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supplemento al numero 5 - Anno III - maggio 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org I 23 giugno 1946 viene fir- mato a Roma dal gover- no De Gasperi lo storico accordo Italia-Belgio poi denominato “Uomo/Car- bone”. A quell’epoca il Belgio aveva urgente bi- sogno di manodopera per estrarre il carbone dalle miniere, la cui pro- duzione era in netto ca- lo. I belgi rifiutano di scendere in miniera, consapevoli della perico- losità del lavoro e del basso salario percepito in cambio. Il Governo decide allora l’importa- zione di manodopera straniera e intraprese la trattative con il Governo italiano guidato da Alci- de De Gasperi, dettando condizioni durissime: l'Italia organizzava l'emi- grazione di 50 mila lavo- ratori, in cambio il Belgio si impegnava a vendere all’Italia un minimo di 2500 tonnellate di carbo- ne ogni 1000 operai in- viati. L’Italia si assicura così entrate in valuta straniera e la possibilità di dotarsi di carbone, in- dispensabile per la ripre- sa economica del Paese. I bei manifesti rosa, affis- si in tutti i comuni d’Ita- lia, parlavano di un lavo- ro sotterraneo nelle mi- niere belghe. Natural- mente non fornivano al- cun dettaglio su questo lavoro, soffermandosi in- vece sui vantaggi dei sa- lari, delle vacanze e degli assegni familiari. La real- tà che trovarono i lavora- tori italiani in Belgio fu, invece, ben altra cosa: un lavoro durissimo e peri- colosissimo da affronta- re senza alcuna prepara- zione specifica. I candi- dati minatori venivano concetrati a Milano dove usufruivano dei tre piani sotto la stazione. Dopo aver superato le visite mediche e dopo un viag- gio che poteva durare an- che 52 ore, gli italiani so- no scaricati non nelle sta- zioni riservate ai passeg- geri ma nelle zone desti- nate alle merci. Qui veni- vano allineati secondo il pozzo nel quale dovran- no andare a lavorare. Do- po il viaggio massacrante venivano trasferiti negli "alloggi" che consisteva- no nelle baracche di le- gno utilizzate dai prigio- nieri russi durante l’oc- cupazione nazista. Que- sto popolo di lavoratori era tenuto lontano dalle città nascosto in campi sconosciuti alla maggio- ranza dei belgi: era un popolo invisibile. Li chia- mavano anche "musi ne- ri" per il particolare tipo di lavoro che svolgevano. Le condizioni dei minato- ri erano scandalose ma nessuno volle vederlo fi- no all’8 Agosto 1956. 275 uomini scendono nelle miniere Bois du Cazier di Marcinelle. Le gabbie de- gli ascensori avevano di- stribuito le squadre nei vari piani, a quota 765 e La Conferenza che ha riunito a Roma i delega- ti del Governo italiano e del Governo belga per trattare del trasferi- mento di 50.000 lavora- tori nelle miniere bel- ghe, è giunta alle se- guenti conclusioni: 1) Il Governo italiano, nella convinzione che il buon esito dell'operazione possa stabilire rapporti sempre più cordiali col Governo belga e dare la dimostrazione al mon- do della volontà dell' Italia di contribuire alla ripresa economica del- l'Europa, farà tutto il possibile per la riuscita del piano in progetto. Esso provvederà a che si effettui sollecitamen- te e nelle migliori condi- zioni l'avviamento dei lavoratori fino alla lo- calità da stabilirsi di co- mune accordo in prossi- mità della frontiera italosvizzera, dove a sua cura saranno isti- tuiti gli uffici incaricati di effettuare le opera- zioni definitive di ar- ruolamento. 2) Il Gover- no belga mantiene inte- gralmente i termini dell'«accordo minatori- carbone» firmato pre- cedentemente. Esso af- fretterà, per quanto è possibile, l'invio in Ita- lia delle quantità di car- bone previste dall'ac- cordo ... 5) Il Governo italiano si adoprerà a che gli aspiranti al- l'espatrio in qualità di minatori siano, nel mi- glior modo, edotti di quanto li concerne, atti- rando, in particolar mo- do, la loro attenzione sul fatto che essi saran- no destinati ad un lavo- ro di profondità nelle miniere, pel quale sono necessarie un'età relati- vamente ancor giovane (35 al massimo) e un buono stato di salute ... 11) Il Governo italiano farà tutto il possibile per inviare in Belgio 2.000 lavoratori la set- timana 12) I convogli saranno formati nel luogo designato di co- mune accordo fra le Autorità italiane e bel- ghe. Per verun motivo detto luogo potrà essere modificato senza provio accordo dei due Gover- ni. Nella stazione di partenza saranno ap- prestati locali ai fini di un'accurata visita me- dica di ciascun operaio, della firma del suo con- tratto di lavoro e del controllo della polizia belga. Un servizio d'or- dine organizzato nella stazione avrà il compito di impedire l'accesso al treno ad ogni persona che non abbia adempiu- to a tutte le formalità sopra indicate.. Roma, il 23 giugno 1946. "Scortati dalla polizia fino alla nuova residenza belga, partivano dalla stazione di Milano tutti stretti in piccoli convogli che sembravano non fermarsi mai. Alle spal- le, centinaia di chilometri prima, le delusioni e le miserie di una terra arida di pro- messe. Ma infine, quando il treno ferma, ci si ritrova tra italiani nei campi per pri- gionieri e la casa, naturalmente in condivisione con altre famiglie, non è altro che una vecchia baracca lasciata libera dai carcerati tedeschi circondata perfino, in alcuni casi, dal filo spinato. Non c'è neanche tempo di rendersi conto del posto nuovo perché subito, il giorno dopo l'arrivo, inizia il lavoro in un mondo sotter- raneo assolutamente sconosciuto. Con addosso tutto il peso del mondo. Acco- vacciati in un trabiccolo che fa le veci di uno strano ascensore incomincia così la discesa nel cuore della terra. Poi il lavoro è sempre quello, sempre identico. Con la pistola pneumatica si apre un varco e dopo ci si aiuta con le pale, con le mani, con tutto quello che si può. Si forma un cunicolo e lo si puntella, pronti a prose- guire" Merce di scambio Merce di scambio 1.035. Un carrello esce dalle guide e va a sbatte- re contro un fascio di ca- vi elettrici ad alta tensio- ne senza rete di prote- zione. Subito divampa l’incendio e le fiamme si propagano immediata- mente. Solo 13 lavorato- ri sopravviveranno. Le vittime sono 262 di cui 136 italiani, il più giova- ne di 14 anni e il più an- ziano di 53 anni. Il pro- cesso che seguì si conclu- se con l’assoluzione dei dirigenti della società mi- neraria e la responsabili- tà fu attribuita all’addet- to alla manovra del car- rello, un italiano an- ch’egli morto nel disa- stro. La tragedia colpì la comunità italiana e fece conoscere a tutti le con- dizioni proibitive del la- voro nelle miniere. Il go- verno italiano, incalzato dalle opposizioni, fu co- stretto a bloccare le vie ufficiali dell’emigrazione verso il Belgio. Protocollo Italo-Belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio

Inserto "Merce di scambio" - Maggio 2011

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Mensile d'informazione politica e cultura dell'Associazione comunista "Luciana Fittaioli" con sede a Foligno (PG)

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Page 1: Inserto "Merce di scambio" - Maggio 2011

supplemento al numero 5 - Anno III - maggio 2011 di Piazza del Grano - www.piazzadelgrano.org

I

23 giugno 1946 viene fir-mato a Roma dal gover-no De Gasperi lo storicoaccordo Italia-Belgio poidenominato “Uomo/Car-bone”. A quell’epoca ilBelgio aveva urgente bi-sogno di manodoperaper estrarre il carbonedalle miniere, la cui pro-duzione era in netto ca-lo. I belgi rifiutano discendere in miniera,consapevoli della perico-losità del lavoro e delbasso salario percepitoin cambio. Il Governodecide allora l’importa-zione di manodoperastraniera e intraprese latrattative con il Governoitaliano guidato da Alci-de De Gasperi, dettandocondizioni durissime:l'Italia organizzava l'emi-grazione di 50 mila lavo-ratori, in cambio il Belgiosi impegnava a vendereall’Italia un minimo di2500 tonnellate di carbo-ne ogni 1000 operai in-viati. L’Italia si assicura

così entrate in valutastraniera e la possibilitàdi dotarsi di carbone, in-dispensabile per la ripre-sa economica del Paese. Ibei manifesti rosa, affis-si in tutti i comuni d’Ita-lia, parlavano di un lavo-ro sotterraneo nelle mi-niere belghe. Natural-mente non fornivano al-cun dettaglio su questolavoro, soffermandosi in-vece sui vantaggi dei sa-lari, delle vacanze e degliassegni familiari. La real-tà che trovarono i lavora-tori italiani in Belgio fu,invece, ben altra cosa: unlavoro durissimo e peri-colosissimo da affronta-re senza alcuna prepara-zione specifica. I candi-dati minatori venivanoconcetrati a Milano doveusufruivano dei tre pianisotto la stazione. Dopoaver superato le visitemediche e dopo un viag-gio che poteva durare an-che 52 ore, gli italiani so-no scaricati non nelle sta-

zioni riservate ai passeg-geri ma nelle zone desti-nate alle merci. Qui veni-vano allineati secondo ilpozzo nel quale dovran-no andare a lavorare. Do-po il viaggio massacrantevenivano trasferiti negli"alloggi" che consisteva-no nelle baracche di le-gno utilizzate dai prigio-nieri russi durante l’oc-cupazione nazista. Que-sto popolo di lavoratoriera tenuto lontano dallecittà nascosto in campisconosciuti alla maggio-ranza dei belgi: era unpopolo invisibile. Li chia-mavano anche "musi ne-ri" per il particolare tipodi lavoro che svolgevano.Le condizioni dei minato-ri erano scandalose manessuno volle vederlo fi-no all’8 Agosto 1956. 275uomini scendono nelleminiere Bois du Cazier diMarcinelle. Le gabbie de-gli ascensori avevano di-stribuito le squadre neivari piani, a quota 765 e

