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ISSR TV-VV Ragione e Verità tra moderno e post-moderno don Alberto Sartori ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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Ragione e Verità tra moderno

e post-moderno

don Alberto Sartori ANNO ACCADEMICO 2013-2014

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CORSO DI FILOSOFIA TEORETICA RAGIONE E VERITA’ TRA MODERNO E POST-MODERNO

Obiettivi didattici Nella prima parte del corso si intende prendere sul serio le provocazione che l’enci-clica Fides et ratio di papa Giovanni Paolo II pone alla filosofia contemporanea in par-ticolare sui temi della metafisica, dell’esistenza di Dio, della verità, dei fondamenti. In un panorama culturale segnato da un abbandono critico di queste tematiche e dalla deriva del nichilismo e del relativismo, si propone un percorso atto a recuperarne il valore e l’interesse. In particolare il confronto avverrà con l’opera e il pensiero di Um-berto Galimberti e Gianni Vattimo. Nella seconda parte, si ripercorreranno alcune questioni classiche, attorno al tema della ragione, presenti nel pensiero antico e contemporaneo. Contenuti L’enciclica Fides et Ratio sul tema della verità. Metafisica e teologia razionale. Essere e divenire. Le prove dell’esistenza di Dio. Le critiche di Kant. L’essenza di Dio. Idea di Dio e ateismo. Il nichilismo, l’ospite inquietante. La verità. Umberto Galimberti, l’uomo nell’età della tecnica. Gianni Vattimo: ontologia, ermeneutica, cristianesimo e post-modernità. La ragione scientifica. La ragione metafisica. Ragione, arte, amore e bellezza. La ra-gione nei suoi rapporti con la fede e con la religione. La speranza. Bibliografia Dispensa dell’insegnante. Adriano Bausola, Metafisica e teologia razionale, CUSL, Milano 2000 Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli, Milano 2007 Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999 Giovanni Giorgio, Il pensiero di Gianni Vattimo, Franco Angeli, Milano 2006 Giovanni Paolo II lettera enciclica Fides et Ratio Davide Monaco, Gianni Vattimo, ETS, Pisa 2006 Giovanni Reale-Dario Antiseri, Quale ragione? Cortina, Milano 2001 Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002 Gianni Vattimo, Tecnica ed esistenza, Bruno Mondadori, Milano 2002 Gianni Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009 Franco Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2004

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1. TEMA DELLA VERITA’ E DELLA FILOSOFIA IN FIDES ET RATIO 1.1. L’interesse della chiesa per la filosofia Sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l'umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confron-tarsi con essa (n. 1). La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è fatta pellegrina per le strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è « la via, la verità e la vita » (Gv 14, 6). Tra i diversi servizi che essa deve offrire all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia alla verità (2). Molteplici sono le risorse che l'uomo possiede per promuovere il progresso nella co-noscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell'umanità (3). E però evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa « superbia filosofica » che pretende di erigere la propria visione prospettica e imperfetta a lettura universale (4). In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelli-gente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere que-sti principi, anche se in forma generica e non riflessa (4). La Chiesa, da parte sua, non può che apprezzare l'impegno della ragione per il rag-giungimento di obiettivi che rendano l'esistenza personale sempre più degna. Essa infatti vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l'e-sistenza dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono (5). Mi ci spinge il rilievo che, soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima ap-pare spesso offuscata (5).

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1.2. I limiti e i rischi della ricerca filosofica I positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in maniera unilaterale sull'uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verità che lo trascende (5). La ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull'essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativi-smo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un gene-rale scetticismo. (5). La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contempora-neo (5). Forte della competenza che le deriva dall'essere depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità (6). Quanto alle verità filosofiche, occorre precisare che esse non si limitano alle sole dot-trine, talvolta effimere, dei filosofi di professione. Ogni uomo, come già ho detto, è in certo qual modo un filosofo e possiede proprie concezioni filosofiche con le quali orienta la sua vita. In un modo o in un altro, egli si forma una visione globale e una risposta sul senso della propria esistenza: in tale luce egli interpreta la propria vicenda personale e regola il suo comportamento (30). 1.3. Il Magistero e la filosofia La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia parti-colare a scapito di altre (49). Il Magistero ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle afferma-zioni che si scontrano con la dottrina cristiana. Al Magistero spetta di indicare, anzi-tutto, quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò stesso le esigenze che si impongono alla filosofia dal punto di vista della fede (50). Non si tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente al punto da divenire in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di « fine della metafisica »: si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti,

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quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture (55). 1.4. Esortazione ai filosofi Nondimeno alla luce della fede che riconosce in Gesù Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi (56). Desidero ribadire con vigore che lo studio della filosofia riveste un carattere fonda-mentale e ineliminabile nella struttura degli studi teologici e nella formazione dei can-didati al sacerdozio (62). 1.5. Per una filosofia cristiana Un secondo stato della filosofia è quello che molti designano con l'espressione filoso-fia cristiana. La denominazione è di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si intende con essa alludere ad una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la fede non è come tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole piuttosto indicare un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in unione vitale con la fede. Non ci si riferisce quindi semplicemente ad una filosofia elaborata da filosofi cristiani, i quali nella loro ricerca non hanno voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana si intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pen-siero filosofico che non si sarebbero realizzati senza l'apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana (76). Speculando su questi contenuti, i filosofi non sono diventati teologi, in quanto non hanno cercato di comprendere e di illustrare le verità della fede a partire dalla Rive-lazione. Hanno continuato a lavorare sul loro proprio terreno e con la propria meto-dologia puramente razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi ambiti del vero (76). 1.6. La domanda di senso Lo spirito umano è occupato da una forma di pensiero ambiguo, che lo porta a rin-chiudersi ancora di più in se stesso, entro i limiti della propria immanenza, senza alcun riferimento al trascendente. Una filosofia priva della domanda sul senso dell'esi-stenza incorrerebbe nel grave pericolo di degradare la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna autentica passione per la ricerca della verità (81). Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità (82)

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1.7. Una filosofia di portata metafisica E’ necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di tra-scendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di asso-luto, di ultimo, di fondante (83). Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper com-piere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pen-siero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe radical-mente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella comprensione della Rive-lazione (83). La metafisica, pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teolo-gica. Una teologia priva dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l'analisi dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della verità rivelata (83). Le correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità meritano un'adeguata attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe irrimedia-bilmente passato, l'uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all'insegna del provvisorio e del fuggevole (91). “Ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualistica, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri» citazione della Veritatis Splendor n. 32 (94). Il mio appello, inoltre, va ai filosofi e a quanti insegnano la filosofia, perché abbiano il coraggio di ricuperare, sulla scia di una tradizione filosofica perennemente valida, le dimensioni di autentica saggezza e di verità, anche metafisica, del pensiero filosofico (106).

