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Ispica: quella piccola straordinaria perla

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Ispica: quella piccola straordinaria perla

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“…si trova su di un colle…”• Questa è la storia di una piccola cittadina chiamata Ispica. Questa si trova su di

un colle detto “della Calandra”, e da lì tiene in pugno tutte le campagne circostanti fino al mare, là fino a Santa Maria del Focallo e Marina Marza. Un giorno un ragazzo venuto da molto lontano si trovò presso il corso Umberto I, che raccorda il centro storico con le zone nuove della cittadina. Questo ragazzo era andato a trovare i nonni a casa al mare qualche tempo prima, e Ispica l’aveva vista soltanto da lontano. Ma lo aveva sempre incuriosito quel paesino di collina con quei campanili che sovrastavano il resto dell’abitato. Qualcosa lo aveva spinto ad avventurarsi in quel paesino così grazioso. Cosa mai poteva trovarci? Forse non poteva tornarsene nella sua grande città, dove generalmente c’è sempre da fare, sempre da correre, dove c’è la vita? Eppure era proprio quella tranquillità che probabilmente lo aveva spinto a fare un giro per le vie di Ispica. Questo desiderio di tranquillità, di evadere per qualche tempo dal trambusto quotidiano, di scoprire nuovi orizzonti che è tipico dei giovani lo aveva pervaso, così si incamminò per le vie della cittadina.

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“Quando arrivò in piazza dell’Unità d’Italia…”

• Quando arrivò in piazza dell’Unità d’Italia era mezzogiorno e non sapendo cosa fare e dove andare cominciò a chiedere informazioni. Si avvicinò a una panchina nei pressi della scultura Alla Resistenza di Salvo Monica che fu un cultore di filosofie etico-religioso-spirituali, seguace della Antroposofia di Rudolf Steiner, vincitore della borsa di studio ha frequentato la Scuola d'Arte della Medaglia di Roma nel '37 e '38 e, nello stesso periodo, il corso di nudo presso l'Accademia di San Luca, ha conseguito la maturità artistica presso il liceo artistico di Palermo.

• Ritornato in Sicilia dopo la guerra, nella quale ha speso più di cinque anni, dal 1944 al 1950 ha insegnato Scultura e Disegno presso la Scuola Statale d'Arte di Siracusa e poi, fino al 1978, Educazione Artistica nelle Scuole Medie Statali. E’ stato un’artista di fama internazionale, autore di sculture come La pentecoste (Chiesa del Seminario a Catania) , La resurrezione di Lazzaro (Ospedale S. Marta, Catania), Donne di Sicilia (Comune di Ispica).

• Su quella panchina erano comodamente seduti degli anziani con le mani appoggiate al bastone. Il giovane li salutò cordialmente in italiano, e gli anziani capirono subito che il giovanotto non era certo della zona e iniziarono a fargli una miriade di domande. Il giovane rimase quasi turbato del modo di fare di quelle persone che erano così curiose e persino un po’ invadenti. Eppure in quella curiosità capì che in fondo non c’era nulla di male, era il loro modo di fare “amicizia”. Passò qualche minuto prima che potesse rivolgere loro qualche domanda riguardo a Ispica. Così chiese della piazza, a che anno risalisse, chiese della maestosa chiesa antistante, e cosa ci fosse da vedere di bello in un paese come Ispica. Ancora non lo sapeva ma si era guadagnato almeno una bella oretta di lezione con tanto di storie di vita vissuta, “ ‘i passati ra picciuttanza” , così le chiamavano.

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“ a Porto Ulisse … “• Il nome originario di questa cittadina non è Ispica, il nome odierno fu assunto soltanto nel 1935. Prima il

suo nome era Spaccaforno nome che deriva dal latino gypsum ("calce") o dalla frase greca gupsike kaminos ("fornace da calce"), che si ricollega anche con il toponimo di "Spaccaforno".