La Conferenza che hariunito a Roma i delega-ti del Governo italiano edel Governo belga pertrattare del trasferi-mento di 50.000 lavora-tori nelle miniere bel-ghe, è giunta alle se-guenti conclusioni: 1) IlGoverno italiano, nellaconvinzione che il buonesito dell'operazionepossa stabilire rapportisempre più cordiali colGoverno belga e dare ladimostrazione al mon-do della volontà dell'Italia di contribuire allaripresa economica del-l'Europa, farà tutto ilpossibile per la riuscitadel piano in progetto.Esso provvederà a chesi effettui sollecitamen-te e nelle migliori condi-zioni l'avviamento deilavoratori fino alla lo-calità da stabilirsi di co-mune accordo in prossi-mità della frontieraitalo svizzera, dove asua cura saranno isti-tuiti gli uffici incaricatidi effettuare le opera-zioni definitive di ar-ruolamento. 2) Il Gover-no belga mantiene inte-gralmente i terminidell'«accordo minatori-carbone» firmato pre-cedentemente. Esso af-fretterà, per quanto èpossibile, l'invio in Ita-lia delle quantità di car-bone previste dall'ac-cordo ... 5) Il Governoitaliano si adoprerà a

che gli aspiranti al-l'espatrio in qualità diminatori siano, nel mi-glior modo, edotti diquanto li concerne, atti-rando, in particolar mo-do, la loro attenzionesul fatto che essi saran-no destinati ad un lavo-ro di profondità nelleminiere, pel quale sononecessarie un'età relati-vamente ancor giovane(35 al massimo) e unbuono stato di salute ...11) Il Governo italianofarà tutto il possibileper inviare in Belgio2.000 lavoratori la set-timana 12) I convoglisaranno formati nelluogo designato di co-mune accordo fra leAutorità italiane e bel-ghe. Per verun motivodetto luogo potrà esseremodificato senza provioaccordo dei due Gover-ni. Nella stazione dipartenza saranno ap-prestati locali ai fini diun'accurata visita me-dica di ciascun operaio,della firma del suo con-tratto di lavoro e delcontrollo della poliziabelga. Un servizio d'or-dine organizzato nellastazione avrà il compitodi impedire l'accesso altreno ad ogni personache non abbia adempiu-to a tutte le formalitàsopra indicate..

Roma, il 23 giugno1946.

"Scortati dalla polizia fino alla nuova residenza belga, partivano dalla stazione diMilano tutti stretti in piccoli convogli che sembravano non fermarsi mai. Alle spal-le, centinaia di chilometri prima, le delusioni e le miserie di una terra arida di pro-messe. Ma infine, quando il treno ferma, ci si ritrova tra italiani nei campi per pri-gionieri e la casa, naturalmente in condivisione con altre famiglie, non è altro cheuna vecchia baracca lasciata libera dai carcerati tedeschi circondata perfino, inalcuni casi, dal filo spinato. Non c'è neanche tempo di rendersi conto del postonuovo perché subito, il giorno dopo l'arrivo, inizia il lavoro in un mondo sotter-raneo assolutamente sconosciuto. Con addosso tutto il peso del mondo. Acco-vacciati in un trabiccolo che fa le veci di uno strano ascensore incomincia così ladiscesa nel cuore della terra. Poi il lavoro è sempre quello, sempre identico. Conla pistola pneumatica si apre un varco e dopo ci si aiuta con le pale, con le mani,con tutto quello che si può. Si forma un cunicolo e lo si puntella, pronti a prose-guire"

Merce di scambioMerce di scambio

1.035. Un carrello escedalle guide e va a sbatte-re contro un fascio di ca-vi elettrici ad alta tensio-ne senza rete di prote-zione. Subito divampal’incendio e le fiamme sipropagano immediata-mente. Solo 13 lavorato-ri sopravviveranno. Levittime sono 262 di cui136 italiani, il più giova-ne di 14 anni e il più an-ziano di 53 anni. Il pro-cesso che seguì si conclu-se con l’assoluzione deidirigenti della società mi-neraria e la responsabili-tà fu attribuita all’addet-to alla manovra del car-rello, un italiano an-ch’egli morto nel disa-stro. La tragedia colpì lacomunità italiana e fececonoscere a tutti le con-dizioni proibitive del la-voro nelle miniere. Il go-verno italiano, incalzatodalle opposizioni, fu co-stretto a bloccare le vieufficiali dell’emigrazioneverso il Belgio.

Protocollo Italo-Belga per il trasferimento di 50.000minatori italiani in Belgio

Page 2: Inserto "Merce di scambio" - Maggio 2011

II III

Un popolo migranteUn popolo migrante

“Fra il 1880 e il 1915 ap-

prodano negli Stati Uniti

quattro milioni di italiani,

su 9 milioni circa di emi-

granti che scelsero di attra-

versare l'Oceano verso le

Americhe. Le cifre non ten-

gono conto del gran nume-

ro di persone che rientrò in

Italia: una quota considere-

vole ( 50/60%) nel periodo

1900-1914. Circa il settan-

ta per cento proveniva dal

Meridione, anche se fra il

1876 ed il 1900 la maggior

parte degli emigrati era del

Nord Italia con il quaranta-

cinque per cento composto

solo da Veneto, Friuli Vene-

zia Giulia e Piemonte. Le

motivazioni che spinsero

masse di milioni di Meri-

dionali ad emigrare furono

molteplici. Durante l'inva-

sione Piemontese, operata

senza dichiarazione di

guerra, del Regno delle due

Sicilie, i macchinari delle

fabbriche, non dimenti-

chiamo che Napoli era allo-

ra una città all'avanguardia

in campo industriale, furo-

no portati al Nord dove in

seguito sorsero le industrie

del Piemonte, della Lom-

bardia e della Liguria.

Le popolazioni del Meri-

dione, devastato dalle guer-

ra con circa un milione di

morti, da cataclismi natura-

li (il terremoto del 1908

con l'onda di marea nello

Stretto di Messina uccise

più di 100,000 persone nel-

la sola città di Messina) de-

predato dall'esercito, dis-

sanguato dal potere ancora

di stampo feudale, non eb-

bero altra alternativa che

migrare in massa. Il siste-

ma feudale, ancora perfet-

tamente efficiente, permet-

teva che la proprietà terrie-

ra ereditaria determinasse

il potere politico ed econo-

mico, lo status sociale, di

ogni individuo. In questo

modo, le classi povere non

ebbero praticamente alcu-

na possibilità di migliorare

la propria condizione. Da

aggiungere ai motivi del-

l'esodo la crisi agraria dal

1880 in poi, successiva-

mente l'aggravarsi delle im-

poste nelle campagne meri-

dionali dopo l'unificazione

del paese, il declino dei vec-

chi mestieri artigiani, delle

industrie domestiche, la

crisi della piccola proprie-

tà e delle aziende montane,

delle manifatture rurali. Gli

Stati Uniti dal 1880 apriro-

no le porte all'immigrazio-

ne nel pieno dell'avvio del

loro sviluppo capitalistico;

le navi portavano merci in

Europa e ritornavano cari-

che di emigranti. I costi del-

le navi per l'America erano

inferiori a quelli dei treni

per il Nord Europa, per

questo milioni di persone

scelsero di attraversare

l'Oceano. L'arrivo in Ameri-

ca era caratterizzato dal

trauma dei controlli medi-

ci e amministrativi durissi-

mi, specialmente ad Ellis Is-

land, l'Isola delle Lacrime.

Nel Museo dell'Emigrazio-

ne a New York ci sono an-

cora le valigie piene di sup-

pellettili e di povero abbi-

gliamento delle persone

che reimbarcate per l'Italia,

nella disperazione si butta-

vano nelle acque gelide del-

la baia andando quasi sem-

pre incontro alla morte.”

(da “Remembering Ellis Is-land on Columbus Day”, diRo Pucci)

Ellis Island“Isola delle lacrime”

(tratto da Angela Molteni,www.antoniogramsci.com)

Fino al 1850 circa non esiste-

vano procedure ufficiali per

l’immigrazione a New York.

