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397 INFANZIA E MINORI: QUALE WELFARE EDUCATIVO? Fiorenzo Parziale - Agenzia Umbria Ricerche 1 L’educazione dei figli esige un tono estremamente serio, estremamente semplice e sincero. In queste tre qualità deve risiedere la sostanza della vostra vita. La più insignificante aggiunta di falsità, di artificiosità, di leggerezza, condanna il lavoro educativo all'insuccesso. (A. Gramsci) L’obiettivo di questo contributo è esaminare il modello sociale umbro sul versante degli interventi e servizi per l’infanzia ed i minori. Tali interventi e servizi costituiscono un campo del welfare italiano di crescente rilevanza: il welfare educativo 2 (Parziale, 2012). Infatti, si può notare che, nonostante il progressivo dualismo della protezione sociale tra lavoratori stabili e precari (Blossfeld, Buchholz, Hofäcker, Bertolini, 2012), si è registrato un rafforzamento nell’ultimo decennio dei servizi educativi, almeno di quelli rivolti alla prima infanzia. Studi pedagogici (Del Boca, Pasqua, 2010) e sociologici (Esping-Andersen, 2005), e diverse istituzioni internazionali (OCSE, ONU, etc.), sostengono la natura di investimento sociale di questi servizi perché, prima ancora che alimentare la domanda aggregata, sul lato economico, e ridefinire i carichi di lavoro domestico tra i generi, sul lato socio-culturale, essi agirebbero positivamente sulle abilità cognitive dei bambini, contrastando la riproduzione delle diseguaglianze di classe nell’istruzione e nella mobilità sociale (Barone, 2012). Non solo, tali interventi eserciterebbero anche un’azione preventiva rispetto al disagio sociale (dispersione scolastica, disoccupazione, riproduzione della deprivazione economica, devianza, etc.). Nel caso specifico italiano, le politiche familiari e di assistenza sociale, tradizionalmente a bassa legittimazione e di tipo residuale (Saraceno, 2003), possono essere re-inquadrate in buona parte come componenti del welfare educativo. Se si procede in tal senso, lo sguardo si sposta dalla dimensione assistenziale a quella educativa: i destinatari degli interventi non sono tanto i care giver (in particolare le donne), secondo una logica che attribuisce una certa importanza anche ai trasferimenti monetari, quanto i minori, in un’ottica di servizio più confacente all’intera filiera educativa. 1 Si desidera ringraziare per il loro supporto Claudio Carnieri Presidente dell’AUR e Maria Speranza Favaroni della Regione Umbria. Ovviamente la responsabilità scientifica di quanto scritto è completamente dell’autore. 2 Per l’esame della genealogia del welfare educativo su scala nazionale e regionale, e in particolare nell’ambito “infanzia e minori”, si rimanda ad AUR&S, 11-12, 2015.

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INFANZIA E MINORI: QUALE WELFARE EDUCATIVO? Fiorenzo Parziale - Agenzia Umbria Ricerche1

L’educazione dei figli esige un tono estremamente serio,

estremamente semplice e sincero. In queste tre qualità deve risiedere

la sostanza della vostra vita. La più insignificante aggiunta di falsità,

di artificiosità, di leggerezza, condanna il lavoro educativo all'insuccesso.

(A. Gramsci) L’obiettivo di questo contributo è esaminare il modello sociale umbro sul versante degli interventi e servizi per l’infanzia ed i minori. Tali interventi e servizi costituiscono un campo del welfare italiano di crescente rilevanza: il welfare educativo2 (Parziale, 2012). Infatti, si può notare che, nonostante il progressivo dualismo della protezione sociale tra lavoratori stabili e precari (Blossfeld, Buchholz, Hofäcker, Bertolini, 2012), si è registrato un rafforzamento nell’ultimo decennio dei servizi educativi, almeno di quelli rivolti alla prima infanzia. Studi pedagogici (Del Boca, Pasqua, 2010) e sociologici (Esping-Andersen, 2005), e diverse istituzioni internazionali (OCSE, ONU, etc.), sostengono la natura di investimento sociale di questi servizi perché, prima ancora che alimentare la domanda aggregata, sul lato economico, e ridefinire i carichi di lavoro domestico tra i generi, sul lato socio-culturale, essi agirebbero positivamente sulle abilità cognitive dei bambini, contrastando la riproduzione delle diseguaglianze di classe nell’istruzione e nella mobilità sociale (Barone, 2012). Non solo, tali interventi eserciterebbero anche un’azione preventiva rispetto al disagio sociale (dispersione scolastica, disoccupazione, riproduzione della deprivazione economica, devianza, etc.). Nel caso specifico italiano, le politiche familiari e di assistenza sociale, tradizionalmente a bassa legittimazione e di tipo residuale (Saraceno, 2003), possono essere re-inquadrate in buona parte come componenti del welfare educativo. Se si procede in tal senso, lo sguardo si sposta dalla dimensione assistenziale a quella educativa: i destinatari degli interventi non sono tanto i care giver (in particolare le donne), secondo una logica che attribuisce una certa importanza anche ai trasferimenti monetari, quanto i minori, in un’ottica di servizio più confacente all’intera filiera educativa.

1 Si desidera ringraziare per il loro supporto Claudio Carnieri Presidente dell’AUR e Maria Speranza Favaroni della Regione Umbria. Ovviamente la responsabilità scientifica di quanto scritto è completamente dell’autore. 2 Per l’esame della genealogia del welfare educativo su scala nazionale e regionale, e in particolare nell’ambito “infanzia e minori”, si rimanda ad AUR&S, 11-12, 2015.

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In questa prospettiva, il welfare educativo non copre tutte le politiche assistenziali, non riguardando ad esempio l’assistenza agli anziani o ai disabili in quanto tali3, e si intreccia con uno dei due pilastri universalistici del welfare italiano: l’istruzione. Si possono individuare 5 sfere del welfare educativo che rendono più chiara la sua definizione come “insieme degli interventi e dei servizi che concorrono all’educazione ampiamente intesa delle persone al fine della loro inclusione sociale”. Le sfere sono: servizi per la prima infanzia, scuola, servizi di inclusione sociale ed educativa dei minori (ossia interventi che vanno dall’adozione all’integrazione sociale dei minori provenienti da ambiti familiari svantaggiati, all’inclusione scolastica di disabili e stranieri), università-formazione terziaria (in particolare le misure relative al diritto allo studio), apprendimento permanente (formazione professionale per inoccupati e disoccupati, formazione continua dei lavoratori, educazione degli adulti). Date le finalità di questo lavoro, l’attenzione è rivolta solo alle prime 3 sfere, tutte legate al tema infanzia e minori, concentrando l’attenzione sul caso umbro nel più ampio panorama nazionale. Il buon funzionamento del welfare educativo richiede l’attivazione di efficaci processi di governance, ossia l’adozione di pratiche di coordinamento e collaborazione quantomeno tra più livelli istituzionali (UE, Stato, Regioni, enti locali), se non tra più attori (si pensi al ruolo del variegato Terzo Settore). Questa è la visione di fondo della legge quadro 328/2000, che costituisce il perno giuridico dell’architettura istituzionale in materia di politiche sociali, quando queste richiedono una organizzazione su scala territoriale. Infatti, la configurazione del welfare educativo, e il suo orientamento pubblico-universalista, dipende molto dal contesto locale. Di conseguenza, per l’esame del welfare educativo è utile fare ricorso alla c.d. prospettiva di political economy declinata secondo la dimensione locale (Bagnasco, 2012). In realtà, questo discorso riguarda un po’ tutto il welfare, non solo quello educativo: le pressioni internazionali e nazionali verso un contenimento della spesa pubblica possono avere, almeno in parte, esiti differenti. La posta in gioco è, su scala locale, un restringimento, un allargamento o, quantomeno, una resistenza al contenimento esplicito del welfare state nazionale. Ciò vale soprattutto in un contesto di crisi economica come quello attuale: l’esito prevalente sembra essere il ridimensionamento, tuttavia laddove la capacità fiscale della società locale mostra una maggiore forza non si può escludere un’innovazione istituzionale dalle ricadute interessanti in merito al menzionato dibattito sull’investimento sociale. Nel campo delle politiche sociali, dunque, si mostra evidente come l’intensificazione della globalizzazione economica sia correlata a processi di regionalizzazione (Arrighi, 2003), che vedono le società locali (Bagnasco, Negri, 1994) assumere una rilevanza maggiore di quella conosciuta durante il periodo di espansione del welfare keynesiano (1945-1975) e forse anche nel corso dei primi quindici anni (per semplificare, fino ai primi anni Novanta) di regolazione neo-liberale4 (Harvey, 2002). La variabilità territoriale è questione a un tempo

3 È ovvio che nel caso dei minori disabili, invece, le prestazioni e gli interventi loro rivolti assumono una connotazione educativa rilevante: si pensi alla costruzione di progetti di inclusione e riconoscimento delle diversabilità nella scuola dell’infanzia e nei successivi ordini e gradi di istruzione, oppure all’assistenza domiciliare. In casi come questi gli interventi sono strumento di ridefinizione delle relazioni sociali non solo per i minori disabili ma per tutti coloro (parenti, amici, colleghi, etc.) che condividono spazi e contesti d’azione con i primi. 4 Infatti, gli effetti (come la regionalizzazione dei sistemi di welfare) di processi sociali (come l’intensificazione della globalizzazione economica) necessitano sempre di un certo, e variabile, lasso temporale per potersi dispiegare e poi essere riconosciuti dagli attori, ricercatori compresi. A questo proposito solo in questi ultimi

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nuova, che fa emergere preoccupazioni sulla tenuta del welfare nazionale, ma anche di vecchia data, soprattutto quando l’analisi si sofferma sull’ambito di nostro interesse. Infatti, caso esemplare della territorializzazione del welfare è costituito proprio dall’organizzazione dei servizi e interventi per l’infanzia e i minori: essi storicamente si contraddistinguono in Italia per l’elevata differenziazione territoriale, con le regioni del Nord-Est-Centro (NEC), e più in generale del Centro-Nord, che tendenzialmente hanno mostrato su più aspetti un grado di efficacia maggiore in questo ambito del welfare. Alla luce di queste considerazioni, l’esame del modello sociale umbro assume una particolare rilevanza, sia per la collocazione periferica della regione rispetto al NEC, sia per l’elevato investimento nell’istruzione ed educazione che fa dell’Umbria una delle regioni all’avanguardia in questo campo. Breve quadro storico-normativo sullo sviluppo del welfare educativo

Il tema della cura dei minori e dei diritti dell’infanzia è stato riconosciuto di fatto solo recentemente da parte del sistema di welfare italiano. Ad inizio Novecento l’infanzia non era ancora considerata un tema rilevante nel nostro Paese e il problema dell’educazione dei minori era inquadrato all’interno di una concezione tradizionalista della famiglia. Le politiche di questo ambito erano inizialmente indirizzate alle “madri inadempienti”, spesso lavoratrici in fabbrica, e ai ceti poveri: buona parte della popolazione - con l’eccezione delle famiglie dell’alta borghesia che potevano ricorrere al mercato dei servizi domestici - provvedeva all’educazione e cura dei figli prevalentemente all’interno della famiglia (Saraceno, 2003). La cura di infanti e minori si configurava come problema che ostacolava la piena valorizzazione della forza lavoro femminile nel processo produttivo; di qui l’impegno di alcuni industriali a favore di iniziative paternaliste in direzione di una prima forma di welfare aziendale. Questa logica d’azione ha permeato anche l’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia) sotto il regime fascista, quando furono istituiti i primi asili nido. La visione che anteponeva il benessere della famiglia a quello dei singoli componenti è stata scalfita dal quadro normativo post-bellico prima con la legge 860/1950, poi con le leggi 685/1967 e 1044/1971. Tuttavia, soprattutto per effetto dell’ultima legge, veniva confermata la bipartizione tra la sfera della prima infanzia, ritenuta un ambito di interesse privato, e la sfera scolastica, considerata perno del sistema di welfare. Prima ancora delle riforma sanitaria (1978) il welfare italiano mostrava il suo volto universalista solo nella scuola, mantenendo invece un impianto corporativo e categoriale negli altri settori. Tra l’unificazione della scuola media (legge 1859/1962) e la liberalizzazione dell’accesso universitario (legge 910/1969) si affermava intanto la scuola dell’infanzia, allora detta materna (la denominazione è cambiata nel 1991). Pur traendo origine dagli enti assistenzialistico-religiosi, dai Comuni e dalle iniziative private, e dal successivo D.R. 1054/1923, essa si configurava in senso moderno ed universalistico con la legge 444/1968. Dopo la legge 1044/1971 si è registrato per i servizi della prima infanzia (nella sostanza gli asili nido) un “buco normativo” e le vere protagoniste sono diventate le Regioni del Centro-Nord, anche perché diversi Comuni avevano già sperimentato nel corso della prima metà del Novecento varie forme di servizi socio educativi rivolti ai bambini di età inferiore ai 3 anni.

anni si sta facendo più chiara la comprensione del mutamento sociale verificatosi in seguito al passaggio dal modello di regolazione fordista-keynesiano a quello post-fordista-neoliberale, avviatosi circa 40 anni fa.

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In pieno sviluppo del welfare keynesiano, dunque, una parte considerevole delle politiche per infanzia e minori veniva declinata in senso locale, riproducendo il tradizionale divario economico territoriale ed evidenziando al tempo stesso le specificità di società regionali come quella umbra. Solo a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo si è pervenuti davvero al pieno riconoscimento dei minori (anche nei primi anni di età) come soggetti del welfare, anche grazie alla legge pionieristica 285/1997 e alla legge 328/2000, che organizza ancora oggi in forma integrata il sistema dei servizi sociali, con una particolare area dedicata a infanzia e minori. La riforma del Titolo V della Costituzione (L. 3/2001) ha portato in parte a rivedere il sistema di governance inizialmente ideato, rafforzando il ruolo programmatore delle Regioni e in un certo senso favorendo le specificità delle società locali. Sulla base del quadro normativo nazionale degli ultimi anni5 i servizi per la prima infanzia assumono una finalità educativa per i minori di massimo 3 anni e sono considerati interventi appartenenti a una materia a cavallo tra istruzione e tutela del lavoro. Restano così in campo problemi importanti come l’ambiguo statuto di questi servizi in termini di diritti sociali universalistici, avendo l’offerta una copertura non piena ed esistendo graduatorie di accesso che, in un contesto di scarsità di risorse, sono attente a dare priorità ai minori disabili e a quelli provenienti da famiglie monogenitoriali e/o da ambienti socioeconomici svantaggiati. Le leggi 42/2009 e 135/2012 ribadiscono il ruolo centrale delle amministrazioni comunali e più in generale delle società locali nella gestione e organizzazione dei servizi per la prima infanzia. In verità, questa logica anima, sebbene con gradienti differenti, anche le altre due componenti di nostro interesse. Infatti, la scuola risulta l’area più colpita dai tagli lineari alla spesa pubblica degli ultimi quindici anni (Ascoli, Pavolini, 2012). Questo aspetto è rilevante non solo perché è stato indebolito uno dei due pilastri universalistici del nostro welfare, ma anche perché oggi l’istituzione scolastica deve far fronte da un lato a una domanda sociale più consapevole, che concorre ad alimentare lo sviluppo dei servizi per la prima infanzia, dall’altro lato alla diversificazione degli alunni, dati gli importanti cambiamenti socio-demografici. Le diseguaglianze sociali e territoriali che emergono dai risultati delle prove OCSE costituiscono la cartina di tornasole di queste difficoltà. Il funzionamento del sistema scolastico così varia a seconda della capacità della società locale di garantire risorse economiche, cognitive, sociali aggiuntive a quelle nazionali (Parziale, 2013), essendo a loro volta le singole scuole investite dalla logica manageriale e di mercato (Benadusi, Serpieri, 2000; Serpieri, 2013). Ancora più centrale è la dimensione locale nel garantire i servizi di integrazione sociale dei minori, la componente più povera, residuale, del welfare educativo. L’analisi di questa sfera rivela l’arretramento del raggio d’azione dello Stato nelle politiche sociali: l’assenza di un welfare universalista e robusto è tra i fattori che concorrono alla marginalità sociale di interi nuclei familiari, con i minori che sono i primi a scontare alti livelli di povertà materiale e culturale. L’importanza della dimensione territoriale del welfare educativo è segnalata proprio da casi come quello umbro. Questa regione in sessant’anni ha visto il passaggio da un contesto rurale e arretrato - con una percentuale di analfabeti inferiore solo al Mezzogiorno nel 1951 - ad una struttura sociale moderna, caratterizzata dai più alti livelli di istruzione della popolazione nel panorama nazionale (Parziale, 2013, op. cit.). 5 Per un esame più dettagliato si rimanda ancora al n. 11-12 dell’AUR&S 2015.

