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UNIVERSITÀ / 247 FILOSOFIA

Indice Premessa II Introduzione I5 di Giuseppe Duso Parte prima. Ordine, governo, imperium 29 I. La repubblica prima dello Stato. Niccolò Machia-velli sulla soglia del discorso p

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UNIVERSITÀ / 247

FILOSOFIA

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I lettori che desideranoinformazioni sui volumi

pubblicati dalla casa editricepossono rivolgersi direttamente a:

Carocci editorevia Sardegna 50,

00187 Roma,telefono 06 42 81 84 17,

fax 06 42 74 79 31

Visitate il nostro sito Internet:http://www.carocci.it

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Il potere Per la storia

della filosofia politica moderna

A cura di Giuseppe Duso

Carocci editore

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3a ristampa, giugno 20091a edizione, gennaio 1999

© copyright 1999 by Carocci editore S.p.A., Roma

Finito di stampare nel giugno 2009per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

ISBN 978-88-430-1732-4

Riproduzione vietata ai sensi di legge(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Senza regolare autorizzazione,è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,compresa la fotocopia, anche per uso interno

o didattico.

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Indice

Premessa II

Introduzione I5 di Giuseppe Duso

Parte prima. Ordine, governo, imperium 29

I. La repubblica prima dello Stato. Niccolò Machia-velli sulla soglia del discorso politico moderno 37 di Maurizio Ricciardi

2. Principi e ragion di stato nella prima età moderna 5I di Maurizio Ricciardi

3· Ordine della giustizia e dottrina della sovranità in Jean Bodin 6I di Merio Scattola

4· Il governo e l'ordine delle consociazioni: la Politica eli Althusius 77 di Giuseppe Duso

5· Ordine e imperium: dalle politiche aristoteliche del primo Seicento al diritto naturale eli Pufendorf 95 di Merio Scattola

Parte seconda. Dal potere naturale al potere civi· le: l'epoca del contratto sociale II3

6. Potere comune e rappresentanza in Thomas Hobbes I23 eli Mario Piccinini

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8.

IO.

II.

I2.

13·

I5.

I6.

IL POTERE

Potenza e potere in Spinoza di Stefano Visentin Potere naturale, proprietà e potere politico in John Locke di Maurizio Merlo Rousseau e la questione della sovranità di Lucien Jaume

I43

I 57

I77

Parte terza. Costituzione e limitazione del potere I 97

Rivoluzione e costituzione del potere di Giuseppe Duso I limiti del potere: il contributo francese di Mauro Barberis

Parte quarta. Pensare il potere: la filosofia classi·

203

2I3

ca tedesca 24 5

Potere e libertà nella filosofia politica di Kant di Gaetano Rametta Diritto e potere in Fichte di Gaetano Rametta Potere e costituzione in Hegel di Massimzliano Tomba

Parte quinta. Il potere tra società e Stato

Il concetto controrivoluzionario di potere e la logi­ca della sovranità di Sandra Chignola Costituzione e potere sociale in Lorenz von Stein e T ocqueville di Sandra Chignola Potere e critica dell'economia politica in Marx di Gaetano Rametta, Maurizio Merlo

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2 53

275

297

34I

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!8.

INDICE

Parte sesta. Compimento e crisi della sovranità

Max Weber: tra legittimità e complessità sociale di Luca Man/rin Diritto, decisione, rappresentanza: il potere in Carl Schmitt di Antonino Scalone

20. Crisi della scienza politica e @osofia: Voegelin, Strauss e Arendt di Giuseppe Duso, Mario Piccinini, Sandra Chignola, Gaetano Rametta

Parte settima. Il potere oltre la sovranità? Tenta·

393

tivi contemporanei 449

2!.

22.

La prospettiva funzionalistica: potere e sistema politico in Niklas Luhmann di Bruna Giacomini Dal modello istituzionale-giuridico all'analitica del potere: Michel Foucault di Massimtliano Guareschi

2 3. I tentativi di nuova fondazione: neoliberalismo, neocontrattualismo, comunitarismo di Pierpaolo Marrone

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453

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Premessa

Le caratteristiche particolari di questo volume richiedono alcune ri­flessioni preliminari sull'oggetto dello stesso, su problemi di metodo e sul tipo di utilizzabilità che esso può avere. n tema è costituito d.al concetto di potere, il quale, cosi come si configura nella nostra men­te, non è un concetto eterno del pensiero, indicante una dimensione essenziale dell'esistenza degli uomini, ma piuttosto appare un'idea determinata, che si è venuta configurando nell'epoca moderna all'in­terno di precisi presupposti teorici. Quello di potere non è un con­cetto particolare, che ha una sua storia isolata, ma costituisce il punto focale della "filosofia politica moderna". La storia del potere viene ad essere intrecciata non solo con quella dei principali concetti politici e sociali, nei confronti dei quali funge da catalizzatore, ma anche con le più importanti riflessioni filosofiche che si hanno nell'epoca moderna. Allora le vicende del concetto di potere possono costituire una trac­cia importante, non unica ma, come si vedrà, particolarmente signifi­cativa, per seguire la nascita, lo sviluppo, la continuità e le rotture che si danno nella filosofia politica moderna.

n presente volume non è un'antologia di contributi diversi indi-. pendenti tra loro, ma è il frutto di un lavoro collettivo di ricerca. I singoli autori dei saggi, che hanno un'esperienza di ricerca diretta sui pensatori politici trattati, hanno naturalmente la responsabilità della lettura offerta, ma sono, per la gran parte, accomunati da una pro­blematica condivisa, da un dibattito continuo, dalla vicinanza nel tipo di approccio metodologico usato, dall'attenzione al modo in cui il concetto di potere, assieme a tutti gli altri cui risulta legato, trova nei diversi autori fili comuni, elementi di continuità, oppure complicazio­ni e problematizzazioni. Dunque non si ha soltanto, in base alle com­petenze personali, un attento lavoro filologico interno ai pensatori trattati, ma anche una fondamentale attenzione alla genesi, ai muta­menti e alla sorte dei concetti nell'arco dell'epoca moderna. L'assunto di partenza, che può avere solo nel concreto lavoro la sua dimostra-

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IL POTERE

zione, è che non sia possibile intendere la filosofia politica di un au­tore rimanendo semplicemente all'interno del suo testo, e non sia suf­ficiente nemmeno intendere il contesto del dibattito politico ad esso contemporaneo. Bisogna invece comprendere qual è la concettualità diffusa nel tempo, all'interno della quale si attua la riflessione dei pensatori politici: tale costellazione concettuale molto spesso non di­pende da loro, né dai principi fondamentali della loro filosofia. È alla logica e al funzionamento dei concetti che sono attenti gli autori dei saggi di questo volume, mentre attraversano analiticamente i testi dei pensatori politici.

I saggi si pongono dunque in un contesto di discussione omoge­neo, che emerge in quella lettura complessiva a cui il volume è fina­lizzato. Evidentemente ben altro spazio richiede la comunicazione della ricerca fatta sugli autori in relazione al tema del potere e ai concetti della politica. I vari contributi sono connessi a saggi e volu­mi, in cui è apparsa e apparirà con più ampiezza il frutto della ri­cerca svolta. In questa sede ci si è proposti un altro fine: quello di offrire uno sguardo d'insieme, agile e complessivo, che possa servire come orizzonte di riferimento nel momento in cui si vada all' appro­fondimento di un filosofo, di un testo classico della filosofia politica, oppure ci si voglia rendere conto dello spessore storico e teorico di concetti che vengono usati nel linguaggio sociale e politico contem­poraneo o anche nei lavori scientifici di tipo politico, sociologico o storico.

Oggi si assiste alla proliferazione di lessici della politica, che hanno l'intento di precisare e determinare concetti che sono divenu­ti quanto mai sfuggenti ed oscuri, anche a causa del fatto che sono adoperati come armi di lotta politica o come mezzi per indicare una propria collocazione ideologica. L'analisi dei concetti politici può es­sere utile a tutti coloro che vogliono entrare in una dimensione di approfondimento critico nei confronti dei concetti che determinano oggi lo spazio dell'agire umano e che si ritrovano codificati nelle co­stituzioni contemporanee con lo scopo di legittimare il rapporto di obbligazione politica e il dovere di sottomissione alla legge. Nella consapevolezza che non è possibile intendere un concetto se esso viene isolato dagli altri, come forzatamente avviene nei lessici della politica, il presente volume intende fornire uno strumento di orien­tamento, ponendo attenzione al modo in cui i concetti funzionano in una costellazione complessiva, nella quale si trovano in relazione reciproca.

Il volume ha anche lo scopo di offrire uno strumento didattico nell'università per lo studio del pensiero filosofico e politico e di

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PREMESSA

quelle tematiche giuridiche, storiche e costituzionali che usano i con­cetti fondamentali che si sono formati nella filosofia o scienza politica moderna. La pretesa non è certo quella di offrire una rassegna com­pleta, anche se schematica, del pensiero politico (in questa direzione molte sono le carenze), ma piuttosto il tentativo di offrire un quadro di orientamento che presenti alcuni nodi fondamentali della filosofia politica, nei quali i concetti si formano e mutano. Intento del volume è inoltre quello di fornire uno stimolo ad entrare nel movimento di pensiero degli autori e a dedicarsi alla lettura dei testi. A questo sco­po i saggi, sia pure nella loro brevità, indicano una serie di passi e di testi fondamentali, che vengono attraversati nel lavoro interpretativo.

Un altro elemento tipico della didattica a cui il testo è rivolto consiste nella stretta relazione in cui sono messe tra loro (come è evidenziato dall'Introduzione) la conoscenza storica del pensiero politi­co o della filosofia politica e un lavoro critico di comprensione del senso determinato, della logica, dei presupposti dei concetti che sono ancora oggi usati per pensare la politica, per parlare degli autori pas­sati, per narrare o rappresentare avvenimenti storici. Diritto, ugua­glianza, lzbertà, popolo, democrazia, società, Stato, sovranità, rappresen­tanza: tutti questi sono termini che vengono spesso adoperati o come concetti universalmente validi, come valori, o come indicatori di real­tà oggettive e indiscusse. L'analisi dello spessore storico che i concet­ti hanno appare così intrecciato con la loro problematizzazione e ci pone di fronte al compito difficile di pensare il nostro presente.

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Introduzione di Giuseppe Duso

La storia concettuale

Accanto ad una più consueta e sperimentata modalità del lavoro sto­riografìco indirizzato, per la comprensione del testo politico, alla ri­costruzione del contesto costituito dagli avvenimenti del tempo o dai dibattiti teorici in cui esso è inserito, e dunque a una storia del pen­siero politico, che si affianca e si integra con la storia delle istituzio­ni, è possibile pensare a un diverso lavoro, in cui l'analisi filologica è strettamente congiunta all'attenzione per i tempi lunghi, per gli asset­ti teorici che i termini implicano per essere significanti, per i mo­menti di svolta e di irruzione di nuove costellazioni di concetti, che vengono a mutare e a condizionare il significato dei termini, per il modo infine in cui si struttura quella realtà politica in cui i concetti funzionano e sono produttivi. I materiali che si riferiscono ad un ta­le intento storico-concettuale, sia che riguardino ampi periodi stori­co-dottrinali, sia che si limitino ad analisi di singoli autori, non sono tanto tesi ad evidenziare le dottrine e le proposte dei pensatori poli­tici come costruzioni sistematiche a sé stanti, con le intenzioni che le sorreggono e l'efficacia che riescono ad avere, quanto piuttosto a comprendere il senso strutturale che i concetti assumono e il modo in cui essi funzionano all'interno del quadro complessivo nel quale si esprimono.

Per determinare cosa si intenda per approccio storico-concettua­le, in modo tale che l'espressione non abbia un significato vago, in un momento in cui da più parti si offrono strumenti di "sto­ria dei concetti", è utile riferirsi alla lezione della tedesca Begriffs­geschichte come è stata proposta da autori come Otto Brunner, Werner Conze e Reinhart Koselleck, che insieme hanno dato vita all'opera monumentale dei Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexzkon zur politisch- sozialen Sprache in Deutschland, Stuttgart,

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IL POTERE

1972-1993 '. Tale riferimento ha cost1twto uno stimolo importante per un lavoro di ricerca sui concetti politici che sta alla base anche

dell'analisi del concetto di potere quale si presenta in questo volu­me. Ciò non comporta l'identificazione di un metodo a cui si aderi­sce: tra questi stessi autori ci sono differenze notevoli di impostazio­ne, e uno scarto rilevante si può ravvisare anche tra la concezione che è stata all'origine dell'impresa del Lessico tedesco e la realizzazio­ne che ne è di volta in volta risultata nella trattazione monografica dei concetti 2 • Tuttavia il riferimento a questa Begriffsgeschichte appare particolarmente utile per mettere a fuoco un approccio alla storia dei concetti e dei pensatori politici che si discosta da un modo spes­so praticato di fare storia delle idee.

La storia concettuale tende a mettere in questione un modo di parlare del pensiero politico e anche di fare storia in generale che non metta criticamente a fuoco i concetti che si usano nel lavoro sto­rico. Spesso nelle storie delle idee politiche si intendono i concetti come qualcosa che ha valore universale, che coglie una costante delle relazioni che gli uomini hanno tra loro, e si tende poi a indicare le declinazioni storiche che tali concetti hanno avuto nel tempo. Per fa­re un esempio chiarificatore, anche se si riferisce ad un uso nei con­fronti del quale è aumentata l'avvertenza critica, ci si può riferire al concetto di "Stato" come determinante l'unione politica tra gli uomi­ni, che si declinerebbe differentemente nella storia: nella polis dei Greci, nell'impero romano, nell'impero medievale, nelle città-stato, nel pluralismo feudale, nello stato dei ceti e infine nello Stato moder­no. In questo modo, nonostante lo studio specifico dei singoli periodi e contesti, si rischia di veicolare elementi concettuali che caratterizza­no il concetto di Stato proprio dell'epoca moderna, quali unità del territorio, omogeneità della legislazione, la legge intesa come coman­do del legislatore, una nozione dell'obbligazione politica che si chiari­sce nel rapporto formale di comando-obbedienza, la distinzione di pubblico e privato: tutti elementi che, se determinano il concetto di Stato, che è Stato moderno, non sono adeguati ad intendere i rap-

I. Le voci del Lexikon, Progresso, Libertà, Politica e Democrazia sono state tradot­te e pubblicate in volumi separati dalla casa editrice Marsilio (cfr. Koselleck, Mayer, 1991; Bleicken, Conze, Dipper, Giinther, Klippel, May, Meier, 1991; Sellin, 1993; Conze, Koselleck, Mayer, Meier, Reimann, 1993).

2. Per la discussione sul Lextkon cfr. Duso (1994); Schiera (1996); Dipper (1996). Rimando per la discussione sulla storia concettuale a Duso (1997); Chignola (1997); e ai precedenti Chignola (1990); Merlo (1990); Ornaghi (r990).

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INTRODUZIONE

porti tra gli uomini, quali si sono dati in epoche diverse e in assetti diversi dei gruppi umani.

Lo stesso si dica per il concetto usato, anche in riferimento a realtà a noi lontane, di "società" o di "società civile". Con esso si vuole spesso indicare l'ambito di relazioni tra gli uomini di vario ti­po, economico, morale, culturale, ma in ogni caso non politico. In tal modo si usa in realtà un concetto di "società civile", che è storica­mente emerso solo tra la fine del Settecento e l'Ottocento. Esso è frutto di una determinata organizzazione dei rapporti tra gli uomini e di un determinato modo di intenderli, e risulta totalmente inadeguato e fuorviante al fine di comprendere le strutture dei gruppi umani proprie di tempi in cui tale separazione di ciò che è solo "sociale" e di ciò che è propriamente "politico" non è pensata né pensabile e in cui la politicità della società non ha il significato dell'inclusione in essa di un rapporto di potere quale viene a determinarsi nell'epoca moderna.

Un'osservazione analoga si può fare per il termine di "democra­zia", che si suole estendere agli antichi e ai moderni, magari con la distinzione che nel primo caso si tratterebbe di democrazia diretta, mentre nel secondo di democrazia rappresentativa. In tal modo non si tiene conto che nei Greci il termine riguarda una forma di gover­no, che può essere del demos (popolo) solo per il fatto che il demos è una parte della polis e, in quanto tale, può essere sovraordinata alle altre e dunque può avere l'iniziativa del governo; mentre nell'epoca moderna il termine di democrazia, pur essendo declinabile e declina­to in modi assai diversi, ha, in ogni caso, rapporto con un concetto di potere che era prima impensabile, come pure con un concetto di popolo, inteso come totalità degli individui uguali, come grandezza costituente, a cui spetterebbe la determinazione della costituzione, che era altrettanto non presente né formulabile nelle epoche prece­denti. Insomma il problema della moderna democrazia non può non implicare il concetto di sovranità, che è appunto al centro del presen­te volume.

Un primo elemento caratteristico dell'approccio qui proposto alla storia dei concetti - elemento che viene non da un'aprioristica scelta metodologica, ma dal concreto delle ricerche precedenti sulla genesi della distinzione moderna di società civile e Stato, sulla sovranità, sulla rivoluzione, sui concetti che nascono all'interno delle moderne teorie del contratto sociale 3 - è allora la consapevolezza critica dei concetti che si usano, della loro nascita nella modernità (ciò sarà da verificare

3· Rimando specialmente a Duso (1987).

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IL POTERE

anche nel nostro itinerario) e della determinatezza dei loro contenuti. Sulla base di una tale consapevolezza si può avere un più corretto approccio con le fonti proprie di una realtà diversa da quella moder­na. Dal momento che i termini, che si adoperano per avvicinarsi alle epoche precedenti, non possono essere che quelli in cui si è inevita­bilmente sedimentato un insieme di significati concettuali moderni (si pensi per esempio alla traduzione di testi politici greci e latini, ricor­dando che quelli latini arrivano fino al Sei e Settecento!), ciò significa che per un lavoro storico sul pensiero antico e medievale è indispen­sabile avere coscienza critica del pensiero moderno e della sua con­cettualità politica.

Un secondo elemento - conseguente al primo - è costituito dalla differenza tra un lavoro di analisi del pensiero politico che si può fare su questa base e un modo di fare storia delle idee politiche che intenda i concetti o idee come grandezze unitarie e costanti, univer­sali, che possono avere determinazioni storiche diverse proprio grazie ad un nucleo unitario che le caratterizza 4. Abbiamo bensi esempi in cui possiamo ravvisare un termine come ricorrente sia nell'antichità che nei giorni nostri per indicare i rapporti tra gli uomini. Non è il caso della parola "Stato", che non è terminologicamente rapportabile a polis o a civitas, o a respublica, o a regnum: ragion per cui è un'evi­dente trasposizione concettuale quella che si compie quando lo si adopera per riferirsi a entità politiche precedenti l'età moderna. Ma può essere il caso di "società", o "popolo", termini che difficilmente possono essere evitati per tradurre societas, populus e demos. Tuttavia, anche quando si può avere l'identità di un termine, ciò non significa che ci sia identità del concetto. N eli' analisi proposta, soprattutto nel­la Parte prima del volume, si vedrà come i concetti di popolo e di società che nascono con la scienza politica moderna sono nuovi e non modificazioni del concetto in rapporto ad un'accezione precedente. Ciò che rimane identico è il termine, non il concetto; la storia con­cettuale non è una storia delle parole e non si risolve in un'analisi del modo in cui nei diversi tempi sono stati usati i termini indicanti real­tà sociali o politiche, anche se l'analisi dell'uso delle parole può esse­re utile in una storia concettuale. Spesso parole diverse indicano uno stesso contenuto, e parole identiche indicano, in contesti diversi, cose che non sono apparentabili tra loro. Se l'unità della parola viene scambiata per l'unità del concetto, per il nucleo che lo rende identico nelle diverse declinazioni storiche, in realtà si compie una surrettizia

4- Per questi due primi aspetti cfr. Koselleck ( r986l, in particolare il saggio Storia dei concetti e storia sociale.

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INTRODUZIONE

operazione consistente nell'attribuire a quel nucleo identico, che vale anche per esperienze passate, la struttura che è propria del concetto moderno.

Quando ad esempio si scambia l'identità del termine di politica, che ritroviamo nell'opera di Aristotele come nell'uso comune e scien­tifico dei nostri giorni, con l'unità del concetto, sia pure di un con­cetto che ha una storia e contempla allora una politica degli antichi con una sua diversità e specificità nei confronti della politica dei mo­derni, in realtà si fa passare come nucleo permanente del concetto l'elemento del potere. Ma, come si vedrà, quello di potere è un con­cetto moderno che, così come è presente, più o meno consciamente, al nostro pensiero, non solo non è attribuibile alla maniera di inten­dere la politica e il rapporto tra gli uomini propri della tradizione della filosofia pratica ma, nel momento della sua genesi, è stato for­mulabile solo negando dignità e legittimità a quella tradizione. Giu­stamente si è sottolineato che la politica nel caso di Aristotele, in un contesto cioè nel quale la polis è per natura e l'uomo è "animale poli­tico", riguarda più la natura dell'uomo e il problema del bene vivere che la politica in senso specifico 5. Ma ciò è vero perché quello che intendiamo come "politica" in senso specifico è la politica moderna, basata sul concetto di potere e sulla separazione del pubblico dal pri­vato.

Con questo riferimento al concetto di politica 6 ci avviciniamo al tema del presente volume. È infatti a partire dalla nascita della scien­za politica moderna che avviene una frattura epocale nei confronti del precedente pensiero riguardante l'agire degli uomini. A partire da questo momento la politica avrà al suo centro il problema dell' ordi­ne, inteso non più come un ordine delle cose che si tratta di com­prendere, in quanto non dipende dalla nostra volontà, ma piuttosto come un ordine da costruire, eliminando il conflitto e realizzando una pace durevole. È in questo contesto che viene elaborato il con­cetto di potere, l'obbligazione politica, come si è soliti intender la, tale cioè da implicare una forza propria del corpo politico superiore a quella di tutti gli individui, una forza che è garanzia di pace proprio in quanto ad essa tutti sono sottomessi. Un tale concetto di potere non può non comportare la necessità della legittimazione, della giusti­ficazione razionale, giustificazione che è appunto la prestazione pro­pria della scienza politica che nasce a metà del Seicento. Perciò la

5· Cfr. la voce Politica in Sartori (r987), p. 24r. 6. Cfr. su ciò il numero di "Filosofia politica", r, 1989 dedicato a Polt!ica, e in

particolare, su questa direzione critica, Duso ( r 9 8 9).

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IL POTERE

storia del potere è fatta iniziare con il momento in cui questo concet­to è venuto effettivamente alla luce, condizionando il pensiero mo­derno della politica, e non comincia invece dal mondo antico, in cui ben diverso è il modo di intendere l'uomo e il suo agire. È in questo contesto che si ravviserà anche la nascita di una serie di altri concet­ti, senza i quali non solo quello di potere non avrebbe il suo signifi­cato determinato, ma non sarebbe addirittura pensabile: essi, che so­litamente sono intesi come propri di un lessico opposto a quello del potere (si pensi a "diritti", "uguaglianza", "libertà"), appariranno co­me presupposti necessari della concezione del potere.

Potere e scienza politica moderna

Alla base della nascita del nuovo modo di intendere l'uomo e la poli­tica sta la denuncia della non scientificità della riflessione etica, che è anche politica, dell'antica praktiké epistéme, considerata priva di punti certi di orientamento e causa di disordine e conflitto. Non solo il mondo appare come uno scenario di lotte e di irrazionalità, ma an­che il sapere filosofico riguardante l'ambito pratico, etico, appare pri­vo di rigore e della capacità dunque di fondare un ordine duraturo. L'esperienza è elemento determinante per questo modo antico di in­tendere la scienza pratica, nella quale il problema della vita dell'uomo e quello del suo vivere in comunità non sono separati e affidati a discipline radicalmente diverse: l'esperienza è infatti necessaria per conoscere l'animo umano e la modalità dei rapporti tra gli uomini, elementi questi dell'agire umano non riduci bili ad un oggetto dall'e­sattezza matematica. Ma se la realtà è vista come un mondo di lotte e di sopraffazioni continue tra gli uomini, allora l'esperienza viene destituita di valore; è anzi necessario farne a meno per costruire con la pura ragione le regole dell'ordine, come fanno i geometri con l' og­getto della loro scienza. Quello dei geometri è un esempio preciso: come loro bisogna amministrare la disciplina etica, dando luogo a re­gole che valgono per tutti, eliminando perciò sia l'irregolarità dei rap­porti esistenti tra gli uomini, sia le diverse opinioni sulla giustizia, le quali sono la causa di continui conflitti. Nasce così una nuova scien­za: la scienza politica moderna, o filosofia politica, ché i due termini di @osofia e scienza non sono qui, e ancora per molto tempo, da distin­guere o distinguibili. Questa nuova scienza vuole fornire, mediante l'universalità e il rigore del suo ragionamento, la base sicura per la realizzazione dell'ordine e l'eliminazione del conflitto tra gli uomini.

Si tratta di un modo formale e giuridico di intendere il problema politico: infatti la nuova scienza si affermerà non tanto con l'antico

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INTRODUZIONE

nome di politica, ma come la scienza nuova del diritto naturale, che prenderà il suo posto anche come disciplina accademica. La politica continuerà ad essere insegnata, ma il vero problema è ora quello del­l'ordine, un ordine che non si trova nelle cose, nel mondo, nelle esperienze di vita degli uomini, ma che si tratta di creare sulla base di principi chiari, razionali, accettabili da tutti, al di là della diversità delle opinioni. Ora ciò che è giusto e ciò che non lo è devono essere determinati mediante una scienza oggettiva, che ha il carattere della formalità. Tutti gli elementi di questa costruzione sono formali: non dipendono dalla bontà dei contenuti di volta in volta da decidere, ma appunto dall'avere la loro giustificazione in una forma che, in quanto tale, ha le prerogative della certezza e della stabilità e crea lo spazio per le diverse e private opinioni. Tale formalità si manifesta nell'espressione della volontà degli individui che sta alla base della costruzione, nel processo che costituisce l'autorità, nella legge, che coincide con il comando di colui o coloro che sono autorizzati ad esprimerlo, nell'ubbidienza, in cui consiste l'obbligazione a cui tutti si sono, per propria volontà, sottomessi.

Quando si tenta di fare una storia unitaria del potere dall'antichi­tà ai nostri giorni 7 si rischia di omologare il modo di pensare la poli­tica precedente la nascita della scienza politica moderna ai criteri di quest'ultima. Allora l'azione di governo, che per una lunga tradizione di pensiero è considerata naturale e necessaria per ogni forma di co­munità, da quella domestica a quella civile, a causa della differenza dei suoi membri, e del fatto che c'è un problema oggettivo del bene comune non dipendente dalle volontà degli individui, viene intesa se­condo l'ottica moderna del potere: cioè come una forma di dominio, di soggezione delle volontà dei governati nei confronti di quella dei governanti. Ma, come si vedrà, ben diverso è il significato del gover­no, che determina il modo di intendere la funzione di imperium fin nelle Politiche del primo Seicento: esso implica un quadro complessi­vo basato sui reali rapporti sociali che di volta in volta si danno, sull'esistenza di un cosmos, che è elemento di ordine, sulla disugua­glianza e sulla differenza delle qualità degli uomini, sulla necessità della virtù, che è la vera fonte del buon governo. Ma proprio questi elementi sono considerati dalla nuova scienza come causa di conflitto e di incertezza.

Di contro alle antiche concezioni, con la nuova scienza viene af-

7. Ciò rischia di avvenire ad esempio anche nella voce Herrscha/t dei Geschichtli­che Grundbegrijfe, contro il principio ermeneutico della frattura che si determina con la nascita del mondo moderno.

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IL POTERE

fermata l'uguaglianza degli uomini e il nuovo concetto di libertà, che consiste nel dipendere solo dalla loro volontà, nell'essere svincolati da obblighi e ostacoli in relazione all'espressione dei propri poteri natu­rali. Su questa base nasce il potere, un rapporto formale di comando­obbedienza, che si può instaurare solo sul fondamento logico di quei diritti di uguaglianza e libertà che diventano anche il suo fine. Il po­tere della società o di tutto il corpo politico è allora tale solo in quanto è legittimo, si basa cioè sulla volontà di tutti gli individui. È in questo momento, in cui scompare un mondo oggettivo in cui orientarsi e in cui viene assolutizzato l'elemento della volontà, che si presenta il problema - moderno - della legittimità. Nasce così la sto­ria della sovranità moderna che non è legata al significato della maje­stas, quale si poteva riscontrare nei trattati di politica precedenti, o alle diverse potestates, che sono inserite in un ordine gerarchico. Qui il potere è unico e appartiene a tutto il corpo politico: comporta sot­tomissione, perché ciò è razionale ed è legittimato da quell' espressio­ne della volontà di tutti che, nelle dottrine giusnaturalistiche, avviene nella forma del contratto sociale. L'appartenenza del potere alla tota­lità del corpo politico esclude che esso sia esercitabile da una persona per le sue qualità o prerogative: tutti gli uomini sono uguali, e perciò colui o coloro che eserciteranno il potere lo potranno fare solo in quanto da tutti autorizzati, solo cioè come rappresentanti del soggetto collettivo. Quest'ultimo di contro, non essendo naturale, ma formato sulla base delle volontà di tutti, e consistendo empiricamente nell'infi­nita moltitudine degli individui uguali, difficilmente potrà essere con­siderato come concretamente attivo se non attraverso l'espressione del volere e dell'agire del rappresentante. T al e concezione del potere comporta la separazione dell'azione pubblica e politica nei confronti dell'agire privato dei singoli.

Questo inizio della scienza politica avrà il suo peso nella storia successiva e nelle problematiche che saranno di volta in volta poste: quella del soggetto che solo può costituire il potere, del potere cioè costituente; quella del controllo di un potere che sembra per sua na­tura assoluto, e perciò necessario e insieme pericoloso; quella della divisione dei poteri; quella della primarietà della società civile, che è considerata la base dell'istituzione statale. L'arco della scienza che na­sce con Hobbes può essere visto giungere a un punto di compimento nella riflessione di un autore nel quale la struttura e lo scopo della scienza vengono a modificarsi assieme all'ambito delle sue possibilità. È il momento nel quale si consolida l'apparato delle scienze sociali, che progressivamente si approprieranno della scienza politica, rele­gando la filosofia politica a un ruolo marginale e, in ogni caso, diver-

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INTRODUZIONE

so da quello della determinazione scientifica. Mi riferisco a Max We­ber, la cui definizione del potere (Herrschafi), come rapporto formale di comando-obbedienza, implica necessariamente l'elemento della le­gittimazione, al punto che i diversi tipi del potere si distinguono tra loro in base alla diversa motivazione della legittimità. Tuttavia questa legittimazione non è più una fondazione razionale, ma piuttosto ri­guarda le forme di credenza socialmente riscontrabili.

Da una parte la definizione weberiana appare possibile proprio in relazione a quel processo di razionalizzazione che ha preso il suo avvio dalla nuova scienza politica moderna 8 : essa appare illuminare l'arco della storia della sovranità moderna e tuttavia anche decretarne epocalmente la fine. Con Weber infatti la ragione scientifica perde il compito fondante proprio della prima scienza politica moderna; di­viene piuttosto analisi della realtà, e il potere non appare allora più come il frutto della giusta costruzione razionale, ma come una realtà rintracciabile nei rapporti umani e da comprendere nelle modalità in cui si determina. Si ha così un ulteriore passaggio, che ci porta al modo contemporaneo di intendere il concetto di potere, come realtà onnipervasiva, che indica una dimensione dei rapporti umani. Esso appare essere oltre la sovranità moderna, che non è più rintracciabile in uno scenario in cui non solo si disloca e si frammenta, ma diviene un modo per l'espressione di rapporti di forza, ·di pura potenza, che non sono riducibili alla logica della costruzione teorica della filosofia politica moderna.

Nell'arco di quella che è stata chiamata l'età dello jus publicum europaeum, cioè della costruzione giuridica del politico che connota la storia degli stati sovrani, il concetto di potere come sovranità sta al centro della scienza politica, che si configura essenzialmente come scienza di costruzione e di legittimazione del potere. È tale vicenda che si intende illuminare in questo volume, del quale sono, in tal modo, anche indicati i limiti. Molti altri sono i pensatori politici rile­vanti, e molto altro c'è nella filosofia politica moderna oltre a questa concettualità legata alla moderna sovranità. Non solo ma, in relazione ai problemi che si pongono nella realtà politica e nella filosofia politi-

8. Nell'ottica di un approccio storico-concettuale i tipi del potere weberiani -quello leglÙe, quello tradizionale e quello carismatico - appaiono non tanto tipi ideali validi per intendere il modo in cui il potere si è presentato nella storia, ma piuttosto come indicanti elementi che nascono nella modernità e sono significanti per il potere moderno, risultando invece fuorvianti per intendere realtà diverse, quale ad esempio quella feudale. Cfr. a questo proposito le penetranti osservazioni di Brunner ( 1987). Su ciò anche il capitolo sui tipi del potere in W e ber in Duso ( 1988).

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IL POTERE

ca odierna, tale storia ha solo il carattere di un lavoro preparatorio. Si pensi al modo in cui, già in Weber, nasce la coscienza del dislo­carsi del potere dai suoi centri istituzionali, e alla perdita di capacità che i concetti politici moderni, di cui qui si tratta, hanno sia nella direzione della descrizione e comprensione della realtà sociale e poli­tica, sia in relazione al compito di legittimazione che si rivela non solo nel pensiero politico, ma anche nella sua ricaduta nelle carte co­stituzionali. E tuttavia, proprio se rivolgiamo lo sguardo alle costitu­zioni, ci rendiamo conto che i concetti politici moderni (si pensi ai diritti degli individui, uguaglianza, libertà, popolo sovrano, rappre­sentanza, democrazia) restano ancora capisaldi della costruzione, ele­menti di legittimazione dell'obbligazione politica. Se è vero che i con­cetti politici che stanno alla base della dottrina dello Stato moderno sono già da tempo in crisi, tuttavia essi continuano ad essere usati, e forse il loro uso ci impedisce la comprensione di ciò che ci sta attor­no. Il passaggio attraverso la loro logica e le loro contraddizioni può dunque costituire anche oggi un compito utile e necessario per la nostra coscienza critica.

Pensiero e realtà politica

Altra caratteristica del presente volume - che è anche un limite o che in ogni caso delimita un territorio di indagine - consiste nel non ana­lizzare tutto ciò che è stato chiamato filosofia politica, all'interno di una storia complessiva del pensiero, ma piuttosto ciò che si presenta come momento di comprensione delle strutture della realtà politica o che, pur in opposizione alla realtà coeva, trova in seguito un intreccio con i complessivi problemi costituzionali 9. Perciò è conferita rilevan­za al giusnaturalismo e alla dottrina del contratto sociale, in funzione della comprensione della genesi del moderno: perché lì nascono i concetti che saranno propri della dottrina dello Stato successiva e che si incardineranno nelle moderne costituzioni. Perciò si terranno pre­senti, soprattutto nelle introduzioni alle diverse parti, i mutamenti degli assetti costituzionali, quali si determinano nella società cetuale, nello Stato unitario che si instaura con la Rivoluzione francese, nella crisi dell'unità, dell'ulteriorità e della superiorità dello Stato nei con-

9· Intendo qui il termine "costituzionale" e "costituzione" nel senso più ampio ed etimologico che ha il termine di Verfassung, quale risulta in Schmitt (1928) e nella corrente tedesca della V er/assungsgeschichte.

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INTRODUZIONE

fronti della società civile quale si presenta, a partire dal Novecento, nella complessità della costituzione contemporanea.