• Altri sostengono che il nome derivi da quello dell fiume Hyspa, che scorreva nella vallata. Il toponimo "Spaccaforno" potrebbe derivare dall'unione dei termini "Spacca", derivazione fonetica di "Ispica" e quindi dal latino "speca" ("grotta"), e "forno", indicante le sepolture a forma di forno rinvenute nei pressi dell'abitato. Altri sostengono la tesi che il toponimo deriverebbe invece dalla deformazione della locuzione greca "eis pegas", "verso le fonti" (del fiume Busaitone che attraversa la Cava Ispica). Molto probabilmente tutti i vari passaggi che hanno portato alla denominazione attuale deriverebbero da una corruzione della locuzione latina Hyspicaefundus ("fondo di Cava Ispica").

• Nel 735 a.C. arrivarono in Sicilia i Greci che fondarono molte colonie occupando la costa e spingendo i Siculi verso l’interno. I Greci si stanziarono anche a Spaccaforno, dapprima sul litorale, poi nell’entroterra fino alla Cava e sulla collina circostante. I reperti risalgono perlopiù al VI secolo a.C. e sono stati trovati sulla “Forza”, a Punta Castellazzo ovvero “Odusseia akra” e in contrada Porrello-S.Maria del Focallo. I Greci coltivavano la terra (introducono in Sicilia la vite e l’ulivo, ma preferiscono la costa. Siti privilegiati sono Punta Castellazzo e Santa Maria del Focallo. A punta Castellazzo erigono, secondo il poeta Licofrone (III secolo a.C.) il tempio di Atena Longatide; secondo Tzetzes, il tempio di Ecate e il cenotafio di Ecuba; secondo Macrobio (VI secolo d.C.) il tempio di Apollo Libistino. Tutto ciò induce a credere che nel “Porto Ulisse” sorgesse una vera e propria città, la “plaga Apolline” de l’ “Itinerarium Antonini”. Era senza dubbio un villaggio greco che assurse a dignità storica verso il II secolo d.C.,un villaggio di pescatori che traeva sostentamento dai prodotti del mare.

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“ a Cava Ispica “• Il Cristianesimo penetrò soltanto verso il IV – V secolo d.C. La leggenda vuole che le prime infiltrazioni del

Cristianesimo siano dovute a S.Paolo che, durante il suo viaggio da Malta a Siracusa, avrebbe soggiornato a Spaccaforno, e non lontano dal castello, avrebbe fatto scaturire una fonte d’acqua ( la “Favara”) al cui contatto i serpenti intorpidivano e morivano. Storica è invece la presenza di S.Ilarione di Gaza, eremita, a Cava Ispica (363 – 365 d.C.) venuto con l’amico Gazano in cerca di tranquillità. La presenza bizantina nel territorio di Ispica è ben documentata: ne sono testimonianza le monete del VI – VII secolo, da Giustiniano a Costante II; la nave di pantano Longarini (600 – 650 circa) ritrovata nel 1963; le nove tombe di Punta Castellazzo; la necropoli del “Vignale di S.Giovanni” (46 tombe del VII secolo).

• Furono le incursioni degli Arabi che costrinsero gli abitanti a rifugiarsi per precauzione nella Cava e a scavare nella tenera roccia le loro abitazioni ben strutturate alla difesa. E’ a partire dal VII secolo che Spaccaforno divenne la città delle caverne e si diffonde nella Sicilia sud-orientale l’architettura religiosa rupestre che generò le laure, i romitori, le chiesette ancora esistenti nella Cava Ispica. Anche la chiesa di S. Maria della Cava si può datare a questo secolo, tanto più se si da peso al Crocefisso che ne determinò il primitivo titolo (“SS. Crucifixi de Cava”).

• Le più antiche rappresentazioni della “crocefissione” di Cristo risalgono al V secolo. Durante il periodo iconoclastico (726-842) la tradizione orale vuole che questo Crocifisso andò distrutto tranne la testa e gli avambracci che furono nascosti dai fedeli per un destino migliore. La dominazione araba (827 – 1091) non permise la costruzione di altri edifici di culto, ma lasciò liberi i cristiani di professare la loro fede dietro pagamento di una tassa chiamata “gizyah”. Era già nato il dialetto siciliano, ma gli abitanti di Spaccaforno non si fecero né convertire né influenzare dalla lingua araba, salvo l’inevitabile a causa dello stretto contatto con la cultura e la burocrazia araba.