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2. METAFISICA E TEOLOGIA RAZIONALE Colleghiamo ora il tema della verità a quello di Dio. Se infatti ancoriamo la verità a Dio le abbiamo dato un fondamento solido. Ciò significa ammettere la possibilità di una teologia razionale (non rivelata, siamo in filosofia e non in teologia!). Per fare ciò è necessario affermare la possibilità della no-stra ragione di indagare il mondo sopra-sensibile, cioè di fare metafisica. 2.1. Una teologia razionale La relazione tra metafisica e teologia razionale è dovuta al fatto che entrambe ope-rano nell’ambito del soprasensibile la metafisica/ontologia indagando l’essere indaga il tutto, l’assoluto (cfr. T6), alla ricerca di un principio originario e causale, fondamento unitario del mondo. Questo è anche l’obiettivo della teologia razionale. I primi filosofi sono detti anche teologi fisici proprio perché la loro indagine mirava a cogliere l’archè, il fondamento che era individuato, in vario modo, in uno o più elementi naturali. Teologia e metafisica nell’indagare razionalmente l’archè si trovano pertanto unite e spesso in collegamento virtuoso, ma per la prima l’origine/fondamento è Dio, per la seconda esso è l’essere. Talune metafisiche possono essere aperte a pensare ad una causa dell’essere che lo trascende (teismo), altre restano legate ad un principio im-manente (panteismo) e rifiutano uno statuto teologico. Questo collegamento è anche giustificato dal dato storico che l’origine stessa della filosofia è legata alla religione. Sappiamo che i filosofi fin dagli inizi hanno criticato la tradizione religiosa politeista del loro tempo proprio perché la molteplicità degli dei mal si poneva di fronte alla ricerca dei filosofi pre-socratici di un archè, di un principio unitario. Il rivestimento religioso politeista poteva far pensare ad una molteplicità di verità piuttosto che ad una verità principale da cui tutto provenga, dunque non an-dava. Ben più favorevole sarà l’incontro della filosofia con la religiosità monoteista ebraica come testimoniato dall’opera di Filone di Alessandria (20 a.c. ca-50 d.c. ca). Anche intesa solo come “rivestimento” sensibile di verità filosofiche, la religione pa-gana era comunque destinata ad essere superata dalla filosofia che ha portato a con-cetto i contenuti religiosi di quel tempo. Sotto questo profilo la filosofia non è mai stata atea, senza Dio, benché sull’identità di questo Dio si trovino visioni molto diverse tra loro. Ma dalla metà dell’800 le linee dominanti della filosofia sono diventate anti-metafisi-che e anti-teologiche. Il motivo va individuato non solo in chiave teoretica, (crisi della metafisica e delle sue possibilità), ma anche in chiave etica (rifiuto di ogni verità au-toritaria) e pratica (rifiuto del cristianesimo da parte di Feuerbach, Marx, Nietzsche). La filosofia, in ogni caso, è ricerca dell’assoluto, del senso totale dell’essere. Essa è comprensione assoluta dell’assoluto, senza condizionamenti, senza pre-comprensioni e anche solo questo aspetto la collega alla teologia.

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2.2. Contestazioni alla possibilità della filosofia di conoscere l’assoluto Sono le obiezioni nate nel pensiero moderno sulla linea Cartesio-Kant:

1. Come si può sapere l’assoluto senza relativizzarlo? 2. Come può la mente umana finita concepire il tutto?

Il pensiero moderno ha segnalato l’impossibilità di conoscere l’assoluto con l’obie-zione più radicale che è quella gnoseologica, per la quale la mente umana relativizza tutto a sé e perciò non è in grado di elaborare una metafisica veramente assoluta, cioè sciolta da ogni condizionamento storico. Questa obiezione dipende dalla concezione della conoscenza. Se si ritiene che essa è sempre un riferire a sé, un relativizzare, se noi conosciamo il mondo solo a nostro modo, allora non vi può essere un sapere assoluto, valido per tutti, ma sempre un sapere relativo1. Ma questa è la sentenza di morte della possibilità stessa di ogni forma di conoscenza ed anche la fine per la filosofia che sostiene tale pretesa! A ciò si deve obiettare che la conoscenza non è sempre relativizzazione. Vi è un livello più profondo in cui si manifesta originariamente la realtà così com’è, perché la realtà stessa si dà a noi, si offre “in carne ed ossa” (Husserl). Questo livello può essere colto? In termini tecnici si afferma ciò quando si sostiene l’intenzionalità della conoscenza o che la nostra conoscenza è intenzionale, cioè è in grado di aprirsi all’essere che le si dà e di conformarsi ad esso, senza prevaricarlo con propri pregiudizi o limiti. Perciò la nostra conoscenza, che è finita, può indagare l’assoluto, che è infinito, per-ché si apre ad esso senza pretendere di esaurirlo o di ridurlo a qualcosa di finito, dan-done una visione distorta. 2.3. La nascita della filosofia Del resto la filosofia nasce come pensiero dell’assoluto inteso come totalità degli enti, dunque come pensiero dell’essere. L’archè è di esso il principio primo, costitutivo di molti e unificante il molteplice. Perciò la filosofia nasce completa, questo archè è il principio da cui e in cui tutte le cose sono, come hanno insegnato i pre-socratici. Il primo pensiero greco, però, faceva coincidere generante e costitutivo (l’archè è an-che stoicheion cioè elemento costitutivo di ogni molteplice, dunque esso contiene tutte le cose) e doveva affermare così l’eternità del mondo. Una novità radicale ci sarà solo con il concetto di creazione ripreso dal mondo della religione biblica (Filone di Alessandria) dove in ogni caso il Creatore contiene la totalità delle determinazioni delle creature (proprio come l’archè).

1 Secondo la formula: Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur. Ciò che viene recepito viene recepito solo nel

modo possibile di chi recepisce.

