”. In all the fields of culture ‘recording’
memorization, recollection and the re-emergence of
archetypes are the predominant timely subjects now
celebrated as a kind of vengeance against the previous years’
forgetfulness. What does recollection mean today? Is it a
symptom of nostalgia or of detachment? Is it a return to the
past or a raising interest for the memorization and the
technological imaginary of computer science?
Italo Scelza shows us scraps of towns, fragments of
architecture removed from their contest and chosen for their
formal richness and wealth. The Sicilian Baroque, the incised
stone cornices give the painter an idea for his research on
some catalyzers of everybody’s memory: inside those
fragments he can find again his repressed imago.
For people who live in ancient towns the traces of traditional
architecture become, since childhood, deep-rooted visual
habits which influence their imagination. A philosophical
and historical interpretation of such signs is only a remote
possibility. Our unconscious would rather read them
unhistorically, flattening them against a timeless horizon.
A city is a second nature, a landscape where the traces of past
epochs concur informing a complex identity of which our rest
less life, the traffic, the fragmentary heedless vision induced
by our psychological condition, are now important
components. With great creative power and the boldness of
one who pursues an instinctive aim, Scelza shows us our
visceral, ambiguous relationship with the city, our attachment
to its signs, our giving up trying to weave them into a rigorous
accurate texture. It is a homage to the city which is seen, after
Milizia’s definition, as a “forest”. “The more choice,
abundance, contrast and even more disorder will prevail in
this composition, the more it will be picturesque and full of
pungent, delicious beaties - “the city, in conclusion, wants to
be a scene varied by infinite unevenesses, a great order in
details, confusion, uproar, turmoil on the whole”.
With his inspired reflections Scelza helps us to throw a light
upon that “great order in details” which is the great strength
of ancient cities and the great lost inheritance to be
recovered.
Paolo Portoghesi
GLI STUCCHI COLORATI DAL SOLE
115
DAGLI STUCCHI COLORATI DAL SOLE
...La scelta del materiale è, dal punto di vista qualitativo, a
favore del legno, perché esso è popolare e antico allo stesso
modo, legato al mondo dell’artigianato, quindi più vicino al
sapore antico che l’operazione comporta. Gli amici, fin dal
primo giorno, si sono trovati ad interpretare i progetti con
molta affinità. La tensione e l’ansia che mi portavo dentro in
quei giorni cresceva sempre di più. Gli stessi compagni di
lavoro ne sono stati coinvolti ed anche loro, nonostante mi
tranquillizzassero sulla riuscita dell’operazione, erano
interessati a vedere l’opera compiuta nel migliore dei modi. E
così che il “trittico Biscari”, la “loggia dei Crociferi”, “la porta
all’angolo di San Cristoforo” incominciano concretamente a
prendere forma. La ricostruzione di elementi storici è stata
analizzata attraverso una ricerca dei materiali senza la quale,
nessuno studio, poteva essere seriamente preso in
considerazione. Nascevano così alcuni bozzetti acquarellati e
matite colorate su cartoni e piccoli progetti veri e propri
pensando alla pietra, agli stucchi ed ai marmi usati dalle
maestranze di allora. Siamo a fine agosto e nella calura della
campagna, sui prati odoranti di “mentuccia” componiamo il
“trittico Biscari” formato da tre elementi in legno ricoperti di
tela grigia di cui, ogni elemento, è composto da nove moduli
così come è formata naturalmente la finestra del cortile del
Palazzo Biscari.
Italo Scelza
...I decided to employ wood because it is an ancient and
popular material, linked to artisanship and apt to give our
work and old time’s mark. Ever since the first day’s work my
collaborators found a great accord in the execution of my
projects. I was full of doubts and highly strung but they, who
were eager to see the work accomplished at best, reassured
me on the success of the experiment.
So the “Trittico Biscari” and the “Loggia Alessi dei Crociferi”
began to take shape. A research of the right materials is
indispensable for an exact reconstruction of historical
elements.
Thinking of the stones, the marbles, and the stuccos employed
by the ancient master builders, I draw many projects and
sketches in water-colour.
It was the end of August, in the hot and sunny country, on
the meadows fragrant of mint we composed the “Trittico
Biscari”: three elements of wood with nine modules like the
window opening on the courtyard in Palazzo Biscari.
Italo Scelza
116
“La loggia dei crociferi”, 1980 - olio su legno a rilievo cm 220x200
117
Laboratorio - Italo Scelza con lo scenografo Lino Ricciardi e il critico Dario Micacchi
118
Laboratorio trittico Biscari, strutture modulari in legno intelato.
119
Progetto trittico Biscari, 1983 - matita colorata intelata cm 150x140
120
Trittico Biscari, visione completa, 1983 - olio su legno
121
Particolare anta terza, 1983 - olio su legno cm 134x64
122
123
La Porta all’angolo di S. Cristoforo, 1980/81 - olio su legno e tela modulare cm 225x180
124
Il grANde TrITTIcOglI UOMINI dellA rIcOSTrUzIONe
126
“GLI UOMINI DELLA RICOSTRUZIONE”
dipinto rappresenta uomini nudi in posizione spasmodica e pronti a voler in tutta fretta ricostruire una terra storicamente martoriata. L’opera è stata costruita ed immaginata nello studio dell’autore e i personaggi che la compongono agiscono in un ipotet ico palcoscenico dove sono rappresentati oggetti tipici di uno studio con natura morta, alle spalle visioni di architetture in rovina e paesaggio i rp ino . Ne l le due an te l a te ra l i sono rappresentate immagini di personaggi che quasi in trappola non riescono ad esprimersi
Il grande trittico “Gli u o m i n i d e l l a r i c o -struzione” è stato dipinto nel 1985 a cinque anni dal terremoto in Irpinia. Le dimensioni delle tre ante unite sono di m. 5,80 x 3,00, esse sono dipinte ad olio su tela ed incorniciate con fasce di legno in pino russo. Nella parte centrale il
c o m e v o r r e b b e r o . C h i a r a m e n t e t u t t i i personaggi sono visti in chiave metafor ica . I l dipinto è stato esposto per la prima volta nel 1 9 8 5 n e l M u s e o Medioevale di Alatri, nel 1986 alla XI quadriennale di Roma interessando grande parte della critica italiana.
“THE MEN OF RECONSTRUCTION”
middle portion of the painting there are naked men in an agonising posture, who a r e r e a d y a n d w i l l i n g t o r e b u i l d a historically suffering earth. This work was built and conceived in the author’s studio, and its characters act on a fictitious stage, on which some objects are depicted: they are typical of a still-life study with visions o f a r c h i t e c t u r a l r u i n s a n d I r p i n i a n l a n d s c a p e i n t h e b a c k g r o u n d . T h e characters painted on the two side antas seem almost trapped, they can not move
The large tryptich “the Men of Reconstruction” was painted in 1985, f i v e y e a r s a f t e r t h e I r p i n i a e a r t h q u a k e . The three joint antas are m. 5,80 X 3: they a r e o i l o n c a n v a s pa in t ings , and the i r f r ames a re made o f w o o d e n p l a t e s o f R u s s i a p i n e . I n t h e
and express themselves a s t h e y w o u l d . A l l characters are clear ly d e p i c t e d i n a metaphorical way. This painting was displayed fo r the f i r s t t ime in 1 9 8 5 i n t h e M u s e o Nazionale in Alatri, in 1985 it was part of the X I Q u a d r i e n n a l e i n Rome, when it caught
127
Particolari del grande trittico, 1980
128
“Gli uomini della ricostruzione” trittico, visione completa, 1980 - olio su tela cm 310x560
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131
le SceNOgrAFIe
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133
E LA PIAZZA DIVENTO’ TEATROLA LUNGA NOTTE PAGANA
THE LONG PAGAN NIGHT
Uno dei concetti per cui il barocco viene contrapposto al
rinascimento è l’aspirazione al pittorico (Wolfflin), esso tende
a sostituire le forme classiche, plastiche e lineari, con
un’immagine mossa fluttuante, inafferrabile; si cancellano i
limiti e i contorni e si definiscono i grandi effetti di profondità
spaziali. È con questo spirito, che il “Giglio del Sarto” occupa
la piazza, essa si trasforma in palcoscenico e la grande guglia
che rappresenta i mestieri del sarto, ne diventa protagonista
principale. La rivisitazione, in questo caso, non assume un
senso puramente estetico ma vuole essere anche strutturale,
rimettendo con le sue forme, ordine in un disordine che da
tempo, in quest’occasione, sfocia in un “non stile” di dubbio
gusto “Rococò”, spesso senza alcuna coerenza stilistica.
“Il Giglio del Sarto” è semplice nel suo linguaggio, ma ricco di
riferimenti storici, senza i quali quest’opera non sarebbe
potuta nascere. La sua realizzazione si basa su due concetti
fondamentali, uno scultoreo-architettonico (Bernini) e l’altro
pittorico-surrealista.