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Questo cambiamento è frutto di un modello sociale che ha dato largo spazio all’educazione come uno dei motori di sviluppo regionale. Guardando alla Toscana e soprattutto all’Emilia-Romagna, nel secondo dopoguerra l’Umbria ha provato a puntare sull’espansione, diversificazione e integrazione dei servizi per l’infanzia (Cipollone, 2001), concependo questi ultimi come strettamente connessi alla filiera dell’istruzione e al tempo stesso come strumenti peculiari per la loro capacità di produrre competenze utili al “fare società”. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta in seno alla società umbra si è sviluppata una forte sensibilità per l’organizzazione di servizi socio-educativi territoriali. L’orientamento di fondo consisteva nel fondare il saper fare (ed essere) degli educatori sulla messa in comunicazione e innovazione dei modelli educativi delle famiglie, l’ascolto delle esigenze dei bambini e l’arricchimento della base cognitiva, scientifica, dei pedagogisti. È in quegli anni che da diversi ambienti, intellettuali, sindacali, politici sono sorte iniziative di revisione e sviluppo della sfera pubblica, a partire dall’innovazione dei processi educativi. Non a caso a Terni, per iniziativa dell’amministrazione provinciale, è nato il Saposs, il Servizio per l’aggiornamento permanente degli operatori scolastici e per la sperimentazione pedagogica volta ad arricchire e ridefinire i paradigmi educativi nella scuola (Carnieri, 2012)6. La stessa istituzione della Regione, sin da subito orientata a un modello organizzativo che valorizzasse i saperi e le esperienze municipali, ha tratto linfa da questa particolare sensibilità per l’infanzia e i minori: essa costituisce oggi la matrice dell’emergente welfare educativo umbro. In questo clima la produzione normativa regionale si è caratterizzata fin dall’inizio per l’orientamento alla professionalizzazione di questo segmento del welfare e per il riconoscimento, in anticipo rispetto alle dinamiche nazionali, dei minori come veri destinatari dei servizi per l’infanzia. I servizi socio-educativi per l’infanzia sono stati organizzati non solo in maniera flessibile, puntando alla diversificazione e anche alla sperimentazione (già la l. 30/1987 prevedeva la presenza di asili nido nelle scuole materne), ma anche rivolgendoli a più coorti di età. È in quest’ottica che va interpretata la legge regionale 30/2005 che disciplina oggi7 il sistema integrato dei servizi socio-educativi per la prima infanzia, stabilendo - tra le altre cose - tipologia dell’offerta e profili professionali. Sul primo versante si asserisce che il nido d’infanzia è un servizio di interesse pubblico aperto ai bambini di 3-36 mesi per non più di 10 ore giornaliere, mentre vi sono 2 tipi di servizi integrativi, articolati in forme ludiche ed educative per non più di 3 ore giornaliere, a cui possono partecipare anche gli adulti, e cioè i centri per bambine e bambini ed i centri per bambine, bambini e famiglie. A questi si aggiungono i servizi sperimentali, disciplinati dal regolamento regionale 13/2006, quali: gli spazi gioco (per bambini tra i 12 e i 60 mesi), i centri ricreativi (per bambini dai 3 anni in su), le sezioni integrate tra nido e scuola dell’infanzia (per bambini tra i 24 e i 36 mesi), i servizi di sostegno alle funzioni genitoriali, i nidi e i micronidi aziendali e interaziendali8. La variazione dei destinatari a seconda dei servizi e le possibilità di integrazione formale con la scuola 6 Molte sono state le iniziative di intellettuali e professionisti dell’educazione in Umbria, tra le quali vanno annoverate le riviste “Junior”, diretta da Ferruccio Cremaschi, e “Albero ad elica”, diretta da Franco Frabboni, Carlo Paglierini, Carmelo Piu, Giuseppe Trebisacce, sulla scia dell’azione di intellettuali come Gianni Rodari. Per una più puntuale ricognizione si rinvia a Carnieri (2012). 7 La legge ha subito una serie di integrazioni, le ultime due sono inserite nella legge regionale 1/2013 e sono relative al meccanismo dell’autorizzazione e a quello dell’affidamento dei servizi a terzi. 8 La legge 30/2005 all’art. 5 stabilisce che gli enti locali possono promuovere altre forme sperimentali, previa autorizzazione.

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dell’infanzia (tramite la cooperazione professionale degli educatori e la costruzione di progetti educativi appositi, nel caso delle sezioni integrate tra asilo nido e scuola dell’infanzia) costituiscono aspetti di promozione della continuità dei servizi socio-educativi9. A questo proposito il comma 4 dell’articolo 5 della legge, insieme all’art. 6, sostiene che il Piano triennale regionale promuove l’integrazione tra scuola e servizi socio-educativi: questo è un aspetto di per sé importante, ma acquisisce maggiore rilevanza se letto alla luce della legge regionale 7/2009, che è orientato alla costruzione di un sistema formativo integrato con l’intento dichiarato di sostenere lo sviluppo della persona10. I servizi per la prima infanzia

Descritto il contesto nel quale hanno preso forma servizi e interventi rivolti all’infanzia e ai minori su scala nazionale e regionale, è possibile ora esaminare i 3 ambiti della nostra analisi per poi definire i contorni del welfare educativo in Umbria. Stando ai dati sulla spesa sociale dei comuni, i servizi per l’infanzia assorbono nel 2010 quasi il 50% delle risorse che i Comuni umbri destinano all’area “Famiglia e Minori” nell’organizzazione degli interventi di welfare locale: 22,2 milioni di euro su 46,2 complessivi, senza considerare l’integrazione finanziaria delle Asl che si tiene però relativamente bassa in questa regione. Solo nel Centro Italia complessivamente inteso questo tipo di spesa assume un’incidenza maggiore che in Umbria (tab. 1). Dal 2004 al 2010 in valori assoluti questa spesa è aumentata del 72,9% nel Centro Italia, del 52% nel Nord Est e del 50% in Umbria (dopo l’exploit dell’83,5% nel 2007), mentre l’incremento è stato del 21,4% nel Nord Ovest, del 39,8% al Sud e del 33,3% nelle Isole. Tab. 1 - Incidenza dei servizi per l’infanzia sulla spesa sociale dei comuni complessiva e su quella destinata all’area “Famiglia e Minori” dal 2004 al 2010. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

% Servizi infanzia su spesa socialeAree 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 Umbria 23,4 23,6 24,9 38,0 26,6 25,7 25,7 Nord Ovest 15,6 14,4 14,4 14,8 15,3 15,1 15,2 Nord Est 14,6 15,1 15,8 16,0 16,3 17,2 17,1 Centro 21,6 23,3 23,9 23,2 24,5 23,9 25,9 Sud 9,9 6,9 8,3 8,3 9,8 9,5 10,1 Isole 13,1 13,1 12,4 11,8 12,7 12,2 12,0 Italia 15,8 15,7 16,0 15,9 16,8 16,7 17,2

% Servizi infanzia su spesa sociale per “Famiglia e Minori”Aree 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 Umbria 52,8 51,8 52,7 76,7 50,1 47,5 48,1 Nord Ovest 39,7 37,7 36,9 36,9 37,6 37,4 38,5 Nord Est 41,0 44,4 45,8 45,5 44,9 46,6 47,1 Centro 56,0 56,6 56,8 56,7 56,7 56,5 60,0 Sud 21,3 15,8 19,0 19,6 22,6 21,8 22,7 Isole 31,9 31,4 33,1 31,7 32,4 34,3 34,3 Italia 40,6 40,7 41,3 40,9 41,7 42,1 43,6

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati

9 In tale direzione si possono muovere, sebbene solo in chiave indiretta e informale, servizi sperimentali come lo spazio gioco: si tratta, infatti, di un luogo che può rafforzare la socializzazione e l’incontro tra bambini di età differente e incoraggiare così i genitori a un uso più intenso dei servizi per l’infanzia. 10 Il quadro normativo umbro si caratterizza per la particolare attenzione data alle figure professionali che animano l’emergente welfare educativo su scala regionale e locale. Si rimanda ad AUR&S 11-12, 2015.

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Nel 2011 la spesa dei Comuni umbri è cresciuta ulteriormente: basti pensare che solo per gli asili nido sono stati impegnati 23,3 milioni di euro, mentre questa cifra è scesa a 21,5 milioni nel 2012, ai quali si aggiungono 1,2 milioni di euro per i servizi integrativi/innovativi per un totale di 22,7 milioni. La quota umbra sulla spesa complessiva dei comuni italiani riservata ai servizi per l’infanzia è passata, però, dall’1,9% del 2011 all’1,7% dell’anno successivo. Se si considera solo la spesa per gli asili nido, nel 2011 la quota di compartecipazione degli utenti risulta in linea con la media nazionale ed è inferiore a quella richiesta nel Nord del Paese, mentre la copertura territoriale del servizio, la presa in carico e la percentuale di comuni attivatori di asili nido si mostrano inferiori solo al Nord Est: il 90,8% dei bambini umbri di età inferiore ai 3 anni vive in quel 55,4% di comuni dotati di asili nido e il 19,1% di loro ne fruisce (tab. 2.a). Tab. 2.a. - Indicatori di spesa e di performance degli asili nido al 31/12/2011. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

ASILI NIDO (a)

Utenti Spesa

impegnata dai comuni

(euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla spesa

Valori medi per utente Indice di copertura

territoriale del servizio (per

100 bambini 0-2 anni

residenti nella regione

(c)

Indicatore di presa in

carico degli utenti (per

100 bambini 0-2 anni (d)

Percentuale di comuni coperti dal

servizio

Spesa media

dei comuni

per utente (euro)

Comparte-cipazione

media degli utenti

Umbria 4.605 23.218.601 18,7 5.042 1.156 90,8 19,1 55,4 Nord Ovest 64.994 324.094.534 23,7 4.987 1.547 86,7 14,3 52 Nord Est (b) 57.100 329.405.543 21,8 5.769 1.604 93,7 17,1 82,6 Centro 54.141 432.859.620 15,1 7.995 1.424 85,7 16,4 46,6 Sud 13.908 73.694.626 13,4 5.299 818 52,9 3,5 24,3 Isole 11.422 85.336.646 8,9 7.471 732 67 6,1 20,2 Italia (b) 201.565 1.245.390.969 18,8 6.179 1.434 77,7 11,8 48,1

(a) questa voce comprende sia le strutture che le rette per gli asilo nido (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) percentuale di bambini 0-2 anni (meno di 36 mesi) che risiede nei comuni in cui vi sono gli asili (d) utenti per 100 bambini di 0-2 anni (meno di 36 mesi) Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei Comuni singoli e associati La copertura territoriale degli asili nido per l’anno 2011 risulta molto alta: meno del 10% dei bambini non ha l’asilo nido nel proprio comune di residenza. Tuttavia, quest’aspetto potrebbe essere migliorato considerando lo svantaggio che scontano le famiglie residenti nei comuni meno densamente abitati, più marginali in termini di dotazione di servizi collettivi e al tempo stesso distanti dai centri meglio serviti. Non solo, i dati più recenti del 2012 segnalano un’incrinatura significativa della capacità inclusiva del welfare umbro in merito all’offerta degli asili nido. Infatti, da quanto pubblicato il 29 luglio del 2014 dall’Istat (Fonte: rilevazione sull’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia11), la presa in carico è scesa di 5,3 punti percentuali, fermandosi al 13,8% (tab. 2.b). In un contesto di non elevata spesa dei Comuni, l’organizzazione sociale umbra sembra sopperire alle difficoltà provenienti dalle minori risorse iniziali a disposizione ricorrendo a una logica d’azione che punta al compromesso/equilibrio tra 11 La più recente pubblicazione dell’Istat sull’offerta di asili nido e servizi integrativi/innovativi non riporta i dati relativi alla copertura territoriale, aspetto presente nella rilevazione sulla spesa sociale dei comuni.

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efficienza ed efficacia. Tuttavia, nel 2012 ciò non sembra più verificarsi e si assiste a una contrazione dell’offerta. Uno dei principali tratti dell’organizzazione umbra dei servizi per l’infanzia è la flessibilità, che si manifesta nella maggiore attivazione, rispetto al contesto nazionale, dei servizi integrativi o innovativi. Ciò permette di raggiungere a costi più contenuti una quota aggiuntiva di bambini. Tab. 2.b. - Indicatori di spesa e di performance degli asili nido al 31/12/2012. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

ASILI NIDO (a)

Utenti Spesa

impegnata dai comuni (euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla spesa

Valori medi per utente Indicatore di presa in carico

degli utenti (per 100

bambini 0-2 anni (c)

Percentuale di comuni coperti

dal servizio

Spesa media dei comuni per utente

(euro)

Comparte-cipazione

media degli

utentiUmbria 3.165 21.499.500 19,3 6.793 1.625 13,8 53,3 Nord Ovest 63.192 347.954.245 23,0 5.506 1.646 14,6 60,9 Nord Est (b) 55.085 330.730.733 22,1 6.004 1.703 17,3 76,3 Centro 54.811 422.275.601 16,5 7.704 1.524 17,5 49,5 Sud 13.536 74.358.842 12,9 5.493 810 3,6 22,5 Isole 12.081 83.926.349 8,5 6.947 648 6,8 31,7 Italia (b) 198.705 1.259.245.770 19,2 6.337 1.511 12,3 50,7

(a) questa voce comprende sia le strutture che le rette per gli asilo nido (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) percentuale di bambini 0-2 anni (meno di 36 mesi) che risiede nei comuni in cui vi sono gli asili Fonte: Istat, Indagine su “L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012-2013” La spesa media per utente dei servizi integrativi o innovativi è nel 2011 di 1.727 euro, circa 3 volte in meno degli asilo nido (5.042 euro, sempre nel 2011), rispetto ai quali la quota di compartecipazione degli utenti scende di 6 punti percentuali (12,7% vs 18,7%). L’Umbria comunque eccelle nel 2011, rispetto al contesto nazionale, per capacità di posizionare i servizi integrativi, infatti questi sono collocati in comuni in cui vivono complessivamente quasi i tre quarti dei destinatari. Stesso discorso vale per l’attivazione istituzionale: quasi un terzo dei Comuni presenta questi servizi; si tratta di un valore superiore al doppio dell’analogo nazionale e di oltre 10 punti percentuali superiore al dato del Nord Est, l’area più attrezzata nel welfare educativo per i minori. I fruitori sono solo il 4% della domanda potenziale, ma si tratta comunque di un valore molto più alto di quello registrato complessivamente nelle varie zone del Paese (tab. 3.a). Analoga in termini relativi è la situazione nel 2012. Infatti, l’Umbria mostra una presa in carico dei servizi integrativi e innovativi superiore al doppio di quella nazionale e alle diverse aree geografiche; discorso simile vale per la capacità di attivazione dei comuni. Se si approfondisce l’analisi, però, il quadro si mostra decisamente mutato rispetto all’anno precedente: la compartecipazione media degli utenti è cresciuta, mentre la diffusione stessa dei servizi e la presa in carico si sono ridotte. In merito all’ultimo punto si è passati dal 4% al 2,6% di bambini fruitori di questi servizi (tab. 3.b).