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2.4. Una comprensione originaria dell’assoluto Un altro segnale del positivo rapporto tra metafisica e teologia razionale deriva dal fatto che noi già abbiamo una comprensione originaria dell’assoluto come essere in-finito esistente. È il senso dell’argomento di Anselmo che sostiene la presenza in noi dell’idea di Dio, di un Dio che, essendo perfezione, non può non essere ed è un ipsum esse subsistens. Si tratta della traduzione filosofica di Es 3, 14. Questo Dio è l’Id quo maius cogitari nequit (d’ora in poi IQM). E l’IQM non può non essere: si tratta di una intuizione immediata. Che Dio sia ciò che è lo dice anche Es 3,14. L’argomento ontologico è dunque la traduzione in formula di qualcosa che è ritenuto presente nella mente di ciascuno, ci è familiare e chiede solo di essere nomi-nato. Allo stesso modo, nelle prove di Tommaso, la conclusione comune “e questo è ciò che tutti chiamano Dio” indica una pre-familiarità con il termine Dio che è data come pre-supposta. Nel libro XII della Metafisica, Aristotele afferma che quelle che lui chiama sostanze prime sono il corrispettivo degli dei della religione. Dunque, sotto questa veste reli-giosa, dovuta ad una divina rivelazione, esse sono da sempre presenti in noi. In tal modo, Aristotele intende recuperare la verità del mito che ora la filosofia riesce a sve-lare. Qui interessa affermare che anche per Aristotele c’è una familiarità di ogni uomo con il termine Dio. Questa familiarità è dunque un dato presente fin dalle origini: l’uomo è naturalmente religioso. Si tratta ora di notare come la filosofia stessa fin dalle sue origini abbia effettivamente fatto riferimento ad un fondamento che ha i tratti del divino (si parla infatti dei primi filosofi come dei teologi fisici). 2.5. Rapporto tra archè e stoicheion Tutto ciò che esiste deve prima esistere in un’archè, in un principio, poiché ex nihilo, nihil. Vi è dunque un immutabile eterno (acqua, aria, apeiron, fuoco) che pre-contiene tutte le cose del mondo diveniente: è questa la posizione prima di Parmenide. Parme-nide utilizza e ribalta questo principio, per lui ciò che diviene non viene né dal nulla, né dall’essere, perché l’essere è e il non essere non è. Va precisato che per gli ionici l’ex nihilo significa che tutto viene dall’essere (da non confondere con la creazione ex nihilo, il concetto di creazione è sconosciuto ai greci), che cioè le cose divengono sì, ma derivano da un essere che non diviene. Per Parmenide ciò non è possibile, non basta, in quanto l’essere che diviene è sì un essere che emerge dall’essere, ma prima non c’era e dunque, qualora fosse così, ver-rebbe dal non-essere. Perciò Parmenide nega il divenire che è sola apparenza e, per lo stesso motivo, nega il molteplice.

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Resta in Parmenide l’aporia con il mondo reale nel quale vi sono sia il molteplice che il divenire e per un greco la verità è data anche dall’esperienza, non la si può ridurre ad illusione troppo facilmente. A manifestarsi è il reale! Sarà Platone a risolvere la cosa finalmente nella chiave giusta,2 cioè in chiave metafi-sica. Nel perfetto mondo delle idee la condizione è quella voluta da Parmenide, nel mondo sensibile invece, hanno ragione i sensi e dunque qui si deve ammettere sia il divenire che il molteplice. All’obiezione, pertinente, che anche nel mondo delle idee vi è il molteplice (le idee sono tante e diverse tra loro) Platone risponde che la loro molteplicità non richiede il non-essere, ma solo il concetto, nuovo, di diversità: l’idea del tavolo non è l’idea di una non sedia (mentre un tavolo è una non sedia), ma è solo un’idea diversa dall’idea della sedia in quanto si tratta pur sempre di due idee, cioè di due enti metafisici che hanno la stessa natura e la stessa origine (che è l’idea del Bene da cui tutte le altre idee provengono). Aristotele, con la teoria dell’analogia dell’essere, per la quale l’essere si dice in molti sensi (perciò le cose sono tutte simili in quanto diversi dirsi dell’essere) risolve il tutto definitivamente. 2.6. Il limite del pensiero greco In tal modo, con la nascita della metafisica, non vi è più una totalità dell’essere che tutto comprende, quanto piuttosto due livelli: Dio e il mondo, il divino e la materia, il fisico e il metafisico: è il dualismo che sta alla base di Platone e Aristotele e che Par-menide non aveva pensato. A questo punto Dio/divino non è la totalità degli esseri in quanto gli si oppone la materia eterna e non creata. Questa posizione filosofica ha il suo parallelo religioso nel manicheismo. Per evitare ciò è necessario legare Dio alla materia, ma ciò è possibile solo grazie al concetto di creazione, assente nel mondo greco.

2 I fisici pluralisti (Empedocle, Anassagora, Democrito etc.) avevano tentato, a modo loro, di farlo, cioè di giustificare

Parmenide e la conoscenza sensibile insieme, ma fu un tentativo senza successo.

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3. ESSERE E DIVENIRE3 Ad un primo livello di riflessione sembra spontaneo affermare che vi sia certamente un essere che non può non essere: è l’essere di Anselmo, l’IQM, è l’essere causa prima di Tommaso. Se parliamo invece dell’essere degli enti dell’esperienza, questi natural-mente possono non essere, dato che nascono, muoiono, divengono. Vi sono dunque due diverse modalità di dirsi dell’essere, una la cui esistenza è necessaria, l’altra la cui esistenza è contingente (cioè può essere o non essere). La prima è quella dell’essere perfetto, la seconda è quella degli enti. Il divenire riguarda allora l’essere degli enti sensibili. Quando però si parla di divenire viene in mente da subito l’obiezione di Par-menide, cioè che il divenire implichi il non-essere, il quale invece, come è noto, non-è. La questione parmenidea va allora affrontata, (oggi conosce anche delle rinascite) se vogliamo giustificare il divenire. 3.1. Difesa del buon senso Dire “questo essere non è più” sembra una contraddizione, ma lo è solo se lo si dice nello stesso istante di tempo, se invece, riferendosi al tempo, si usano il prima e il dopo, la contraddizione cade: si dice: “qualcosa che prima è, poi non è”. Del resto il tempo è misura del divenire delle cose. Proprio per il fatto che le cose divengono c’è il tempo. Esso misura tale divenire. Se l’esperienza del tempo è reale, è reale anche il divenire. Il buon senso si appella ancora all’esperienza per togliere la contraddizione del dive-nire: perfino mentre pensiamo c’è un divenire, abbiamo l’esperienza stessa del pen-sare come di un passare di pensiero in pensiero. In atto solo Dio ha tutte le visioni possibili, noi abbiamo in mente delle cose che variano di continuo. L’esperienza sembra rivelarci che Parmenide sbaglia, ma si tratta di una risposta de-bole. L’esperienza potrebbe, infatti, ingannarci. 3.2. La difesa di Kant Kant aveva fatto vedere che quando la ragione tenta di andare al di là dell’esperienza cade, inevitabilmente, in delle contraddizioni e non riesce a giungere ad una verità. Restringendo l’ambito del nostro conoscere al fenomeno, egli nega si possa andare al di là del sensibile nella nostra attività conoscitiva. Quando lo si intenda fare, si naviga nella nebbia e in mezzo agli scogli. Per Kant nell’esperienza fenomenica il divenire è una evidenza, ne facciamo continua esperienza, mentre del campo teoretico, ambito noumenico, di esso non possiamo dire nulla.