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• Ad ogni modo la dominazione saracena prese fine quando tutta la Sicilia sud-orientale fu liberata da Normanni guidati da Ruggero il Normanno. Il primo documento che menziona l'abitato con il nome di Isbacha è del 1093, in una bolla che papa Urbano II emanò subito dopo la fine dell'occupazione araba della regione. Un'altra bolla del 1169 di papa Alessandro III assegnò al vescovo di Siracusa anche le "ecclesias quae sunt in tenimento Spaccafurni cum pertinentiis suis".

• Dopo essere passata nella dominazione sveva e angioina, all'inizio del XIV secolo fu in possesso del viceconte Berengario di Monterosso, tesoriere del regno, che ne fece dono alla regina Eleonora d'Angiò, moglie del re Federico III.

• Pietro II la concesse in feudo al fratello Guglielmo duca di Atene, dal quale passò in eredità al suo maggiordomo Manfredi Lancia. Fu confiscata quindi agli eredi di questi, che si erano ribellati al re Federico III. Occupata da Francesco Perfoglio nel 1367 gli fu concessa in feudo nel 1375. Il territorio seguì quindi le vicende della contea di Modica e fu in possesso di Andrea Chiaramonte e dopo la sua ribellione fu assegnata dal re Martino I a Bernardo Cabrera. Nel 1453 passò a Antonio Caruso di Noto, "maestro razionale" del regno[10] e nel 1493 fu portata in dote dalla figlia di questi, Isabella Caruso, al marito Francesco II Statella e gli eredi ne rimasero in possesso fino all'abolizione della feudalità nel XIX secolo.

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“ i vecchi raccontarono…”• I vecchi raccontarono che la cittadina che prima sorgeva sul fondo della Cava venne distrutta dal terribile

terremoto dell’11 gennaio 1693, che stravolse il Val di Noto. L’antica cittadina venne rasa al sole l “ l’unnici ri ‘innaru a vintinura “ come recita solennemente una poesia locale ovvero più o meno alle 13.30, una data cha ancora oggi viene commemorata. Gli anziani dissero al giovane che alle ore 15.00 di quel giorno ogni anno escono fuori in strada e allo sparo di tre colpi a cannone si inginocchiano per pregare e rendere omaggio ai progenitori vittime di quel catastrofico terremoto. La cittadina venne pian piano ricostruita durante il XVIII secolo sul colle della Calandra che si stagliava sulla Cava. Inoltre scomparve il Fortilitium (castello medievale della famiglia Statella) e numerose chiese non più ricostruite. Inoltre il sisma inevitabilmente favorì fame e malattie come la peste, la quale colpì chi fortunatamente era sopravvissuto ad esso. Nonostante le numerose perdite, i pochi rimasti ebbero la forza di ricostruire la città, grazie all'aiuto di persone provenienti dai paesi vicini e alla generosa beneficenza dei baroni locali.

• La città venne quindi trasferita nella zona pianeggiante al di fuori della cava, sebbene l'antico insediamento non fosse mai del tutto abbandonato. Alcuni quartieri furono ricostruiti intorno alle chiese rimaste in piedi (seppur danneggiate) di S. Antonio e del Carmine, mentre gli altri furono costruite ex novo seguendo una struttura a scacchiera con strade larghe e dritte, secondo il tracciato di due ingegneri venuti da Palermo al seguito di don Blasco Maria Statella. La nuova Spaccaforno portò la nascita di bellezze barocche come Santa Maria Maggiore, la Chiesa di San Bartolomeo e la S.S. Annunziata e, in seguito, all'arrivo del Liberty, con Palazzo Bruno e Palazzo Bruno di Belmonte di Ernesto Basile. Dal 1812 la città fu incorporata nel distretto di Modica e nella provincia di Siracusa, dalla quale passò nel 1927 alla nuova provincia di Ragusa.