La conchiglia del grande gruppo scultoreo di base si rivela,
con il suo splendore, una forma magica che partorisce due
grandi delfini che versano acqua in una vasca sottostante; è la
rappresentazione della fede. I bassorilievi di fonte surrealista,
che adornano il grande obelisco con le immagini del mestiere
del sarto, sono interrotti in due punti da esplosioni, da una
delle quali emerge la figura del Santo in elevazione. Curioso
connubio per chi pensa che i due elementi non possano
convivere, mentre fondamentale appare il concetto di libertà
che caratterizza i due percorsi. È la libertà di non definire; la
libertà di dare al fruitore modi di letture articolate e diverse; la
libertà di fare spettacolo con grande immaginazione e di
giocare ambiguamente tra finzione e realtà. Sono queste
alcune componenti che trasformeranno la piazza e i vicoli in
un palcoscenico, sul quale tutti i nolani diventeranno attori,
danzatori, musici e giullari… e la lunga notte pagana inizierà.
Italo Scelza
One of the concepts on which the difference between Baroque
and Renaissance is based is the aspiration to the pictorial
(Wolfflin); it substitutes classical, plastic, and linear forms
with a moving, floating, unattainable image; bounds and
contours are wiped off, while the grand effects of spatial
depths are defined.
This is what inspires the "Giglio del Sarto" in relation to the
square in which it was placed: the square turns into a stage,
and the big spire representing the crafts of the tailor becomes
the main character. The revisitation in this case does not
carry an aesthetic meaning, but it also pertains to structure,
while rearranging through its forms a kind of disorder that
created a "non-style" of dubious Rococo taste, often with no
stylistic coherence.
The "Giglio del Sarto" bears a simple language, but it is rich
of historical references, without which this work would not
have been possible. It is based upon two main concepts, a
sculptural-architectural one (Bernini) and a pictorial-
surrealistic one.
The shell of the big basic sculptural group reveals, with its
splendour, a magical form giving birth to two big dolphins
pouring water into an underlying pool; this is the
representation of faith.
The bas-reliefs of surrealistic influence, adorning the big
obelisk with images referring to the crafts of the tailor, are
interrupted by explosions: from one of these the Saint elevates.
This is a unusual connection for those who think that the two
elements cannot coexist, while the concept of freedom
characterising the two structures seems fundamental.
It is the freedom not to define; the freedom to give a spectator
articulate and varied modes of interpretation; the freedom to
perform imaginatively, and to play ambiguously between
fiction and reality. These are some of the components that
will turn the square and tiny streets into a stage, on which all
people from Nola will become actors, dancers, musicians,
and jokers: ... and the long Pagan night will begin.
Italo Scelza
134
Il laboratorio della cartapesta con due moduli in costruzione
135
Studi e sviluppo della base del giglio , cartapesta e legno
136
La macchina del giglio, laboratorio montaggio
137
La grande scultura del giglio
138
139
jAzz
140
Immagini di laboratorio con gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone al festival jazz di Supino.
141
La grande scenografia
142
dalla “Gerusalemme liberata”
con musiche di MONTEVERDI
eseguite dal Coro Saraceni
diretto da GIUSEPPE AGOSTINI
from “Gerusalemme liberata”
music by MONTEVERDI
performed by Coro Saraceni
direct by GIUSEPPE AGOSTINI
TANcredI e clOrINdAMONTeVerdI e lA gerUSAleMMe lIberATA
IN cONcerTO
144
Laboratorio
145
Particolare della scenografia e visione completa della stessa
146
“GIGANTOGRAFIA”
Scenografia realizzata
per l’Eurofestival
di Ferentino
“GIGANTOGRAPH”
Scenography realized for
Eurofestival
of Ferentino
147
Visioni della scenografia “La gigantografia”
148
149
Il MOSAIcO e lA PIScINA
150
Mosaico - Particolare
151
Italo Scelza, in questa operazione assume ovviamente il ruolo
guida, vanta già non poche esperienze in questo senso. E
l'idea di riprenderle non gli piace affatto.
«La prima volta - racconta - fu a Gualdo Tadino, nel '73,
eravamo in venti autori, tutti impegnati in un grande mosaico
ispirato a Giotto. Chi ricordo? Vittorio Basaglia, Gianquinto,
Mulas, Calabria, Farulli... e tutti gli altri naturalmente. Alla fine
gli Editori Riuniti stamparono un libro dedicato a quella
esperienza con una prefazione di Dario Micacchi». «Fu la
prima - riprende - ma ce ne furono molte altre di esperienze
analoghe. A Ottana per esempio, nel '74, una terribile fabbrica
realizzata con gran dispendio di mezzi nella piana di
Orgosolo dall'Eni. E che presto andò in malora. E poi a
Saronno, in una iniziativa curata da Mario De Micheli... Erano
esperienze artistiche, ma anche di tipo sociale e l'idea era
proprio quella che l'artista potesse modificare la realtà
sociale...».
Certo, i tempi adesso sono cambiati, lo riconosce anche lui,
non c’è più l’ideologia e si crede poco alla possibilità di
intervenire nella vita collettiva. Ma Scelza crede anche che
certe esperienze, «se recuperate e continuate con intelligenza»,
possano sopravvivere.
Mosaico dunque, con gli scarti di fabbrica, su qualche muro
pubblico. Il Comune di Sesto Fiorentino dice sì e mette a
disposizione un cantiere, e alloggi per tutti. E il muro
naturalmente, scelto dopo varie ipotesi. sarà quello della
piscina comunale, in piazza Bachelet, giusto di fronte al
Museo di Doccia. Un muro né bello né brutto, stile anni ’60;
abbastanza anonimo, che ha il vantaggio però di essere in
ottima posizione, di essere già spartito in grandi riquadri
rettangolari e soprattutto, grazie all'anonima fattura, di
prestarsi ad ogni intervento.
Gianni Pozzi
Italo Scelza is obviously playing the leading role in this
project, and he already had numerous experiences like this,
and he does not at all mind repeating them.
"The first time -- he says -- was in Gualdo Tadino in 1973,
there were twenty authors, all of us involved in a large
mosaic inspired by Giotto. Who do I remember? Vittorio
Basaglia, Gianquinto, Mulas, Calabria, Farulli... and all
others, of course. In the end Editori Riuniti printed a book
dedicated to that experience with a preface by Dario
Micacchi." "It was the first -- continues Scelza -- but there
were other similar experiences. In Ottana, for example, in
74, a dreadful factory built by ENI with a lot of resources in
the Orgosolo plain. And that soon went "to pieces". Then in
Saronno with a project directed by Mario De Micheli... All
these were artistic but also social experiences, and the idea
was the artist could modify social environment..."
Time has definitely changed, he too admits it, there is no
ideology anymore and one does not believe much in the
chance to modify the collective life. Scelza, however, thinks
that certain experiences, "if recovered, and continued
intelligently," can survive.
Therefore a mosaic on some public wall, made of waste-
materials from factories. The Town of Sesto Fiorentino
accepts, offers a building site and lodgings for everybody.
And the wall too, of course, chosen after various attempts.
The wall will be that of the public swimming pool, in piazza
Bagnolet, in front of the Museo di Doccia. It is neither
beautiful nor ugly, sixties style; rather anonymous; it has the
advantage of being a very interesting location, to be already
divided into big rectangular sections, and, thanks to its
anonymity, to be used in every possible way.
Gianni Pozzi
152
Rileggendo con più chiarezza di pensiero un'opera d'arte del
passato e riflettendo sul contenuto e sul messaggio che essa
trasmette, non si può fare a meno di sottolineare l'importanza
storica che essa ha e l'emozione che la stessa provoca in chi,
analiticamente, la legge. E' da oltre un anno che la lettura
della «ZATTERA» di Géricault assume nel mio pensiero un
preciso significato, quello che lo stesso storico del tempo,
Michelet, diede al quadro del famoso artista francese: «La crisi
di una società interna, la caduta di una ideologia, la fine di
un sogno».
Le crisi ideologiche, hanno provocato,solo apparentemente,
un congelamento di pensiero e di azione, ma il pittore, che
ha la fortuna di vivere il quotidiano non solo sul piano
realistico, ma soprattutto su quello immaginario, vive queste
crisi sì, in maniera intensa e diretta, ma le trasmette nelle sue
opere con tutta la sua forza e la veemenza immaginativa
perché esse restino e possano fissare date importanti. La
ricerca pittorica iniziata nel 1989 con studi analitici eseguiti
con tecniche classiche dalla matita, al pastello, all'acquerello
ha portato alla realizzazione di alcuni dipinti su legno di
piccolo formato per poi svilupparsi in pitture di più grandi
dimensioni fino alla esecuzione di questo grande mosaico
realizzato per conto del comune di Sesto Fiorentino, usando i
materiali di scarto delle fabbriche di ceramica del luogo.
Questo intervento sul territorio è documentato in un volume
e da una edizione grafica edita dalla stamperia d'arte «La
Bezuga» di Firenze.
Italo Scelza
Reading with a clearer mind a work of art of the past, and
thinking about its content and about the message it sends,
one cannot help underlining the historic relevance it holds,
and the emotion one feels in reading it analytically.
Reading the "RAFT" of Géricault had a very precise meaning
in my mind for more than a year, the same meaning the
historian of that time, Michelet, gave the picture of the
famous French artist: "The crisis of an entire society, the fall
of an ideology, the end of a dream."
Ideological crises caused only apparently a freezing in
thought and action, but the painter, who is lucky to live the
everyday life not only on the concrete and realistic level, but
especially on the imaginative, goes through such crises in a
direct and intense way, but he captures them in his works
with all his imaginative strength, so that they can remain
and remind important events. My pictorial work began in
1989 with analytical studies, using classic techniques like
pencil, pastel, water-colour: this brought to creating some
small paintings on wood, and then developed into larger
paintings, up to the large mosaic sponsored by the Town of
Sesto Fiorentino, made using the waste-materials of the local
ceramics factories: the experience on that territory is
documented in a volume and in a graphic edition published
by "La Bezuga" in Florence.