3 Cfr. Adriano Bausola, Metafisica e teologia razionale, Ed. CUSL, Milano 2000.

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3.3. Verso la giustificazione del divenire Notiamo innanzitutto che nella tradizione scolastica si usa il termine ente come unità di essenza ed esistenza: ogni ente è una essenza che esiste nel concreto. Ogni es-senza/sostanza/ente è, già secondo Aristotele, uno dei tanto modi di dirsi dell’essere, termine con il quale solitamente indichiamo tutto ciò che esiste. Vi è dunque differenza tra ente ed essere (inteso come insieme degli enti che vedo e del mondo metafisico) ed anche tra gli enti stessi, cosa che Parmenide negava, perché ogni differenziazione (anche quella tra due enti, o di un ente che diviene e quindi, nel divenire, dà luogo ad un proprio continuo cambiamento) comporta una negazione che implica il non-essere (se tavolo e sedia sono altro tra loro, allora il tavolo è anche una non sedia, ma l’essere non può non essere, dunque tavolo e sedia sono la stessa cosa e i sensi ci ingannano). La conseguenza è che Parmenide è costretto a negare la molteplicità degli enti e il loro divenire, per dire che c’è solo l’essere: unico, eterno, immutabile. Fuori di questa rigida prospettiva (qualora si dica di sì ad un non-essere relativo, come, ad esempio, quello della diversità nel mondo delle idee platoniche e si affermino i due livelli di realtà, quello sensibile e quello intelligibile) si può però evitare il non-essere, accettare la distinzione essere-enti e salvare i dati dei sensi. 3.4. La distinzione essere-qualcosa Per superare Parmenide è infatti necessario riproporre la distinzione essere-ente/qualcosa, distinzione che Parmenide non accettava. Un conto è l’essere che tutto comprende (mondo sensibile ed intelligibile), un conto è l’ente che è una determinata parte di questo essere posta a fianco di tante altre parti, gli altri enti. Accettati i due termini distinti di essere e qualcosa diciamo che l’essere non è il qual-cosa, consapevoli, però, che il qualcosa sarebbe nulla senza l’essere. Dal punto di vista del ragionamento di Parmenide, al contrario, il qualcosa, non es-sendo contingente (perché il non-essere non è), è essere, e perciò essere e qualcosa non sono distinguibili, ma sono un tutt’uno. Ora, è evidente che il qualcosa non può essere “staccato” dall’essere (sarebbe altro dall’essere, dunque un non-essere) ed è perciò indisgiungibile dall’essere, ma indi-sgiungibile non significa indistinguibile (potremmo allora dire che l’essere è più ampio dei singoli qualcosa). Se è così, allora si può negare il qualcosa (affermando che il ta-volo è una non sedia) senza negare l’essere (o affermare il non-essere), dunque senza trasgredire i principi di Parmenide. Detto in altri termini, e da un altro punto di vista, l’essere non è costitutivo del giallo in quanto giallo (non è ciò che fa essere il giallo giallo, se fosse così tutte le cose sa-rebbero gialle!) ma è costitutivo solo dell’esserci di questo tavolo giallo, naturalmente quando il tavolo giallo c’è.

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Significa che il qualcosa, nella sua identità di ente, non dipende semplicemente ed esclusivamente dal legame con l’essere (così invece Parmenide), ma ha una sua costi-tuzione autonoma che lo rende diverso dagli altri qualcosa (con i quali condivide l’es-sere) a conferma del fatto che l’ente non coincide con l’essere. Per spiegare il divenire, evidente ai dati sensibili, è allora sufficiente affermare che l’essere non coincide con il qualcosa che vedo, ma che esso sia più di tutti i qualcosa, come già aveva intuito Platone. L’essere oltre i qualcosa è l’ambito della metafisica. La conseguenza è che il qualcosa (il fatto che un ente esista) implica l’essere, ma non coincide mai con l’essere assoluto. Perciò la molteplicità dei qualcosa implica sì affer-mare un non-essere (il tavolo non è una sedia!), ma mai il non-essere assoluto, che, con Parmenide, non è. Si tratta infatti qui di un non-essere relativo, che potremmo chiamare diversità. Ulteriormente, noi diciamo che una cosa gialla diventa una cosa verde, non che il giallo è diventato verde. La cosa è perciò rimasta tale nel suo substrato. Se poi il legno diventa cenere, anche il substrato è mutato, ma sia il legno che la cenere sono modi dell’essere che si dice in molti sensi (Aristotele). In entrambi i casi non dobbiamo spie-gare il divenire affermando un non-essere-assoluto, come invece è costretto a fare chiunque segua Parmenide. Prospettiva parmenidea potrebbe essere, eventualmente, quella di Dio, in cui, effet-tivamente, tutto è eterno e contemporaneo. 3.5. Ancora sulla distinzione di essere e qualcosa In sostanza il contraddittorio di qualcosa non è il non-essere, ma l’affermare il non-qualcosa contemporaneo al qualcosa (contraddittorio del tavolo non è la non-sedia, ma il non-tavolo!). Perciò non è vero che ciò che esclude il qualcosa sia non essere (esso è, semplicemente, un diverso qualcosa). Qualcosa e non essere possono cioè stare insieme. Significa che tavolo e non-sedia non sono contraddittori (cioè il fatto che questo ente sia un tavolo e, allo stesso tempo, una non-sedia non comporta con-traddizione). L’indisgiungibilità del qualcosa dall’essere non va inteso, ripetiamo, nel senso che l’es-sere entri nel definire il contenuto del qualcosa (ciò che il qualcosa è), ma solo nel fatto che quel qualcosa è, esiste ora, in questo istante. Per esempio l’essere non è costitutivo del giallo di una cosa gialla, nel senso che non è ciò che fa essere giallo il giallo, ma è costitutivo solo dell’esserci di un ente giallo (del fatto che ora ho qui davanti qualcosa di giallo che esiste), ma per pensare il giallo non devo pensare l’essere, dunque posso pensare una cosa verde (che è non-gialla) senza affermare il non-essere. Dobbiamo allora riconoscere una costituzione autonoma del qualcosa che non di-pende dal legame con l’essere, poiché essere non è identico al qualcosa.

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In definitiva: che qualcosa ci sia, dipende dall’essere, che quel qualcosa sia quel qual-cosa, non dipende dall’essere. Ogni ente, infatti, è unità di qualcosa e di essere, è l’esserci di qualcosa. Insomma, prima di tutto ciò che è contraddittorio, nel divenire, è ammettere che il qualcosa possa, allo stesso tempo, esistere e non-esistere e non che l’essere di qual-cosa possa esistere e poi non esistere. Se l’essere di qualcosa non potesse non esi-stere (cioè se fosse eterno), allora non vi sarebbe più la distinzione tre essere e qual-cosa, negheremmo la contingenza, saremmo nell’eternità immutabile dell’essere di Parmenide. Quando si parla di esistere e di non esistere, di nascere e di morire (caratteristica degli enti che divengono) non ci riferiamo, allora, all’essere assoluto, ma a quel determi-nato qualcosa che ora esiste e domani potrebbe non esistere più. Non si parla, cioè, di esistenza e non esistenza dell’essere, ma solo del qualcosa che ha l’essere, quando nasce, e lo perde, quando muore. Tutto questo ragionando con Parmenide che, come tutta la grecità, pensa ad un mondo eterno. Se invece ammettiamo l’ipotesi della creazione, allora il problema è risolto alla radice in quanto la creazione dal nulla, se è tale, ammette il passaggio dal non-essere all’essere e, al momento della fine del mondo, dall’essere al non-essere. Filosoficamente questa possibilità è sostenibile solo in quanto la creazione prevede una azione esterna al mondo, un Dio all’opera. In conclusione, quando sperimentiamo il divenire ciò che non-è non è l’essere (che non può non-essere), ma è l’essere del qualcosa (che invece può non-essere in quanto contingente), infatti il qualcosa non è l’essere, ma solo una sua piccola parte (sta qui la confusione). Perciò se il qualcosa non è non vi è contraddizione e il divenire si può accettare. 3.6. Corollario Una soluzione più semplice a tutto il discorso potrebbe essere quella di chi ha una posizione filosofica dichiaratamente realista. Questi ammette come punto di partenza la validità del divenire che si dà all’esperienza di ciascuno. Se anche si volesse dire che il divenire comporta che l’essere di X è, allo stesso tempo, non essere di X (in quanto io sono anche un non-io di prima, nel caso del mio divenire), si dovrebbe comunque rilevare che non per questo il divenire è assurdo. L’esperienza infatti mi attesta il divenire e questo è un dato che non si può contraddire. Il reale non può avere caratteristiche contraddittorie. In nome del principio di non contraddi-zione, non si può dire che il divenire è assurdo, perché il divenire è, c’è. Questo è quanto un realista intende affermare. Tuttavia, anche da questo punto di vista, si ammette che ci debba essere un fattore che toglie la contraddizione anche alla ragione, ma è possibile pensare che la ragione