L'intreccio tra concettualità e processi costituzionali ha tuttavia spesso tempi lunghi, che non sono percepibili con un metodo che lega il testo al suo immediato contesto. Si tenga presente, come esempio, la consapevolezza che nelle costituzioni moderne, a partire da quella francese del r79I, nella rappresentanza di tutta la nazione da parte dei deputati eletti su base ugualitaria, in sostituzione dell'an­tica rappresentanza per stati o ordini, che caratterizzava ancora l'an­cien régime, appare un concetto di rappresentanza della totalità del popolo - dell'unità politica dunque - che fa la sua comparsa nella sua struttura logica, forse per la prima volta, nel Leviatano di Bob­bes. Tale rapporto non si può cogliere se si legge il testo hobbesiano alla luce delle interpretazioni che lo relegano nello spazio di un pen­siero assolutistico, a cui si contrapporrebbe un pensiero liberale e da cui porterebbe lontano il processo che ha il suo esito nelle moderne democrazie. Se si esaminano i concetti che sono in questo modo usa­ti mediante un approccio storico-concettuale, tali quadri interpretativi vengono ad essere problematizzati ed emergono @i insospettati che legano posizioni diverse e apparentemente opposte.

Tale esempio ci indica anche un modo di procedere in una tale storia: l'attenzione non è tanto rivolta all'influenza culturale e politica che i pensatori hanno avuto, o ai movimenti che da essi hanno preso origine, o alla recezione da parte dei contemporanei, o anche degli interpreti di epoche più tarde: non è dunque rivolta ad una storia culturale complessiva, ma piuttosto al modo in cui funzionano i con­cetti nel contesto dell'autore, a volte anche al di là delle sue intenzio­ni culturali e politiche e dei suoi propositi, e inoltre al modo in cui tali concetti reagiscono nei confronti di strutture politiche esistenti, e danno luogo a ricadute costituzionali, anche al di là di fili diretti e consapevoli di derivazione.

Una storia del concetto di potere può. allora costituire anche una lunga via attraverso la quale i concetti moderni vengono problematiz­zati, perdendo il ruolo di presupposti necessari al rigore dell'uso scientifico della ragione. Allora risulta forse possibile riaccostarsi ad altri contesti - passati - di pensiero senza fraintenderli, riaprire il nostro pensiero al problema del giusto e del bene, al di là della solu­zione formale della costruzione teorica moderna, spingendosi nello stesso tempo a pensare la realtà contemporanea, oltre quegli schemi concettuali che appaiono in crisi per quanto riguarda sia il compito della comprensione del reale, sia quello della legittimazione dell' obbli­gazione politica.

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IL POTERE

Riferimenti bibliografici

Un rinvio di carattere generale, che va certo oltre il solo ambito tedesco, è a O. BRUNNER, W. CONZE, R. KOSELLLECK (hrsg.) (I97I-93), Geschichtfiche Grundbegrif/e. Historisches Lexikon zur polztisch-sozialer Sprache in Deutschland, Klett, Stuttgart (di quest'opera alcune voci o gruppi di voci sono disponibili in traduzione italiana: (I99I) Progresso; (I99I) Lzbertà; (I993) Polt!ica; (I993) Democrazia, tutti pubblicati da Marsilio, Venezia). Sono inoltre da tenere presenti per un quadro d'insieme L. FIRPO (a cura di) (I976), Storia delle zdee polztiche e sociali, UTET, Torino, e i due volumi finora pubblicati di una serie in sviluppo, 1· H. BURNS (ed.) (I988), The Cambridge History o/ Medieval Politica! Thought c.JJO-C.I4JO, Cambridge University Press, Cam­bridge, e 1· H. BURNS, M. GOLDIE (eds.) (I99I), The Cambridge History o/ Politica! Thought I4JO-I700, Cambridge University Press, Cambridge.

Un repertorio di utile consultazione è D. MILLER (ed.) (I993), The Blackwell Encyclopedia o/ Polztical Thought, Blackwell, Oxford, mentre un'e­quilibrata rassegna storica delle dottrine e dei dibattiti politici è costituita dai tre volumi di s. MASTELLONE (I974, I979 e I98z), Storia zdeologica d'Euro­pa, Sansoni, Firenze, rispettivamente. Di rilievo sono poi due opere di taglio complessivo, ma di notevole sviluppo analitico, sulla storia della filosofia po­litica: L. STRAuss, 1· CROPSEY (eds.) (I96I), History o/ Politica! Philosophy, Rand McNally, Chicago (trad. it. n Melangolo, Genova I993) e s. WOLIN (I 960), Politics and Vision. Continut!y and Innovation in Western Politica! Thought, Little & Brown, Boston (trad. it. Il Mulino, Bologna I996).

Sulla costellazione di concetti che nascono nella filosofia politica punto di riferimento è G. nuso (ed.) (I987), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, n Mulino, Bologna (ora Angeli, Milano I9983 ). Fondamentale per l'intreccio tra i concetti di sovranità e di rappresentanza è il volume di H. HOFFMAN (I974), Reprdsentation. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19. ]ahrhundert, Duncker & Humblot, Berlin (ora I9983 ).

In stretto rapporto con l'esperienza dei Geschichtliche Grundbegrif/e sono gli importanti saggi raccolti in o. BRUNNER (I968), Neue Wege der Ver/as­sungs- und Sozialgeschichte, Vanderhoeck & Ruprecht, Gi:ittingen (trad. it. Per una nuova storia costituzionale e sociale, Vita e Pensiero, Milano I97o) -l'edizione italiana, parziale, va integrata con o. BRUNNER (I987), Osservazio­ni sui concetti di "dominio" e "legittimità", in "Filosofia politica", I, I -e in R. KOSELLLECK (I986), Vergangene Zukun/t. Zur Semantzk geschichtlicher Zet!en, Suhrkamp, Frankfurt a. Main (trad. it. Marietti, Genova I990).

Sulle sollecitazioni e sui problemi posti dalla Begrif/sgeschichte, particolar­mente in rapporto alla filosofia politica, si considerino: s. CHIGNOLA (I990), Storia concettuale e filosofia politica. Per una prima approssimazione, in "Filoso­fia politica", IV, I; L. ORNAGHI (I990), Sui concetti e le loro proprietà nel discorso polt!ico "moderno", in "Filosofia politica", IV, I; N. AUCIELLO, R. RA­CINARO (a cura di) (I990), Storia dei concetti e semantica storica, ESI, Napoli;

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INTRODUZIONE

G. ouso (I989), Pensare la politica, in "Filosofia politica", m, I, pp. 59-73 e G. o uso ( I994), "Historisches Lexikon" e storia dei concetti, in "Filosofia politi­ca", vm, I; CH. DIPPER (I996), I "Geschichtliche Grundbegri/fe". Dalla storia dei concetti alla teoria delle epoche storiche, in "Società e storia", n. 72, pp. 386-402 e P. SCHIERA (I996), Conszderazione sulla Begriffigeschichte, a partire dai "Geschichtliche Grundbegri/fe" di Brunner, Conze, Koselleck, in "Società e storia", n. 72, pp. 403-I r. Rilevante è il confronto fra storia concettuale e storiografia anglosassone del politica! discourse, come testimoniato soprattutto dai lavori di J. G. A. Pocock e di Q. Skinner: cfr. J· G. A. POCOCK (I97I), Politics, Language & Time, Chicago University Press, Chicago, ma si veda anche la raccolta italiana, in parte diversa, ID. ( I99o), Politica, linguaggio e storia, Comunità, Milano- e J· TULLY Cr988), Meaning and Context. Quentin Skinner and His Critics, Polity Press, Oxford (che raccoglie i principali scritti metodologid di Q. Skinner assieme ad un'ampia discussione). Al riguardo cfr. M. VIROLI (1987), "Revisionisti" e "ortodossi" nella storiografia del discorso politico, in "Rivista di filosofia", LXVIII; F. FAGIANI (1987), La storia del "di­scorso" politico inglese dei secoli xvn e xvnr fra "virtù" e "diritti", in "Rivista di filosofia", Lxvm; M. MERLO (1990), La forza del discorso. Note su alcuni problemi metodologici della storiografia del discorso politico, in "Filosofia politi­ca", IV, r; M. L. PESANTE (1992), La cosa assente. Una metodologia per la sto­ria del discorso politico, in "Annali della Fondazione Einaudi", xxvr. Un raf­fronto tra queste diverse prospettive è in M. RICHTER (I 99 5), The History o/ Polztical Concepts and Social Concepts. An Introduction, Oxford University Press, New York-Oxford e in s. cmGNOLA (1997), Storia dei concetti e sto­riografia del discorso polztico, in "Filosofia politica", XI, r, mentre un tentativo di discussione complessiva è in G. ouso (1997), Storia concettuale come filo­sofia polztica, in "Filosofia politica", xr, 3, all'interno di una sezione monogra­fica della medesimo numero della rivista che comprende un intervento di M. Richter e le repliche di J. G. A. Pocock e R. Koselleck. Sui concetti politici fondamentali è da tener presente il lavoro di N. MATTEuccr (1997"), Lo sta­to moderno: lessico e percorsi, Il Mulino, Bologna, così come G. SARTORI (I 98 7), Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna.

Sull'intreccio tra dibattito metodologico e indagine storiografica - con particolare riferimento alla dottrina italiana - si considerino i volumi della serie dedicata ai modelli nella storia del pensiero politico: v. r. coMPARATO (a cura di) ( 1987 ), Modelli nella storia del pensiero politico. Saggi, L. S. Olsch­ki, Firenze; m. (a cura di) (I989l, La Rivoluzione francese e i modelli polztici, L. S. Olschki, Firenze; v. r. cOMPARATO, c. CARINI (a cura di) h993l, Mo­delli di società tra '8oo e '9oo, L. S. Olschki, Firenze.

Si indicano inoltre alcuni testi che, pur a vario titolo, si presentano rile­vanti per l'insieme delle tematiche e del percorso concettuale del presente volume:

BALL T., FARR J., HANSON R. L. (eds.) (I989), Polztical Innovation and Con­ceptual Change, Cambridge University Press, Cambridge.

BIRAL A. (I99I), Per una storia della sovranztà, in "Filosofia politica", v, 1.

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IL POTERE

BOBBIO N. (I975), Stato, governo, società: per una teoria generale della politica, Einaudi, Torino.

nuso G. (I988), La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Angeli, Milano.

ESPOSITO R. (I988), Categorie dell'impolitico, Il Mulino, Bologna. FIORAVANTI M. (I993), Stato e costituzione. Materiali per una storia delle dot­

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Parte prima

Ordine, governo, imperium

Per intendere quando sia da ravvisare la genesi del concetto di pote­re, nel senso di potere politico, bisogna avere chiara coscienza di ciò che con questo termine si viene ad indicare. In relazione al significa­to che si è sedimentato nel suo uso, si può riconoscere come elemen­to centrale la formulazione di direttive per l'azione di tutti i compo­nenti di una società che si manifesta nella forma di comando - di un comando efficace, in quanto garantito dall'uso di una forza comune preponderante - e, di contro, l'attitudine di tutti coloro che si trova­no nell'area di tale potere all'ubbidienza: non ad un'ubbidienza coat­ta, dovuta al fatto che si subisce semplicemente un atto di forza, ma un'ubbidienza volontaria, che sembra caratteristica della vita civile. Per comprendere se con questo concetto si esprima una dimensione universale, che da sempre ha determinato l'ambito politico, e se, con­seguentemente, l'origine del concetto sia da porre nell'antichità, è uti­le verificare se esso sia presente e pensabile all'interno delle dottrine politiche della prima età moderna, che, in molti casi, sono ancora legate ad un modo di pensare la politica che ha le sue origini nella filosofia pratica greca. Bisogna cercare di capire cosa avviene real­mente in quei contesti quando si pensano rapporti gerarchici nella società, nella civitas o nella respublica, quando si configura cioè una dimensione di comando e conseguentemente di sottomissione, che è spesso letta in chiave di "rapporti di potere".

L'uso fatto del concetto di potere, a livello storiografico, si basa su un significato che è stato formulato nell'epoca moderna e che vie­ne impiegato, proiettandolo nel passato, per intendere in modo omo­geneo la storia del pensiero politico. Il potere è cioè inteso come una dimensione reale che si tratta di rintracciare nella realtà storica, iden­tificando i modi in cui si è, di volta in volta, determinato. Tale uso implica, come vedremo, due tappe fondamentali, costituite dalla na­scita della scienza politica moderna, con la sua costruzione fondante la dimensione della sovranità e, in seguito, dalla svolta epistemologica

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IL POTERE

weberiana, con la quale la scienza perde il suo carattere di fondazio­ne razionale per divenire "scienza di realtà". Usare tale concetto per periodi in cui si è manifest~to un modo radicalmente diverso di in­tendere l'uomo e la politica risulta fonte di fraintendimento dei con­testi che sono posti ad oggetto della propria riflessione. Senza voler ridurre in uno spazio omogeneo realtà e dottrine diverse, si può tut­tavia riconoscere, nello spazio che va dall'alto medioevo alla prima età moderna, un modo di pensare la politica che ha le sue radici nell'antichità e che non è omologabile al significato della politica qual è espresso dai concetti moderni. All'interno di questo modo di pen­sare la politica da parte di una lunga tradizione, se si manifestano rapporti di comando e sottomissione, essi non solo non possono esse­re intesi nella forma del potere, ma esprimono piuttosto un modo ra­dicalmente diverso di intendere la natura degli uomini e il loro reci­proco rapportarsi. Tale radicale diversità viene chiaramente alla luce quando ci si accorge che, alla nascita della scienza politica moderna, si sentirà il bisogno di giudicare non razionale e legittimo il pensiero politico di una millenaria concezione della politica, ai fini di costruire una società giusta che sarà resa possibile proprio dal concetto di po­tere politico, nel senso della sovranità moderna.

Si può tentare di tratteggiare per sommi capi il quadro di pensie­ro in cui si dà una dimensione che, per distinguerla da quella del potere, potremmo chiamare del governo. In questo quadro l'uomo è considerato per sua natura un essere che vive in comunità, in rap­porto con gli altri: la società non è costruzione artificiale, ma è piut­tosto naturale, in quanto fine della natura umana. Essa allora non dipende dalla volontà dei singoli, i quali sono uomini proprio in quanto interni ad una realtà di vita in comune. Il rapporto di comu­nità ha un suo carattere di fine quando si configura come grandezza autosufficiente, quale poteva essere la polis in Aristotele e la civztas o respublica nelle Politiche che ancora si richiamano ad Aristotele nel primo Seicento. Se è naturale la dimensione sociale, è altrettanto na­turale, in questo quadro, che si dia un'azione di governo, nel senso dell'unificazione e della guida della società. Ciò perché l'intero della società è formato di parti di diverse qualità, che hanno bisogno di uno sforzo continuo per armonizzare le differenze e renderle utili per tutti coloro che condividono una respublica, che sono legati da ciò che li accomuna.

Tale necessità di un'azione di governo non riguarda solo la socie­tà, la comunità politica, ma anche l'anima dell'uomo, che essendo pure complessa e costituita di parti diverse, quella del pensiero, quel­la passionale, quella appetitiva, abbisogna della guida della parte su-

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ORDINE, GOVERNO, IMPERIUM

periore dell'anima, di una guida che permetta la vita armonica del­l'uomo. Il problema della giustizia riguarda allora insieme sia il singo­lo uomo sia la società: esso determina lo spazio etico che fa tutt'uno con quello politico: non c'è qui ancora separazione vera e propria tra morale e politica, tra ciò che è giusto per l'interiorità della coscienza e ciò che è giusto per la società.

L'azione di governo non esprime semplice dominio su coloro che sono sottomessi: il governo si rivolge al bene della realtà comune, insieme di chi governa e di chi è governato, ed è un modo per met­tere al servizio comune le doti e le qualità di chi governa. La guida, per essere efficace, comporta anche comando, ma questo non consi­ste in un rapporto formale, indipendente dai contenuti di volta in volta espressi. In altri termini non c'è un rapporto di comando e obbedienza che valga semplicemente per le funzioni proprie dell' au­torità politica, da tutti riconosciuta. I governati non dipendono sem­plicemente dalla volontà di chi governa, ma governanti e governati dipendono insieme da un mondo oggettivo che non è basato sulla volontà. La metafora che bene illumina questo modo di intendere è quella, spesso utilizzata già nel mondo antico, del nocchiero della na­ve, del gubernator navem reipublicae. Il governo della nave è possibile in quanto c'è un mondo oggettivo, con i suoi punti di riferimento: i punti cardinali, le stelle, i venti, le correnti, tutto ciò insomma che permette di orientare la guida, che permette che ci sia guzda. E per­ché questa sia una guida buona, un buon governo, bisogna che il noc­chiero sia dotato di esperienza e di qualità, di virtù che non sono distribuite ugualmente tra tutti. Oltre ad un cosmos reale in cui si è inseriti, il pensiero del governo implica anche che gli uomini siano differenti: che non sia l'uguaglianza la base della politica. Fuori di metafora: ci si riferisce alla nozione di governo in un contesto in cui si pensa al problema del bene e del vivere bene, all'ordine dell'ani­ma, alle leggi, non intese nella forma dell'espressione di volontà di qualcuno, e - nel contesto medievale e della prima età moderna, quando questa immagine viene ripresa ed è ancora significativa - alla realtà della respublica, delle parti che la costituiscono, delle leggi fonda­mentali, e inoltre al "buon diritto antico" e alla verità rivelata nei testi sacri.

L'azione di governo, anche se necessaria per l'intera comunità, è attribuibile alla persona di colui che governa e non esprime la volon­tà di tutti i cittadini, o di tutte le parti che costituiscono il corpo della repubblica; è piuttosto colui che governa ad esserne responsabi­le. Egli non incarna il popolo, ma questo ha possibilità di esprimersi nei suoi confronti, come mostrano i vari contratti di governo

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IL POTERE

(Herrscha/tsvertrage) che caratterizzano la realtà europea tra alto me­dioevo e prima età moderna. Chi è governato non è soggetto passi­vo, ma esprime anche una propria politicità, una partecipazione alla cosa pubblica: nonostante la sottomissione al governo, ha la possibili­tà e spesso anche il dovere di chiedersi se si tratti di un buon gover­no, se i comandi corrispondano a quel mondo oggettivo sopra indica­to, che va dalla volontà di Dio al diritto (che non è creato dal gover­nante, ma costituisce una realtà superiore e oggettiva), alla realtà e alla dignità delle parti (queste sono i membri della società) che costi­tuiscono il corpo sociale. E, in molti casi, il pensiero del governo è collegato a quello della resistenza: alla possibilità o dovere di resistere alla tirannia, a ciò che, in base a quell'insieme di cose che servono per intendere l'orientamento, può essere considerato cattivo governo. Spesso, come nel caso di Althusius, il popolo è realtà superiore, nei suoi organi collegiali, a colui che governa, e lo può perciò giudicare e deporre.

Tale presenza politica del popolo accanto e di fronte a chi gover­na, è possibile in quanto esso è composto di parti, all'interno delle quali i singoli uomini hanno la loro dimensione politica, in rapporto cioè all'appartenenza ad una delle diverse parti e al peso, allo status, che in essa esercitano. Tale modo di intendere la realtà della respubli­ca è bene simboleggiato dall'immagine ricorrente, nell'iconografia del­le opere politiche, della repubblica come un corpo, nel quale le parti anatomiche corrispondono alle diverse parti della società: il principe, il senato, i giudici, il ceto militare, le corporazioni dedite al lavoro. Il buon funzionamento del corpo comune corrisponde al buon funzio­namento delle parti, e un funzionamento armonico è possibile in quanto c'è una guida delle diverse parti del corpo.

Se tale quadro caratterizza ancora le dottrine politiche del primo Seicento, che trovano nella filosofia pratica di Aristotele un punto di riferimento, con Machiavelli era già apparsa nella scena del pensiero politico una diversa comprensione della natura umana che non giusti­fica più le differenze di posizione nel governo in base a una natura differenziata e strutturata gerarchicamente. La natura umana risulta, nel quadro del suo pensiero, caratterizzata da una costitutiva conflit­tualità, e così la comunità politica: principato civile e repubblica de­vono essere in grado di offrire una risposta a questa situazione. L'in­sistenza sulla necessità e sulle forme dell'agire del principe non inau­gura una dimensione in cui si sviluppa una mera espressione di pote­re e di dominio né, d'altra parte, tende a fondare su base razionale l'obbligazione politica, ma è piuttosto legata al problema del governo

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ORDINE, GOVERNO, IMPERIUM

di una condizione politica, che può essere sbilanciata alternativamen­te verso un governo principesco o verso uno popolare. Il legame con una tradizione di pensiero in cui si pensa all'agire politico dei cittadi­ni e alla virtù civile non è ancora rotto.

Paradossalmente, nonostante l'insistenza sulla centralità dei per­corsi della conservazione, l' antimachiavellismo, che contraddistingue il discorso della ragion di Stato, non può evitare di prendere le mosse proprio dall'acquisizione dell'ormai indiscutibile ineluttabilità del mu­tamento. Esso è segnato perciò dal tentativo di riaffermare il primato e l'esclusività della figura politica del principe grazie a pratiche di go­verno che, attraverso la sistematizzazione dell'attività amministrativa, saranno fondamentali per i due secoli successivi. In questo modo tale figura finisce per essere, almeno in parte, sottratta all'universo com­positivo in cui la tradiziòne del cosiddetto aristotelismo politico la collocava: la pru,denza politica perde l'originario carattere che rivestiva nel contesto aristotelico, facendosi modo di produzione del discipli­namento politico, arte utile ad ottenere obbedienza dai sudditi. Inizia da qui il processo di astrazione attraverso il quale il termine Stato giungerà ad indicare l'intero corpo politico; tuttavia la ragion di stato è ancora identificata con l'azione di governo, con l'arte di governo, ed è perciò legata ad un mondo plurale segnato dalla differenza, nei confronti del quale appare spesso come un paradigma di conservazio­ne, di difesa dalle alterazioni e dalle corruzioni. In questo contesto non si è ancora determinata quella dimensione omogenea sulla quale nasce il concetto di potere con la formalità che lo caratterizza, e sulla quale si costituiscono gli elementi formali fondamentali dello Stato moderno: appare perciò indebito legare la ragion di stato ad una più recente concezione della potenza dello stato o dello statalismo.

Un momento fondamentale per la nascita del potere, nel senso moderno della sovranità, è solitamente ravvisato in Bodin. In effetti nel suo pensiero la plurale e composita realtà della repubblica non viene più concepita come in sé ordinata: non è più possibile un go­verno che implichi l'esprimersi politico delle varie parti della comuni­tà politica: è necessaria, per sfuggire l'incombente anarchia, una puis­sence souveraine, che è al di là della costituzione e si manifesta come neutra nei confronti dei dissidi religiosi. È vero che questo potere assoluto, sciolto dai vincoli delle leggi civili, resta sottoposto alle leggi divine e morali, ma scompare la possibilità di organi che possano giudicare il detentore di tale potere, ed eventualmente opporsi a lui: la decisione sovrana risulta svincolata da un complesso quadro di or­dine e di diritto. Tuttavia la sua assolutezza non nega la natura plu-

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IL POTERE

rale della società, composta di ordini, comunità e corporazioni: è proprio tale composizione plurale, che tende a produrre anarchia e disordine, a dover essere mantenuta, diretta e governata, richiedendo a tal fine una potenza unitaria sovrana. Il carattere di assolutezza che caratterizza la sovranità in Bodin non si basa sulla dimensione omo­genea e unitaria che sarà propria del potere moderno e ha il caratte­re del mantenimento di una realtà costituita piuttosto che quello di un assoluto potere costituente. Non rappresenta perciò ancora una rottura definitiva e radicale con le dottrine precedenti. Ciò che non si trova in questo contesto è l'elemento che caratterizzerà la forma politica moderna e che la legittimerà: il fatto cioè che il potere sia basato sull'uguaglianza di tutti i membri della società individualistica­mente intesi e sull'espressione della loro volontà e che, di conseguen­za, l'espressione di volontà del sovrano sia intesa come l'espressione della volontà di tutti.

Il riferimento alla sovranità di Bodin, in positivo per accettarla o in negativo per rifiutarla, diviene un tratto caratteristico delle politi­che del Seicento, che nella prima metà del secolo rimangono fonda­mentalmente fedeli agli schemi aristotelici. Anche all'interno di que­sta tradizione si va tuttavia consumando un lento avvicinamento alle posizioni della nuova scienza politica, che viene sancito dalla fonda­zione della disciplina del diritto naturale e dalla sua parte dedicata alla politica, il diritto pubblico universale. Ma la rottura nei confronti dell'antico modo di intendere la società avviene con Pufendorf, che introduce in Germania la logica della costruzione hobbesiana e inau­gura la scienza del diritto naturale. Con Pufendorf può così dirsi compiuto il destino della disciplina politica antica e con essa dell'inte­ra filosofia pratica, perché la politica viene relegata al ruolo di dottri­na degli affari di governo, chiamata ad applicare le indicazioni di scienze teoriche, e d'altra parte vengono espunti dal sapere politico gli elementi che ne avevano caratterizzato la storia degli ultimi secoli, primo fra tutti la convinzione che l'uomo sia un essere naturalmente politico, portato a mettere in comune i suoi beni materiali e morali, e che su questa particolare costituzione dell'uomo si fondi la società politica e il sapere che la concerne. L'uomo è sì caratterizzato dalla socialitas, tuttavia la società civile appare possibile solo mediante l' im­perium, che ora assume un significato nuovo: non è più guida e go­verno, ma potere, nel quale si esprime il soggetto collettivo, la civitas, le cui azioni, uniche ad essere politiche, sono intese come diverse e separate da quelle dei cittadini, ormai ridotti ad una dimensione pri­vata.

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ORDINE, GOVERNO, IMPERIUM

Riferimenti bibliografici

Pur rimandando agli apparati bibliografici dei singoli capitoli, si indicano qui alcuni testi che, per rilevanza o ampiezza di spettro problematico, sono da tenere presenti per l'insieme dei temi affrontati nella presente sezione.

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I

La repubblica prima dello Stato. Niccolò Machiavelli sulla soglia del discorso politico moderno

di Maurizio Ricciardi

L'opera di Machiavelli deve essere situata in un'epoca in cui «si fon­davano e si distruggevano repubbliche e principati», essendo ormai «trascurata la legalità del Medioevo»; in un periodo in cui «l'Italia non era logica»; quando, nonostante tutti i rivolgimenti, compresa la sconfitta dell'impero universale con il suo legame esclusivo con la re­ligione, «i nuovi signori chiedevano di continuo la legittimazione im­periale» r. Quello machiavelliano è quindi un discorso preso tra due epoche, al punto che gli stessi termini in esso impiegati sembrano avere sovente abbandonato ogni consolidata chiarezza, senza avere ancora raggiunto la specificazione concettuale che diverrà caratteristi­ca del discorso politico dell'età moderna 2 • Machiavelli è consapevole del pericolo di «trovare modi e ordini nuovi che si fusse cercare ac­que e terre incognite», così come è convinto che la qualità del suo discorso consiste nel battere una via che non è stata «ancora da alcu­no trita» (D I, Proemio A, I). Questa volontà di innovare concerne «modi e ordini» della politica e, sul piano storico, assume come avve­nute almeno due mutazioni decisive: quella che a partire dalla rivolta fiorentina dei Ciompi nel I 3 78 aveva modificato la struttura interna della cittadinanza e quella determinata dalla discesa in Italia di Carlo vm che, nel I494, due anni dopo la morte del Magnifico, aveva ridi­segnato i rapporti tra gli stati. Machiavelli vuole quindi ridelineare le coordinate temporali e spaziali all'interno delle quali «tutte le repub­bliche si sono governate e si governano» (D I, n, 24). Il risultato di questo sforzo sarà l'indicazione di uno stato che non ha ancora le caratteristiche specifiche dell'unitaria e astratta compagine di potere, destinata ad affermarsi nei secoli successivi, ma mantiene nel proprio

r. Ferrari (1973), p. I6r. 2. Sul linguaggio politico di Machiavelli cfr. De Vries (1957); Chiappelli (1952)

e Condorelli (1923). Sul passaggio all'età moderna e sul concetto di soglia epocale cfr. Blumenberg (1992).

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IL POTERE

significato il rimando a una moltitudine che può governarsi o deve essere governata. D'altra parte lo stesso concetto machiavelliano di popolo non si riferisce né a un corpo civico differenziato al suo inter­no ma ricomposto nel quadro organico della res publica, né tanto me­no a un insieme indifferenziato di cittadini o di sudditi, rimandando piuttosto al complesso di posizioni sociali che, all'interno della repub­blica o del principato, si oppone al predominio politico degli ottima­ti. Nei confronti del pensiero politico e statuale che si affermerà nel secolo successivo, la dottrina di Machiavelli ha dunque, allo stesso tempo, un carattere preliminare ed eccentrico. Essa rappresenta da un lato un luogo di passaggio dalla considerazione medievale a quella moderna dei compiti del principe e del potere monarchico, dall'altro un'alternativa e un'interruzione nella comprensione pratica del reggi­mento repubblicano.

I. I

Il tempo dell'azione

La mutazione dei tempi impone di negare la falsa memoria del passa­to che rischia di rendere illegittimo il presente. Spesso infatti gli uo­mini si ingannano sul reale valore delle cose passate, dipendendo nel loro giudizio da "storie" spesso menzognere, ma anche e soprattutto da una predisposizione, per così dire, antropologica che li porta a essere comunque insoddisfatti del presente e a utilizzare il passato per appropriarsi del futuro, seguendo il proprio desiderio. «Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili perché, avendo dalla na­tura di potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere conseguitarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane e uno fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati e desiderare i futuri, ancora che a fare questo non fussono mossi da alcuna ragionevole cagione» (D n, Proemio, 2 r). Si è così di fronte ai termini fondamen­tali dell'universo politico di Machiavelli: la dura verità che comunque si nasconde dietro l'immaginazione delle cose, l'insaziabile desiderio umano di appropriarsi di tempo, spazio e oggetti, la fortuna che, sia come mutamento sia come persistenza, impedisce la piena disponibi­lità di quegli oggetti del desiderio. A questi termini si devono aggiun­gere «la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna», perché proprio la virtù - opposta al vizio e alla fortuna - consente di stabili­re quale sia la vera natura dei tempi e la conseguente linea di con­dotta che è possibile tenere; essa rappresenta quel "bene" che, se

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I. LA REPUBBLICA PRIMA DELLO STATO

non raggiunto, deve essere insegnato «ad altri, accioché, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo» (ivi, 25).

È quindi «più conveniente andare drieto alla verità effettuale del­la cosa, che alla immaginazione di epsa» (P xv, p. 2 53). Se si ha di mira un'azione politica degna del successo, si devono leggere i tempi e il loro continuo mutamento, anche se la realtà non è del tutto di­sponibile all'azione consapevole e virtuosa, ma piuttosto almeno par­zialmente indisponibile e sottomessa al dominio della fortuna. La coppia concettuale costituita da fortuna e virtù stabilisce il campo di tensione all'interno del quale vengono definite le possibilità d'azione individuale e collettiva. Infatti, se la seconda è l'antidoto alla totale supremazia della prima, è anche vero che la virtù rimane vincolata all'effettualità della cosa che le si presenta come dura necessità di una situazione data 3. Sebbene talvolta lo stesso Machiavelli abbia condi­viso la convinzione opposta 4, alla fortuna si può reagire e la qualità della risposta già definisce una soglia che organizza le alternative del discorso politico.

Mettendo in primo piano la fantasia, il modo di procedere e la natura dell'uomo, la torsione impressa da Machiavelli al concetto classico di virtù approda sia alla progettualità sia al desiderio che de­vono produrre la capacità e i modi di adeguarsi ai tempi. Ma soprat­tutto essa giunge a distinguere la facoltà tradizionalmente individuale di cogliere l'occasione da una virtù diversa che si rivela nell'adesione di molti alle molteplici emergenze della contingenza. Seguendo l'e­semplare destino di Roma, si possono quindi distinguere le repubbli­che alle quali «sono state date da uno solo le leggi e ad un tratto» da quelle che «le hanno avute a caso ed in più volte e secondo li acci­denti» (D r, rr, 3). La virtù del popolo romano non si incarna in una figura specifica, ma attraversa diacronicamente la storia di Roma, sta­bilendo la differenza specifica di questa repubblica rispetto a tutte le altre 5. La virtù civile e militare dei Romani fu dunque più importan­te delle contingenti e favorevoli condizioni di partenza per fare loro (<acquistare quello imperio»; e la sostanza di questa virtù collettiva fu appunto la capacità di fondare la potenza militare - ovvero, come si

3· Sul concetto machiavelliano di necessità cfr. Meinecke ( 1977 ), pp. 25-48. 4· Cfr. l'esplicita autocritica che apre il discorso su fortuna e virtù in P xxv, p.

302. Ma sullo stesso problema cfr. anche L, pp. 228-3 r. 5· Reale (r985l.

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IL POTERE

vedrà, il dominio dello spazio complessivo - su di un libero ordina­mento interno che privilegiava il bene comune rispetto a quello parti­colare (D II, II, !2). Fortuna e virtù non sono definite dalla loro contiguità, secondo una metafora linearmente spaziale, quanto piutto­sto dalla possibilità che la seconda si sovrapponga in continuazione alla prima, dominandola. Il problema non sembra più essere il susse­guirsi di periodi di buona e cattiva sorte, quanto una distonia che può comunque crearsi tra il variare continuo dei tempi e l'ostinata costanza dell'azione degli uomini, determinata dall'essersi fissati su progetti e modi che hanno perso ogni effettualità (P xxv, p. 304). L'effettualità della cosa e quella dell'azione politica si sommano quin­di per riassumere non solo la corretta analisi dello stato presente del­le cose, ma anche la capacità di adeguarsi a ciò che richiedono le circostanze in forza della loro incontestabile oggettività.

L'uguaglianza dei desideri e l'universale cogenza della realtà com­prendono così la moltitudine e il singolo in un unico discorso che, quando considera l'agire del principe, stravolge necessariamente la comprensione classica di quelle virtù che a lungo avevano legittimato all'esercizio del governo. Il catalogo delle qualità impone al principe la scelta di fronte a una natura interna che non ha più nulla di ogget­tivamente stabilito. Anche la pretesa di una superiorità morale dei principi sugli altri uomini è ormai un vizio del passato, perché è chiaro che «la variazione del procedere loro non nasce dalla natura diversa, perché in tutti è a uno modo» (D I, LVIII, 19). Grazie a questo criterio di uguaglianza è la stessa descrizione dell'uomo ad adeguarsi e a richiedere contemporaneamente una nuova qualità del tempo. Le osservazioni antropologiche machiavelliane immaginano un uomo tutto teso alla soddisfazione di un costante desiderare, «perché non pare agli uomini possedere sicuramente quello che l'uomo ha, se non si acquista di nuovo dell'altro» (D I, v, I 8). In questo modo Machiavelli raggiunge la soglia esterna di un discorso sulla natura umana che sarà moderno, e le stesse descrizioni dell'egoismo, del­l' ambizione, della crudeltà non mirano a definire l'assenza o la pre­senza di un bene morale, ma piuttosto alla ricerca di un vivere civzle grazie a una natura che nella costanza della sua varietà è uguale in tutti. Viene così stabilita anche la condizione di possibilità dell'imita­zione delle storie antiche: la continuità e l'uguaglianza della natura umana costituiscono un elemento di persistenza nel "mosso" universo machiavelliano ed è questa tumultuosità del tempo e del soggetto che impone di pensare la necessità di adeguare in continuazione la strut­tura politica.