In questa data l’impennata

del numero di immigrati eu-

ropei che fuggivano dalle

grandi carestie del 1846 e

dalle rivoluzioni fallite del

1848 spinse le autorità ad

aprire un centro di immigra-

zione a Castle Clinton in Bat-

tery Park, sulla punta meri-

dionale dell’isola di Manhat-

tan. Verso il 1880 le privazio-

ni che si soffrivano nell’Euro-

pa orientale e meridionale e

la forte depressione econo-

mica nell’Italia meridionale

spinsero migliaia di persone

ad abbandonare il Vecchio

Continente. Al contempo in

America stava prendendo il

via la rivoluzione industria-

le, con un crescente proces-

so di urbanizzazione. Ellis Is-

land fu aperta nel 1894,

quando l’America superò un

periodo di depressione eco-

nomica e cominciò a impor-

si come potenza mondiale.

In tutta Europa si diffusero

le voci sulle opportunità of-

ferte dal Nuovo Mondo e mi-

gliaia di persone decisero di

lasciare la loro patria. Quan-

do le navi a vapore entrava-

no nel porto di New York, i

più ricchi passeggeri di pri-

ma e seconda classe veniva-

no ispezionati a loro como-

do nelle loro cabine e scorta-

ti a terra da ufficiali dell’im-

migrazione. I passeggeri di

terza classe venivano porta-

ti a Ellis Island per l’ispezio-

ne, che era più dura. Ogni

immigrante in arrivo portava

con sé un documento con le

informazioni riguardanti la

nave che l’aveva portato a

New York. I medici esamina-

vano brevemente ciascun

immigrante e marcavano

sulla schiena con del gesso

coloro per i quali occorreva

un ulteriore esame per accer-

tarne le condizioni di salute;

se vi erano condizioni parti-

colari di infermità ciò com-

portava che venissero tratte-

nuti all’ospedale di Ellis Is-

land. Dopo questa prima

ispezione, gli immigranti

procedevano verso la parte

centrale della Sala di Regi-

strazione dove gli ispettori

interrogavano gli immigran-

ti a uno ad uno. A ogni immi-

grante occorreva perlomeno

una intera giornata per pas-

sare l’intero processo di

ispezione a Ellis Island. Le

scene sull’isola erano vera-

mente strazianti: per la mag-

gior parte le persone arriva-

vano affamate, sporche e

senza una lira, non conosce-

vano una parola di inglese e

si sentivano estremamente

in soggezione per la metro-

poli sull’altra riva. Agli immi-

granti veniva assegnata una

Inspection Card con un nu-

mero e c’era da aspettare an-

che tutto un giorno, mentre

i funzionari di Ellis Island la-

voravano per esaminarli.

Dopo l’ispezione, gli immi-

granti scendevano dalla Sala

di Registrazione per le “Sca-

le della Separazione” che se-

gnavano il punto di divisione

per molte famiglie e amici

verso diverse destinazioni. Il

centro era stato progettato

per accogliere 500.000 im-

migrati all’anno, ma nella

prima parte del secolo ne ar-

rivarono il doppio. Truffato-

ri saltavano fuori da ogni do-

ve, rubavano il bagaglio degli

immigrati durante i control-

li, e offrivano tassi di cambio

da rapina per il denaro che

questi erano riusciti a porta-

re con sé. Le famiglie veniva-

no divise, uomini da una par-

te, donne e bambini dall’al-

tra, mentre si eseguiva una

serie di controlli per elimina-

re gli indesiderabili e i mala-

ti. Questi ultimi venivano

portati al secondo piano, do-

ve i dottori controllavano la

presenza di “malattie ripu-

gnanti e contagiose” e mani-

festazioni di pazzia. Coloro

che non superavano gli esa-

mi medici venivano contras-

segnati, come già accennato,

con una croce bianca sulla

schiena e confinati sull’isola

fino a diversa decisione, op-

pure venivano reimbarcati. I

capitani delle navi avevano

l’obbligo di riportare gli im-

migrati non accettati al loro

porto di origine. Secondo le

registrazioni ufficiali tutta-

via solo il due per cento veni-

va rifiutato, e molti di questi

si tuffavano in mare e cerca-

vano di raggiungere Manhat-

tan a nuoto o si suicidavano,

piuttosto che affrontare il ri-

torno a casa. Fatto che meri-

tò a Ellis Island il nome di

“Isola delle lacrime”. Quando

gli Stati Uniti entrarono nel-

la prima guerra mondiale nel

1917, i sentimenti anti-immi-

grazione e le ostilità isolazio-

niste erano all’apice. Il Klu-

Klux-Klan, costituito nel

1915, rifletteva le opinioni di

coloro che disprezzavano gli

immigrati non inglesi consi-

derandoli di “razza inferio-

re”. Mentre gli immigrati do-

vevano affrontare ostilità di

ogni tipo, il ruolo di Ellis Is-

land cambiava rapidamente

da centro di smistamento

per gli immigrati a centro di

detenzione. Dopo il 1917

l’isola divenne principalmen-

te campo di raccolta e di

smistamento per deportati e

perseguitati politici. L’immi-

grazione diminuì sensibil-

mente all’inizio della prima

guerra mondiale e i decreti

sull’immigrazione del 1921

e del 1924 di fatto posero fi-

ne alla politica di “porte

aperte” degli Stati Uniti. Cit-

tadini giapponesi, italiani e

tedeschi furono detenuti a

Ellis Island durante la secon-

da guerra mondiale e il cen-

tro venne utilizzato princi-

palmente per detenzione fi-

no alla sua chiusura, il 12 no-

vembre 1954.

Il 28 dicembre 1939 lo scrit-

tore e giornalista praghese

Egon Erwin Kisch (1885-

1948) così scrive nel suo li-

bro Sbarcando a New York.

. “Sono di nuovo prigionie-ro sulla nave. Dall’oblò chiu-so vedo il Nuovo Mondo ver-so il quale da due settimane,due settimane di guerra, stonavigando sulla ‘Pennland’della linea olandese-ameri-cana [...]. L’immigration offi-cer dice che il mio passapor-to non è valido, perché un vi-sto cileno ottenuto a Pariginon è sufficiente come vistodi transito per l’America [...]Mentre parlava con me, unfunzionario gli mostrò un fo-gliettino, senza dubbio con-teneva qualcosa sul mio con-to. ‘Lo so’, disse. Quindi mitocca andare a Island - uneufemismo per Ellis Island,L’isola delle lacrime [...] Giùdalla ‘Pennland’ sulla qualeabbiamo trascorso più didue settimane, giù con tuttoil bagaglio (il mio è rimastoin Belgio), nei dock gelidi do-ve fanno la revisione doga-nale, poi con un tender al-l’isola-prigione sorvegliatadalla Statua della Libertà (siriempiono la bocca con laStatua della Libertà) [...]. Ciòche contraddistingue la no-stra prigione da ogni altra èla cabina telefonica. Una cel-la del carcere con cabina te-lefonica non esiste da nessu-n’altra parte. Ammesso cheuno abbia un nichelino, sipuò mettere in contatto conil resto del mondo, e al tem-po stesso non può. Nessunopuò chiamarti [...]. Facciouna passeggiata nel cortileche invece di quattro paretine ha soltanto due: quellemancanti sono acqua.”

57 milioni sono gli italiani

censiti residenti in Italia; 58

milioni sono gli italiani di

prima, seconda o terza ge-

nerazione stimati al di fuo-

ri dell’Italia. La cifra è im-

pressionante: un’altra na-

zione, un altro popolo al di

fuori dei confini della così

detta “patria”. Si può obiet-

tare che le seconde o le ter-

ze generazioni “non conta-

no”, perché oramai non si

possono più considerare

italiani ma cittadini degli

Stati di nuova residenza.

Questo in parte è vero per-

ché la “nostalgia” dell’Italia

che sicuramente colpiva la

prima generazione, che ha

sempre continuato a spera-

re di ritornare, anche per ri-

congiungersi ai parenti la-

sciati, e forse ha colpito an-

cora la seconda generazio-

ne cresciuta nell’ascolto dei

racconti e delle speranze

dei genitori, per la terza ge-

nerazione si è in buona par-

te mutata nella mera ricer-

ca, o meglio nella pura ri-

vendicazione di un identità

etnica da affermare di fron-

te alle altre tante identità et-

niche vantate dalle innume-

revoli minoranze dei paesi

di emigrazione. Una identi-

tà etnica sicuramente “mi-

nore”, come minore era il

peso mondiale della loro

“patria” di provenienza e

ancora “minimo”, per non

dire rifiutato e negato, era il

legame identitario tra i go-

vernanti della loro patria e i

suoi figli più miserabili spe-

diti a cercare fortuna (so-

pravvivenza!) all’estero. I

dati “veri”, i

dati cioè cen-

siti, del nume-

ro degli emi-

grati nei 100

anni dalla pri-

ma crisi eco-

nomica euro-

pea degli anni

70/80 dell’ot-

tocento all’ul-

timo decen-

nio del secolo

scorso, sono

c o m u n q u e

“mostruosi”:

26 milioni di

emigrati! In

alcune fasce

temporali di maggiore eso-

do (perché di questo si è

trattato: di un esodo bibli-

co!) è emigrata circa un ter-

zo dell’intera popolazione

residente. Alcuni numeri se-

condo i tre periodi statistici

di maggiore emigrazione.