405

Tab. 3.a - Indicatori di spesa e di performance dei servizi integrativi o innovativi al 31/12/2011. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

SERVIZI INTEGRATIVI O INNOVATIVI PER LA PRIMA INFANZIA (a)

Utenti

Spesa impegnata

dai comuni (euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla spesa

Valori medi per utente Indice di copertura

territoriale del servizio

(per 100 bambini 0-2

anni residenti nella regione

(c)

Indicatore di presa in

carico degli utenti (per

100 bambini 0-2 anni (d)

Percentuale di comuni coperti dal

servizio

Spesa media dei

comuni per

utente (euro)

Comparte-cipazione

media degli utenti

Umbria 957 1.652.905 12,7 1.727 251 74,6 4,0 32,6 Nord Ovest 11.260 17.075.271 9,8 1.516 165 42,3 2,5 16,7 Nord Est (b) 6.984 14.777.149 20,2 2.116 536 40,0 2,1 22,5 Centro 5.478 12.667.133 20,3 2.312 590 52,3 1,7 17,9 Sud 2.679 3.317.592 10,1 1.238 139 27,0 0,7 16,1 Isole 1.516 2.520.025 11,3 1.662 212 23,8 0,8 10,7 Italia (b) 27.917 50.357.170 15,9 1.804 341 38,2 1,6 17,1

(a) in questa categoria rientrano i micronidi, i nidi famiglia e i servizi integrativi per la prima infanzia (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) percentuale di bambini 0-2 anni che risiede nei comuni in cui vi sono gli asili (d) utenti per 100 bambini di 0-2 anni Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei Comuni singoli e associati Tab. 3.b - Indicatori di spesa e di performance dei servizi integrativi o innovativi al 31/12/2012. Confronto tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree

SERVIZI INTEGRATIVI O INNOVATIVI PER LA PRIMA INFANZIA (a)

Utenti

Spesa impegnata

dai comuni (euro)

Percentuale di comparte-

cipazione degli utenti sulla

spesa

Valori medi per utenteIndicatore di

presa in carico degli utenti (per 100 bambini 0-2

anni (c)

Percentuale di comuni

coperti dal servizio

Spesa media dei

comuni per utente (euro)

Comparte-cipazione

media degli utenti

Umbria 595 1.210.903 12,8 2.035 299 2,6 27,2 Nord Ovest 7.576 9.022.454 16,7 1.191 238 1,8 15,7 Nord Est (b) 5.704 11.769.834 13,4 2.063 320 1,8 25,7 Centro 4.071 9.957.853 21,7 2.446 680 1,3 12,1 Sud 1.696 3.051.621 3,4 1.799 64 0,4 12,1 Isole 660 1.055.268 16,3 1.599 311 0,4 5,3 Italia (b) 19.707 34.857.030 16,1 1.769 341 1,2 15,2

(a) in questa categoria rientrano i micronidi, i nidi famiglia e i servizi integrativi per la prima infanzia (b) Italia e Nord Est al netto di Bolzano (c) utenti per 100 bambini di 0-2 anni Fonte: Istat, Indagine su “L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012-2013” Viene confermata, dunque, la riduzione del raggio d’azione del welfare locale, in linea con la tendenza nazionale. Tale contrazione in Umbria assume una forma più marcata, nel senso che la nostra regione, pur continuando a garantire un’offerta complessivamente migliore di diverse aree del Paese, non eccelle più. In altri termini, l’equilibrio tra efficacia ed efficienza si è decisamente indebolito nel 2012, a svantaggio della prima delle due dimensioni. Le istituzioni pubbliche paiono accentuare la flessibilità organizzativa, ma con una contrazione della spesa e, di conseguenza, della componente più strutturata dell’offerta (gli asili nido).

406

Nel 2012 l’Umbria per attivazione dei comuni di asili nido e servizi integrativi/innovativi si pone rispettivamente all’ottavo e al settimo posto tra le regioni italiane; per spesa impegnata al settimo (asili nido) e al quinto posto (servizi integrativi/innovativi); per presa in carico è in una buona posizione per i servizi integrativi (quinto posto), ma - come visto - si tratta comunque del solo 2,6% dei bambini fruitori. Ciò che più conta segnalare è lo scivolamento all’undicesimo posto per presa in carico degli asili nido: nel 2011 l’Umbria era al terzo posto (19,1%), dietro solo alla provincia di Trento (19,5%) e all’Emilia-Romagna (24,4%). Così come era al terzo posto per la presa in carico dei servizi integrativi/innovativi (4%), preceduta da Piemonte (5,4%) e soprattutto Bolzano (7,1%). Dal punto di vista organizzativo, il sistema dei servizi per l’infanzia è sì coperto dal settore privato in misura maggiore delle regioni limitrofe più attive, tuttavia per gli asili nido pubblici l’incidenza della gestione diretta dei Comuni è più alta di Marche, Toscana, Emilia-Romagna e delle diverse aree geografiche del Paese. Anche il ricorso alla gestione affidata a terzi, tramite convenzione, è più alta che altrove: copre più dei tre decimi dei posti dell’offerta pubblica complessivamente intesa. Scarso è il ricorso a voucher o alla riserva di posti in asili nido privati (tab. 4). Tab. 4 - Distribuzione percentuale degli utenti per tipo di gestione dell’offerta pubblica complessiva di asili nido al 31/12/2012. Confronto tra l’Umbria, le regioni limitrofe più attive e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Regioni/Aree Asili nido

comunali a gestione diretta

Asili nido comunali a

gestione affidata a terzi

Asili nido privati con riserva

di posti

Contributi alle famiglie per la

frequenza di asili nido (compresi

i voucher)

Totale

Umbria 59,4 31,4 6,5 2,7 100 Emilia-Romagna 55,8 26,5 14,7 3,0 100 Marche 53,4 20,7 20,2 5,7 100 Toscana 46,8 24,1 11,5 17,6 100 Nord-ovest 54,8 20,5 14,1 10,6 100 Nord-est 49,7 29,3 12,6 8,4 100 Centro 54,5 17,4 20,5 7,6 100 Sud 51,0 38,2 5,6 5,2 100 Isole 58,4 27,0 6,5 8,1 100 ITALIA 53,3 23,7 14,4 8,6 100

Fonte: Istat, Indagine su “L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia. Anno scolastico 2012-2013” Il modello organizzativo umbro, dunque, si caratterizza per un maggiore orientamento alla gestione pubblica, fosse anche tramite l’integrazione col Terzo Settore, piuttosto che all’affidamento a meccanismi di mercato (voucher e riserva di posti in asili privati). L’attivazione istituzionale è andata intensificandosi negli ultimi anni tramite questa organizzazione flessibile che ha consentito un miglioramento della soddisfazione del fabbisogno, quantomeno in termini di capacità ricettiva. Dal 2004 al 2010 la percentuale di comuni che hanno attivato asili nido è passata dal 29,3% al 55,4%, permettendo all’Umbria di raggiungere una performance inferiore solo al Nord Est, mentre nel 2004 partiva da una situazione migliore solo rispetto al Mezzogiorno. Dunque, il rafforzamento dell’Umbria nell’offerta dei servizi per la prima infanzia è stato intenso e secondo solo al Nord Est fino al 2011. In passato la situazione di questa regione era decisamente peggiore, come sembra attestare il fatto che nel 2011 solo il 25,1% dei

407

bambini e ragazzi di 6-17 anni ha dichiarato di aver frequentato l’asilo nido: l’Umbria si colloca all’undicesimo posto, molto distante da Toscana ed Emilia-Romagna dove più dei quattro decimi dei bambini e ragazzi di 6-17 anni hanno fruito di questo servizio (fonte: Istat, Indagine Multiscopo. Aspetti della Vita Quotidiana, 2011). In uno scenario che la vede in posizione mediana per spesa media pro-capite per asili nido e servizi integrativi o innovativi, oltre che per quota di partecipazione finanziaria richiesta alle famiglie, l’Umbria ha mostrato fino al 2011 una capacità di allargare il bacino di utenza tra le migliori d’Italia. Il crollo del 2012, in verità, non fa altro che rendere più pronunciata la riduzione della presa in carico dell’anno precedente (graf. 1). Graf. 1 - Presa in carico di asili nido e servizi integrativi o innovativi 2004-2012 (Val %)

Fonte: Istat, L’offerta comunale di asili nido e altri servizi socio-educativi per l’infanzia (anni scolastici: dal 2004-2005 al 2012-2013) In sintesi, il modello sociale umbro pare non aver retto in pieno l’intensificarsi della crisi, nonostante la sua attivazione e la ricerca di aggiustamenti incrementali secondo una logica organizzativa flessibile nell’offerta (ricorso all’integrazione col Terzo Settore e ai servizi integrativi/innovativi). Bisognerà comprendere se questo calo significativo della presa in carico proseguirà, o se invece vi sarà una ripresa. L’attivazione dell’ultimo decennio farebbe sperare in una ripresa, a patto di un allentamento della crisi economica. In ogni caso, un giudizio più compiuto su questo segmento centrale del welfare educativo va espresso tenendo conto che la rete di servizi (in termini di comuni attivatori del servizio), come visto, resta largamente più alta del dato nazionale, anche se proprio la sua contrazione ha messo in discussione la positiva inclusione degli anni passati. La scuola

La scuola, almeno quella dell’obbligo (Saraceno, op. cit.), rappresenta forse più della sanità il settore universalistico per eccellenza del welfare italiano, al punto che il diritto all’istruzione è riconosciuto anche ai minori di famiglie stranieri non regolari. Allo stesso tempo, in funzione delle dinamiche di crescente autonomia delle istituzioni scolastiche (Benadusi, Consoli, 2004) e della “continua riforma degli ultimi venti anni”, le singole

11,6 11 11,9 11,9

18,6

21,322,3

19,1

13,8

2 2,7 2,1 34,8

6,45,3

42,6

0

5

10

15

20

25

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

asili nido

servizi integrativi/innovativi

408

organizzazioni scolastiche sono divenute connettori tra lo Stato e altre agenzie educative del territorio operanti nell’ambito del welfare locale. I primi anni di scuola primaria continuano ad essere centrali per lo sviluppo educativo dei minori. A questo proposito, il tempo pieno è uno dei principali strumenti di redistribuzione multi-dimensionale delle risorse tra le famiglie; infatti esso può favorire la “de-familizzazione” di parte dell’educazione, a cui si associa la riduzione del lavoro di cura dei genitori (ed eventualmente una migliore ripartizione di questo tra i generi). Questo aspetto risulta importante in particolare per le famiglie operaie, o comunque appartenenti alle classi lavoratrici. L’estensione del tempo passato a scuola dai bambini permette ai figli delle classi svantaggiate di recuperare parte del divario di capitale culturale rispetto ai coetanei di diversa origine sociale. Inoltre, il tempo scuola costituisce una spesa proporzionalmente minore per i meno abbienti, essendo l’istruzione finanziata dal bilancio statale. Il tempo pieno, dunque, risulta maggiormente utile e vantaggioso alle famiglie delle classi lavoratrici, sia perché queste ultime non possono ricorrere con la stessa intensità delle altre classi sociali al mercato dei servizi di cura o del tempo libero (si pensi all’iscrizione dei figli in palestra o ad associazioni sportive), sia perché il tempo a disposizione per l’organizzazione quotidiana post-scolastica è minore, sia - last but not least - perché i minori di origine sociale più umile necessitano di un’offerta scolastica robusta. Rispetto al 1968-1969, anno di avvio in chiave sperimentale a Bologna, e dopo il consolidamento degli anni Settanta e Ottanta su scala nazionale, il tempo pieno, tuttavia, ha subìto prima una modifica con la legge 148/90 e poi una decisa contrazione. In particolare, con la riforma Gelmini l’orario settimanale delle lezioni nella scuola primaria può variare in base alle scelte delle famiglie da 24 a 27 ore, estendendosi fino a 30 ore. In alternativa a questi orari, le famiglie possono chiedere il tempo pieno di 40 ore settimanali, ma a patto che vi sia la disponibilità di posti. Asimmetrie informative tra le classi sociali (Saraceno, op. cit.) e scarsa disponibilità di budget del Miur rendono questa alternativa sempre meno praticabile. Tutto ciò ha finito per rendere l’istruzione di bambini e ragazzi maggiormente dipendente dalle risorse economiche e culturali delle famiglie. A questo proposito va detto che dal Primo Rapporto AUR sull’Istruzione in Umbria (Parziale, 2013, op. cit.) risulta minore l’offerta della scuola primaria a tempo pieno in questa regione: ad esempio l’incidenza delle classi a tempo pieno era del 17% nell’a.s. 2007-2008 e non raggiunge il 21% nell’a.s. 2012-2013, un valore di circa 10 punti percentuali lontano dal dato nazionale. Simile è la situazione in termini di percentuale di alunni che frequentano questo tipo di scuola. L’Umbria si pone, dunque, ancora oggi sotto il livello nazionale12. A dispetto di questi aspetti critici, la società umbra mostra comunque un particolare orientamento all’investimento in istruzione (tab. 5).

12 Per quanto riguarda il tempo prolungato nella scuola di 1° grado, l’ultimo dato che si è riusciti a reperire risale all’a.s. 2011-2012: il 25,6% delle classi in Umbria presenta questo tipo di offerta. La situazione è in questo caso, dunque, migliore in quanto L’Umbria si colloca al sesto posto, mentre nello stesso anno la percentuale di classi a tempo pieno nella scuola primaria si conferma bassa (19,7%).

409

Tab. 5 - Classifica delle regioni per spesa in istruzione per alunno (scuola statale e non) nel 2011 Regioni Spesa per istruzione (mln euro) Alunni Spesa per alunno Trento 822,97 82.219 10.009,4 Bolzano 733,49 82.219 8.921,2 Friuli Venezia Giulia 1.208,90 160.655 7.524,8 Toscana 3.450,18 499.782 6.903,4 Umbria 848,96 123.273 6.886,8 Sardegna 1.577,99 230.419 6.848,3 Molise 301,38 45.012 6.695,7 Valle d'Aosta 122,83 18.418 6.668,9 Lazio 5.326,01 823.860 6.464,7 Abruzzo 1.216,87 190.276 6.395,3 Emilia Romagna 3.793,62 596.973 6.354,8 Calabria 2.034,90 320.870 6.341,8 Basilicata 567,89 90.081 6.304,3 Liguria 1.232,35 198.182 6.218,2 Piemonte 3.658,73 589.472 6.206,8 Italia 53.871,67 8.961.159 6.011,7 Marche 1.323,02 223.425 5.921,5 Sicilia 4.755,85 840.435 5.658,8 Lombardia 7.818,92 1.393.350 5.611,6 Puglia 3.631,98 674.573 5.384,1 Campania 5.650,52 1.062.247 5.319,4 Veneto 3.794,31 715.418 5.303,6

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat, Conti Pubblici Territoriali Dal 2003 il trend della spesa pro-capite per alunno in Umbria è stato altalenante, con una contrazione particolare dopo il 2008, in piena crisi economica. In ogni caso essa resta più alta di quella nazionale (tab. 6), anche se è cresciuto il divario con realtà più performative come la provincia autonoma di Trento: basti pensare che nel 2010 la spesa umbra era di 6.993 per alunno, mentre quella trentina era superiore “solo” di un migliaio di euro circa e non di oltre 3.000 euro come nel 2011. Tab. 6 - La spesa in istruzione per alunno (scuola statale e non) dal 2000 al 2011. Comparazione Umbria/Italia

Aree 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 Var. 2000-2011

Umbria 5.848,1 6.882,9 6.383,4 7.536,5 7.070,3 7.351,0 7.609,3 7.280,4 7.878,8 7.539,7 7.290,4 6.993,3 19,6 Italia 4.738,4 5.519,8 5.341,4 5.873,7 5.926,2 5.971,2 6.415,7 6.107,8 6.462,0 6.343,1 6.181,7 6.003,4 26,7

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat, Conti Pubblici Territoriali L’Umbria mostra una certa resilienza rispetto alle dinamiche di razionalizzazione della spesa statale, infatti - in analogia con quanto rilevato in merito all’organizzazione dei servizi per la prima infanzia -, punta alla mediazione tra le richieste di efficienza del governo nazionale e la ricerca di efficacia del contesto locale, che è tradizionalmente votato alle politiche educative. Ciò si evince a partire dall’estensione dell’offerta scolastica, valutabile con il numero di alunni per classe: l’estensione appare leggermente più ampia di quanto rilevato su scala nazionale, essendo le classi un po’ meno numerose. La più piccola dimensione delle classi indica forse il tentativo degli attori istituzionali locali di organizzare l’offerta scolastica in maniera adeguata alla particolare dispersione della popolazione sul territorio.