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I. LA REPUBBLICA PRIMA DELLO STATO

1.2

Il principato civile

Il principato si presenta come modo specifico per rinnovare politica­mente una repubblica che non è più in grado di produrre dal suo interno l'innovazione necessaria. L'opuscolo che Machiavelli dedica al principe ha il suo centro nel IX capitolo: De principatu civzli 6 . Si trat­ta intanto di un principe nuovo, ovvero che non succede ad altro principe, che prende il potere in una città che viveva precedentemen­te con leggi sue proprie e non imposte dall'esterno, che non è eccle­siastico, ovvero che è costretto a cercarsi una legittimità inframonda­na, che infine è in grado di imporsi grazie alla propria forza e capaci­tà. Per il principato, così come sarà per la repubblica, la forza milita­re autonoma e la legittimità politica interna sono strettamente colle­gate soprattutto perché la seconda, sottratta al suo fondamento tradi­zionale, deve essere assicurata sia verso l'esterno sia verso l'interno. Le armi proprie del cittadino repubblicano o quelle del principe civi­le, che accetta di armare il suo popolo per garantire e difendere il suo stato, sono la base su cui ogni ragionamento machiavelliano viene costruito. La forza costituisce però una base sufficiente solo nel mo­mento in cui viene intesa politicamente 7. Il principato civile, infatti, nonostante possa alla sua origine essere tanto ottimatizio quanto po­polare, dispiega completamente la propria capacità di governo politi­co sulle contraddizioni sociali quando viene acquisito o successiva­mente gestito con il sostegno, ovvero con il consenso, della parte po­polare - la moltitudine, l'universale - che, più di quella ottima tizia, consente di stabilire un governo duraturo e non oppressivo: «perché quello del populo è più onesto fine che quello de' grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso» (P IX, p. 22 5).

Il principato civile-popolare è la soluzione "virtuosa" della crisi di una libera repubblica, nella quale gli scontri interni impediscono il rinnovamento dell'esperienza repubblicana; esso è una presa di posi­zione esterna alla repubblica, ma interna ai suoi conflitti dal momen­to che, dovendosi garantire la durata come ogni altro governo, esso deve allearsi con una delle parti dello scontro (P IX, p. 224, ma an­che D I, XVI, r 3). È infine una soluzione eccezionale e nell'eccezione il principe machiavelliano viene messo alla prova, essendo l'incarna-

6. Sulla genesi e la composizione dell'opuscolo sui principati cfr. quanto lo stes­so Machiavelli scrive nella lettera del ro dicembre 1513 a Francesco Vettori (L, pp. 301-6). Cfr. inoltre Sasso (r98o'), pp. 293-438 e Lefort (1986'), pp. 313-449.

7· Cfr. a questo riguardo anche AG, Proemio.

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IL POTERE

zione di un modo straordinario di affrontare la crisi, nel momento in cui quelli ordinari sono impotenti di fronte alla disaffezione verso la cosa pubblica. L'opposizione tra i due modi è quindi un problema relativo alla stessa capacità di autogoverno della repubblica: rilevante dal punto di vista concettuale è il fatto che proprio nel passaggio tra ordinario e straordinario si colloca anche la possibilità del principato, evidenziando cosi non tanto un'opzione comunque favorevole alla le­galità, quanto piuttosto la ricerca di una risposta al lento declinare verso una decadenza caratterizzata dall'assenza di decisione. In que­sto senso la ricorrente condanna machiavelliana del "modo di mezzo" è appunto rivolta contro l'attitudine compromissoria che comunque -sia nel principato che nella repubblica (P xxi, p. 292; D I, xvrr, r6; D I, xxvi, 5; D I, xxx, 6-7) - impedisce di procedere veramente nell'innovazione. Se per l'individuo principe ciò implica una risolu­tezza tale da giungere fìno ai comportamenti estremi che impongono la crudeltà, per i cittadini di una repubblica la scelta fondamentale è tra una repubblica incapace di rispondere alle sfìde del dominio dello spazio interno ed esterno e una che invece fìn dall'inizio è costituita per rispondere agli sbilanciamenti prodotti dal tempo e quindi, quan­do si rivelasse necessario, anche alla verifica dell'ampliamento (D I,

VI, 36).

I.J La repubblica della moltitudine

Da qui si possono prendere le mosse per affrontare i Discorsi machia­velliani, nei quali sia il principato civile sia la consistenza politica del reggimento repubblicano vengono messi alla prova degli effetti pro­dotti dalla loro origine e dalla loro durata, cioè del conflitto tra parti sociali e della corruzione degli ordini e degli uomini 8 • Si tratta di un testo notoriamente composito, che intanto si allontana dall'intenzione classica della teoria ciclica delle forme di governo con la sua celebra­zione della superiorità del governo misto 9., annunciando una nuova impostazione sia del problema della forma del governo, sia del rap­porto tra i diversi tipi possibili di repubblica. Le due variazioni inter­ne alla teoria sono intimamente collegate, perché entrambe mettono in gioco il criterio tradizionale di assicurazione dell'ordine politico.

8. Sui Discorsi cfr. soprattutto Bausi (1985); Sasso (198o'), pp. 439-579 e Le­fort (1986'), pp. 532-690.

9· Sulla progressiva distanza da Polibio cfr. Colonna D'lstria, Frapet (1980), pp. 135-205 e Sasso (1967).

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I. LA REPUBBLICA PRIMA DELLO STATO

La teoria ciclica delle forme di governo non mostra il suo tratto fon­damentale tanto nella dinamica che da una forma porta all'altra, quanto piuttosto nella delimitazione di un ambito prestabilito, misto e quindi bilanciato, in cui tutti i movimenti devono avvenire o essere evitati. Rinunciare a questo schema significa per Machiavelli raggiun­gere una soglia di assoluta novità teorica che si distacca tanto dal precedente repubblicanesimo democratico, quanto anche dalla com­prensione della politica propria della tradizione. Il distacco dall'iden­tificazione di posizione sociale e ruolo politico non avviene in Ma­chiavelli grazie a un criterio astratto di cittadinanza che, come sarà in Hobbes, rende di fatto inutile il riferimento al governo misto, ma confutando la dottrina dell'equilibrio politico risultante dalla commi­stione di uno, pochi e molti 10 . Infatti, rinvenire nel ruolo costituzio­nale della plebe romana la causa della grandezza di Roma conduce necessariamente alla celebrazione di una repubblica che risulta bilan­ciata grazie al suo effettivo squilibrio. Roma divenne in definitiva po­tente e libera proprio perché era una «republica tumultuaria». E il riconoscimento della scissione sociale come causa di grandezza viene opposto a coloro che identificano immediatamente l'equilibrio politi­co con l'assenza di conflitto sociale (D I, rv, 5).

Fino a quando all'interno di una repubblica sono presenti «due umori diversi» è la costituzionalizzazione della loro disunione che consente l'ampliamento della potenza II. Grazie all'istituzione dei tri­buni della plebe Roma ebbe una "guardia della libertà" che poteva e può essere appannaggio solamente della parte popolare che, come si è già visto, è quella più nemica dell'oppressione rz. Il tribunato della plebe è l'istituzionalizzazione di un modo ordinario di fare fronte ai possibili problemi della repubblica, impedendo che divenga necessa­rio passare a quelli straordinari che sempre tendono a mettere in cri­si la stessa costituzione repubblicana e la cui massima espressione è, come si è visto, il principato. A differenza di Venezia, la repubblica aristocratica, Roma può essere assunta a modello proprio perché si è provvista di mezzi ordinari in grado di consentire l'espressione poli ti-

ro. Sulle continuità e le differenze tra Machiavelli e Hobbes cfr. Esposito (1984), pp. 179-220 e Duprat (I98o).

I I. Sul carattere determinato e decisivo del conflitto nell'economia dei Discorsi insiste Esposito ( I 980).

12. Questo giudizio sul passato si colloca evidentemente su di una linea di con­tinuità rispetto alla vicenda politica personale di Machiavelli, come è chiaro in D I,

LII, IO.

43

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IL POTERE

ca e militare di tutte le sue componenti sociali. Anticipazione del tempo futuro e dominio dello spazio si coniugano con la struttura politica, perché la particolarità di Roma sta proprio nell'aver avuto a suo fondamento un cittadino armato, disposto a combattere, non so­lo per difenderla, ma anche per aumentarne la potenza. Per converso il limite dei veneziani sta proprio nell'avere sempre negato, per pau­ra, le armi alla propria parte popolare, confidando nei mercenari, fi­no a che «la viltà dello animo loro, causata dalla qualità de' loro or­dini non buoni nelle cose della guerra, gli fece a un tratto perdere lo stato e l'animo» (D III, xxxi, r8) '3.

Nelle repubbliche sono quindi necessarie leggi che prevedano modi ordinari per garantire la libertà, di modo che il conflitto tra gli "umori" o le loro fazioni sia definito dal pubblico '4. E il riferimento all'unità necessaria del pubblico assume sempre maggiore rilevanza in tutto il primo libro dei Discorsi fino a rideterminare i caratteri stessi della repubblica, ponendola come alternativa assoluta all'ipotesi straordinaria del principato, spezzando la linea di continuità che le univa in quanto forme di governo e facendone generi antitetici di stato. In primo luogo, sull'esempio delle città tedesche, viene stigma­tizzata l'esistenza politica di una nobiltà definita in termini di posses­so e di potere particolari, come quella ancora dominante in molte regioni italiane. Questi <~gentiluomini» non solo vivono delle loro ren­dite non avendo nulla a che fare con la produzione della ricchezza mobile, ma soprattutto «comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono loro», impedendo che la repubblica abbia il pieno con­trollo sul suo territorio (D I, LV, 19). Questi sono i nemici di quella equalità che Machiavelli intende sia in senso economico sia, soprattut­to, in senso politico; essi devono essere eliminati se si vuole giungere a una repubblica, ma possono essere degli utili alleati di una «mano regia» che volesse imporsi sulla moltitudine (D I, LV, 35).

L'equazione tra gentiluomini e corruzione produce il risultato di escluderli dall'orizzonte della repubblica in quanto portatori di un'i­neluttabile decadenza. Allo stesso tempo, tuttavia, essa distanzia nuo­vamente come opposte soluzioni istituzionali i due modi - il princi­pato civile e la repubblica - di dominare le variazioni del tempo. In precedenza (D I, xvrr-xvm) l'universale corruzione aveva raggiunto un grado e una forma tali da annullare la distanza sociale, coinvol­gendo i nobili e il popolo in un unico processo di decadenza. Da

I 3. Sulla critica politica e storica che Ma chi avelli contrappone agli ordini vene­ziani cfr. Cervelli (1974).

14. Esemplare in questo senso è l'affermazione in D I, VII, Io e D I, xxxvii, 8.

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I. LA REPUBBLICA PRIMA DELLO STATO

questa situazione sorgeva non solo «la diflìcultà o impossibilità che è, nelle città corrotte, a mantenervi una repubblica o a crearvela di nuo­vo» (D I, XVIII, 28), ma anche l'erosione dei presupposti stessi del principato civile. Veniva cioè alla luce la sua inattuabilità come me­diazione reale nel conflitto politico e sociale a cui avrebbe dovuto rispondere. Proprio il suo attributo di "civiltà" finiva per scomparire di fronte alla difficile se non impossibile impresa di sottomettere gli ottimati con l'appoggio del popolo, nel momento in cui la generale corruzione impediva di riconoscere l'originaria libertà. E il principato privo di attribuzioni sembra giustificare la riqualifìcazione della muta­zione nei termini di un passaggio da «republica in tirannide o da tirannide in republica» (D III, III, 3) r5. Essendo l'unica figura d'or­dine possibile in un universo di costante inequalità (D I, L v), il prin­cipato si trova confrontato con una repubblica che ha assicurato al proprio interno il dominio della equalità e della lzbertà, evidentemente riconoscendo - come accade nei capitoli che chiudono il primo libro - le qualità politiche generalmente negate di quella moltitudine che dovrebbe essere.il soggetto primo del vivere politico e civile. Ciò signi­fica ritornare sulla qualità delle storie che di essa parlano accusandola di non essere durevolmente in grado di mantenere l'ordine che pure sostiene (D I, Lviii, 2). Essa è dunque la prima vittima di quelle storie che pure dovrebbero fornire la materia per imitare l'azione dei grandi. Machiavelli si oppone quindi a quella «commune opinione» divenuta convinzione politica e, rivendicando l'uguaglianza della na­tura negli uomini, afferma la capacità della moltitudine di darsi e di seguire una norma. Soggetto della repubblica non è quindi una «moltitudine sciolta», ma una moltitudine regolata dalle proprie leggi, in grado di dimostrare la capacità di disciplinare se stessa, dimostran­do così di essere diversa da quella descritta come partecipe della ge­nerale corruzione che rendeva impossibile la repubblica e impediva l'instaurarsi di ogni forma "civile" di principato (D I, Lviii, ro).

1.4 Difendere la repubblica

Questa sistemazione lascerebbe comunque aperta la strada dell' omo­logia tra principato e repubblica, perché di fatto non decide quale sia la migliore forma di stato, affermando la simmetrica legittimità politi­ca di entrambi. Per questo Machiavelli affronta immediatamente il

15. Ma sullo sviluppo del concetto di principato cfr. Cadoni (1994) e soprattut­to Sasso (1988).

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IL POTERE

problema della «prudenzia», cioè della virtù politica fondamentale che permette di fare durare l'ordine politico, affermando la maggiore prudenza politica del popolo (D r, LVIII, 22). Ora all'opinione tra­mandata viene contrapposto un nuovo tipo di opinione che non si basa sulla conoscenza delle storie, ma ha la capacità, fondata sul suo soggetto, di appropriarsi del futuro. La superiorità del governo popo­lare si afferma intanto sul terreno fondamentale del dominio dello spazio e della sua espansione, sul quale le città non governate dai principi mostrano secondo Machiavelli una capacità assolutamente maggiore. Tuttavia questa superiorità non sembra essere ancora deci­siva, dal momento che, concludendo l'esplicito raffronto tra principa­to e repubblica, Machiavelli afferma: «se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti e ordi­ni nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordina­te, che egli aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che l'ordi­nano» (D I, LVIII, 3 3). Così, se viene negata l'equivalenza delle for­me, al principe viene comunque riconosciuta una capacità unica di innovazione, mentre la repubblica della moltitudine sembra destinata più a gestire la continuità dei tempi che ad affrontare la loro mutevo­lezza ' 6 •

Necessariamente, attraverso la storia del popolo di Roma, il se­condo libro dei Discorsi deve perciò riattraversare le dimensioni della virtù della moltitudine: la sua capacità di sovrapporsi alla fortuna, di

. difendere accanitamente la libertà, il suo bisogno di una religione ci­vile, la sua versatilità e il suo valore nelle cose della guerra. Ciò no­nostante, all'inizio del terzo libro, i termini del problema repubblica­no sono immutati: «Ed è cosa più chiara che la luce, che non si rinnovando questi corpi non durano» e il modo per rinnovare una repubblica è «ridurgli verso e principii suoi» (D m, I, 6). Azzerare all'interno della repubblica il grado e la forma della corruzione, ritor­nare ai tempi non corrotti dalla decadenza delle istituzioni e degli uomini può essere opera di singoli individui o degli stessi ordini re­pubblicani. Ora, dunque, l'innovazione sembra acquistare il pieno di­ritto di cittadinanza all'interno della repubblica, tanto che, tornando a Roma, Machiavelli indica, come esempio, «i Tribuni della Plebe, i Censori e tutte le altre leggi che venivano contro all'ambizione e al­l'insolenzia degli uomini» (D m, r, 2ol. I "modi" repubblicani per­mettono ora alla repubblica di trovare in se stessa la capacità di do­minare le mutazioni del tempo; rinnovando le proprie leggi essa non

r6. Sul problema del rinnovamento della repubblica nel suo rapporto con la figura innovatrice del principe cfr. Negri (1992), pp. 48-u6.

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I. LA REPUBBLICA PRIMA DELLO STATO

solo resisterebbe alla rovina, ma «la sarèbbe perpetua» (D III, xxn, I8). Nella repubblica le variazioni sarebbero più necessarie ma, allo stesso tempo, assai meno pericolose che nei principati, perché quelle sono fondate su un «comune consenso» e questi sulla violenza, e per­ché la «diversità dei cittadini [ .. .] può meglio accomodarsi alla diver­sità de' temporali» (D m, IX, I I). In essa la conquista della durata avviene grazie al fatto che il primato dell'azione, in precedenza rico­nosciuto esclusivamente all'individuo principe, diviene patrimonio di tutti i cittadini. «Debbono adunque gli uomini che nascono in una repubblica pigliare questo verso, ed ingegnarsi con qualche operazio­ne istraordinaria cominciare a rilevarsi» (D III, xxxiv, I4). L'opposi­zione tra ordinario e straordinario acquista così un senso diverso dal precedente, non essendo più possibile !imitarla alla contrapposizione tra le armi e la forza e la legalità: lo straordinario può divenire il principio d'azione di tutti coloro che, in quanto cittadini, praticano la politica repubblicana '7.

Gli antefatti di questo specifico approdo della dottrina machiavel­liana risalgono alla sua concezione della religione civile, perché essa costituisce il nucleo della strategia di delegittimazione del potere e dell'agire dell'individuo innovatore che, non curandosi della succes­sione temporale, porta da Romolo a Numa attraverso Cesare. Roma­lo è l'originario punto di indifferenza tra repubblica e principato per­ché, nonostante una forma politica duri più a lungo «quando la rima­ne alla cura di molti, e che a molti stia il mantenerla», Machiavelli conclude che «a ordinare una repubblica è necessario essere solo» (D I, IX, 9 e I 9). Il merito di Romolo, il principe fondatore dei principi repubblicani, è quindi incomparabilmente maggiore di quello di Ce­sare, padre della corruzione principesca e di ogni successiva violenza, che ha lasciato dietro di sé una «sempiterna infamia» (D r, x, 33); pur tuttavia il suo merito è minore di quello di Numa, al quale spet­ta «il primo grado» per aver introdotto a Roma una religione capace di assicurare la durata del vivere politico, cioè la sua continuazione anche dopo la fine della monarchia. Questa religione ha stabilito le condizioni di possibilità della virtù repubblicana, delle «infinite azio­ni, e del popolo di Roma tutto insieme e di molti de' Romani di per sé» (D r, xr, 4) lR che hanno portato continuità e durata a coincide-

17. Cfr. Althusser (1995 ), p. 59: «L . .] gli elementi teorici sono centrati sul problema politico concreto di Machiavelli solo perché questo problema politico è esso stesso centrato sulla pratica politica>>.

r8. Sulla religione civile di Machiavelli cfr. Tenenti ( 1969); Preus ( 1979) e Sas­so (r98o'l, pp. 507-17.

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re. Grazie a questa lettura della religione civile dei Romani, il modo straordinario può acquisire la vigenza di un'istanza che dall'interno rinnova perché, pur confermando i principi, le azioni che esso ispira sono «cose notabili e nuove» (D rn, xxxrv, r 5) che, soprattutto, de­vono essere ripetute in continuazione, se si vuole evitare che qualcu­no, approfittando della corruzione che ineluttabilmente cresce all'in­terno della repubblica, giunga a «pigliare autorità in una repubblica e mettervi trista forma» (D III, viii, r8). L'azione politica dei cittadini stabilirebbe così il polo opposto all'agire politico possibile all'interno di una gerarchia di ordini fondata sui comportamenti singolari ed esemplari di un individuo eccezionale, solitario dominatore della for­tuna.

Vzta

Niccolò Machiavelli (r469-1527) inizia la sua carriera politica a Firenze nel 1498 in corrispondenza dell'ultimo slancio del mondo repubblicano italiano prima dell'affermazione dello Stato moderno. Fino al r 512 svolge un'intensi­tà attività di amministratore, commissario militare e ambasciatore presso le più importanti corti italiane ed europee. Dopo il ritorno dei Medici a Firen­ze, in coincidenza con la sua disgrazia politica, scrive le sue opere più im­portanti.

Opere fondamentali

De Principatibus, testo critico a cura di G. Inglese, Istituto storico italiano per il medio evo, Roma 1994 (citato come P seguito dalla pagina).

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, premessa al testo e note di G. Inglese, Rizzoli, Milano 1984 (citato come D seguito dal libro, il capitolo e il paragrafo).

Lettere, a cura di F. Gaeta, Feltrinelli, Milano 1961 (citato come L). !storie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Feltrinelli, Milano 1962. Arte della guerra e altri scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Feltrinelli,

Milano 1961 (citato come AG per quanto riguarda l'Arte della guerra). Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, 3 voll., Feltrinelli, Milano 1964.

Rz/erimenti bzhliografici

Una bibliografia della letteratura secondaria è Niccolò Machiavelli. An Annota­ted Bibliography o/ Modern Criticism and Scholarship, a cura di s. Russo FIORE,

Greenwood Press, New York-Westport-London 1990.

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I. LA REPUBBLICA PRIMA DELLO STATO

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Principi e ragion di stato nella prima età moderna

di Maurizio Ricciardi

2.1

Lo spazio dello stato

Ancora nel secolo di Machiavelli, la domanda da lui posta sulle con­dizioni che avrebbero permesso alla repubblica di accettare la sfida del mutamento dei tempi, predisponendosi ad accrescere il dominio sullo spazio grazie alla virtù della moltitudine, così com'era avvenuto nella Roma repubblicana, riceve una risposta profondamente diversa. Nel I 5 89, con il libro Della ragion di Stato di Giovanni Botero, inizia un'intensa opera di ridefinizione della figura politica del principe e del rapporto da lui stabilito con il territorio e con i suoi sudditi '. In maniera quasi sempre ostile a Machiavelli, non solo in Italia >, una lunga serie di trattati torna ad affrontare il retaggio della storia anti­ca, scegliendo -ora di confrontarsi con Tacito piuttosto che con Tito Livio 3, ma soprattutto chiarendo fin dai suoi inizi che, tra le opzioni che si offrono all'agire del principe - la conservazione, l'ampliamento o la fondazione - la ragion di stato privilegia decisamente la sicurez­za garantita dalla prima 4.

I. Cfr. Ferrari (I992) e De Mattei (I979). De Luca (I68o) può essere posto a chiusura di tutto il percorso: non solo perché dà ormai per scontate le attribuzioni dei principi - «solamente quei Signori, o dominanti, i quali sieno assoluti sovrani, e indipendenti, senza curare i nomi, ovvero i vocaboli, con cui sieno chiamati» - ma soprattutto perché, criticando la ragion di stato, dà anche per definita la natura del governo politico, preferendo rivolgersi alla definizione di quello civile ed economico.

2. Cfr. Stolleis ( I 990) e Zarka ( I 994). 3· Toffanin Cr972l. 4· Botero ( I589), ed. I997, p. 7 afferma che pur essendo la ragion di stato

«notizia de' mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio», essa concerne maggiormente <<la conservazione che l'altre, e dell'altre due più l' ampliazione che la fondazione». Sul paradigma conservativo della ragion di stato è fondamentale Borrelli (1993). Su Botero cfr. i saggi raccolti in Baldini Cr992l.

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IL POTERE

La gerarchia che viene così stabilita tra le figure dello spazio ter­ritoriale come metafore dell'agire politico è decisiva per lo sviluppo del discorso complessivo sulla ragion di stato. D'altronde lo spazio reale in cui si collocavano le strutture politiche stava subendo degli sconvolgimenti che sono alla radice della ridislocazione delle categorie operata dal discorso della ragion di stato. Quando, nel 1547, monsi­gnor Della Casa nella sua Orazione a Carlo v si rivolge, oltre che all'effettivo occupante di Piacenza, al garante dello spazio politico eu­ropeo nel suo complesso, la peculiare posizione riconosciuta all'impe­ratore contribuisce a giustificare l'inconciliabile contrasto tra la giusti­zia come fondamento della ragione civile e l'indifferenza ai valori cri­stiani e umani della ragione degli stati 5. Già venti anni prima, difen­dendo l'interesse del piccolo stato fiorentino, Guicciardini aveva rile­vato la stessa contraddizione, consigliando però di «ammazzare o' te­nere prigionieri e' pisani» secondo «la ragione e uso degli stati» 6 . La frantumazione dello spazio imperiale, che nella prima metà del secolo successivo sarebbe stata violentemente confermata dalla guerra dei Trent'anni, rendeva dunque evidente il mutamento dei tempi, al qua­le l'agire politico si stava conformando. Mentre la vicenda europea dei grandi imperi volge al tramonto, a Botero sembra ormai evidente che gli stati di proporzioni medie hanno maggiori possibilità di con­servarsi in quello che si avvia a diventare un sistema di stati, nel quale essendo piccoli si diventa facilmente preda, ma essendo di grandi dimensioni si è soggetti a tensioni interne difficili da governa­re. Lo spazio non è quindi aperto all'azione della virtù, ma è piutto­sto un ambito precisamente delineato da regole prefissate, dove le mosse che si possono effettuare all'esterno devono essere preventiva­mente stabilite all'interno. In questo senso si tratta di dominare una precisa modellistica che rende il piccolo stato ancora più esemplare di ciò che ogni stato deve compiere 7.

Su questa delimitazione della superficie si impone la scelta speci­fica a favore del consolidamento dello spazio politico, sul quale si è stabilito ed è reputato necessario un potere regio. Conservazione e potere regio si implicano reciprocamente, perché conservare è possi­bile solamente se si considera risolta la disputa sulla forma del gover-

5. Pirillo ( 1995). 6. Guicciardini (1994), p. 231. Insiste sul carattere di svolta di questo passag­

gio Viroli (1994), pp. 155-84-7. Botero (1589), ed. 1997, pp. 10-7 ma l'opposizione tra conservare e amplia­

re direttamente riferita al territorio è presente in quasi tutti gli autori del periodo. Cfr. Bazzoli (1990), pp. 33-58.

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2. PRINCIPI E RAGION DI STATO NELLA PRIMA ETÀ MODERNA

no, cioè se si giudica migliore la forma che lo stato ha fattualmente assunto.

La centralità assegnata ai percorsi di conservazione si fonda sulla consapevolezza che l'azione del principe deve disporre della possibili­tà di mutare le condizioni che costituiscono l'ambiente del suo gover­no. La ragion di stato, che alla fine del Cinquecento è già qualcosa «che tutto di habbiamo in bocca», implica il riconoscimento della possibile "deroga" che essa consente alle regole ordinarie della poli ti­ca. All'interno di una gerarchia che va dalla ragione di natura a quel­la civile, dalla ragione di guerra a quella delle genti, si rivela la «ra­gion di Stato altro non essere che contravvenzione di ragione ordina­ria, per rispetto di pubblico beneficio» 8 • Il discorso complessivo del­la ragion di stato racchiude quindi al suo interno la doppia opzione del governo ordinario e di quello straordinario delle cose politiche. Se in quest'ultima direzione si muoverà tutto il percorso di legittima­zione della figura unica e assoluta del principe, la prima sarà alla ra­dice dell'ideazione e della sperimentazione di tutte quelle pratiche in definitiva amministrative che sempre maggiormente costruiranno, co­me si vedrà, il terreno di incontro tra l'interesse del principe, dello stato e di una parte rilevante dei sudditi. L'equivoco, ma effettivo riferimento al bene pubblico, che ancora mostra al suo interno i con­tenuti propri del bene comune medievale, già evidenziando tuttavia i prodromi delle incipienti distinzioni tra statale e privato e dei privati tra di loro 9, si concretizza comunque nella legittimazione del principe come unico interprete ed esecutore della ragion di stato. Le sue attri­buzioni sono differenti dai privilegi riconosciuti ad altri soggetti di potere, perché lui è la fonte di ogni privilegio e ha quindi la possibi­lità di attribuirne a se stesso e ad altri; e soprattutto la persona del principe viene considerata «non più come persona particolare, ma come persona publica»: i principi appaiono come «rapresentanti il publico» ro.

Il discorso della ragion di stato, che in buona misura fa parte della tradizione del cosiddetto aristotelismo politico, pur allo stesso tempo trascendendola n, riconosce il potere principesco come prece­dente nel tempo rispetto a ogni altro, esorcizzando così il fantasma della tradizione repubblicana in tutte le sue varianti: da quella popo-

8. Ammirato (1594), ed. 1599, p. 226. Palazzo (r6o6), p. 378 scrive che: «il Prencipe può per ragioni di stato trasgredire l'humane leggi>>.

9· Chittolini (1994). ro. Ammirato (r594l, ed. 1599, p. 234. rr. Cfr. i saggi raccolti in Baldini (r995l.

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lare a quella aristocratica, a quella mista. Esso finisce per suggerire che principe e suddito condividono la stessa inaffidabile natura, aprendo problematicamente alla connessione tra individualismo e po­tere assoluto che sarà una delle caratteristiche genetiche dello stato moderno 12 ; allo stesso tempo proprio l'antropologia negativa giustifi­ca sia la disputa sulle innumerevoli varianti di ragion di stato, sia l'opera legittima e incessante di disciplinamento di cui diverrà ogget­to la socialità dei sudditi.

Giusto Lipsio non solo dichiara la precedenza nel tempo del principato, stabilendo esplicitamente l'alternativa tra libertas repubbli­cana e potere principesco, ma sostiene anche che la maggior parte degli uomini preferisce un giusto principe alla libertà, perché è co­munque «arduo che vi sia nello stesso luogo potenza e concordia» '3.

La separazione tra governante e governati non è quindi solo necessa­ria, ma anche utile di fronte alle divisioni che caratterizzano sia i rap­porti interni che quelli esterni delle strutture politiche: essa non viene pensata nell'interesse dello specifico individuo che funge da principe, ma viene agita in nome di un fine superiore che è la pace '4. L'argo­mento a favore della tranquillità e dell'ordine, cioè della forma diver­sa che assume il riferimento a un bene comune '5 al quale paradossal­mente si riconosce la necessità di essere obbligati, si fonda sulla ga­ranzia offerta da una disciplina unificante che renda i sudditi cittadi­ni dello stato, fino a sostenere che sia «male minore qualche oppres­sione o tirannia», piuttosto che una perdita di quella disciplina ' 6 •

2.2

Il principe e i suoi sudditi

Il discorso della ragion di stato si installa dunque all'interno del vuo­to aperto dalla riconosciuta necessità di ridurre a unità le riconoscibi­li frazioni che si contrappongono. L'avere di fronte uno scontro in atto mostra il governo principesco come garante della conservazione

12. Schnur ( 1979). 13. Lipsius (1589), ed. 1599, n, 2. Su Lipsio e il repubblicanesimo cfr. Van

Gelderen (1990), ma cfr. anche Oestreich (1989). 14. «E così torna a vantaggio della pace che sia conferita a uno solo ogni pote­

stà» (Lipsius, 1589, ed. 1599, n, r). Botero (1589), ed. 1997, p. 18 scrive: «La conservazione di uno Stato consiste nella quiete e pace de' sudditi».

15. Malvezzi (1636), p. 73 scriverà: «Il bene pubblico è un nome spetioso, si cerca in ordine al privato, altrimenti vi coopererieno gli huomini così bene sotto un Principe, come sotto la Repubblica».

16. De Luca (168o), xr, 9·

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2. PRINCIPI E RAGION DI STATO NELLA PRIMA ETÀ MODERNA

della pace. Il movimento dell'acquisizione politica è infatti accidenta­to e insicuro, in quanto assicurato esclusivamente da una forza che non può essere controllata a priori, mentre la conservazione può ap­poggiarsi sull'esperienza di ciò che è conosciuto e può essere tra­smesso in maniera controllata, in modo da non diventare a sua volta elemento della forza. Infatti: «S'acquista con forza, si conserva con sapienza, e la forza è comune a molti, la sapienza è di pochi» '7. Ciò non significa che la forza in quanto modalità di espressione politica venga bandita dall'orizzonte del discorso, ma che anch'essa deve sot­tostare alle procedure di delimitazione che ora definiscono lo spazio concreto dell'agire politico.

Per questo anche i sudditi vengono classificati tanto dal punto di vista delle loro convinzioni religiose, quanto da quello della loro spe­cifica collocazione sociale. Vengono considerati dal punto di vista della loro ricchezza e del loro ceto, nel momento in cui le due deter­minazioni ancora non coincidono, e alla seconda viene ancora ricono­sciuto un plusvalore politico, la cui legittimazione non deriva solo dall'appartenenza del principe al ceto nobiliare, di cui è l'elemento più eminente, ma soprattutto dal riconoscimento della sua virtù esclusiva nel gestire le cose politiche. Il fatto è che questa virtù deve essere ormai con sempre maggiore attenzione puntellata da conoscen­ze specifiche, che dal carattere sapienziale a esse ascritto da Botero giungeranno a prendere il nome di scienza; la «scienza regia» ' 8 di­mostra la sua sempre minore "naturalità" e, in definitiva, il suo spor­gersi progressivo nello spazio dell'artificialità consapevole, dello stru­mento fabbricato e utilizzato in vista di un fine '9.

La situazione di profonda inquietudine politica impone di fare ricorso alla prudenza - «che Tacito chiama paura» 20 - come insieme di saperi e di pratiche che consente di dominare il presente, metten­do a frutto la conoscenza del passato. La prudenza produce un'eco­nomia del tempo, nella quale il conosciuto deve servire a governare ciò che non si può o non si riesce ancora a conoscere, si tratti dell'a­nimo dei sudditi o delle cose della guerra, così come deve stabilire

17. Botero (1589), ed. 1997, p. 10.

r8. Mattei (r624l, ed. 1719, p. 7· 19. <<Egli non è il ritratto, è l'originale, si chiama un'altra natura, non perché

sia, non perché non era; nasce da noi, se non con noi, in noi. Quell'arte, che viene creduta imitare la natura, la imita, sovente poi anche la produce, e sovente la supe­ra>>, cosi Malvezzi (r635l, pp. 42-3.

20. Ammirato (r594l, ed. 1599, p. 19.

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IL POTERE

una gerarchia tra il certo e l'incerto, tra ciò che è sicuro e ciò che è pericoloso. Questa tensione fra passato e presente che, dal momento che la prudenza è in primo luogo previsione e quindi anticipazione degli eventi 2 ', ha chiaramente come posta l'appropriazione del futu­ro, tende in continuazione a mettere in mora quel passato la cui im­portanza era stata affermata con tanta veemenza 22 • Vi è che intanto la machiavelliana «imitazione delle storie» mantiene la sua, per cosi dire, pericolosità politica e vi è, soprattutto, che la scelta regia, nono­stante tutti gli argomenti legittimanti che fanno riferimento all'origine del principato, concerne immediatamente il presente con le sue divi­sioni e le sue tensioni. Il dominio del presente sul passato, e quindi il fatto che la conservazione riguardi un assetto attualmente esistente e come tale accettato, trova infine espressione nelle parole di Virgilio Malvezzi, con la loro presa di distanza dalle narrazioni degli antichi, quindi contro !'"epico" che continuamente affiora nelle storie, e a fa­vore del «Dramatico che si presenta sulle scene», perché questo ha più forza 2 3. La ragion di stato è anche realismo politico.

In nome della prudenza vengono abbandonate le virtuose diffe­renze del cives repubblicano; il suddito si presenta per come realmen­te è: definito cioè dai caratteri generali del suo comportamento, ma più oltre dalla sua professione e, soprattutto, dalla confessione religio­sa alla quale ormai inevitabilmente appartiene. Il discorso della ragio­ne di stato si inserisce in una più ampia ridefinizione della possibilità di fare affidamento sull'effettualità del rapporto tra comando e ubbi­dienza. Di poco successivo alla frattura della Riforma, esso è omoge­neo a quella tendenza alla perimetrazione che definisce l'epoca della confessionalizzazione 2 4. La convinzione variamente iterata che la reli­gione, in particolare quella cristiana, sia il fondamento necessario del­lo stato, perché «questa sottomette loro non solamente i corpi e le facoltà de' sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora e le coscien-

21. lbtd. Ammirato scrive: <<vero ufficio di prudente è temer le cose, che sono degne da esser temute, antivedendo quanti sono i pericoli, che si tira dietro colui, il quale continuo attende ad occupare quel d'altri». Frachetta (1597), ed. r647, p. 9 scrive che: «providenza sia la maggior parte della prudenza». Zinano ( 1626), p. 20, combinando l'artificialità esplicitamente con l'appropriazione del tempo, conclude: «Perloché manifestamente appare che tutte le operationi dello Stato consistono in di­sporre tutte le cose a favore de' futuri fini>>.