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non sia in grado di coglierlo, sia troppo povera per poterlo fare. Solo una ragione im-mensa lo potrebbe fare, cioè la mente di Dio. 3.7. Mantenere Parmenide con una nuova interpretazione del divenire? È il tentativo di Emanuele Severino. Secondo lui ciò che noi vediamo ogni giorno non è il nascere e lo scomparire delle cose (cosa non possibile per i due principi di Parme-nide) bensì solo che gli enti, che prima appaiono, poi non appaiono più. In questa interpretazione, che vuole salvare Parmenide, il divenire non andrebbe in-teso come passaggio dall’essere al non-essere e viceversa, ma come apparire dell’es-sere (che è eterno) e come scomparire di tale apparire. Ciò che avviene nel divenire che sperimentiamo, allora, non è il diventare nulla dell’es-sere, che è impossibile, ma solo il non apparire dell’essere: una cosa che non vedo non c’è più nel senso che non c’è più il mio vedere la cosa. A rigore quando non ve-diamo una cosa non possiamo sapere né che è scomparsa, né che c’è ancora. Ora, per Parmenide, la cosa è rimasta perché tutto rimane ed è eterno, tutto ciò che appare e scompare rimane nell’eterno. Però, contro Severino, almeno l’apparire, che prima c’era, poi non c’è più, dunque restiamo sempre impigliati nel non-essere (ora il non-essere dell’apparire). Si tratta di verificare se questo apparire sia un qualcosa. Se l’apparire è un qualcosa esso do-vrebbe essere eterno! 3.8. Altra difesa di Parmenide Quando conosco ho coscienza di avere conoscenza: ciò che vedo so di vederlo, così l’apparire, che poi scompare, in realtà continua ad apparire, ma non più nella mia coscienza attuale, bensì in un'altra forma di coscienza (sempre mia) dove si conser-vano tutte le cose (cioè la memoria): questa è un’altra strada per salvare il divenire stando con Parmenide. Ma se l’apparire non appare più alla coscienza attuale, significa pur sempre che esso non appare più ad essa, cosa che Parmenide non potrebbe accettare perché introduce il non essere (il non essere dell’apparire alla mia coscienza). Risolvere con la memoria non risolve, perché in questo caso la mia coscienza passata (cioè le cose che mi appa-rivano) sussisterebbe come appartenente ad un’“altra” coscienza (o ad un’altra mia forma di coscienza, comunque un’altra), non più alla mia! Nella mia c’era un apparire che ora non c’è più! Quindi l’essere che prima appariva, ora non appare più alla mia coscienza attuale. Siamo daccapo, la contraddittorietà del divenire non è tolta. La conclusione è che Parmenide ha sbagliato.4

4 Anche Gustavo Bontadini (1903-1990), che criticava le filosofie moderne come gnoseologiche, tali da affermare l’ec-

cedenza dell’essere rispetto alla nostra capacità conoscitiva, l’essere trascende il pensiero. Seguendo Parmenide, per Bon-

tadini, l’essere non può mai essere inquinato dal non-essere, ma allora il divenire è contraddittorio perché in esso gli enti

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4. SCHEMA SINTETICO IN DIFESA DEL DIVENIRE CONTRO PARMENIDE

A) L’Essere non è il Qualcosa e viceversa, anche se l’uno non può stare senza l’altro. Perciò l’Essere e il Qualcosa sono indisgiungibili, ma non indistinguibili, infatti ogni ente è unità di Qualcosa ed Essere. L’errore di Parmenide fu di affermare, invece, l’identità di Essere e Qualcosa. Se infatti l’Essere fosse Qualcosa esso sarebbe:

1. L’astratto dei tanti Qualcosa concreti, ma in questo caso non vi sarebbe il divenire che indica sempre l’esserci e il non esserci di Qualcosa.

2. Dissolto nei molteplici al punto da non dire più nulla, con Essere si indicherebbe allora un Qualcosa, una qualità, etc. (posizione degli empiristi anti-metafisici). Se invece il Qualcosa fosse ridotto all’Essere, non vi sarebbe la differenziazione delle cose, saremmo nell’Essere di Parmenide.

B) Poiché Essere e Qualcosa non si riducono uno all’altro, il loro rapporto è relativo e non necessario: se è il Qualcosa è unito all’Essere, ma se Qualcosa non è, non significa che l’Essere non sia! Il Qualcosa è Qualcosa in forza del Qualcosa, egli non ha nel suo concetto l’esistere

il Qualcosa può non esistere. L’Essere non fa parte del contenuto del Qualcosa, non è ciò che fa giallo il giallo, è solo costitutivo dell’esserci di un ente giallo. Nel divenire ciò che non è non è l’Essere (infatti l’Essere non può non-Essere), ma il Qualcosa (che può non-Essere, mentre non potrebbe essere un non-Qualcosa).

non è vero che, non essendoci il Qualcosa, non c’è l’Essere!

C) Ma se anche fosse l’Essere di Qualcosa a non esistere, non ci sarebbe comunque una contraddizione perché in questo caso (nella frase: “l’Essere di Qualcosa non esiste” oppure: “l’Essere esiste”) l’Essere soggetto e l’Essere predicato non sono la stessa cosa, il soggetto fa qui da essenza, e il predicato da esistenza.

in parte sono e in parte non sono, ma il divenire è attestato dall’esperienza. Ne consegue che vi deve essere un’altra

dimensione dell’essere in cui la contraddizione sia superata: l’essere assoluto, divino.

“Mentre dalla contraddittorietà del divenire Bontadini inferiva in forza del principio di non contraddizione l’esistenza di

un essere trascendente che non diviene, Severino ricava dallo stesso punto di partenza una conclusione opposta: se il

divenire è contraddittorio bisogna negarne la realtà, ma non per postulare un principio trascendente incontraddittorio

assolutamente diverso dal divenire stesso, bensì per riconoscere che tutto ciò che è, non potendo essere ammesso come

diveniente, pena la contraddizione, deve essere allora pensato come eterno e necessario”. Franco Volpi, Il nichilismo,

Laterza, Roma-Bari 2004, p.163.