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Dal quadro sinottico della tabella 7 e relativo all’a.s. 2013-2014, si conferma la minore dimensione media delle classi umbre, in particolare nella scuola primaria e in quella di 2° grado. Tab. 7 - Quadro sinottico sulla scuola statale nell’a.s. 2013-2014. Comparazione Umbria/Italia

Aree Alunni Sezioni Disabili Stranieri Posti docenteAlunni

per sezione

% disabili % stranieri Docenti

per alunni

Infanzia

Umbria 19.942 782 231 3.492 1.663 25,5 1,2 17,5 8,3

Italia 1.030.364 42.233 14.232 114.319 90.889 24,4 1,4 11,1 8,8

Scuola primaria

Umbria 38.559 2.079 1.081 5.843 3.547 18,5 2,8 15,2 9,2

Italia 2.596.615 132.149 76.862 271.857 239.552 19,6 3,0 10,5 9,2

Scuola 1° grado

Umbria 23.446 1.091 824 3.725 2.350 21,5 3,5 15,9 10,0

Italia 1.671.375 76.966 62.699 169.963 167.916 21,7 3,8 10,2 10,0

Scuola 2° grado

Umbria 37.754 1.733 879 4.220 3.550 21,8 2,3 11,2 9,4

Italia 2.580.007 114.490 53.451 180.515 229.968 22,5 2,1 7,0 8,9

Totale scuola statale

Umbria 119.701 5.692 3.009 17.280 11.110 21,0 2,5 14,4 9,3

Italia 7.878.661 366.838 207.244 736.654 728.235 21,5 2,6 9,3 9,2

Fonte: elaborazione Aur su dati Miur È possibile che il sistema scolastico statale umbro sconti delle difficoltà proprio nella scuola dell’infanzia, almeno in termini di copertura dell’offerta e di più alto carico di lavoro didattico dei docenti. Tuttavia, non sono disponibili ulteriori dati per corroborare questa ipotesi. La partecipazione alla scuola statale dell’infanzia è andata crescendo negli ultimi anni: nell’a.s. 2013-2014 vi sono 82,7 alunni ogni 100 bambini di 3-5 anni, un valore più alto del passato. Infatti, dall’Indagine Multiscopo sugli Aspetti della Vita Quotidiana emerge che solo il 75,3% dei bambini e ragazzi di 6-11 anni nel 2011 ha frequentato la scuola statale dell’infanzia per almeno un anno. Pochi sono i bambini e i ragazzi con un’esperienza nella scuola privata dell’infanzia, mentre ben il 15,4% dichiara di non essersi avvalso né dell’offerta pubblica né di quella privata: si tratta del valore più alto in Italia, pari a oltre il triplo di quello nazionale. Questo dato sembrerebbe coerente con quanto emerso dal Rapporto AUR sull’istruzione in Umbria in merito al maggiore orientamento delle famiglie umbre a dedicarsi direttamente all’educazione dei più piccoli. Tuttavia, si può scorgere un mutamento, anche profondo, negli ultimi anni: cresce la partecipazione alla scuola dell’infanzia, anche da

411

parte degli stranieri (Parziale, 2013, op. cit.). Aumentano le difficoltà delle famiglie nello svolgere i molteplici compiti loro attribuiti; ciò dipende in particolare da due fenomeni: la crescita degli anziani e le esigenze di supporto economico delle nuove generazioni di lavoratori precari (Montesperelli, 2008). Riassumendo, pare che gli umbri siano oggi maggiormente orientati non solo alla partecipazione scolastica dei più piccoli, ma anche ad anticiparla, così come a ricorrere ai servizi per la prima infanzia. La crescita della domanda forse ha incentivato lo sviluppo dell’offerta del sistema di welfare locale. La partecipazione scolastica aumenta altresì nei livelli superiori di istruzione e ciò vale anche per i disabili e gli stranieri, utenti che, per motivi differenti, richiedono la messa in discussione delle relazioni educative tradizionali e il rafforzamento di progetti volti alla valorizzazione delle alterità (si pensi ai temi dell’educazione alimentare o religiosa in chiave multi-culturale, o al riconoscimento delle “diversabilità”). I disabili costituiscono in Umbria solo l’1,2% degli alunni della scuola dell’infanzia statale (v. tab. 7): ciò può dipendere sia dallo scoraggiamento dei genitori con figli disabili sia dalla minore riconoscibilità sociale di alcune forme di svantaggio psico-fisico nei primi anni di vita. L’ultimo aspetto riduce artificialmente la quota di studenti disabili. Inoltre, nonostante il quadro legislativo nazionale negli ultimi quattro decenni (L. 517/1977; L. 104/1992) abbia spinto per l’inclusione scolastica dei disabili, persiste in Italia il problema della scarsa presenza di personale qualificato e di tecnologie adeguate; la questione più preoccupante concerne per certi versi i disabili non autonomi, che non sono sufficientemente supportati (ISTAT, 2013). Sul versante del personale, la legge 224/2007 ha raddoppiato l’offerta di docenti di sostegno rispetto alla legge 270/1982: è stato stabilito un rapporto di un docente di sostegno ogni due disabili. L’Umbria si caratterizza per un rapporto alunni disabili/docenti di sostegno di poco inferiore al parametro legislativo, in merito alla scuola sia primaria sia di 1° grado, ponendosi grosso modo in posizione mediana tra le regioni italiane. Migliore è la situazione sul versante della dotazione di supporti tecnologici; in particolare questa regione detiene il primato per la presenza di scuole con le postazioni informatiche poste nei laboratori: questa scelta riguarda il 58,1% delle scuole primarie (Italia: 51,6%) e ben il 64,7% delle scuole di 1° grado (Italia: 51,9%). Rispetto al contesto nazionale è più alta la presenza di stranieri tra gli alunni, a partire dalla scuola statale dell’infanzia dove quasi un bambino su cinque non ha la cittadinanza italiana. L’Umbria si colloca al secondo posto per presenza di alunni stranieri nella scuola statale di ogni ordine e grado nell’anno scolastico 2011-2012, con il 13,9% di alunni non italiani, valore che è salito al 14,4% due anni dopo (graf. 2). Le nazionalità rappresentate tendono ad aumentare nel tempo e nel 2010 risultavano già 157 (Montesperelli, Acciarri, 2013). Dall’a.s. 2004-2005 all’a.s. 2011-2012 il numero di alunni stranieri è raddoppiato nella scuola dell’infanzia, superando le 3.500 unità, mentre l’incremento è stato addirittura superiore nella scuola di 2° grado: da 1.759 a 4.032 alunni. Nella scuola primaria e in quella di 1° grado gli alunni stranieri sono rispettivamente 5.881 e 3.653, con un incremento di quasi 2.500 unità nel primo caso e di poco più di 1.500 unità nel secondo.

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L’80,6% degli alunni stranieri della scuola dell’infanzia è nato in Italia. Questa percentuale diminuisce sensibilmente all’aumentare dell’ordine e grado scolastico: passa al 57,6% nella scuola primaria, scende ulteriormente al 26,8% nella scuola di 1° grado fino a ridursi al solo 10,1% negli istituti superiori. Graf. 2 - Incidenza degli stranieri tra i residenti e tra gli alunni. Comparazione Umbria/Italia

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Demoistat e Miur Pertanto, il livello di disagio e di svantaggio degli stranieri cambia a secondo del livello scolastico esaminato, con gli studenti della scuola di 2° grado che sono presumibilmente in maggiore difficoltà in termini di integrazione linguistico-culturale. Si tratta di stranieri per lo più di prima generazione che (nella gran parte dei casi) hanno partecipato direttamente alle vicende migratorie della famiglia, vivendo gli effetti negativi derivanti dall’impatto con la società di approdo. I dati poc’anzi commentati sembrano suggerire la necessità di interventi finalizzati a rendere effettivamente agibile le pari opportunità nella scelta dell’indirizzo di scuola superiore tanto quanto nel passaggio all’istruzione terziaria. Gli alunni stranieri di 1° grado hanno in genere una socializzazione alla scuola italiana maggiore di quelli di 2° grado, anche se non sempre è così. Anzi, non è da escludere che i neoarrivati siano molto numerosi anche nella scuola di 1° grado. Comunque sia, è in questo punto del sistema di istruzione che i ragazzi, soprattutto se stranieri, sono maggiormente oggetto dei meccanismi selettivi della scuola, senza avere l’opportunità concreta ed il tempo di sviluppare le proprie aspirazioni e ottenere risorse educative e cognitive adeguate per partecipare pienamente alla vita sociale una volta che sono maggiorenni. Questa riflessione pare confortata dalla distribuzione etnicamente connotata degli studenti della scuola di 2° grado. Infatti, la maggior parte degli stranieri tende a seguire percorsi formativi più deboli, di tipo professionale, e a incontrare maggiori difficoltà nella prosecuzione degli studi. Ad esempio, in provincia di Perugia ben il 42,8% degli alunni stranieri nei primi due anni di scuola superiore frequenta l’istituto professionale13, mentre ciò vale per poco più di un decimo degli studenti di cittadinanza italiana, e anche in 13 Nella provincia perugina circa i quattro decimi degli iscritti alle prime due classi degli istituti professionali sono stranieri (Parziale, 2013).

4,85,6 6,2 6,5

7,78,6 9,2 9,7 10 10,5

7,88,9

10,111,4

12,212,9 13,3 13,9 14,1 14,4

3,2 3,8 4,2 4,55,2 5,8 6,2 6,5 6,8 7,4

4,24,8

5,6 6,47 7,5 7,9 8,4 8,8 9,3

0

2

4

6

8

10

12

14

16

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

Residenti Umbria

Alunni Umbria

Residenti Italia

Alunni Italia

413

provincia di Terni la percentuale di stranieri che scelgono questo indirizzo di studio è superiore al doppio di quella rilevata per gli italiani. Contemporaneamente non si può sottovalutare il fatto che oltre un quinto degli alunni stranieri frequenta il liceo, almeno stando ai dati sui primi due anni di scuola superiore, così come la scelta dell’indirizzo tecnico è simile tra italiani e stranieri, anzi è superiore per i secondi nella provincia ternana. In questa provincia è interessante rilevare che oltre il 16% degli alunni stranieri nei primi due anni di scuola superiore è iscritto al liceo scientifico14. Diversi sono comunque i segnali delle crescenti diseguaglianze educative nella nostra regione, frutto dei processi di nuova gerarchizzazione sociale che come altrove si sono manifestati nell’ultimo ventennio, e si sono intensificati con la crisi economica iniziata nel 2007. Ad esempio, dai dati dell’Indagine Multiscopo sulle famiglie risulta che i ragazzi di 13-17 anni intervistati nel 2011 hanno dichiarato nel 71,5% dei casi di aver ottenuto un giudizio inferiore a distinto nel conseguimento della licenza media: l’Umbria è tra le regioni col più alto tasso di licenziati con giudizio corrispondente a sufficiente o buono (tab. 8). Tab. 8 - Ragazzi di 13-17 anni nel 2011 in possesso della licenza media inferiore per giudizio finale dell’esame di terza media, per regione, ripartizione geografica e tipo di comune

Regioni, ripartizioni e tipi di comuni Giudizio finaleSufficiente Buono Distinto Ottimo Totale

Piemonte 27,8 22,6 30,8 18,8 100 Valle d'Aosta 50,1 21,4 10,4 18,1 100 Liguria 41,2 22,8 20,8 15,2 100 Lombardia 44,5 29,4 16 10,1 100 Trentino-Alto Adige 51,3 21,6 14,5 12,6 100 Bolzano 37,7 37,2 17,5 7,6 100 Trento 47,9 17,2 16,4 18,5 100 Veneto 35,2 24,4 21,2 19,1 100 Friuli-Venezia Giulia 40,2 24 21,5 14,3 100 Emilia-Romagna 37,7 21,5 18,7 22,1 100 Toscana 39,5 27,5 16,6 16,5 100 Umbria 37,6 33,9 18,9 9,6 100 Marche 37,1 32,1 20,5 10,3 100 Lazio 31,4 30,6 16,5 21,6 100 Abruzzo 29,5 30,1 20,2 20,3 100 Molise 27,1 38,3 17,3 17,3 100 Campania 26,7 36,6 22,3 14,4 100 Puglia 24,7 32,5 20,8 21,9 100 Basilicata 30,9 33,6 16,3 19,3 100 Calabria 34,2 18,6 21,9 25,3 100 Sicilia 37,2 33,5 15,3 14 100 Sardegna 47,9 24,6 15,3 12,3 100 Nord-ovest 37,5 22,9 23,5 16,1 100 Nord-est 42,4 21,1 17,7 18,8 100 Centro 35,1 30,1 17,2 17,6 100 Sud 27,6 32,2 21,3 18,9 100 Isole 39,4 31,6 15,3 13,7 100 Comune centro dell'area metropolitana 35,3 24,3 21,8 18,6 100 Periferia dell'area metropolitana 31,9 29,3 24,2 14,7 100 Fino a 2.000 abitanti 37,3 26,9 17,7 18,1 100 Da 2.001 a 10.000 abitanti 39,7 24,4 19,4 16,5 100 Da 10.001 a 50.000 abitanti 34,8 30,6 19 15,6 100 50.001 abitanti e più 32,4 29 17 21,6 100 Italia 35,4 27,5 19,7 17,3 100

Fonte: Istat, Indagine Multiscopo sulle famiglie, Aspetti della Vita Quotidiana, 2011