Italo Scelza
153
Visione completa del mosaico cm 430x230
154
155
l’UOMOl’AMbIeNTe
156
Interno con figure, 1987 - olio su legno cm 70x50
157
Lunette, 1987 - olio su legno cm 100x45
158
Studio, 1988 - olio su legno cm 60x30
159
Studio, 1988 - olio su legno cm 181x40
160
Una modella a Firenze, 1988 - olio su legno cm 50x40
161
La doccia sotto gli ornelli, 1987 - olio su legno cerato cm 130x100
162
La porta sulle nuvole, 1989 - olio su tela cm 160x120
163
La modella e la Badia, 1990 - olio su legno cm 105x125
164
Particolare del giardino degli ornelli
165
Il giardino degli ornelli, 1989 - olio su legno cm 220x160
166
lA zATTerA
168
Nell’anno 1990, assai fertile di idee e di pittura, Italo Scelza ha
dipinto alcuni quadri di piccolo e medio formato - quasi
formanti una serie organica e con straordinaria immaginazione
strutturati su alcune idee molto coerenti nella riflessione tra
presente e passato - che nella struttura figurativa, pure molto
fantasmatica, ricordano la struttura, tra disperazione e
speranza, del famoso, grande dipinto La Zattera della Medusa
eseguito nel 1818-1819 da Théodore Géricault ed esposto con
esito incerto al Salon.
Nel 1816 la Francia si appassionò al tragico evento del
naufragio della nave La Medusa e degli scampati al naufragio
che, su scialuppe e una zattera, per giorni e giorni cercarono
salvezza. Si discuteva delle responsabilità a bordo e delle
responsabilità in alto nel governo.
Théodore Géricault, che era stato soldato nell’armata
napoleonica e amava infinitamente i cavalli e i soldati - e li
dipinse molte volte - aveva fatto un viaggio in Italia e aveva
riscoperto, nei resti dell’antico e in pittori francesi come
Poussin, la visione eroica. Tornato in Francia si interessò
appassionatamente al naufragio e alla zattera della Medusa.
Studiò i resoconti del naufragio nei tre momenti chiave:
quando a colpi di accetta vengono troncate le corde che
legavano la zattera alle barche che la trascinavano e la zattera
resta in balia delle onde; quando i marinai abbandonati
nell’oceano si ribellano agli ufficiali; e, infine, quando i
superstiti avvistano la nave salvatrice. Théodore Géricault
prese studio, a Parigi, vicino all’ospedale Beaujon e riuscì a
trovare un accordo con i medici per studiare, sui malati e sui
cadaveri, tutte le sfumature del dolore fisico e dell’angoscia
morale fino alla distruzione dell’organismo. Lo studio si
riempì di membra tagliate. E questo il periodo che Théodore
Géricault dipinge le sue tremende “nature morte” di membra
umane e le teste dei ghigliottinati. Nel creare le possenti
immagini di energia tesa tra disperazione e speranza,
Théodore Géricault si ricordò di Michelangelo del Giudizio
Universale e del Diluvio della volta della Sistina nonché di
Caravaggio e dei Bolognesi. Quanto ai francesi, oltre a
Poussin, teneva in conto Gros e Guérin, Girodette e Jouvenet.
Eseguì molti studi e due di essi sono ritenute da molti storici
dell’arte migliori del quadro grande (olio su tela, cm 491x716)
conservato al Louvre. Il quadro fu comprato dal signor
Dedreux-Dorey per 6.000 franchi e fu da lui rivenduto
faticosamente per la stessa somma al Louvre.
Théodore Géricault nacque a Rouen il 26 settembre 1791 e
morì a Parigi, dopo una caduta da cavallo spavaldamente
trascurata, il 18 gennaio 1824. Lo storico Jules Michelet nel
1847-48, professore al Collège de France, tenne un magnifico
corso su Géricault che fu interrotto dalle autorità alla terza
lezione.
Michelet vedeva in Géricault l’artista rivoluzionario nazionale
di Francia che non si era piegato alla Restaurazione e che con
la Zattera aveva dipinto un’immagine disperata, sì, ma anche
piena di speranza.
Scrive Michelet: “Vi fu un dialogo sconsolato, un giorno forse
del 1823, davanti all’ingresso della sala da ballo dell’Opera, tra
un amico mio, uomo di mondo, artista spiritosissimo, e un
gran giovanotto, un grand’uomo colpito al cuore, che pareva
cercare nei piaceri una più rapida morte. Parlo del primo
pittore di questo secolo, l’infelice Géricault. L’amico mio lo
vide assai triste tra quella folla allegra, le donne eleganti, le
carrozze, le luci; era vestito di gala, aveva i guanti gialli, ma
com’era cambiato! L’infinita dolcezza del suo sguardo
penetrante aveva ceduto alla durezza di quella maschera
terribile che tutti avete ammirato. Il genio ancora riluceva sul
volto suo, ma non più l’espressione della forza, anzi vi era un
ardore mortale nel far suo quel mondo che da lui fuggiva, e
nelle profonde orbite scavate aveva l’occhio del falco!” Così,
spettrale e fantasmatico, apparve a Michelet il pittore che
aveva dipinto il naufragio della Francia. Non aveva visto
venire alcuno in soccorso - aggiunge Michelet - e si era
lasciato scivolare dalla zattera.
Dario Micacchi
LA “ZATTERA DELLA MEDUSA” DI THéODORE GéRICAULT
169
In 1990, a very fertile year for ideas and paintings, Italo
Scelza painted some pictures of small and medium size --
almost creating an organic series, and structured with
extraordinary imagination on some ideas that were coherent
in the rethinking of past and present -- that in their figurative
structure remind of the structure, between desperation and
hope, of the famous, great picture The Raft of Medusa,
painted by Théodore Géricault in 1818-19 and exhibited at
the Salon with no big success.
In 1816 France was deeply involved in the tragic shipwreck
of La Medusa and everybody was very interested in the
survivors who tried to escape for days onboard a lifeboat and
a raft. Responsabilities on board and high up in the
government were both being discussed.
Théodore Géricault, who was a soldier belonging to
Napoleon's army, and who loved horses and soldiers very
much -- he painted both many times -- had travelled to Italy,
and had rediscovered the heroic vision in the remains of
ancient monuments and in French painters like Poussin.
Back in France, he gained passionate interest in the
shipwreck and the raft of the Medusa. He studied the
shipwreck records in the three key moments: when the axes
cut the ropes tying the raft to the ships dragging it, and the
raft is left to the mercy of the waves; when the sailors who
were abandoned in the ocean rebel against the officers, and
when the survivors see the saving ship.
Théodore Géricault took a studio in Paris near the Beaujon
hospital, and he succeeded in finding an agreement with the
doctors there to study, on ill people and corpses, all nuances
of physical suffering and of moral anguish down to physical
distruction of the organism.
The studio was full of cut body pieces. This is the period in
which Théodore Géricault paints his dreadful "still lives" of
human limbs and of the guillotined heads.
In creating the powerful images of energy expressed between
desperation and hope, Théodore Géricault remembered
Michelangelo in the Giudizio Universale and in the Diluvio of
the Sistine Chapel vault, Caravaggio, and the Bolognesi. As
far as the French are concerned, he remembered Gros and
Guérin, Girodette and Jouvenet.
He painted various studies, two of which are considered by
art historians as better than the large painting (oil on canvas,
cm. 491 X 716) kept in the Louvre. The picture was bought by
Mr Dedreux-Dorey for 6.000 francs, and it was sold uneasily
for the same amount to the Louvre.
Théodore Géricault was born in Rouen on September 26,
1791 and he died in Paris on January 18, 1824 because of a
uncured fall off a horse. In 1847-48 historian Jules Michelet,
professor at the Collège de France, held a magnificent course
on Géricault, that was interrupted by authorities during the
third lesson.
Michelet saw in Géricault the national revolutionary artist of
France, who had not been defeated by Restauration, and who
in painting the Raft had depicted a desperate image, yet full
of hope.
Michelet writes: "There was an unconsoling dialogue, maybe
one day in 1823, before the entrance to the Opera ballroom,
between a friend of mine, a man of the world, a very
humorous artist, and a strong young man, a great man
whose heart had been struck, who seemed to look for a more
rapid death in pleasures. I am talking of the first painter of
this century, the unhappy Géricault. That friend of mine saw
he was so sad among that happy crowd, the elegant ladies,
chariots, lights; he was dressed up for a gala, wearing yellow
gloves, but so much changed! The very sweetness of his
penetrating eyes was then the hardness of the terrible mask
everybody admired. The genius still shone on his face, but
energy did not, in fact there was a mortal ardour in making
the world his, that was escaping from him, and his eyes were
those of a falcon!"
So ghostly did the painter who had painted the shipwreck of
France appear to Michelet. He had not seen any soccour
coming -- adds Michelet -- and he had let himself fall slowly
off the raft.
