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1 Islamizzazione e statuto delle minoranze religiose nelle Costituzioni del Pakistan di Diego Abenante * (in: S. Baldin (a cura di), Tradizione e religione in alcuni ordinamenti contemporanei, E.U.T., Trieste, (in corso di pubblicazione). Sommario: 1. Legge religiosa e pluralismo giuridico in Pakistan. – 2. Il contesto storico: Islam e nazionalismo. – 3. Tradizionalisti e modernisti. – 4. La “Objectives Resolution”. – 5. La controversia “anti-qadiani”. – 6. L’Islam nelle Costituzioni pakistane del 1956, 1962 e 1973. – 7. Le riforme di Zia-ul-Haq. 1. Il quadro giuridico pakistano, al pari d’altre società afro- asiatiche, è caratterizzato da un accentuato pluralismo. Ciò deriva, in primo luogo, dalla commistione tra il diritto locale e la legge di derivazione coloniale. Prima della conquista britannica, il diritto osservato dai Musulmani del Subcontinente indiano non era basato esclusivamente sulla sharī’a, quanto su una combinazione di sharī’a e di diritto consuetudinario. Pur nella grande varietà esistente, la scuola di diritto musulmano prevalente era quella sunnita hanafita 1 . Due trattati giuridici erano considerati i più autorevoli: l’Hidāya, del giurista del XII secolo Burhan-al-din al-Marghīnānī e la Fatāwā-i- Ālamgīrī, una raccolta di opinioni giurisprudenziali composta per iniziativa dell’imperatore mughal Awrangzeb (r. 1658-1707) 2 . L’espansione britannica portò a una progressiva limitazione dell’ambito d’applicazione del diritto islamico. Nel 1772, il governatore del Bengala Warren Hastings emanò un regolamento in base al quale «in tutte le cause civili concernenti beni ereditari e questioni di successioni per causa di morte nonché … questioni matrimoniali o di casta, o ancora i costumi religiosi e le loro istituzioni, i precetti del Corano con riguardo ai maomettani e gli insegnamenti dei šastra con riguardo agli indù saranno sempre applicati e seguiti» 3 . Ne derivò la disapplicazione del diritto islamico * Professore associato di Storia e Istituzioni dell’Asia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Trieste. 1 Si tratta di uno dei quattro madhhab o scuole di pensiero della giurisprudenza (fīkh) dell’Islam sunnita; le altre tre sono la malikita, la shafi’ita e la hanbalita. 2 Cfr. W. Menski, voce Diritto dell’India, in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989, p. 9; F. Robinson, Islam and Muslim History in South Asia, Cambridge, 2001, cap. 2. 3 Cit. in W. Menski, op. cit., p. 10.

Islamizzazione e statuto delle minoranze religiose nelle ... Minoranze... · * Professore associato di Storia e Istituzioni dell’Asia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università

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1

Islamizzazione e statuto delle minoranze religiose nelle Costituzioni del Pakistan

di Diego Abenante

*

(in: S. Baldin (a cura di), Tradizione e religione in alcuni

ordinamenti contemporanei, E.U.T., Trieste, (in corso di

pubblicazione).

Sommario: 1. Legge religiosa e pluralismo giuridico in Pakistan. – 2. Il contesto storico: Islam e nazionalismo. – 3. Tradizionalisti e modernisti. – 4. La “Objectives Resolution”. – 5. La controversia “anti-qadiani”. – 6. L’Islam nelle Costituzioni pakistane del 1956, 1962 e 1973. – 7. Le riforme di Zia-ul-Haq.

1. Il quadro giuridico pakistano, al pari d’altre società afro-

asiatiche, è caratterizzato da un accentuato pluralismo. Ciò deriva, in primo luogo, dalla commistione tra il diritto locale e la legge di derivazione coloniale. Prima della conquista britannica, il diritto osservato dai Musulmani del Subcontinente indiano non era basato esclusivamente sulla sharī’a, quanto su una combinazione di sharī’a e di diritto consuetudinario. Pur nella grande varietà esistente, la scuola di diritto musulmano prevalente era quella sunnita hanafita

1.

Due trattati giuridici erano considerati i più autorevoli: l’Hidāya, del giurista del XII secolo Burhan-al-din al-Marghīnānī e la Fatāwā-i-‘Ālamgīrī, una raccolta di opinioni giurisprudenziali composta per iniziativa dell’imperatore mughal Awrangzeb (r. 1658-1707)

2.

L’espansione britannica portò a una progressiva limitazione dell’ambito d’applicazione del diritto islamico. Nel 1772, il governatore del Bengala Warren Hastings emanò un regolamento in base al quale «in tutte le cause civili concernenti beni ereditari e questioni di successioni per causa di morte nonché … questioni matrimoniali o di casta, o ancora i costumi religiosi e le loro istituzioni, i precetti del Corano con riguardo ai maomettani e gli insegnamenti dei šastra con riguardo agli indù saranno sempre applicati e seguiti»

3. Ne derivò la disapplicazione del diritto islamico

* Professore associato di Storia e Istituzioni dell’Asia presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Trieste. 1 Si tratta di uno dei quattro madhhab o scuole di pensiero della giurisprudenza (fīkh) dell’Islam sunnita; le altre tre sono la malikita, la shafi’ita e la hanbalita. 2 Cfr. W. Menski, voce Diritto dell’India, in Enc. giur., vol. XI, Roma, 1989, p. 9; F. Robinson, Islam and Muslim History in South Asia, Cambridge, 2001, cap. 2. 3 Cit. in W. Menski, op. cit., p. 10.

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in campo penale, mentre in ambito civile esso costituì la fonte privilegiata da applicare ai Musulmani

4.

Tuttavia, l’applicazione da parte coloniale del diritto musulmano portò a profonde trasformazioni nella natura del diritto stesso. In primo luogo, la sharī’a fu applicata dai giudici secondo le idee e le concezioni britanniche di «giustizia, equità, e buona coscienza». In secondo luogo, ai Britannici sfuggiva la natura personalistica della società musulmana indiana, ovvero l’essere basata su relazioni personali

5. L’attività giurisdizionale del kādī non

si limitava a una meccanica applicazione di norme astratte, derivate dal Corano o dalla tradizione profetica (sunna), ma si basava sulla conoscenza delle circostanze locali e dei rapporti personali fra le parti. Il fine principale dell’attività del kādī era di ristabilire tali relazioni, più che estrapolare dal complesso della normativa sciaraitica il principio giuridico applicabile. Dunque, il kādī poteva essere rappresentato come un mediatore, più che come un giudice secondo la concezione occidentale moderna

6. L’amministrazione

britannica, al contrario, tentò di costruire un corpus fisso di norme giuridiche che costituisse “il diritto musulmano”, e che in quanto tale potesse essere applicato dai giudici

7. La conseguenza fu di dare avvio

a un processo di codificazione del diritto musulmano civile che rese rigide norme in precedenza flessibili, e stabilì il principio della preminenza della fonte scritta sulle consuetudini locali.

Va tuttavia rilevato che la disapplicazione della sharī’a in ambito penale costituì un cambiamento meno netto di quanto possa ritenersi. Già in epoca pre-coloniale, infatti, nelle società musulmane, era emersa una tendenza alla limitazione dell’effettiva applicazione delle norme sciaraitiche a tali materie. Ciò sia per la difficoltà dell’applicazione delle pene coraniche nei casi hudūd

8, sia in quanto

la giustizia penale islamica risentiva della graduale distinzione, emersa soprattutto in epoca ‘abbaside (750-1258), tra la sfera politico-amministrativa e quella religiosa. Al sovrano fu gradualmente riconosciuta la possibilità di agire in maniera

4 Un’eccezione rilevante fu il Panjab, dove il governo coloniale, con il Punjab Laws Act del 1872, diede la precedenza alla fonte consuetudinaria su quella religiosa. Cfr. D. Gilmartin, Customary Law and Shari’at in British Punjab, in K. Ewing (cur.), Shari’at and Ambiguity in South Asian Islam, Berkeley, 1988, p. 43 ss. 5 S. Mardin, Religion and Social Change in Modern Turkey, New York, 1989, p. 11. 6 Cfr. L. Rosen, The Anthropology of Justice: Law as Culture in Islamic Society, Cambridge, 1989; G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, 1996, p. 310. 7 B. Cohn, Law and the Colonial State, in B. Cohn, Colonialism and its Forms of Knowledge: The British in India, Princeton, 1996, p. 57 ss. 8 La prova richiesta dal Corano nei casi più gravi (detti hadd, pl. hudūd) è la confessione dell’accusato o la testimonianza orale di quattro adulti maschi di provata moralità e di fede musulmana. Cfr. A.M. Weiss, Implications of the Islamization Program for Women, in A.M. Weiss (cur.), Islamic Reassertion in Pakistan, The Application of Islamic Laws in a Modern State, Syracuse, 1986, p. 100 s.; R. Mehdi, The Islamisation of the Law in Pakistan, London, 1994, p. 123.

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autonoma rispetto alla sharī’a, ammettendosi persino che egli potesse emettere una propria normativa autonoma; tale sfera di potestà amministrativa del sovrano è definita siyāsā sharī’a (“politica secondo la legge religiosa”)

9.

Si nota, dunque, che il diritto nato dall’incontro tra sharī’a e diritto coloniale (“anglo-muhammadan law”) ha costituito la base normativa dell’ordinamento pakistano. Si può altresì affermare che l’amministrazione coloniale abbia influenzato la mentalità degli stessi ‘ulamā’ indo-pakistani, ponendo le premesse per una maggiore rilevanza del testo scritto sulle circostanze locali. A tale influenza può essere ricondotta, ad esempio, la tendenza del diritto religioso pakistano contemporaneo a dare un peso quasi esclusivo al Corano e alla sunna rispetto alle fonti complementari, l’idjmā’(consenso) e il qiyās (analogia).