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D) Per Severino il divenire è il passaggio dall’apparire dell’Essere allo scomparire dell’apparire dell’Essere, così ciò che non c’è più è il mio vedere la cosa (e non la cosa che invece resta), così l’Essere resta eterno e non si smentisce la ragione. Ma neppure l’apparire, in realtà, scompare, esso continua ad esserci, anche se non nella mia coscienza attuale. Vi è, invece, un’autocoscienza/memoria dove si conservano tutte le cose. L’apparire è però sempre legato alla coscienza attuale, mentre la coscienza passata non c’è più, anche nel caso si dica che come ricordo essa è presente in un’altra co-scienza. E) Dunque l’Essere del Qualcosa e il non-Essere del Qualcosa non sono una contrad-dizione, ma eventi che si susseguono. F) Inoltre il divenire, in una visione realista, è dato dall’esperienza e il reale non può essere contraddetto, perciò l’apparente contraddizione deve in ogni caso essere ri-solta. G) Il divenire è contraddittorio solo se inteso come originario perché all’origine deve esserci un ente che non diviene. Questo ente è ciò senza il quale l’ente che diviene sarebbe contraddittorio. Si potrebbe però pensare che l’ente X possa esistere solo in forza di se stesso, ma X diviene, dunque è e non è. Il non esistere di X potrebbe essere ciò senza cui X esisterebbe sempre, ma il non esistere di X è nulla, e il nulla non può far essere X. Inoltre l’essere che annulla X non può essere l’essere che fa esistere X.

ci vuole un altro essere che spiega tutti i divenienti. H) Per Platone le determinazioni (= le differenze) non sono un nulla (Parmenide), ma sono altro dall’essere, una determinazione non è tutto l’essere, ma non è il nulla, essa, se esiste, “è” ed è possibile perché non si identifica con l’essere, perciò essa può anche non essere senza che vi sia una contraddizione.

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5. LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO Una prospettiva realista che riconosca alla realtà un’area più ampia di quella offerta dai sensi, associa a sé il contributo della metafisica che indaga il mondo intelligibile. Oltre qualsiasi visione dualista che separi i due mondi (sensibile ed intelligibile), il modo migliore di evidenziare l’unità della realtà è sicuramente quello di descrivere la stretta relazione che vi è tra il piano sensibile e quello intelligibile dell’essere. Platone era giunto alla scoperta del mondo ultrasensibile andando alla ricerca della causa del mondo sensibile, causa che non poteva, a sua volta, essere anch’essa sensi-bile. Il sensibile è infatti il mondo del divenire, come abbiamo visto, mentre cercare una causa significa cercare qualcosa di fisso ed immutabile. Fin dalle sue origini la ricerca della causa prima è stato il grande obiettivo della filosofia. Un’indagine di questo tipo rappresenta un ambito della metafisica detto teologia ra-zionale. In quanto causa prima, infatti, il principio primo presenta tratti divini. Gli stessi filosofi presocratici, naturalisti, venivano per questo anche chiamati teologi fi-sici. L’ampio capitolo della teologia razionale verrà ora indagato per l’ambito suo più cele-bre e noto, quello delle vie/prove/dimostrazioni dell’esistenza di Dio. 5.1. PREMESSA5 Si può dimostrare l’esistenza di Dio? Ciò a cui ci portano le prove è davvero Dio? Che cosa può la nostra ragione dire di sensato su Dio? Quale tipo di conoscenza possiamo avere di Dio? Queste dimostrazioni aiutano la fede? Dio è totalmente altro! È la nota tesi Karl Barth (1886-1968) e degli esponenti della teologia dialettica. Di Dio possiamo solo dire la negazione di ciò che è finito. Non vi è infatti alcuna analogia tra Dio e le creature (contro la tesi dell’analogia entis di Tom-maso) che ci consenta di dire qualcosa di più. È la ben nota posizione della teologia negativa, o apofatica, presente nella chiesa fin dai tempi di Dionigi pseudo-areopagita (V-VI secolo)

5 Cfr. Sofia Vanni Rovighi, La filosofia e il problema di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1986, pubblicato anche come Sofia

Vanni Rovighi, Il problema teologico come filosofia, Eupress, Varese 2004; Mario Motta, A proposito dell’esistenza di

Dio, Sellerio, Palermo 2002; Bernardo Razzotti, Investigare l’assoluto: un’utopia?, Vivere in, Roma 1997; Emerich Co-

reth, Dio nel pensiero filosofico, Queriniana, Brescia 2004. Una posizione critica verso le dimostrazioni dell’esistenza di

Dio si può trovare in Ermanno Bencivenga, La dimostrazione di Dio, Mondadori, Milano 2009. Ampia introduzione e

vasta antologia di testi in Cornelio Fabro, Le prove dell’esistenza di Dio, La Scuola, Brescia 1989. Per un approccio

introduttivo e sintetico alla questione: Simone Fermi Berto, Dio esiste, me lo ha detto Kant, San Paolo, Cinisello Balsamo

(MI) 2013. Più complessi ed approfonditi: Roberto Giovanni Timossi, Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo

d’Aosta a Kurt Gödel, Marietti 1820, Genova 2005; Robert J. Spitzer, Nuove prove dell’esistenza di Dio, San Paolo,

Cinisello Balsamo (MI) 2012; Antonio Staglianò, La mente umana alla prova di Dio, EDB, Bologna 1996.