22. Botero (1589), ed. 1997, pp. 43-53. 23. Malvezzi (1635), p. 17. 24. Non si può dimenticare che la pace religiosa di Augusta del 1555 aveva

stabilito quella soluzione che pochi anni più tardi il giurista protestante Joachim Ste­phani ridurrà alla fortunata formula cuùt.r regio, eius religio; cfr. Heckel (1968), p. So.

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2. PRINCIPI E RAGION DI STATO NELLA PRIMA ETÀ MODERNA

ze» 2 5, si accompagna alla consapevolezza che possono ormai esservi sudditi «infedeli o eretici» e che il vero problema del principe è gua­dagnarli a sé o espellerli, «perché non è cosa alcuna che renda più differenti e contrari gli uomini l'uno all'altro, che la differenza della fede» 26 • Essendo divenuto un oggetto potenzialmente sconosciuto nelle sue convinzioni più intime, il suddito merita anche un' attenzio­ne nuova e diversa per ciò che non è più. Dal momento che il di­scorso non prevede ancora come fondamento un meccanismo di astrazione come il contratto, che lo presupponga come parte comun­que già presente nella genesi dello stato, egli deve essere continua­mente adeguato a ciò che già è lo stato del principe.

Nella misura in cui sono estranei sia alla disciplina del ceto sia a quella del denaro, anche i poveri costituiscono una sconosciuta pre­senza all'interno della nuova compagine statale. Anche nei loro con­fronti vige dunque il costante sospetto di essere i potenziali fomenta­tori di sedizione e cause principali di un'eventuale guerra civile. La loro indifferenza all'interesse dello stato che, accompagnandosi e pre­sto sovrapponendosi alla sua ragione 2 7, si avvia a diventare il più ampio reticolo di interessi che costituiranno l'economia dello stato della prima età moderna, merita l'applicazione particolare e specifica della prudenza principesca. Il povero ne diviene oggetto perché sfug­ge sia all'ancoraggio al passato 28, sia al timore come base stessa della politica prudenziale 2 9, essendo invece parte di quella contingenza che proprio la prudenza mira a normare 3o. Una normazione che, già in Botero, avviene sia attraverso la guida principesca dell'economia 3', sia grazie alla piena assunzione da parte del principe del problema della giustizia, di modo che la «giustizia regia» diventi la forma del

25. Botero Cr589l, ed. 1997, pp. 75-6. Ma cfr. anche Ammirato (1594), ed. 1599, p. 227.

26. Botero C1589l, ed. 1997, p. III. Ma anche Frachetta (1597), ed. 1647, p. 51.

27. Taranto (1997). 28. Lipsius (1589), ed. 1599, p. 395 e- in sintonia quasi letterale, riprenden­

do d'altronde anch'egli Sallustio- Botero (1589), ed. 1997, pp. 102-3. 29. <<Colui, ch'è disperato della vita, non può temere della morte, perché si tie­

ne già morto, e 'l futuro è solamente capace di timore>> (Malvezzi, 1636, pp. roo­u).

30. <<La scienza regia, che chiamiamo ragion di stato, overo prudenza politica, consiste in una vigorosa forza di spirito [. .. l La scienza comprende cose dimostrabili, e permanenti; la prudenza ha per materia le contingenze e le rivoluzioni; quella calca sempre il camino della legge e della ragione; questa talora se ne allontana e deroga al diritto comune» (Mattei, 1624, ed. 1719, p. 7l.

31. Botero (r589l, ed. 1997, pp. 153-9; ma cfr. soprattutto Senellart C1989l.

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rapporto del principe con i sudditi e quindi dei sudditi tra di loro. Da entrambe le prospettive risulta decisiva la questione della forza, che viene già pensata nell'ottica della sua "monopolizzazione" da par­te di un potere che si avvia a divenire sovrano. Infatti «i popoli sono obbligati a dare al suo Prencipe tutte quelle forze che sono necessa­rie acciocché egli li mantenga in giustizia e li difenda dalla violenza de' nemici» 32 • La giustizia è divenuta un problema del principe, dal momento che i sudditi possono e devono esclusivamente attendere che egli se ne faccia carico anche all'interno dei loro rapporti recipro­ci, difendendoli anche dalla «violenza e dalla fraude» che minacciano la loro convivenza.

Prima del Leviatano, anche Hobbes aveva peraltro scritto che lo stato «non è fine a se stesso, ma è istituito in funzione dei cittadini», così che «per bene [salus] dei cittadini non si deve intendere soltanto la conservazione [conservatto], comunque, della vita, ma di una vita per quanto possibile felice» (De cive xm, 4).

Riferimenti btbltografici

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32. Botero (r589l, ed. 1997, p. 24.

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2. PRINCIPI E RAGION DI STATO NELLA PRIMA ETÀ MODERNA

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Ordine della giustizia e dottrina della sovranità

in J e an Bodin di Merio Scatto/a

3·1 L'innovazione della sovranità

La nozione di sovranità costituisce l'elemento di maggior interesse dell'opera politica di J ean Bodin, il punto attorno al quale gravita tutto il progetto dei Six livres de la republique. Con la famosa defini­zione «Per sovranità s'intende quel potere assoluto e perpetuo ch'è proprio della repubblica» (r, 8, trad. it. p. 345) ', Bodin introdusse un elemento destinato a caratterizzare profondamente la lingua politi­ca dell'intera età moderna e a fissare un punto di non ritorno per la riflessione successiva. A commento del luogo appena ricordato egli poté perciò affermare che nessuno scrittore del passato aveva mai in­teso quale fosse l'importanza di questo che «è il punto più importan­te e assolutamente necessario a comprendersi in qualsiasi trattazione sulla repubblica» (zbtd.).

L'idea di un comando sommo e assoluto non era in realtà scono­sciuta alla riflessione giuridica tardo-medievale, soprattutto in riferi­mento alla plenitudo potestatis del papa e dell'imperatore, ma solo con Bodin essa venne proposta come principio di organizzazione dell'in­tero sapere relativo alla vita civile, offrendo la possibilità di ridurre a unità il sistema delle conoscenze politiche. La sovranità aspira infatti a presentarsi come l'elemento proprio e caratteristico della comunità politica, come «il vero fondamento, il cardine su cui poggia tutta la struttura della repubblica, e da cui dipendono i magistrati, le leggi, le ordinanze: è essa il solo legame e la sola unione che fa di famiglie, corpi, collegi, privati un unico corpo perfetto, ch'è appunto la repub­blica» (r, 2, p. 177). L'essenza di una società politica coincide infatti

r. Vengono qui utilizzate le edizioni del 1583 per il testo francese, del r622 per la traduzione latina e del 1964-1997 per la traduzione italiana con alcune lievi modifi­che.

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con il suo stato, cioè con la distribuzione della sovranità al suo inter­no (Iv, r, p. 338). Ogni comunità politica possiede una determinata forma proprio in virtù della sovranità attiva in essa e di conseguenza un cambiamento di sovrano implica un cambiamento di repubblica. Quella parte dell'aristotelismo politico che nei primi decenni del Sei­cento riprenderà esplicitamente la lezione di Bodin si esprimerà a questo proposito ricordando che la sovranità rappresenta la causa formale di ogni associazione civile. Leggi, consuetudini, religione, se­de e popolazione sono invece solamente la materia della repubblica: può così accadere che una repubblica scompaia e sia sostituita da un'altra anche se ciascuno di questi elementi rimane immutato. E d'altra parte città, popolo e leggi possono venire cambiati sin dalle fondamenta, mentre la repubblica non patisce alcuna mutazione, pur­ché rimanga inalterata la sovranità (ivi, r, pp. 338-9).

Allo stesso modo il semplice criterio della quantità non vale a distinguere le società umane: una piccola repubblica si differenzia da una grande famiglia non perché possieda un'estensione maggiore ma, una volta assicurato il numero minimo di sudditi, perché in essa la potestà del padre viene sostituita da quella del sovrano (I, 2, pp. 173-5). La prima risale infatti alla natura dell'uomo (I, 4, p. 205), mentre la seconda è in relazione a un «governo giusto» o «legittimo» (fr. I, I, pp. I e 4; lat. I, 2, p. Iz) e si riferisce quindi alla sfera del diritto.

L'introduzione del principio della sovranità non permette solo di identificare l'essenza dell'associazione politica, ma fornisce anche un criterio intrinseco per classificare tutte le forme di repubblica, le qua­li ammettono tante varianti quante sono le specie di sovrano. Poiché la forma della repubblica dipende dal soggetto che detiene la sovrani­tà e dal rispetto delle leggi di natura, si daranno due classificazioni: una a seconda che il sovrano sia un uomo, un collegio o la maggio­ranza del popolo, e una a seconda che il sovrano governi in accordo con i dettami del diritto naturale o contro di essi. La nozione di sovranità permette così di recuperare, articolare e sistematizzare in modo estremamente coerente l'intero discorso sulle forme costituzio­nali elaborato dalla tradizione antica.

L'impatto dell'idea elaborata da Bodin non si riflette naturalmen­te solo sui modi in cui viene organizzata e trasmessa la disciplina politica, ma struttura profondamente anche il suo significato. Defi­nendo la sovranità come una potestà assoluta di disposizione sulla legge civile, Bodin ottiene infatti l'effetto di neutralizzare il conflitto circa l'interpretazione della legge e, più in generale, circa la volontà che deve guidare la repubblica. Poiché il sovrano è una fonte di co-

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3. ORDINE DELLA GIUSTIZIA E DOTTRINA DELLA SOVRANITÀ IN JEAN BO DIN

mando che non ammette alcun superiore e non va soggetta a nessun controllo, la cornice delle istanze costituzionali multiple, caratteristica della società per ceti, nella quale il comando era il risultato · di una ricerca complessa e comune a centri di governo autonomi e concor­renti, viene completamente scardinata. Il comando è ora il prodotto di una semplificazione che dispone tutte le forze operanti all'interno di un territorio su una linea discendente e dipendente dal vertice del sommo potere. Alla dottrina della collaborazione, dell'equilibrio e della concertazione tra ordini si sostituisce perciò una dottrina della concentrazione del potere nelle mani del sovrano.

V a tuttavia segnalato che tale accentramento non produce uno spazio vuoto nel quale tutti i cittadini sono ridotti a semplici privati, venendo ad annullarsi ogni diversità ma, al contrario, la dottrina poli­tica di Bodin conserva tutti i gradi di differenziazione del mondo dei ceti. Visto dall'interno, l'universo della repubblica mantiene tutta la ricchezza dei suoi livelli e delle sue determinazioni e solo quando i cittadini compaiono di fronte al sovrano ogni loro differenza cede il posto al dovere di obbedire senza condizioni: i cittadini sono perciò tutti uguali di fronte al sovrano, ma diversi e posti su livelli differenti quando si rapportano l'uno all'altro.

Due casi mettono particolarmente in evidenza questa compresen­za di differenze cetuali e di uguaglianza di fronte al sovrano: quello dei magistrati intermedi e quello della cittadinanza. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il sovrano non è l'unica istanza autoriz­zata a esercitare il potere supremo, e i magistrati inferiori non sono semplici esecutori, meri mezzi di trasmissione della sua volùntà. Bo­din pensa invece che la sovranità venga effettivamente trasferita ai magistrati intermedi e che costoro esercitino in proprio un'autorità che ha le stesse peculiarità della potestà del principe. Nel capitolo quinto del terzo libro, dove si discutono le caratteristiche dell'autorità attribuita ai magistrati, egli dimostra che anche i magistrati militari godono della facoltà di comminare pene al di fuori della legge, di condannare a morte rei' di pena capitale e di istituire legislazione, di esercitare cioè le prerogative proprie della somma potestà (m, 5, p. r83). Sebbene il potere di comandare spetti solo al sovrano, i magi­strati intermedi non si limitano ad applicare la legge, ma sono supe­riori ad essa e dispongono liberamente della propria autorità potendo trasmetterla ad altri (i vi, p. r 8 7); anzi, tutti i magistrati, quando non agiscono da semplici esecutori, ma godono pienamente della loro di­gnità, esercitano una potestà di questo tipo (ivi, p. 190).

La sovranità non è dunque concentrata nelle mani del principe, come se costui ne detenesse il monopolio, ma egli ne fa partecipi

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tutti i magistrati intermedi, che, pur dipendendo sempre da lui (ivi, p. I 77), costituiscono altrettanti centri di interpretazione della legge e di produzione di comando supremo. Nessun magistrato entra tutta­via in rapporto di competizione con il sovrano perché il potere di ciascuna delle istanze subordinate scompare al cospetto del re. È questa situazione, nella quale la sovranità viene trasferita o ceduta, a permettere inoltre la distinzione tra forme di repubblica e forme di governo, ovvero tra detenzione della potestà assoluta e sua distribu­zione ai magistrati intermedi e inferiori.

La stessa struttura policentrica, ma unificata al vertice dalla sovra­nità, si ritrova anche nella dottrina della cittadinanza. A un unico sovrano non corrisponde infatti nella repubblica di Bodin un'unica classe di sudditi, i privati, ma questi ultimi si dispongono su una plu­ralità di livelli e danno vita a una molteplicità di forme di inclusione, differenziandosi in schiavi, stranieri, amici, alleati e consociati, cittadi­ni e borghesi, i quali, pur essendo tutti ugualmente sottoposti al co­mando del sovrano, intrattengono con esso rapporti di tipo diverso (r, 6, pp. 265-73).

Il gruppo determinante per l'esistenza della repubblica è quello dei cittadini perché una moltitudine di soli sudditi, per esempio di soli servi, non produce una repubblica, ma una famiglia o, nel caso migliore, una monarchia dispotica. Cittadino «in temini precisi signi­fica suddito libero che dipende dalla sovranità altrui» (ivi, p. 26 5). Neppure i cittadini costituiscono tuttavia una categoria omogenea: una repubblica può essere infatti composta di più cittadinanze, cia­scuna delle quali possiede leggi e consuetudini differenti. Né il con­cetto di suddito né quello, ancora più pertinente, di cittadino produ­cono quindi un universo di privati identici. Con la cittadinanza ven­gono conservate nel corpo della repubblica tutte le differenze natura­li, quelle che appartengono ai sudditi in quanto nati in un certo luo­go o membri di un certo lignaggio, ceto o corpo sociale, e inoltre i membri di ciascuna cittadinanza si differenziano anche per tutti quei diritti di corpo e di collegio che spettano loro in quanto abitanti di una certa città. All'interno di una repubblica possono perciò darsi molteplici cittadinanze, ciascuna dotata di leggi e consuetudini diffe­renti. Il solo elemento in comune è il fatto che esse obbediscono alle ordinanze e agli editti dello stesso sovrano (ivi, pp. 272-3). Non so­no perciò né il territorio né la legge né le consuetudini né la religione né la lingua né l'origine i princìpi sui quali si basa l'unità politica. La repubblica non viene infatti mantenuta assieme dalla relazione oriz­zontale, tra cittadino e cittadino, ma da quella verticale che lega cia­scun suddito al sovrano: «Non i privilegi fanno il cittadino, ma l'oh-

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3· ORDINE DELLA GIUSTIZIA E DOTTRINA DELLA SOVRANITÀ IN JEAN BODIN

bligo mutuo intercorrente fra il sovrano e il suddito» (ivi, p. 290). L'idea della differenza si accompagna così all'idea dell'uguaglianza: nei loro rapporti i sudditi sono inseriti in un vasto tessuto di diffe­renze e le loro relazioni sono quelle che intercorrono tra esseri diver­si per natura e per diritto, ma allo stesso tempo essi sono tutti ugrrat­mente sottoposti al sovrano, e solo riferendosi a quest'ultimo possono rapportarsi gli uni agli altri come parti di un tutto.

3·2 La sovranità e l'origine della repubblica

Sebbene la novità delle dottrine di Bodin non possa venire messa in discussione 2 , vanno allo stesso tempo rilevati i debiti e i legami che esse mantengono con la tradizione, in modo particolare con la rifles­sione giuridica cinquecentesca 3, e vanno segnalate le differenze ri­spetto alle teorie della sovranità sviluppate dal diritto naturale sei e settecentesco. Nella loro essenza tali differenze si lasciano ridurre al fatto che la sovranità di Bodin è pensata esclusivamente come un rapporto tra il sovrano e il suddito che non implica un nesso tra suddito e suddito. Poiché l'unità politica viene concepita come sotto­missione a una medesima istanza e non come un processo di unifica­zione che avviene in primo luogo tra i soggetti, la sovranità di Bodin realizza solo in parte la funzione costituzionale caratteristica della so­vranità giusnaturalistica moderna. Quest'ultima è infatti il principio di fondazione della società politica perché il volere del sovrano iden­tifica la volontà di tutti e permette ai singoli di rapportarsi l'uno al­l' altro riconoscendosi come membri dello stesso stato. Nella deduzio­ne del diritto naturale moderno questa funzione viene realizzata fa­cendo coincidere unione politica e subordinazione al sovrano o facen­do intervenire il patto di subordinazione come realizzazione e compi­mento del patto di unione. In Bodin la sovranità rimane il volere di un singolo, il sovrano, e non diviene in alcun modo la volontà di tutti: essa si presenta come un potere supremo sulla legge, che può

2. La novità teorica della dottrina di Bodin viene, tra gli altri, sottolineata da: Nys (1899), pp. 78-94, secondo il quale Bodin sarebbe «le "Père de la science politi­que moderne">> (ivi, p. 93); Dennert (1964), p. 56; Rebufia (1972), pp. 121-3; De­rathé (1973); Franklin (1973bl; Biral (r98o); Quaritsch (1986), pp. 50-r; Beaud ( 1994), pp. 55-68.

3. Le continuità piuttosto che le rotture con la tradizione sono state rilevate da: Reynolds (1931); Isnardi Parente (r964l; Giesey (1973); Hinrichs (1973), soprattut­to p. 282; Goyard-Fabre (1989), pp. 159-71; Quaglioni (1992), pp. 19-80; Quaglio­ni (I994).

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IL POTERE

modificare, abrogare o creare nuova legislazione, ma al quale non è demandato il compito di mettere in relazione i singoli e di produrre le condizioni per l'unità dello stato.

Che la sovranità dia per scontata l'esistenza della comunità politi­ca in cui essa agisce risulta particolarmente chiaro quando si conside­ra la sua origine, che non riposa su un dispositivo di fondazione ma, secondo i tradizionali principi della lex regia, corrisponde a un atto di trasmissione. Alla domanda: «Da dove proviene la sovranità di un re?» non viene contrapposto il raziocinio secondo il quale una comu­nità si costituisce attraverso il proprio rappresentante né si risponde «La sovranità è uguale all'azione con cui si unifìca un popolo», bensi si indica un soggetto che in passato deteneva un determinato quo­ziente di imperium e che con un'azione volontaria e giuridicamente legittima ha ceduto questa sua proprietà ad altri. La sovranità è quindi un bene che può essere trasmesso, un pacchetto di diritti o di possibilità, che può essere appannaggio di diversi soggetti purché sia­no in grado di dimostrare a quale titolo essi godono di tale bene (r, 8, pp. 345-53).

Prima di giungere a questo esito, bisogna tuttavia provare - ciò che per la verità viene dato per scontato da Bodin - che la sovranità si può veramente alienare. n punto da risolvere è quello formulato con la massima precisione da Thomas Hobbes: chi può accordare la sovranità può anche toglierla perché con questo nome si indica il principio di esistenza di una comunità politica 4. L'argomentazione di Bodin prescinde da questa problematica perché il corpo dei cittadini di una repubblica esiste, in ultima istanza, in virtù propria, e quando muta il titolare della sovranità non viene mai messa in discussione l'appartenenza dei sudditi a un medesimo complesso politico, cosi che alla discontinuità dei regimi fa riscontro la continuità della comu­nità dei sudditi. L'origine di quest'ultima è estranea a qualsiasi pro­cedura deduttiva o fondativa perché essa viene prodotta, una volta per tutte, da un atto di violenza originario o da un concrescere di carattere organico.

Come viene esplicitamente chiarito (r, 6, pp. 265-7; IV, I, pp. 337-8), il nucleo originario della repubblica sono le famiglie, le quali esistono prima e indipendentemente da ogni società politica. I capifa­miglia, che esercitano sui membri della famiglia una sovranità in tutto e per tutto simile a quella del principe, uscendo dalla dimensione naturale della casa, si spogliano del titolo di padrone, capo e signore,

4· Hobbes, Leviathan II, 19, pp. 178-9; Id., De cive m, 7, r6, pp. 244-5. Cfr. anche J.-J. Rousseau, Du contrae! social II, r, pp. 386-7.

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3· ORDINE DELLA GIUSTIZIA E DOTTRINA DELLA SOVRANITÀ IN JEAN BODIN

per diventare uguali agli altri (r, 6, p. 265). Le passioni umane im­pediscono tuttavia che si formi in modo pacifico una società di ugua­li e armano gli uomini l'uno contro l'altro. In vista dei conflitti che scaturiscono da questa situazione i liberi capifamiglia accettano di sottomettersi al comando di un condottiero per coordinare le loro forze e raggiungere la vittoria. Il prodotto delle guerre e delle contese è la repubblica, nella quale a uno solo viene riservata la facoltà di comandare sugli altri, spogliati in tal modo dell'uguaglianza naturale. La parte perdente viene infatti ridotta in schiavitù, mentre i vincitori divengono sudditi del signore che li ha guidati alla vittoria (ivi, p. 266). La repubblica trae quindi la sua origine da un atto di forza, che funge da causa prima nella trasmissione della sovranità. Se tutti gli ulteriori passaggi possono infatti venire spiegati con fìgure giuridi­che quali la donazione perfetta, l'origine della catena resta inesplica­bile al diritto e deve possedere una natura diversa e necessariamente fattuale.

La sovranità che si manifesta nella repubblica non nasce con essa, ma risale a una potestà anteriore e originaria, detenuta dai capifami­glia. Anche la repubblica sorge infatti in ultima istanza da un atto di trasmissione: i capifamiglia alienano «parte della loro libertà per vive­re soggetti alle leggi e alla potestà altrui» (ibid. ) . Di conseguenza la potestà politica ha un'origine naturale perché è un prodotto o una continuazione del dominio che il padre di famiglia esercita su moglie, fìgli, schiavi e servi e che, in quanto tale, è un argomento proprio della scienza politica (r, 2, p. 172). Tra dominio paterno e sovranità politica non esiste d'altronde alcuna differenza qualitativa perché en­trambi si presentano come forme di governo giusto su sudditi (ivi, p. 179).

Che il comando sia naturale significa che esso obbedisce all' ordi­ne delle cose, cioè all'ordine che Dio ha dato al mondo con la crea­zione. La facoltà di comandare ad altri, l' imperium, che può essere pubblico o privato, risale infatti in ultima istanza alla condizione della libertà naturale, nella quale «non si è soggetti ad alcun uomo vivente, a nessuno fuorché a Dio, e non si riconosce altra autorità che la pro­pria, cioè quella della ragione, ch'è sempre conforme alla volontà di Dio» (r, 3, p. r85). L'imperium deriva quindi dalla ragione, e la pri­ma e originaria forma di comando, la radice della sovranità, è l'auto­rità che la ragione esercita sugli appetiti, guidandoli. Di conseguenza la facoltà di comando spetterà a quella parte che meglio realizza il governo della ragione sulle passioni: al marito sulla moglie, al padre sui fìgli, al signore sul servo (ivi, pp. r85-6).

La sovranità del principe è dunque un dato di fatto che non ha

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alcuna funzione teorica rispetto al presente, ma agisce in forza della sua inerzia storica: essa viene trasmessa dal diritto, la sua forma pub­blica è nata da un atto non giuridico di violenza e la sua prima origi­ne risale alla facoltà di governo che naturalmente spetta alla parte migliore.

3·3 I limiti posti dal diritto divino, naturale e delle genti

Assoluto è solo quel potere che non accetta ipoteche o non sottostà a limitazioni. Di conseguenza la caratteristica fondamentale della sovra­nità consiste nella facoltà di disporre della legge 5. Tuttavia l' apparen­te semplicità di questo assunto cela una serie di condizioni, che con­segnano alla fine un'immagine della potestas tutt'altro che illimitata.

A più riprese Bodin sostiene che il volere del principe non può infrangere le norme del diritto divino, di natura e delle genti (r, 8, pp. )54, 357 e 36I-2) 6.

E in modo particolare la legge divina, che coincide con le indica­zioni della legge morale, a porre un vincolo invalicabile per le deci­sioni e le azioni del principe. Se, come Bodin sostiene, il sovrano dispone liberamente delle leggi che egli stesso ha dato, se egli non è tenuto a rispettare le obbligazioni assunte dai suoi predecessori e se anche nel caso dei patti giurati, che a ben vedere non sono leggi, gli è sempre data la possibilità di derogare dalla norma purché la sua scelta sia giustificata da un motivo razionale, resta il problema se egli possa trasgredire anche alle leggi morali, le quali rientrano pur sem­pre nelle competenze della legislazione sovrana. Le disposizioni che il sovrano emana non possono infatti venire comprese tutte sotto il ti­tolo di «diritto civile», di quel diritto cioè che è specifico di ogni repubblica e che varia da città a città, perché molte di esse sancisco­no un contenuto che appartiene al diritto divino, al diritto di natura e al diritto delle genti. Se ogni legge traesse il proprio fondamento soltanto dalla volontà del sovrano, anche queste disposizioni potreb­bero venire violate dal sovrano, sempre che sussistesse una causa ra­zionale. Formalmente si tratterebbe infatti di leggi civili. Ma non tut­te le leggi hanno il loro principio di validità nella volontà del sovra­no, e la coattività della legge, la sua capacità di produrre un obbligo giuridico, non proviene dalla sua forma. Il furto o l'omicidio sarebbe-

5· Cfr. Derathé (1973), p. 259. 6. n limite che il diritto naturale impone alla libertà del sovrano è stato eviden­

ziato da Polin (1973), pp. 351-3.

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3· ORDINE DELLA GIUSTIZIA E DOTTRINA DELLA SOVRANITÀ IN JEAN BODIN

ro infatti vietati anche se nessun sovrano li avesse mai proibiti in una sua ordinanza e se non avessero mai assunto l'aspetto della legge civi­le. Essi infatti risalgono alla volontà divina e a un tipo di ordine an­teriore e superiore all'ordine della repubblica e della sovranità. Quin­di le leggi morali, sebbene siano sanzionate dal diritto civile di una città e siano formalmente rivestite della volontà del sovrano e a essa sottomesse, sono vincolanti anche per il sovrano, che in nessun modo può abrogarle ed è doppiamente tenuto a rispettarle: per il vincolo della giustizia universale che lega tutte le creature a Dio 1 e per la posizione di preminenza che egli occupa nella società umana (ivi, p. 390).

A sostegno Bodin cita un passo nel quale Baldo, in un breve tor­no di spazio, afferma sia la libertà sia la limitazione della plenitudo potestatis che, quando si riferisce al principe, è la condizione di chi dispone pienamente della propria volontà e non è soggetto ad alcun vincolo e a nessuna regola del diritto pubblico. Dotato di plenitudo potestatis è infatti colui che non può essere costretto da nessuno, che non può essere corretto e che, di due beni, può scegliere anche il minore, violando l'ordine naturale 8 • Ma allo stesso tempo il principe rimane un essere razionale e quindi va soggetto alle determinazioni del diritto naturale e divino, che egli non può in alcun modo abolire e che rimangono superiori a ogni autorità 9.

3·4 Il sommo bene

L'equità, la legge di natura, il diritto naturale e delle genti non sono soltanto dei meri limiti negativi contro i quali si scontra l'azione della sovranità, ma identificano un ordine eterno, superiore all'ambito della politica, nel quale la repubblica si inserisce e dal quale l'azione di quest'ultima acquista significato. Il riferimento allo stesso ordine è

7· Sul tema dell'ordine nella politica e, più in generale, nella filosofia di Bodin cfr. Greenleaf (I973), pp. 23-38; Treffer (I977), pp. 76-8o.

8. Le considerazioni di Baldo relative a questo punto vengono riprese da Bodin alla lettera. Cfr. R lat., I, 8, p. I54·

9· Baldus (I577), m, 34, 2, nr. 45, f. 230 v. a-b. Bodin cita anche Baldus (I58o), I, I, 3, Notandum est autem, f. 9 r. b-v. e Guilelmus Durantis (I6u), I, I, 6, Nunc, nr. 23-24, p. 44 a. Gli altri autori allegati riprendono gli argomenti di Baldo e di Durante. Sulla concezione della potestas di Baldo cfr. Canning (I987), pp. 7I-92. Baldo propone per la figura dell'imperatore la distinzione tra potestas absoluta e pote­stas ordinata, cioè subordinata alla legge. Cfr. Baldus (I577l, in Codex I, I4, 4, f. 66 r. a.

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IL POTERE

perciò presente anche nel punto più alto del discorso politico, lì dove viene definito il fine generale cui è orientata l'esistenza della repub­blica.

Dopo avere presentato la repubblica come «una moltitudine di famiglie e di tutto ciò che esse hanno in comune governata dalla somma potestà e dalla ragione» Oat., r, I, p. I) e dopo avere identi­ficato la condizione precipua della sua esistenza nell'esercizio della ra­gione, Bodin prende di mira gli scrittori antichi ro, i quali «chiamano repubbliche i gruppi di uomini uniti in vista del vivere bene» e com­mettono cosi allo stesso tempo un errore in difetto e uno in eccesso. Tali definizioni non prendono infatti in considerazione o non men­zionano i tre elementi fondamentali della comunità politica: le fami­glie, il sommo potere e i beni comuni. D'altro canto esse si appellano al beate vivere, con il che esse intenderebbero una summa rerum om­nium affluentia, ovvero l'abbondanza di beni materiali (ivi, pp. 4-5).

Se il bene della repubblica e dei suoi cittadini coincide con la disponibilità di ricchezze o con una generale prosperità, possono dar­si conseguenze paradossali perché - così argomenta Bodin - dovrà ritenersi felice anche una repubblica nella quale non sussista alcun ordine morale o, peggio ancora, nella quale l'ordinamento politico sia labile o assente, purché essa dimostri una certa floridezza o una qual­che potenza esteriore. Il caso estremo potrebbe essere quello di una banda di predoni, ricca e potente, dove non venga praticata alcuna virtù e dove nessun diritto abbia luogo. Tuttavia, per quanto temibi­le possa essere il suo dominio, un gruppo di banditi non può mai costituire una repubblica. Ne consegue che vera repubblica sarà solo quella nella quale è presente quell'elemento che alla banda dei predo­ni manca: l'esercizio della virtù che in forma visibile si manifesta nel­le buone leggi (r, I, pp. I6o-3).

Le obiezioni di Bodin sono logicamente irreprensibili ma inutili, perché si rivolgono a un nemico inesistente. Né Aristotele né Cicero­ne, che vengono esplicitamente richiamati, né alcun altro scrittore an­tico noto a Bodin hanno mai sostenuto l'idea secondo cui scopo della vita associata sarebbe esclusivamente l'abbondanza materiale o la po­tenza militare per se stesse. In questo caso Bodin costruisce un falso avversario per poter meglio difendere le tesi degli autori che appa­rentemente critica. Se un frammento dal quinto libro del De republica di Cicerone nomina tra le condizioni della felicità cittadina, oltre alla virtù, le ricchezze, le risorse e la gloria ", un altro passo appartenente

IO. Ricordati sono esplicitamente Cicerone e Aristotele. II. Cicerone, De re publica v, 6, 8, in Id., Ad Atticum vm, II, r.

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3. ORDINE DELLA GIUSTIZIA E DOTTRINA DELLA SOVRANITÀ IN JEAN BODIN

probabilmente al proemio dello stesso libro e citato da Agostino so­stiene esplicitamente che la città di Roma è cresciuta esclusivamente grazie ai costumi e agli uomini, i due poli entro i quali si afferma la virtù ' 2 • Le stesse considerazioni si possono fare per Aristotele, che in Politica r, I, I252 b 28-3I spiega come la città nasca dall'unione dei villaggi, così da essere una forma perfetta di comunità, nella quale l' autarkeia viene realizzata al grado massimo. L'obiettivo dell' autosuf­ficienza materiale appartiene tuttavia solo al momento iniziale nella vita di una città, perché, se essa nasce in vista del «vivere», della semplice sopravvivenza dei suoi membri (famiglie e villaggi), il vero fine della sua esistenza è - cioè diviene nel corso del tempo - la «vita buona». Poche righe dopo (r, I, I253 a I6-I8) Aristotele indi­ca chiaramente in che cosa consista l'eu zen e ancora una volta con­trappone il semplice fine materiale al fine morale. Se il linguaggio, in quanto può esprimere mere sensazioni fisiche, è comune a tutte le specie animali (aspetto materiale), in quanto può essere utilizzato an­che per designare ciò che è giusto e ciò che non lo è (senso morale), costituisce una prerogativa esclusiva dell'uomo, che si distingue dagli altri animali perché sa nominare il bene e il male. La comunicazione di questi beni morali rappresenta la vera essenza delle comunità umane e in modo particolare della città, la quale è dunque una socie­tà per partecipare reciprocamente l'esercizio della virtù.

Esiste dunque perfetta consonanza tra le dottrine degli antichi sul fine della repubblica e le posizioni di Bodin, sebbene questi sostenga il contrario. L'effetto della sua strategia argomentativa risulta di fatto essere un rafforzamento di quel riferimento alla virtù che rappresenta la condizione fondamentale del discorso politico antico e medievale. Il principio a cui si rivolge o da cui proviene la dottrina della sovra­nità di Bodin è dunque la vita virtuosa e ad essa è finalizzato l' eserci­zio della potestas absoluta, che si presenta come una forza per gover­nare il mondo umano nel quadro di un ordine universale.

Alla luce di queste acquisizioni la dottrina del potere di Bodin non può essere in alcun modo ridotta alla sola definizione della so­vranità come potestà somma e assoluta né è possibile vedere in tale affermazione il puro e semplice atto di fondazione della riflessione politica moderna. Proprio nella dottrina del potere risulta evidente che Bodin esprime una posizione complessa e occupa un punto inter­medio. La sovranità teorizzata nei Sei libri della repubblica impone di certo una sola volontà alla pluralità delle istanze cetuali e ai diversi ordini della cittadinanza e, prefigurando un principio di aggregazione

rz. Id., De re publica v, r, r, in Agostino, De civitate Dei II, zr.

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realizzato attraverso un elemento di decisione politica, rappresenta un elemento di novità sia rispetto al passato sia rispetto alle dottrine coeve. Autori come Althusius concepiscono infatti il governo solo co­me l'esito di una mediazione tra più istanze che si impegnano a rea­lizzare insieme la giustizia e che pretendono di avere un identico e immediato rapporto con il bene, così che anche chi obbedisce parte­cipa, attraverso momenti di controllo, alla formazione del comando.

La volontà del sovrano di Bodin, che rimane sempre limitata dal diritto naturale e delle genti e dal riferimento al bene, non conosce simili forme di mediazione e si impone come istanza superiore a ogni altro soggetto politico. Tuttavia essa manca di forma o funzione co­stituente perché resta pur sempre la volontà particolare del sovrano e non sviluppa una spiegazione che la trasformi nella volontà universale dei sudditi. Questo significa che la società viene pensata come rap­porto diretto dei singoli sudditi o dei singoli corpi con il vertice della repubblica e che la formazione della comunità politica non implica la nascita di una società tra sudditi. La relazione verticale di comando­obbedienza non viene infatti mediata da una relazione orizzontale at­traverso la quale tutti i sudditi si riconoscano reciprocamente, e pos­sono perciò essere mantenute tutte le differenze tra coloro che sono soggetti alla sovranità. Manca quindi l'elemento essenziale del potere immaginato dal diritto naturale moderno: la presenza di una pattui­zione o di un'altra forma di relazione politica tra individui uguali che possono costituirsi in società perché producono la loro volontà attra­verso quella del sovrano. Se la nascita del sovrano moderno passa attraverso la relazione tra sudditi e viene fondata in essa, la sovranità di Bodin, che può affermare i caratteri della propria assolutezza al pari del potere teorizzato dal giusnaturalismo moderno, non è in gra­do di rendere atto dei principi del proprio funzionamento: non pro­pone quella fondazione in termini concettuali che è destinata a rive­larsi come il vero cuore logico della tematica del potere.