10

2. Esiste un generale consenso tra gli studiosi sull’importanza

della contraddizione esistente tra l’idea di Pakistan quale “patria” per i Musulmani del subcontinente indiano, portata avanti dal padre del nazionalismo pakistano, Muhammad ‘Ali Jinnah (1876-1948), e le aspirazioni di parte della comunità musulmana indiana a realizzare uno Stato ispirato ai principi dell’Islam.

La formulazione dell’idea del Pakistan, enunciata da Jinnah nel marzo del 1940, si basava su una concezione di Stato laico. Secondo Jinnah l’Islam, come qualunque altra fede, avrebbe dovuto ritirarsi dalla sfera pubblica per ritornare alla dimensione privata e, in quanto tale, sarebbe divenuta irrilevante ai fini dell’attività statale

11.

9 Questo esercizio di sovranità era connesso all’evoluzione del ruolo del sultano in epoca post-abbaside. Secondo questa teoria (detta del “pio sultano”), la posizione di un principe che esercitava la propria sovranità su un territorio limitato, poteva considerarsi religiosamente legittima, a patto che questi implementasse la sharī’a ed evitasse di violarla egli stesso. Poiché, inoltre, la posizione del sovrano è basata su un mandato divino, egli avrebbe avuto il diritto/dovere di emettere le norme necessarie, a patto che questo diritto fosse esercitato entro i limiti della sharī’a. In genere, le materie interessate comprendevano la tassazione, il diritto penale, la polizia. Cfr. G. Vercellin, op. cit., p. 282, 307 ss.; K.S. Vikor, The shari’a and the Nation State: Who can Codify the Divine Law?, in: B.U. Utvik, K. S. Vikor (cur.), The Middle East in a Globalized World, Bergen, 2000, p. 220 ss.; B. Lewis, Il linguaggio politico dell’Islam, Bari, 1991, p. 14 s.; M. Campanini, Islam e politica, Bologna, 2003, p. 109 ss.). 10 Quanto sopra non implica che il diritto consuetudinario in Pakistan sia scomparso; esso continua ad avere efficacia, soprattutto nelle aree rurali. Un discorso più ampio meriterebbe il ruolo delle assemblee di anziani di villaggio o della tribù. Nelle aree dove è vigente una speciale autonomia amministrativa – le F.A.T.A. (Federally Administered Tribal Areas) – il governo pakistano, riconosce l’efficacia delle assemblee tribali (jirga). Si tratta, in particolare, delle zone in cui è vigente il codice tribale pasthun (pashtunwali). Tuttavia, anche nelle aree detribalizzate della North-West Frontier Province, nel Baluchistan e in alcuni distretti sud-occidentali del Panjab, le controversie sono spesso risolte evitando il ricorso alle autorità statali, attraverso il riferimento alle assemblee d’anziani, spesso con la tolleranza delle autorità stesse. Si vedano A.S. Ahmed, Mor and Tor: Binary and Opposing Models among Pakistani Pukhtuns, in A.S. Ahmed, Pakistan Society: Islam, Ethnicity and Leadership in South Asia, Karachi, 1997, p. 29 ss.; Id., Resistance and Control in Pakistan, London, 1991, p. 3 ss. 11 Lo stesso Jinnah affermò, in un celebre discorso: «You are free to go to your temples, and you are free to go to your mosques or to any other places of worship in the State of Pakistan.

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Tuttavia, è innegabile che la concezione del nazionalismo pakistano abbia trovato, nel corso della campagna per la creazione dello Stato negli anni Quaranta del Novecento, una connessione con i simboli islamici, e che questi abbiano conferito all’idea del Pakistan un carattere molto ambiguo. In particolare, recenti ricerche hanno evidenziato l’importanza dello scarso radicamento della Muslim League nelle province centrali del futuro Pakistan (Sind, Panjab e North West Frontier Province). In questi territori, la Muslim League ovviò alla mancanza di basi autonome di consenso mediante la cooptazione delle strutture tribali e dei leaders religiosi musulmani

12.

Questi due fattori causarono una debolezza strutturale nella Muslim League e costituirono un contesto decisivo per l’emergere della questione della “islamicità” del Pakistan.

L’ambiguità tra identità religiosa e idea di nazione era altresì connessa con il ruolo delle organizzazioni religiose nella società pakistana

13. La “Risoluzione di Lahore” del marzo 1940, infatti, vide

opporsi la maggioranza degli ‘ulamā’. Per i leaders religiosi, l’Islam non poteva riconoscersi in confini territoriali e rinunciare alla totalità del territorio indiano. L’idea del nazionalismo musulmano appariva in contraddizione con l’universalità della comunità islamica, la umma. Tuttavia, gli ‘ulamā’ non costituivano un blocco monolitico. Quelli più attivi politicamente nel Novecento appartenevano alla scuola islamica dar-al-‘ulum di Deoband. Gli ‘ulamā’ di Deoband non erano interessati allo “Stato musulmano” proposto da Jinnah in quanto, nella loro concezione, il potere politico non era indispensabile alla creazione di una società islamica. Alla definizione di confini territoriali, i Deobandi anteponevano l’idea di una comunità organizzata in conformità ad istituzioni religiose autonome rispetto allo Stato

14.

La spartizione del Subcontinente, nell’agosto del 1947, vide affermarsi la tendenza alla politicizzazione delle diverse correnti di ‘ulamā’, con la formazione di veri e propri partiti politici. Già prima della spartizione, nel 1945, il gruppo minoritario pro-Pakistan tra i Deobandi costituì la Jami’at-ul-’ulamā’-i-Islam. Nel 1949 fu formata

You may belong to any religion or caste or creed – that has nothing to do with the business of the State». M.A. Jinnah all’Assemblea Costituente del Pakistan, 11 agosto 1947, cit. in H. Alavi, Pakistan and Islam: Ethnicity and Ideology, in: F. Halliday, H. Alavi (cur.), State and Ideology in the Middle East and Pakistan, London, 1988, p. 26. 12 I leaders religiosi musulmani più influenti nelle zone rurali erano i pīr (o sajjāda nashīn), i discendenti dei santi sufi cui la tradizione attribuiva la conversione della popolazione all’Islam. Sui ruoli socio-politici dei pir del Panjab, si v. D. Gilmartin, Empire and Islam: Punjab and the Making of Pakistan, Berkeley, 1988; I. Talbot, Punjab and the Raj: 1849-1947, New Delhi, 1988. 13 Cfr. G. Minault, The Khilafat Movement: Religious Symbolism and Political Mobilization in India, Oxford, 1982. 14 B.D. Metcalf, Islamic Revival in British India: Deoband, 1860-1900, Princeton, 1982; P. Hardy, Partners in Freedom and True Muslims. The Political Thought of some Muslim Scholars in British India, 1912-1947, Westport, 1980.

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la Jami’at-ul-’ulamā’-i-Pakistan (d’ispirazione barelwi)15

. Oltre a questi, la Jama’at-i-Islami, fondata da Maulana Mawdudi nel 1941 – il partito guida del “fondamentalismo” islamico in Asia meridionale – avrebbe svolto un ruolo importante quale gruppo di pressione. Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949, le aspirazioni e gli interessi dei diversi partiti religiosi confluirono in un grande movimento politico a favore dell’adozione di una “Costituzione islamica”.

Fu Shabir Ahmad Usmani, nel gennaio del 1949, ad avanzare per primo, in nome degli ‘ulamā’, la richiesta che il Pakistan divenisse, a tutti gli effetti, uno Stato islamico

16. Da un punto di vista

storico-religioso, la visione di Usmani si ricollegava, più che alla teoria classica del Califfato “ben diretto”, alla teoria del “pio-sultano”

17. In altre parole, non era a una teorica unione di politico e

religioso nella figura del Capo dello Stato che Usmani guardava, bensì a uno Stato i cui governanti riconoscessero la supremazia dell’Islam e, implicitamente, il diritto degli ‘ulamā’ a fungere da interpreti della legge islamica

18.

15 U. Sanyal, Devotional Islam and Politics in British India: Ahmad Riza Khan Barelwi and his Movement, 1870-1920, Delhi, 1996; M. Ahmad, Jam’iyyat ’ulama-i-Pakistan, 1948-1979, Islamabad, 1993. 16 L. Binder, Religion and Politics in Pakistan, Berkeley, 1961, p. 137 ss. 17 Si tratta della fase dei primi quattro Califfi rāshidūn (“ben diretti”), Abu Bakr, Omar, Uthman,‘Ali, che copre il periodo intercorrente tra la morte del Profeta (632) fino alla formazione del Califfato Ommiade (661). Sul “pio-sultano”, si veda supra, n. 9. 18 L. Binder, op. cit., p. 140.

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La proposta, tuttavia, era destinata a scontrarsi con una serie di difficoltà. In primo luogo, le richieste degli ‘ulamā’ non furono così lineari negli anni a venire; al contrario, queste mostrarono la tendenza a sovrapporre i due modelli del Califfato “ben diretto” e del “pio sultano”, soprattutto riguardo alla posizione del Capo dello Stato. Una seconda difficoltà, ovviamente, derivava dal fatto che i politici laici non erano preparati a concedere agli ‘ulamā’ una sorta di supervisione sul potere legislativo del costituendo Parlamento. Ciò avrebbe rischiato di rendere nulle le istituzioni ereditate dai britannici, oltre a porre i governanti sotto una costante attività di controllo da parte dei partiti religiosi. Infine, vi era la tradizionale sfiducia della Jama’at-i-Islami verso gli ‘ulamā’, considerati corresponsabili dello stato di crisi dell’Islam. Dunque Maududi, in linea di principio, era contrario alla concessione agli ‘ulamā’ di un ruolo formale di controllo sulla compatibilità con la sharī’a delle leggi votate dal parlamento. Di là da questa divergenza, anche Maududi chiedeva che la sovranità di Dio fosse riconosciuta senza ambiguità, che la legge dello Stato fosse la sharī’a e che ogni legge contraria a quest’ultima fosse dichiarata nulla

19.