Dario Micacchi
THE “RAFT OF LEDUSA” BY THéODORE GéRICAULT
170
LA ZATTERA
Italosono passato lunedì mattinac’era la tua macchina sotto la tettoiatu eri uscito a pescala porta dello studio era apertaho lasciato un cartone tondo con alcune costole in vistal’ho appoggiato all’anta della portale altre ferite le avresti inferte tunecessarietiravi su con la lenza un legno dopo un altrola tela di belgio era un lusso che non volevi permettertimolti erano fradici con gli angoli spugnosi attaccati dalla muffali soppesavi mentre aumentavi il bottinoho ancorato ad una pietra il cartone per non farlo volare vial’ho cercata nel tuo giardinoprato e ornellic’era la legna per l’invernole sedie accatastate per gli amicila testa da restaurare per il caproil carro con le stanghe verso il cielole melemarce sotto l’alberole azalee spoglie e impigriteil budello di gomma per l’acqua in letargo vicino al pozzoho trovato la scheggia di porfido del vialettosotto il cipresso schiantatotu depositavi la pesca in un intrico gocciolante di sfasciumesfrangi di cime ancora legati a tavole smozzicatecerniere arrugginite di salsedinestracci che erano state veleschegge bituminose di pali maestril’arsenale povero di una migrazioneli accatastavi a caso ma già ne stimavi l’architetturasono andato via abbandonando la refurtivail cartone bello come lo scudo di Achilleho lasciato aperto il cancello di ferro dipintosarà più facile per te ospitare l’ingombro
c’erano i colori ancora gocciolanti sul tuo cavallettoho appoggiato il pollice al verde e l’ho assaggiatosapeva di naufragiol’acqua è pietosa a voltetu tiravi a riva il necessariosolo lo stretto necessariol’avevamo visto insieme a ParigiGéricault ci colò a picco lìin quel preciso momentoe anche gli approdi di levante alla televisione“un’umanità in agoniai prezzolati marinai della speranzagli straccioni immobili al vento della tragedia”il mare ti bagnò i piedisquillò anche il telefonolungamentepoi riattaccaronola radio era rimasta accesadalla finestra si vedeva la campagna difrontearrivava il fetore delle fabbricheun uccello meccanico era precipitato in un tuo quadrol’occhio metallico guardava fisso nel vuotosi componeva la zattera e si arricchivail tuo arsenale sapeva di pece raffreddatami guardavano i volti di zolfo di Palinurogli amici irriconoscibili della cosmesiDario non ce la feceallo stesso modo affondò lo Svedesepoi fu la volta di Ginotentasti l’estremo gesto della mano tesama avevi dipinto le onde troppo grandil’ammiraglio decise l’abbandononoi rompemmo gli ormeggihai fatto quello che potevii legni non tenevano piùe li incollasti con il rembrandt azzurro.
Sergio Zuccaro
a Italo Scelza
171
“La zattera nella grande lunetta”, 1994 - olio su legno cm 105x220
172
La grande zattera, 1991 - olio su legno cerato cm 110x110
173
Particolare della grande zattera, 1991 - olio su legno cerato
174
Più che una “pittura di storia”, come è parso a qualche
recensore, nella sua più recente produzione figurativa, Italo
Scelza è tornato a raccontarci l’ombra della vita o - come
opportunamente s’intitola un suo trittico dell'89 - “Il gioco
degli scuri”: quell'insieme di non-fatti, non-avvenimenti che,
accompagnandoci nella nostra esistenza, si allungano e
crescono intorno a noi fino a formare un alone, uno spazio in
cui si disegna, in controluce o di sbiego, il nostro destino.
Raccontare, per Scelza, è sempre stato diverso dal raccontare
una storia allegorica. Un pittore non dovrebbe mai dedicare la
sua attenzione, secondo l’artista avellinese, a quel superficiale
intreccio di fatti, di gesti e di azioni in cui si organizza
esteriormente la vita. I
“fatti” non esistono; e
non appena si cerchi
di cogliere la vita al di
fuori della sua musica,
della sua ombra, essa
si è già dileguata, o si è
i r r i g i d i t a n e l l a
rappresentazione di sé
s t e s s a , i n u n
movimento teatrale.
Senonché, lo strano è
che Scelza non è un
pittore “scenografico”,
visivo tout court, di felicità un pò epidermica come i cosiddetti
post-moderni: piuttosto è un artista intimo, solido, concreto.
Questo paradosso ha un’origine colta. Bisogna partire da due
grandi solchi culturali che trovano, in lui, una foce spontanea
e naturale: da una parte la grande pittura italiana della fine del
Cinquecento nel suo aspetto più drammatico e nel suo
accento più visionario (Lelio Orsi, Guido Reni), e dall’altra la
poesia simbolica, Rimbaud e Mallarmé, per intenderci. L’antica
pittura emiliana fa da basamento, da ponte che assicura
effettualità e vigore alla carpenteria, mentre dai simbolisti
Scelza ha ereditato la vertigine chimerica della visione,
l’éclairage, il lampo che accende e fa essere le cose “altre” da
come appaiono.
Ma dai post-simbolisti e prima ancora dalla poetica romantica
di Géricault, Scelza ha imparato qualcosa di più, un segreto
formale. L’esperienza della pittura non ha mai fine e non si
conclude nel “testo”, nel prodotto finito: essa, al contrario,
attraversa i singoli quadri e ne esce per ricominciare a
manifestarsi in altri quadri che a loro volta sono illimitati.
Un’opera come La sedia di Veroli dell’89 o come La lunetta
degli odori dell’anno seguente è solo lo spaccato accidentale
di un processo che non smette mai di riformarsi e di
riprodursi. La pittura non può essere formata, se non a
condizioni di distruggere la visione che le dà la vita.
Si potrebbe definire Scelza un pittore da “laboratorio”, ma è
un’etichetta che lo mortifica. Egli non lavora sui materiali
m o r t i , i l m o n d o
irrompe nelle sue
tavole con una vitalità
infettiva e contagiosa.
I vecchi legni dipinti da
Scelza sono abitati dal
silenzio e dall'infinito
c o m e s e c i ò c h e
vediamo e scrutiamo a
pochi centimetri dal
nostro occhio miope
potesse restituirci il
pensiero che l’universo
è visibile, nella sua
immensità, in ogni punto, fuori dal nostro sguardo, separato
da noi, nella sua atmosfera tenebrosa, nelle sue inquadrature
inesistenti.
Per questo la tavolozza scelziana non ama la luce e non la
cerca. In Kemp è sospeso del ’90 e nel ciclo La zattera del ’91
l’orizzonte fenomenologico è tagliato in un punto qualunque,
segato, come in certe fotografie, da una linea estrema e
brutale, al di là della quale c’è il nulla: tutto ciò che l’obiettivo
non ha saputo o potuto aggiungere.
Di proposito, questi quadri di Scelza sono concepiti al limite
del nulla, tagliati e sagomati da termini tali da suggerire che il
visibile continua ad estendersi, a glorificarsi indifferente al di
fuori di noi.
Il caos della visione sembra una metafora dell’inconscio,
NEL "DOPPIO REGNO" DI ITALO SCELZA
175
dove l’ordine è misterioso e il tempo non misurabile; dal
quale per incontrollata associazione affiora un’immagine, un
ricordo, utili e destinati a gettare luce sulla realtà. Che l’opera
ultima di Scelza provenga direttamente dall’inconscio, è
incontestabile. In effetti non è più questione, come ne I
giardini del futuro del ’71, di personage et son double, ma di
un’acquisizione, su di sé, delle molteplicità di un sogno
meticoloso, denso di illuminazioni, germinale. E’ un
autoritratto della sua avventura, del suo stupore di aver
attraversato città, stanze, luoghi, sempre ai confini del sonno,
aprendosi alla meraviglia, tanto da essere ora, quel viaggio,
un dépassement de soi-même.
Ma è forse ancor di più: un ritratto per il quale l’autore si
proietta nella sua traccia, assume su di sé quelle rivelazioni
del passato da cui sono scaturite nell’83 lavori significativi
quali Il trittico Biscari e La loggia dei Crociferi.
Credo di aver incontrato raramente, in altri cicli figurativi di
questi anni, un terrore così angoscioso della realtà. Senza un
grido, senza un sussulto, un movimento di protesta o
ribellione, le immagini del “doppio regno” di Scelza si
escludono dal mondo.
Chi si esclude - dice Freud - si chiude: per l’anima ferita non
esiste che l’esercizio sistematico della claustrazione, che qui
viene praticato con una mescolanza di felicità e d’orrore,
perché Scelza sa bene che rinchiudersi è un gesto che insieme
salva e uccide. Mentre ne Il Poseidone di Guido dell’89 e ne
L’ornello e le muse del ’90 si nasconde dietro le sue
scenografie immaginarie, l’io viene assalito da un acutissimo
senso di colpa, che si estende fino a riconoscere in tutto ciò
che accade un peccato nascosto. E poi c’è un’angoscia ancora
più tremenda: chi gli assicura che, là fuori, la realtà esiste
ancora? Forse il mondo è soltanto un riflesso fantastico dell’Es;
e, oltre la scenografia, in quel teatro scelziano di volti
sfuggenti e di grida che lo hanno tanto impaurito, non esiste
nemmeno un’ombra che scivoli silenziosamente dentro lo
specchio.