Vita

Jean Bodin nacque ad Angers nel 1529 o nel 1530. Compì studi giuridici nella città' natale e a Tolosa, dove venne nominato professore di diritto nel 1548. Insegnò anche a Parigi dal 1555 e a Laon dal 1575. Dal 1567 entrò a servizio di Enrico m di V alois e venne nominato procuratore del re, en­trando a far parte del gruppo dei politiques. Fu tra i promotori della Lega, ma nel 1594 riconobbe subito Enrico IV di Borbone come legittimo re di Francia.

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3· ORDINE DELLA GIUSTIZIA E DOTTRINA DELLA SOVRANITÀ IN JEAN BODIN

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Letteratura critica

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IL POTERp

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Il governo e l'ordine delle consociazioni: la Politica di Althusius

di Giuseppe Duso

4-I n contesto politico e la dottrina del contratto

Giustamente la Politica di Johannes Althusius merita una particolare rilevanza tra i trattati politici della prima età moderna. La motivazio­ne di ciò non consiste nel fatto che nel primo Seicento fosse la più importante o la più influente; la notorietà che ha tra noi contempora­nei deriva più che dal rilievo avuto nei secoli, dal celebre volume di Otto von Gierke, che pone Althusius alla base del moderno contrat­tualismo r. Ciò che tuttavia rende densa di significato quest'opera è la sistematicità propria della trattazione della materia politica, la de­terminazione dell'associazione in quanto tale o consociatio come og­getto di quest'ultima, e infine quella che si può chiamare la complessi­tà costituzionale della realtà politica descritta, qualora il termine costi­tuzzone, emancipato dal significato moderno, indichi il modo in cui la respublica o il regno è costituito e le sue parti cooperano e partecipa­no alla vita dell'intero corpo politico. L'analisi del suo pensiero poli­tico risulta particolarmente utile per capire un modo di intendere la politica da cui il pensiero moderno si è poi staccato: esso ha ancora come punto di riferimento la· dottrina aristotelica, come del resto molte delle trattazioni del primo Seicento: ciò rende difficile e non immediata la nostra comprensione, che è possibile solo in quanto ci emancipiamo dai significati che i concetti politici hanno nel nostro uso comune. Il riferimento aristotelico non è per altro risolutivo per intendere il suo pensiero, perché molti sono gli aristotelismi del tem­po e inoltre tra di essi si inserisce la riforma di Pietro Ramo, che molta influenza ha avuto nella scuola di Herborn, della quale Althu­sius è stato preside, e nella quale ha pensato la sua Politica.

r. Cfr. Gierke ( r88o).

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In accordo con il Gierke si può dire che la figura del patto ha un luogo rilevante nel pensiero di Althusius ma, contro di lui, è da nota­re che proprio gli aspetti determinanti che lo caratterizzano e la fun­zione che viene ad esplicare ci mostrano quanto distante sia il suo modo di pensare la politica da quelle dottrine che inaugureranno la scienza politica moderna, nelle quali il patto ha la funzione di costi­tuire il potere politico nel senso della moderna sovranità. Sul patto è incentrata la Disputatio politica De regno recte instituendo et admini­strando, in cui si può ravvisare una prima esposizione del pensiero politico di Althusius. Caratteristica importante è che il patto fonda­mentale sia quello religioso tra Dio, il popolo e il sommo magistrato: ciò richiama da una parte la teologia del /oedus, del patto tra Dio e gli uomini che caratterizza il Vecchio e il Nuovo Testamento anche secondo alcuni teologi di Herborn \ e dall'altra l'importanza dell' ele­mento religioso nella politica, come si può notare in Calvino e nei monarcomachi, nei quali pure è ricorrente la figura del patto religio­so 3. Accanto a questo e, si potrebbe dire, sotto il vincolo etico di questo, sta il patto civile vero e proprio, che comprende sia un pri­mo patto che dà luogo al regno, costituito dai membri, che sono le varie parti e associazioni - famiglie, collegi, villaggi, città - sia quello tra il popolo e il sommo magistrato (così è chiamato colui che ha il compito di governare complessivamente il regno), in cui si conferisce il mandato di governo e si stabiliscono insieme anche i limiti e le condizioni di esso.

Tale modo di intendere il patto comporta il riconoscimento di realtà e di diritti che valgono di per sé e precedono la semplice vo­lontà dei contraenti, dalla quale perciò non dipendono. Ciò è confer­mato dal patto con Dio, che non nasce dalla semplice volontà degli

2. Mi riferisco a Caspar Olevianus e a Matthias Martinius: su ciò cfr. Menk (r98rl. Il fatto che la storia della salvezza, che dipende dalla misericordia e dalla grazia concessa da Dio, sia intesa alla luce della figura del patto mostra chiaramente come ci si trovi in un contesto in cui il contratto non ha come suo fondamento il semplice incrocio di volontà. Sulla Disputatio e sul pensiero politico in essa espresso cfr. Duso (r996b) (nello stesso numero di "Quaderni fiorentini" si ha anche il testo della Disputatio e l'indicazione delle sue fonti).

3· Il pensiero dei cosiddetti monarcomachi è molto presente in Althusius, come si può notare, ancor prima che nella Politica, nella Disputatio politica del r6oz, nella quale i riferimenti vanno a Theodore de Bèze, François Hotman, e soprattutto alle famose Vindiciae contra tyrannos, pubblicate sotto lo pseudonimo di Junius Brutus. Ciò che collega Althusius al contesto di pensiero dei monarcomachi è il legame tra la figura del patto e la pluralità con cui si guarda alla politica, soprattutto alla possibilità di espressione del popolo di fronte alla figura del principe; oltre naturalmente che l'affermazione del diritto di resistenza.

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uomini e mostra un vasto contesto, in cui anche la politica è inserita. Ciò non implica peraltro una fondazione teologica della politica, o una concezione teocratica: la trattazione della politica di Althusius è razionale, come mostrano i riferimenti ad una tradizione aristotelica e come indica la stessa intenzione di un lavoro nuovo e sistematico sul­la politica che si esplicita nelle introduzioni delle diverse edizioni del­la Politica; ma si tratta di una ragione che si muove in un orizzonte generale e all'interno di un cosmos in cui hanno la loro rilevanza an­che la religione e le Sacre Scritture. Si tratta cioè sì di razionalità, ma nel senso della ragione pratica e della riflessione sulla realtà dei rap­porti tra gli uomini, in cui anche la religione ha il suo rilievo, piutto­sto che di una ragione scientifica in senso moderno, che si determina in un modello in sé coerente e autosufficiente, in una forma per tutti valida, in cui si costituisce la società politica 4,

Inoltre, la figura del patto civile sottolinea la soggettività politica dei contraenti, cioè le associazioni nel primo patto civile, e poi il po­polo, come complesso di associazioni, e il sommo magistrato: tali soggetti sono alla base del patto, ma permangono anche dopo il pat­to e così si può pensare che il popolo cooperi e controlli colui che lo governa, e possa anche resistergli con le armi e deporlo, come indica un diritto di resistenza, che, in consonanza con i monarcomachi, è affermato nel De regno, come nelle diverse versioni della Politica, così da risultare un tratto caratteristico del pensiero di Althusius, che lo ha fatto considerare, sin nel suo tempo, come un autore pericoloso. Ma per intendere nel suo significato tutto ciò bisogna esplicitare i principi della Politica, che sono espressi in modo esemplare nel primo capitolo dell'opera 5.

4·2 Communicare e gubernare: i principi della politica

Se da una parte Althusius condivide con i sistemi politici che si svi­luppano in Germania nei primi vent'anni del Seicento, il riferimento alla politicità naturale dell'uomo (Pol. r, 24 e 33; homo est anima! po-

4· Per una presentazione della dottrina di Althusius nel senso di una concezione puramente secolare della società, sulla scia di Gierke, cfr. di Skinner ( 1989), il capi­tolo dedicato al diritto di resistenza e ai libelli rivoluzionari ugonotti (specialmente p. 488).

5. Mi riferirò alla terza edizione: il capitolo è tradotto, nella sua maggior parte, nell'antologia in lingua italiana, che si basa appunto sulla m edizione: di questo capi­tolo almeno si raccomanda la lettura. Per una presentazione complessiva dell'autore, cfr. Calderini (1995).

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liticum, si dice all'inizio del De regno), ciò che caratterizza il suo mo­do di intendere la politica è l'indicazione dell'oggetto, che non è la cìvitas o la respublica - come in molte delle trattazioni del tempo -ma l'associazione in quanto tale, la consocìatio. La politicità della na­tura umana non indica soltanto la predisposizione che l'uomo ha per la vita in comune 6, ma anche un orizzonte di pensiero in cui l'uomo è quello che è solo nelle strutture comunitarie in cui è inserito: solo in queste può vivere bene, esplicare la sua virtù e quindi realizzare se stesso. Perciò il fine della politica è <da simbiosi santa, giusta, confor­tevole e felice» e gli uomini, la cui natura è di essere in rapporto associativo, sono detti simbiotici (Pol. I, 3 e 6). Tale termine designa già la prima dimensione della politica, cioè quella della comunione, della cooperazione, di quel mettere in comune cose, servizi e diritti, che permette di superare la situazione di indigenza propria dell'uomo isolato e di raggiungere quel fine del vivere, del "vivere bene" e del­l' esercizio delle proprie virtù, che già Aristotele aveva indicato. Cosi viene anche raggiunta quell'autosufficienza che caratterizzava la figura antica della polis.

Questo della comunicazione è infatti segnalato come il primo signi­ficato del termine di "politica", che si accompagna agli altri due, che sono il modo dell'amministrazione, e l'ordine e la costituzione della civitas (Pol. I, 5) 1. Si chiarisce allora subito nell'aspetto della comu­nione, della comunicazione e della cooperazione la dimensione prima e fondamentale della politica. Communio e communicatio sono i termi­ni che scandiscono i ·paragrafi del primo capitolo della Politica, che intende offrire il quadro della trattazione e i principi generali. Questi due termini si richiamano al termine greco di koinonia, che caratteriz­za la politica in senso aristotelico. La koinonia non solo esprime l'a­spetto della comunione delle cose utili e della comunicazione recipro­ca, ma è collegata al termine di koinopraxia e dunque all'azione in

6. Certo c'è anche questa indicazione, secondo la quale il singolo uomo, in quanto anima! politicum o civzle, a causa della sua stessa natura, tende alla consociazio­ne (cfr. Polztica 1, 34: cito dalla terza edizione), ma il senso più forte dell'espressione consiste nel fatto che l'uomo non è pensa bile fuori della struttura associativa, come per Aristotele non è concepibile fuori della polis, perche in tal modo è idion, e non realizza la sua natura.

7. È da notare, affinché la lettura dell'antologia italiana non provochi confusio­ne, che in Althusius non si ha mai un termine che possa riferirsi a quello di Stato, che spesso nell'antologia citata traduce i termini regnum, civztas, respublica. Non usare il termine di "Stato" per indicare la realtà politica della consociatio universalis è com­portamento conseguente all'approccio storico-concettuale che è proprio del presente volume.

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comune. Al centro della politica sta dunque l'agire in comune: l'agire di tutti è politico, sia quello di coloro che stanno alla guida dell'asso­ciazione, sia quello di coloro che sono governati, ma non per questo sono semplicemente passivi o individui privati.

Non si può tuttavia intendere il legame associativo di cui Althu­sius parla come un legame che è solo sociale, secondo un significato del termine che si è determinato in contrapposizione a statuale o a politico solo tra il xvm e il XIX secolo. La dimensione associativa è piuttosto legata necessariamente all'altro elemento fondamentale di quello che viene chiamato il diritto simbiotico, cioè quello dell' impe­rium, senza cui non si dà vita associativa. «L'eterna legge comune consiste nel fatto che in qualsiasi specie di associazione alcuni sono governanti o superiori, altri sudditi o inferiori» (Pol. r, r Ì). Vivere in comunità e vivere sotto un governo sono due aspetti della stessa leg­ge naturale. Infatti, come è naturale la società, così è necessario che ci sia guida e governo: governare ed essere governati sono azioni na­turali iscritte nel diritto delle genti.

La dimensione dell' imperium comporta comando e conseguente­mente sottomissione, ma all'interno di una funzione che è quella del­la guida, della direzione. Senza tale funzione non ci può essere vita associativa. Infatti l'associazione si basa non sull'uguaglianza degli uo­mini, ma sulla loro diversità: è l'insieme delle diversità che collabora­no tra loro a portare al risultato della cooperazione e della concordia, così come è la diversità delle note che porta all'armonia della musica. Ma affinché si produca l'armonia è necessaria una direzione, un' azio­ne di coordinamento; la diversità dei membri richiede dunque una guida e un lavoro diretto all'unificazione, al governo dell'associazione, e questa guida è svolta da coloro che hanno i mezzi, le qualità e le virtù necessarie. Se tutti gli uomini fossero uguali, tutti vorrebbero governare e in tal modo si darebbe luogo a discordia e alla dissolu­zione della società (Pol. I, 3 7). Strettamente intrecciata alla necessità del governo stanno la consapevolezza della differenza e la negazione dell'uguaglianza come principio costitutivo della società. Se c'è vita sociale è naturale che ci sia anche una funzione di guida e di gover­no, come è naturale per il corpo umano avere un capo, una testa, la quale appunto dirige il corpo: il contrario è considerato una mo­struosità (Pol. r, 34). Ciò è razionale e non richiede particolari giusti­ficazioni: non si presenta qui il problema della legittimazione di que­sta funzione di governo, come pure del fatto che questa funzione sia svolta da chi ne ha le capacità e i mezzi.

È da ricordare che non si tratta qui di un rapporto formale di comando-obbedienza, secondo cui, al di là del contenuto del coman-

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do, i governati sono sottoposti all'autorità, la cui funzione è legittima­ta dalla volontà di tutti. Non si è qui sottoposti alla legge in quanto tale, alla volontà di colui che governa, ma ci si trova piuttosto all'in­terno di quel principio generale del governo che implica un mondo oggettivo, un insieme di realtà, quelle religiose, etiche, giuridiche, quelle dell'esistenza di gruppi umani, che non dipendono dalla volon­tà di chi governa, e alle quali i governati si possono e si debbono appellare. Perciò, in questa ottica, Althusius riprenderà l'antica dot­trina del diritto di resistenza.

4·3 La costituzione del regno

Sulla base di questi due principi fondamentali la Politica passa in ras­segna tutta una serie di strutture associative o consociazioni, dalla più semplice e naturale, qual è quella domestica, alla più complessa e au­tosufficiente, qual è la consociatio universalis o repubblica o regno. Questa dottrina delle associazioni si riferisce alla società complessa che caratterizza in modo particolare la Germania, ma non solo, e si può indicare come "società per ceti" o "stato per ceti" 8, per distin­guerla dal carattere omogeneo e unitario che avrà successivamente lo Stato moderno, quale si configura definitivamente con la Rivoluzione francese. Le associazioni sono distinte in semplici e private e miste o pubbliche (Pol. n, r). Tra le prime abbiamo quella primaria, natura­le e necessaria, cioè la famiglia, e quella civile, frutto di sèelta volon­taria, che è la corporazione. Tale distinzione di associazioni private e pubbliche non deve essere intesa usando la moderna contrapposizione dei due termini alla luce della quale è il pubblico ad esprimere la dimensione politica. Tutte le associazioni sono politiche, perché, co­me si è detto, è la consociatio in quanto tale ad essere oggetto della politica. Anche la prima e più semplice associazione, quella della fa­miglia, che indica la sfera dell'ozkos, distinta da quella della polis per una lunga tradizione di pensiero che fa capo ad Aristotele, è oggetto

8. Non è rilevante il fatto che si adoperi in questo caso il termine di "società" o quello di "stato"; ciò che importa è che i due termini non hanno il significato che noi siamo soliti attribuire loro. Tale significato si basa sulla contrapposizione di una sfera della società civile, che comprende i rapporti molteplici tra gli uomini di tipo econo­mico, culturale, religioso, in ogni caso non politico, a quella dello Stato, a cui ineri­scono sia l'aspetto istituzionale, sia il rapporto di comando-obbedienza (cfr. Brunner, 1968, p. 202). Tale contrapposizione emerge in realtà tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, e implica il concetto di potere che è elaborato dal moderno giusnaturalismo (cfr. Riedel, 1975).

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della politica, in quanto «oggetto della politica è la simbiosi pia e giusta, suo fìne il governo e la conservazione dell'associazione simbio­tica» (Pol. m, 42) 9. Il termine "privato" non indica la non politicità di queste prime associazioni, ma piuttosto la limitatezza della sfera dell'unione, la sua particolarità legata alla scelta delle persone e al tipo particolare del lavoro e degli interessi. Le associazioni pubbliche infatti riguardano tutte le persone che si trovano all'interno di un ambito, sia esso quello cittadino o provinciale o dell'intero regno.

In questa teoria dell'associazione non è il concetto di indivzduo a svolgere un ruolo fondativo, così come non è la volontà ad avere una funzione decisiva. È bensì vero che nelle associazioni semplici sono i singoli uomini ad essere causa efficiente con la loro scelta, come è vero che ad ogni livello associativo si esprime la volontà, in quanto è presente un momento pattizio. Tuttavia, già nelle associazioni sempli­ci gli uomini entrano con un loro status differente, che comporta dif­ferenti doveri e prestazioni, stabilite dal diritto simbiotico, che non dipendono dalla volontà dei contraenti il patto. Ma a maggior ragio­ne le associazioni pubbliche, che sono miste, si caratterizzano per il fatto di non avere tanto come membri i singoli individui, quanto piut­tosto le diverse associazioni private e pubbliche inferiori che le costi­tuiscono, come si vede a partire dalla trattazione della città (Pol. v, ro). Le città sono costituite da famiglie e corporazioni, le provincie da città e da associazioni private, il regno da tutte le associazioni mi­nori. Ciò è determinante per il senso politico che vengono ad avere gli uomini. Essi hanno bensì significato politico, ma non in quanto uguali, e in quanto individui di fronte all'associazione, ma piuttosto mediatamente, in relazione all'associazione a cui appartengono e al loro status all'interno di questa.

In questo quadro la volontà non è l'elemento assoluto e fondan­te, ma piuttosto il tramite attraverso cui i singoli e le parti parteci­pano in modo cosciente e libero alla vita comune. Quando, me­diante un accordo volontario, si entra in una vita comune, questa

9· Se da una parte si può notare che ci troviamo ancora legati all'orizzonte ari­stotelico, secondo cui la politica coincide con l'orizzonte etico (cfr. Brunner, 1968, in particolare La casa come complesso e l'antica "economica" europea) e la trattazione della casa comporta una serie complessa di nozioni che si estendono ai mercati, alla colti­vazione, alle fabbriche, alla caccia e alla pesca, ma anche ai doveri dei coniugi e al governo della casa, tuttavia A!thusius si differenzia da quella linea che assegna la sfera dell'ozkos come oggetto all'economica, che egli intende come perizia riguardante l'am­ministrazione della famiglia e l'acquisizione e conservazione dei beni. Se di questo aspetto tecnico dell'oikos si occupa l'economzca, tuttavia, per il suo aspetto complessivo ed etico, la famiglia, come primo nucleo associativo, è oggetto della politica.

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non è creazione della volontà dei singoli, ma sta sotto le leggi divi­ne, morali, del buon diritto antico: la volontà è allora una forma di partecipazione responsabile delle persone a un mondo che ha una sua oggettività indipendentemente dalla volontà dei singoli. È quan­do questo mondo sarà azzerato che la volontà dei singoli diverrà elemento essenziale, l'unico ad essere fondante e legittimante il corpo politico che sulla sua base si verrà a creare, e con ciò anche legitti­mante il rapporto non naturale di obbligazione politica, di sottomis­sione totale all'autorità.

Importanti, per intendere la complessificazione costituzionale che viene a segnare il quadro della Politica nel corso delle diverse edizio­ni, sono i due capitoli dedicati alla provincia, che sono inseriti a par­tire dalla seconda edizione, dopo cioè che, dal 1604, Althusius assun­se a Emden, città calvinista della Frisia orientale, l'incarico di syndi­cus, consistente nel sovrintendere agli affari legali della città. Sulla ba­se di questo incarico egli svolse di fatto un'opera di mediazione tra gli organi di governo della città e guidò - alla luce delle libertà pro­prie del territorio - la resistenza di questa nei confronti del signore territoriale, il conte Enno ro. Le pagine dedicate alla provincia sono illuminanti, sia per intendere l'intreccio di elementi che devono esse­re tenuti presenti ai fini di una vita buona, che vanno dai beni mate­riali a quelli religiosi, relativi alla salute dell'anima, sia per compren­dere i modi e le istanze che si manifestano nell'amministrazione, e dunque nella direzione degli affari provinciali.

La trattazione delle molteplici forme di l:!Ssociazione culmina nel regno, o repubblica. È qui che si ha il livello più esteso di comunica­zione e di unificazione delle diverse istanze dei membri e che si rag­giunge quella autosufficienza che, nel contesto aristotelico, era ravvi­sata nella polis. Qui si trova, al livello più alto, realizzata l'istanza di difesa e protezione dei membri consociati. È da tener presente che tale protezione non si ha mediante un processo di alienazione della forza e dei diritti dei singoli membri, e che i singoli membri sono non i cittadini considerati isolatamente come individui, ma tutte le associazioni che si uniscono nel regno. Siamo cioè all'interno della pluralità insita nella regola medievale dell' auxilium et consilium, che implica il rapportarsi tra loro di una molteplicità di soggetti, sia pure in posizione gerarchica diversa, e non viene inaugurata una sfera in cui l'ordine e la protezione sono assicurati grazie alla costituzione di un'unica volontà ed un'unica forza.

10. Cfr. su ciò Friedrich (r932), p. xxv. Sull'attività politica di Althusius a Emden cfr. Antholz (r955) e la critica di Malandrino (r995l.

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4·4 La sovranità del popolo

Anche se il regno non cancella le realtà che ad esso hanno dato luo­go, tuttavia, quando la trattazione sistematica di Althusius inaugura il tema della consociatio universalis, si pone un elemento nuovo: diversi membri si uniscono in un solo corpo e sotto un solo capo, in modo da realizzare l'ordine e l'autarchia nell'intero territorio del regno (Pal. IX, 12). In questo modo viene anche prodotto un più alto diritto, e un potere di grado superiore a quelli che si hanno al livello della città e delle provincie. Si forma dunque un potere universale di do­minio (potestas imperandi universalis), a cui tutte le altre istanze e le potestates minori sono sottoposte (Pol. Ix, 15). È a questo livello che si parla di majestas (sovranità) e di summa potestas (sommo potere), termini che saranno usati anche nella terminologia riguardante il po­tere inteso nel senso della moderna sovranità. Dal momento che que­sta "sovranità" è attribuita da Althusius al popolo, e non al re, sono sorte interpretazioni che indicano in questa posizione un capovolgi­mento della concezione di Bodin, e interpretazioni che hanno ravvi­sato in Althusius un precursore della sovranità popolare di stampo rousseauiano n. Ma l'analisi dell'assetto strutturale del pensiero del­l' autore mostra un'altra realtà.

È da tenere innanzitutto presente che questo corpo politico nasce mediante un patto, con il quale si determina l'accordo tra le varie associazioni, città, provincie. La soggettività politica delle diverse as­sociazioni, che sta alla base della costituzione del regno, non viene cancellata dal corpo comune che si è formato, e il consenso e l' accor­do di tali membri restano il vincolo che deve tenere unito il regno. Se il popolo di cui si parla ha un carattere unitario, tale unità non cancella la pluralità dei soggetti e delle associazioni alle quali gli uo­mini appartengono e, se è vero che la sovranità viene attribuita al "popolo", è anche vero che il significato di questo termine viene pre­cisato attraverso espressioni quali "i membri associati del regno" op­pure "i corpi consociati". Allora, quando lo jus majestatis viene attri­buito al popolo, e si dice che la sua proprietà appartiene non al re

r r. Althusius come precursore di Rousseau è proposto, pur con diversi accenti e sfumature, da Gierke (r88o); Vaughan (r915l, e Derathé (1950). Contro tale indi­cazione è da affermare che solo azzerando il contesto in cui sono pensati da Althusius il popolo e la sua majestas può nascere il concetto moderno di sovranità, che sta, nonostante il richiamo agli antichi, al centro della costruzione teorica del Contrat so­eia! di Rousseau.

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ma al popolo, non si allude in tal modo ad un soggetto unico e omo­geneo, ma ad una realtà che si basa sull'accordo e sul consenso dei membri consociati (Pol. rx, r8, r9).

Inoltre è da ricordare che se al popolo spetta l'attribuzione, e cioè la proprietà di questo sommo potere e dei diritti majestatis, che solitamente erano attribuiti al re, questo sommo potere non consiste in un potere assoluto, svincolato da ogni norma e non esprime l'asso­lutezza della volontà del popolo. Non solo cioè non è assoluta la pote­stas del re, che la riceve dal popolo, ma nemmeno quella del popolo lo è, perché una potestas absoluta degli uomini è in contrasto con la parola di Dio, con la ragione e con la giustizia (anche Pol. xrx, ro). Il sommo diritto del popolo è dunque condizionato e vincolato da realtà oggettive che non dipendono dalla sua volontà: la volontà di Dio, l'idea di giustizia, le leggi fondamentali e la stessa costituzione plurale del popolo.

Ciò che caratterizza il pensiero di Althusius è l'attribuzione della sovranità al popolo e non al re, e dunque la concezione della supe­riorità del popolo nei confronti del re: se il re rappresenta il popolo è superiore il popolo, che è rappresentato, al re, che è colui che lo rappresenta (Pol. rx, 24). Tuttavia dal contratto del popolo con il re, o sommo magistrato, nasce anche un dovere di sottomissione alla sua guida: negli stessi principi della politica sopra ricordati si è vista la necessità di un'istanza unitaria di governo, proprio a causa della plu­ralità dell'associazione. Si tratta allora di capire come si strutturino gli organi di governo e come sia possibile un agire politico del popolo accanto e di fronte a quello del re.

4·5 L'amministrazione del regno e la duplice rappresentanza

Se il popolo è depositario del diritto di sovranità, tuttavia esso non amministra direttamente questo diritto, ma si affida a persone a cui è delegata l'amministrazione. Il fatto che l'esercizio dell'ùnperium sia in­teso come amministrazione indica che coloro che governano non hanno un dominio sulle loro genti, ma hanno un compito di gestio­ne, di tutela, di amministrazione appunto, di una potestas la cui de­positaria è l'associazione generale ossia il popolo. È quest'ultimo che affida a colui che è chiamato il sommo magistrato ' 2 il compito di

r 2. La Polztica non tende alla costruzione di una società ideale, ma si riferisce alla realtà cetuale del tempo, alle sue strutture e ai suoi problemi; ciò non comporta tuttavia che essa sia semplice descrizione di una realtà empiricamente presente: anche

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governare unitariamente il regno o repubblica. L'atto con cui si isti­tuisce il sommo magistrato è ravvisato in una forma di contratto, e precisamente un contratto di mandato. Due sono i soggetti contraenti questo patto e colui che riceve l'incarico del governo lo riceve all'in­terno di leggi fondamentali e di clausole precise. Ciò comporta anche che, secondo la :figura giuridica del contratto di mandato, colui che è superiore è il mandante e non il mandatario, che è vincolato a condi­zioni e a volontà determinate. Colui che ha l'esercizio della somma potestas è qui pensato all'interno della concezione classica, già aristo­telica, secondo cui colui che governa lo fa nell'ambito delle leggi, che non sono ancora intese nel senso moderno del comando di chi è au­torizzato, ma risultano legate ai costumi, alle. consuetudini, ai diritti consolidati.

Il sommo magistrato è solo amministratore (nudus administrator) di quei diritti di maestà che diventano, attraverso di lui, attuali e dipende dunque dal popolo, il quale lo istituisce e rimane soggetto attivo anche dopo il contratto, cooperando con lui, controllandolo e anche, nel caso di cattivo governo, deponendolo. Tra i due soggetti resta dunque un rapporto permanente: il popolo è prima dell'affida­mento dell'incarico e non si dissolve nemmeno dopo il contratto. Ciò significa che il sommo magistrato esplica un'attività di governo che non rappresenta la volontà del popolo, ma di cui porta personalmen­te la responsabilità. Di fronte a lui sta il popolo, che non è espro­priato della potestas, anche se con il patto promette obbedienza e sot­tomissione. Ciononostante mantiene una sua superiorità, accanto e, al limite, anche contro il sommo magistrato, e perciò può destituirlo se costui tradisce il patto.

Se ci si chiede come sia possibile tale reale presenza del popolo, bisogna tornare al significato che il termine di "popolo" ha in questo contesto: non si tratta di un'entità ideale, cioè della totalità degli in­dividui uguali. In questo caso l'infinita molteplicità degli individui, che sono caratterizzati da differenti volontà, non potrebbe dare luogo ad una volontà unitaria, e allora il popolo, come soggetto unitario, non avrebbe altra possibilità di espressione che quella di colui (o co­loro) che ne esprime la volontà: è quello che succede con il concetto

il termine di sommo magistrato vuole indicare il compito del governo e dell'esercizio dell'imperzum in un ambito vasto e autosufficiente qual è la repubblica o regno, ma prevede diverse forme di governo, e perciò tale funzione può essere rivestita da per­sone diverse in numero e qualità, come prevede l'antica distinzione delle forme di governo monarchica, aristocratica e democratica. Una serie di accenni mostra tuttavia come sia tenuta particolarmente presente la costituzione imperiale.

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di potere nel senso della moderna sovranità. Qui invece il popolo è una realtà complessa, costituita da diverse cerchie, che hanno forza, diritti, bisogni: è l'accordo di queste determinate realtà, che avviene in organi collegiali, ad esprimere il popolo come soggetto. Ciò avvie­ne attraverso la figura di coloro che, partecipando delle varie cerchie, le rappresentano negli organi collegiali. Al livello più della repubblica o del regno, costoro sono gli efori.

Due sono allora i modi dell'amministrazione, quella collegiale de­gli efori e quella unitaria del sommo magistrato. Ma tale duplicità ha a che fare con la struttura stessa dell'associazione a tutti i suoi livelli. Anche nelle associazioni inferiori infatti sempre si ha un rettore, cioè una persona che ha il compito della direzione e del governo dell'asso­ciazione, compito necessario in una situazione in cui sono assieme persone e gruppi caratterizzati dalla differenza reciproca, e un organo collegiale, che aiuta, consiglia, controlla. L'azione di colui che gover­na non è pensabile senza la collaborazione, la partecipazione e il con­senso dell'organo collegiale; ragione per cui il governo e la guida sono spesso intesi come un lavoro di coordinamento, come risulta nella trattazione dell'amministrazione della provincia della terza edizione della Politica, in cui da una parte il prefetto non può fare alcunché senza l'accordo degli ordini provinciali, e dall'altra vede individuato il suo compito nel tentativo di riportare a concordia le volontà in caso di dissenso (Pol. vm, 50 e 67). Sempre l'istanza più alta è quella collegiale: ciò vale per le consociazioni minori e per il regno, dove il collegio degli efori, che rappresenta il popolo, è superiore al sommo magistrato, anche se i singoli efori con le realtà da essi rappresentate sono sottomessi al suo governo.

In questo modo si esprime la dottrina della duplice rappresentan­za, che ha la sua radice nella realtà cetuale '3. Anche il re rappresenta il popolo, nel senso che è indice dell'unità del regno mediante la sua persona, ma la sua volontà non è quella del popolo, che gli sta sem­pre di fronte mediante un'altra istanza. Il popolo è invece rappresen­tato dagli efori secondo una rappresentanza di identità, secondo la quale, quando gli efori agiscono, è il popolo che agisce. Ciò è pensa-

q. Cfr. Hofmann (r986l, che identifica le due forme di rappresentanza come una rappresentanza "teatrale-cerimoniale", propria del sommo magistrato, e una rap­presentanza di tipo zdentitario, propria degli efori. Di una "doppia rappresentanza" parla anche Winters (r963l, pp. 233 ss., in particolare p. 237. Hiiglin (1991) ravvisa invece nella politica di Althusius un'unica struttura di rappresentanza, mediante la quale il potere è organizzato ed esercitato dal basso (per la discussione dell'interpre­tazione di Hiiglin rimando a Duso, 1992).

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4· IL GOVERNO E L'ORDINE DELLE CONSOCIAZIONI

bile in quanto gli efori costltUlscono il vertice di una serie di realtà collegiali, in cui le varie parti e i vari ordini si esprimono e contano politicamente. Per coloro che costituiscono queste realtà collegiali, in primo luogo per gli efori, è prevista anche la forma dell'elezione, ma non è determinante l'espressione della volontà che si manifesta in es­sa (che non è in ogni caso intesa come espressione delle volontà indi­viduali, mediante un voto per testa), quanto piuttosto il consenso, che può essere espresso anche per altre vie, e il fatto che il rappresentan­te si identifichi con la realtà, la cerchia, il territorio che attraverso di lui si esprimono. Si ha qui una catena di deleghe e di controlli, nella quale, come avviene per gli ordini provinciali, chi esprime a livello più alto una realtà, un ordine, una corporazione, deve rendere conto di quello che fa nell'assemblea superiore alla cerchia che rappresenta (Pof. VIII, 66).

Questa duplicità della rappresentanza e il modo di intendere il popolo hanno una loro ricaduta sul problema antico delle forme di governo. Il sommo magistrato, che ha il compito del governo, può assumere la forma monarchica o aristocratica o democratica. Anche in quest'ultimo caso tuttavia coloro che hanno l'amministrazione sono poche persone, non tutti i cittadini, e amministrano in nome del po­polo '4, al quale resta la sovranità. Questi diritti di sovranità del po­polo vengono salvaguardati non dalla forma democratica di governo, ma piuttosto dalle forme di organizzazione collegiale presenti in tutta la costituzione del regno. Perciò è caratteristica del sistema politico fìn qui delineato che la forma di governo non possa essere che mùta (Pol. xxxrx, 13-5), dovendo comprendere tutte e tre le istanze, quel­la unitaria del sommo magistrato, quella aristocratica delle magistra­ture intermedie, e quella popolare, che si esprime nelle istanze colle­giali e nei comizi del regno.

4·6 Tirannia e diritto di resistenza

Uno dei compiti degli efori, che hanno la facoltà di istituire il sommo magistrato, è quello di denunciare la situazione di tirannide che si determina quando il governo di costui fosse contrario alla buona am­ministrazione. In questo contesto la possibilità di parlare di "tiranni­de" ha un significato preciso, che è collegato all'idea di un ordine complessivo, divino, naturale, morale e giuridico, che va al di là delle

14. La differenza consiste nel fatto che in questo caso l'elezione è a tempo de­terminato, comportando il turno delle cariche.

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IL POTERE

volontà degli uomini, e all'idea di un bene comune e di una giustizia che non sono riducibili al rapporto formale di comando-obbedienza. Si può cioè parlare di tirannide sulla base del modo di intendere la politica e il suo fine, del modo di intendere l' imperium come governo e infine del modo in cui è intesa la costituzione della repubblica: riferendosi a tutto ciò si può giudicare un governo cattivo e "tiranni­co". La denuncia di tirannide comporta l'attivazione del diritto di resistenza, che è inteso con un carattere mediato e istituzionale e non insurrezionale o popolare in senso moderno. Molte sono le cautele: il diritto di resistenza va esercitato quando la tirannide è nota e confer­mata, in quanto il tiranno insiste nel suo comportamento al di là di ogni avvertimento e consiglio. E quando risulta necessario, non sono i singoli cittadini, ma gli efori appunto, che hanno il diritto di spada, ad essere investiti del compito di chiamare tutte le forze a raccolta per destituire e combattere il tiranno.