Primo periodo 1876-1914:

oltre 14 milioni, con punte

di vero e sproprio esodo di

massa a ridosso della prima

guerra mondiale, prove-

nienti nella prima fase in

prevalenza dalla “sacche”

di estrema povertà del nord

Italia e poi sempre di più

dal mezzogiorno, diretti

per meno della metà verso

l’Europa e per il resto in

grande maggioranza verso

il nord America e in mino-

ranza verso il sud America;

secondo periodo 1918-

1940: poco più di 4 milioni

anche in ragione del “bloc-

co” all’emigrazione impo-

sto dal fascismo, in direzio-

ne per la metà verso l’Euro-

pa e il resto verso l’America

maggiormente verso il sud

America a causa delle re-

strizioni all’immigrazione

imposte dagli Stati Uniti;

terzo periodo 1946-1976,

circa 8 milioni in ampia par-

te in direzione dell’Europa.

26 milioni partiti, solo circa

8 milioni tornati in larghis-

sima maggioranza negli an-

ni del boom economico do-

po la seconda guerra mon-

diale.

57.000.000 contro 58.000.000il più grande esodo migratoriodella storia moderna

“Coltivavano il basiliconella vasca da bagno”

300.000 ogni anno dal Sudagricolo al Nord industriale

Limon, Costarica 25 agosto1927In questi giorni, in questi duemesi ti ho scritto tante voltesenza spedirti mai una dellemie lettere. Pigrizia e insod-disfazione. Un poco anche lacoscienza di non avere nien-te da scriverti che veramen-te valesse la pena. Di quan-to io mi ostino a pensare e acredere che valga la pena.Impiegato ora in una com-pagnia americana dove nonsto imparando nien-t’altro che l'odio perquesto popolo cheprima ammiravo.Popolo che si crede ildominatore del mon-do, che forse lo è eche da questo trae laconseguenza di unasuperiorità assolutasugli altri popoli e undisprezzo inflessibileper tutto ciò che nonè americano. Stipen-dio, ore di ufficio,nessuna prospettivaavvenire. Grigioreinfinito di vita in porto tropi-cale, abbastanza sudicio, dif-ficoltà propositi nuovi, alcu-ne nuove esperienze e rim-pianto. Rimpianto di quelloche non ho avuto. Niente dibrillante. Però la vita raccol-ta, riposata, silenziosa checonduco da due mesi mi stafacendo risorgere nell’ani-mo nuove energie e nuoviprogetti. Sono sicuro: prefe-risco non essere mai nienteche essere troppo. Preferiscosoffrire per tutta la vita quel-lo che ho sofferto in questiultimi anni che rassegnar-mi. Sono troppo giovane perquesto. Riprenderò la lottaappena abbia forza suffi-

ciente. Stamani, in ora in cuinon avevo niente da fare, miesercitavo a scrivere in ispa-gnolo un articolo per suppo-sto giornale più che altrocon lo scopo di esercitarmi ascrivere la lingua. Ad un cer-to momento arrivai a scrive-re di Firenze. Per la secondavolta nella mia vita un no-stalgia che mi si velava dipianto si è impadronita dime. Rivedevo Firenze dalViale dei Colli in una di quel-

le giornate opaline di prima-vera o di ottobre che ti rive-drai fra qualche mese sol-tanto e che io forse non rive-drò più. Come ero triste…Rimpiangevo tante, tantecose. Rimpiangevo te cheforse nemmeno rivedrò piùbenché tu sia entrata nellamia vita come nessuna altrapersona ha mai entrato némai entrerà più. Non sonovinto, ma stanco. Mi mancaforse lo stimolo ad andare, apensare in domani. Ma nonposso, non posso rimanerequi. In questo porto del tropi-co, caldissimo, asfissiante,monotono, triste dove a vol-te mi prende una disperazio-

ne terribile che va fino alloschifo del mio corpo pieno disudore, sudore, sudore. Vin-cere, riposare, rivedere le co-se lontane, abbandonate,mie. Allora tu non sari piùla. La vita è una perdita con-tinua, una perdita esaspe-rante, una perdita che nonammette sostituzioni. Ed iomi ribello inutilmente. Moltaacqua è fra noi. Molti giornici separano. Le vecchie illu-sioni sono morte, le ultime

speranze disfattedella distanza.Ma non mi rasse-gno. Mi sentostanco, mi sentotriste ma non vin-to. La povertà didomani non mispaventa perchétroppo soffro lapovertà di oggi. Edevo vincere. AhMaria è necessa-ria molta forza,molta pazienzaper passare attra-verso questa ter-

ribile prova. Quando mi scri-verai scrivimi più a lungo.Raccontami più cose. Tu seila ultima voce che mi vienedi costà. Tutti I miei vecchiamici a poco a poco hannocessato di scrivermi e mihanno dimenticato. Mio pa-dre quasi non scrive e quan-do scrive non fa altro cheaumentare la mia tristezza.Io necessito qualcosa che miricordi, che mi faccia rivive-re dinanzi quello che non èpiù mio. Perché di mio oranon ho niente, qui. Tutto èqui come provvisorio, comein un sogno, come in un rac-conto.

Saluti

Questo popolo che ci disprezza

Non è un caso che all’inter-

no di molti paesi della me-

tropoli capitalista vi siano

forti squilibri fra regione e

regione e che tali disparità,

nonostante durino da mol-

to tempo, non siano mai

state risolte. Tale ineguale

sviluppo è voluto, cercato,

utilissimo al rafforzamento

dei capitalismi nazionali.

Da questo punto di vista il

caso italiano è eclatan-

te e peculiare. In Italia

la questione meridio-

nale nasce insieme al-

l’Unità, e anzi, in un

certo senso è proprio

l’Unità a creare la que-

stione meridionale: i

centri industriali del

regno borbonico, in-

fatti, invece di essere

sostenuti e incentivati

furono spazzati via

per favorire le nascen-

ti industrie del nord, e

la monarchia sabauda

gestì il controllo dei

territori conquistati

con le tipiche armi del

colonialismo: feroce

repressione del dis-

senso (dietro il nome

di “lotta al brigantag-

gio”) e alleanza con l’inetta

borghesia locale, latifondi-

sta e parassitaria. E così,

dalla fine dell’Ottocento ai

giorni nostri, una genera-

zione dopo l’altra di lavora-

tori meridionali hanno do-

vuto lasciare la propria ter-

ra per cercarsi un futuro in

luoghi lontani o lontanissi-

mi: Nord Italia, Belgio, Ger-

mania, America, Austra-

lia… e oggi siamo al punto

di partenza: un’indagine

del 2010 redatta dall’Uffi-

cio Studi della Banca d’Italia

ha rilevato che il numero di

emigrati dal Sud al Nord

Italia è di nuovo molto vici-

no a quello dei primi anni

Sessanta, quando migliaia

di figli di contadini meridio-

nali raggiungevano il trian-

golo industriale Milano-Ge-

nova-Torino per diventare

operai. Un’emigrazione

molto diversa qualitativa-

mente, ma che tocca però le

stesse vette numeriche di

allora. Ogni anno, infatti, si

spostano dalle regioni me-

ridionali verso quelle del

Centro-Nord circa 270 mila

persone: 120 mila in manie-

ra permanente, 150 mila

per uno o più mesi. Un da-

to vicino a quello dei primi

anni Sessanta, quando a

trasferirsi al Nord erano

295 mila persone l’anno.

Parlare di 270 mila uomini

e donne che ogni anno van-

no da Sud a Nord per lavo-

rare o per studiare significa

immaginare una città come

Caltanissetta che si sposta

tutta intera per trovare un

futuro. Tra il 1990 e il 2005

quasi 2 milioni di cittadini

italiani sono stati costretti

ad abbandonare il Sud per

andare a trovare un impie-

go in qualche cittadina del

Nord. E le cose sono persi-

no peggiorate rispetto a 40

anni fa! Allora la “valigia di

cartone”, comunque sinoni-

mo di sacrificio e di dolore,

significava anche poter

contare un lavoro presso-

ché sicuro (probabilmente

sino alla pensione) e su un

futuro di più ampie pro-

spettive per sé e per i pro-

pri figli. Ora, invece, con

precarietà e flessibilità a

farla da padrone, si parte

con un carico di incognite

ben più pesante e difficile

da gestire. La “questione

meridionale”, lungi

dall’essere risolta al-

meno sul fronte oc-

cupazionale, quello

del lavoro al sud per

intenderci, esiste in

tutta la sua dramma-

ticità. Un Mezzogior-

no incapace di trat-

tenere il proprio ca-

pitale umano (tra

l’altro ora se vanno

anche moltissimi

laureati), perde uno

dei fattori chiave per

tenere viva la spe-

ranza in un reale

cambiamento per

tutto il Paese. “Dalpunto di vista delMezzogiorno, l’emi-grazione dei lavora-tori, e in particolare

di quelli con qualifiche piùelevate, può comportare unimpoverimento di capitaleumano che, a sua volta, po-trebbe riflettersi nella persi-stenza dei differenziali ter-ritoriali in termini di produt-tività, competitività e, in ul-tima analisi, di crescita eco-nomica. In questo contesto,l’intervento delle autorità dipolitica economica deve es-sere teso, piuttosto che a fre-nare l’emigrazione, a ri-muoverne le determinanti,che hanno come comunedenominatore la quantità ela qualità della crescita eco-nomica nel Mezzogiorno.”(Banca d’Italia gennaio

2010). Ma allora, da sessan-

t’anni a questa parte, cosa è

cambiato?