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• Il palazzo in stile liberty più importante della provincia fu commissionato dall'On.le Pietro Bruno di Belmonte all'architetto palermitano Ernesto Basile, dal 1906. Non divenne mai dimora della famiglia Bruno di Belmonte, considerata la famiglia più importante della città dell'inizio del secolo scorso, in quanto il palazzo non fu mai completato per lo scoppio della Grande Guerra, poi nel 1918, per la morte di Giovanna Modica di San Giovanni, moglie amatissima dell'On.le Pietro e infine nel 1921 per la morte dello stesso Pietro. Solo una parte fu completata e resa abitabile dopo il 1921 (l'arch. Basile da quattro piani dovette ricavare cinque quote) quella dell'ultimo figlio dell'On.le Pietro, il barone Giambattista, dove però visse solo la sorella Preziosa, unica tra i figli dell'On.le Pietro a rimanere a Spaccaforno (gli altri si erano trasferiti a Roma, Firenze, Napoli e Catania). Dal 1975, dopo la vendita al Comune dei primi tre piani da parte di alcuni eredi dei figli dell'On.le Pietro, il palazzo è divenuto sede municipale. L'acquisto è stato completato solo nel 1978 con la vendita al Comune anche del quarto e ultimo piano.

• Il centro storico è tuttavia pieno di palazzi in stile liberty tra cui Palazzo Bruno in piazza e la torre dell’orologio (di epoca fascista), l’ex sede comunale e l’ex casa Statella in corso Garibaldi, l’ex mercato in Corso Umberto che si inserisce nell’architettura sociale del regime fascista, il Politeama Aurelio di cui è rimasta intatta la facciata, Palazzo Modica designato dall’architetto catanese Paolo Lanzerotti, Palazzo Latino, Palazzo Gambuzza e Palazzo Zuccaro tra gli edifici più imponenti.

• Nel 1934 il Podestà Dott. Dionisio Moltisan ti, sulla scia della politica fascista del cambio dei nomi delle città e con l'avallo del prof. Gaetano Curcio, Preside dell'Università di Catania, chiese al governo, a nome della cittadinanza, il cambiamento del nome di Spaccaforno in Ispica. L'autorizzazione era concessa Con Regio Decreto 6 maggio 1935 e pubblicato il 21 giugno successivo.

• Il 12 ottobre 1987 Ispica, su iniziativa dell'allora sindaco Dott. Quinto Bellisario, ha ottenuto il titolo di città con decreto del presidente della Repubblica.

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L’antico “conflitto”• E mentre agli anziani brillavano gli occhi parlando della loro amata cittadina, lo sguardo del

giovane tra lo smarrito e l’estasiato, cadde sul campanile della Basilica di Santa Maria Maggiore. Così il giovane venuto da molto lontano chiese quale fosse il nome di quella chiesa di cui si vedeva solo la cupoletta dalla piazza. A quella domanda i vecchietti ebbero una reazione che non si seppe spiegare subito. Risposero quasi stizziti, come se volessero raggirare l’argomento, “ chissa è a chiesa’re cavari”, fu la loro risposta, cioè “quella è la chiesa dei cavari”. Il giovane non riusciva a comprenderli. Il siciliano più o meno si sforzava di comprenderlo, ma non capiva chi erano questi cavari. Così insistette e chiese chi fossero. E quelli senza mezzi termini risposero con un’altra affermazione, “niatri siemu nunziatari… e ni vantamu!”.

• Il giovane capii che probabilmente quei simpatici anziani provavano astio e rabbia nei confronti di quelli che appartenevano alla chiesa dei cavari, e che loro facevano probabilmente parte di un’altra sorta di “fazione”. Il desiderio di saperne di più incominciò praticamente a torturarlo. Com’era possibile che due chiese provavano quasi odio reciproco l’un l’altra? perché erano in conflitto? qual era il motivo che aveva portato a questa divisione? Il suo desiderio non avrebbe tardato molto ad essere appagato.