Si può osservare che la posizione “tradizionalista” conteneva inevitabilmente un punto debole. Dal punto di vista religioso, la legge, in quanto d’origine divina, esiste in sé; dunque essa non può essere creata, ma solo rivelata. Tuttavia, l’esclusione dell’idea di creazione “positiva” del diritto pone forti limiti al compito del legislatore. La conseguenza era che né gli ‘ulamā’ né Maududi erano in grado di concepire un meccanismo diverso da una semplice procedura d’annullamento delle leggi approvate dal parlamento, qualora difformi dalla sharī’a. Ne derivava un approccio puramente “negativo”

20.

Le reazioni dei politici laici alle proposte di Usmani e Maududi non furono del tutto negative. Ciò va inquadrato nel contesto storico-politico del Pakistan alla fine degli anni Quaranta, caratterizzato da forti difficoltà sia sul piano interno che su quello internazionale, che ponevano a serio rischio la sopravvivenza dello Stato

21. Per far fronte a questa situazione, la classe dirigente

pakistana vide nell’Islam l’unico fattore ideologico unificante a

19 L. Binder, op. cit., p. 100 ss. 20 L. Binder, op. cit., p. 169. 21 Ci si riferisce, ovviamente, in primo luogo, allo stato d’ostilità con l’India. Tale tensione internazionale contribuì a focalizzare l’attenzione della classe dirigente pakistana sulla necessità di dare coesione allo Stato, ponendo la partecipazione in secondo piano. Le deficienze strutturali dello Stato pakistano furono, inoltre, aggravate dall’afflusso di circa cinque milioni di rifugiati. Cfr. A. Jalal, The State of Martial Rule: The Origins of Pakistan’s Political Economy of Defence, Cambridge, 1990, p. 25 ss.; M. Waseem, Partition, Migration and Assimilation: A Comparative Study of Pakistani Punjab, in: I. Talbot, G. Singh (eds.), Region and Partition: Bengal, Punjab and the Partition of the Subcontinent, Karachi, 1999, p. 203 ss.; I. Talbot, Pakistan: A Modern History, London, 1998, p. 107 s.

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disposizione. Come già per Jinnah, l’Islam non era un valore in sé, quanto un mezzo per rafforzare il processo di “state-building”. La scena politica pakistana iniziò ad essere caratterizzata da un linguaggio dominato dalla simbologia religiosa

22. Questa

“sacralizzazione” del linguaggio politico creò le condizioni ideali affinché i partiti religiosi potessero assumere un ruolo sempre più attivo. Lo slogan dello “Stato islamico” – o meglio della “Costituzione islamica” – divenne una piattaforma attraverso cui svolgere un ruolo centrale nella scena politica nazionale. Si può, dunque, affermare che, paradossalmente, furono le stesse classi dirigenti laiche a spingere gli ‘ulamā’ al centro della scena politica pakistana.

D’altra parte, i leaders della Muslim League avevano un debito storico non irrilevante nei riguardi degli ‘ulamā’ della corrente di Usmani. Essi erano stati, insieme ai barelwi e ai pīr del Panjab e del Sind, tra i pochi leaders religiosi a sostenere la creazione del Pakistan. Inoltre, gli ‘ulamā’ continuavano a svolgere un importante ruolo di coesione interna: tra il 1949 e il 1950, gli ‘ulamā’ utilizzarono la loro influenza religiosa per spegnere le rivolte alla frontiera pakistano-afghana, e per mantenere un “fervore” religioso tra le tribù pasthun della Frontiera, il cui sostegno era essenziale per il conflitto in Kashmir

23. Per queste ragioni, negli anni

Quaranta-Cinquanta, il governo federale seguì una politica di finanziamento a favore dei leaders tribali e religiosi della Frontiera

24.

3. Quanto sopra non deve lasciar intendere che vi fosse una

netta separazione tra ‘ulamā’ e politici laici. In effetti, esisteva un settore influente dell’opinione pubblica pakistana che cercava un compromesso tra le due posizioni. Si trattava di una corrente eterogenea che comprendeva esponenti della Muslim League, eminenti giuristi e docenti universitari (fra cui l’islamologo Fazlur Rahman). Questa corrente sviluppò una versione “modernista” che tendeva a concepire l’Islam come un complesso di principi astratti, di natura morale e sociale, anziché come un complesso definito di norme di vita e di comportamento. La possibilità di formulare una visione dell’Islam quale “principio morale”, trovava fondamento nella tradizione riformista dell’Islam indiano tra Sette-Ottocento, in particolare, nell’enfasi sul concetto di idjtihād (interpretazione

22 La campagna elettorale che precedette le elezioni provinciali del 1951, ad esempio, fu caratterizzata dall’uso costante di simboli religiosi, non solo da parte degli ‘ulamā’ ma anche dei politici laici. Si v. D. Abenante, The Roots of Political Instability in Pakistan: The “Anti-Qadiani” Agitation of 1949-53, in Sociologia, 3, 2000, p. 10 s. 23 L. Binder, op. cit., p. 193. 24 Civil and Military Gazette (Lahore), 3 maggio 1949; Foreign Office, The Mullahs and their Influence in Pakistan, Memorandum preparato dalla High Commission britannica in Pakistan nel febbraio del 1951, FO371/98265, Public Record Office, Kew Gardens, UK.

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personale) sviluppata da Shah Waliullah Dihlavi (1702-1763) e successivamente ripresa da Sayyid Ahmad Khan (1817-1898).

Questa elaborazione concettuale poneva l’enfasi sulla rilettura individuale delle Scritture come chiave di volta per il rinnovamento del bagaglio intellettuale dei Musulmani indiani, al fine di renderlo in grado di affrontare il declino del potere politico e l’ascesa del regime coloniale

25. L’idea della riapertura della idjtihād e della

limitazione del taklīd (il conformarsi alle opinioni dei giurisperiti del passato) era alla base della formazione intellettuale non solo dei pakistani “modernisti”, ma anche di Maududi e di molti ‘ulamā’ riformisti. Questo concetto poteva servire a rielaborare la nozione di idjmā’ (consenso). L’idjmā’, come elaborata in epoca ‘abbaside, indicava il raggiungimento di un accordo tra i dotti, intesi come rappresentanti dell’umma, su una questione giuridica. Tuttavia, lo stesso concetto avrebbe potuto, secondo la visione “modernista”, essere utilmente utilizzata per elaborare un’idea islamica di parlamentarismo

26. Ciò, tuttavia, avrebbe potuto realizzarsi solo a

patto di sostituire all’idjmā’ degli ‘ulamā’ quello dei rappresentanti eletti dal popolo.

4. Dopo la richiesta pubblica avanzata da Usmani, il Muslim

League Parliamentary Party preparò un documento – poi approvato dal governo con il titolo di “Objectives Resolution” – che costituisce la più completa testimonianza dello sforzo di mediazione tra principi giuridici di derivazione islamica e occidentale condotto dai costituzionalisti pakistani

27.

Si trattava di un compromesso tra i “tradizionalisti” e i “modernisti”. Il Pakistan era definito come un’entità statale la cui sovranità non era derivata dal popolo, ma proveniva da Dio, e veniva ad esso delegata da Dio stesso. La struttura istituzionale dello Stato, dunque, era fin dal suo sorgere fortemente limitata dal punto di vista dei valori di riferimento, ricollegando le basi ultime della sovranità alla volontà divina. Non si può non notare la rilevanza della

25 Cfr. B.D. Metcalf, Islamic Revival, op. cit., p. 35 ss.; F. Robinson, Religious Change and the Self in Muslim South Asia since 1800, in South Asia, 20, 1997, p. 1 ss. 26 L. Binder, op. cit., p. 34 ss. 27 Nella Objectives Resolution si legge: «Considerato che la sovranità sull’intero universo appartiene solo a Dio onnipotente, e l’autorità che Egli ha delegato allo Stato del Pakistan per mezzo del suo popolo perché sia esercitata entro i limiti da Lui prescritti costituisce una sacra delega; Questa Assemblea Costituente rappresentante il popolo del Pakistan delibera di redigere una Costituzione per lo Stato sovrano e indipendente del Pakistan; Dove lo Stato eserciterà i suoi poteri e la sua autorità attraverso i rappresentanti scelti del popolo; Dove i principi di democrazia, libertà, eguaglianza, tolleranza e giustizia sociale, quali enunciati dall’Islam saranno pienamente osservati; Dove i Musulmani saranno messi in condizione di ordinare la propria vita nella sfera individuale e collettiva in accordo con gli insegnamenti e le richieste dell’Islam come stabiliti nel Santo Corano e nella Sunna; Dove adeguati provvedimenti saranno presi perché le minoranze possano professare e praticare liberamente le loro religioni e sviluppare le loro culture». Cit. in L. Binder, op. cit., p. 142 s.

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questione per l’ordinamento dello Stato. Se la volontà divina è il momento formativo della sovranità statale, coloro che, per erudizione personale e tradizione, hanno il compito di rivelare tale volontà, dovrebbero svolgere un ruolo istituzionale centrale. Non a caso, la pubblicazione della “Objectives Resolution” fu accolta con generale favore dai partiti religiosi. Il riconoscimento della sovranità di Dio sembrava escludere l’adozione di un sistema democratico parlamentare.

Tuttavia, le mosse successive dell’Assemblea Costituente non sembravano andare nella direzione auspicata dai “tradizionalisti”. Nel novembre del 1949, il sottocomitato competente dell’Assemblea decise di optare per una struttura parlamentare federale, con due camere rappresentative, rispettivamente, della popolazione e delle province

28. Per non scontentare gli ‘ulamā’ l’Assemblea deliberò di

convocare una commissione d’esperti di diritto islamico (Board of Talimat-i-islamiya) al fine di formulare un documento sugli obiettivi dell’ordinamento

29. Dato che la commissione era composta in gran

parte di ‘ulamā’, il risultato finale fu inevitabilmente l’espressione del punto di vista “tradizionalista”.