14 Si veda nota precedente.

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Secondo i dati dell’indagine OCSE-PISA del 2012 sulle competenze degli studenti di 15 anni, l’Umbria si colloca in posizione mediana per punteggio medio nelle prove di matematica e di lettura e lo stesso risulta dai dati più recenti, del 2013, forniti dall’Invalsi in merito al test sulle competenze alfabetiche degli studenti della scuola di II grado: gli umbri ottengono un punteggio medio pari a 204 (il punteggio medio italiano è 192,7). L’Umbria conferma la sua collocazione mediana anche quando si considera la percentuale di studenti che mostrano scarse competenze (non vanno oltre il primo dei sei livelli di preparazione previsti dall’indagine dell’OCSE-PISA) o, al contrario, di studenti con un’ottima performance (che raggiungono il quinto o sesto livello). In ogni caso, è preoccupante che il 20,8% degli studenti umbri risultati dotato di scarse competenze in matematica, con questo valore che scende di poco, attestandosi al 18%, nel caso delle competenze in lettura. Al contrario solo poco più del 10% ha raggiunto o superato il quinto livello nel test di lettura, con questa percentuale che si riduce al 5,3% nel caso della prova di matematica. Nondimeno, le difficoltà nel contrastare diseguaglianze educative, spesso legate all’origine sociale ed etnica dei giovani (Schizzerotto, Barone, op. cit.), vanno considerate tenendo presente l’alta capacità di inclusione scolastica dell’Umbria. Questa regione è, infatti, ai primi posti in Italia per livello di istruzione della popolazione, per tasso di scolarizzazione superiore (percentuale di persone di 20-24 anni almeno in possesso del diploma) e per quota di giovani di 30-34 anni laureati. Non solo, alle prove Invalsi il punteggio medio degli studenti stranieri di I generazione è risultato inferiore a quello degli italiani “solo” di 23 punti, un valore molto più basso di quanto rilevato altrove. Il divario scende, poi, a 12 punti, se si considerano gli stranieri di II generazione (Cederna, 2013). Infatti, lo stesso tasso di conseguimento del diploma in Umbria supera l’analogo valore nazionale15 solo di poco, perché molto alta è l’incidenza degli alunni stranieri, che costituiscono la componente più soggetta a riprovazione. Tuttavia, ciò non si traduce quasi mai in abbandono scolastico. Infatti, questo fenomeno è poco diffuso in Umbria: solo il 3,9% degli iscritti abbandona gli studi nei primi due anni di scuola superiore. Gli altri servizi educativi per famiglie e minori: tra integrazione e disagio sociale

È possibile individuare una terza sfera del welfare educativo destinato ai minori: essa si caratterizza per la sua natura “compensativa”. Si sta facendo riferimento, cioè, a quel campo dell’intervento sociale volto a contrastare situazioni di disagio particolarmente gravi, vissute da minori il cui ambiente familiare presenta una qualche forma di deprivazione: si pensi ai minori figli di tossicodipendenti, detenuti, o comunque appartenenti a famiglie in gravi condizioni socioeconomiche. Il gradiente di disagio sociale varia sensibilmente, quindi, in ragione del tipo di condizione sociale del nucleo genitoriale, ma nella maggior parte dei casi la famiglia è considerata dallo Stato non come fonte di capitale sociale (Donati, 2003), bensì come “sistema patogeno” dal quale eventualmente allontanare il minore disagiato, magari solo temporaneamente. Il disagio più grave concerne, ovviamente, i minori abbandonati e privi di qualsiasi rete familiare.

15 Nell’a.s. 2011-2012 era per gli uomini del 74,6% (Italia: 71,9%), per le donne dell’81,7% (Italia: 80,7%).

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Sebbene la Costituzione italiana promuova il pieno sviluppo umano dei minori, l’istituzionalizzazione dei bambini e ragazzi disagiati in appositi centri si è rivelata pratica diffusa fino alla sua messa in discussione negli anni sessanta - settanta: solo con la legge 431/1967 è stata ridefinita l’adozione, mentre la legge 151/1975 ha riformato il diritto di famiglia, riconoscendo pari dignità ai figli nati fuori il matrimonio. Con le leggi 184/1983 e 149/2001 la de-istituzionalizzazione è stata potenziata, incoraggiando l’affidamento familiare dei minori che non sono adottabili ma che non possono vivere nella loro famiglia. Col tempo, dunque, si è affermato il diritto dei minori disagiati ad essere inseriti in un nuovo contesto familiare o in comunità non istituzionalizzanti, nonché a tornare successivamente nella famiglia di origine, se vi è stato un significativo miglioramento della condizione di quest’ultima, spesso grazie alle attività del servizio sociale professionale. L’assetto istituzionale attuale punta alla diversificazione delle forme di accoglienza in nuove famiglie, al fine di recuperare il gap educativo del minore e contrastare il disagio: si va dalle comunità pedagogico-assistenziali alle comunità educative con pochi minori adolescenti e pre-adolescenti seguiti da educatori professionali, alle case famiglia. Inoltre, oggi è possibile l’affidamento familiare anche a coppie non sposate, singoli e, appunto, piccole comunità. Nonostante ciò, il quadro delineato dal Rapporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla situazione dei minori in affidamento al 31/12/2011 non è confortante, perché si conferma in Italia l’alta percentuale di affidi in comunità sul totale di 29.338 minori collocati fuori dal nucleo genitoriale. Se non si considerano i 6.986 minori affidati a parenti, la percentuale di coloro che sono in comunità piuttosto che essere dati in affidamento a famiglie è pari al 67%, con questo valore che sale al 69% tra chi ha massimo 2 anni. Nel 2010 l’affido familiare era al 50% e presumibilmente il peggioramento nell’anno successivo è dovuto anche all’intensificarsi della crisi economica, oltre che alla persistenza di alcuni problemi, come l’elevata durata dell’affidamento familiare e lo scarso ricorso all’affido consensuale. In questo contesto, la situazione umbra presenta diverse criticità: nel 2011 risultano 470 bambini e ragazzi in affidamento; di questi 95 sono affidati a parenti, 125 ad altre famiglie e ben 250 sono in comunità. Se a livello nazionale il 17% dei minori in affido è formato da stranieri, questo valore sale a ben il 38% in Umbria (è il valore più alto registrato nel nostro Paese; fonte: Tavolo Nazionale Affidi)16. Per percentuale di minori dati in affidamento l’Umbria si pone sopra il valore medio delle regioni italiane (3,4 minori ogni 1.000, mentre la media delle regioni italiane è 2,9), anche se il problema non è così acuto come in Liguria, Sicilia e in parte Emilia-Romagna. Al contrario, l’affidamento a comunità è di poco inferiore a quello medio: “l’istituzio-nalizzazione soft in comunità” è più forte nel Mezzogiorno, dove in genere (con l’eccezione particolare della Sicilia) il fenomeno dell’affido dei minori è meno presente (fig. 1).

16 Dal Rapporto “Bambini e ragazzi fuori dalla famiglia di origine in Umbria”, curato dall’Assessorato Welfare e Istruzione della Regione Umbria (Direzione Salute Coesione Sociale e Società della Conoscenza, Servizio Famiglia Adolescenza e Giovani) al 31/12/2011 i minori in comunità sono 248, di cui 82 (33%) stranieri. Nonostante la (leggera) discrepanza dei dati, il quadro non cambia.

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Fig. 1 - Collocazione delle regioni per percentuale di minori affidati e incidenza degli affidamenti in comunità sul totale degli affidi extra-parentali nel 2011

Fonte: elaborazione dell’autore su dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali Dal Rapporto regionale “Bambini e ragazzi fuori dalla famiglia di origine in Umbria” risulta che nel 2011 i bambini stranieri affidati sono tendenzialmente di età inferiore agli altri: se complessivamente il 22,1% ha un’età di massimo 5 anni, ciò vale per il 29,3% dei bambini non italiani. Inoltre la componente straniera risulta in due casi su tre (65%) soggetta all’affidamento extrafamiliare, in controtendenza al 2009 quando ben l’80% veniva accolto nella cerchia familiare. Il 95% circa dei minori (italiani e stranieri) affidati in Umbria a comunità resta nel territorio regionale. Sul versante delle adozioni i dati disponibili sono pochi e fanno riferimento al periodo 2007-201117: per le adozioni nazionali, i bambini dichiarati adottabili dal tribunale di Perugia risultano mediamente una quindicina all’anno; le sentenze di adozione sono passate da 8 (2007) a 18 (2011). Con l’eccezione del 2011, le domande sono state circa 20 all’anno per bambino dichiarato adottabile. La domanda è di molto superiore all’offerta (su scala nazionale vi sono 9 domande all’anno per ogni bambino adottabile), perché in Umbria i minori in questa condizione sono molto pochi (nel 2011 addirittura solo 2 e le richieste sono state ben 233!). Il fenomeno delle adozioni internazionali è ben presente in regione, anche se vi è stato un calo del 19% dal 2007 (quando le domande era 113) al 2011 (92). In riferimento al periodo 2007-2011, ogni anno mediamente le coppie adottive sono state 35 per 45 bambini adottati.

17 I dati qui di seguito riportati fanno riferimento al Rapporto “Bambini, ragazzi e coppie nelle adozioni nazionali e internazionali in Umbria”, curato dall’Assessorato Welfare e Istruzione della Regione Umbria (Direzione Salute Coesione Sociale e Società della Conoscenza, Servizio Famiglia Adolescenza e Giovani).

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Il calo delle adozioni nel tempo è attribuibile in parte alla crisi economica, essendo particolarmente costosa questo tipo di procedura. In ogni caso, si registrano mediamente 2,6 domande di disponibilità all’adozione internazionale ed idoneità ogni 10.000 residenti di 30-59 anni; si tratta di un valore un po’ più alto di quello nazionale (2,3). Gli umbri sembrano più propensi ad adottare due bambini piuttosto che uno solo. Ciò conferma in parte come questa scelta sia operata da una ristretta èlite di benestanti. Tuttavia, va precisato che l’adozione internazionale è praticata non solo da famiglie di origine borghese, se è vero (fonte: Commissione per le adozioni nazionali) che nel 2012 tra gli uomini appartenenti a coppie umbre richiedenti l’ingresso in Italia di minori stranieri il 28,3% risulta essere operaio o artigiano (a livello nazionale questa percentuale si dimezza, scendendo al 14,2%). Più preoccupanti sono i risultati presentati nel Rapporto “IV Atlante dell’Infanzia (a rischio). L’Italia sottosopra. I bambini e la crisi” di Save The Children: si segnala il declino, non solo economico, di un Paese in cui aumentano vertiginosamente le diseguaglianze e si allarga il dramma della povertà assoluta e relativa. A pagare di più sono proprio i minori: a metà marzo del 2013 ben 200.000 risultavano vivere in 72 comuni falliti, cioè senza i soldi necessari a garantire i servizi sociali essenziali. La crisi degli ultimi anni ha acuito il disagio, se è vero che dal 2007 al 2012 i minori in condizioni di povertà sono più che raddoppiati, passando da meno di 500.000 a oltre un milione! In questo quadro desolante, l’Umbria sembrerebbe avere il triste primato, subito dopo la Sicilia, per percentuale di minori in povertà assoluta nel 2012: il 16,3% (tab. 9)18. Questo aspetto va esaminato alla luce di altri dati riportati sempre alla tabella 9: circa un quinto delle famiglie umbre vive una condizione di deprivazione economica19, cartina di tornasole dell’ampia presenza di una struttura produttiva labour intensive, caratterizzata da bassi salari e più soggetta alla perdita di posti di lavoro, in particolare nell’industria. Se è vero che la società umbra continua a caratterizzarsi per la minore diseguaglianza economica delle famiglie, è altresì vero che oggi i meccanismi di inclusione paiono risultare più deboli del passato, tenendo fuori circa una famiglia su cinque, con un allargamento dell’area più fragile composta da nuclei numerosi e in povertà assoluta; di qui l’alto numero di minori poveri e un livello di deprivazione economica inferiore solo a Lazio, Liguria, Marche e alle regioni meridionali (con l’Abruzzo che, peraltro, ha una situazione simile a quella umbra). Sul versante dei consumi, l’incidenza della povertà relativa tra le famiglie è quasi raddoppiata dall’inizio della crisi economica, avvicinandosi ai livelli del 2000. L’11% di famiglie è in questa condizione; si tratta di un valore di gran lunga superiore al Centro-Nord Italia (tab. 10). 18 Va precisato che nel su menzionato Rapporto di Save The Children non sono riportati, perché indisponibili, i dati relativi a Molise, Abruzzo, Basilicata e alla provincia di Trento. Inoltre, questo dato va considerato con molta cautela in termini quantitativi, date le difficoltà di rilevare il fenomeno. Fatta questa premessa, comunque emerge un segnale di allarme che non va sottovalutato. 19 L’indice sintetico di deprivazione segnala la quota di famiglie che dichiarano almeno tre delle nove deprivazioni qui indicate: non riuscire a sostenere spese impreviste; avere arretrati di pagamenti (mutuo, affitto, bollette, debiti diversi dal mutuo); non riuscire a permettersi una settimana di ferie in un anno da lontano da casa, un pasto adeguato (proteico) almeno ogni due giorni, il riscaldamento adeguato dell’abitazione, l’acquisto di una lavatrice, o di un televisore a colori, o di un telefono, o di un’automobile.

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Tab. 9 - Classifica delle regioni su due indicatori relativi alla presenza di grave disagio economico di minori e famiglie nel 2012

Regioni

% minori in povertà

assoluta (a) Regioni

% famiglie con deprivazione

economica (b) Sicilia 19,3 Sicilia 53,2 Umbria 16,3 Puglia 49,3 Puglia 15,5 Calabria 39 Sardegna 13,4 Campania 37,3 Calabria 12,9 Basilicata 31,9 Liguria 11,8 Marche 25,2 Campania 11,7 Sardegna 23,7 Marche 9,9 Lazio 22,9 Friuli-Venezia Giulia 9,7 Molise 21,8 Lombardia 9 Liguria 20,6 Valle d'Aosta 8,3 Umbria 20,2 Toscana 8,3 Abruzzo 19,8 Piemonte 8,1 Friuli-Venezia Giulia 18,7 Bolzano 8,1 Toscana 18,6 Veneto 8 Lombardia 17,1 Lazio 6,4 Piemonte 16,3 Emilia-Romagna 5,5 Emilia-Romagna 13,4 Trentino-Alto Adige nd Veneto 13 Trento nd Valle d'Aosta 11,9 Abruzzo nd Trento 11,5 Molise nd Trentino-Alto Adige 10,2 Basilicata nd Bolzano 8,8

Fonte: (a) elaborazione dei dati Istat presente in IV Atlante dell’infanzia (a rischio). L’Italia sottosopra, Rapporto di Save The Children 2013; (b), Istat, Indagine sul reddito e condizioni di vita Tab. 10 - Percentuale di famiglie in condizione di povertà relativa dal 1999 al 2012 Aree 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Umbria 14,8 12,2 9,2 6,4 8,7 9,1 7,3 7,3 7,3 6,2 5,3 4,9 8,9 11,0 Nord-ovest 4,7 5,8 5,2 4,8 5,5 4,8 4,9 5,4 5,8 5,1 4,9 4,7 4,9 6,6 Nord-est 5,4 5,5 4,8 5,4 5,4 4,5 4,1 5,1 5,0 4,6 5,0 5,2 5,0 5,6 Centro 8,8 9,7 8,4 6,6 5,8 7,3 6,0 6,9 6,4 6,7 5,9 6,3 6,4 7,1 Mezzogiorno 23,9 23,6 24,3 22,4 21,6 25,0 24,0 22,6 22,5 23,8 22,7 23,0 23,3 26,2

Fonte: Istat, Indagine sui consumi delle famiglie L’immagine dell’Umbria come regione connotata positivamente per capacità di inclusione sociale viene così in parte incrinata dalla crescita delle diseguaglianze e dall’espansione dell’area del disagio e della sofferenza economica. Quest’area comprende presumibilmente i lavoratori precari dei servizi, i cassaintegrati dell’industria e anche gli anziani a basso reddito. La tendenza potrebbe essere il consolidamento di una underclass (Crompton, 1996) formata da molti stranieri. Quest’ultima componente della popolazione presenta una più alta incidenza di minori (il 21,8% degli stranieri residenti in Umbria ha meno di 18 anni). È nelle famiglie meno forti sul mercato del lavoro che tendenzialmente vi sono più minori, almeno per quanto concerne gli stranieri. Complessivamente ogni 100 residenti minori 14,6 sono stranieri, segnale di un mutamento profondo in atto sotto il profilo soprattutto demografico e socio-culturale della società locale. Si è, dunque, in presenza di una contraddizione sociale forte: all’Umbria maggioritaria, formata da molti anziani20 e pochi minori (il 13,6% della popolazione nel 2013), 20 L’Umbria è quarta per indice di vecchiaia: nel 2012 si rilevano 181 residenti di 65 anni e più ogni 100 di età inferiore ai 15 anni.