• Le basiliche della SS. Annunziata e di S. Maria Maggiore sono le chiese più importanti di Ispica. Entrambe vantano di secoli di storia e da sempre sono state quasi in “conflitto” tra di loro.

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L’Annunziata

• La Basilica SS. Annunziata venne costruita dopo il terremoto a partire dal 1704, in sostituzione dell'omonimo edificio distrutto nell'antica Spaccaforno, oggi nel parco Forza. All'interno conserva la decorazione a stucco in stile rococò del palermitano Giuseppe Gianforma e ospita alcune opere salvatesi dalle distruzioni del sisma: un "Adorazione dei Magi" e una tavola dell'"Annunciazione" del 1550. Contiene il settecentesco Cristo con la Croce dello scultore Guarino da Noto, un gruppo scultoreo in legno con il Cristo e due Giudei, anch'esso oggetto di particolarissima devozione da parte degli Ispicesi durante la Settimana Santa.

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Santa Maria Maggiore

• La Basilica di Santa Maria Maggiore venne progettata dall'architetto di Noto Vincenzo Sinatra e vi è aggiunto un porticato con 23 passaggi che delimita la piazza. L'interno, a tre navate conserva una decorazione in stucco opera di Giuseppe e Giovanni Gianforma e affreschi del 1765 di Olivio Sozzi. Ospita una statua del Cristo flagellato alla colonna che venne qui trasferita dopo essersi salvata dal terremoto e che è oggetto di particolare venerazione durante i riti della Settimana Santa.

• L'edificio è stato dichiarato monumento nazionale nel 1908.

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• La fede e la religiosità popolare sono intrinseche alle origini cristiane della gente di Spaccaforno . Questa comunità ha fatto della sofferenza un culto del dolore e della rinascita intorno alla Settimana Santa. Durante quella settimana, che è la settimana più importante dell’anno per Ispica, coloro che sono all’estero tornano nel paesino d’origine a trovare i familiari e stringersi insieme attorno al Cristo, l’Unico Vero Dio e Vero Uomo, ma che a Ispica, è venerato sotto due forme particolari in due momenti particolari della Passione del Signore Gesù: la flagellazione e il cammino verso il Calvario. Così che il Giovedì Santo il popolo si stringe attorno al Cristo Flagellato, complesso statuario custodito nella Basilica di Santa Maria Maggiore, e il Venerdì Santo attorno al Cristo che porta la Croce, custodito nella Basilica della SS. Annunziata. Il Giovedì è la festa dei cavari, mentre il Venerdì quella dei nunziatari , che sono le cosiddette “fazioni” legate da un particolare fervore religioso alle loro parrocchie e rispettivamente al Cristo Flagellato e al Cristo che porta la Croce. Le fazioni a riguardo altro non sono che le confraternite che oggi rappresentano le due parrocchie. Il culto di Culonna e Cruci (i nomignoli con cui i fedeli chiamano affettuosamente i due Cristi) insieme ai riti particolari della Settimana Santa, rappresentano un intreccio di fede cristiana e di folklore, di “sacro e profano” che rendano la Settimana Santa ispicese un evento più unico che raro.