Althusius riprende in tal modo un'antica trattatistica sul diritto di resistenza, che giunge fino a Bartolo di Sassoferrato e si riferisce in modo diretto ai cosiddetti "monarcomachi", tra cui sono nominati il De jure magistratum in subditos di Theodore de Bèze '5 e soprattutto le famose Vindiciae contra tyrannos apparse nel 1779 sotto lo pseudo­nimo di Junius Brutus ' 6 . Come nei monarcomachi, la resistenza si basa sul fatto che il popolo è reale soggetto di fronte al re, e rimane tale anche dopo il patto, potendo esprimere controllo e azione. La sottomissione al re è condizionata al fatto che egli agisca in modo pio e giusto, e tale suo agire può e deve essere controllato e giudicato. È da ricordare che il patto civile è vincolato dal patto che si ha con Dio, che da Hobbes sarà denunciato come invenzione che comporta destabilizzazione del potere e causa di disordine e di sommosse.

Tra i comportamenti che determinano tirannide è importante sot­tolinearne due, che sono emblematici del modo di intendere la costi­tuzione del regno e la natura dell' imperium. Il primo si ha quando vengono violate le leggi fondamentali del regno e non si tiene fede alla sua costituzione, attraverso il tentativo di eliminazione degli ordi­ni del regno o di impedimento dell'esercizio delle loro funzioni (Poi. xxxvm, 7). In tal modo si ricorda che alla base del governo sta il patto, e che il regno consiste nei corpi che lo hanno costituito, i quali

I 5. L'edizione latina è datata Ludguni I 5 76, quella francese è stata pubblicata a Ginevra due anni prima.

I6. Recente è la traduzione italiana a cura di S. Testoni Binetti, La Rosa, Tori­no I99+ cfr. l'introduzione anche per quanto riguarda il problema della possibile attribuzione del testo a Hubert Languet e a Philippe Duplessis Mornay.

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4· IL GOVERNO E L'ORDINE DELLE CONSOCIAZIONI

rimangono soggetti politici anche dopo la promessa di sottomissione. n secondo si ha quando il governo viene inteso come esercizio di una potestas piena e assoluta: questa non è pensabile se non negativa­mente nel contesto del pensiero di Althusius e appare contraria al modo di intendere l' imperium e gli stessi vincoli che tengono insieme la società (Pol. XXXVIII, 9).

Per intendere appieno il significato del principio del governo e della sottomissione da questo implicata è da notare che il diritto di resistenza è affermato in quanto nei confronti del sommo magistrato, e dunque della massima autorità, non c'è obbligo maggiore di quello che vi è tra genitori e figli, o padrone e servi o signore e vassallo: in tutti gli ambiti il governo deve essere commisurato a ciò che va oltre il volere di chi comanda e i sottoposti hanno il diritto di opporsi ai comandi ingiusti e di «ammonire, frenare e impedite» coloro che go­vernano, quando costoro agiscono «in modo proditorio, nefando ed empio» (Pol. xxxvm, 36l. È allora proprio il fatto che per natura ci sia governo dell'uomo sull'uomo a comportare il diritto di resistenza, a tutti i livelli, anche in quello della famiglia. A maggior ragione poi nella repubblica, dove c'è un organo dedito a svolgere l'azione di cooperazione e di controllo. Il patto di sottomissione non instaura allora una situazione stabile, in cui l'obbedienza è sempre dovuta a colui che è stato autorizzato ad esprimere il comando, ma comporta piuttosto la possibilità, o addirittura il dovere di appellarsi ad una giustizia che è superiore a quel comando.

Il quadro che si presenta ha allora come riferimento sia un modo di intendere la politica che implica la nozione di governo, sia un con­testo pluralistico, che comporta una duplicità di istanze, quale si dà nella società cetuale. Non siamo qui in presenza né di un mondo di individui né, conseguentemente, del problema dell'unità politica, qua­le si presenterà con il concetto di potere politico, nel senso della so­vranità, che si affermerà con la moderna scienza politica. Questa con­cezione pluralistica permette di parlare di federalismo in relazione al pensiero di Althusius, nel senso in cui il patto implica pluralità di soggetti diversi e instaura una comunità di membri che sono èonti­nuamente, sotto una guida, alla ricerca delle ragioni della loro unifi­cazione e del loro accordo.

Vita

Nato nel 1557 nel Wittgenstein-Berleburg, Althusius compì gli studi giuridici acquisendo il titolo di dottore a Basilea nel r 5 86. Alla fine del I 5 86 entrò nella scuola dei teologi riformati di Herborn, dove ebbe l'incarico di rettore.

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IL POTERE

Un anno dopo la pubblicazione della Polztica, nel r6o4 fu chiamato come syndicus, esperto degli affari giuridici della città, a Emden, nella Frisia. Nel periodo di questa attività politica rimise mano alla Polztica, che modificò e ampliò nella seconda edizione del r6IO e nella terza del r6r4.

Opere fondamentali

Per le opere di Althusius, per il pensiero giuridico e politico dei secoli in cui la sua opera è inserita, come pure per la letteratura secondaria, è fondamen­tale la Althusius-Bzbliographie. Bibliographie zur politischen Ideengeschichte und Staatslehre, zum Staatsrecht und zur Verfassungsgeschichte des r6. Bis r8. ]ahr­hunderts, hrsg. von H. U. Scupin, U. Scheuner, bearb. D. Wyduckel, 2 voli., Berlin r 97.3.

Juris Romani Libri duo, Basilea 1586. Civilis conversationis Lzbri duo, Hanoviae 16or. Polztica Methodice digesta atque exemplis sacris et pro/anis illustrata, Herborn

1603; la seconda edizione aumentata è edita ad Arnheim e a Gri:iningen nel r6IO; la terza edizione, che rimase poi immutata, a Herborn nel r6r4 (P o!. con indicazione dei capitoli e dei numeri). Di quest'ultima si ha un'edizione moderna a cura di C. J. Friedrich, Harvard University Press, Cambridge 1932, e una ristampa anastatica, Scientia, Aalen 1981. La traduzione italiana parziale della terza edizione è apparsa a cura di D. Neri, Guida, Napoli 1980.

Dicaeolop,icae libri tres, Herborn 1617.

Letteratura critica

Per il dibattito recente è da tener presente la pubblicazione degli atti di due convegni dedicati ad Althusius a Herborn nel 1984 e nel 1988: Politische Theorie des ]ohannes Althusius, hrsg. von K. W. Dahm, W. Krawietz, D. Wy­duckel, Duncker & Humblot, Berlin 1988, e Konsens und Konsoziation in der polztischen Theorie des /ruhen Foderalismus, hrsg. von G. Duso, W. Krawietz, D. Wyduckel, Duncker & Humblot, Berlin 1996. Inoltre: ANTHOLZ H. (1955), Die polztische Wirksamkeit des Johannes Althusius in Em­

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Ordine e imperium: dalle politiche aristoteliche del primo

Seicento al diritto naturale di Pufendorf di Merio Scattola

5·1 L'ordine politico della repubblica e l'ordine divino del creato

Il tema dell'obbedienza e del comando occupa nella letteratura politi­ca primo-moderna di area tedesca una posizione singolare la quale si caratterizza per il fatto che questa tradizione non si cimenta mai nel dimostrare la fondatezza del potere, ma si limita a mostrare la presen­za e l'efficacia dell'ordine e insegna come esso si articoli lungo tutti i livelli dell'universo mondo. Ogni ordinamento, qualsiasi sia la sua funzione, viene inoltre riferito sempre a un uno perché nessuna serie può andare all'infinito e deve cominciare da un primo, senza il quale gli intermedi non potrebbero sussistere, neppure in un rapporto pu­ramente relativo'. Nell'ambito della repubblica questa funzione di principio e origine è attribuita alla summa potestas 2 , la quale è per l'ambito della politica ciò che Dio è per il creato. Di conseguenza ogni discorso sull'ùnperium rinvia inevitabilmente alla costituzione metafisica del mondo e a Dio come al suo creatore, che è il vero "signore, monarca e imperatore" dell'universo, dal quale tutti i magi­strati terreni ricevono "dominio, autorità e potestà di comando" 3.

L'ordinamento rispetto all'uno non è una prerogativa della politi­ca, ma si riproduce a tutti i livelli dell'essere, e gli autori della prima metà del Seicento convengono sul fatto che quanto vale per la città vale anche per il singolo uomo e per la natura nel suo complesso 4 •

Tutti si rifanno direttamente o indirettamente al passo del De legibus

I. Arnisaeus (r6o6), ed. r648, p. 59 b; Arnisaeus (r6ro), I, 3, I, p. 29.

2. Arnisaeus ( r6o6), ed. r648, p. 59 b. Cfr. anche Matthiae ( r6ua), 36-37, pp. n-8.

3· Casmann (r6o3), pp. II-2.

4- lvi, p. 12. Cfr. anche Arnisaeus (r6o6), ed. r648, p. 59 b; Timpler (r6u), p. 119.

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IL POTERE

dove Cicerone presenta l' imperium come un princ1p1o attivo a ogni grado dell'universo (m, r, 3) e ammettono che tra la città e l'anima umana debba esistere una stretta analogia perché la stessa funzione di guida che l'anima svolge nell'uomo compete all' imperium nella re­pubblica5.

Conseguentemente tutte le differenze che intercorrono tra i singo­li all'interno della società sono da ricondurre - come chiarisce Jakob Bornitz- alla distribuzione dell'imperium 6 . Nel mondo tutti detengo­no una qualche potestas e tutti sono soggetti a una serie di potestates: solo Dio è potens in senso proprio o eminente e solo la materia è completamente impotens. Tutti gli uomini sono quindi potenti rispet­to a qualcosa di inferiore e impotenti rispetto a qualcosa di superio­re, e infatti anche il più reietto degli uomini può comandare sugli animali o sulla natura inanimata. La necessità e la struttura delle po­testà hanno la loro radice nell'imperfezione del mondo, in preda al peccato e sospeso tra il più e il meno: solo ciò che è mancante, ma è capace di trasformazione può infatti essere oggetto di un comando. Anche l'imperium è una forma di potestas, quella propria della comu­nità politica, e ne condivide le proprietà generali: poiché il suo com­pito è quello di restaurare il bene oscurato dal peccato, esso si pre­senta come l'attività che "riporta l'impotente alla potenza" 1.

5·2 Le interpretazioni dell' imperium

Nell'insieme delle espòsizioni sistematiche, dei trattati e delle disser­tazioni, che, con l'istituzione delle prime cattedre di politica nel Sa­cro Romano Impero, proliferarono in progressione esponenziale nel ventennio compreso tra il r6oo e il r62o, vennero delineandosi due opposte interpretazioni del termine maiestas e del complesso teorico che ad esso mette capo. Da un lato la maestà venne intesa come l'autorevolezza personale che nasce dall'evidente possesso della virtù, mentre dall'altro lato essa fu fatta coincidere con il sommo potere della repubblica 8 .

Rientrano nella prima tradizione Pierre Gregoire di Tolosa e Ju-

5· Lipsius (I589l, ed. 1590, n, I6, p. 76; IV, 9, pp. I53-4; Gregoire (1596), vr, I, 9 e 13, pp. 292-3 e 294-5; Althusius (r6o3l, r, p. 8; Besold (I6J4a), 23, pp. I3-4·

6. Bornitz (I6rob), pp. 34-5. 7· lvi, pp. 32-3. 8. Besold (r6J4b), 7, p. 4· Cfr. anche: Kirchner (r6o8), n, 2, a; Arnisaeus

(r6ro), I, I, r, p. I; Besold (r625l, pp. ro-r.

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5. ORDINE E IMPERIUM NEL PRIMO SEICENTO

stus Lipsius, che figurano tra le fonti principali della dottrina politica del primo Seicento e, tra gli scrittori tedeschi, autori che nella mag­gioranza dei casi aderirono alla confessione riformata come Hermann Kirchner, Otto Casmann, Bartholomaeus Keckermann, Klemens Tim­pler e Georg Schonborner. Indipendentemente dalle prese di posizio­ne nel dibattito teologico e politico precedente la guerra dei Tren­t'anni, gli esponenti di questo filone interpretativo conservano tutti gli elementi delle fonti antiche e medievali, e concepiscono la maestà come una dote personale, capace di indurre negli altri venerazione, onore e ammirazione 9, mentre ribadiscono il suo carattere sopranna­turale e insondabile agli strumenti della sola ragione umana 10 • In ul­tima istanza la maestà compete infatti esclusivamente a Dio ed essa si manifesta sulla terra solo nella misura in cui questi comunica agli uo­mini un raggio della sua potenza, così che i principi possiedono mae­stà soltanto in virtù del fatto che essi sono rappresentazioni o simula­cri di Dio e partecipano, seppur entro i limiti dettati dall'umana im­perfezione, degli attributi divini. Questa maiestas non è dunque una potestà che non ammette superiori, originata da se stessa e rivolta solo verso il basso, verso i sudditi, sui quali scende la forza ordinante del suo comando, bensì è attiva sul mondo proprio perché rimane aperta verso l'alto e manifesta costantemente il suo essere radicata su . . un plano supenore.

La seconda linea interpretativa della maiestas, che trascura l' aspet­to personale e mette in evidenza il valore giuridico di questa nozione, è strettamente legata alla ricezione tedesca delle dottrine di Jean Bo­din. Essa distingue accuratamente la summa potestas dal summus ho­nor, concependo la prima come causa e il secondo come effetto. L'es­senza della maestà consiste allora nella facoltà, sancita dalle leggi o dalla consuetudine, di ingiungere comandi ai sudditi, alla quale la fa­ma segue come una conseguenza. La venerazione che circonda un re deriva dalla carica pubblica che la legge gli ha accordato e la sua maestà è in ultima istanza uguale a un diritto II.

In questa nozione della maestà la dottrina politica del secolo xvrr realizza un potere assoluto e generato da se stesso che sembra pre­sentare tutte le caratteristiche della sovranità prodotta dal patto del

9· Cicerone, De oratore II, I64; Partitiones oratoriae, IOJ; Valerio Massimo n, IO, I; Digestum XLVIII, 4, I, r.

IO. Gregoire (I596), ed. 1597, vm, 3, 1-2, pp. 555-6. Cfr. Tommaso d'Aqui­no, Quaestiones disputatae de virtutzbus rv, I3; Sermones xm, 3, II3; Super ad Hebraeos I, 2, 4I0-425.

II. Arnisaeus (I6Io), r, 6, p. 9·

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IL POTERE

diritto naturale moderno. Tuttavia, a differenza di quest'ultima, la maiestas della dottrina politica primo-seicentesca, anche quando assu­me le forme più radicali della summa potestas, prevede una serie di limitazioni che ne riducono fortemente il campo di azione. Come già era previsto dalla dottrina di J ean Bodin, la capacità di dare legge attribuita al principe trova un limite invalicabile nelle prescrizioni di­vine e naturali e nel diritto delle genti 12 , cui vanno aggiunti anche i contratti costituzionali, cioè quei patti che il principe sottoscrive con le rappresentanze cetuali del regno al momento di salire al trono, e le leggi fondamentali del regno, la cui modificazione implica la distru­zione del corpo politico '3. Ulteriori elementi restrittivi vengono intro­dotti da quella teoria che, accolta con il nome di dottrina delle partes potentiales anche nei De iure belli ac pacis libri tres di Hugo Grotius, svolgerà un ruolo significativo nella discussione giusnaturalistica sulla sovranità fino alla fine del secolo xvm '4 e che immagina la maestà come un complesso giuridico composto da una pluralità di diritti, che possono venire ripartiti tra soggetti differenti.

Una limitazione della sovranità ancora più decisa proviene da una teoria sviluppata dalla disciplina politica tedesca durante la ricezione di Bodin, secondo la quale la maestà di una repubblica si dividereb­be in maiestas realis e personalis '5. La prima, che costituisce il funda­mentum della società civile ' 6, è coeva alla repubblica, dura per tutto il tempo che quest'ultima sussiste e si esprime attraverso le leggi fon­damentali. La maiestas personalis è invece propria del reggente, nasce e si estingue con lui e intrattiene con la maestà reale un rapporto di subordinazione, come quello che interviene tra fondato e fondante. Non per questo essa cessa tuttavia di essere somma, perpetua e sciol­ta dalle leggi nell'ambito di sua competenza, sebbene non possa in alcun modo modificare o infrangere le leggi fondamentali perché queste vengono sanzionate da un contratto tra tutte le parti della re-

I2. lvi, I, 3, I2-I4, pp. 68-7T <<Maiestas subiecta est Dei et naturae legibus, licet saluta sit humanis».

I3. Besold ii625), I, I, 6, p. 8. Cfr. anche Besold (I6I4b), 5, p. 3; Arnisaeus (I6Io), I, 7, II, p. I5I; Althusius (I6o3), ed. I648, 6, pp. 57-9; Hoen (I6o8), 37-8, pp. 55-6.

I4. Scattola (I994), pp. I95-7· I5. Kirchner (I6o8), n, 3; Matthiae (I6nb), 6, p. 37; Besold (I6I4b), 3, p.

2; Besold (I625l, r, I, 4, pp. 5-6. La distinzione realis-personalis è presente anche in Althusius (I6o3), ed. I648, II, p. 99, ma viene utilizzata con un altro significato: è riferita ai doveri verso la repubblica, che sono reali quando richiedono la correspon­sione di beni, e personali quando chiamano in causa la persona.

I6. Besold ( I6I4b), 3, p. 2.

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5. ORDINE E IMPERIUI"vl NEL PRIMO SEICENTO

pubblica e possono essere mutate solo con il consenso di tutti i con­traenti r7.

Le leggi fondamentali, la dottrina delle parti potenziali e la distin­zione tra maestà reale e personale impongono alla summa potestas una serie di progressive limitazioni che attenuano la possibilità di dispor­re del diritto e di far valere il comando del principe sugli altri mem­bri della società politica. Anche nelle interpretazioni più radicali della maiestas la sovranità non può quindi essere pensata come il principio dell'unificazione politica dello stato, ma rappresenta il principale ele­mento di governo della repubblica, che rimane indipendente dal so­vrano e anteriore ad esso, e continua a sussistere anche quando il legittimo monarca viene a mancare. Compito del principe, che in ogni caso si presenta come sommo e assoluto, non è quello di riunire la moltitudine dei sudditi, ma quello di guidare una società politica già costituita.

5·3 Ordine e tirannide

La sovranità non nasce dalla mancanza di ordine giuridico, ma e m­quadrata in un ordinamento superiore e obbedisce ad esso. Entrambi gli orientamenti teorici, quello della maestà e quello della somma po­tenza, convengono sul fatto che le leggi del diritto naturale, le pre­scrizioni della ragione e i comandi di Dio rappresentano gli elementi fondamentali di quest'ordine, che il principe non può in alcun modo violare. Si tratta inoltre di princìpi che sono palesi e accessibili a tutti gli uomini, che sono scritti nel loro cuore sin dalla creazione tanto che tutti gli individui possono riconoscere un'infrazione all'ordina­mento divino e possono appellarsi al cielo contro un comando ingiu­sto. Se nel diritto naturale di Thomas Hobbes quello di tirannide è un concetto impossibile, da espungere dal lessico politico perché la legge vale solo nella misura in cui proviene dal sovrano e non esiste alcun criterio indipendente per misurare la sua giustizia rs, tutti gli scrittori politici del primo Seicento, anche i più radicali sostenitori di Bodin, ammettono che la tirannide, in quanto degenerazione della giustizia politica e universale, è una possibilità concreta e sempre in­combente.

Discordanti sono invece le conclusioni che questo riconoscimento

17. Besold (r625l, r, r, 5, pp. 6-7. r8. Hobbes, Leviathan n, r9. Sull'idea di tirannide nella pubblicistica tedesca

della prima età moderna cfr. Scattola (r996l.

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induce. Se da un lato infatti gli scrittori riformati, gli stessi che so­stengono l'identificazione di maestà e virtù, separano nettamente or­dine politico e ordine divino, subordinando l'uno all'altro e postulan­do la necessità di magistrature di controllo e del ricorso al diritto di resistenza, diverso è il discorso per i sostenitori di Bodin, come Bor­nitz e Arnisaeus, che accettano il principio generale dell'ordine intro­ducendo una particolare condizione e quindi un elemento di novità rispetto alla concezione riformata della maestà. Anche costoro infatti vincolano il principe all'esercizio della virtù, poiché «questa è l'unica qualità che distingue un re da un tiranno» '9, così che <mn re non può essere tale se non è buono» Ovi, p. 63). È dunque sempre pos­sibile distinguere il principe virtuoso dal tiranno vizioso (i vi, p. 6 5), poiché l'uno afferma mentre l'altro nega l'ordine della giustizia. La maestà è infatti superiore alle leggi positive, ma rimane sempre sotto­posta alle leggi della natura, della ragione e di Dio (m, r4, pp. 68-9), che sono presenti nell'animo dell'uomo, stabiliscono ciò che è buono ed equo e sono immutabili (ivi, p. 76).

Sin qui un sostenitore della potestà assoluta come Arnisaeus si trova pienamente d'accordo con le dottrine dei riformati e ammette che esiste un ordine all'interno del quale anche la sovranità assoluta si trova limitata e che tale ordine viene riconosciuto da tutti gli uomi­ni. Tuttavia - continua la sua argomentazione - sebbene il sovrano sia un cittadino del mondo e un suddito di Dio e non gli sia conces­so infrangere le leggi di natura, della ragione e della virtù, egli non è sottomesso alla coazione della legge umana. Perciò se si allontana dai comandamenti divini, è reo di tradimento nei confronti di Dio; se viola la legge di natura, è un uomo perverso; se agisce contro i pre­cetti della virtù, è ingiusto e pecca contro la bontà, «ma nego che egli sia per questo motivo sottoposto ai vincoli delle leggi, dal mo­mento che la potestà dell'imperio lo mette al riparo da esse» (ivi, III, 7, p. 59). Nulla è infatti superiore alla maestà tanto che essa non può essere giudicata, punita o richiamata all'ordine da nessun uomo e solo Dio può ergersi a suo giudice (ivi, III, 5, pp. 51-2).

Arnisaeus configura quindi una situazione nella quale il giusto e l'equo esistono indipendentemente dalla maestà, ma non possono ve­nire attivati contro di essa. In quanto criteri indipendenti, essi per­mettono di valutare l'operato della maestà, la cui degenerazione viene sempre riconosciuta sebbene non sia lecito intraprendere alcuna azio­ne di resistenza attiva. Ciò tuttavia non significa che il sovrano sia libero di negare l'ordine universale e che possa agire come se esso

19. Arnisaeus (r6ro), m, 9, pp. 63 e 64.

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non esistesse, sostituendo il proprio volere alla volontà di Dio. Se non è possibile contestare la sovranità quando compie questa o quel­la scelta, essa deve invece venire combattuta quando mette in discus­sione l'esistenza stessa dell'ordine. In questo caso il sovrano si atteg­gia a tiranno e i sudditi hanno il diritto di resistergli con la forza. Bisogna dunque distinguere il cattivo re dal tiranno, e il criterio da usare è quello della conservazione dell'ordine, perché il tiranno non governa la repubblica in vista del bene comune e della vita virtuosa, ma per il proprio interesse personale, e cosi facendo capovolge l' ordi­ne naturale e distrugge la stessa società politica, che della sovranità è la ragion d'essere 20 •

La contraddizione tra la tradizione riformata della maestà come virtù e quella bodiniana della sovranità come potenza assoluta viene cosi a risolversi in modo imprevisto, perché esse risultano essere due varianti di una stessa concezione politica. Arnisaeus mostra infatti di condividere con i monarcomachi una medesima piattaforma teorica, il cui caposaldo consiste nell'idea secondo cui nell'ordine politico si manifesta la giustizia divina. La differenza sostanziale tra i teorici del­la sovranità e i riformati consiste nel fatto che per gli uni vige tra i due momenti un'identità così stretta che non è possibile riferirsi al­l' ordine divino se non all'interno dell'ordine politico e attraverso di esso, mentre per gli altri esiste un'insopprimibile differenza che per­mette di invocare un piano contro l'altro.

Allo stesso modo viene a chiarirsi anche la distanza che separa Arnisaeus e i primi teorici della sovranità dall'esperienza del diritto naturale moderno. Sebbene la sovranità dell'aristotelismo politico rappresenti un indubbio momento di trasformazione delle dottrine relative alla maestà e, nella sua novità, faccia apparire la dottrina dei riformati e dei monarcomachi come una versione più arcaica, essa non può essere pensata come uno scarto fondamentale e un momen­to di riformulazione radicale delle concezioni politiche tardo-cinque­centesche. Che nel cosmo viga l'ordine della giustizia universale, che la sovranità sia il grado più alto della gerarchia terrena, che la maestà non sia costruita, ma venga data all'uomo, che essa non nasca dal fare uguali gli uomini e non sopprima la pluralità delle autorità, ma conservi ognuna di esse e ne sia il momento sommo, che la sovranità sia il governo del buono sui buoni in vista della vita virtuosa, che l'ambito politico non sia secolarizzato, ma comunichi costantemente con il piano dell'eterno e che, infine, l'ordine, nonostante tutte le re­strizioni, resti visibile e accessibile agli uomini, sono tutti elementi

20. Arnisaeus (I6u), 4, II, pp. I2I-4.

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che sanciscono una distanza incolmabile con la sovranità del giusna­turalismo moderno.

5·4 Mediazione e superamento del dibattito sulla maestà

Sebbene la dottrina politica tedesca del primo Seicento rimanesse nel suo complesso all'interno dei confini tracciati dalla tradizione aristote­lica, nell'apparente continuità avvenne una sensibile evoluzione nel­l'immaginazione della sovranità e vennero anticipati elementi propri del diritto naturale moderno. Il limite estremo in direzione delle teo­rie politiche moderne venne raggiunto negli anni attorno al I 640 da un autore, Hermann Conring, che si riproponeva di purificare la dot­trina di Aristotele e di riportarla, anche filologicamente, alla sua for­ma originaria.

Conring e il suo allievo Daniel Clasen prefigurarono nel linguag­gio di Aristotele soluzioni moderne perché rinunciarono al complesso intreccio di limiti che caratterizzavano la sovranità del primo Seicento e misero cosi in discussione il principio dell'ordine universale, con ripercussioni su tutto l'edificio della dottrina politica. In primo luogo la sovranità venne sciolta non solo dalle leggi civili, ma anche da quelle del diritto naturale e delle genti. Poiché infatti ogni norma può richiedere obbedienza solo nella misura in cui dispone di capaci­tà coattiva e poiché l'unica forza è quella fornita dalla maestà, anche le leggi naturali e delle genti possono pretendere vigenza solo quando vengono difese dal sovrano. Non può esistere di conseguenza nessu­na istanza capace di obbligare quest'ultimo a obbedire ai comandi del diritto naturale e delle genti, di cui è tutore 21 • In secondo luogo la sovranità viene liberata anche dalle prescrizioni della morale per­ché il suo fine non è identificabile a priori nella sufficienza dei beni civili o nel vivere bene, ma varia secondo le diverse forme di costitu­zione e può essere il bene comune oppure il bene dei governanti. Di conseguenza anche le tirannidi sono caratterizzate dalla presenza del­la maestà, la quale è legittima fino a quando e nella misura in cui svolge coerentemente la propria funzione, quella di conservare il do­minio tirannico 22 •

L'analisi di Hermann Conring venne ulteriormente sviluppata da Daniel Clasen, che estese le conclusioni del maestro anche alla distin-

21. Conring (1669), 12. 22. Conring (1645), 2; Conring (1651). Cfr. Stolleis (1987), pp. 173-99; Scat­

tola (1994), pp. 239-41.

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zione tra maestà reale e personale mostrandone la contraddizione perché non può essere veramente assoluto e sommo ciò che è sotto­posto al volere altrui 2 3. Sulla scorta di questa critica egli chiarì anche il rapporto tra le diverse interpretazioni della maestà, che risultano entrambe giustificate, ma vanno subordinate in una relazione gerar­chica: l'essenza della maestà risiede nel potere, cui tiene dietro l'ono­re come una conseguenza 2 4. Il vero fondamento del vivere politico è dunque il sommo potere, quel potere che sarà al centro della rifles­sione politica moderna.

5·5 Il diritto naturale e la fine della politica antica

Il processo avviato all'interno dell'aristotelismo politico ed esemplifi­cato nell'opera di Conring e di Clasen si concluse con la fine della disciplina politica così come essa si era imposta e diffusa all'inizio del Seicento. La riflessione sulla sovranità e sulle caratteristiche dello sta­to si sviluppò infatti in un nuovo ed esclusivo insegnamento, il diritto pubblico universale, che ridefinì compiti, materie e confini della poli­tica, relegandola in una posizione marginale.

Forte di una tradizione rnillenaria, la politica era all'inizio del se­colo il discorso sulla virtù e sulla vita buona associata ed era difficil­mente distinguibile dall'etica in generale. Aristotele aveva identificato tre parti della politica, l'architettonica, la deliberativa e la giudiziaria, le quali tuttavia, grazie alle caratteristiche dell'azione pratica, che non ammette teoria in senso proprio, dovevano essere concepite soltanto come i tre diversi ambiti nei quali interviene il politico 25 • Verso la metà del xvrr secolo l'architettonica venne identificata con la rifles­sione circa i fondamenti, l'origine e l'essenza dello stato e del potere e uscì dalla disciplina politica per entrare a far parte del diritto natu­rale con il nome di diritto pubblico universale, così che alla politica in senso proprio rimasero soltanto le materie attinenti alla gestione degli affari di governo 26 • Si compì in tal modo la trasformazione del­la politica da dottrina dell'agire civile a prudenza degli affari di stato e nei sistemi delle scienze dello stato, alla cui elaborazione il secolo xvnr concentrò i propri sforzi, le venne attribuita una funzione mar-

23. Clasen (r67J), p. 282. 24. lvi, pp. 262-3. 25. Aristotele, Etica Nicomachca VI, 8, rr4r b 23-33; Politica rv, !4, 1297 b .37-

1298 a 3· 26. Momenti importanti in questa evoluzione furono Horn ( r672l, Huber

(r672l, Hertius (r689) e Bohmer (r7rol.

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ginale e gregaria 2 7. In questa evoluzione mutò anche la struttura del­l' azione perché il comportamento politico, ed etico in generale, poté essere distinto su due livelli: quello della teoria, che fornisce principi universali ed è dotato dei caratteri della scienza esatta, e quello della pratica, che non rappresenta un ambito di conoscenza e di azione caratterizzato in senso proprio, ma è soltanto il campo nel quale le regole generali vengono applicate ai casi specifici.

Alla ristrutturazione del sapere politico si accompagnò la trasfor­mazione del concetto di potere, che assunse un ruolo centrale nella costituzione dello stato. Se nell'aristotelismo politico del primo Sei­cento l' imperium è in ultima istanza una delle manifestazioni della vir­tù o uno dei mezzi con cui essa si realizza, perché l'ordine della virtù corrisponde all'ordine delle potestates all'interno della repubblica e vi­vere secondo bontà vuoi dire partecipare la propria virtù nella comu­nità civica, ossia, secondo la posizione che si occupa, obbedire al giu­sto comando oppure impartire il giusto comando, lo stato configurato dal diritto naturale moderno rovescia i termini di questa relazione e il potere diviene la condizione per il realizzarsi sia della socialità sia del diritto.

5·6 Potere e società nel diritto naturale di Samuel Pufendorf

n capovolgimento operato dal giusnaturalismo moderno si delinea chiaramente nell'opera di Samuel Pufendorf, dove la rifondazione di­sciplinare - Pufendorf fu titolare della prima cattedra tedesca di di­ritto naturale - si intreccia con la ridefinizione del concetto di potere in due momenti fondamentali della deduzione giusnaturalistica: nella definizione della socialità e nella fondazione del diritto.

Si possono rintracciare molte somiglianze tra le dottrine politiche seicentesche di ispirazione aristotelica e il diritto naturale di Pufen­dorf 28 • Al pari di Aristotele anche Pufendorf definisce esplicitamente l'uomo come un essere per natura indigente e quindi destinato per questa sua determinazione essenziale a dover affidarsi agli altri. Va tuttavia osservato che l'insufficienza postulata da Pufendorf è pura­mente materiale e che il fine da essa prefigurato è la conservazione

27. Scattola (1994), pp. 62-6; Scattola (1995), pp. 13-8. 28. Questa tesi è stata sostenuta tra gli altri da Rod (1970), pp. 75 e 81 e

criticata da Palladini (1990), p. 157. La differema tra la socialità di Pufendorf e le politiche aristoteliche viene analizzata e riportata alla sua origine giusnaturalistica da Duso h996l, pp. 21-31. C&. anche Mancini (1987), pp. n3-25.

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del singolo individuo. Nello stato di natura l'uomo viene pensato co­me «un animale nudo, muto, impotente, capace di scacciare la fame solo con radici ed erbe, di calmare la sete solo con l'acqua dei ruscel­li, di ripararsi dalle ingiurie del tempo solo rifugiandosi nelle grotte, esposto alle belve e atterrito da ogni evento» 2 9. Il fine di questa creatura simile più a un bruto che a un essere razionale non è l' ele­vazione del proprio animo, la scoperta delle sue più intime determi­nazioni e una vita eccellente conforme a esse, bensì tutte le sue ener­gie sono tese a soddisfare i bisogni primari della sopravvivenza biolo­gica: la fame, la sete, l'appetito sessuale. Gli individui dello stato di natura sono originariamente non relati ad altro e centrati sulla singo­larità: se essi entrano in una qualche forma di società, ciò non è do­vuto a un impulso naturale irresistibile né alla ricerca della virtù, ma a un calcolo che mira all'utilità individuale (n, 5, 2).

Nella misura in cui è finalizzata alla conservazione di sé, la socia­lità dell'uomo è, paradossalmente, profondamente egoistica. La stessa definizione della legge di natura, il luogo fondamentale di tutto il di­ritto naturale, mostra esplicitamente che il bisogno di società è una conseguenza del bisogno di conservazione e che quindi il vero princi­pio del diritto naturale è l'autoconservazione dell'individuo: «Ordun­que l'uomo è un animale quanto mai desideroso di conservarsi, di per sé bisognoso, incapace di sussistere senza l'aiuto dei suoi simili, idoneo a promuovere reciproci vantaggi; e allo stesso tempo egli è malvagio e malizioso, e suscettibile, e incline quanto capace di inflig­gere danno agli altri. Da cui si ricava che per salvarsi esso deve ne­cessariamente essere sociale» (I, 3, 7). L'indigenza originaria dell'uo­mo va allora interpretata come quell'elemento che gli impedisce di realizzarsi come individuo e di obbedire alla sua determinazione.

L'uomo ha bisogno degli altri per essere un individuo autosuffi­ciente e perfettamente libero, cioè per far dipendere tutte le sue azio­ni direttamente ed esclusivamente dal suo arbitrio. Lo stato naturale dell'uomo è infatti una condizione di libertà, nella quale l'obbedienza al diritto dipende dalla volontà del singolo che è libero di seguire o di rifiutare i dettami della ragione. Diritto e società sono certamente istituti razionali, che hanno la loro radice nella ragione e sono pro­dotti dall'essenza dell'uomo, ma devono essere mediati dal ragiona­mento individuale. Ciò significa che essi non valgono oggettivamente, indipendentemente e anteriormente agli individui, ma sono dotati di un'esistenza soggettiva e hanno luogo solo in quanto vengono accet­tati dal singolo.

29. Pufendorf (r673), ed. 1927, n, r, 9·

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Pufendorf accorda alla socialità dell'uomo una funzione centrale facendone il contenuto della prima legge di natura. Che la socialità sia un principio giusnaturalistica non implica tuttavia che gli uomini siano sociali, che la società politica sia coessenziale all'uomo e che non si possano dare uomini se non in società. L'assunzione del prin­cipio della socialità ha infatti un valore esclusivamente epistemologi­co: è il fondamento logico che permette la deduzione del complesso giusnaturalistica. La socialità non può perciò essere una caratteristica intrinseca degli uomini, ma si presenta come una finzione logica su cui tutti convengono, così che la forza coattiva delle norme del diritto naturale risiede nel fatto che esse sono un prodotto della ragione conquistato in modo incontrovertibile, e quindi obbligante, a partire dalle determinazioni fondamentali della natura umana. Il sistema giusnaturalistica risulta così nel suo complesso un edificio di deduzio­ni, al cui fondamento è posto un principio adeguato e certo.