419

tendenzialmente composta da ceti medi e operai economicamente più solidi, per quanto oggi in difficoltà, si contrappone un’altra Umbria, connotata etnicamente e più giovane, che occupa posizioni marginali nel mercato del lavoro. In questa seconda zona stanno scivolando anche gli autoctoni appartenenti per lo più a famiglie operaie, in cui uno dei coniugi ha perso il lavoro e qualsiasi forma di protezione sociale, mentre l’altro svolge un’occupazione a basso reddito. In queste famiglie i minori si ritrovano a scontare una condizione che può tramutarsi in “debito formativo”, ossia in ostacolo per la partecipazione a un mercato del lavoro come l’attuale, in cui il capitale umano diviene risorsa indispensabile di inclusione sociale. Oltre al fabbisogno dell’educazione all’alterità che accompagni il processo di trasformazione in senso multietnico della società locale, emerge dunque una nuova questione sociale: sta aumentando la popolazione giovanile in particolare condizione di svantaggio, che potrebbero consolidarsi in futuro; infatti, bisogna tenere conto che nel nostro Paese non solo la mobilità sociale è scarsa (ISTAT, 2012), ma anche le condizioni di lavoro nei segmenti professionali meno qualificati sono decisamente cattive. Pertanto il destino sociale di molti giovani con bassa istruzione è quello di diventare lavoratori malpagati e impiegati in attività degradanti. A questo punto è più facile interpretare anche quanto illustrato nel paragrafo precedente in merito all’inclusione scolastica: è vero che il tasso di scolarizzazione umbra è tra i più alti in Italia e che le diseguaglianze educative degli alunni stranieri con i loro coetanei sono minori di quanto rilevato in molte altre regioni, ma è altrettanto vero che vi è una quota significativa di giovani che hanno lasciato la scuola precocemente. Infatti, l’11,9% dei giovani umbri di 18-24 anni nel 2013 possiede la sola licenza media e non ha concluso corsi di formazione riconosciuti di almeno 2 anni: si tratta, cioè, di persone che hanno vissuto nella loro adolescenza un fallimento scolastico significativo. La dispersione scolastica, stimata con l’ausilio dell’indicatore appena considerato, è in Umbria decisamente più contenuta che in altre aree del Paese (in sole 4 regioni la dispersione scolastica è inferiore a quella umbra; fonte: Miur, 201421), tuttavia pare confermare la tesi della presenza di un’area sociale completamente o parzialmente esclusa, oggi stimabile intorno al 20% di famiglie e di minori che vivono in condizioni di deprivazione economica e/o culturale. Di fronte a questo nuovo scenario, la spesa investita dai Comuni umbri nel servizio sociale professionale per famiglie e minori risulta nel 2011 di 221 euro per persona, di poco inferiore al dato nazionale (235 euro)22. Il 40,3% dei 4,6 milioni di euro spesi per il servizio sociale professionale è destinato all’area “Minori e Famiglia”. L’attenzione per i minori è alta, assorbendo quest’area la maggior parte della spesa del servizio sociale professionale; ma è più attenuata rispetto a quanto rilevato a proposito dei servizi per la prima infanzia e dell’investimento nella scuola, aree più congeniali al modello sociale regionale. Ciò dipende anche dal fatto che l’area “Immigrazione” assorbe il 12,4% della spesa del servizio sociale,

21 I dati fanno riferimento al 2013 e sono riportati nel Rapporto di Save The Children “La lampada di Aladino”, pubblicato nel 2014. I dati dell’Istat-DPS dell’anno precedente confermano sostanzialmente questa situazione: il 13,7% di giovani di 18-24 anni nel 2012 risultano in possesso della sola licenza media e non in formazione; nel 2013 in sole 6 regioni questa percentuale risultava più bassa. 22 L’Umbria si colloca in posizione quasi mediana, al nono posto su 21 regioni. Nel 2010 era decima con 226 euro pro-capite (Italia: 234 euro).

420

ossia più del doppio di quanto rilevato su scala nazionale, a dimostrazione di come le problematiche di integrazione sociale riguardino in maniera particolare la componente straniera. All’area delle dipendenze risulta destinata, infine, il 3,5% della spesa del servizio sociale, più del doppio dell’analogo dato nazionale, per via della particolare presenza del fenomeno in questa regione, come si vedrà tra breve. Al contrario, la quota destinata agli anziani è decisamente inferiore al dato nazionale, essendo inferiore a un quinto della spesa, mentre a livello nazionale quest’area ne assorbe più di un quarto (graf. 3). Graf. 3 - Distribuzione della spesa del servizio sociale professionale per area nel 2011

Fonte: Istat, Indagine sugli interventi ed i servizi sociali dei comuni singoli o associati Si riconferma, dunque, una certa sensibilità dell’Umbria per il welfare di natura più educativa e rivolto ai minori (Montesperelli, Carlone, 2003). Gli utenti del servizio sociale professionale sono nel 2011 8.566; vi è un calo rispetto al 2009 (9.613 utenti) e anche agli anni precedenti (gli utenti sono stati 8.969 nel 200623, 8.344 nel 2007, 8.563 nel 2008), ma una crescita rispetto al 2010 quando ammontavano a 8.259. La particolare concentrazione degli interventi a favore dei minori si conferma anche per l’assistenza domiciliare socio-assistenziale e le strutture residenziali. Nel primo caso ben il 23,5% dei 7,4 milioni spesi nel 2011 sono stati attribuiti all’area “Famiglia e Minori”, con l’Umbria che si colloca al primo posto (tab. 11). La spesa media per utente è stata nel 2011 di 2.097 euro, aspetto che colloca l’Umbria al quindicesimo posto. Gli utenti sono stati 760, 29 in meno del 2010 ma molti di più degli anni precedenti, con l’eccezione del 2007 (363 nel 2006, 1.377 nel 2007, 399 nel 2008, 494 nel 2009). Tuttavia, tra gli utenti non è possibile comprendere quale sia l’incidenza effettiva dei minori. È possibile, invece, scorporare il dato nel caso delle strutture residenziali. A questo proposito, i dati del 2011 sembrano confermare indirettamente la criticità relativa all’alto ricorso a strutture residenziali per l’affidamento dei minori svantaggiati, anche se non si è ai livelli di gran parte delle regioni meridionali: in Umbria il 54% della spesa per le strutture riguarda l’area “Famiglia e Minori” (tab. 12). 23 I dati sono disponibili solo a partire dal 2006.

40,3

10,4

3,5

18,3

12,415,1

37,4

15,3

1,6

25,4

6

14,3

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

Famiglia e Minori Disabili Dipendenze Anziani Immigrati e Nomadi

Povertà, Disagio degli adulti e Senza dimora

Umbria

Italia

421

Tab. 11 - Classifica delle regioni per incidenza dell’area “Famiglia e Minori” sulla spesa destinata all’assistenza domiciliare socio-assistenziale nel 2011 Regioni Spesa “Famiglia e Minori” Spesa totale % “Famiglia e Minori” Umbria 1.746.032 7.439.385 23,5 Basilicata 1.906.103 10.096.590 18,9 Lombardia 20.887.618 137.549.269 15,2 Puglia 4.845.317 36.070.711 13,4 Lazio 8.263.250 103.665.898 8 Campania 3.027.540 45.586.570 6,6 Sicilia 4.119.243 71.205.050 5,8 Trento 1.653.114 29.226.048 5,7 Abruzzo 1.051.870 19.332.130 5,4 Toscana 2.530.900 49.600.853 5,1 Calabria 383.567 7.956.464 4,8 Molise 148.109 3.234.233 4,6 Marche 619.991 13.907.424 4,5 Trentino-Alto Adige 1.653.114 44.199.418 3,7 Emilia-Romagna 1.771.409 50.443.077 3,5 Piemonte 2.033.013 70.440.971 2,9 Veneto 1.488.698 70.752.708 2,1 Sardegna 1.152.439 80.011.254 1,4 Liguria 277.598 22.491.425 1,2 Friuli-Venezia Giulia 128.141 32.438.828 0,4 Valle d'Aosta - 8.755.422 0 Bolzano - 14.973.370 0

Fonte: Istat, Indagine sugli interventi ed i servizi sociali dei comuni singoli o associati Tab. 12 - Classifica delle regioni per incidenza dell’area “Famiglia e Minori” sulla spesa destinata alle strutture residenziali nel 2011 Regioni Spesa “Famiglia e Minori” Spesa totale % “Famiglia e Minori” Molise 951.058 1.112.602 85,5 Abruzzo 6.851.099 8.789.079 78 Campania 34.380.521 46.572.023 73,8 Basilicata 3.217.002 4.403.601 73 Puglia 35.598.856 56.450.270 63,1 Liguria 22.126.091 38.909.155 56,8 Umbria 5.750.922 10.646.053 54,0 Sicilia 50.419.952 106.664.635 47,3 Marche 10.981.462 23.885.147 46,1 Lombardia 104.930.489 254.238.431 41,3 Emilia-Romagna 50.393.220 121.782.505 41,3 Trento 8.747.911 23.510.590 37,2 Trentino-Alto Adige 20.386.411 54.886.294 37,1 Bolzano 11.638.500 31.375.704 37,1 Sardegna 13.082.508 41.321.833 31,7 Calabria 2.157.914 7.251.720 29,8 Veneto 25.922.999 99.908.349 25,9 Toscana 24.975.413 97.104.095 25,7 Lazio 46.390.101 205.561.567 22,6 Friuli-Venezia Giulia 13.436.871 63.664.543 21,1 Valle d'Aosta - 14.630.887 -

Note: sono comprese rette e contributi pagati dai comuni agli utenti di strutture private Sono esclusi i centri estivi o invernali con pernottamento Fonte: Istat, Indagine sugli interventi ed i servizi sociali dei comuni singoli o associati L’Umbria si colloca al terzultimo posto per spesa pro-capite destinata alle strutture residenziali: si tratta di 11.737 euro, un valore inferiore al dato nazionale di circa 2.600 euro (14.364). Nel 2011 i minori in strutture sono risultati 490, 20 in più di quanto riportato dal Tavolo Nazionale Affidi (ma la discrepanza dei dati può dipendere dal modo

422

diverso di computare gli utenti) e 40 in più del 2010: si registra una progressiva crescita negli anni di questo tipo di utenza, con l’eccezione del 2008 (i minori erano 314 nel 2006, 410 nel 2007, 493 nel 2008, 394 nel 2009). L’incidenza regionale sul totale di minori istituzionalizzati è raddoppiata dal 2006 al 2010: dallo 0,8% si è passati all’1,6% del totale di minori che in Italia vive in strutture di questo tipo, con questo valore che è sceso all’1,4% nel 201124. Come per i servizi per la prima infanzia, si conferma l’organizzazione sociale flessibile del welfare in Umbria: la spesa non è elevata, per via anche della particolare conformazione dei comuni (si tratta in gran parte di piccoli centri), ma la capacità di radicamento (estensione dell’offerta) e di raggiungimento dell’utenza (presa in carico) risultano buone. Ad esempio, per quanto riguarda l’assistenza domiciliare socio-assistenziale per l’area “Famiglia e Minori” al 2011 l’indice di copertura territoriale è il più alto d’Italia. Quasi novantacinque famiglie con almeno un minore su 100 risiede nei comuni in cui è attivato questo servizio (graf. 4). Graf. 4 - Classifica delle regioni per indice di copertura territoriale dell’assistenza domiciliare socio-assistenziale nell’area “Famiglia e Minori” nel 2011

Note: il valore italiano è al netto della provincia di Bolzano per la quale non è disponibile il dato Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati L’estensione dell’offerta è, dunque, alta, con l’87% dei comuni attivatori del servizio. La presa in carico è di 3 persone ogni 1.000 persone in nuclei familiari con almeno un minore, un valore più alto di quello registrato nelle diverse aree del Paese (tab. 13). L’offerta di strutture residenziali concernenti l’area “Famiglia e Minori” del welfare locale, invece, è meno estesa di quanto rilevato altrove: solo il 52,2% dei comuni ha attivato questo servizio nel 2011. Si tratta di un valore inferiore di quasi 20 punti percentuali al dato umbro di solo un anno prima e inferiore anche al Sud (Isole escluse).

24 Si rinvia alla nota precedente.

3,75,1

1113,2

2226,5

2831,332,7

38,143,243,6

59,475

83,284,4

86,386,9

9194,8

0 20 40 60 80 100

Valle d'AostaMolise

CalabriaSardegna

Friuli Venezia GiuliaMarcheLiguriaSicilia

Emilia-RomagnaCampania

PugliaVeneto

AbruzzoToscana

LombardiaLazio

BasilicataTrento

PiemonteUmbria

Indice di copertura territoriale

423

L’indice di copertura territoriale è comunque buono, perché quasi l’85% della popolazione umbra risiede nei comuni attivatori del servizio. Se la copertura territoriale è inferiore a quella del Nord Italia, la presa in carico degli utenti umbra è invece allineata tanto al dato nazionale quanto a quello settentrionale (tab. 14). Tab. 13 - Indicatori di performance del servizio di assistenza domiciliare socio-assistenziale nell’area “Famiglia e Minori” nel 2011. Comparazione tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree Percentuale di comuni che

offrono il servizio di assistenza domiciliare

Indice di copertura territoriale per il servizio di

assistenza domiciliare

Indice di presa in carico degli utenti per il servizio di

assistenza domiciliare Umbria 87,0 94,8 0,3 Nord Ovest 75,9 79,6 0,2 Nord Est (a) 40,9 39,5 - Centro 52,7 74,7 0,1 Sud 38,3 38,7 0,1 Isole 15,5 27,2 - Italia (a) 52,8 53,2 0,1

Note: (a) Per il Nord Est e per l’Italia il valore è al della provincia di Bolzano per la quale non è disponibile il dato Fonte: Istat, Indagine sugli interventi e i servizi sociali dei comuni singoli e associati Tab. 14 - Indicatori di performance dell’offerta di strutture residenziali nell’area famiglia e minori nel 2011. Comparazione tra l’Umbria e le diverse ripartizioni geografiche del Paese

Aree Percentuale di comuni

che offrono strutture residenziali

Indice di copertura territoriale delle

strutture residenziali

Indice di presa in carico degli utenti nelle

strutture residenziali Umbria 52,2 84,9 0,2 Nord Ovest 87,3 94,2 0,2 Nord Est (a) 90,5 95,7 0,2 Centro 59,6 87,5 0,2 Sud 52,8 75,0 0,1 Isole 40,5 77,9 0,1 Italia (a) 72,2 85,4 0,2

Note: (a) Per il Nord Est e per l’Italia il valore è al della provincia di Bolzano per la quale non è disponibile il dato Nel 2011 risulta che i 2/3 dei posti letto sono offerti da strutture socio-sanitarie, ma l’incidenza di questo tipo di offerta è più alta solo rispetto alle Isole. Al contrario, quasi il 13% dei posti sono coperti da strutture di natura socio-educativa ed educativa psicologica, mentre questo tipo di offerta è inferiore altrove (Nord Ovest:4,6%; Nord Est: 4,6%; Centro: 7,1%; Sud: 10,3%; Isole: 11,3%). Nel 2011 i posti letto operativi in Umbria sono 482,8 ogni 100.000 residenti, ma questo valore scende a 154,3 per i minori (ogni 100.000 residenti di 0-17 anni) e sale a 1.280,7 per gli anziani (ogni 100.000 residenti dai 65 anni in su). In altri termini, in seno alla società locale le strutture residenziali riguardano per lo più gli anziani non autosufficienti, proprio come avviene in tutta Italia. Tuttavia, l’utenza tanto anziana quanto minorile è inferiore a quella rilevata nelle diverse ripartizioni del Paese. L’offerta di posti letto per minori è inferiore solo nel Sud Italia, dove le strutture residenziali accolgono 130 bambini e ragazzi di 0-17 anni ogni 100.000 residenti di questa coorte di età. L’Umbria si contraddistingue per 47 utenti con problemi di salute mentale e 38 utenti con problemi di