Il documento che ne scaturì era incentrato soprattutto su due questioni: la figura del Capo dello Stato e i limiti dell’attività legislativa parlamentare rispetto alla sharī’a. Nelle proposte formulate dagli ‘ulamā’ si profilò una notevole ambiguità fra i due modelli di Stato presenti nella tradizione islamica, quello “ben diretto” e quello del “pio-sultano”. Dal primo punto di vista, l’aspirazione degli ‘ulamā’ era di creare una forma di governo presidenziale ispirata alla teoria “classica” del Califfato. Tuttavia, al futuro Presidente, gli ‘ulamā’ non concedevano il diritto di esercitare la idjtihād, ossia interpretare la legge, benché secondo la tradizione ciò fosse stata prerogativa dei Califfi “ben diretti” e, secondo alcune fonti, anche di quelli ommiadi (661-750). L’idjtihād, invece, sarebbe stata assegnata collettivamente al corpo degli ‘ulamā’; ad essi, riuniti in un comitato, sarebbe spettato il potere di veto sulla legislazione approvata dal parlamento, qualora non conforme alla sharī’a.

In ogni caso, l’interpretazione che stava prendendo piede negli ambienti governativi, era tendenzialmente favorevole alla visione “modernista”; pur partendo dal riconoscimento della necessità di riaprire l’idjtihād, si riteneva che questa non dovesse essere prerogativa del capo dello Stato, né degli ‘ulamā’, ma della maggioranza della comunità. Dunque l’idjmā’ avrebbe coinciso con

28 In questa scelta pesavano sia l’influenza del precedente costituzionale britannico – ovvero il modello del Government of India Act del 1935 – sia la bozza di Costituzione indiana, poi approvata nel gennaio 1950, basata anch’essa sul modello di Westminster. 29 L. Binder, op. cit., p. 155 ss.

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la democrazia parlamentare30

. Il conflitto tra ‘ulamā’ e governo era inevitabile.

La strategia scelta dal governo fu di ignorare i suggerimenti dei Talimat-i-Islamiya; quando l’Assemblea Costituente pubblicò il proprio rapporto provvisorio, nel settembre del 1950, questo non contenne nessuna delle raccomandazioni dei partiti religiosi. La protesta degli ‘ulamā’ portò ad un secondo tentativo di condizionare il processo costituente. Nel gennaio 1951 i partiti religiosi organizzarono una conferenza a Karachi, al termine della quale fu proposto un documento in 22 punti sullo “Stato islamico”. Questo fu finalmente preso in considerazione dal comitato dell’Assemblea Costituente, anche se in modo parziale. In breve, il documento finale – divulgato nell’agosto del ’52 – incluse le proposte dagli ‘ulamā’ per i requisiti del capo dello Stato, mentre quelle concernenti il comitato degli ‘ulamā’ furono accolte solo in parte, dando vita ad una commissione consultiva priva di potere di veto.

31 Le prime

reazioni degli ‘ulamā’ furono, ciò nondimeno, sostanzialmente positive, in ragione dell’accettazione del profilo del capo dello Stato, nonché del riconoscimento di principio del ruolo giuridico degli ‘ulamā’. In realtà, questa poteva difficilmente considerarsi una vittoria per gli ‘ulamā’; il parlamento sarebbe stato l’autorità suprema in materia di compatibilità con la legge islamica, sottraendo loro, di fatto, tale competenza

32. In conclusione, nel 1952 la visione

prevalente sembrava essere quella “modernista”, basata sul concetto di “sovranità popolare islamica”.

5. Nei primi anni Cinquanta, la questione delle minoranze

religiose non sembrava occupare uno spazio rilevante nel dibattito sulla Costituzione. La maggioranza degli ‘ulamā’, e lo stesso Maududi, apparivano concordi nel ritenere marginale il problema. Il tema essenziale era il riconoscimento della supremazia della sharī’a, nonché la garanzia che il capo dello Stato fosse musulmano. L’esplosione dell’agitazione contro la comunità Qadiani, che avvenne in quegli anni, ebbe invece la conseguenza di porre il problema delle minoranze al centro del dibattito sulla Costituzione islamica

33.

30 L. Binder, op. cit., p. 191 s. 31 Il meccanismo prevedeva che, su ogni legge in discussione nel parlamento, fosse possibile, da parte di almeno un decimo dei parlamentari di fede musulmana, presentare eccezione d’incompatibilità con la sharī’a. In questo caso, il disegno di legge sarebbe stato inviato al comitato di ‘ulamā’. 32 L. Binder, op. cit., p. 230 s. 33 I Qadiani o Ahmadiya sono una comunità composta dai seguaci di Mirza Ghulam Ahmad, di Qadian (1835-1908), che erano numerosi in Pakistan, dove avevano fondato il loro centro dopo il 1947. Si trattava di un movimento messianico sorto alla fine dell’Ottocento nel Panjab. La questione religiosa più rilevante riguardava l’auto-proclamazione di Ghulam Ahmad di essere un Profeta, che fece nel 1901. Ciò offese grandemente i Musulmani, per i quali l’idea che

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L’agitazione consistette in una serie d’incidenti avvenuta nella provincia del Panjab, tra il febbraio e il marzo del 1953, che fu caratterizzata da violenti attacchi contro la setta dei Qadiani, o Ahmadiya, e che spinse il governo a dichiarare la legge marziale

34.

La campagna politica contro i Qadiani era guidata dall’organizzazione politico-religiosa detta Majlis-i Ahrar, un partito di ‘ulamā’ già noto per la sua opposizione all’idea del Pakistan

35.

L’agitazione nasceva, in parte, dalle contraddizioni insite nella creazione del Pakistan, ovvero dalla distanza esistente tra la classe politica nazionalista e gli ‘ulamā’ più radicali. Ma nasceva altresì dalle rivalità esistenti tra le varie fazioni della Muslim League del Panjab, e tra questa e la classe dirigente federale

36.

Gli Ahrar presentarono pubblicamente la loro richiesta che i Qadiani fossero dichiarati una comunità non musulmana nel maggio del 1949. La richiesta, se accolta, avrebbe avuto importanti conseguenze, in quanto è teologicamente accettato che un non Musulmano non possa governare su Musulmani. Poiché la setta era ben rappresentata nella burocrazia e nel governo - il ministro degli esteri Zafrullah Khan, era un Qadiani – la dichiarazione avrebbe teoricamente costretto i Qadiani a dimettersi dagli incarichi pubblici. In effetti, Zafrullah Khan fu fin dall’inizio uno dei principali obiettivi della propaganda anti-Qadiani.

Tuttavia, gli Ahrar erano sufficientemente abili da collegare, nella loro propaganda, la questione dei Qadiani al più generale tema dell’“islamicità” del Pakistan. Costante riferimento era fatto alla permanenza nel paese di pratiche “non islamiche”, come il mancato rispetto del pardah (separazione delle donne) o il rispetto del digiuno del Ramadan. La consorte del primo ministro, Begam Liaquat Ali Khan, nota per le sue idee progressiste sul ruolo della donna, era anch’essa oggetto di pesanti attacchi

37.

Il punto di svolta fu costituito dalla decisione del ministro Zafrullah Khan di partecipare ad un incontro pubblico dei Qadiani a

Muhammad chiuda il ciclo della Profezia è un punto centrale di fede. In realtà, Ghulam Ahmad si rifaceva a un’idea già nota all’Islam sunnita, soprattutto sufi, che si basava sulla distinzione tra Profeta come legislatore o come semplice rinnovatore dell’Islam (il Mahdi). Tuttavia, questa sottile distinzione non risparmiò a lui e ai suoi seguaci l’ostilità delle masse musulmane. Y. Friedmann, Prophecy Continuous: Aspects of Ahmadi Religious Thought and its Medieval Background, Berkeley, 1989; F. Robinson, Prophets without Honour? Ahmad and the Ahmadiyya, in History Today, giugno 1990, p. 42 ss. 34 Cfr. Report of the Court of Inquiry Constituted under the Punjab Act II of 1954 to Enquire into the Punjab Disturbances of 1953, Lahore, 1953; D. Abenante, The “Anti-Qadiani”, op. cit., p. 3 ss.; C.H. Kennedy, Towards the Definition of a Muslim in an Islamic State: The Case of the Ahmadiya in Pakistan, in D. Vajpeyi, Y.K. Malik (cur.), Religious and Ethnic Minority Politics in South Asia, London, 1989, p. 71 ss. 35 Sugli Ahrar si v. W. Cantwell Smith, Modern Islam in India: A Social Analysis, Lahore, 1963, p. 253 ss. 36 Report of the Court of Inquiry, op. cit., p. 13 s. 37 Foreign Office, The Mullahs and Their Influence in Pakistan, op. cit.

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Karachi, nel maggio del 195238

. Fino allora, la protesta non aveva coinvolto i settori moderati degli ‘ulamā’. Inoltre, anche Maududi aveva cercato di tenersi fuori dell’agitazione e di convincere gli altri religiosi a fare altrettanto. La sua opinione era che la questione rischiava di distrarre l’opinione pubblica dalla questione più importante, vale a dire l’adozione di una “Costituzione islamica”. La situazione cambiò improvvisamente dopo la manifestazione del maggio 1952. Fu convocata una riunione dei partiti musulmani a Karachi nel giugno di quell’anno, e fu elaborata una richiesta unanime che i Qadiani fossero dichiarati non Musulmani e che Zafrullah Khan fosse costretto alle dimissioni

39. La conseguenza fu

che tutti gli altri leader religiosi furono costretti a schierarsi, compreso Maududi che aggiunse la questione dei Qadiani alle sue proposte sulla Costituzione islamica. Dinanzi al rifiuto del governo, la risposta degli ‘ulamā’ fu la “azione diretta”, che si svolse nel febbraio del 1953. Gli incidenti che seguirono costrinsero il governo centrale a dichiarare la legge marziale nel Panjab.