L’emigrazione senza fine

I meridionali furono dipin-

ti in vari modi: come insof-

ferenti verso il lavoro me-

todico e monotamente

svolto, come incapaci di

adattarsi ai ritmi ed ai la-

vori imposti dalle società

moderne. In molti li consi-

deravano sporchi, incivili e

non erano rari cartelli con

scritto: “non si fitta ai me-

ridionali”. Tutti i meridio-

nali a prescindere dalla lo-

ro regione di provenienza

erano chiamati "i napule",

era meglio non fidarsi e

poi facevano arrivare trop-

pi parenti e "coltivavano il

basilico nella vasca da ba-

gno”. A Torino gli immi-

grati trovarono alloggio

negli scantinati e nei solai

del centro, negli edifici de-

stinati a demolizione, in

cascine abbandonate al-

l'estrema periferia. Nelle

cittadine alla periferia di

Milano gli immigrati trova-

rono una diversa soluzio-

ne al problema della casa,

la costruzione delle cosid-

dette «coree»: gruppi di

case edificate di notte da-

gli stessi immigrati,

senza alcun per-

messo urbanistico,

su terreni agricoli

comprati coi loro ri-

sparmi. Il nome

«coree» sembra de-

rivare dal fatto che

queste costruzioni

apparvero per la

prima volta ai tempi

della guerra di Co-

rea. Il boom econo-

mico esigeva sem-

pre più manodope-

ra e fu così che

l'agricoltura e la

piccola industria insieme

all’edilizia e al piccolo

commercio, svolsero un

ruolo di “polmone della

nuova industrializzazione

del nord”. Le strategie del-

l’imprenditoria nazionale,

tentando un’integrazione

nel tessuto economico dei

paesi più avanzati, aveva-

no portato a una concen-

trazione degli investimen-

ti nei distretti industriali

del nord, rispetto alla qua-

le uno spostamento di ca-

pitali verso il sud avrebbe

significato disperdere tec-

nologie e risorse. Quindi il

Meridione, nel boom eco-

nomico, era destinato ad

avere una funzione subor-

dinata e funzionale agli in-

teressi dell’economia del

nord. La concentrazione

delle grandi fabbriche nel-

le regioni settentrionali

mise in moto un flusso mi-

gratorio dal sud agricolo al

nord industrializzato che

impoverì le regioni meri-

dionali anche delle risorse

umane.

Page 3: Inserto "Merce di scambio" - Maggio 2011

II III

Un popolo migranteUn popolo migrante

“Fra il 1880 e il 1915 ap-

prodano negli Stati Uniti

quattro milioni di italiani,

su 9 milioni circa di emi-

granti che scelsero di attra-

versare l'Oceano verso le

Americhe. Le cifre non ten-

gono conto del gran nume-

ro di persone che rientrò in

Italia: una quota considere-

vole ( 50/60%) nel periodo

1900-1914. Circa il settan-

ta per cento proveniva dal

Meridione, anche se fra il

1876 ed il 1900 la maggior

parte degli emigrati era del

Nord Italia con il quaranta-

cinque per cento composto

solo da Veneto, Friuli Vene-

zia Giulia e Piemonte. Le

motivazioni che spinsero

masse di milioni di Meri-

dionali ad emigrare furono

molteplici. Durante l'inva-

sione Piemontese, operata

senza dichiarazione di

guerra, del Regno delle due

Sicilie, i macchinari delle

fabbriche, non dimenti-

chiamo che Napoli era allo-

ra una città all'avanguardia

in campo industriale, furo-

no portati al Nord dove in

seguito sorsero le industrie

del Piemonte, della Lom-

bardia e della Liguria.

Le popolazioni del Meri-

dione, devastato dalle guer-

ra con circa un milione di

morti, da cataclismi natura-

li (il terremoto del 1908

con l'onda di marea nello

Stretto di Messina uccise

più di 100,000 persone nel-

la sola città di Messina) de-

predato dall'esercito, dis-

sanguato dal potere ancora

di stampo feudale, non eb-

bero altra alternativa che

migrare in massa. Il siste-

ma feudale, ancora perfet-

tamente efficiente, permet-

teva che la proprietà terrie-

ra ereditaria determinasse

il potere politico ed econo-

mico, lo status sociale, di

ogni individuo. In questo

modo, le classi povere non

ebbero praticamente alcu-

na possibilità di migliorare

la propria condizione. Da

aggiungere ai motivi del-

l'esodo la crisi agraria dal

1880 in poi, successiva-

mente l'aggravarsi delle im-

poste nelle campagne meri-

dionali dopo l'unificazione

del paese, il declino dei vec-

chi mestieri artigiani, delle

industrie domestiche, la

crisi della piccola proprie-

tà e delle aziende montane,

delle manifatture rurali. Gli

Stati Uniti dal 1880 apriro-

no le porte all'immigrazio-

ne nel pieno dell'avvio del

loro sviluppo capitalistico;

le navi portavano merci in

Europa e ritornavano cari-

che di emigranti. I costi del-

le navi per l'America erano

inferiori a quelli dei treni

per il Nord Europa, per

questo milioni di persone

scelsero di attraversare

l'Oceano. L'arrivo in Ameri-

ca era caratterizzato dal

trauma dei controlli medi-

ci e amministrativi durissi-

mi, specialmente ad Ellis Is-

land, l'Isola delle Lacrime.

Nel Museo dell'Emigrazio-

ne a New York ci sono an-

cora le valigie piene di sup-

pellettili e di povero abbi-

gliamento delle persone

che reimbarcate per l'Italia,

nella disperazione si butta-

vano nelle acque gelide del-

la baia andando quasi sem-

pre incontro alla morte.”

(da “Remembering Ellis Is-land on Columbus Day”, diRo Pucci)

Ellis Island“Isola delle lacrime”

(tratto da Angela Molteni,www.antoniogramsci.com)

Fino al 1850 circa non esiste-

vano procedure ufficiali per

l’immigrazione a New York.

In questa data l’impennata

del numero di immigrati eu-

ropei che fuggivano dalle

grandi carestie del 1846 e

dalle rivoluzioni fallite del

1848 spinse le autorità ad

aprire un centro di immigra-

zione a Castle Clinton in Bat-

tery Park, sulla punta meri-

dionale dell’isola di Manhat-

tan. Verso il 1880 le privazio-

ni che si soffrivano nell’Euro-

pa orientale e meridionale e

la forte depressione econo-

mica nell’Italia meridionale

spinsero migliaia di persone

ad abbandonare il Vecchio

Continente. Al contempo in

America stava prendendo il

via la rivoluzione industria-

le, con un crescente proces-

so di urbanizzazione. Ellis Is-

land fu aperta nel 1894,

quando l’America superò un

periodo di depressione eco-

nomica e cominciò a impor-

si come potenza mondiale.

In tutta Europa si diffusero

le voci sulle opportunità of-

ferte dal Nuovo Mondo e mi-

gliaia di persone decisero di

lasciare la loro patria. Quan-

do le navi a vapore entrava-

no nel porto di New York, i

più ricchi passeggeri di pri-

ma e seconda classe veniva-

no ispezionati a loro como-

do nelle loro cabine e scorta-

ti a terra da ufficiali dell’im-

migrazione. I passeggeri di

terza classe venivano porta-

ti a Ellis Island per l’ispezio-

ne, che era più dura. Ogni

immigrante in arrivo portava

con sé un documento con le

informazioni riguardanti la

nave che l’aveva portato a

New York. I medici esamina-

vano brevemente ciascun

immigrante e marcavano

sulla schiena con del gesso

coloro per i quali occorreva

un ulteriore esame per accer-

tarne le condizioni di salute;

se vi erano condizioni parti-

colari di infermità ciò com-

portava che venissero tratte-

nuti all’ospedale di Ellis Is-

land. Dopo questa prima

ispezione, gli immigranti

procedevano verso la parte

centrale della Sala di Regi-

strazione dove gli ispettori

interrogavano gli immigran-

ti a uno ad uno. A ogni immi-

grante occorreva perlomeno

una intera giornata per pas-

sare l’intero processo di

ispezione a Ellis Island. Le

scene sull’isola erano vera-

mente strazianti: per la mag-

gior parte le persone arriva-

vano affamate, sporche e

senza una lira, non conosce-

vano una parola di inglese e

si sentivano estremamente

in soggezione per la metro-

poli sull’altra riva. Agli immi-

granti veniva assegnata una

Inspection Card con un nu-

mero e c’era da aspettare an-

che tutto un giorno, mentre

i funzionari di Ellis Island la-

voravano per esaminarli.