Floriano De Santi
176
La zattera due, 1990 - olio su legno cerato cm 110x110
177
Progetto zattera, 1990/91 - olio su legno cerato
178
Il crepuscolo, 1991 - olio su legno, lunetta cerata cm 40x90
179
L’officina della zattera, 1990 - olio su legno cerato cm 50x70
180
LA ZATTERA DEI NAUFRAGI, TEMA CARO AGLI ARTISTICorriere della Sera 30 ottobre 1991
PAESAGGI E OMBRE LUNGHE IN UN CREPUSCOLO DI LUCEIl Messaggero 21 ottobre 1991
LA “ZATTERA DELLA MEDUSA” CON GLI OCCHI DI UN CONTEMPORANEOIl Tempo 9 novembre 1991
La zattera dei naufraghi è un tema caro alla poesia e alla
pittura, da sempre, da Omero a Shakespeare, da Paolo
Uccello a Géricault. Italo Scelza cerca di rivivere in termini
attuali l ’esperienza di Géricault, immaginata come
paradigmatica della condizione moderna, in una serie di
piccoli pannelli che costituiscono una specie di particolare
“vademecum”, oppure di un piccolo, se così si può definire,
dizionarietto del disastro. Colori vivaci pur sotto cieli
procellosi, corpi affastellati, pose manieristiche, citazioni da
altri dipinti costituiscono gli ingredienti di una pittura
movimentata, nella quale il senso del trascorrere, della storia
rapinosa degli elementi è tutto, e solo può temperarla la
gradevolezza del colore, la ricchezza di una strutturazione
cromatica che permane sempre rassicurante e confortevole in
un orizzonte che ondeggia e si frantuma. Ed effettivamente le
opere meglio riuscite mi paiono quelle nelle quali si vede il
fasciame delle navi che si disintegra creando emblemi araldici
d’invenzione, simbolo d’una signoria sulla natura
irrecuperabilmente perduta.
Enzo Bilardello
Il ricordo della “Zattera della Medusa” di Géricault è il tema
che Italo Scelza sviluppa in questa sua personale (galleria Ca’
d’Oro, piazza di Spagna 81 fino al 7 novembre). Come
fotogrammi visti alla moviola scorrono così sulla retina
dell’artista i brandelli della sconvolgente terribilità di quel
capolavoro risolvendosi in suggestioni emozionali. Ciò non
per un pedissequo omaggio ma in virtù di un gioco di rimandi
che trova Scelza impegnato ad analizzare la situazione del
vissuto leggendo di quell’opera il senso di dissipazione della
società che il suo significato racchiude. Da qui gli spezzoni di
forme, l’addensarsi delle tensioni volumetriche, l’estendersi
del tessuto pittorico sull’asperità del supporto ligneo, la
singolare luminosità dell’insieme che scandisce i dettagli e,
nello stesso tempo, li fa debordare dai limiti del quadro. Il
tutto nell’ambito di una duplicità di lettura che se angolata dal
punto di vista di un ottimismo della volontà consente di
interpretare quella frammentazione che attraversa uomini e
cose come la speranza redentiva di una possibilità di rinascita
dopo la caduta. Quasi per illusione ottica le forme, allora,
tenderanno a riassemblarsi per costruire una rinnovata unità
nel cui spazio l’uomo possa tornare a guardarsi attorno.
Vito Apuleo
Le crisi ideologiche (dice Scelza)hanno provocato solo
apparentemente un congelamento di pensiero e di azione, ma
il pittore, che ha la fortuna di vivere il quotidiano non solo sul
piano realistico, ma soprattutto su quello immaginario, vive
queste crisi, in maniera diretta e intensa, e la trasmette nelle
sue opere con tutta la sua forza e la veemenza immaginativa
perché restino e possano fissare date importanti.
Franco Simongini
181
The castaway raft has always been a topic beloved by poets
and painters, from Homer to Shakespeare, from Paolo Uccello
to Géricault. Italo Scelza is trying to put Géricault's
experience into modern terms, imagining it as a paradigm of
human condition at present times: a number of small panels
build a kind of special "vademecum", or a small, as it were,
dictionary giving definitions of disaster.
Bright colours under yet stormy skies, disorderly put together
bodies, mannerist poses, quotations from other paintings: all
these elements are the main ingredients of a lively painting
style, for which all that matters is in the flowing of events, in
the violence of natural elements.
Only pleasant colours and a rich colour structuring can in
some way mitigate it, giving it a sense of reassurance and
comfort in a waving and disintegrating horizon.
The best works seem to be those in which you see the planking
of ships disintegrating to create imaginative heraldic
emblems, which stand for a definitely lost power on nature.
Enzo Bilardello
THE CASTAWAY RAFT, A TOPIC BELOVED BY ARTISTSCorriere della Sera 30 ottobre 1991
LANDSCAPES AND LONG SHADOWS IN A DUSK FULL OF LIGHT Il Messaggero 21 ottobre 1991
THE “RAFT OF MEDUSA“ SEEN BY CONTEMPORARY EYESIl Tempo 9 novembre 1991
The memory of the "Raft of Medusa" by Géricault is the topic
developed by Scelza in this one-man-show (Ca d'Oro gallery,
Piazza di Spagna, 81, until November 7). Like pictures seen
through a moviola, so do flow in the artist's eye bits of the
shocking terrible sense of that masterpiece, summed up in
emotional suggestions. It is not a tribute, but a game of
correspondences in which Scelza is analysing life, while
reading in that work the sense of dissipation of society it
encloses.
From this idea come the fragments of forms, the tense
volumes, painting on wooden asperity, the luminosity of the
whole that underlines details and, at the same time, makes
them go beyond the picture frame. All can be read in a
double way, that, if seen with optimism of the will allows us
to interpret such fragmentation touching men and things, as
the redeeming hope of a possible rebirth after the fall.
Like in an optical illusion, then, forms tend to come together
again, to build a renewed unity inside which man can look
around.
Vito Apuleo
Ideological crises (says Scelza) have only apparently frozen
thought and action, but luckily a painter, lives the everyday
life not only on a realistic, but also on an imaginative level,
he lives such crises in a direct and intense way, and he
passes them on his works with all his imaginative strength
and violence, so that they can picture important dates.
Franco Simongini
182
lA cASA rOSSA dI hUMbOldT
184
185
La casa rossa di Humboldt - S. Francisco 1996, trittico - olio su legno cm 220x180
186
187
MAcchINe dI FeSTA
188
I would describe Italo Scelza’s painting as a form of mental
constructivism, the manipulation of objects that can only exist
as concepts, as evidence of things that have either happened,
or not yet happened, or are even imagined, a way of
reproducing the mysterious texture of waking dreams, of
dreams in sunlight. And Scelza’s work is indeed solar painting
in its alternation of images that sometimes lack human
presence, but which share the pulsation of humanity, like the
flow of blood in relation to the stream of the rivers, hints of
foamy water, in order to enliven the stillness of the sky, like
the beginning of a firework display albeit in daylight, thus a
hidden vision of a space which is
never abstract and certainly not
abstruse, but which even has
territorial connotations, where one
can identify the route, however
tortuous, towards solarity. There is
something ritualistic about this, as if
the outcome were conditioned by the
emotional experience, by the craving
to externalize, which is also the desire
to exceed oneself, by the insatiable
desire to achieve the precise
awareness of being able to transform
one's cognitive creativity into an
instrument capable of receiving those
fixed points of reference, temporal
and spatial, on which to construct the
legendary building designed to
receive that sort of nuclear power station which is the human
mind, too often considered as a sort of computer chip. Scelza'
s painting, to adopt an expression which risks sounding like a
cliché, is a universe which expands in every direction, dotted
with focal points which continually transform the patterns of
memory (the transformation is always under the control of
reason), and which can therefore assume musicals,
connotations such as the evocation of the legendary music of
the spheres, associated with the Pythagorean universe. And it
is this which enables Scelza to communicate on the same
wavelength as Leonardo. He is himself solar, optimistic,
constructive. His message reaches us loud and clear over the
ether of our feelings, anxieties, uncertainties, our suffering
and anguish, as if it had always traveled in time.
DREAMS IN SUNLIGHTIL COSTRUTTIVISMO MENTALE
Definirei la pi t tura di I ta lo Scelza una forma di
costruttivismo mentale, manipolazione di oggetti che
possono esistere solo come concetti, testimonianze di
eventi accaduti, un modo quindi di replicare il tessuto
misterioso dei sogni alla luce del Sole. E pittura solare lo
è, quella di Scelza, nell’avvicendarsi di immagini cui non
sempre è conferita presenza umana, ma che dell’umanità
condividono il pulsare come nel flusso del sangue
rapportato a quello dei fiumi, accenti d’acqua spumosa a
ravvivare l’immobilità del cielo come esordio di spettacolo
pirotecnico paradossalmente mediano, visione sottesa,
quindi, di uno spazio non mai
astratto e tanto meno astruso, ma
perfino con connotazioni territoriali,
dove si può individuare il percorso,
sia pure tortuoso, verso la solarità.