Le conseguenze dell’agitazione furono molteplici. Innanzi tutto, la rottura del precario equilibrio raggiunto tra tradizionalisti e modernisti, con la riapertura della questione della Costituzione. In secondo luogo, l’isolamento degli ‘ulamā’ più moderati e una generale radicalizzazione delle posizioni dei religiosi. In terzo luogo, la delegittimazione degli organi istituzionali impegnati nella stesura della Costituzione, portando la questione della “islamicità” del Pakistan sulla pubblica piazza. Infine, l’oscillazione del potere verso la burocrazia e l’esercito. Nel 1953, questo blocco di potere decise che i politici di professione non erano capaci di garantire l’ordine nel Paese e di controllare gli ‘ulamā’. Tali eventi, dunque, prepararono il terreno per l’ingresso delle forze armate nella vita politica del Pakistan. Per i Qadiani, l’emarginazione dalla comunità musulmana era solo rimandata. Nel 1974, sarà Zulfiqar ’Ali Bhutto a dichiarare i Qadiani non Musulmani, decisione poi confermata e rafforzata da Zia-ul-Haq

40.

6. Il contenuto delle tre carte costituzionali del 1956, 1962 e

1973 evidenzia, al di là delle differenti situazioni storico-politiche, una sostanziale continuità. L’elemento che sembra caratterizzare il lavoro dei costituenti pakistani è la presenza di una persistente ambiguità tra il modello di democrazia parlamentare di derivazione occidentale e la formulazione di un modello inedito, ispirato alla teoria del Califfato.

38 Report of the Court of Inquiry, op. cit., p. 75 s. 39 Ibidem, p. 77 s. 40 C.H. Kennedy, op. cit., p. 91 ss.

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Da tale ambiguità deriva una limitazione, in principio se non de facto, della potestà legislativa parlamentare, dato che essa riveste un ruolo non derivato dalla collettività ma frutto di una “delega” divina. Dato che – sostengono i musulmani – Dio si è espresso in primo luogo nel Corano e nell’esempio profetico (sunna), ne deriva che dallo studio di tali fonti, e di quelle complementari (idjmā’ e qiyās), sarebbe teoricamente possibile trarre quanto necessario all’organizzazione del vivere civile. Poiché gli ‘ulamā’ possiedono l’autorità per lo studio delle fonti della sharī’a, ne consegue che essi costituirebbero un’istituzione concorrente rispetto all’autorità parlamentare. Agli ‘ulamā’ spetterebbe la facoltà di supervisionare l’attività legislativa per assicurare la conformità di questa alla sharī’a. I costituenti pakistani si sono mostrati incapaci di risolvere questa debolezza fondamentale, già presente nella Objectives Resolution.

L’ambiguità tra Stato islamico e democrazia parlamentare si riflette inevitabilmente sul rapporto tra musulmani e non musulmani in tutte e tre le Costituzioni. Accanto a norme che garantiscono una parità totale di diritti e di prerogative a tutti i cittadini, indifferentemente dalla religione professata, si evidenziano altre disposizioni che, di fatto, limitano l’esercizio dei diritti civili e politici ai non musulmani. In primo luogo, a causa delle norme che ostacolano in vario modo l’accesso ad alcune importanti cariche istituzionali ai cittadini di fede non musulmana. In secondo luogo, una forte limitazione di principio deriva dal fatto che le tre Costituzioni pongono, seppur con diverse formulazioni, quale finalità principale dello Stato, la creazione di una società islamica sulla terra. Ne derivano ovvie limitazioni per l’integrazione nella comunità statale di coloro che in tale finalità scelgono di non riconoscersi.

Inoltre, un altro punto rilevante è la tendenza del processo d’islamizzazione, emersa per la prima volta con la controversia “anti-Qadiani”, a creare una potenziale frammentazione nella stessa comunità islamica, attribuendo allo Stato il compito di definire il profilo e le caratteristiche di un musulmano.

La Costituzione del 1956, tra le varie carte costituzionali pakistane, fu senz’altro la più vicina allo spirito della Objectives Resolution; in essa si notava, cioè, lo sforzo di compromesso tra le diverse istanze. Tuttavia, il testo era destinato a non entrare mai in vigore, essendo revocato dopo appena due anni dalla sua approvazione, nel 1958. I militari, padroni della scena politica tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, non consentirono la sua implementazione proprio in quanto appariva concedere troppo ai partiti religiosi.

Il testo contiene la prima, storica, definizione del Pakistan quale «Repubblica islamica», all’art.1. Questa definizione di

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principio è stata mantenuta in tutti i testi costituzionali successivi (il tentativo di Ayub Khan, nel 1962, di abolire il termine “islamico” sarà vanificato dalle proteste degli ‘ulamā’). La Costituzione del 1956 prevede nella Parte II (artt. 13, 14, 17, 18, 21) una serie di norme che affermano la garanzia di non discriminazione dei cittadini sulla base della fede religiosa. Ancora, l’art. 27 garantisce che le minoranze non saranno discriminate dal punto di vista della rappresentanza nei servizi provinciali e federale. Nonostante ciò, l’art. 32 pone una forte limitazione all’esercizio dei diritti civili da parte delle minoranze, laddove stabilisce che il Presidente debba essere musulmano. Tuttavia, dato che la Costituzione stessa prevede che il Presidente possa essere sostituito dallo Speaker dell’assemblea nazionale (la camera bassa) e che per l’accesso a questa carica non vi sono limitazioni legate all’appartenenza religiosa, ne consegue che, secondo la Costituzione del 1956, un non musulmano avrebbe potuto teoricamente essere nominato Presidente ad interim

41.

Nella Parte XII della Costituzione, intitolata Islamic provisions, si dispone che il Presidente debba nominare i componenti dell’ente per la ricerca islamica (art. 197). Si tratta di una norma che, nelle intenzioni dei costituenti, avrebbe dovuto accogliere la richiesta di un ruolo istituzionale per gli ‘ulamā’ quali garanti della “islamicità” dell’ordinamento. Ancora più importante è l’art. 198, che introduce nella c.d. repugnancy clause un principio destinato a essere parte integrante di tutte le Costituzioni successive, secondo il quale «Nessuna legge sarà promulgata se in contrasto con i precetti dell’Islam contenuti nel Santo Corano e nella sunna … e le leggi esistenti saranno rese conformi a tali precetti»

42.

L’effetto combinato degli artt. 197 e 198 evidenzia l’incertezza dei costituenti pakistani riguardo al ruolo della legge islamica. Se, infatti, da un lato, si disponeva la teorica supremazia della sharī’a sull’attività parlamentare, e si prevedeva persino la possibilità di annullare le norme approvate dal parlamento che contrastassero con la legge islamica, in concreto mancavano le indicazioni sui modi attraverso cui tale incompatibilità sarebbe stata rilevata e risolta. Se è vero, come accennato sopra, che la Costituzione prevedeva la formazione di un istituto di ricerca islamica, formata da personalità esperte nelle scienze religiose, è altresì vero che a questo ente mancavano poteri effettivi. In ogni caso, l’istituto per la ricerca islamica non fu mai realizzato. Anche in questo caso, dunque, come già per la Objectives Resolution, le concessioni ai partiti religiosi sembravano essere più formali che sostanziali e, in quanto tali, erano destinate a lasciare insoddisfatti i

41 R. Mehdi, op. cit., p. 82. 42 Ibidem, p. 84.

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settori tradizionalisti. Ciò nondimeno, gli ‘ulamā’ ottennero un risultato importante nel testo del 1956 con la repugnancy clause, destinata a lasciare una traccia profonda nelle carte costituzionali successive.

La Costituzione del 1962 venne adottata in una situazione storica completamente diversa. Si trattò, infatti, della prima Costituzione redatta da una giunta militare ai comandi di Ayub Khan, promotore del colpo di Stato del 1958. Per ciò che concerne lo spazio assegnato all’Islam, la Costituzione del governo Ayub va soprattutto letta alla luce della decisione dei militari pakistani di imprimere una svolta secolarizzante al sistema politico. Ciò si rivelò un tentativo molto difficile da tradursi in realtà per due ragioni. In primo luogo per la resistenza degli ‘ulamā’; in secondo luogo, in quanto lo stesso Ayub, nel corso del suo periodo di governo, si riconvertì alla necessità di utilizzare l’Islam quale base ideologica di riferimento.

Ayub Khan scelse di mantenere la Ojectives Resolution quale preambolo della Costituzione; tuttavia, egli tentò di modificarne alcuni passi, tra cui il primo comma, laddove si affermava che «la sovranità sull’intero universo appartiene … a Dio onnipotente, e l’autorità che Egli ha delegato allo Stato … per mezzo del suo popolo … perché sia esercitata entro i limiti da Lui prescritti costituisce una sacra delega», Ayub propose di eliminare l’espressione «entro i limiti da Lui prescritti»

43. Inoltre, al quinto

comma, laddove il testo recitava «Dove i musulmani saranno messi in condizione di ordinare la propria vita nella sfera individuale e collettiva in accordo con gli insegnamenti e le richieste dell’Islam come stabiliti nel Santo Corano e nella sunna», Ayub sostituì il riferimento finale alle due fonti con l’espressione generica «Islam»

44.

Analogamente, all’art. 1 la formulazione di «Repubblica islamica del Pakistan» fu modificata in «Repubblica del Pakistan». Tuttavia, in seguito alle proteste degli ‘ulamā’, nel 1964, Ayub fu costretto a ristabilire la formulazione originaria, sia del preambolo sia dell’art. 1.