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Il timore è che attraverso l’analogia Dio-uomo si umanizzi Dio, perdendone così l’as-soluta trascendenza. La fede, perciò, è solo salto, decisione, affidamento e non ha bisogno di alcun preambulum fidei. Per Barth vale solo l’aut aut tra la radicale alterità di Dio e la realtà del mondo. Questa posizione radicale rinuncia, di conseguenza, all’apporto che la filosofia può dare alla ricerca credente, puntando esclusivamente sull’affidamento. La teologia cat-tolica ha invece sempre pensato che tale apporto di ragione ci sia e sia di conferma e di aiuto alla fede. Come conosciamo, in chiave filosofica, la natura di Dio? Con quali limiti? Storicamente vi sono stati soprattutto due approcci, il primo parte dalla realtà creata di cui abbiamo esperienza per risalire alla sua causa: è la via a posteriori il cui espo-nente più noto è Tommaso d’Aquino (1225-1274), il secondo parte invece dall’idea di Dio presente in noi quando ne parliamo. Tale idea, essendo perfettissima, chiede l’esi-stenza reale del suo contenuto: è quella che Kant chiamò prova ontologica ed ha come esponenti principali Anselmo d’Aosta (1033-1109) e Cartesio (1596-1650). 5.2. CINQUE VIE CHE DIMOSTRANO L’ESISTENZA DI DIO IN TOMMASO D’AQUINO 5.2.1. Sulla necessità di dimostrare l’esistenza di Dio Secondo Tommaso noi non siamo in grado di intuire Dio, dunque la sua esistenza non è per noi immediatamente evidente. Per avere una nozione di Dio (contro Anselmo) è infatti necessario averne prima dimostrata l’esistenza, che è quanto la via cosmolo-gica intende fare. Summa Theologiae I, q. 2, art. 1: Utrum Deum esse sit per se notum (Se sia di per sé evidente che Dio esiste) Sembra di sì. Per Giovanni Damasceno la conoscenza dell’esistenza di Dio è insita na-turalmente in ognuno. Dire Dio significa subito intendere la sua essenza che implica l’esistenza. La verità esiste evidentemente (chi nega la verità dice che è vero che la verità non c’è), ma Dio è la verità, dunque Dio esiste evidentemente. In contrario. Solo lo stolto dice che Dio non esiste [Sl 14 (13), 1]. Rispondo. Una nozione è evidente quando il predicato è contenuto nel soggetto, come nel caso: l’uomo è un animale. Se però non si conoscono o il soggetto o il pre-dicato, la proposizione resta quoad se evidente, ma non quoad nos. Così la proposi-zione Dio esiste è in sé evidente, ma non per noi che non conosciamo l’essenza di Dio, dunque essa deve essere dimostrata. Circa la prova di Anselmo non è detto che chi dice Dio pensi all’essere più grande, dato che alcuni hanno pensato che Dio fosse corpo. Altri accettano l’idea di Dio come idea del maggiore, ma da ciò non ne consegue l’esi-stenza, essendo tale idea solo nell’intelletto.

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Bisogna allora procedere alla dimostrazione dell’esistenza di Dio che si ottiene attra-verso cinque vie. 5.2.3. Le cinque vie. Summa theologiae I, q. 2, art. 3: Utrum Deus sit Sono vie a posteriori che partono tutte da alcune premesse: la convinzione dell’intel-ligibilità del reale, il principio di non contraddizione, il primato dell’atto, l’impossibilità di risalire all’infinito. Le prime tre prove sono simili, la quarta, quella che considera la gradazione, è di tipo platonico, la quinta riguarda il finalismo in natura. Punto di partenza è sempre un fatto constatabile dall’esperienza (argomento a poste-riori), evidente a tutti, che non si può mettere in discussione. 5.2.4. Prima via: ex motus, dal mutamento

La prima e la piú evidente è quella che si desume dal moto. È certo infatti e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da un altro. Infatti, niente si trasmuta che non sia po-tenziale rispetto al termine del movimento; mentre chi muove, muove in quanto è in atto. Perché muovere non altro significa che trarre qualche cosa dalla potenza all’atto; e niente può essere ridotto dalla potenza all’atto se non mediante un essere che è già in atto. Per es., il fuoco che è caldo attualmente rende caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera. Ma non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto ed in potenza: lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: così ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È dunque necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da un altro (omne quod movetur ab alio movetur). Se dunque l’essere che muove è anch’esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ora, non si può in tal modo procedere all’infinito perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore, perché i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La via del divenire è quella più tipica tra le prove a posteriori dell’esistenza di Dio. È la prima via di S. Tommaso. 1. certum est enim et sensu constat aliqua moveri in hoc mundo

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2. omne autem quod movetur, ab alio movetur 3. hic autem non est procedere in infinitum Le tre affermazioni di Tommaso vanno giustificate. La prima e la seconda usano il verbo movēre. Movēre è un verbo transitivo e, al passivo, si può tradurre: è certo che qualcosa diviene o che qualcosa è mosso. Se movetur si traduce è mosso allora è ovvio che ciò che è mosso è mosso da altro, ma se movetur si traduce con diviene, allora Tommaso, è stato notato, darebbe per scontato un qualcosa che dovrebbe dimo-strare, il fatto cioè che il divenire di qualcosa necessita di una causa esterna. Infatti ciò che diviene potrebbe divenire per una causa interna. In questo caso avremmo a che fare con un mondo eterno, frutto di un eterno e con-tinuo divenire al suo interno. È questa la prospettiva che sarà sostenuta da Hegel. Tale posizione, che negherebbe una creazione, risulta evidentemente inaccettabile per Tommaso perché contraria alla fede nel Dio creatore. Non si può procedere all’infinito! È l’affermazione di Tommaso che gli sarà poi contestata dagli empiristi, ma anche dai nostri filosofi contemporanei. Essa tuttavia non è, a rigore, necessaria alla prova. Tommaso dice di non poter procedere qui all’infinito perché lui considera già risolta la questione che ciò che è mosso sia mosso da qualcosa che non è mosso. Un empiri-sta rigoroso risponderebbe di no perché nella nostra esperienza noi vediamo conti-nuamente una successione tra un evento e un altro. Tutto ciò che muove è sempre mosso da altro. Perciò, per argomentare, dobbiamo andare oltre il fatto empirico di una catena che, in base alla sola esperienza, potrebbe, in effetti, anche andare all’in-finito. Una visione solo scientifica ed esperienziale si fermerebbe qui, potrebbe am-mettere l’andare all’infinito. Sul piano della ragione filosofica invece, secondo Tom-maso, dobbiamo andare ad un ente che non diviene per spiegare il divenire del mondo. Per Tommaso l’essere che non diviene e fa divenire, infine, deve far divenire senza una necessità interna, ma per scelta. Il far divenire non è infatti nella natura dell’indi-veniente, perciò il mondo non è necessario, ma voluto liberamente da Dio. Precisazione sulla non necessità della creazione L’indiveniente non è necessitato a creare, se lo fosse egli avrebbe nella propria natu-ra il divenire (nel senso di far divenire). Dio (l’indiveniente) quando crea non è invece necessitato, perciò il divenire non fa parte della sua natura. Inoltre se Dio creasse ne-cessariamente, avrebbe bisogno del mondo, quindi il mondo (che è divenire) farebbe parte della sua natura e perciò farebbe parte della sua natura anche il divenire e il non-essere (dato che divenire implica passaggio da essere e non-essere e viceversa!).