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• La storia del Cristo Flagellato risale al 787 d.C., quando furono riportati alla luce i pezzi sfuggiti (avambracci e testa) alla distruzione iconoclasta per mano dell’imperatore Leone Isaurico. Soltanto con l’Editto di Nicea e l’editto di Teodora fu riammesso il culto delle immagini sacre. Il volto del Crocifisso ha le caratteristiche del canone dell’arte bizantina, che raffigura il Cristo e la Madonna ( considerati come il simbolo del potere spirituale e temporale) come personaggi astratti e non con sembianze umane definite, per rendere l’idea di una realtà divina, eterna e immutabile. Per l’appunto, il volto del Crocifisso presentava e presenta ancora oggi un volto inanimato e inespressivo, con gli occhi dilatati. Con l’editto di Nicea gli avambracci e il volto risparmiati andarono a formare un nuovo corpo, stavolta non Crocifisso, ma nella forma di Ecce homo con le mani legate in avanti. I fedeli si ritrovavano non più il Cristo morente in croce, ma il Cristo raffigurato nel martirio della flagellazione. Tuttavia questo nuovo corpo presentava un anacronismo. Era un Flagellato con la mani già forate e la corona di spine, così per riparare a questo errore, il capo del Flagellato venne camuffato con una parrucca fissata al capo con un fermaglio d’oro. Solo nel 1695 vennero aggiunti i due giudei per mano dell’artigiano Francesco Guarino da Noto. I due giudei sono di ispirazione popolare, tanto che hanno persino un nome: Papè e Pluchinotta. Oggi il SS.Cristo alla Colonna è custodito nella cappella a sinistra del transetto di S. Maria Maggiore. Il gruppo statuario è raccolto in una macchinetta lignea argenteo – dorata costruita nel Settecento e rifatta indorare nel 1855 dall’orafo don Giuseppe Sampieri Gregni e nuovamente indorata a oro zecchino nel 1899 dallo stesso orafo. Sul capo del Cristo nel 1899 fu posto un nimbo d’argento finemente cesellato e impreziosito da pietre, comunemente chiamato Patena, all’interno dell’aureola è applicata la reliquia della Santa Croce, posseduta dalla basilica dal 1696. Il frammento fu riportato a Ispica dal frate G. Battista da Milano, che per ricambiare i favori ottenuti dal marchese don Maurizio Statella, gli donò la preziosa reliquia avuta a sua volta in dono da mons. Francesco Maldachino, cardinale dal titolo di don Prassete e primo dell’Ordine dei preti, il primo maggio 1694.

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• Il Cristo con la Croce, a differenza del Cristo Flagellato, legato al culto del popolo del fondo valle, testimonia il culto di fede praticato dagli abitanti del Fortilitium , in dialetto Forza. Si tratta di un altopiano di circa tre ettari, dai fianchi a strapiombo, alto fino a sessanta, settanta metri dal fondo valle che sovrasta tutta la Cava e prima del terremoto del 1693 costituiva il nucleo urbano tardo-medievale di Spaccaforno. La Fortezza, oggi adibita a Parco archeologico e naturalistico, a differenza del fondo valle della Cava, dove abitavano contadini e artigiani, divenne la residenza del partito aristocratico. Del Cristo che porta la croce nella chiesa antica della SS. Annunziata del Parco Forza non si hanno fonti certe, come per l’esistenza del Crocefisso di Santa Maria della Cava. Probabilmente del crocifisso della SS. Annunziata esisteva solo un’immagine. Ad ogni modo la realizzazione del secondo simulacro del Cristo che porta la Croce fu commissionata nel 1728 a Francesco Guarino di Noto, lo stesso artista che realizzò i due giudei del Cristo Flagellato intorno al 1729. Oggi il simulacro è custodito nell’altare destro del transetto della SS. Annunziata. Il gruppo statuario, come quello del Cristo Flagellato alla Colonna, è raccolto in una macchinetta lignea di colore oro. Il Cristo indossa una tunica blu con un bordino colore oro al collo e alle maniche; la vita e le spalle sono legate ad una corda sorretta dai due giudei ai lati. Il gruppo statuario non è frontale ma rivolto verso il lato sinistro, rappresentato nell’atto di salire verso il monte Calvario. Il Cristo è coronato di spine e sul capo è posta un’aureola di argento massiccio, finemente decorata, donata dal barone Modica. Il Simulacro del SS. Cristo con la Croce è di raffinata manifattura con un volto molto espressivo. Il volto è scarno e stravolto dalla fatica, è grondante di sangue, con gli occhi pietosi e la bocca socchiusa per l’affanno.

• Il Giovedì e il Venerdì Santo sono entrati nella memoria collettiva del popolo ispicese, un popolo che grida al Cristo, quasi volesse fare il “tifo”, ma che in realtà implora il suo aiuto, sa bene che da solo non può farcela, e chiama in causa l’amato Cristo e canta: Responde mihi .