Per quanto riguarda, in particolare, i rapporti con le minoranze, il testo del 1962 mantenne sia la garanzia contro la discriminazione sulla base della confessione (art. 7), sia la discussa norma sull’obbligo del Presidente di essere di fede musulmana. Gli artt. 199 e 207 prevedevano, oltre al mantenimento del già visto istituto di ricerca islamica, anche l’istituzione di un consiglio consultivo per l’ideologia islamica, di cui descriveva sia la composizione che le funzioni, di natura essenzialmente consultiva.

43 Ibidem, p. 88 s. 44 Ibidem.

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L’istituzione del suddetto consiglio, tuttavia, non fu bene accolta dai partiti religiosi, in quanto appariva manifesta la volontà del governo di Ayub Khan di fare dello Stato il motore principale del processo d’islamizzazione, promuovendo un “Islam di Stato”, svincolato dal controllo degli ‘ulamā’

45.

Nella Parte II, all’art. 1, è ribadita la repugnancy clause. Vi erano qui, tuttavia, due interessanti differenze rispetto al testo del 1956: in primo luogo, non vi era alcun riferimento specifico al Corano e alla sunna, ma solo all’Islam. In secondo luogo, non era presente alcun articolo che stabilisse l’obbligo di rendere le leggi conformi alla sharī’a; entrambi i punti furono però reintrodotti con l’emendamento del 1964. Il riferimento generico all’Islam, anziché al Corano e alla sunna, è stato interpretato come finalizzato a eliminare le divisioni tra gli ‘ulamā’ riguardo al rilievo delle diverse fonti della legge islamica o alla loro interpretazione. Tuttavia, va notato che la formulazione del 1962, più generica rispetto a quella del 1956, si avvicinava all’idea “modernista” della religione come semplice fonte d’ispirazione

46.

Costretto alle dimissioni dopo l’infelice esito della guerra contro l’India del 1965, Ayub fu sostituito dal generale Yahya Khan, nel marzo del 1969. Quest’ultimo sospese la Costituzione e promulgò, l’anno successivo, un testo costituzionale ad interim, il Legal Framework Order. Questo documento, da taluno considerato come la terza Costituzione pakistana, in realtà si limitava a gettare alcune linee guida per la ripresa del processo costituente, fissando un termine di 120 giorni per la redazione di una nuova Costituzione da parte del parlamento. Il Legal Framework, in ogni caso, non sembrava segnare una discontinuità rispetto al passato: nei cinque punti che lo componevano, oltre a tracciarsi una struttura federale, con elezioni a suffragio universale a livello federale e provinciale, si prevedeva che l’ordinamento avrebbe incorporato l’ideologia islamica e si prevedeva la figura di un Capo di Stato, obbligatoriamente di fede musulmana. La Costituzione fu effettivamente redatta dopo le elezioni del 1970, le prime a suffragio universale diretto nella storia del Paese

47. La sconfitta del Pakistan

nella guerra del 1971, e la secessione del Pakistan Orientale, portò alle dimissioni di Yahya Khan e all’improvvisa ascesa di Zulfiqar ‘Ali Bhutto sulla scena politica.

45 Ibidem, p. 93. 46 La politica di “modernizzazione” di Ayub fu più efficace nel campo della riforma del diritto di famiglia, attraverso la Muslim Family Law Ordinance, del 1961. La legge, che pur avendo incontrato forte resistenza da parte degli ‘ulamā’ e della Jama’at-i-Islami, continua ad essere un punto di riferimento per gli elementi progressisti e i movimenti femminili (Ibidem, cap. 4). 47 I. Talbot, Pakistan, op. cit., p. 193 s.

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La Costituzione del 1973, varata sotto il governo Bhutto, rappresenta l’unico tentativo costituzionale realizzato da un governo democraticamente eletto in Pakistan. In quanto tale, il testo è senza dubbio il più rappresentativo della storia del Paese. Tuttavia, diverse motivazioni hanno indotto gli studiosi a considerare questo atto come un’occasione perduta.

In primo luogo, il documento fu redatto in un momento in cui i militari erano molto delegittimati sul piano interno. Inoltre, la nascita del Bangladesh sembrava avere fortemente indebolito la convinzione che l’Islam potesse fungere da fattore unificante di popolazioni culturalmente, socialmente ed economicamente eterogenee. Dunque, la stessa visione politica e culturale dell’Islam, quale era stata imposta dalla “teoria delle due nazioni” di Jinnah, sembrò ricevere una smentita dalla nascita del Bangladesh. Tuttavia, va rilevato che gli eventi del ’71 ebbero effetti parzialmente ambigui, poiché il Pakistan divenne, con la secessione del Bangladesh, più omogeneo dal punto di vista culturale e religioso; ciò, paradossalmente, può avere rafforzato la ricerca dell’omogeneità culturale e religiosa, ponendo le premesse per una maggiore ostilità verso le minoranze.

Di fatto, contrariamente alle attese, i costituenti del ’73 non abbandonarono l’idea dell’Islam quale fattore di legittimazione del potere politico. Non soltanto il testo, nella sua prima formulazione, mantenne pressoché inalterate le “Islamic provisions” già viste nelle precedenti Costituzioni, ma furono persino aggiunti alcuni elementi nuovi. La Objectives Resolution fu mantenuta come preambolo, con la sua formulazione di compromesso tra “tradizionalisti” e “modernisti”. L’art. 1 confermò la definizione di “Repubblica islamica”; fu tuttavia inserito un nuovo articolo che definiva, per la prima volta, l’Islam “religione di Stato” (art. 2). Analogamente, fu approvata una nuova norma che prevedeva l’obbligo per il primo ministro di essere di fede islamica (art. 91).

La più grande concessione ai partiti religiosi, tuttavia, era contenuta nell’obbligo per il presidente ed il primo ministro di effettuare un giuramento, comprendente una dichiarazione di fede in Muhammad quale ultimo dei Profeti: si trattava, com’è evidente, di una disposizione studiata per escludere i Qadiani dalle più importanti cariche pubbliche.

48 Inoltre, come già accennato, i Qadiani furono

definitivamente emarginati nel 1974, con l’emendamento all’art. 260 della Costituzione, che recita: “Una persona che non crede nell’assoluta…natura conclusiva della Profezia di Muhammad, l’ultimo dei Profeti…non è un Musulmano per gli scopi della Costituzione o della legge”.

49 Dunque, paradossalmente, il primo

48 R. Mehdi, op. cit., p. 98. 49 Ibidem, p. 101; C. H. Kennedy, op. cit., p. 91 s. La traduzione è mia.

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governo democraticamente eletto nella storia del paese decise di escludere una comunità dall’ambito dell’Islam. Con questa decisione, Bhutto creò un precedente molto rilevante, in quanto, per la prima volta, lo Stato si arrogava il diritto di decidere quali requisiti un Musulmano dovesse possedere per potere considerarsi tale. In qualche modo, lo Stato si appropriava dell’Islam, ne elaborava una visione ufficiale.

Dunque, benché il passaggio storico dal periodo di Bhutto a quello di Zia-ul-Haq sia stato talvolta considerato in termini di discontinuità, si può affermare che la politica di Bhutto verso i Qadiani abbia costituito un precedente importante per la successiva strategia seguita dall’islamizzazione di Zia, in quanto ha affermato il diritto dello Stato di imporre per legge il proprio punto di vista nel campo della credenza religiosa.

La contraddizione tra le norme inserite per accogliere le richieste degli ‘ulamā’ e il resto della Costituzione è palese, con riferimento alla parte sui “Diritti fondamentali”. In questa sezione vengono, infatti, reiterate le garanzie sul diritto di tutti i cittadini a professare la propria religione e a mantenere proprie istituzioni religiose (art. 20); al diritto di non essere discriminati nell’accesso ai luoghi pubblici (art. 26), o per l’accesso ai servizi pubblici (art. 27). Tuttavia, un’ulteriore, ambigua, formulazione della garanzia della libertà di stampa subordinava quest’ultima alla considerazione della “gloria dell’Islam”.

50 Come già nel 1962, alla sezione intitolata

“Principles of Policy”, la Costituzione del ’73 prevedeva un ruolo attivo per lo Stato “per consentire ai Musulmani del Pakistan di vivere in accordo con i fondamentali principi dell’Islam”. Come già nel testo del 1962, era inoltre sancita l’eliminazione di prostituzione, gioco d’azzardo, tossicodipendenza, consumo d’alcool (artt. 46-48).

L’art. 29 ripresentava la “repugnancy clause”, con specifico riferimento al Corano e alla sunna e con un ulteriore riferimento alla specifica interpretazione della scuola giuridica di appartenenza. Per implementare questo principio, il testo ribadiva la creazione di un consiglio per l’ideologia islamica, mentre non veniva mantenuto l’istituto per la ricerca islamica. E’ opinione diffusa che l’abolizione dell’istituto fosse dovuta al fatto che questo – soprattutto durante la direzione di Fazlur Rahman, tra il 1962 e il 1968 – fosse visto come un organismo di idee “moderniste” e in quanto tale scontasse l’ostilità degli ‘ulamā’.

51 Un aspetto di novità, in senso “modernista”,

della Costituzione del ’73, è costituito dalle norme (artt. 34 e 37) che dichiarano l’obbligo dello Stato di incentivare la “piena partecipazione” delle donne alla vita pubblica.

50 R. Mehdi, op. cit., p. 98 s. 51 Ibidem, p. 100.

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In definitiva, la Costituzione del ’73 rappresentò un tentativo per molti aspetti contraddittorio. Se, da un lato, rimaneva in tutta la sua evidenza, l’ambiguità tra “modernismo” e “tradizionalismo”, la Costituzione approvata durante il governo Bhutto conteneva più norme d’ispirazione religiosa delle precedenti. In ogni caso, com’è stato notato, la maggiore responsabilità storica di Bhutto consiste nell’aver egli stesso iniziato - con l’emendamento all’art. 260 sui Qadiani - un processo di modifica del testo che ha avuto come conseguenza la marginalizzazione delle minoranze religiose e l’imposizione di una versione “statale” dell’Islam.