Dopo l’ispezione, gli immi-

granti scendevano dalla Sala

di Registrazione per le “Sca-

le della Separazione” che se-

gnavano il punto di divisione

per molte famiglie e amici

verso diverse destinazioni. Il

centro era stato progettato

per accogliere 500.000 im-

migrati all’anno, ma nella

prima parte del secolo ne ar-

rivarono il doppio. Truffato-

ri saltavano fuori da ogni do-

ve, rubavano il bagaglio degli

immigrati durante i control-

li, e offrivano tassi di cambio

da rapina per il denaro che

questi erano riusciti a porta-

re con sé. Le famiglie veniva-

no divise, uomini da una par-

te, donne e bambini dall’al-

tra, mentre si eseguiva una

serie di controlli per elimina-

re gli indesiderabili e i mala-

ti. Questi ultimi venivano

portati al secondo piano, do-

ve i dottori controllavano la

presenza di “malattie ripu-

gnanti e contagiose” e mani-

festazioni di pazzia. Coloro

che non superavano gli esa-

mi medici venivano contras-

segnati, come già accennato,

con una croce bianca sulla

schiena e confinati sull’isola

fino a diversa decisione, op-

pure venivano reimbarcati. I

capitani delle navi avevano

l’obbligo di riportare gli im-

migrati non accettati al loro

porto di origine. Secondo le

registrazioni ufficiali tutta-

via solo il due per cento veni-

va rifiutato, e molti di questi

si tuffavano in mare e cerca-

vano di raggiungere Manhat-

tan a nuoto o si suicidavano,

piuttosto che affrontare il ri-

torno a casa. Fatto che meri-

tò a Ellis Island il nome di

“Isola delle lacrime”. Quando

gli Stati Uniti entrarono nel-

la prima guerra mondiale nel

1917, i sentimenti anti-immi-

grazione e le ostilità isolazio-

niste erano all’apice. Il Klu-

Klux-Klan, costituito nel

1915, rifletteva le opinioni di

coloro che disprezzavano gli

immigrati non inglesi consi-

derandoli di “razza inferio-

re”. Mentre gli immigrati do-

vevano affrontare ostilità di

ogni tipo, il ruolo di Ellis Is-

land cambiava rapidamente

da centro di smistamento

per gli immigrati a centro di

detenzione. Dopo il 1917

l’isola divenne principalmen-

te campo di raccolta e di

smistamento per deportati e

perseguitati politici. L’immi-

grazione diminuì sensibil-

mente all’inizio della prima

guerra mondiale e i decreti

sull’immigrazione del 1921

e del 1924 di fatto posero fi-

ne alla politica di “porte

aperte” degli Stati Uniti. Cit-

tadini giapponesi, italiani e

tedeschi furono detenuti a

Ellis Island durante la secon-

da guerra mondiale e il cen-

tro venne utilizzato princi-

palmente per detenzione fi-

no alla sua chiusura, il 12 no-

vembre 1954.

Il 28 dicembre 1939 lo scrit-

tore e giornalista praghese

Egon Erwin Kisch (1885-

1948) così scrive nel suo li-

bro Sbarcando a New York.

. “Sono di nuovo prigionie-ro sulla nave. Dall’oblò chiu-so vedo il Nuovo Mondo ver-so il quale da due settimane,due settimane di guerra, stonavigando sulla ‘Pennland’della linea olandese-ameri-cana [...]. L’immigration offi-cer dice che il mio passapor-to non è valido, perché un vi-sto cileno ottenuto a Pariginon è sufficiente come vistodi transito per l’America [...]Mentre parlava con me, unfunzionario gli mostrò un fo-gliettino, senza dubbio con-teneva qualcosa sul mio con-to. ‘Lo so’, disse. Quindi mitocca andare a Island - uneufemismo per Ellis Island,L’isola delle lacrime [...] Giùdalla ‘Pennland’ sulla qualeabbiamo trascorso più didue settimane, giù con tuttoil bagaglio (il mio è rimastoin Belgio), nei dock gelidi do-ve fanno la revisione doga-nale, poi con un tender al-l’isola-prigione sorvegliatadalla Statua della Libertà (siriempiono la bocca con laStatua della Libertà) [...]. Ciòche contraddistingue la no-stra prigione da ogni altra èla cabina telefonica. Una cel-la del carcere con cabina te-lefonica non esiste da nessu-n’altra parte. Ammesso cheuno abbia un nichelino, sipuò mettere in contatto conil resto del mondo, e al tem-po stesso non può. Nessunopuò chiamarti [...]. Facciouna passeggiata nel cortileche invece di quattro paretine ha soltanto due: quellemancanti sono acqua.”

57 milioni sono gli italiani

censiti residenti in Italia; 58

milioni sono gli italiani di

prima, seconda o terza ge-

nerazione stimati al di fuo-

ri dell’Italia. La cifra è im-

pressionante: un’altra na-

zione, un altro popolo al di

fuori dei confini della così

detta “patria”. Si può obiet-

tare che le seconde o le ter-

ze generazioni “non conta-

no”, perché oramai non si

possono più considerare

italiani ma cittadini degli

Stati di nuova residenza.

Questo in parte è vero per-

ché la “nostalgia” dell’Italia

che sicuramente colpiva la

prima generazione, che ha

sempre continuato a spera-

re di ritornare, anche per ri-

congiungersi ai parenti la-

sciati, e forse ha colpito an-

cora la seconda generazio-

ne cresciuta nell’ascolto dei

racconti e delle speranze

dei genitori, per la terza ge-

nerazione si è in buona par-

te mutata nella mera ricer-

ca, o meglio nella pura ri-

vendicazione di un identità

etnica da affermare di fron-

te alle altre tante identità et-

niche vantate dalle innume-

revoli minoranze dei paesi

di emigrazione. Una identi-

tà etnica sicuramente “mi-

nore”, come minore era il

peso mondiale della loro

“patria” di provenienza e

ancora “minimo”, per non

dire rifiutato e negato, era il

legame identitario tra i go-

vernanti della loro patria e i

suoi figli più miserabili spe-

diti a cercare fortuna (so-

pravvivenza!) all’estero. I

dati “veri”, i

dati cioè cen-

siti, del nume-

ro degli emi-

grati nei 100

anni dalla pri-

ma crisi eco-

nomica euro-

pea degli anni

70/80 dell’ot-

tocento all’ul-

timo decen-

nio del secolo

scorso, sono

c o m u n q u e

“mostruosi”:

26 milioni di

emigrati! In

alcune fasce

temporali di maggiore eso-

do (perché di questo si è

trattato: di un esodo bibli-

co!) è emigrata circa un ter-

zo dell’intera popolazione

residente. Alcuni numeri se-

condo i tre periodi statistici

di maggiore emigrazione.

Primo periodo 1876-1914:

oltre 14 milioni, con punte

di vero e sproprio esodo di

massa a ridosso della prima

guerra mondiale, prove-

nienti nella prima fase in

prevalenza dalla “sacche”

di estrema povertà del nord

Italia e poi sempre di più

dal mezzogiorno, diretti

per meno della metà verso

l’Europa e per il resto in

grande maggioranza verso

il nord America e in mino-

ranza verso il sud America;

secondo periodo 1918-

1940: poco più di 4 milioni

anche in ragione del “bloc-

co” all’emigrazione impo-

sto dal fascismo, in direzio-

ne per la metà verso l’Euro-

pa e il resto verso l’America

maggiormente verso il sud

America a causa delle re-

strizioni all’immigrazione

imposte dagli Stati Uniti;

terzo periodo 1946-1976,

circa 8 milioni in ampia par-

te in direzione dell’Europa.

26 milioni partiti, solo circa

8 milioni tornati in larghis-

sima maggioranza negli an-

ni del boom economico do-

po la seconda guerra mon-

diale.