C’è qualcosa di rituale, in questo,
come se l’esito fosse predisposto
dalle esperienze emotive, dall’ansia
di estrinsecazione, che è poi di
superamento, dall ’ inappagabile
desiderio di conseguire la precisa
consapevolezza di poter fare della
propria creatività conoscitiva lo
strumento di recezione dei punti
fermi di riferimento, temporali e
spaziali, sui quali costruire il mitico
edificio destinato ad accogliere
quella specie di centrale nucleare
che è la mente umana, troppo spesso considerata alla
stregua di un chip di computer. La pittura di Scelza, per
dirla con una espressione che rischia di suonare cliché, è
un universo che si espande in ogni direzione, popolato di
punti focali che fanno della prospettiva della memoria un
continuo sconvolgimento pur sempre dominato dalla
ragione, e che può, quindi assumere connotazioni musicali
come a evocare i l leggendario suono delle sfere
dell ’universo pitagorico. Ed è così che Scelza può
trasmettere sulla stessa lunghezza d’onda di Leonardo.
Egli stesso è solare, ottimista, costruttivo. Nell’etere dei
nostri sentimenti, delle nostre ansie e incertezze, delle
nostre sofferenze e angosce, il suo messaggio ci giunge,
chiaro e distinto, come se viaggiasse da sempre nel
tempo.
Carlo PedrettiCarlo Pedretti
189
I cipressi dell’isola, 1995 - tecnica mista su cartone cm 100x70
190
191
La vergine rotante, 1995 - tecnica mista su cartone cm 130x110
192
Le acque, 1994 - tecnica mista su cartone cm 76x56
193
Officina schèmata (particolare), 1994 - tecnica mista su cartone cm 70x100
194
Il ponte di Leonardo, 1995 - tecnica mista su cartone cm 90x110
195
I ponti di Leonardo, 1994 - tecnica mista su cartone cm 110x150
196
La cornucopia, 1995 - tecnica mista su cartone cm 70x100
197
L’isola di Leonardo, 1995 - olio su legno cm 100x120
198
deSerTIAde
200
La luna di Giza, 1999 - olio su legno cm 70x50
201
Figure a Giza, 1998 - olio su cartone cm 90x110
202
Il gioco delle vergini, 1997/98 - olio su cartone cm 40x40
203
Cheope e la notte, 1998 - olio su tela cm 70x45
204
Il dittico della città morta, 1998 - olio su cartone cm 140x100
205
La notte, 1998 - olio su cartone cm 130x110
206
L’Oriente è stato sempre una specie di calamita, di suggestivo
magnete capace di attirare, di catturare con la forza della sua
alterità, la fantasia, l’estro creativo di molti artisti occidentali,
scrittori, poeti e naturalmente pittori. Ma quasi sempre esso è
stato vissuto e dunque rappresentato nei suoi aspetti più
vistosamente folclorici, nei suoi elementi più scopertamente
esotici. L’Oriente diventava l’occasione di evasione, pretesto
per sfuggire ai disagi della civiltà, approdo ad una realtà
edenica e dunque immobile e atemporale.
Visioni sostanzialmente false o quantomeno superficiali, di
maniera, consolatorie.
Oggi, naturalmente, un artista è più scaltrito e meno ingenuo
e difficilmente si lascia fuorviare dalle sollecitazioni di più
immediata e facile presa.
Ma allora cos’è, che cosa può rappresentare l’oriente per un
artista contemporaneo se è vero - come è vero - che al di là
delle latitudini e delle diverse sedimentazioni culturali e delle
differenti tradizioni, l’autentico problema per ogni artista -
europeo, americano o africano che sia - è quello di instaurare
un rapporto credibile seppure drammatico, tra sé e il mondo,
tra sé e la realtà, tra sé e la vita?
Questo interrogativo mi faceva sempre più pressante davanti
ad una serie di opere recenti che Italo Scelza ha dedicato
all’Egitto.
Che l ’art ista non fosse interessato all ’aspetto più
scopertamente esotico e incantato di quel mondo, che non
fosse attratto dagli elementi più suggestivamente visivi di
quella civiltà, che non si ponesse difronte a quella realtà con
la disposizione dell’illustratore, lo si capiva di colpo. L’Egitto
al quale Scelza ha attinto non è quello rutilante, folclorico,
svelato e dunque stereotipato e prevedibile dalle guide
turistiche, ma quello enigmatico, cifrato, simbolico, sottratto al
suo immaginario e riemerso dal fondo della memoria storica.
Guardando queste sue opere, in cui il dettaglio diventa più
eloquente di una dispiegata illustrazione e il simbolo (la
Piramide ridotta alla perfezione di un triangolo) più allusivo
di una rivelazione, si comprende che questo Oriente
immaginato e rappresentato da Scelza non è che un altrove,
misterioso e concreto, indecifrabile e palese, dove l’artista
raggruma le pulsioni e trasferisce gli enigmi dell’esistenza.
A rafforzare questa mia impressione che non di un luogo
geograficamente delimitato si tratta, ma piuttosto di uno
spazio metafisico, di una regione dissepolta dai fondali della
memoria, concorre un’altra circostanza e cioé che queste tele,
dalle quali è scomparsa la presenza dell’uomo (solo sullo
sfondo di una di esse si intravede una sagoma fantasmatica)
sono abitate dal silenzio e dalla notte, o meglio dal silenzio
della notte.
Tele giocate sul bleu che tende a sconfinare sul nero , solo a
volte screziato da tracce di colore più vivido, queste opere si
caricano di una marcata valenza simbolica e quello che esse
ci comunicano non è tanto il mistero delle notti orientali, un
tema per altro caro a un certo filone di decadentismo europeo,
ma la lucida presa di coscienza della condizione umana, che
sotto tutti i cieli sotto tutte le latitudini è diventata sempre più
aleatoria e drammatica.
Così i tre quadri che formano il “trittico” e che all’apparenza
rappresentano tende di beduini nel deserto si trasformano in
avamposti le cui aperture-feritoie si spalancano forse
sull’infinito, o forse, più probabilmente, sul vuoto, sul nulla.
Scelza, artista di lungo corso, che è stato sempre spinto da
un’ansia di ricerca, da una volontà di decifrare le
contraddizioni del reale e che non ha mai rifiutato di misurarsi
né con “i miraggi” della tecnologia né di confrontarsi con i
grandi temi della tradizione, è approdato, in questa fase più
recente del suo lavoro e sulla soglia del terzo Millennio, ad
una interrogazione estrema, radicale sulle sorti dell’uomo.
Giuseppe Neri
L’ALTROVE DI ITALO SCELZA
207
L’officina dei ricordi, 1999 - olio su tela cm 220x200
208
The Orient has always been a sort o magnete, a charmed
magnete attracting and capturing, by dint of its own
otherness, the fantasy, the creative genius of many Western
writers, poets and, naturally, painters. But it was nearly
always felt, and therefore represented, in its most gaudily
folclohristic aspects, in its most openly exotics elements. Thus
the Orient became an occasion of escape, a pretext for
running away from our civilization’s discomfors and landing
in an Edenic reality, whic was therefore motionless and
timeless.
Substantially false, or at least superficial, vision-whic are
affected and consolatory.
Obviously, today an artist is less naive and too shrewdly alert
to be taken for a ride and be a prey to immediate and facile
lures.
What is it then, what can the Orient represent for a
contemporary artist, if it is true - as indeed it is - that,
anywhere, within any cultural milieu and whatsoever
tradition, the real problem for every artist (European,
American or African) is to establish a credible - albeit
dramatic - relationship between himself and the world,
between the inner self and the outher reality, between himself
and life?
This question was becoming, for me, ever more pressing in
front of a series of recent works which Italo Scelza has
dedicated to Egypt.
That the artist was not interested in the most openly exotic
and charming aspects of that world, that he was not attracted
by the most picturequely visual elements of that civilization,
that he did not place himself in front of that reality with an
illutrator’s frame of mind, all this was immediately clear.
The Egypt by which Scelza has been inspired is obvipusly not
the flamboyant, folkloristic, “revealed” and therefore
conventional and stereotyped Egypt of baedekers and
tourists’guides, but the mysterious, crypitic, symbolic Egypt,
stripped of its “imaginary” and re-emerged from the bottom of
historical memory.
Looking at these works of his - in which the detail becomes
more eloquent than a full-scale illustration and the symbol (a
pyramid reduced to the perfection of a triangle) appears more
allusive than a revelation - one understands that this Orient,
as Scelza imagined and represented it, is nothing but an
“elsewhere”, both mysterious and concrete, indeciphearble
and evident, where the Artist conglomerates life’s pulsions
and transfers life’s riddles.
My impression that this was not a geographically delimitated
place but, rather, a metaphysical space - a region unearthed
from the depth of memory - was reinfoced by another
circumstance - the fact, I mean, that these canvases, from
which man is ever absent (only in the background of one you
see a ghost-like shape) are innabited by silence and night, or
rather by might’s silence.
A blue that tends to trespass into blackness, only sometimes
mottled by traces of a more vivid colour, prevails in these
paintings which are charged with a strong symbolic meaning;
and what they communicate to us is not so much the mystery
o Oriental nights (a theme cherished by a certain brand of
European decadentism) as a lucid awareness of the
Condition Humaine (in Malraux’ words) a condition ( or
situation) which, under whichever skies and at whatsoever
latitude, has become ever more hazardous and dramatic.
Thus the three paintings making up the “Trittico” and
apparently representing Bedouins’ tents in the desert
transmogrify themselves in outposta, whose embrasures - or
slit-like openings - perhaps overlook infinity or, more
probabbly, nothingness - the void.
Scelza, an artist of long standing, who has always been
pushed forwards by an anxiety of research, by a will to
compete both with technology’s “mirages” and tradition’s
major themes, has arrived, in this new phase of his work, on
the threshod of the Third Millennium, at an extreme, radical
interrogation on Man’s destiny.