424

tossicodipendenza ogni 100.000 residenti: in entrambi i casi, e soprattutto per l’area “Dipendenze”, si tratta di valori superiori a quelli analoghi calcolati per area geografica. Queste ultime due problematiche rinviano a un tema più ampio e complesso, relativo al livello di coesione-integrazione sociale della società umbra. Ad esempio, la dipendenza da droghe e alcool potrebbe rivelarsi una forma di comportamento frutto in molti casi della scarsa capacità di trasmissione dai più anziani ai più giovani di modelli di riferimento valoriale e d’azione utili a garantire un sufficiente grado di integrazione sociale. L’elevata diffusione di questa patologia potrebbe segnalare l’intensificarsi del livello di anomia sociale, da intendere - sulla scia di Durkheim (1893, 1897) - come diffuso disorientamento valoriale delle persone, in particolare dei più giovani. A questo proposito, si può accennare al fatto che nonostante gli sforzi dell’assetto istituzionale, anche con la realizzazione di progetti specifici volti a contrastare situazioni di elevata gravità sociale25, e la particolare attenzione alla prevenzione tramite la costruzione di una solida offerta di servizi per la prima infanzia, nella società umbra si manifestano segnali di disagio. L’anomia sociale potrebbe consistere non solo nell’assenza di modelli valoriali di riferimento per la condotta, ma anche, come indica Merton (1949), nella crescita della discrepanza tra valori-mete culturali generali e i mezzi socialmente legittimi che gli individui impiegano effettivamente per tentare di raggiungere le suddette mete. È interessante notare che, con l’eccezione del 2011, dal 2000 al 2012 per tasso di utenti (ogni 10.000 abitanti) dei servizi per le tossicodipendenze (graf. 5), così come per incremento dal 2007 (anno di inizio crisi) al 2012 dei reati commessi (+30,8%) e denunciati relativi allo spaccio di droga, l’Umbria occupa il triste primato26. Graf. 5 - Utenti dei Servizi per le tossicodipendenze (ogni 10.000 abitanti) dal 2000 al 2012. Comparazione tra l’Umbria e l’Italia

Note: mancano i dati del 2009 Fonte: Ministero della Salute, Rilevazione attività nel settore tossicodipendenze e Sistema Informativo Nazionale per le Dipendenze (SIND) 25 Si pensi, solo per fare un esempio, al progetto P.I.U.M.A., progetto pilota per il trattamento di minori vittime di abuso e sfruttamento sessuale nell’ambito della programmazione regionale (piano sociale regionale 2010-2012, piano sanitario 2009-2011). 26 Inoltre, nel 2011 sono state computate 1,56 dimissioni ospedaliere per disturbi psichici per abuso di droghe ogni 10.000 abitanti: l’Umbria è al sesto posto, mentre la Liguria è prima con 2,10 dimissioni (fonte: Ministero della Salute).

39,8 40,337,7 36,8

35,6

39,4

33,1

36,338,4

40,3

29 28,9

34,8

25,8 26,427,8 28,4 27,9 27,6

29,2 29 2829,4 29 28,9

27,6

15

20

25

30

35

40

45

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Umbria

Italia

425

Nel caso dei reati di spaccio, peraltro, si registra in Umbria una controtendenza rispetto a quanto rilevato in molte altre regioni dove si è avuto un calo del fenomeno (tab. 15). La particolare diffusione dei reati relativi allo spaccio di droga pare confermata dalla percezione del rischio di criminalità, che è più alta in Umbria rispetto a quanto rilevato complessivamente al Nord, Centro e Sud Italia (tab. 16). Tab. 15 - Reati commessi e denunciati relativi allo spaccio di droga dal 2007 al 2012 per regione

Regioni 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Var. % 2007-2012

Umbria 464 544 644 590 603 607 30,8 Sicilia 1.920 2.075 2.213 2.302 2.434 2.446 27,4 Lazio 4.021 3.904 3.942 3.677 4.457 4.753 18,2 Puglia 1.784 1.679 1.800 1.949 2.091 2.085 16,9 Trentino-Alto Adige 468 534 566 495 499 505 7,9 Campania 3.166 3.019 3.067 3.191 3.046 3.236 2,2 Veneto 2.147 2.338 2.333 2.155 2.197 2.175 1,3 Toscana 2.552 2.632 2.471 2.514 2.448 2.496 -2,2 Marche 946 916 885 775 918 900 -4,9 Basilicata 239 282 282 321 218 227 -5 Lombardia 5.890 5.859 5.771 5.502 5.542 5.564 -5,5 Calabria 961 950 931 824 887 860 -10,5 Molise 144 114 121 146 133 126 -12,5 Emilia Romagna 2.897 2.805 2.720 2.354 2.593 2.465 -14,9 Sardegna 1.105 1.004 986 993 988 911 -17,6 Liguria 1.491 1.560 1.420 1.349 1.298 1.221 -18,1 Abruzzo 826 746 819 729 683 667 -19,2 Piemonte 2.812 2.550 2.499 2.405 2.561 2.156 -23,3 Friuli-Venezia Giulia 514 517 570 437 381 392 -23,7 Valle d'Aosta 91 51 61 53 57 60 -34,1

Fonte: Ministero degli Interni Tab. 16 - Percentuale di famiglie che avvertono molto o abbastanza disagio al rischio di criminalità nella zona in cui vivono nel 2000, 2005, 2010, 2011 e 2012. Comparazione tra l’Umbria e le diverse aree del Paese Aree 2000 2005 2010 2011 2012 Umbria 32,5 35,2 21,9 21,9 32,7 Nord-ovest 33,6 30,3 30,1 29,2 27,7 Nord-est 28,7 28,1 22,1 22,6 24,2 Centro 31,4 27,7 28,9 26,7 28,7 Mezzogiorno 28,6 29,7 26,5 26,7 25,0

Fonte: Istat, Indagine Multiscopo sulle famiglie, Aspetti della Vita Quotidiana La presenza di alcuni fenomeni rivelatori di disagio sociale come quelli appena evidenziati stride con la performance positiva nel campo dei servizi e interventi destinati ai minori. Quale welfare educativo per l’infanzia e i minori in Umbria?

La società locale umbra presenta un’organizzazione flessibile delle politiche sociali e si mostra resiliente rispetto alle pressioni esterne: da un lato cerca di attenuare il processo di ridimensionamento del welfare state, dall’altro lato tenta di sfruttare le possibilità di ricalibratura e innovazione dei servizi sociali su scala territoriale offerte dal quadro normativo europeo.

426

Le pressioni politico-istituzionali esogene (non solo nazionali) sembrano essere state in buona parte assorbite, se è vero che dal 2004 al 2011 è addirittura cresciuto l’investimento nei servizi per la prima infanzia, aspetto che ha fatto recuperare il gap scontato in passato dall’Umbria nei confronti del Centro-Nord Italia. Probabilmente questo recupero trae origine anche dal patrimonio politico-istituzionale accumulato nel tempo: negli anni Settanta-Ottanta la società umbra ha vissuto un momento di effervescenza nel ripensamento e rilancio della sfera pubblica e sociale. Nel 2012 si registra, però, un preoccupante scivolamento verso il basso nella capacità inclusiva del modello sociale umbro. Se l’offerta dei servizi per l’infanzia si è contratta ovunque, lasciando più spazio ai privati e addebitando maggiori costi sulle famiglie, in Umbria questa dinamica pare alquanto marcata: viene meno uno dei tratti dell’eccellenza umbra dell’ultimo decennio, ossia l’elevata capacità di investimento nei servizi per i più piccoli. Altre ricerche consentiranno di comprendere se l’espansione precedente dei servizi per l’infanzia sia stata realizzata a costo di un abbassamento della qualità o se invece questa sia stata mantenuta: nodi da sciogliere nel dibattito pubblico italiano sono l’effettiva messa in pratica della valutazione della qualità dei servizi pubblici, come quelli socio-educativi per i bambini di 0-6 anni (Cipollone, 2001, op. cit.), e l’esame dei reali costi del cosiddetto welfare mix (de Leonardis, 1998; Pavolini, 2003; Ascoli, Pavolini, op. cit.). In ogni caso, per il momento va registrata in Umbria una battuta di arresto nella presa in carico dei bambini di età inferiore ai 3 anni. Sul versante scolastico il modello sociale umbro tiene, mostrando punte di eccellenza: anche se gli effetti delle diseguaglianze di classe sulle carriere scolastiche (Schizzerotto, 2002; Brint, 2008; Checchi, 2010) potrebbero essere non marginale anche in questa regione, i tassi di scolarizzazione della popolazione e la partecipazione scolastica restano comunque tra i più alti d’Italia. Più problematica, invece, è la situazione nell’area del welfare educativo vocato all’integrazione sociale delle fasce più marginali. Sembra che si allarghi l’area della deprivazione. Un quadro simile è confermato dalla tabella 17 in cui sono presentati i punteggi assunti dalle regioni su 4 indici ottenuti con l’analisi in componenti principali a due stadi: si tratta di una tecnica che aiuta a costruire indici parsimoniosi e empiricamente radicati, cioè formati da poche variabili tra loro strettamente correlate e precedentemente selezionate da un paniere più ampio (Di Franco, Marradi, 2003). L’Umbria assume un punteggio positivo (+0,6) sull’indice di estensione dell’offerta del welfare educativo, che sintetizza le informazioni relative alla copertura territoriale nel 2011 dei servizi attivati dei Comuni in questo campo del welfare. L’indice considera anche la percentuale di alunni che fruiscono del tempo pieno nella scuola primaria27. Nonostante su quest’ultimo aspetto sconti delle 27 L’indice di estensione dell’offerta riproduce il 60,8% della varianza di 4 variabili, di cui 3 fanno riferimento all’indice di copertura territoriale nel 2011 rispettivamente di asili nido (+0,331), servizi di assistenza domiciliare socio assistenziale nell’area “Famiglia e Minori” (+0,278), strutture residenziali per i minori (+0,345). La quarta variabile fa riferimento alla percentuale di alunni della scuola primaria a tempo pieno nell’anno scolastico 2012-2013 (+0,323). I valori tra parentesi indicano l’influenza netta (min. -1, max. +1) di ogni variabile sull’indice complessivo. Come si può notare, l’indice copre semanticamente tutte le 3 aree del welfare educativo qui prese in considerazione e fa riferimento agli ultimi dati disponibili. Solo il servizio sociale professionale non è stato preso in considerazione, non essendo calcolato dall’Istat il relativo tasso di copertura territoriale.

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difficoltà, l’Umbria si colloca in posizione mediana28. Rispetto al recente passato l’Umbria è scesa di qualche posizione; infatti nel 2010 era al quinto posto con un punteggio pari a +0,8. La nostra regione è al terzo posto, invece, per punteggio su un indice che considera la capacità di inclusione scolastica (il punteggio assunto è +1), mentre si colloca più in basso per efficacia (+0,4) nella presa in carico degli asili nido e l’affidamento dei minori che vivono una condizione di forte disagio sociale nel loro nucleo familiare29. Infine, nonostante un modello sociale che tende all’inclusione e che prova ad ampliare la rete dei servizi, per deprivazione educativa dei minori nel 201230 l’Umbria è solo in posizione mediana. In altre parole, su quest’ultimo aspetto l’Umbria si trova in una situazione peggiore di tutto il Centro-Nord Italia, Piemonte escluso (tab. 17). Il quadro delineato segnala l’esigenza di approfondire l’analisi delle dinamiche che forse attraversano più in profondità la società regionale e indicate diffusamente nelle ultime edizioni della RES: l’Umbria, pur mostrando una buona performance nell’organizzazione sul territorio delle politiche pubbliche, incontra crescenti difficoltà nell’assorbimento delle contraddizioni insite nel proprio modello di sviluppo e derivanti anche dal più generale scenario nazionale di crisi economica e sociale. Oggi le pressioni esterne, provenienti dall’economia globale e dalla crisi attuale così come essa si configura su scala nazionale, sembrano acuire le debolezze dell’assetto produttivo regionale, con l’espansione di diseguaglianze e povertà. La buona performance del welfare evidenziata nei paragrafi successivi pare non essere sufficiente ad assorbire tutte le contraddizioni, se poi il capitale culturale dei minori non risulta nel suo complesso così alto come ci si aspetterebbe e addirittura si registra una minoranza consistente di bambini e ragazzi in forte disagio economico. Questa situazione non si può attribuire solo alla permanenza di una società rurale poco propensa a innalzare i consumi culturali. 28 È poco sopra la mediana, ma va tenuto presente che per Trento e Bolzano, entrambe province virtuose, non è stato possibile calcolare il punteggio su questo indice per assenza di dati sulla copertura territoriale dei servizi esaminati. 29 L’analisi multivariata ha portato a individuare due differenti indici di efficacia per le 3 aree del welfare educativo qui individuate. Infatti, le variabili relative alla scolarizzazione sono poco correlate con quelle che fanno riferimento al welfare comunale, nello specifico i servizi per l’infanzia e quelli di integrazione sociale dei minori provenienti da ambienti più svantaggiati. Un primo indice segnala il livello di efficacia raggiunto in ogni regione in merito all’inclusione scolastica. Segnatamente, questo indice riproduce il 68,5% della varianza delle seguenti variabili: punteggio medio ottenuto dagli studenti della scuola di II grado nel test Invalsi del 2013 sulle competenze alfabetiche (+0,354), tasso di abbandono scolastico al primo biennio della scuola di II grado (-0,389), tasso di dispersione scolastica, ossia la percentuale di ragazzi di 18-24 anni privi del diploma e non in formazione (-0,458). L’altro indice riproduce il 62,5% della varianza di queste 3 variabili: presa in carico degli asili nido nel 2012 (+0,366), minori affidati ogni 1.000 minori residenti nel 2011 (0,403) e percentuale di minori affidati in comunità sul totale degli affidi nel 2011 (-0,487). In sintesi questo indice fa riferimento a un fattore che discrimina i welfare regionali per il loro orientamento ai servizi per l’infanzia e agli interventi volti a prevenire/recuperare situazioni di forte disagio dei minori, evitando al tempo stesso misure come l’affidamento in comunità. 30 Questo indice è una rivisitazione dell’IPE (Indice di Povertà Educativa) presentato nel Rapporto 2013 di Save the Children. Infatti, dall’analisi multivariata (analisi in componenti principali) molte variabili impiegate per l’IPE risultano poco correlate e ciò influisce anche sulla capacità dell’indice di riprodurre la loro varianza. Ciò dovrebbe far riflettere sull’effettiva capacità di rappresentanza semantica degli indicatori selezionati in merito al problema della deprivazione educativa. L’indice qui presentato è, invece, più parsimonioso ed empiricamente fondato, oltre che adattato a dati di tipo territoriale: esso riproduce il 67,1% della varianza complessiva di 5 variabili relative alla percentuale nel 2012 di bambini di 6-17 che negli ultimi 12 mesi hanno fatto sport (-0,213), sono andati almeno una volta a un concerto (-0,208), hanno letto almeno un libro (-0,252), hanno visitato musei o mostre (-0,284), sono andati almeno una volta a teatro (-0,256).