L'assunto della socialità, che funge da concetto iniziale, possiede quindi un'esistenza puramente mentale perché, per dare validità al­l'insieme del diritto, è sufficiente che su di esso vi sia accordo gene­rale: non è infatti necessario che gli uomini siano sociali, ma che essi credano o consentano di esserlo e da tale ipotesi conquistino tutte le norme giuridiche applicando le leggi di ragione. Ne consegue che vi sarebbe diritto naturale anche se gli uomini, nella realtà, fossero aso­ciali, purché tutti gli individui accettassero l'ipotesi secondo la quale l'uomo ricerca la compagnia dei propri simili.

Si viene così a chiarire un tratto paradossale nella dottrina di Pu­fendorf: che la società umana non nasca dalla socialità naturale del­l'uomo, ma venga fondata ricorrendo a un secondo principio, l'imbe­czllitas, cioè l'insicurezza del diritto e, in ultima istanza, l'interesse in­dividuale. Anche se la comune parentela esercita un certo legame, l'attrazione naturale è infatti talmente debole che esaurisce la sua for­za nell'ambito delle relazioni tra congiunti così che ogni altro essere umano al di fuori di questo ristretto cerchio viene considerato, se non un nemico dichiarato, almeno un amico poco fidato (n, I, I I).

Per tale motivo gli uomini che vivono nello stato di natura non solo non si aiutano vicendevolmente, ma sono facilmente preda del d esi­derio di nuocersi. In questa condizione dominano perpetui sospetti, diffidenza, desiderio di sopraffare gli altri o di ampliare la propria influenza ai danni del prossimo tanto che veramente felice è soltanto colui che anche nel migliore amico vede un possibile nemico e che in tempo di pace pensa alla guerra (zbid.). «Non basta dunque dire che l'uomo viene spinto dalla natura stessa a entrare in società e che egli né può né vuole rimanerne escluso. Poiché infatti l'uomo è con ogni

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evidenza un animale che ama sopra ogni altra cosa se stesso e il pro­prio tornaconto, sebbene egli ricerchi spontaneamente la società, de­ve essere certo di ricavarne un qualche vantaggio» (n, 5, 2).

La società prepolitica dello stato di natura - e in ciò è da inten­dere una profonda differenza rispetto all'aristotelismo politico del pri­mo Seicento - ignora ogni relazione d'ordine tra gli uomini e di fatto si riduce a quella forma minima di relazione che permette l'immagi­nazione del diritto. Essa consiste infatti nel consenso, anteriore alla nascita dello stato, relativo ai doveri verso se stessi, verso Dio e verso gli altri, i quali richiedono il riconoscimento dei propri diritti e delle obbligazioni che questi ultimi producono negli altri verso di noi e, per analogia, in noi verso gli altri. Sprovvista di qualsiasi funzione di governo o di potere, questa relazione non può dare vita a una società civile né d'altronde è in grado di garantire appieno la vigenza del diritto. Affinché ciò diventi possibile, affinché cioè gli uomini entrino in una relazione politica e affinché la socialità originaria possa realiz­zare il proprio fine, è indispensabile la costruzione della sovranità che Pufendorf, sulle orme di Hobbes, immagina come un trasferimento di volontà con il quale i sudditi-autori si obbligano a riconoscere co­me proprie tutte le azioni del sovrano-attore (n, 6, 5).

La coincidenza perfetta tra l'unificazione della comunità e la crea­zione del sovrano, che caratterizza l'argomentazione hobbesiana risul­ta perduta nella deduzione di Pufendorf, che distribuisce la costitu­zione dello stato su tre diversi momenti: un patto di unione con il quale tutti i futuri membri della comunità si impegnano a formare una medesima comunità e a diventare concittadini, un decreto con il quale la moltitudine decide la forma dello stato e un patto di sogge­zione con il quale viene garantita obbedienza al sovrano (n, 6, 7-9). Nonostante la moltiplicazione dei passaggi il nucleo fondamentale della dottrina di Hobbes viene tuttavia conservato perché decisivo per la fondazione dello stato è soltanto il secondo patto, attraverso il quale la moltitudine viene unificata in un corpo politico che agisce come fosse una sola persona 3°. Tale risultato viene conseguito attri­buendo alla società un solo volere, e le volontà dei singoli non posso­no essere unite se non quando ciascuno subordina la propria volontà alla volontà di un uomo o di un consiglio, così che qualsiasi decisione quest'ultimo prenda in merito alla sicurezza comune e ai mezzi per raggiungerla debba essere considerata volere di tutti e di ciascuno (n, 6, 5).

Il potere politico non è dunque un dato originario della società,

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non è una relazione naturale, riferita all'essenza umana e sorretta dal­la ragione, ma è un elemento artificiale ed estraneo alle determinazio­ni originarie della natura umana. Esso non può essere dedotto dal principio della socialità, non è un suo prodotto, e si giustifica solo a partire da un movente diverso. Nel diritto naturale di Pufendorf lo stato e il potere sono infatti il risultato del desiderio di autoconserva­zione ovvero della paura, la quale deve figurare come un principio comprimario accanto alla socialità. La legge di natura a partire dalla quale viene costituita la repubblica deve dunque recitare: «Ciascuno si munisca di rimedi contro quei mali con i quali l'uomo minaccia l'uomo» (n, 5, 7). Il sistema del diritto naturale risulta cosi sdoppia­to: due sono in realtà i principi e due sono le fondazioni della società e del diritto. La socialità permette di dedurre tutti gli istituti fonda­mentali del diritto e prefigura la comunità del diritto, ma è del tutto inefficace. La paura consente invece di fondare il potere sovrano del­lo stato che costituisce l'unica vera forma di società umana dotata di un diritto effettivamente vigente. La possibilità di creare la comunità politica espressa nella socialità originaria si basa quindi, paradossal­mente, sull'intervento della sovranità e sulle pattuizioni da cui essa nasce. Poiché lo stesso risultato vale anche per il diritto, è inevitabile concludere che società e diritto esistono solamente nello stato e sotto l'egida del potere.

Raddoppiando i principi, Pufendorf delinea di fatto una duplice fondazione del diritto e della società: nella condizione naturale e do­po la fondazione dello stato. La necessità di questa duplicazione va trovata nel carattere paradossale della sovranità, identificato già da Bodin. Se il potere politico, che viene fatto coincidere con la volontà del sovrano, si presenta come l'unica fonte di qualsiasi diritto, per il nesso di autorizzazione che vincola la volontà dei sudditi a quella del sovrano, giusto è tutto ciò e solamente ciò che il sovrano decide. Di conseguenza il diritto non può avere alcuna esistenza autonoma dal potere né può esistere alcun diritto indipendente dallo stato. Ciò si­gnifica che la sovranità, chiamata a proteggere il diritto, di fatto ren­de impossibile ogni forma di giustizia anteriore, indipendente o supe­riore allo stato. Poiché giusto è solo quel comportamento che ottiene la sanzione politica, allo stato spetta il monopolio del diritto, e que­st'ultimo può sussistere solo legandosi alla forza politica.

Hobbes aveva accettato questa assunzione in tutta la sua portata e aveva concluso che nella condizione di natura non esiste alcun di­ritto, . se con ciò si intende un ordinamento superiore alla volontà individuale, e che quindi il sovrano, che è la condizione dell'ordine giuridico, non può essere vincolato ad alcuna prescrizione anteriore

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5. ORDINE E IMPERIUM NEL PRIMO SEICENTO

al suo arbitrio. Pufendorf, che non condivide queste conclusioni ra­dicali, prevede una qualche forma di esistenza del diritto e della so­cietà prima dello stato, ferma restando la condizione che anche que­sti principi hanno vigenza solo attraverso la sanzione sovrana. n fat­to che in questo modo il diritto sia prima dedotto nella condizione di natura e sia poi assunto nella società politica permette di garanti­re una qualche autonomia alle prescrizioni della giustizia, i cui con­tenuti risultano fondati sulla coerenza con la legge di natura e non sull'arbitrio del sommo potere. Allo stesso modo agisce anche il principio della socialità: essa rende infatti possibile quel livello mini­mo di commercio tra gli uomini che li mette in grado di riconosce­re un comune ordine giuridico e le reciproche obbligazioni prima che la comunità politica sia costituita con un atto politico di unifica­zione delle volontà che, in ultima istanza, risulta la fonte e la legitti­mazione di ogni ordine.

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Parte seconda

Dal potere naturale al potere civile: l'epoca del contratto sociale

Alla metà del Seicento avviene un mutamento radicale del modo di pensare la società: la vita in comune degli uomini appare priva di ordine e dominata dal caos e dal conflitto. Anche la fìlosofia, nella sua dimensione etico-politica, non appare più in grado di costituire una guida sufficiente, basata come era sui cardini dell'esperienza da una parte e della virtù, in special modo della prudenza, dall'altra. Appare necessaria una nuova forma di sapere, che costruisca la socie­tà attraverso una razionalità che superi le diverse opinioni sulla giu­stizia e debba essere da tutti accettata: nell'ambito etico bisogna allo­ra sviluppare una scienza che mostri i caratteri di certezza che ha la geometria. Così con Hobbes si inaugura una nuova scienza, che pone al suo centro il compito della deduzione di una forma politica che garantisca la pace e l'ordine nella vita sociale. È questa la stagione del giusnaturalismo moderno, che dalla metà del Seicento giunge fino al periodo della Rivoluzione francese. In questo contesto nasce la po­litica nel senso specifico moderno di teoria del potere, e si formano i principali concetti politici che giungono fino alla nostra contempora­neità.

n primo elemento del nuovo modo di pensare è costituito dalla nozione, che diventerà riferimento comune, dello stato di natura: Essa non svolge tanto la funzione di descrivere la vera natura dell'uomo, quanto piuttosto quella di azzerare sia l'esperienza storica, che ci pre­senta guerre e conflitti, sia la tradizione del pensiero filosofico, che non è giunto a verità certe. Essa infatti indica quella che sarebbe la condizione dell'uomo al di fuori della società civtle, condizione che è considerata in modo più o meno pessimistico, ma sempre in maniera tale da obbligare la ragione ad uscire dallo stato di natura dando luogo alla società. Se il problema è di uscire dallo stato di natura per entrare nella situazione migliore e più razionale costituita dalla società e dal potere che la rende possibile, questo passaggio logico non è

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IL POTERE

possibile se non introducendo la nozione di conflitto, sia questo la guerra di tutti contro tutti di Hobbes, o il conflitto possibile, che si crea per la mancanza dell'autorità e di un unico giudice, come avvie­ne in Locke e in Pufendorf. La scienza che così si sviluppa ha, come riconosce Hobbes, un carattere genetico: si tratta cioè di una ricostru­zione genetica dell'oggetto, cioè la società civile con il potere che la connota. Tutti gli elementi della costruzione sono legati tra loro, sia l'immagine degli individui con i loro diritti, da cui parte la costruzio­ne, sia il suo esito, che è il potere o la sovranità in senso moderno.

Lo stato di natura, in forma più o meno accentuata, è caratteriz­zato dall'individualismo: questa è una necessità se si vogliono cancel­lare le specie di società diverse e caotiche che l'esperienza ci mostra per dare luogo ad una forma razionale e ordinata. Ciò che si presen­ta è allora un mondo di individui dotati di uguali diritti: l'individuo viene a svolgere, per la prima volta, un ruolo determinante, fondante per il concetto di società. Se infatti viene a tramontare l'idea di un cosmos con un suo ordine e una sua realtà oggettiva (nella quale cer­to si danno anche fenomeni negativi, come il male, la tirannia, la guerra), in cui gli uomini si trovano inseriti in modi diversi, e nella costruzione teorica nuova viene presupposto solo un mondo di indi­vidui uguali, ciò che diventa fondante per la costituzione del corpo politico è la volontà dei singoli. Lo scenario di questa costruzione è quella del contratto sociale, in cui gli individui esprimono la loro ra­zionale volontà di accordo per dar luogo ad una forma della società che eviti il conflitto. Ciò è possibile se si mettono assieme le forze di tutti, creando un corpo politico comune, dotato di una forza di gran lunga maggiore di quella dei singoli. Un unico giudice su ciò che si debba fare per l'utilità di tutti e una forza comune, che possa impe­dire tutti i soprusi che i singoli possono farsi reciprocamente per un proprio vantaggio personale, sono considerati necessari per vivere in pace.

Il contratto sociale viene in tal modo a costituire qualcosa di radi­calmente nuovo. Nella tradizione precedente la figura del contratto sottolineava la soggettività politica dei contraenti, che erano spesso realtà associative. Lì le associazioni erano prima e dopo il contratto e potevano in quanto tali esprimersi: si aveva trasferimento della pote­stas o del suo uso, e anche quando si dava qualcosa di nuovo me­diante l'unificazione di realtà esistenti, queste ultime persistevano, non erano cancellate. In questo scenario invece il contratto fa nascere qualcosa di radicalmante nuovo: prima abbiamo solo individui, poi un essere collettivo, un corpo politico, un'unica persona, che tutti hanno voluto con il contratto e alla quale dunque tutti devono essere

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' DAL POTERE NATURALE AL POTERE CIVILE: L EPOCA DEL CONTRATTO SOCIALE

sottoposti. Qui non si assiste al trasferimento di un potere che g1a esiste, che è nelle cose, ma alla creazione del potere civile; e non ci sono diversi poteri in un quadro di diversità gerarchicamente ordina­te, ma una summa potestas, che è insieme l'unica potestas. D'ora in poi il popolo non coinciderà più con una realtà costituita di parti e di forme associative, ma indicherà la totalità degli individui uguali: il problema fondamentale non sarà più costituito dalle /orme di governo, ma piuttosto dal potere del popolo, dalla sua sovranità, dall' espres­sione della sua volontà r.

Tale potere non si oppone ai diritti degli individui, ma, al contra­rio, nasce sul loro fondamento. Proprio perché gli individui sono uguali non è accettabile l'idea, di Aristotele, ma anche di una lunga tradizione che arriva fino al Seicento, che qualcuno governi altri uo­mini: il potere che si costituisce con il contratto non coincide con il governo di qualcuno, ma è potere di tutto il corpo politico, che ha l'uguaglianza come fondamento e come fine. Il concetto di libertà in­teso come mancanza di ostacoli e come dipendenza di ognuno dalla propria volontà, non è negato, ma realizzato dal concetto di potere. Solo questo infatti può rendere gli uomini liberi dai tentativi recipro­ci di sottomissione e può sostituire all'idea di uomini che guidano e governano altri uomini quella di uno spazio garantito e difeso in cui ognuno cerca liberamente quello che considera suo bene, con il solo vincolo di non ledere l'eguale diritto degli altri 2 •

Tra potere naturale e potere civile o politico c'è allora un salto, che sempre più dopo Hobbes si cerca di colmare, da parte di coloro che, come Pufendorf e Locke, pongono nello stato di natura elementi che la società deve realizzare e garantire, ma che sarà superato solo da Spinoza, la cui trattazione dei temi politici, pur riprendendo ele­menti propri del giusnaturalismo, si colloca tuttavia su un piano filo­sofico che supera l'assetto teorico-costruttivo delle prime dottrine moderne del diritto naturale. Il potere, che si è costituito con il con­tratto, rende possibile la vita ordinata e pacifica della società proprio perché si colloca su un piano superiore e diverso da quello naturale, s1a per quel che riguarda la quantità (ogni potere individuale, per

r. Per queste differenze radicali una storia del concetto di contratto che parta dall'antichità, o dalle fome medievali di contratto rischia di essere fuorviante, in quanto implica linee di continuità, quali si esprimono ad esempio nelle figure del contratto di unione e del contratto di sottomissione, che impediscono di cogliere la logica che lega i concetti nella scena del contratto sociale moderno (su ciò è qui tenu­to presente Duso, 1987).

2. Sul nesso libertà-sovranità cfr. Biral (r987al e Biral (199rl.

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IL POTERE

quanto grande, sarà assai piccolo nei confronti di quello comune), sia per quel che riguarda la qualità: infatti non si tratta della forza di cui ognuno è dotato, ma di una forza fondata sulla volontà e la razionali­tà di tutti. Tendenzialmente dunque questo potere è, per propria es­senza, irresistzbzle. Ciò è affermato con determinatezza da Hobbes, da Rousseau e poi, in un contesto diverso, da Kant; ma anche coloro che vorranno tenere aperta la possibilità dell'opposizione al potere civile non potranno non trovarsi in una situazione logicamente diffici­le: quella propria del tentativo di individuare il popolo come soggetto concreto, capace in quanto tale di azioni, senza necessità alcuna di mediazione. n motivo della irresistibilità del potere è espresso con chiarezza da Rousseau, che afferma la necessità della sottomissione al corpo collettivo, perché altrimenti, se qualcuno non si alienasse total­mente, potrebbe mantenere forze e diritti per sottomettere gli altri, contro i principi di uguaglianza e libertà. Non è un caso che proprio con il giusnaturalismo moderno veda sostanzialmente il suo declino la dottrina secolare, legata al concetto di tirannia, del diritto di resisten­za. I tentativi di pensare l'opposizione nei confronti del potere civile (si pensi al caso di Locke e, più tardi, a quello di Fichte) non posso­no in ogni caso essere collegati a quella tradizione del diritto di resi­stenza, che, fino ai monarcomachi, implica una pluralità di soggetti politici.

n carattere di assolutezza, che viene a caratterizzare il concetto di sovranità, risulta dunque fondato sui diritti degli individui e legato alla loro realizzazione. La funzione del diritto naturale è quella di costituire una fondazione e una giustificazione del dovere di obbedire al potere, non inteso come una forza esistente fattualmente, ma come una forza legzttima, come preciserà alcuni secoli dopo, proprio nel de­clino della vicenda che trova nel Seicento i suo inizi, Max W e ber. Questo aspetto della legittimazione caratterizza la nuova scienza del diritto naturale, che è scienza della genesi e della razionalità della for­ma politica. Nella precedente tradizione del pensiero politico non era necessario legittimare il fatto che ai più potenti e prudenti spettasse governare, come non era necessario giustificare la direzione delle membra del corpo da parte della testa. È dall'azzeramento di un mondo di riferimento e dall'assolutizzazione della volontà che nasce il problema della legittimazione. n primo versante della legittimazione consiste nell'identificare alla base del potere la volontà di tutti gli in­dividui. Il secondo versante dovrà riguardare l'esercizio del potere, e tale versante si presenta già con Hobbes, mediante il nuovo concetto di rappresentanza politica.

Una volta costituito, mediante la volontà di tutti gli individui, il

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corpo politico, cioè l'unica persona civile, la domanda che emerge riguarda chi esprimerà la volontà del soggetto collettivo. Nessuno può farlo sulla base delle proprie prerogative e qualità, perché tutti sono uguali, e non lo possono nemmeno tutti insieme, e non solo perché non è pensabile che un'infinita molteplicità di individui espri­ma un'unica volontà, ma anche perché il contratto appare necessario a causa del fatto che le volontà degli individui sono ipotizzate come diverse. Inoltre tutte sono diventate volontà private di sudditi nei confronti del potere che si è costituito, che è collettivo, pubblico, politico.

La soluzione hobbesiana, che condizionerà lo svolgimento del pensiero politico moderno più di quanto si sia soliti pensare, consiste nel fatto che l'unico modo di esprimere la volontà del corpo comune è quella rappresentativa; cioè di uno o di alcuni che, in quanto per­sone realmente esistenti, esprimano per tutti - e dunque non a causa della loro persona naturale, ma appunto rappresentativamente, dando corpo alla persona pubblica - la volontà del soggetto collettivo. Nel xvr capitolo del Leviatano viene in luce tutto il problema e si manife­sta la forza logica della soluzione: c'è un unico modo di intendere come unità una moltitudine costituita da una molteplicità di indivi­dui, cioè che sia uno colui che la rappresenta. È questo il concetto moderno di rappresentanza politica, che non ha rapporto con quanto si intendeva nel passato sotto la tematica della rappresentanza: qui non si tratta di esprimere una volontà determinata, come ad esempio quella degli ordini o stati, nei confronti di un'altra istanza, quella re­gale, ma si tratta piuttosto di esprimere una volontà che non c'è, di darle /orma: se infatti sono empiricamente presenti le volontà private dei singoli, non lo è quella unica del popolo, e perciò bisogna rappre­sentarla.

Ben si comprende allora che l'agire del rappresentante non pro­cede da mandati vincolanti o da volontà già esistenti, ma viene dal­l'alto per tutti coloro che sono sottoposti alla legge. Bisogna tuttavia considerare nello stesso tempo anche l'altro aspetto della questione, secondo cui quello rappresentativo è anche il modo legittimo di eser­cizio del potere. Infatti la dialettica della rappresentanza indicata da Hobbes è quella del processo di autorizzazione, del processo cioè di costituzione dell'autorità, consistente nel fatto che tutti si dichiarano autori di quello che la persona designata farà. Questi è l'attore, colui che compie le azioni pubbliche, che esprime la persona pubblica; le sue azioni non sono semplicemente sue azioni naturali, ma piuttosto hanno il significato di azioni pubbliche, di cui sono autori tutti colo­ro che lo hanno autorizzato. Se è vero che l'espressione della volontà

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IL POTERE

da parte del rappresentante viene dall'alto, è altrettanto vero che il suo fondamento viene dal basso in quanto risiede nella volontà di tut­ti coloro che costituiscono la sua autorità.

n principio rappresentativo si imporrà nei filosofi che pensano il diritto naturale, e farà la sua comparsa anche nella vita politica a par­tire dalla Rivoluzione francese. Chi si oppone con decisione al princi­pio rappresentativo è Rousseau, secondo il quale la sottomissione -anche per lui totale - al corpo politico non deve essere sottomissione ad una persona: la sovranità del popolo non è alienabile né rappre­sentabile. n popolo viene cosi ad essere il soggetto perfetto della po­litica e la volontà generale non è sottoposta a nessun vincolo. Quan­do però egli deve mostrare come agisce tale sovrano nel momento più alto, quello della costituzione dello Stato, a causa della difficoltà di pensare le azioni concrete di un soggetto che non è costituito, for­mato, è costretto a ricorrere alla figura del grande legislatore, il quale compie quella divina opera che consiste nel dare leggi agli uomini 3.

La figura del legislatore non solo rivela la differenza esistente tra il popolo come insieme di tutti gli individui e la volontà generale come vera volontà del popolo, ma viene ad essere contemporanea­mente indice della difficoltà che è insita nel concetto di popolo come grandezza costituente. È infatti difficile pensare all'azione costituente di un soggetto che non è esso costituito, che non ha cioè una forma determinata. n legislatore non è il sovrano rappresentante, né è il risultato di un processo di autorizzazione: viene tuttavia a svolgere una funzione di mediazione, di realizzazione mediante la sua persona di una concreta costituzione a partire dall'idea 4. Si manifesta in que­sto modo anche in lui, in un modo peculiare, il problema tipico del giusnaturalismo, consistente, come dice Hegel, nel difficile o impossi­bile passaggio dai molti all'uno. Nel momento in cui si inizia la co­struzione dalla molteplicità infinita degli individui, non si può pensa­re che alla costituzione di un'unità che non è più legata e dipendente dai molti, che si trova cioè su un altro piano: come può allora volere ed agire una tale unità (il popolo come unità di tutti gli individui), che non è empiricamente presente, dal momento che ad essere empi­ricamente presenti sono solo i molti individui? n problema che sta

3. Rousseau, Contratto sociale, n, 7. Sulla figura del legislatore cfr. Biral (1987b).

4- Si ricordi che il termine rappresentante è legato in Hobbes (cap. xvi del Le­viatano) a quello di persona, che, nell'etimo latino, significa maschera, attore, quello cioè che, in rapporto all'autore, è appunto il rappresentante.

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' DAL POTERE NATURALE AL POTERE CIVILE: L EPOCA DEL CO"iTRATTO SOCIALE

alla base non solo della rappresentanza, ma anche della sovranità mo­derna in quanto tale, è dunque quello dell'unità politica.

Il contratto si esplica in un unico atto in Hobbes e in Rousseau e non appare produttivo a questo proposito l'uso di una terminologia che distingue un "contratto di unione", costitutivo del rapporto so­dale, da un "contratto di sottomissione", perché in ambedue gli au­tori la possibilità dell'unione è legata in modo intrinseco alla necessità della sottomissione al potere comune, in qualsiasi modo si cerchi di intenderlo. Non solo questo è il motivo della non produttività dell'u­so della sopramenzionata distinzione, ma anche la constatazione che nella tradizione di pensiero precedente il patto di sottomissione com­porta ubbidienza al governo di qualcuno, nei confronti del quale c'è spesso la possibilità del controllo e del giudizio, perciò della resisten­za. Nel nuovo modo di intendere il patto sociale invece la sottomis­sione, anche nel caso di Hobbes, si determina nei confronti di colui che rappresenta il corpo politico che tutti hanno voluto: dunque in fondo è sottomissione alla propria volontà. È proprio questo il motivo dell'assolutezza della moderna sovranità: la sua legittimazione risiede nella volontà di tutti.

Certo, in tutti gli altri pensatori del giusnaturalismo il contratto viene articolato in più atti 5, ma ciò non ha il significato dell'afferma­zione di più soggetti politici che si bilanciano tra loro, come avveniva in un pensiero appaesato nella società cetuale (che pur permane in diverse parti d'Europa), ma piuttosto quello dell'attenuazione dell' af­fermazione hobbesiana sulla irresistibilità del potere e quello della posizione del tema del controllo e della concreta limitazione del pote­re. In Locke si ha ad esempio "l'appello al cielo", e in Pufendorf la tematica dell' imperium limitatum. Il problema non è tuttavia di sem­plice soluzione, a causa dello iato che si determina tra il potere del corpo comune e i singoli privati cittadini e della stessa necessità ra­zionale individuata come punto di partenza della costruzione: quella cioè di costituire un giudice unico che esprima sopra tutti gli indivi-dui la volontà comune. ·

Il portato del contratto sociale è dunque il potere, la sovranità in senso moderno, intesa non come la potestas superiore, ma come l'uni­ca. E ciò perché il vero problema di tutti i giusnaturalisti è quello della sicurezza, della stabilità. È in relazione a questo problema che

5. Questa articolazione è considerata la norma da Gierke ( r 88o), il quale non coglie la logica unitaria che caratterizza il patto sociale dei giusnaturalisti, anche quan­do questo risulta articolato in diversi atti. Attento a tale logica è invece Kersting (r994al e lr994bl.

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IL POTERE

nasce il nuovo significato della scienza politica che dà luogo alla for­ma politica. Già in Hobbes sarebbero sufficienti le leggi naturali o morali a far comprendere che è meglio vivere in pace e dunque ce­dere i propri diritti accordandosi con gli altri. Ma non si ha mai la sicurezza di cosa faranno gli altri; e disarmarsi quando gli altri ci at­taccano non è razionale e, per Hobbes, dunque nemmeno morale. Bisogna allora entrare in una condizione che ci renda sicuri, che ci faccia prevedere che gli altri e anche noi ci comporteremo rispettan­do i patti. E ciò è possibile appunto se si crea una spada, una forza immane che farà prevedere il comportamento ordinato di tutti. Da questo momento si separano la morale, la legge interiore e la politica, o meglio il diritto, sulla cui base si dedurrà una forza coattiva che regolerà i rapporti tra gli uomini.

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Potere comune e rappresentanza 1n Thomas Hobbes

di Mario Piccinini

6,I Corpi e corpi politici

La "narrazione" della costituzione del commonwealth offerta da Bob­bes nel xrx capitolo degli Elements fornisce la prima esposizione di una scansione argomentativa che nelle successive opere politiche manterrà sostanzialmente immutato il proprio profilo, nonostante ri­precisazioni anche assai significative di alcuni suoi elementi e la ride­terminazione strutturale che le sarà apportata nel Leviathan. Sarà dunque opportuno considerare tale scansione nella valenza matriciale che assume per l'insieme della riflessione hobbesiana, mettendone in­nanzitutto a fuoco presupposti e componenti, per concentrare poi la nostra attenzione sul tema del common power, nella convinzione che su di esso convergano ragioni propriamente teoriche - e non solo di organizzazione sistematica - di un lavoro di riscrittura che vede Hobbes impegnato a rielaborare a varie riprese uno schema la cui configurazione fondamentale è stata precisata fin dagli inizi della sua produzione intellettuale matura.

La drammatizzazione narrativa sintetizza, ricomponendoli diacro­nicamente, gli elementi messi in evidenza dal lavoro di scomposizione analitica che definisce l'innovazione di "metodo" a partire dalla quale Hobbes rivendica il proprio ruolo di fondatore di una scienza civile. Ma anche ridetermina il piano rispetto al quale questi stessi elementi - isolatamente presenti in contesti argomentativi differenti, a Hobbes sia precedenti sia contemporanei - trovano definizione. La narrazio­ne opera come costrutto dimostrativo. Comprendere infatti quale sia il diritto dello stato - e di conseguenza quali siano gli obblighi dei sudditi - vuol dire praticare l'esperimento mentale di considerare la civitas del tutto dissolta nei suoi elementi costitutivi: quale sia la natu­ra umana, quali forze concorrano a favore e quali contro la costitu­zione di un'unità stabile, quali legami di reciprocità gli uomini siano

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in grado di costruire. Un passo celebre della prefazione del De Cive è esplicito nell'indicare il percorso che Hobbes si prefigge nell'affronta­re il tema della condizione civile: innanzitutto ne va individuata la materia, si passerà a considerarne la genesi (generatio), solo alla fine si perverrà a osservare la forma. L'esempio è quello dell'orologio la cui comprensione richiede che prima lo si smonti pezzo per pezzo considerandone attentamente i singoli ingranaggi e che solo poi, a partire da come questi ultimi si connettono reciprocamente, lo si va­luti come meccanismo complessivo (LDC, pp. 79-80; EDC, p. 32; Bobbio, pp. 66-7).

Bisogna tuttavia fare attenzione: la costruzione politica è certo un meccanismo, ma non più di quanto non lo sia l'uomo stesso. Il mec­canicismo non qualifica di per sé la forma politica. Quando, parlando negli Elements dell'unione, Hobbes afferma che essa «è ciò che gli uomini chiamano oggi giorno un corpo politico», fa certamente qual­cosa di molto più complesso di una mera concessione a un' espressio­ne ormai entrata nel linguaggio comune. L'opzione di Hobbes per il lessico del body polztic vede infatti l'intrecciarsi di due istanze di pro­venienza diversa. C'è innanzitutto una motivazione sistematica, per cui Hobbes, definendo il corpo politico come specie all'interno di un genere, quello dei corpi, che non ammette alcuna sottordinazione, si dispone a costituire la propria filosofia politica come articolazione di un progetto sistematico che fa della nozione di corpo l'asse centrale e di cui appunto gli Elements rappresentano solo una prima approssi­mazione. N ella scansione in cui il progetto hobbesiano realizza la propria configurazione negli Elementa Phzlosophiae (De Corpore, De Homine, De Cive) il tema del corpo assolve a un ruolo connettivo primario, determinandosi come una costante capace di oltrepassare, reinscrivendola al proprio interno, l'opposizione natura/ artificio. Già George Croom Robertson sottolineava l'importanza dell'uso del ter­mine body, invece di nature nella prima parte del sistema di Hobbes. «Corpo - egli scriveva - non è per Hobbes il termine di un'opposi­zione, come è natura in opposizione a società, ma il primo termine di una sequenza che attraverso l'uomo porta alla società o allo sta­to» r.

Affermando come fa all'inizio del Leviathan che «la vita non è altro che un movimento di membra il cui inizio è in qualche princi­pale parte interna» (L, p. 81, Micheli, p. 5), Hobbes perviene infatti ad accomunare tutti gli enti che, pure se a diverso titolo, rientrano sotto questa definizione, siano essi corpi animati elementari, uomini o

I. Robertson (r886), p. 45·

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automi, cioè macchine semoventi. n corpo politico va ricondotto in quest'ordine. Né uomo né macchina, è come un uomo, perché a quelle del corpo umano corrispondono le sue parti, ma è anche come una macchina, perché è un meccanismo creato dall'arte dell'uomo. Un nuovo vocabolario sostituisce le vecchie corrispondenze (artificial body, artificial man, artificial soull, ridislocandone radicalmente il signi­ficato e piegandolo a un campo problematico che, anche se parago­nato alle riproposizioni barocche del primo Seicento, appare radical­mente nuovo 2 • Partecipe in modo diverso di entrambi, il corpo poli­tico, l'uomo artificiale, è dunque in qualche modo un ente a se stan­te, alla cui comprensione un approccio di carattere metaforico risulta un'approssimazione affatto fuorviante, dato che in genere «Se i voca­boli si chiamano metaforici, non così si può dire dei corpi e dei mo­vimenti» (L, p. II9, Micheli, p. 50).

6.2 Lo stato di natura

Nella sua accezione più ampia per Hobbes l'espressione "stato di na­tura" indica prima di tutto la condizione delineata dall'assenza di ob­bligazioni e di un potere capace di sanzionarle irresistibilmente. In questo senso, essa include sia la situazione di quegli uomini che non sono organizzati in un corpo politico, come, secondo il suo esempio, i nativi del continente americano, sia quella di coloro che si trovano a vivere la decomposizione del corpo politico, quando la lotta delle fazioni non si è ancora evoluta nell'instaurazione né di un nuovo cor­po politico né di corpi politici contrapposti, sia infine quella dei cor­pi politici non subordinati - gli stati indipendenti - nei loro rapporti reciproci e nell'eguale libertà che deriva a ciascuno di loro dal non riconoscere alcuna istanza superiore. Lo stato di natura assolve in questa accezione a una valenza essenzialmente descrittiva e compara­tiva e non può essere ricondotto a una mera finzione filosofica, non dissimile da quella poetica dell'età dell'oro, di cui costituirebbe il contrappunto negativo 3. Esso corrisponde invece alla generale condi­zione umana su cui poggiano - e da cui nel contempo si stagliano -

2. Un utile termine di riferimento è in questo senso A Comparative Discourse o/ the Bodies Natura! and Polùique di Edward Forset (John Bill, London r6o6), un testo di apologia giacobita, dove l'immagine analogica del corpo politico, ridefinita dalla prospettiva del sovrano-anima, sembra presagire la figura dello Stato-macchina.

3. È questa l'interpretazione che ne darà H urne nel suo A Treatise of Human Nature (1739-40), libro m, parte n, poi ripresa nelle pagine corrispondenti della En­quzry Concerning the Principles of Morals ( I 7 5 I).

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le realtà artificiali delle condizioni o società civili, e che riemerge quando di queste ultime vengono meno le fondamenta.

Più specificamente, tuttavia, nella sequenza argomentativa che dall'antropologia conduce alla "narrazione" della costituzione di un body politic l'espressione "stato di natura", o espressioni equivalenti come "gli uomini considerati nella loro m era natura", riferiscono per Hobbes della condizione degli uomini prima del loro volontario as­soggettamento a un sovrano e quindi nel loro essere egualmente libe­ri. In tale situazione gli uomini, le cui azioni e parole non sono state ancora disciplinate, si mostrano secondo i movimenti che vengono loro impressi dalla spinta alla conservazione, dalle passioni che deri­vano dalla loro immaginazione e dai dettami della loro ragione.