Giuseppe Neri
ITALO SCELZA AND HIS “ELSEWHERE”
209
L’uomo di Khan-El-Khalil, 1998 - olio su cartone cm 70x100
210
ESSENTIAL BIOGRAPHYBIOGRAFIA ESSENZIALE
Italo Scelza, pittore e docente di pittura all’Accademia di Belle
Arti di Roma, nasce ad Avellino nel 1939. Negli anni ‘50 è a
Napoli per ragioni di studio. Nel 1960 soggiorna in Ciociaria,
per poi trasferirsi a Roma. Nel 1970 prende studio a
Milano. Dal 1962 è presente senza interruzioni nelle più
importanti gallerie italiane. Sempre attento nell’annotazione
del momento sociale dell’arte, è un nome ricorrente nelle
mostre di forte tensione storica. I suoi primi interventi sul
territorio iniziano nel 1973 a Gualdo Tadino (Immaginazione
e Potere - Editori Riuniti), nel 1974 a Saronno (L’Uomo e la
città), (Festival Mondiale della Gioventù di Berlino), nel 1979
(Le Piazze di Messina: Ipotesi per un gioco), nel 1980 (De
Umbris Idearum - La Macchina della Memoria di Giordano
Bruno). E’ specialista della venerazione per la memoria
storica come tale ma rivissuta, e riedificata con lo spirito
inquieto e dialettico della cultura contemporanea. A questo
proposito si possono citare due interventi importanti: Gli
Stucchi Colorati dal Sole (lettura del fiammeggiante Barocco
di Catania) con testimonianza di Paolo Portoghesi e La Piazza
diventò Teatro rigenerazione della possente manifestazione
dei Gigli di Nola. Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale con
un grande trittico Gli Uomini della Ricostruzione e nello
stesso momento dipinge un altro trittico Il Gioco degli Scuri.
Nel 1989 inizia l’esperienza americana soggiornando prima in
Canada tenendo una mostra personale a Toronto e poi in
California tenendo una mostra in S. Francisco. Le sue opere
sono in molte collezioni pubbliche e private sia in Italia che
in Europa. Negli ultimi due anni Italo Scelza rilegge
pittoricamente La Zattera della Medusa di Théodore Géricault,
l’opera ottocentesca nella quale il grande pittore francese
avverte il dramma dell’uomo di oggi. Scelza vive attualmente
tra Roma e il suo studio di campagna in Ciociaria nel territorio
di Supino.
Tra i suoi ultimi studi interessante la sua ricerca su Leonardo
in collaborazione con il Prof. Carlo Pedretti, con il patrocinio
dell’Hammer Museum di Los Angeles.
Italo Scelza, Artist and lecturer of painting at the Accademia
di Belle Arti of Rome, was born in Avellino in 1939. He lived
in Naples during the 1950S enabling him to study there. In
1960 he moved to Ciociaria, and after that to Rome. In 1970
he opered a studio in Milan. From 1962 onwards he has
been in the most important Italian art galleries. Always
aware of the social meaning of art, he is a current name in
exhibitions of strong historic tension.
His first attempts in this sphere started in 1973 at Gualdo
Tadino (Imagination and Power-Editori Riuniti), in 1974 at
Saronno (Man and the City), (The World Youth Festival in
Berlin), in 1979 (The piazzas of Messina: Hypothesis for a
Game) in 1980 (De Umbris Idearum - The Memory Machine
of Giordano Bruno). He is a specialist in the veneration for
the historic memory, like so but relived and recostructed with
a restless spirit, and in touch with contemporary culture. We
can refer to two important events regarding this: The
Coloured plaster figures of the Sun (reading of the blazing
Barocco of Catania) with the testimony of Paolo Portoghesi
and The Piazza becomes Theatre, a regeneration of the
powerful manifestion of the lilies of Nola. In 1986 he
participated in the XI Quadriennale with a large tryptich The
Men of Reconstruction and at the same time he painted
another tryptich Il gioco degli Scuri. In 1989 he started his
American experience living first in Canada and holding a
personal exhibition in Toronto and then in California
holding an exhibition in San Francisco. His works are in
many collections both public and private, in Italy and the
rest of Europe. In the last two years Italo Scelza has re-read
pictorially La Zattera della Medusa of Theodore Géricault, the
18th century work with which the great French artist feels
man’s drama of today.
Scelza now lives partially in Rome and partially in his studio
in the Ciociaria countryside in the territory of Supino.
Amongst his latest interesting studies, is his research on
Leonardo in collaboration with Professor Carlo Pedretti,
under the auspices of the Hammer Museum of Los Angeles.
211
ITALO SCELZA, “I DISASTRI DI UNA TERRA”Avellino, 23 novembre 1999
comunque piegato al prioritario impegno del far pittura.Parimenti, avendo citato Metafisica e Surrealtà, vorrà dirsi che il luogo dell’accennato estraneamento trae, sì, dall’una e dall’altra, tenendo però a mente gli assunti di un dialogo tra Sigmund Freud e Salvador Dalì nel quale il primo dice al secondo che quel che lo interessa della sua pittura non è l’inconscio, ma il “metodo della simulazione”. E pur tenendo a mente che de Chirico parlava di “sogno allo stato di veglia”. Frase che, ovviamente, ne allontana gli esiti da quella “onnipotenza del sogno”, celebrata da Andrè Breton nel “Manifesto del Surrealismo” del 1924, e che condusse al misconoscimento, dopo la prima elezione a referente, del Metafisico da parte dei surrealisti.Freud e de Chirico, in fondo, asseriscono il medesimo
concetto. Poiché il “metodo della simulazione” dichiara la presenza della coscienza (un pittore sa bene, infatti, che un dipinto è costruzione di elementi fondamentali e per nulla casuali), così come sostanzialmente cosciente è lo “stato di veglia” del sogno dechirichiano.Credo di poter dire che la pittura di Scelza, nei suoi vari momenti e passaggi, si collochi comunque in questo ambito. Che è estraniante in q u a n t o a c c e t t a l ’ i n c o n g r u o (apparente) quale formulazione composit iva ed interlocutoria; estraniante, ancora, perché non rigetta la memoria storica (si veda il recente ciclo leonardesco, introdotto da Carlo Pedretti ed esposto a Los
Angeles). Il che, si badi, non vuol pur dire che il pittore non sappia e profondamente non viva le condizioni del quotidiano.Qui giunti, sembrerebbe più agevole avvicinarsi alle odierne litografie, nate da disegni ed acquerelli compiuti de visu nei giorni del terremoto. Perché queste parlano, comunque, di storia. Perché, comunque, la catastrofe è essa stessa estraniante.Precisamente, quindi, nelle corde di Scelza.Basterebbe osservare la pagina ove, rastremato nel segno grafico (che è sintesi mentale e, quindi, culturale) è il Palazzo de Concilis. E poi, seguitando a parlar di storia e di memoria, non è dubbio che, quanto meno foneticamente, “I disastri d’una terra” evochino i goyeschi “disastri della guerra”.
Quando un artista, come nel caso odierno di Italo Scelza, rende omaggio alla propria terra: a quanto di drammatico è accaduto, segnandola profondamente, alla propria terra, non è solo un momento di gratificazione della memoria della quotidianità, ma una maniera ulteriore per affermare presupposti e radicamenti culturali, prima ancora che umani. Si avverte, ne “I disastri di una terra” insomma (il terremoto di Avellino), non solo la partecipazione ad un dolore che può dirsi corale (distruzioni, affanni, perdite, morte), ma un dolore più profondamente segreto. In sintesi, è il rapporto che ognuno conserva del trascorso.Un artista, dicevo, a sua volta conserva e rivela una memoria ulteriore. Che è, naturalmente, il proprio modo di intendere l’arte che si dà in chiave di ismo e che, per quanto possano esser profonde le lacerazioni –o propr io perché assolutamente profonde- appaiono chiarissime dagli esiti generati dalla memoria, appunto.D’altra parte, in “Primi saggi di filosofia delle arti” pubblicato in “Valori Plastici” nel 1919, Alberto Savinio scriveva che “L’Arte nasce dal fecondo grembo della Memoria”.E’ in questa chiave, allora, che vanno lette e considerate le immagini che Scelza propriamente dedica alla memoria del dolore corale, e a quella del suo dolore umano e culturale.I termini memoria ed ismo conducono, perciò, a riflettere circa lo spazio che il pittore occupa oggi, e su quello in cui il suo segno s’inserisce. Discorso che, a sua volta, rimanda ad una riflessione ulteriore su quella che chiamerò la fortuna (o la sfortuna) delle arti figurative degli anni Sessanta e Settanta (decenni in cui Scelza avvia e matura la sua esperienza): momenti di pittura intesi da pochi. Tra l’ultimo informale e le prime sperimentazioni, infatti, molti hanno creduto di poter fare a meno della storia. La quale, per un artista, è la “memoria” di Savinio.Qual è, dunque, l’ambito di Scelza? Si crede di poter dire che questo s’identifica nella situazione di un realismo estraniante (ricordo un quadro d’anni settanta dal titolo Piazze d’Italia) che, per esser tale, prende fiato e corpo sulla meditazione dei codici surreali e, per via di questi, metafisici. Il che per nulla esclude i termini di un impegno anche ideologico (un altro quadro dello stesso periodo: Officina uno), ma sempre e
212
La città morta, 1999/2000 - olio su cartone cm 60x50
213
214
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DARIO MICACCHI Saggio critico - Catalogo Rassegna Genazzano - 8-10-1972
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RENZO VESPIGNANI «Estasi tecnologica» - Testimonianza
GUIDO GIUFFRé Presentazione mostra personale «Arte Cortina» - Cortina d’Ampezzo, agosto 1973
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GERARDO PEDICINI Presentazione catalogo - Mostra personale - Nola
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PAOLO PORTOGHESI Catalogo - «Gli stucchi colorati dal sole» - 1983
GIANFRANCO PROIETTI Catalogo - «Gli stucchi colorati dal sole» - 1983
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DARIO MICACCHI «Scelza e il sangue del barocco catanese» - L’Unità - 28 ottobre 1985
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GIANFRANCO PROIETTI «La seduzione affascina l’uomo» - Italo Scelza - Penthouse
TONINO DE LUCA «Provocazioni ecologiche nell’arte di Italo Scelza» - Il Tempo
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MARIO LUNETTA Rispuntano capolavori nascosti - «Roma» il piacere dell’immagine - febbraio 1992
COSTANZO COSTANTINI «Presentazione Editrice Grafica» - Schémata 1994
CARLO PEDRETTI «Presentazione catalogo» - Schémata 1995
LOREDANA REA «L’opera come lo specchio della memoria» - Flash Magazine 1995
RENATO CIVELLO Italo Scelza, La “Forma” del mistero. “Secolo 1999”
GIUSEPPE NERI L’altrove di Italo Scelza.