57.000.000 contro 58.000.000il più grande esodo migratoriodella storia moderna

“Coltivavano il basiliconella vasca da bagno”

300.000 ogni anno dal Sudagricolo al Nord industriale

Limon, Costarica 25 agosto1927In questi giorni, in questi duemesi ti ho scritto tante voltesenza spedirti mai una dellemie lettere. Pigrizia e insod-disfazione. Un poco anche lacoscienza di non avere nien-te da scriverti che veramen-te valesse la pena. Di quan-to io mi ostino a pensare e acredere che valga la pena.Impiegato ora in una com-pagnia americana dove nonsto imparando nien-t’altro che l'odio perquesto popolo cheprima ammiravo.Popolo che si crede ildominatore del mon-do, che forse lo è eche da questo trae laconseguenza di unasuperiorità assolutasugli altri popoli e undisprezzo inflessibileper tutto ciò che nonè americano. Stipen-dio, ore di ufficio,nessuna prospettivaavvenire. Grigioreinfinito di vita in porto tropi-cale, abbastanza sudicio, dif-ficoltà propositi nuovi, alcu-ne nuove esperienze e rim-pianto. Rimpianto di quelloche non ho avuto. Niente dibrillante. Però la vita raccol-ta, riposata, silenziosa checonduco da due mesi mi stafacendo risorgere nell’ani-mo nuove energie e nuoviprogetti. Sono sicuro: prefe-risco non essere mai nienteche essere troppo. Preferiscosoffrire per tutta la vita quel-lo che ho sofferto in questiultimi anni che rassegnar-mi. Sono troppo giovane perquesto. Riprenderò la lottaappena abbia forza suffi-

ciente. Stamani, in ora in cuinon avevo niente da fare, miesercitavo a scrivere in ispa-gnolo un articolo per suppo-sto giornale più che altrocon lo scopo di esercitarmi ascrivere la lingua. Ad un cer-to momento arrivai a scrive-re di Firenze. Per la secondavolta nella mia vita un no-stalgia che mi si velava dipianto si è impadronita dime. Rivedevo Firenze dalViale dei Colli in una di quel-

le giornate opaline di prima-vera o di ottobre che ti rive-drai fra qualche mese sol-tanto e che io forse non rive-drò più. Come ero triste…Rimpiangevo tante, tantecose. Rimpiangevo te cheforse nemmeno rivedrò piùbenché tu sia entrata nellamia vita come nessuna altrapersona ha mai entrato némai entrerà più. Non sonovinto, ma stanco. Mi mancaforse lo stimolo ad andare, apensare in domani. Ma nonposso, non posso rimanerequi. In questo porto del tropi-co, caldissimo, asfissiante,monotono, triste dove a vol-te mi prende una disperazio-

ne terribile che va fino alloschifo del mio corpo pieno disudore, sudore, sudore. Vin-cere, riposare, rivedere le co-se lontane, abbandonate,mie. Allora tu non sari piùla. La vita è una perdita con-tinua, una perdita esaspe-rante, una perdita che nonammette sostituzioni. Ed iomi ribello inutilmente. Moltaacqua è fra noi. Molti giornici separano. Le vecchie illu-sioni sono morte, le ultime

speranze disfattedella distanza.Ma non mi rasse-gno. Mi sentostanco, mi sentotriste ma non vin-to. La povertà didomani non mispaventa perchétroppo soffro lapovertà di oggi. Edevo vincere. AhMaria è necessa-ria molta forza,molta pazienzaper passare attra-verso questa ter-

ribile prova. Quando mi scri-verai scrivimi più a lungo.Raccontami più cose. Tu seila ultima voce che mi vienedi costà. Tutti I miei vecchiamici a poco a poco hannocessato di scrivermi e mihanno dimenticato. Mio pa-dre quasi non scrive e quan-do scrive non fa altro cheaumentare la mia tristezza.Io necessito qualcosa che miricordi, che mi faccia rivive-re dinanzi quello che non èpiù mio. Perché di mio oranon ho niente, qui. Tutto èqui come provvisorio, comein un sogno, come in un rac-conto.

Saluti

Questo popolo che ci disprezza

Non è un caso che all’inter-

no di molti paesi della me-

tropoli capitalista vi siano

forti squilibri fra regione e

regione e che tali disparità,

nonostante durino da mol-

to tempo, non siano mai

state risolte. Tale ineguale

sviluppo è voluto, cercato,

utilissimo al rafforzamento

dei capitalismi nazionali.

Da questo punto di vista il

caso italiano è eclatan-

te e peculiare. In Italia

la questione meridio-

nale nasce insieme al-

l’Unità, e anzi, in un

certo senso è proprio

l’Unità a creare la que-

stione meridionale: i

centri industriali del

regno borbonico, in-

fatti, invece di essere

sostenuti e incentivati

furono spazzati via

per favorire le nascen-

ti industrie del nord, e

la monarchia sabauda

gestì il controllo dei

territori conquistati

con le tipiche armi del

colonialismo: feroce

repressione del dis-

senso (dietro il nome

di “lotta al brigantag-

gio”) e alleanza con l’inetta

borghesia locale, latifondi-

sta e parassitaria. E così,

dalla fine dell’Ottocento ai

giorni nostri, una genera-

zione dopo l’altra di lavora-

tori meridionali hanno do-

vuto lasciare la propria ter-

ra per cercarsi un futuro in

luoghi lontani o lontanissi-

mi: Nord Italia, Belgio, Ger-

mania, America, Austra-

lia… e oggi siamo al punto

di partenza: un’indagine

del 2010 redatta dall’Uffi-

cio Studi della Banca d’Italia

ha rilevato che il numero di

emigrati dal Sud al Nord

Italia è di nuovo molto vici-

no a quello dei primi anni

Sessanta, quando migliaia

di figli di contadini meridio-

nali raggiungevano il trian-

golo industriale Milano-Ge-

nova-Torino per diventare

operai. Un’emigrazione

molto diversa qualitativa-

mente, ma che tocca però le

stesse vette numeriche di

allora. Ogni anno, infatti, si

spostano dalle regioni me-

ridionali verso quelle del

Centro-Nord circa 270 mila

persone: 120 mila in manie-

ra permanente, 150 mila

per uno o più mesi. Un da-

to vicino a quello dei primi

anni Sessanta, quando a

trasferirsi al Nord erano

295 mila persone l’anno.

Parlare di 270 mila uomini

e donne che ogni anno van-

no da Sud a Nord per lavo-

rare o per studiare significa

immaginare una città come

Caltanissetta che si sposta

tutta intera per trovare un

futuro. Tra il 1990 e il 2005

quasi 2 milioni di cittadini

italiani sono stati costretti

ad abbandonare il Sud per

andare a trovare un impie-

go in qualche cittadina del

Nord. E le cose sono persi-

no peggiorate rispetto a 40

anni fa! Allora la “valigia di

cartone”, comunque sinoni-

mo di sacrificio e di dolore,

significava anche poter

contare un lavoro presso-

ché sicuro (probabilmente

sino alla pensione) e su un

futuro di più ampie pro-

spettive per sé e per i pro-

pri figli. Ora, invece, con

precarietà e flessibilità a

farla da padrone, si parte

con un carico di incognite

ben più pesante e difficile

da gestire. La “questione

meridionale”, lungi

dall’essere risolta al-

meno sul fronte oc-

cupazionale, quello

del lavoro al sud per

intenderci, esiste in

tutta la sua dramma-

ticità. Un Mezzogior-

no incapace di trat-

tenere il proprio ca-

pitale umano (tra

l’altro ora se vanno

anche moltissimi

laureati), perde uno

dei fattori chiave per

tenere viva la spe-

ranza in un reale

cambiamento per

tutto il Paese. “Dalpunto di vista delMezzogiorno, l’emi-grazione dei lavora-tori, e in particolare

di quelli con qualifiche piùelevate, può comportare unimpoverimento di capitaleumano che, a sua volta, po-trebbe riflettersi nella persi-stenza dei differenziali ter-ritoriali in termini di produt-tività, competitività e, in ul-tima analisi, di crescita eco-nomica. In questo contesto,l’intervento delle autorità dipolitica economica deve es-sere teso, piuttosto che a fre-nare l’emigrazione, a ri-muoverne le determinanti,che hanno come comunedenominatore la quantità ela qualità della crescita eco-nomica nel Mezzogiorno.”(Banca d’Italia gennaio

2010). Ma allora, da sessan-

t’anni a questa parte, cosa è

cambiato?

L’emigrazione senza fine

I meridionali furono dipin-

ti in vari modi: come insof-

ferenti verso il lavoro me-

todico e monotamente

svolto, come incapaci di

adattarsi ai ritmi ed ai la-

vori imposti dalle società

moderne. In molti li consi-

deravano sporchi, incivili e

non erano rari cartelli con

scritto: “non si fitta ai me-

ridionali”. Tutti i meridio-

nali a prescindere dalla lo-

ro regione di provenienza

erano chiamati "i napule",

era meglio non fidarsi e

poi facevano arrivare trop-

pi parenti e "coltivavano il

basilico nella vasca da ba-

gno”. A Torino gli immi-

grati trovarono alloggio

negli scantinati e nei solai

del centro, negli edifici de-

stinati a demolizione, in

cascine abbandonate al-

l'estrema periferia. Nelle

cittadine alla periferia di

Milano gli immigrati trova-

rono una diversa soluzio-

ne al problema della casa,

la costruzione delle cosid-

dette «coree»: gruppi di

case edificate di notte da-

gli stessi immigrati,

senza alcun per-

messo urbanistico,

su terreni agricoli

comprati coi loro ri-

sparmi. Il nome

«coree» sembra de-

rivare dal fatto che

queste costruzioni

apparvero per la

prima volta ai tempi

della guerra di Co-

rea. Il boom econo-

mico esigeva sem-

pre più manodope-

ra e fu così che

l'agricoltura e la

piccola industria insieme

all’edilizia e al piccolo

commercio, svolsero un

ruolo di “polmone della

nuova industrializzazione

del nord”. Le strategie del-

l’imprenditoria nazionale,

tentando un’integrazione

nel tessuto economico dei

paesi più avanzati, aveva-

no portato a una concen-

trazione degli investimen-

ti nei distretti industriali

del nord, rispetto alla qua-

le uno spostamento di ca-

pitali verso il sud avrebbe

significato disperdere tec-

nologie e risorse. Quindi il

Meridione, nel boom eco-

nomico, era destinato ad

avere una funzione subor-

dinata e funzionale agli in-

teressi dell’economia del

nord. La concentrazione

delle grandi fabbriche nel-

le regioni settentrionali

mise in moto un flusso mi-

gratorio dal sud agricolo al

nord industrializzato che

impoverì le regioni meri-

dionali anche delle risorse

umane.