52

7. Il governo di Bhutto fu rovesciato dal colpo di Stato militare

del luglio 1977, che portò all’arresto e alla successiva condanna a morte, due anni dopo, del primo ministro. Il Generale Muhammad Zia-ul-Haq, comandante dell’esercito, assunse il potere come amministratore della legge marziale, quindi come presidente.

Il periodo di governo di Zia rappresentò senza dubbio il maggiore spunto per l’accelerazione del processo d’islamizzazione. Se, apparentemente, Zia sembrava riprendere una linea di continuità storica che aveva visto l’esecutivo far propria la simbologia islamica allo scopo di dare unità al paese, un’analisi più approfondita non può non evidenziare che il nuovo regime militare segnò un momento di forte discontinuità, sia rispetto alla storia costituzionale del Paese, sia riguardo al ruolo storico delle forze armate. Mentre, infatti, le precedenti carte costituzionali erano state caratterizzate, seppur con diverso accento, dalla volontà di formulare un compromesso tra lo Stato islamico voluto dagli ‘ulamā’ e dalla Jama’at-i-Islami, e la democrazia parlamentare di derivazione britannica, Zia riformulò radicalmente l’agenda costituzionale del Paese, imprimendo uno stimolo verso adozione di un “sistema islamico”, ovvero l’inserimento nell’ordinamento di alcune importanti norme tratte della sharī’a.

53 Le modifiche volute da Zia all’ordinamento possono

essere distinte in due gruppi: una prima serie di riforme di rilevanza costituzionale, varata nel 1985, ed una serie di riforme al codice penale, approvate tra il 1979 e il 1980.

52 I. Malik, Religious minorities in Pakistan, Minority Rights Group International, 2002, p. 17. Bhutto fu probabilmente condizionato dalle pressioni degli Stati arabi del Golfo, cui il Pakistan era fortemente indebitato per via delle forniture petrolifere (F. Robinson, Prophets without honour?, op. cit., p. 45). 53 E’ emerso, in sede storiografica, un ampio dibattito sulla natura del processo d’islamizzazione di Zia; si vedano, ad esempio: I. Talbot, Pakistan, op. cit., p. 245 ss.; W. L. Richter, The Political Meaning of Islamization in Pakistan: Prognosis, Implications, and Questions, in: A. Weiss, (cur.), Islamic Reassertion in Pakistan, op. cit., p. 129 ss.; M. Daechsel, Military Islamization in Pakistan and the Spectre of Colonial Perceptions, Contemporary South Asia, 6 (2), 1997, p. 141 ss.

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Le riforme costituzionali furono inaugurate nel 1985, con il “Revival of the Constitution Order”, con cui Zia restaurò la Costituzione del ’73, sospesa dopo il colpo di Stato del 1977. Con questo stesso atto, fu introdotta una serie di emendamenti in senso “islamico” del testo.

54 Le più rilevanti furono: all’art. 1, il

cambiamento della denominazione del parlamento in Majlis-i-shura; ciò non comportò una trasformazione nella struttura o nel funzionamento del parlamento, che conservò la struttura bicamerale (assemblea nazionale e senato), ma fu simbolicamente connesso all’assemblea che, nell’originaria comunità islamica – secondo la tradizione – assisteva il Profeta Muhammad nelle sue decisioni. L’art. 2 stabilì che la “Objectives Resolution” diveniva parte integrante della Costituzione, anziché il suo preambolo, come nelle Costituzioni precedenti. L’obiettivo doveva essere di dare forza costituzionale al documento che conteneva l’affermazione della sovranità divina sullo Stato. Dato, tuttavia, che era mantenuta la struttura parlamentare, le implicazioni pratiche erano marginali, se non nel senso di confermare l’ambiguità già esistente.

L’art. 62 introdusse una nuova serie di requisiti per i parlamentari, tra i quali il “non essere conosciuto come una persona che violi le ingiunzioni dell’Islam” (62d), “avere adeguata conoscenza degli insegnamenti dell’Islam e praticare i doveri obbligatori prescritti dall’Islam…” (62e). Benché fosse specificato che tali requisiti non erano richiesti ai membri delle minoranze, le nuove norme introducevano un nuovo accento di tipo confessionale nell’organo legislativo.

55 L’art. 113 prevedeva analoghi requisiti per

l’accesso alle assemblee provinciali. Riguardo alle minoranze, l’importante art. 51 prevedeva che

dieci seggi fossero riservati alle minoranze religiose, ovvero: Cristiani, Hindu, Sikh, Buddisti, Parsi, Baha’i e Ahmadi; per quest’ultimo gruppo, si trattava di una norma che integrava la modifica già fatta sotto Bhutto. Inoltre, il Terzo emendamento, sempre del 1985, modificava nuovamente la formulazione dell’art. 260 (3), che recitava: “Nella Costituzione … e [negli] altri atti giuridici … “Musulmano” significa una persona che crede nell’unità e unicità di Dio Onnipotente, nella assoluta e incondizionata condizione finale della Profezia di Muhammad … l’ultimo dei Profeti, e non crede in, o non riconosce … alcuna persona che proclama di essere un profeta, in ogni senso del termine … “Non Musulmano” significa una persona che non è un Musulmano e include una persona appartenente alla comunità Cristiana, Hindu,

54 R. Mehdi, op. cit., p. 103 ss. 55 Ibidem, p. 106.

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Sikh, Buddista o Parsi … il gruppo Qadiani o il gruppo Lahori che si definiscono “Ahmadi” … o un Bahai”

56.

In sostanza, le riforme di Zia completavano un processo già iniziato sotto Bhutto. A dispetto della riserva dei seggi per le minoranze, gli emendamenti di Zia andavano nel senso di una progressiva qualificazione religiosa dei diritti di cittadinanza, aggravando il senso d’esclusione delle altre comunità religiose. Ciò che è ancora più importante, con Zia per la prima volta nella storia del Paese lo Stato avocava a sé il diritto di definire un Musulmano, fatto di per sé inedito nella storia islamica.

Tra le altre riforme di rilievo costituzionale, va ancora ricordata l’introduzione, nel 1980, delle “Corti Federali della Sharia” (art. 203 della Costituzione), con la competenza di “esaminare e decidere la questione se una legge…sia in contraddizione con le ingiunzioni dell’Islam, quali contenute nel Corano e nella sunna del Profeta…”.

57 Quest’emendamento ha creato un sistema parallelo di

corti che – di propria iniziativa, o su ricorso del governo federale, o di un gabinetto provinciale, o di qualunque cittadino - può esercitare teoricamente una sorta di controllo esterno sull’attività del parlamento.

58 La norma è stata molto discussa, soprattutto in quanto,

con essa, il governo di Zia è sembrato voler creare dei nuovi organismi, formati da membri legati all’esecutivo, alternativi agli ‘ulamā’, per monitorare la compatibilità della legislazione con la sharī’a.

E’ ancora importante porre l’accento sull’ottavo emendamento del 1985 che, modificando l’art. 58 della Costituzione, estese i poteri del presidente, tra cui la facoltà di scioglimento del parlamento, qualora “nella sua opinione…sia sorta una situazione in cui il Governo della Federazione non possa essere portato avanti secondo quanto previsto dalla Costituzione…”. Questa norma ha avuto una grande importanza storica in quanto ha consentito, dal 1985 fino alla sua abrogazione, alle forze armate di controllare gli eventi politici senza svolgere un ruolo diretto, utilizzando il potere del presidente per destituire governi sgraditi

59. La norma fu abrogata nel 1997 dal

governo di Nawaz Sharif. Tuttavia, è opinione diffusa che

56 Ibidem; I. Malik, op. cit., p. 17; la traduzione è mia. I “Lahori” sono un gruppo che si è scisso dalla originaria comunità Qadiani nel 1912. 57 Ibidem. 58 Il sistema giudiziario pakistano prevede (artt. 175-212B della Costituzione) una struttura di tribunali organizzata su tre livelli: le corti di distretto, le Alte Corti presso le capitali provinciali - le quali hanno competenza d’appello sulle decisioni delle corti locali - ed una Corte Suprema. Quest’ultima ha una competenza esclusiva sui conflitti d’attribuzione tra il governo federale e i governi provinciali, e d’appello sulle sentenze delle Alte Corti (per un’analisi recente del sistema giudiziario pakistano, si veda: International Crisis Group, Building Judicial Indipendence in Pakistan, Asia Report, n. 86, Islamabad/Brussels, 10 novembre 2004). 59 Ciò si è verificato con Benazir Bhutto, che fu destituita due volte, nel 1990 e nel 1996, e con Nawaz Sharif, nel 1993.

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l’abrogazione dell’Ottavo emendamento abbia contribuito a spingere l’esercito ad assumere nuovamente un ruolo politico diretto, con il colpo di Stato di Pervez Musharraf del 1999

60.

Altrettanto rilevanti sono le riforme non costituzionali varate da Zia. Si tratta di una serie d’ordinanze presidenziali, molte delle quali hanno modificato il codice penale pakistano, introducendo specifiche pene coraniche, le cosiddette “Ordinanze hudūd” del 1979. Altri provvedimenti hanno introdotto, tra il 1980 e il 1982, il reato di blasfemia contro il Corano o il Profeta, punibile con l’ergastolo o la morte, modificando l’art. 295 del codice penale. Ancora, nel 1979 è stata introdotta la pena della fustigazione (Whipping Ordinance), che è divenuta da allora una pena comminata frequentemente. Infine, con un’ordinanza del 1980, la zakāt - l’elemosina legale, uno dei cinque doveri del musulmano - è stata di fatto parificata ad una tassa statale.