RICCARDO SICA « Nuovo Meridionalismo» 1999
SERGIO ZUCCARO « La Zattera»
DOMENICO GUZZI « I disastri di una terra » 1999
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BIOGRAFIA
Alcune mostre personali:
1962 Galleria Passeggiata di Ripetta, Roma.1964 Galleria La Mansarda, Napoli / Palazzo del Governo, Avellino.1965 Galleria Linea, Salerno / Galleria Le Muse, Colleferro.1967 Galleria La Navicella, Cagliari.1971 Galleria Ciak, Roma. 1972 Galleria Tassoni, Modena.1973 Galleria La Nuova Pesa, Roma / Galleria S. Croce, Firenze / Galleria Arte Cortina, Cortina d’Ampezzo.1974 Galleria Fante di Fiori, Bari.1975 Galleria Centro Arte, Nola / Galleria Il Portico, Cava dei Tirreni.1976 Galleria S. Benedetto, Brescia.1977 Antologica di pittura, Badia di Bettona (Perugia) - Comune di Anagni.1980 Galleria Carte Segrete, Roma.1981 Galleria Le Ore, Milano.1983 Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, Arezzo.1984 Mostra itinerante Galleria Arte Club, Catania.1985 Galleria Art Message, Roma.1986 Galleria Ariete, Roma / Galleria S. Vitale, Bologna.1987 Galleria Fierarte, Frosinone.1989 Galleria Carrier, Toronto (Canada).1992 Galleria Ca’ d’Oro, Roma.1993 Galleria Arte Club, Catania.1995 Castello Longhi de’ Paolis, Fumone.1997 Galleria L’Indicatore, Roma.1999 Chiesa del Carmine, Avellino2000 Antologica, Sala della Ragione, Anagni / Galleria The Court House, Toronto / Sala Alitalia per l’Arte, Aeroporto “J.F. Kennedy”, New York.
Alcune mostre collettive:
1962 IV Premio Nazionale di Anagni (premiato).1965 III Premio di Pittura Città di Ariano (2° premio).1967 Rassegna regionale di pittura sull’affranca- zione delle terre, Frosinone (1° premio).1968 Testimonianza sul Vietnam con Calabria, Caroli, Florida, Mattia, Gismondi, Rea, Loreti e Turchiaro.1969 Ricerche e ipotesi in Irpinia / Rassegna di grafica internazionale, Roma.1971 Indagini sull’aspetto surrealista di pittori contemporanei, Roma / Rassegna di grafica internazionale Galleria Ciak, Roma.1972 VII Rassegna del Mezzogiorno, Napoli / Ras segna della Giovane Pittura Italiana, Genaz- zano / Gli artisti al Festival del P.C.I., Roma / 100 artisti italiani per il popolo del Vietnam, Galleria Bevilacqua La Masa, Venezia / II Premio di Pittura Lunigiana Menhir d’Oro 1972, Villafranca Lunigiana / Rassegna d’arte Montesilvano.1973 XXI Premio del Fiorino Biennale Internazio nale d’Arte, Firenze / XXVI Premio Suzzara, Mantova / XVII Premio Campigna, Forlì / V Edizione Incontri Silani, Cosenza / Rassegna Nazionale di pittura, Anagni / Immaginazio- ne e potere Esperienza di gruppo, Gualdo Tadino / Festival Mondiale della Gioventù, Berlino / Esperienze di immagini sociali, Milano.1974 Gli artisti italiani con il Cile, Galleria Alzaia, Roma, Genova, Milano / Il Cile come la Comune, Milano, Parigi / L’arte presente, Amalfi / VI Edizione di Grafica Incontri Sila- ni, Cosenza / XXVII Premio Suzzara, Manto- va / V Edizione del Premio Mazzacurati, Giulianova (fuori concorso) / V Premio
Biennale di pittura, Castelnuovo Magra, La Spezia (1° premio) / L’uomo e la città, Biblioteca Civica, Saronno.1975 Egemonia-Esperienza grafica, Galleria La Nuova Pesa, Roma, Ascoli Piceno, Palermo.1976 XXVIII Premio Suzzara Evidenza dell’imma gine, Paliano / XIII Premio del Disegno Gal- leria Le Ore, Milano.1978 I Biennale di Reggio Calabria.1979 Il Figurativo alle soglie degli anni ‘80 Palaz- zo Cariati, Napoli / Galleria d’Arte Moderna, Palermo.1980 50 artisti per la Galleria Le Ore, Milano / Artificina-Parola e immagine Museo archeo- logico, Reggio Calabria / Ecologia interni esterni mostra di gruppo Galleria Tavazzi, Roma / Leonardo Chàteau sarriod de la tour, Vallée d’Aoste.1982 Mostra Nazionale Arte e Ferrovia, Roma, Torino, Prato / Mostra Nazionale La coope- razione e la società in crisi, Perugia, Livorno, Genova, Napoli / La Ruota del Presente una situazione romana, Comune di Jesi. 1983 De Umbris idearum - intervento sulla mac- china di Giordano Bruno - , Napoli, Roma, Venezia. 1985 XI Quadriennale di Roma.1988 Progetta la rappresentazione del “Giglio” a Nola.1992 Esegue una grande scenografia presso l’Uni- versità “La Sapienza” di Roma ispirata alla “Gerusalemme Liberata”.1994 Esegue a Sesto Fiorentino un grande mosai co.1995 A cura di Carlo Pedretti e Giuliano Allegri esegue una serie di dipinti e una pubblica- zione grafica ispirate a Leonardo, Amalfi, Anagni, Roma, Los Angeles, Stoccolma, Miami.1997 Arte a Roma, Galleria Comunale di Roma /
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BIOGRAFIA
Città museo, Boville Ernica.1998 Mostra Gruppo 5, Veroli.1999 Mostra internazionale di disegno, Ino-cho Paper Museum, Kochi, Giappone.2000 Immagine d’impegno-impegno d’immagine, Roma.
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Didascalie foto:
Pag. 8 - La casa nel giardino degli ornelliPag. 19 - Italo Scelza con Renzo VespignaniPag. 37 - Italo Scelza nello studio di via Pienza a RomaPag. 47 - Italo Scelza con Nino Gian Marco, Andrea Volo (Majakovsky)Pag. 68 - Italo Scelza con Mario SassoPag. 92 - Italo Scelza nello studio del giardino degli ornelli a SupinoPag. 104 - Italo Scelza nello studio di V.le Regina Margherita a RomaPag. 122 - Italo Scelza con Gian Maria VolontéPag. 130 - Italo Scelza - Festival Jezz Supino con Gaetano FranzesePag. 140 - Italo Scelza a Sesto FiorentinoPag. 146 - Italo Scelza fotografato da Romano Sileone nello studio di SupinoPag. 158 - Italo Scelza ad Humbolt - AutoscattoPag. 174 - Italo Scelza nello studio di HumboltPag. 182 - Il paracadute di Leonardo - Castello di FumonePag. 205 - Studio per l’opera Fides et Retio
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Si ringraziano i collezionisti:Alberto Sughi, Aldo Sica, Alfredo Pellegrino, Antonio Caruana, Antonio Fazio, Benito Grasso, Carlo Mollica, Carlo S. Vitale, Danilo Scarchilli, Domenico Mariani, Emilia Argenziano, Fabio Agostini, Giancarlo D’Agostino, Gianfranco Della Rocca, Gianfranco Proietti, Gianni Puma, Giulio Barletta, Guido Materazzo, Ivo Ruzza, Ralf Menert, Jleana Catarisano, La Rosa Leda, Levy Diane, Maurizio Concutelli, Pina Fornato, Pippo Zagari, Quinto Pasquazzi, Raffaele Troncane, Tony Porcella, Vincenzo Giordano
Edizioni Nuova StampaFrosinone