Page 4: Inserto "Merce di scambio" - Maggio 2011

IV

In questo mondo libero

(tratto da Antonio Camuso per l’Osservatorio sui Balcanidi Brindisi, 2008) Per circa due giorni, dal 6 a 7 marzo1991, tra le acque internazionali e quelle territoriali ita-liane si era svolta la prima operazione di interdizione dimigranti da parte della Marina Militare italiana. un'ope-razione " con manovre cinematiche e intimidatorie"avrebbe dovuto far invertire la rotta dei boat people, ri-petuta poi nell'agosto 91 quando migliaia di albanesi cer-carono di sbarcare a Bari e tragicamente poi nel marzo97, in quel maledetto venerdì santo che causò l'affonda-mento della Kater I Rades e la morte di un centinaio dialbanesi. In ogni caso queste non impedirono l'arrivo deimigranti rafforzando quanto le organizzazioni antiraz-ziste del territorio pugliese affermavano da tempo chenon con i cannoni si sarebbero potute fermare le ondatemigratorie dai Paesi del Sud del Mondo. Quell'8 marzoera in programma una manifestazione di donne organiz-zata dall'Associazione Io Donna e da altre organizzazio-ni femministe , che fu interrotta e quindi annullata acausa ell'emergenza: le compagne insieme agli uomini,gli operatori e gli utenti del centro Sociale (contro l'emar-ginazione giovanile) di Via santa chiara di Brindisi si uni-rono allo sforzo corale di tutta la città di Brindisi che coni propri mezzi si trovò a gestire l'emergenza. Il CentroSociale divenne il campo docce, disinfestazione e vesti-zione di migliaia di albanesi. Per giorni a turni massa-cranti tutti i militanti storici, i giovani da poco inseritinelle attività ludiche, le donne spesero tutte le forze, lefamiglie dei compagni arruolate tout court nelle mensefamiliari, nell'accoglienza, in un'esperienza irripetibile eche vale, vale... la pena ricordare per comprendere appie-no il significato di solidarietà che è dentro in ogni esse-re umano … ci lanciammo in poche ore in un'operazio-ne riuscitissima nel dar voce a coloro che sarebbero do-vuti diventare nell'immediato futuro un grande fenome-no sociale, politico, economico: i MIGRANTI.

8 marzo 1991, 20.000 albanesi sbarcano a BrindisiUna città che fece stupire l’Italia per la sua solidarietà ai migranti

Riduzione in schiavitù Sfruttamento minorile

Il 22 febbraio del 2008 ilGup del tribunale di Bariha emesso la sentenza diprimo grado (poi confer-mata dalla Corte d’Assi-se d’Appello di Bari) nelprimo processo penalein Europa per il reato diriduzione in schiavitù dilavoratori immigrati. So-no stati condannati a 10anni di reclusione cin-que “caporali” per averridotto centinaia di brac-cianti immigrati in statodi schiavitù sui campi diraccolta dei pomodoridella Capitanata, in Pu-glia. Vari loro complici, esottoposti, hanno subitopene tra 4 e 5 anni. E'stato un evento storiconella lotta a questa for-ma di criminalità matu-rato, oltretutto in uncontesto legislativo na-zionale molto fragile cheancora interpreta il rea-to di riduzione in schia-vitù nella sola formaestrema della costrizio-ne fisica, continuando asottovalutare il lato cul-turale ed economico. Diquesto evento giudizia-rio in Italia se ne è inte-ressata solo la stampalocale. Eppure sono cen-tinaia di migliaia i lavo-ratori ridotti in schiavi-tù. Immigrati ricattati esfruttati da organizza-zioni non solo malavito-se, ma anche legittima-mente imprenditorialisenza scrupoli. Un feno-meno che non riguardasolo il profondo Sud, masi sta diffondendo amacchia d’olio anchenelle regioni centroset-tentrionali. Eppure oggiè possibile fare ben pocoper contrastare questoramo della criminalità

che balza agli onori del-la cronaca molto rara-mente, solo quando siassiste a fatti violenti co-me quelli di Rosarno.Perché i caporali rischia-no, solo se colti in fla-grante, una sanzioneamministrativa di 50 eu-ro per ogni lavoratore in-gaggiato. Niente di più.Anzi, di più, perché conl’entrata in vigore delreato di clandestinità chiha denunciato il propriosfruttatore si è trovatoin mano un decreto diespulsione. Secondo lerecenti stime l’apportodel cosiddetto lavoro ne-ro al Pil italiano è pari acirca il 17% contro unamedia dei Paesi avanzatidell’Europa del 4%. Dei400 mila lavoratori sottocaporale la maggior par-te si concentra al Sud,ma si stanno creando an-che nuovi fronti. Comel’Emilia Romagna dovenel mantovano gli immi-grati per lo più di nazio-nalità indiana, vengonoreclutati per la raccoltadei meloni o il TrentinoAlto Adige, dove si com-prano le braccia per laraccolta delle mele. NelLazio, invece, i caporalisi trovano da Latina ingiù dove sono istituzio-nalizzati gli “smorzi”,così nel gergo si chiama-no i punti dove gli immi-grati si mettono in ven-dita, solitamente viciniai depositi di materialeedile. Non solo. La crisieconomica ha apertonuovi drammatici scena-ri spingendo anche gliitaliani ad affacciarsi do-ve all’alba si concentra-no i lavoratori in cerca dilavoro.

Circa 400 mila minoren-ni sono sfruttati nei luo-ghi di lavoro del nostroPaese. E' quanto si evin-ce dalla ricerca realizza-ta dall'Ires-Cgil. Gli au-tori dell'indagine sotto-lineano come siano sot-tostimate le rilevazionidell'Istat che ha valuta-to il fenomeno dellosfruttamento di minorinon oltre la soglia delle144 mila unità. Sonomolti di più, secondol'Ires, appunto quasi400 mila. Di questi il17,5% (circa 70 milabambini) lavora oltre 4ore al giorno in modocontinuativo, ma per 40mila di loro il temposottratto allo studio e algioco va anche oltre leotto ore quotidiane. Lapaga oscilla tra i 200 e i500 euro. Tra i 400 mi-la minori calcolati dallaCgil sono inclusi i bam-bini figli di immigrati ei circa 30-35 mila mino-ri non accompagnati en-trati clandestinamentenel nostro paese. Oltreai 70 mila bambini im-piegati in lavori impe-gnativi, il 32% dei mino-ri sfruttati, circa 130mila, sono impiegati inlavori stagionali e il50%, circa 200 mila, aiu-tano i genitori in quelliche l'Istat definisce "la-voretti", retribuiti con"paghette", e che la Cgilconsidera invece "lavoriprecoci" all'interno diun "contesto familiarepovero". Dei 70 mila mi-nori impiegati in lavoricontinuativi il 57% lavo-ra nel settore del com-mercio, il 20% nell'arti-gianato e l'11% nell'edi-lizia. Si tratta di un fe-

nomeno in forte aumen-to e destinato a diventa-re sempre più importan-te. In tre grandi realtàmetropolitane: Milano,Roma e Napoli, la popo-lazione minorile tra i 7 ei 14 anni è pari a846.640 unità e i minoriche lavorano sono 26mila, il 3,7% fino a 13anni e l'11,6% i 14enni. Le tre cause principa-li, povertà, lavoro irre-golare e dispersionescolastica, non sono di-minuiti d’importanzaper tre motivi: la cresci-ta della povertà nellearee di emarginazione;la crescita del lavoroclandestino malgrado leregolarizzazioni; la de-penalizzazione della di-spersione scolastica.L'Italia, infatti, è al se-condo posto in Europa,dopo la Gran Bretagna,per la più alta percen-tuale di minori che vivesotto la soglia della po-vertà. Il 17% dei minoriè povero e al Sud la per-centuale sale al 29%. Inoltre, in base ai datidell'Ires, si evince che illavoro minorile è lapunta dell'iceberg delsommerso e che l'Italiaha il più alto tasso disommerso in Europa,pari al 22% del pil e a 4milioni di lavoratori, dicui il 10% è composto diminori. Infine la terzacausa, l'aumento delladispersione e dell'ab-bandono scolastico èconseguenza della rifor-ma Moratti per cui chinon rispetta l'obbligodella frequenza scola-stica dei figli non va piùin carcere, ma è punitosolamente con una mul-