Il presupposto e nel contempo il problema da cui muove la con­siderazione hobbesiana dello stato di natura è dunque l'eguaglianza. Al di là delle dispute tra coloro che la negano e coloro che l'afferma­no, questa è qualcosa che impone la propria evidenza appena si valu­ti «quanta piccola differenza vi sia nella forza o nel sapere tra uomini nel pieno della maturità» (E, p. 78, Pacchi, p. uo), di modo che nessuno tra loro, nemmeno il più forte, può ragionevolmente ritenere che la sua vita sia al sicuro in caso di un confronto con altri. Questa determinazione "negativa"- chiunque può da ultimo essere ucciso da chiunque - particolarmente enfatizzata nel De Cive, se non esaurisce la considerazione egualitaria di Hobbes, tuttavia ne organizza la pro­spettiva. L'eguaglianza più grande non è quella delle forze del corpo, ma quella delle facoltà della mente, che negli uomini sono presenti, con eccezione della scienza, nella medesima misura. La prudenza, cioè la capacità di previsione in cui consiste grande parte della sag­gezza, è una funzione dell'esperienza, e quindi del tempo, e uomini che hanno avuto un analogo corso di vita sono all'ingrosso egualmen­te saggi. Tuttavia ciò non è da loro ammesso, perché ciascuno, ve­dendo da vicino il proprio ingegno, non riconosce quello altrui, co­munque lontano. Tale sopravvalutazione, tanto generalizzata da costi­tuire un'ulteriore prova dall'umana eguaglianza, indica tuttavia quan­to difficile ne sia il riconoscimento da parte dei singoli. Esso si pre­senta tanto più problematico quanto più investe l'insieme delle dispo­sizioni passionali umane, intrecciandosi e declinandosi con esse.

Tra l'eguaglianza e il suo riconoscimento si determina così un ampio spazio conflittuale, la cui fenomenologia perviene a inscrivere al proprio interno gli stessi termini che dovrebbero perimetrarlo. Gli uomini sono spinti dalla propria natura verso gli altri uomini: non solo i loro bisogni, ma le loro passioni, i desideri che di queste sono gli accidenti, la speranza di soddisfarli impediscono strutturalmente

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agli uomini un'autosufficiente solitudine. Ma queste stesse passioni -non sempre di per sé necessariamente orientate verso la reciproca usurpazione, si pensi ad esempio alla curiosity che anche per Hobbes resta alla radice della filosofia - che incessantemente conducono gli uomini a incontrarsi, sono le stesse che li spingono gli uni contro gli altri, trasformando l'incontro in concorrenza, in diffidenza, in tentati­vo di sopraffazione che dalle parole (glory) passano alle azioni. Il conflitto genera insicurezza, l'insicurezza allarga il conflitto, ne fa guerra guerreggiata in cui ai motivi iniziali si aggiunge quello decisivo della conservazione della vita, per cui la sicurezza va conquistata a ogni costo. Naturalmente si esce dalla presunzione di autosufficienza solo sul versante della guerra: anche i pochi "moderati" che ricono­scono la generale eguaglianza dovranno mettersi in armi contro chi minacciosamente non la riconosce, chi è debole farà fronte comune con coloro che sono come lui contro uno più forte per aggredirlo o per difendersene e così via. La guerra trova i suoi percorsi: nella scarsità di ciò che tutti vogliono, nel contrasto dei desideri, nelle illu­sioni di sé.

La natura non fa gli uomini isolati, li dissocia (dissociate) (L, p. I86, Micheli, p. I2o). L'uomo di Hobbes non è il solitario di Rous­seau, come non è lo zoon politikon di Aristotele e delle tradizioni ari­stoteliche: non gli è propria né una vita isolata né una naturale vita comune. I componenti della multitudo hobbesiana non hanno letteral­mente collocazione - si potrebbe dire, prendendo a prestito un ter­mine dalla philosophische Anthropologie, che non hanno Umwelt, am­biente: definiti dal movimento incessante dei loro corpi e della loro immaginazione non possono essere identificati da quella stabilità che sola rende possibile la simbiosi aristotelica, dove per un verso o si è liberi o si è schiavi, come nell' ozkos, per l'altro o si governa o si è governati, come nella polis, e il bene è appunto comune. Servant e master, servo e padrone, dice Hobbes, lo si è solo per consenso degli uomini, mai per natura (E, p. 93, Pacchi, p. I38; EDC, p. 68, Bob­bio, p. II9; L, p. 2II, Micheli, p. I48). Nemmeno la rivendicazione d'una maggiore saggezza (wit) può fornire supporto a tale pretesa.

C'è una precisa solidarietà tra questa contestazione e la concezio­ne hobbesiana della ragione e della volontà: per Aristotele infatti ciò che manca allo schiavo è la proairesis, la capacità deliberativa; lo schiavo cioè non sa armonizzare ragione e passioni, cosa che il pa­drone invece sa fare e per questo, come libero, partecipa dell'arena politica. Ma per Hobbes la ragione si determina solo come razionali­tà; essa è il «calcolo delle conseguenze dei nomi in generale su cui c'è accordo per contrassegnare e significare i nostri pensieri» (L, p. I I I,

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Micheli, p. 4I) e in nessun modo può mescolarsi nell'atto del delibe­rare alle passioni, armonizzandole. Al contrario essa si pone neutral­mente al servizio delle passioni. «l pensieri infatti sono per i desideri come esploratori e spie che vagano qua e là per trovare la via verso le cose desiderate» (L, p. I 39, Micheli, p. 7I) e la deliberazione non è altro che «l'intera somma dei ,desideri, delle avversioni, della spe­ranze e dei timori» (L, p. I27, Micheli, p. 58) prima che un determi­nato atto venga compiuto. Per Hobbes un "appetito razionale" è in se stesso contraddittorio. La capacità di deliberare è, come tale, qual­cosa che gli uomini hanno in comune con gli animali e verso cui la ragione mantiene una posizione nettamente discosta, non definendo affatto tra gli uomini una condizione di naturale superiorità 4. Gli uo­mini dell'eguaglianza hobbesiana non sono animali per natura poli ti­ci, senza per ciò rifuggire la compagnia degli altri uomini, senza esse­re cioè né simili alle bestie né agli dei.

6.3 Diritto di natura e leggi naturali

Lo stato di natura è dunque lo scenario dell'eguaglianza e della liber­tà, la libertà che ogni uomo può usare come vuole al fine di preser­vare la propria natura. Tale libertà è un diritto naturale (jus natura­le), perché «non è contro ragione che l'uomo faccia tutto ciò che può per preservare il proprio corpo e le proprie membra, sia dalla morte che dalla sofferenza» (E, p. 79, Pacchi, p. I I I). Spetta tuttavia al giudizio e alla ragione di ciascuno valutare quale sia la condotta da tenere al riguardo. Tale diritto-libertà si estende quindi a tutto ciò che può essere ritenuto utile e necessario al proprio fine naturale e, dato che in assenza di un giudice civile ognuno è giudice legittimo del proprio bene, si configura da ultimo come un diritto a ogni cosa un uomo desideri, voglia e possa - compresi i corpi degli altri uomi­ni - in quanto ogni cosa può senza ragionevole contestazione essere annoverata tra ciò che è da lui ritenuto utile e necessario. D'altra parte tale diritto non pone alcuna obbligazione altrui e, dato che ap­partiene a ognuno, la libertà che così viene definita viene a essere la libertà dello stato di guerra: buono e cattivo, giusto e ingiusto sono solo in funzione dei contendenti e nessuna misura comune è posta all'agire dei singoli, perché nessuno è legittimato a parla. Il diritto di

4· Cfr. Bertman (1976).

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tutti a tutto non può che rovesciarsi nel suo opposto, in una situazio­ne cioè che non è migliore «eli quella che si avrebbe se nessun uomo avesse diritto ad alcuna cosa» (E, p. 8o, Pacchi, p. 113). Il diritto naturale è così solidale con una vita «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve» (L, p. r86, Miche/i, p. I2o), dove continui sono il timore e il pericolo di una morte violenta.

Lo stato eli guerra è cosi l'identità ultima dello stato di natura. La guerra infatti non è solo lo scatenarsi delle armi, il combattimento effettivo, ma anche la nota disposizione verso di esso o la mancanza eli un'assicurazione certa del contrario. La mancanza di sicurezza che lo stato di natura comporta, il fallimento che incontra ogni strategia intrapresa dai singoli per attenerla non possono non essere registrati; le esigenze della pace e della cooperazione sorgono spontaneamente nelle menti di molti uomini, man mano che la crudezza della loro condizione si palesa ai loro occhi 5.

Le leggi di natura sono così i precetti razionali - «gli articoli eli pace» li chiama Hobbes - che l'esperienza drammatica dello stato di natura prescrive agli uomini: leggi perché ad esse corrisponde una specifica obbligazione a fare o a non fare, contrariamente al diritto che è invece libertà di fare o di non fare, naturali perché rigorosa­mente inscritte nell'orizzonte dell'esperienza umana e strettamente connesse all'esigenza della conservazione e della difesa della vita. Esse configurano una strategia orientata (prima legge di natura) alla pace, per quanto è possibile sperare di attenerla, o all'alleanza, qualora la prima non sia ottenibile, basata (seconda legge di natura) su una reci­proca rinuncia al diritto a ogni cosa e una reciproca delimitazione della libertà naturale, attraverso regole di cooperazione accettate su base volontaria al cui mantenimento si impegna chiunque le abbia sottoscritte. Queste consistono appunto in un trasferimento di diritti, cioè in una limitazione del proprio diritto naturale a favore di altri che a loro volta fanno altrettanto: esse sono quindi le regole in base alle quali si stringono i contratti o i patti, a cui Hobbes affianca in successione altre regole (nel Leviathan ne sono enunciate diciannove) che, in senso più o meno stretto, a tali contratti o patti danno consi­stenza e durata, da quella che ne prescrive l' adempienza e il rispetto (pacta servanda sunt) a quelle che riguardano l'imparzialità dei giudizi e la necessità del ricorso a testimoni.

Di queste è opportuno sottolineare quella indicata nel Leviathan

5· Cfr. Reale (1991), pp. 87-134·

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come nona (against Pride, contro l'orgoglio) perché forse permette di precisarne il profilo complessivo. La nona legge prescrive infatti l'e­guaglianza: «che ogni uomo riconosca l'altro come suo eguale per na­tura. L'infrangere questo precetto è l'orgoglio» (L, p. 2II, Miche/i, p. 149). Ma solo in parte essa coincide con un consapevole riconosci­mento del dato antropologico fondamentale. «Se la natura - scrive Hobbes - ha fatto gli uomini eguali, quell'eguaglianza deve essere riconosciuta, oppure, se la natura li ha fatti diseguali, non di meno, perché gli uomini che pensano di essere eguali, non entreranno in condizioni di pace, se non a condizioni eguali, tale eguaglianza deve essere ammessa» (L, p. 2u, Miche/i, pp. q8-9). L'accento si sposta sulla proceduralità formale della conformità e sulla opportunità neces­saria di un'ammissione che la sorregga in funzione della reciprocità. Ciò di cui non è possibile misconoscere la razionalità anche da parte di colui che non riconosce l'eguaglianza è appunto la sua ammissio­ne. TI criterio è quello dell'utile. Esse tuttavia non possono costituire le fondamenta di un ordine civile e quindi non possono stare alla base di ciò che Hobbes considera un'autentica filosofia politica. Orientate alla preminenza dei beni futuri sui beni presenti, esse pre­figurano l'assetto normativo che regola la razionalità delle condotte dei singoli in una situazione di sicurezza, ma lasciano irrisolta la que­stione decisiva di quest'ultima.

Se nel De Cive e nel Leviathan nella trattazione delle laws o/ natu­re è certo preponderante un'istanza di sistematizzazione, negli Ele­ments più esplicita è la relazione con la figura del consenso: la prima legge di natura esprime infatti la necessità della pace o in subordine delle alleanze esattamente nella forma-crisi dell'accordo tra molte vo­lontà, l'unica peraltro possibile restando sul piano delle persone natu­rali. Quando Hobbes insiste che le leggi naturali obbligano solo in foro interno, nell'interiorità, intende dire che chiunque può trasgredir­le o rifìutarle senza paura di essere per questo sanzionato da un po­tere che egli deve riconoscere irresistibile. La guerra non cessa e qualsiasi alleanza si presenta a rischio di disfacimento: il sospetto rende vani i patti e nello stato di natura i motivi ragionevoli di diffi­denza non mancano. Quella delle leggi naturali è una morale per tempi di pace.

Cosi è la paura a costituire l'elemento che transita gli uomini dal­lo stato di natura alla condizione civile: non l'aspettativa del futuro, ma l'incombenza presente della morte violenta li spinge a risolversi a implicare o includere le loro volontà non più di singoli con le proprie connotazioni passionali e i propri poteri naturali, ma di individui nel-

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la volontà di un altro individuo, uomo o consiglio che sia, che in forza di ciò è il sovrano 6 •

6.4 Unione civile e costituzione del potere

Il patto che instaura il corpo politico è un patto tra individui che si obbligano reciprocamente nei confronti di un terzo, attribuendo a quest'ultimo tutto il loro diritto naturale, ad eccezione di quanto concerne «la sicurezza personale di un uomo nella sua vita e nei mezzi per preservare la sua vita, in modo tale che essa non gli sia di peso» (L, p. 192, Micheli, p. 128) 7. In questo senso il patto hobbesiano non è il patto con qualcuno, come ad esempio quello che una città stringe con un principe, ma un patto a favore di qual­cuno che quindi non è a propria volta obbligato nei confronti di co­loro che lo contraggono. Allo stesso modo, coloro che stringono il patto non configurano un'unità indipendentemente da questa loro comune attribuzione e quindi indipendentemente da quel qualcuno che così instaurano come loro sovrano. Questi non è un contraente e di conseguenza non può essere revocato per non averne rispettato le clausole. I contraenti da parte loro non sostanziano una realtà unitaria autonoma dal sovrano stesso, capace di opporglivisi o di so­pravvivergli, qualora egli venga meno senza trasmissione legittima. Il patto hobbesiano va ben oltre la generalizzazione del patto signorile costruito sulla relazione protezione/obbedienza: la sicurezza è sì al centro della costruzione politica determinata dal patto, ma a garan­tirla non è la forza naturale del signore, ma quella che a lui è stata attribuita dagli individui. La determinazione signorile del sovrano permane - questi è fuori dalla dimensione obbligativa del patto ed è quindi l'unico nel corpo politico in condizione naturale, anche se di tipo del tutto particolare -, ma viene del tutto rideterminata, ri­nunciando a esaurirne il profilo. Tale formulazione è il frutto di un complesso processo di elaborazione che ha le proprie tappe nelle tre principali opere politiche hobbesiane e il cui centro sta, come si è

6. Cfr. Strauss ( 1936). La paura della morte violenta interviene sia nel calcolo delle strategie autoconservative, sia nelle pretese dell'immaginazione.

7· Richard Tuck nel suo Natura! Rights Theories. Their Origin and Development (Cambridge University Press, Cambridge 1979, pp. ror-r8) ha visto nel riferimento alla sicurezza personale il momento in cui Hobbes inizia a differenziare la propria posizione da quella del cosiddetto T ew Circle al cui interno forte era l'influenza di Selden.

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prima indicato, nel progressivo tentativo di precisare il significato dell'espressione "potere comune".

Una prima accezione di potere comune lo determina come potere su tutti, in un movimento che enfatizza la deterrenza nei confronti dei sudditi e l'esclusività che contraddistingue la disponibilità sovrana della forza. Nella redazione latina del De Cive, potere (power) viene espresso dal termine potestas. T al e disponibilità di forza va tuttavia intesa come trasposizione e concentrazione delle forze in un'unica forza, esattamente nel medesimo senso in cui le volontà di molti uo­mini vengono incluse nella volontà di un solo uomo o di un consi~ glia. Il potere comune deve essere inteso quindi in seconda accezione come il potere dei tutti che costituiscono il corpo politico. Il De Cive latino rende potere in questa accezione come potentia. Saldare queste due determinazioni diventa cosi il problema della costruzione teorica hobbesiana, che si riverbera di continuo nella distinzione tra com­monwealths e domini paterni e dispotici, tra città politiche e città na­turali, infine tra commonwealths per istituzione e commonwealths per acquisizione.

Uno degli elementi che strutturano la narrazione hobbesiana del corpo politico è il tema del trasferimento, trasferimento dei di­ritti e trasferimento delle forze. Negli Elements e nel De Cive lo schema è sostanzialmente identico per entrambi: se il trasferire i propri diritti non può che voler dire spogliarsene o ridurli, il tra­sferimento delle forze (strenghts and power) non può significare al­tro, dato che naturalmente non si dà trasferimento di potere da un uomo a un altro, che la rinuncia al proprio potere di resisten­za. Hobbes è molto preciso nel definire il carattere privativa in cui la sovranità si costituisce: la sottomissione è l'unico possibile "trasferimento" da parte di ciascuno della propria forza, ma esso non può essere inteso come il contenuto d'una promessa o una dichiarazione di valenza simbolica, deve essere un atto e quindi, nell'orizzonte di una natura materialisticamente definita, non può essere che l'evento negativo di una dismissione. Il diritto a coman­dare di chi ha il potere equivale al fatto della contemporanea ri­nuncia da parte di tutti gli altri a quel diritto a resistergli in cui si compendiano tutti i diritti della condizione naturale, fatta eccezione per il diritto alla vita. Ma su questo terreno la distinzione tra ciò che è proprio della costituzione pattizia e ciò che invece pertiene a un esito acquisitivo, ancora segnato naturalisticamente, sfuma irri­mediabilmente. La sottomissione, che per Hobbes è comunque vo­lontaria, a un vincitore che minaccia le nostre vite non sembra

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6. POTERE COMUNE E RAPPRESENTANZA IN THOMAS HOBBES

configurare un'alterità tanto forte da legittimare l'insistenza hobbe­siana su una distinzione che nel comune tratto della mera rinuncia sembra perdere la propria nettezza.

6.5 La rappresentanza

Nel Leviathan il lessico della rappresentazione irrompe nel capitolo xvr, esattamente alla fine della prima parte dedicata all'uomo, in una collocazione architettonica decisamente innovativa. Mentre nel De Ci­ve la sezione sullo stato di natura terminava con la trattazione delle leggi naturali e quella sulla condizione civile iniziava con il patto d'u­nione e la distinzione tra città politica e città naturale, in quello del 1651 è il capitolo xvr (0/ persons, authors and things personated) a svolgere il ruolo di raccordo fra le parti e gli argomenti corrisponden­ti. Riferito ancora alla prima parte dell'opera per il suo carattere di teoria generale delle relazioni di personalità - la nozione di persona è sempre connessa a un riconoscimento e quindi implica una relazione - esso fornisce tuttavia il lessico in cui troverà espressione la tratta­zione dei corpi politici per istituzione. Una riprova la troveremo nella definizione offerta in apertura del capitolo xvm: «Un commonwealth è istituito quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce, ognuno con ogni altro, che qualunque sia l'uomo o l'assemblea di uomini cui sarà dato il diritto di rappresentare la persona di loro tutti, vale a dire a essere il loro rappresentante» (L, p. 228, Micheli, p. 169). Dunque, il termine chiave con cui Hobbes definisce il so­vrano per istituzione è il rappresentante. Non per caso nella conside­razione del sovrano per acquisizione quest'attribuzione in forma di­retta non compare mai, anche se in verità lo schema autore/ attore che lo sottende vi è riproposto. Ma cosa significa essere il rappresen­tante?

Punto di partenza è la definizione di persona, intesa come colui cui riferiamo determinate parole e azioni. Chi agisce a proprio tito­lo viene infatti definito persona naturale, mentre persona finta (/ei­gned) o artificiale è chi, come si esprime la versione latina del Le­viathan, agisce nomine alieno o, come più puntigliosamente precisa la versione inglese, colui le cui parole e azioni sono considerate rap­presentare le parole e le azioni di un altro. La distinzione tra natu­rale e artificiale non ha dunque, riferita al tema della personalità, nulla di "sostanzialistico". Hobbes d rimanda a questo proposito al­l' acting della finzione scenica e della simulazione retorica, introdu­cendoci in una dimensione dove decisivi sono il riferimento e l'a-

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scrivibilità di una concatenazione di parole e azioni, la cui realtà re­sta strettamente collegata all'efficacia concreta di un'attribuzione e di una credenza. TI darsi di una persona artificiale è dunque per Hob­bes strettamente connesso alla dualità della relazione e al riconosci­mento di quest'ultima.

«Le parole e le azioni di alcune persone artificiali sono ricono­sciute come proprie (owned) da coloro che essi rappresentano» (L, p. 2r8, Micheli, p. 156). Il termine owned ha in questo contesto un carattere di assoluta rilevanza. Con esso infatti Hobbes ci rinvia a una dimensione indiscutibilmente proprietaria: l' author è nei con­fronti di parole e di azioni ciò che l'owner (il dominus, colui che ha dominium) è nei confronti di beni e di proprietà, egli le detiene, le riconosce come proprie. Parole e azioni dell'attore sono sue, l'attore parla e agisce in base a un'autorizzazione. È una relazione di diritto quella che Hobbes ci indica, è in base a un diritto che parole e azioni sono "possedute" ed è in base a un diritto che esse sono au­torizzate.

Parole e azioni del rappresentante dunque sono di chi è rappre­sentato, anche se il rappresentante, parlando e agendo, vincola il rap­presentato, nei limiti dell'autorizzazione che da questi ha ricevuto. L ungi dall'essere alienate a favore del rappresentante o dall'essere a lui trasferite, parole e azioni continuano indefettibilmente ad apparte­nere all'autore, anche se ciò non priva affatto l'attore della propria libertà, ma al contrario la costituisce. Nei limiti di quanto autorizza­to, il rappresentante è infatti pienamente libero. Ciò che si determina così è dunque una situazione di doppio legame. È in tale connessio­ne argomentativa che trova definizione la questione di cosa significhi rappresentare non un singolo individuo, ma una pluralità di indivi­dui, una moltitudine.

Consideriamo una persona artificiale che agisca le parole e le azioni di una pluralità di individui. È chiaro che l'unione di coloro che vi appartengono non precede il loro essere rappresentati. Come potrebbe? Come potrebbero altrimenti essere le volontà di molti ti­condotte a una? Naturalmente non c'è qualcosa come il dire e l'agire di una pluralità, perché non c'è alcuna persona naturale cui possano essere ascritti. L'unione di una pluralità di individui non può quindi darsi che nella rappresentazione, cioè nell'attore. L'unità di una mol­titudine è dunque lo stesso che l'unità di colui che, individuo o as­semblea, la rappresenti in quanto persona artificiale, avendo ricevuto il consenso o, meglio, l'autorizzazione da parte di ciascuno e di tutti coloro che così si sono fatti autori del suo dire e del suo agire. Infat­ti, «è l'unità del rappresentante, non del rappresentato, che fa la per-

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sona una» (L, p. 220, Micheli, p. 159). Non c'è personalità se non costituita nel e dal rappresentante: se mi si passa l'espressione, ci tro­viamo di fronte a un caso di produzione di persone artificiali per mezzo di persone artificiali. La relazione è completamente interioriz­zata e così anche il suo riconoscimento. Gli autori "posseggono" an­che qui le parole e le azioni del rappresentante, ma qualcosa di radi­calmente nuovo è accaduto. La distinzione successiva riguarda rap­presentanti che hanno ricevuto un'autorità limitata da restrizioni e rappresentanti che hanno ricevuto un'autorizzazione priva di restri­zioni.

Lo schema della relazione autore/attore, colto all'altezza del rap­presentare senza restrizioni una moltitudine, funziona così a rideter­minare il passaggio in cui si genera un commonwealth. Hobbes insiste sull'irriducibilità di quanto si produce nel patto reciproco nel desi­gnare un uomo o un'assemblea come proprio rappresentante: siamo secondo le sue stesse parole oltre alla concordia e al comune consen­tire. Nascita del potere comune e definizione di una volontà una so­no ora un medesimo atto di autorizzazione di una persona artificiale, i cui atti vanno riconosciuti come atti di ciascuno e la cui volontà e giudizio vanno riconosciuti come volontà e giudizio di ciascuno se­condo un dispositivo che non è per propria logica interna né reversi­bile, né condizionabile. Chi viene autorizzato qui non è in alcun mo­do il contraente di un contratto e quindi di un'obbligazione; ci tro­viamo infatti di fronte a un patto di tutti con tutti, come se ciascuno dichiarasse a ogni altro di autorizzare in tutte le sue azioni - con la sola clausola limitativa della salvaguardia della vita - un uomo o un'assemblea a governarlo, cedendogliene (give up) il diritto. Que­st'uomo o assemblea è il sovrano.

Il patto di unione si determina per questa via come patto di rap­presentanza. Rispetto al testo del De Cive, lo spostamento è ora, dalla dismissione delle forze, espresso nell'abbandono del diritto di resi­stenza, all'autorizzazione del rappresentante che si esprime nella ces­sione a favore di questi del diritto a governare ciascuno da sé le pro­prie parole e le proprie azioni. Come ha scritto efficacemente Jaume, «in un caso si rassegna la propria volontà per cedere il diritto di usare le proprie forze, nell'altro si vuole l'Autorità del rappresentan­te» 8 . Non si rinuncia alle proprie forze, ma si decide di porle lungo un'unica traiettoria, agite da una volontà una e comune. L'autorizza­zione presenta un segno contrario rispetto alla dismissione.

8. L. Jaume, Le vocabulaire de la répresentation politique de Hobbes à Kant, in Zarka (1992), p. 238.

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6.6 Il lavoro della rappresentanza

e la genesi dell'opinione pubblica

Sarebbe tuttavia limitativo ritenere che la vicenda dell'authorzty hob­besiana sia così conclusa e che il passaggio dallo schema della dismis­sione a quello dell'autorizzazione sia solo un diverso modo in cui Hobbes perviene a definire la genesi della forma politica. L' acquisi­zione della determinazione rappresentativa apre infatti nuove pro­spettive sull'insieme della riflessione hobbesiana. Ad esempio, spiazza definitivamente la querelle sulla collocazione storica del patto - sul senso cioè della sua antecedenza alla forma politica - ridandogli la connotazione sua propria di dispositivo logico di legittimazione del­l' ordine civile, il cui interno carattere di evento non è più ricavabile nella sequenza naturalistica delle forme cooperative e acquisitive.

Che ne è degli authors di cui Hobbes ci ha parlato nella prima scansione analitica dell'indagine sull'artificio} person, dopo che l' autho­rzty è passata al rappresentante e, in particolare, al rappresentante so­vrano del commonwealth? Consideriamo, tra i molti nel medesimo senso, un passo del capitolo xxx del Leviathan. Hobbes sta discuten­do l'affermazione che spetta ai sovrani provvedere a buone leggi e si chiede cosa sia una buona legge. In questo contesto leggiamo: «La legge è fatta dal potere sovrano e tutto ciò che è fatto da tale potere è garantito e riconosciuto come proprio da ogni suddito e ciò che ognuno vuole, nessuno può dire sia ingiusto» (L, p. 388, Miche/i, pp. 341-2). Il potere del sovrano, le azioni da lui agite, i suoi comandi non sono solo garantiti (warranted), ma anche posseduti, riconosciuti come propri (owned) dai sudditi e quindi l'importante non è che una legge sia buona, ma che sia una legge in senso proprio - e, come si aggiungerà più avanti, necessaria al bene del popolo e perspicua. Le volontà e le forze che si sono indirizzate al sovrano vengono da lui "restituite" come propria volontà e come propria forza, cioè come leggi. Le leggi sono "parole e azioni" dei sudditi mediate dal sovra­no. L'agire comandato (o concesso) dal rappresentante è lo stesso agire dei sudditi trasformato nella dimensione comune della rappre­sentanza. Questa trasformazione è normazione e non può essere al­tro, dato che senza rappresentante non esiste un agire comune. Lad­dove c'è normazione, là c'è (stata) autorizzazione. L'originarietà del patto di rappresentanza è esattamente laddove si danno azione nor­mate. I sudditi restano dunque sempre authors, la loro authority è quella del sovrano e quella del sovrano è la loro authorzty. Certo, qui la scansione hobbesiana, l ungi dall'offuscarsi, permane in tutta la sua

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forza. L'eccedenza del rappresentante, la sua necessaria e irriducibile determinazione signorile non permettono alcuna semplice circolarità e nelle intenzioni di Hobbes non è affatto secondario ribadire l'irre­sponsabilità e l'incondizionabilità del sovrano, il suo "dovere" di non corrispondere ad alcuna secolare obbligazione. Due ulteriori elementi vengono qui in evidenza.

Il primo è che il grande Leviatano di Hobbes è un gigantesco dispositivo di disciplinamento che si attua per via rappresentativa e la sua vita è un sistema di parole e di azioni normate dalla mediazione del sovrano 9. L'insistenza sul disciplinamento in Hobbes va posta in­nanzitutto a quest'altezza del sistema: ciò ci spiega il prevalere in es­so di un'attitudine essenzialmente inclusiva, diversamente da come sarà per Locke. Il corpo politico non è semplicemente un corpo di­sciplinato, è un corpo disciplinante. Qui l' artificialismo mostra i pro­pri limiti e né la vecchia analogia corporis né il riferimento meccanico possono darne pienamente ragione. Ma proprio in ciò il progetto hobbesiano mostra la propria cifra costituzionale.

Il secondo elemento è strettamente connesso al disciplinamento e riguarda il tema dell'opinione. Il buon governo delle azioni degli uo­mini, dice Hobbes, consiste nel buon governo delle loro opinioni. L'estrema attenzione che egli rivolge al sapere, alla sua organizzazio­ne e alla sua trasmissione - e che trova espressione nelle pagine sulle università - è un indizio sufficiente di quanto prenda sul serio la questione. Se le opinioni dei sudditi e quella del sovrano divergono, si introduce qualcosa di estraneo che alla fine metterà in crisi il rico­noscimento da parte dei sudditi della volontà del rappresentante co­me propria. Tuttavia una coincidenza meramente formale, e in que­sto senso vuota, non può essere, come abbiamo visto, l'ultima parola di Hobbes al riguardo. D'altra parte è impensabile che gli uomini non abbiano opinioni e che queste prima poi non si traducano in azioni. Esse devono dunque "coincidere" con quelle del sovrano: ma ciò cosa vuol dire? Già caduta in ridicolo un'interpretazione "assolu­tistica" di Hobbes, se ne dovrà proporre una "totalitaria"? Con qual­che analogia con le motivazioni per cui è ragionevole pensare che il sovrano hobbesiano segua all'ingrosso le leggi di natura, le medesime che gli uomini a causa delle loro passioni non possono seguire in stato di natura, è ragionevole pensare che le opinioni del sovrano possano ben essere le opinioni dei suoi sudditi, se queste sono state

9· Sulla nozione di disciplinamento è obbligato il riferimento ai vari lavori di Pierangelo Schiera, in primis alla voce corrispondente del suo Vocabolario politico (di­spense aa. 198o-8r, Università di Trento), ora in Schiera (1998).

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ricondotte all'interno delle necessità della pace e dell'ordine civile. Non sono i contenuti immaginativi della persona fisica del rappresen­tante che devono costituire le opinioni dei sudditi, né tanto meno è ammissibile che questi ultimi possano condizionare o limitare il so­vrano.

È ancora una volta qualcosa di nuovo di cui in Hobbes si getta­no le basi: è l'idea di opinione pubblica come spazio che nella condi­zione civile disciplini le opinioni dei singoli e fornisca loro una misu­ra che nella loro diversità le renda compatibili, inscrivendole al pro­prio interno, con il riconoscimento fondamentale che sono loro stessi, tutti e ciascuno, la fonte dell'autorità del rappresentante.

Vita e opere

Thomas Hobbes nasce a Malmesbury, nel sud dell'Inghilterra, nel 1588. Do­po studi di carattere umanistico a Oxford entra al servizio della famiglia Cavendish, iniziando un rapporto destinato a durare pressoché ininterrotta­mente fìno alla sua morte nel 1679. In qualità di precettore per i Cavendish o per loro vicini compie tra il 1610 e il 1638 vari viaggi in Italia, dove si lega agli ambienti galileiani e conosce lo stesso Galileo, e in Francia, dove viene accolto nel mzlieu intellettuale che gravita attorno al padre Mersenne. Nel 1640 scrive la sua prima opera sistematica, gli Elements o/ Law, Natura! and Politic, la cui circolazione manoscritta in ambienti ostili al Parlamento lo induce, dopo le accuse rivolte a Strafford, ad abbandonare - «primo fra tutti» - l'Inghilterra e raggiungere Parigi, in un esilio volontario che durerà undici anni. In questo periodo pubblicherà, su sollecitazione di Mersenne, le Objectiones ad Cartesù Meditationes (1641) e la versione latina del De Cive (1642), che costituisce la seconda scansione di un progetto che troverà com­pimento solo più tardi con la pubblicazione del De Corpore (1655) e del De Homine (1658). Nel 1646 è chiamato a tenere lezioni di matematica al prin­cipe ereditario in esilio, il futuro Carlo II, il cui favore non gli risparmierà la diffidenza di grande parte del partito monarchico in esilio e il sospetto di eresia. La pubblicazione nel 1651, in Inghilterra, dell'edizione inglese del De Cive e del Leviathan trasformerà tale diffidenza in un'aperta ostilità che lo costringe a rientrare in patria alla fìne dello stesso anno. Gli anni successivi lo vedono dedito al compimento del sistema e a un'ampia polemica con il vescovo Bramhall, suscitata dalle reazioni di costui alla pubblicazione dello scritto 0/ Liberty and Necessity (1654). Dopo la restaurazione degli Stuart, nonostante gli sia concessa una pensione da Carlo II, il riemergere dell' accu­sa di eresia lo costringe a studiare, in funzione della propria difesa, la tradi­zione giuridica inglese: in questo contesto nel 1666 scrive An Historical Nar­ration Concerning Heresy e il Dialogue between a Philosopher and a Student o/ the Common Law o/ England. Nel 1670 esce la versione latina del Leviathan che tuttavia solo in parte sembra essere successiva alla versione inglese del

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6. POTERE COMUNE E RAPPRESENTANZA IN THOMAS HOBBES

1651. Sempre agli inizi degli anni Settanta appartiene la stesura del Behe­moth, un dialogo sull'esperienza delle guerre civili, che sarà pubblicato postu­mo.

L'edizione di riferimento è ancora quella curata da sir W. Molesworth: The English Works, II voll. e Opera phzlosophica quae latine scripsit omnia, 5 voll., J. Bohn, London 1839-45. Un'edizione critica delle opere hobbesiane è ini­ziata per i tipi della Clarendon Press di Oxford; di essa sono finora disponi­bili le due versioni del De Cive (a cura di H. Warrender, 1983) e i due volumi di The Correspondence o/ Thomas Hobbes (a cura di N. Malcom, 1994). Un'edizione completa del corpus hobbesiano in traduzione francese è in corso di pubblicazione presso Vrin, Paris, sotto la direzione di Y.-C. Zarka.

Nella stesura di questo capitolo sono state utilizzate le seguenti edizioni di singole opere:

Human Nature and De Corpore Politico (The Elements of Law, Natura! and Politic), ed. by J. C. A. Gaskin, Oxford University Press, Oxford 1994 (citato come E).

De Cive. The Latin Version, a cura di H. Warrender, Clarendon Press, Ox­ford 1983 (citato come LDC).

De Cive. The Englùh Version, ed. by H. Warrender, Clarendon Press, Oxford 1983 (citato come EDC).

Leviathan, ed. by C. B. MacPherson, Pelican Books, Harmondsworth 1968 (citato come L).

Sono state inoltre usate le seguenti traduzioni italiane:

Elementi di legge naturale e politica, a cura di A. Pacchi, La Nuova Italia, Firenze 1968 (citato come Pacchi).

Elementi filosofici sul cittadino in Th. Hobbes, Opere politiche a cura di N. Bobbio, UTET, Torino 19592 (citato come Bobbio).

Leviatano, a cura di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976 (citato come Miche/i).

Per il testo del Leviathan si è tenuta presente anche l'edizione francese cura­ta da F. Tricaud, Sirey, Paris 1971. Nei passi citati le traduzioni sono state talvolta leggermente modificate.

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