61

In conseguenza di queste riforme, il sistema giuridico pakistano pur continuando ad assicurare, all’art. 22, la libertà d’ogni cittadino di professare la propria religione e partecipare ai relativi rituali, ha posto grandi limiti allo spazio effettivo di partecipazione dei non Musulmani alla vita pubblica. La legge sulla blasfemia è stata, di fatto, utilizzata sia contro Musulmani sia non Musulmani, rafforzando la tendenza al settarismo religioso. Per quanto riguarda la condizione femminile, in particolare, la legislazione sui reati di fornicazione e d’adulterio (zinā) ha creato una forma di pressione e di marginalizzazione contro le donne, particolarmente vulnerabili a causa dei difetti di funzionamento e d’applicazione di tale norma.

E’ necessario ricordare che la sharī’a prevede tre tipi di pene (hadd (pl. hudūd), tā’zir, kisā), che il Corano assegna secondo la gravità del reato commesso. Di questi tre, solo i primi due sono stati introdotti in Pakistan.

62 Le pene hudūd (letteralmente “i limiti”) sono

le più severe, in quanto violano dei “diritti” di Dio, quindi non vi è possibilità di conciliazione o compensazione.

63 Il termine hudūd,

dunque, tecnicamente indica non i reati ma le pene prescritte. I reati previsti sono l’omicidio, la fornicazione, il consumo d’alcool, il furto, l’apostasia. Tuttavia, per queste pene vale una regola sulla prova molto severa; nei casi in cui tali requisiti non siano rispettati, le pene hudūd non possono essere inflitte, si applicano invece le pene tā’zir, più leggere. Queste, secondo la sharī’a, dovrebbero essere a

60 Cfr. D. Abenante, Le elezioni del 1997 in Pakistan, Quaderni Asiatici, 43, ottobre/dicembre 1997, p. 13 ss. 61 I. Malik, op. cit., p. 18; R. Mehdi, op. cit., p. 150. 62 A. Weiss, The Historical Debate on Islam and the State in South Asia, in: Idem, Islamic Reassertion in Pakistan, op. cit., p. 3. 63 G. Vercellin, op. cit., p. 166.

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discrezione del giudice, tuttavia le ordinanze di Zia hanno altresì specificato le pene tā’zir da comminare.

64

Le quattro ordinanze promulgate nel 1979, riguardano: i reati contro la proprietà (Offences Againts Property Ordinance); l’uso di bevande alcoliche (Prohibition Order); la fornicazione e l’adulterio (Offence of Zina Ordinance); la falsa accusa di fornicazione, d’adulterio o di stupro (Offence of Qazf Ordinance). Inoltre, come accennato, nel 1980 fu promulgata la Zakat e Ushr Ordinance.

65

Le ordinanze hudūd hanno sollevato una serie di problemi. La loro presenza nell’ordinamento va considerata essenzialmente simbolica, in quanto la sussistenza delle prove previste per la loro implementazione è una possibilità remota. Dunque, in concreto, le pene tā’zir hanno trovato un’applicazione più estesa in Pakistan. Ad esempio, nei casi di furto, le pene hudūd – che prevederebbero, nei casi più gravi, l’amputazione del braccio – non risultano a tutt’oggi essere state applicate.

66 Quanto detto vale, in parte, anche per i reati

di adulterio e fornicazione; anche in questo caso, infatti, l’applicazione delle pene hudūd è estremamente difficile, mancando la prova testimoniale prevista. Non a caso, la pena coranica della lapidazione non risulta - almeno fino a data recente - essere stata comminata.

67 Ciò nondimeno, le leggi hanno incontrato una forte

opposizione, soprattutto da parte delle associazioni femminili, in quanto la posizione della donna risulta particolarmente debole nei casi di rapporto sessuale illecito; dunque, in concreto, si sono verificati frequenti casi di applicazione delle pene tā’zir alle donne, soprattutto mediante fustigazione.

68

L’ordinanza del 1980 su zakat e ‘ushr è altrettanto controversa. Con quest’ordinanza, la zakat – secondo la sharī’a un contributo volontario annuale corrispondente ad una quota del patrimonio posseduto – è divenuta una tassa statale obbligatoria, imposta sui cittadini musulmani, dunque ad esclusione delle minoranze. Tuttavia, la legge dell’80 impose come obbligatoria la zakat secondo le procedure previste dalla scuola giuridica sunnita hanafita. Ciò non teneva conto della pluralità dell’Islam pakistano, e della presenza di diverse comunità che seguivano altre scuole giuridiche. In particolare, l’ordinanza sollevò l’opposizione della

64 R. Mehdi, op. cit., p. 109 s. 65 La zakat consiste nell’obbligo di versare, una volta l’anno, una quota del patrimonio posseduto. La tassa si applica ad una serie di categorie di beni; quando la quota si applica al prodotto della terra è definita ‘ushr (cfr. G. Vercellin, op. cit., p. 220). 66 Le pene sono di difficile applicazione concreta anche a causa dell’opposizione delle associazioni mediche pakistane. 67 R. Mehdi, op. cit., p. 118. 68 Ibidem, p. 126. Su questo punto si vedano: A. M. Weiss, Implications of the Islamization Program for Women, op. cit.; E. Giunchi, Radicalismo islamico e condizione femminile in Pakistan, Torino 1999.

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comunità sciita duodecimana (ithna ashari), la cui scuola giuridica (fīkh ja’fariya), si distingueva sensibilmente da quella hanafita. L’interpretazione sciita, infatti, prevedeva un ruolo più attivo da parte degli ‘ulamā’, per mezzo dei quali era versato l’obolo. Erano quindi gli ‘ulamā’ a redistribuire la zakāt ai bisognosi o agli altri usi previsti. Storicamente, la gestione dei proventi della zakāt da parte degli ‘ulamā’ sciiti era stata una delle basi della loro influenza socio-politica, sia nel subcontinente indiano sia in Iran. Per tali ragioni, la legge sulla zakāt si scontrò con la forte reazione della comunità sciita pakistana.

69

Dunque il diritto ja’farita in Pakistan assurse a ruolo di simbolo intorno al quale gli sciiti si organizzarono a difesa della propria identità religiosa. Gli sciiti furono anche danneggiati dalle ordinanze sulle hudūd, in quanto la legge sciita era più moderata di quella sunnita riguardo a diversi reati, ad esempio dando la possibilità di evitare la pena in caso di bisogno materiale. La reazione sciita portò, nel 1980, alla formazione del Tehrik-i-Nifaz-i-Fīkh-i-Ja’fariya Pakistan (“Movimento per l’implementazione del diritto ja’farita”) da parte di Allama Mufti Jaffar Husain, e con l’organizzazione di manifestazioni di protesta che, prendendo spunto dalla questione della zakāt, chiesero la concessione di un’autonomia giuridica, nonché una maggiore rappresentanza negli organi governativi che si occupavano dell’islamizzazione. Zia fu costretto a cedere, concedendo uno statuto speciale alla comunità sciita riguardo alla zakāt. Tuttavia, con il trascorrere dei mesi, il movimento iniziò a chiedere non solo la difesa, ma anche l’implementazione della loro interpretazione del diritto islamico, ovvero la parificazione del diritto ja’farita a quello sunnita hanafita in relazione a tutta la legislazione islamica.

70

La conseguenza della politica di Zia fu di creare una nuova divisione nel Paese. Come già negli anni Cinquanta, con la questione dei Qadiani, il governo pakistano sotto la guida di Zia ha rafforzato ulteriormente il concetto dell’uniformità religiosa quale requisito fondamentale per definire lo Stato islamico.

71 Tuttavia, va rilevato

69 Gli eventi furono condizionati anche dalla situazione politica internazionale. Non è un caso che la rivolta in Pakistan si sia sviluppata poco dopo la rivoluzione iraniana del 1979, che ha portato ad una diffusione del revivalismo sciita nel mondo musulmano (cfr. S. Qureshi, The Politics of the Shia Minority in Pakistan: Context and Developments, in: D. Vajpeyi e Y. K. Malik (cur.), op. cit., p. 126 ss.). 70 Ibidem, p. 127 ss.; D. Bredi, La proposta politica degli sciiti del Pakistan secondo la Tahrik-i Nifad-i Fiqh Ga’fariyyah, Oriente Moderno, n. 1-6, 1995, p. 27 ss.; M. Q. Zaman, Sectarianism in Pakistan: The Radicalization of Shi‘i and Sunni Identities, Modern Asian Studies, 32 (1998) 3, p. 693 ss. 71 Vi sono, inoltre, possibili contrasti su altre comunità musulmane “eterodosse”, come gli Zikri del Baluchistan (cfr. O. Schmidt di Friedberg, Islam, religione e società in Makran (Pakistan). Il caso degli zikri, in: Recueil d'articles offerts à Maurice Borrmans par ses collègues et amis, Roma, 1996, p. 199 ss.).

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che, pur dopo la scomparsa di Zia nel 1988, i successivi governi pakistani “democratici” si sono dimostrati riluttanti a modificare la legislazione islamica varata negli anni Ottanta, per il timore di perdere parte del proprio consenso tra i religiosi.

Al contrario, gli anni Novanta hanno visto un nuovo tentativo da parte del partito al potere (la Muslim League di Nawaz Sharif) di cercare una più estesa legittimazione popolare riaprendo la questione del ruolo della legge islamica in Pakistan. Con lo Sharia Act del 1991, infatti, la legge islamica è stata dichiarata legge suprema dello Stato. In ragione delle sue evidenti ambiguità, quest’atto manifesta la mancanza di progressi, da parte dei costituenti pakistani, verso la risoluzione della contraddizione tra sharī’a e ordinamento democratico parlamentare

72. Una contraddizione la cui soluzione

appare tutt’altro che prossima.

72 Ad esempio, la legge afferma, all’art. 31, che il governo “ha il dovere di promuovere una stile di vita islamico”; al contempo, l’art. 22 garantisce la libertà religiosa di tutti i cittadini e l’art. 33, la garanzia per i legittimi diritti e interessi delle minoranze (I. Malik, op. cit., p. 16).