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Tab. 17 - Welfare educativo. Graduatoria delle regioni per estensione dell’offerta, efficacia/inclusione e deprivazione educativa dei minori nel 2011-2013

Regi

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i

Lombardia 1,2 Liguria 2,3 Trento 1,8 Campania 1,6 Toscana 1,1 Emilia-Romagna 1,3 Veneto 1,3 Calabria 1,5 Piemonte 1,0 Toscana 1,2 Friuli-Venezia Giulia 1,0 Puglia 1,4 Lazio 0,9 Piemonte 0,8 Umbria 1,0 Sicilia 1,3 Emilia-Romagna 0,9 Valle d'Aosta 0,7 Marche 0,7 Molise 1,1 Friuli-Venezia Giulia 0,7 Sardegna 0,5 Lombardia 0,4 Abruzzo 0,7 Liguria 0,6 Lombardia 0,4 Bolzano 0,3 Basilicata 0,5 Umbria 0,6 Umbria 0,4 Emilia-Romagna 0,3 Sardegna 0,5 Veneto 0,3 Marche 0,2 Piemonte 0,2 Valle d'Aosta -0,1 Basilicata 0,2 Trentino-Alto Adige 0,0 Liguria 0,2 Piemonte -0,2 Abruzzo -0,2 Veneto -0,1 Lazio 0,2 Umbria -0,2 Marche -0,3 Lazio -0,1 Basilicata 0,2 Liguria -0,3 Puglia -0,4 Friuli-Venezia Giulia -0,3 Abruzzo 0,2 Toscana -0,3 Sardegna -0,7 Sicilia -0,5 Molise 0,1 Marche -0,4 Sicilia -0,8 Puglia -0,8 Toscana -0,2 Lombardia -0,5 Campania -1,2 Basilicata -0,9 Calabria -0,4 Lazio -0,6 Molise -1,7 Calabria -0,9 Puglia -0,5 Emilia-Romagna -0,7 Calabria -2,1 Molise -1,4 Valle d'Aosta -0,9 Veneto -0,8 Bolzano nd Abruzzo -1,5 Campania -1,4 Friuli-Venezia Giulia -0,9 Trentino-Alto Adige nd Campania -1,5 Sardegna -2,1 Trento -1,4 Trento nd Bolzano nd Sicilia -2,2 Bolzano -2,2 Valle d'Aosta nd Trento nd Trentino-Alto Adige nd Trentino-Alto Adige nd

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat

A questo proposito, l’analisi multivariata dei dati sembra corroborare quantomeno l’ipotesi dell’emergenza di una nuova questione sociale, a cui si è accennato nel paragrafo precedente: l’Umbria presenta un punteggio sull’indice di deprivazione educativa dei minori pressoché in linea con quanto ci si aspetterebbe sulla base della percentuale di famiglie in difficoltà economica (fig. 2).

Fig. 2 - Collocazione delle regioni per percentuale di famiglie con deprivazione economica e Indice di Deprivazione Educativa dei minori

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat

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Dall’analisi della regressione lineare risulta che nelle regioni italiane per ogni punto standard in più di famiglie in deprivazione economica si registrano mediamente 0,8 punti standard in più di deprivazione educativa dei minori. Ben il 65% della varianza relativa all’indice di deprivazione educativa dei minori del 2012 nelle regioni italiane risulta riprodotta da un modello che considera la presa in carico dei servizi per la prima infanzia di due anni prima (2010) come variabile indipendente e la percentuale di famiglie deprivate l’anno successivo (2011) come variabile interveniente. Viene confermata la funzione di contrasto alla povertà culturale da parte dei servizi socio educativi per i più piccoli: laddove si investe in più nella prima infanzia si registra tendenzialmente un più basso grado di deprivazione educativa dei bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni. Il grafico 6 indica come tale funzione di contrasto venga esercitato soprattutto indirettamente attraverso l’influenza che l’attivazione dei servizi ha nel ridurre il disagio economico delle famiglie, con quest’ultimo che, invece, pare favorire la deprivazione educativa dei minori31. Graf. 6 - L’influenza della presa in carico dei servizi per la prima infanzia e della percentuale di famiglie con deprivazione economica sull’Indice di Deprivazione Educativa dei minori -.736 +.633 -.242 Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Allo stesso tempo, in diverse regioni centro-settentrionali la percentuale di famiglie deprivate economicamente si tiene più alta di quanto ci si aspetterebbe per effetto della presa in carico dei servizi per la prima infanzia di due anni prima. E l’Umbria eccelle per “i residui” sulla retta di regressione (Corbetta, 2002): è cioè la regione più lontana dalla retta di regressione (fig. 3).

31 L’impiego della tecnica della path analysis mostra come l’effetto causale totale della presa in carico dei servizi della prima infanzia (asili nido, servizi integrativi e servizi innovativi) sulla deprivazione educativa dei minori sia pari a ben -.707 (il coefficiente beta impiegato in queste analisi oscilla tra -1 e +1). L’effetto diretto è pari a -.242 e quello indiretto a -0,465. L’effetto spurio è quasi nullo (0,02).

PRESA IN CARICO

SERVIZI PRIMA INFANZIA (2010)

% FAMIGLIE CON DEPRIVAZIONE

ECONOMICA (2011)

DEPRIVAZIONE EDUCATIVA DEI

MINORI (2012)

430

Fig. 3 - Collocazione delle regioni per presa in carico dei servizi per la prima infanzia e percentuale di famiglie in deprivazione economica

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Più nel dettaglio, l’azione che la presa in carico a favore dei più piccoli esercita nel contrastare la povertà economica delle famiglie, stimolando l’occupazione femminile anche direttamente tramite l’attivazione del circuito dei servizi socio educativi, è più debole di quanto rilevato altrove; è cioè insufficiente a colmare lacune che derivano da un assetto produttivo in forte crisi e storicamente fondato su bassi salari. Il quadro dovrebbe essere peggiorato negli ultimi anni non solo per la minore presa in carico dei servizi per l’infanzia, ma anche per via della crescita del disagio economico delle famiglie umbre. Allo stesso tempo, come già detto, l’Umbria eccelle per punteggio sull’indice di efficacia nell’inclusione scolastica e assume una posizione mediana sia per efficacia nella presa in carico dei minori sia per estensione dell’offerta del welfare educativo. Almeno in riferimento alle variabili utilizzate in questa ricerca, i tre fattori appena elencati contribuiscono a riprodurre ben l’80,1% della variabilità territoriale dell’indice di deprivazione educativa dei minori. Secondo il modello statistico illustrato nel grafico 7, nel contrasto alla deprivazione educativa dei minori l’estensione del welfare educativo32 risulta più importante della presa in carico dei servizi per l’infanzia33. Ciò può essere attribuito non solo all’azione diretta dell’offerta di welfare educativo, ma anche alla capacità di quest’ultimo di migliorare la presa in carico dei minori e favorire la loro scolarizzazione. Nel secondo caso si può 32 Ossia, la più alta incidenza del tempo pieno nella scuola primaria e la maggiore copertura territoriale dei servizi comunali quali asili nido, servizi socio-assistenziali e strutture residenziali per minori. 33 L’effetto totale esercitato sull’indice di deprivazione educativa dei minori da parte dell’estensione dell’offerta del welfare educativo è -0,831, così suddivisibile: effetto diretto -0,421; effetto indiretto per mediazione dell’efficacia nella presa in carico dei minori, pari a -0,159 (+0,657*-0,243); effetto indiretto per mediazione dell’efficacia scolastica, pari a 0,193 (0,512*-0,378). L’effetto spurio è basso, -0,057, essendo l’effetto bivariato pari a -0,831 e la somma degli effetti diretti e indiretti uguali a -0,774. Per maggiori dettagli si rinvia a Corbetta, Gasperoni, Pisati (2001).

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presupporre che una più ampia offerta del welfare educativo non solo favorisca nel tempo le prestazioni scolastiche dei bambini, ma sia indicatore della presenza già in un dato momento di una migliore cooperazione degli attori pubblici locali con il mondo della scuola: in tal caso i policy makers comunali e regionali, ed eventualmente attori della società civile, lavorano in sinergia con l’attore scolastico (statale) offrendo a quest’ultimo risorse economiche e cognitive (Parziale, 2013, op. cit.) per rendere più efficaci le prestazioni sociali sul territorio. Graf. 7 - L’influenza dell’estensione dell’offerta sul welfare educativo e dell’efficacia scolastica sul tasso di minori deprivati culturalmente nel 2012 +.657 +.512 -.421 -.243 -.378 Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Il modello qui ipotizzato sembra segnalare l’efficacia di sistemi di welfare come quello umbro, che per anni si è mosso alla ricerca di forme organizzative anche flessibili pur di raggiungere la più ampia utenza nei servizi socio educativi destinati a bambini e ragazzi. Si può pensare con ragionevolezza che senza questa attivazione istituzionale la deprivazione educativa dei minori in Umbria sarebbe stata oggi maggiore. Nondimeno, basta spostare di poco il punto di osservazione e notare ancora una volta che l’impegno nelle politiche dedicate non è ancora sufficiente, se è vero che per inclusione scolastica e attivazione dei servizi per i minori l’Umbria è tra le regioni meglio posizionate in Italia, ma è comunque nona per livello di consumi culturali dei bambini e ragazzi tra i 6 e i 17 anni34. A questo proposito non va dimenticato quanto evidenziato poc’anzi: in questi anni il welfare educativo umbro ha subito una contrazione.

34 L’undicesimo posto per deprivazione educativa dei minori corrisponde al nono posto, se questo indice è commentato secondo la polarità semantica opposta (livello di consumo culturale dello stesso target della popolazione).

ESTENSIONE

DELL’OFFERTA

EFFICACIA NELLA PRESA

IN CARICO DEI MINORI

DEPRIVAZIONE

EDUCATIVA DEI MINORI

EFFICACIA

NELL’INCLUSIO-NE SCOLASTICA

432

Le difficoltà di tenuta del modello sociale umbro, riscontrate nel 2012, potrebbero dipendere non solo da fattori strettamente economici, ma anche da un più ampio mutamento socio-culturale. Infatti, l’espansione del processo di individualizzazione (Paci, 2005) e di ridefinizione parziale delle relazioni inter-generazionali possono minare le logiche d’azione degli attori pubblici, costretti a soddisfare una domanda sociale più fragile ma anche più complessa. La buona riuscita di un sistema di welfare, e più in generale dell’organizzazione di una società, infatti, dipende dall’interazione tra gli attori pubblici e una serie di attori privati: singoli individui, associazioni, famiglie, e così via. L’azione pubblica si radica, infatti, all’interno di uno specifico tessuto sociale connotato da determinate pratiche e culture. La società umbra potrebbe essere attraversata da profondi cambiamenti che rimettono in discussione, ad esempio, l’equilibrio degli anni passati tra produzione e riproduzione garantito dalla famiglia. Quest’ultima potrebbe rivelarsi meno forte nel contrastare gli effetti negativi della crisi economica35 anche per un mutamento della sua composizione sociale. La “colonizzazione del mondo della vita” da parte del mercato (Habermas, 1986) forse sta aprendo in maniera non attesa, secondo una dinamica dialettica, nuove possibilità di emancipazione36 che al tempo stesso pare solo promettere in maniera strumentale37. Nel caso umbro potrebbe essere critica la compresenza di più fenomeni come la scarsa mobilità sociale e la crescente propensione alla formazione continua di ampi strati della popolazione; l’urbanizzazione “dolce” e la messa in discussione delle forme di convivenza tradizionale, che hanno connotato fino a qualche anno fa la società locale come tendenzialmente rurale; il multiculturalismo complessivo e il rischio di chiusura identitaria di alcune fasce sociali dinanzi a difficoltà innanzitutto materiali; e, ancora, la crescita del capitale scolastico delle donne e l’intensificarsi del carico domestico femminile, fenomeno evidenziato a più riprese da Montesperelli (1999; 2008, op. cit.). Cartina di tornasole di queste criticità è in un certo senso il punteggio positivo che l’Umbria assume sia sull’indice di anomia sia su quello di devianza diffusa38. Nel contesto 35 Si rinvia ai contributi di Calzola e Ripalvella e di Montesperelli. 36 L’espansione della logica di mercato a diverse sfere della vita contribuisce non solo alla trasformazione di conoscenza, relazioni ed emozioni in fattori di produzione (Fumagalli, 2006; Vercellone, 2006), ma anche alla crescita delle aspirazioni professionali di donne e in generale di un numero ampio di giovani, a prescindere dalla loro origine sociale. 37 Non è questa la sede per ragionare sugli aspetti ambivalenti di questo processo, e sulle “promesse” appositamente non mantenute dall’ideologia connessa alla regolazione neoliberale (si veda Bourdieu, 2001, in particolare il cap. 2). Qui si vuole solo sottolineare che le contraddizioni presenti potrebbero non essere più funzionali alla riproduzione del sistema sociale così come è. 38 Per la costruzione dei due indici si è partito da un ampio paniere di indicatori relativi al malessere degli individui e poi si è proceduto per affinamento, selezionando solo le variabili altamente correlate. L’indice di anomia riproduce il 65% della varianza delle seguenti variabili (medie 2010-2012): tasso di suicidi (+0,422), tasso di tentativi di suicidi (+0,430), tasso di dimissioni ospedaliere per disturbi psichici derivanti dall’uso di droghe (+0,390). L’indice di devianza diffusa riproduce il 67% della varianza delle seguenti variabili (medie 2010-2012): numero di reati di spaccio ogni 10.000 abitanti (+0,289), tasso di rapine ogni 100.000 abitanti (+0,292), furti ogni 100.000 abitanti (+0,303), percentuale di famiglie che avvertono molto o abbastanza disagio per il rischio di criminalità (+0,332). Il primo indice rappresenta un livello di malessere sociale che sfocia nella violenza contro se stessi e in casi estremi nella rinuncia alla vita (anomia); l’altro indice sembra rappresentare almeno in parte la presenta di un livello relativamente alto di discrepanza nei soggetti tra mete istituzionali (successo, benessere economico) e mezzi legittimi (lavoro, rispetto delle regole, etc.) per raggiungere queste ultime; tale malessere può portare i soggetti sociali più marginali (in termini non necessariamente materiali) a compiere violenza verso gli altri e ad alimentare una sensazione di insicurezza tra la popolazione.

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nazionale le regioni più piccole e rurali sono più propense all’anomia che alla devianza diffusa, mentre in altre relativamente più urbanizzate vale l’esatto contrario (Toscana, Lazio, Campania, Puglia). È nelle regioni più ricche, Emilia-Romagna e Lombardia, che i due fenomeni sono compresenti con una certa intensità, mostrando così difficoltà di integrazione sociale su più fronti. La Liguria presenta il caso più critico. Il gruppo delle regioni con alti punteggi su entrambi gli indici è completato proprio dall’Umbria. Rispetto al Centro Italia, nella nostra regione l’anomia è più alta e il livello di devianza è inferiore solo al Lazio (fig. 4). Fig. 4 - Collocazione delle regioni per anomia e devianza diffusa

Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat Pertanto, affianco alle positività del modello sociale umbro si scorgono non solo difficoltà nell’azione pubblica derivanti dalla crisi economica, ma anche fratture che sono probabilmente il frutto di processi di lungo periodo che ora vanno sedimentandosi e la crisi inasprisce. In questo quadro, le difficoltà della performance istituzionale nel welfare educativo potrebbero segnalare la sua non completa autosufficienza dinanzi agli smottamenti dell’assetto produttivo e alla possibile ridefinizione delle gerarchie sociali e dei modelli culturali degli umbri. Infanzia e minori finisce così per costituire un campo di osservazione privilegiata per intravedere mutamenti sociali profondi di questa regione e individuare strade per un’organizzazione del welfare più efficace nell’affrontare i problemi relativi alle nuove generazioni umbre.

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