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• Esistono anche altre chiese di rilievo tra cui la chiesa madre, consacrata a San Bartolomeo venne ricostruita dopo il terremoto a partire dal 1750 e completata nel corso di un secolo e mezzo. Esternamente è preceduta da una doppia scalinata che la eleva rispetto alla piazza antistante. La facciata coniuga elementi tardo-barocchi con altri neoclassici. L'interno è suddiviso in tre navate da pilastri di ordine tuscanico. L'unica opera di un certo rilievo è un dipinto di grandi dimensioni con San Bartolomeo durante il martirio.

• Il complesso della Chiesa e dell’ex Convento del Carmine risale al 1534. La sua struttura architettonica viene, via via, ad essere definita lungo tutto il Seicento con 18 celle per i frati e gli altri locali di servizio. Ridotto in macerie a causa del terremoto del 1693 viene riedificato unitamente alla chiesa nel '700. Il prospetto della chiesa comprende artigianali bassorilievi di stile rinascimentale databili tra la seconda metà del sec. XVI e la prima metà del secolo XVII. Un putto reggicartiglio sull’arco d’ingresso reca la data 1632 mentre tra lo stemma carmelitano e la base della nicchia con la statua della Madonna del Carmelo si legge la data di una ristrutturazione della facciata, 1730. La fisionomia attuale viene definita alla fine dell’Ottocento con la realizzazione della cella campanaria. Nel complesso è un risultato di continue integrazioni col riutilizzo di frammenti architettonici legati al momento tardorinascimentale. La chiesa ospita il simulacro della Beata Vergine Maria del monte Carmelo, patrona della città.

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“ Grazie, Ispica “• Il giovane venuto da molto lontano congedò amabilmente quei simpaticoni dei vecchietti che erano stati così disponibili

a parlare di Ispica, in realtà non gli costava affatto parlare visto che andavano fieri di quelle preziosità e di quella memoria che avevano impressa nella carne e nell’anima, che li aveva forgiati e li stava accompagnando fino all’ultimo. Il giovane rimase soddisfatto di tante informazioni, ma la sua curiosità non trovava pace, e non si accontentava più di semplici storie, aveva bisogno di toccare con mano quella realtà che tanto lo stava affascinando. Così decise di fare una passeggiata nella Cava, in quel luogo che custodiva in un eterno silenzio la memoria di giorni ormai andati, là in mezzo alla natura lo aveva persuaso l’idea che poteva trovare quella tranquillità che cercava. Quel luogo aveva ospitato dei Santi, aveva attratto importanti naturalisti da tutto il mondo, ma ciò che era più importante aveva spinto un popolo a costruire laggiù il proprio insediamento. Mentre gli passavano per la testa tutti questi pensieri, osservava il cielo azzurro che si stagliava sopra la sua testa, e i raggi del sole che si infiltravano dappertutto attraverso le fronde dei lecci, dei carrubi e dei fichi.

• Laggiù respirava quella serenità e quella tranquillità che aveva sempre desiderato, e forse quello era il luogo in cui avrebbe desiderato vivere da sempre. Quel paesino c’aveva tutto. La gente era serena e bella, aveva una storia secolare alle spalle, una terra fruttuosa, una natura mediterranea rigogliosa, il sole che baciava i tetti delle case e dei campanili, un’allegria che pervadeva l’anima dei suoi abitanti. Cosa stava cercando di più?

• Eppure doveva ritornarsene lassù, dove lo aspettava la sua monotona vita di sempre.• Decise di andare al mare, e vedere ancora una volta il paese da lontano per salutarlo. Quel mare era azzurro e

cristallino, là da Santa Maria del Focallo, fino a Punta Ciriga era uno spettacolo, un paesaggio dell’anima. Ed era stupore, ma soprattutto malinconia. Quello è un mare invidiato da molti, e lui ce l’aveva lì proprio sotto il naso. Intanto gli sembrava che la gente gli sorridesse ancora, nonostante tutto, nonostante i problemi, nonostante le contraddizioni, mentre se ne ritornava lassù.

• Il ragazzo venuto da molto lontano aveva solo due parole da dire:• “Grazie, Ispica!”

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