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Saremmo nel pieno di un hegelismo! Dio è invece radicalmente altro rispetto al dive-nire. Ancora sulla prima via È la via del primato dell’atto e del principio di non contraddizione. Per tale principio un ente (in questo caso l’ente che tutto muove) non può essere in atto e in potenza rispetto allo stesso termine (il muovere). La causa del mutamento deve essere asso-lutamente in atto e mai in potenza. Quindi una cosa è la causa e un’altra cosa è l’ente causato. Qui il riferimento al moto non è tanto o solo il movimento locale, Tommaso fa riferi-mento a qualsiasi forma di mutazione, anche qualitativa, dunque fa riferimento al di-venire. Si è obiettato però che vi sono mutamenti che non constano ai sensi perché non corporei, ma certum est et sensu constat va interpretato come è certo e si può constatare anche (non solo) sensibilmente. Per questo la prima via non è solo una via fisica che parte dalle cose fisiche, ma è anche una via metafisica che considera tutta la realtà (fisica e non fisica) come legata al principio del divenire da un ente che non diviene. 5.2.5. Seconda via: ex ratione causae efficientis, dalla causalità efficiente

La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo nel mondo sensibile che vi è un ordine tra le cause efficienti, ma non si trova, ed è impos-sibile, che una cosa sia causa efficiente di se medesima; ché altrimenti sarebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all’infinito nelle cause efficienti è assurdo. Perché in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell’intermedia, e l’intermedia è causa dell’ultima, siano molte le inter-medie o una sola; ora, eliminata la causa è tolto anche l’effetto: se dunque nell’ordine delle cause efficienti non vi fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l’ultima, né l’intermedia. Ma procedere all’infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e cosí non avremo neppure l’effetto ultimo, né le cause intermedie: ciò che evidentemente è falso. Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. L’azione causale tra una cosa e l’altra è considerata da Tommaso come un fatto. Esso però non può essere sempre immediatamente evidente, quale frutto di una espe-rienza. In questo senso ha ragione Hume. Risulta però evidente che continuamente qualcosa comincia ad essere e prima non c’era. Ora, ciò che non c’era non può cominciare ad essere da sé (dato che ancora non esiste, se esistesse prima di esistere sarebbe una contraddizione!). Quindi ciò che co-mincia trae la sua esistenza da qualcos’altro. Si obietta talora che in realtà ciò che

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comincia ad essere non è proprio un vero iniziare, ma è piuttosto una nuova trasfor-mazione (la nuova pianta è trasformazione del seme). È vero, e tuttavia pur sempre di una nuova realtà si tratta, io stesso sono certo di non essere sempre stato! 5.2.6. Terza via: ex possibili et necessario, dalla contingenza

La terza via è presa dal possibile [o contingente] e dal necessario, ed è questa. Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose [esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. Dun-que, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e cosí anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no. D’altra parte, negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità, non si può procedere all’infinito, come neppure nelle cause efficienti secondo che si è dimostrato. Dunque biso-gna concludere all’esistenza di un essere che sia di per sé necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio. Si parte dal fatto che qualcosa di corruttibile esiste. Quando un ente muore esso passa dall’essere al non essere, dunque per sua natura è contingente (cioè può essere o non essere). Ma se fosse così per tutti gli enti, allora nulla sarebbe perché in un determi-nato istante potrebbe accadere che tutti gli enti si trovino nella condizione, loro pos-sibile, di non essere. In tale condizione di nulla, nulla si dovrebbe più manifestare (ex nihilo nihil!). Invece il mondo c’è, dunque ci deve essere, accanto agli enti contingenti, un essere necessario. Anche qui si potrebbe però obiettare che in realtà non c’è un nascere e un morire, ma una continua eterna trasformazione. Tuttavia non è questo frutto di esperienza. Ognuno sente bene la propria precarietà, almeno questo. Ognuna sa di essere una persona che non vi sarà più anche nell’ipotesi della continua trasformazione. Una cosa corruttibile però potrebbe, in via teorica, anche non corrompersi mai per una qualche azione sostenitrice di agenti esterni (perché da sola, in quanto corrutti-bile, prima o poi si corromperebbe). Questi però sarebbero a loro volta corruttibili, tali da richiedere, per non corrompersi, di altri agenti esterni e via di seguito. Se ne esce solo pensando all’esistenza di un ente non corruttibile, perciò non contingente, e dunque necessario.

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5.2.7. Quarta via: ex gradibus, dalla gradazione che si trova nelle cose

La quarta via si prende dai gradi che si riscontrano nelle cose. È un fatto che nelle cose si trova il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di piú o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto; cosí piú caldo è ciò che maggiormente si accosta al sommamente caldo. Vi è dunque un qualche cosa che è vero al sommo, ottimo e nobilissimo, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente; perché, come dice Ari-stotele, ciò che è massimo in quanto vero, è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere, è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è cagione di ogni calore, come dice il medesimo Aristotele. Dunque vi è qualche cosa che per tutti gli enti è causa dell’essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio. Le cose sono più o meno perfette, perciò la loro ragion d’essere deve essere perfetta in sommo grado, per essere causa di quel più e di quel meno. Le perfezioni a cui Tommaso fa riferimento, precisiamo, riguardano le proprietà tra-scendentali (uno, vero, buono, bello, sano), cioè quelle inerenti ad ogni ente. Le pro-prietà fisiche non c’entrano (per il calore non si può dire in forma assoluta che esso sia una forma di perfezione, lo sarà per l’acqua che serve a cuocere la pasta, ma non per i cubetti di ghiaccio!). Poiché vari enti della stessa natura hanno gradi diversi di perfezione, non può essere la natura dell’ente a renderli tali. Si può essere più o meno sani, ma ciò non dipende dalla nostra essenza di uomo (fosse così tutti gli uomini sarebbero sani, oppure i ma-lati non sarebbero più degli uomini). Ciò comporta che l’avere una perfezione di que-ste dipende dal livello di partecipazione con colui che ha tutte le perfezioni al livello massimo, cioè Dio. È una via platonica appunto perché si parla qui di partecipazione, in forme diverse, alla perfezione di Dio. È una via debole perché si è contestato che effettivamente le cose abbiano diversi gradi di perfezione. Questo potrebbe essere piuttosto una nostra interpretazione. Ad esempio in sistemi come quello di Spinoza tutto è perfetto perché ogni cosa è modo degli attributi del Dio/sostanza. Allo stesso modo Hegel ha difeso l’imperfezione, il negativo, come qualcosa di necessario per lo sviluppo dello Spirito, dunque come qualcosa di necessario e perciò buono. In un sistema deterministico i fatti accadono perché devono accadere, non ha senso allora fare, ad esempio, delle gerarchie di bontà. La quarta via è forse più efficace se applicata alla morale. Nell’ambito morale, infatti, si vede bene come i comportamenti si presentano sempre a livelli diversi di mo-ralità

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in riferimento all’ideale da raggiungere. Qui Dio è il Sommo Bene, fonte dei valori morali. 5.2.8. La quinta via: ex gubernatione rerum, dal governo delle cose

La quinta via si desume dal governo delle cose. Noi vediamo che alcune cose, le quali sono prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, operano per un fine, come apparisce dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: donde appare che non a caso, ma per una pre-disposizione raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo d’intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall’arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate a un fine: e quest’essere chiamiamo Dio. Il riferimento è qui al finalismo di certi enti: aliqua quae cognitione carent. Sono gli enti che non hanno una capacità conoscitiva e progettuale propria, cioè che prece-dono il mondo animale. Non è infatti immediatamente evidente il finalismo di tutti gli enti (si pensi al problema del male, allo spreco in natura etc.), che perciò va dimo-strato. Il riferimento non è allora agli enti che hanno conoscenza, perché essi potrebbe es-sersi dati da sé il proprio fine. Un buon esempio degli enti ai quali Tommaso fa riferi-mento sono i vegetali, per la loro capacità di adattamento, di difesa etc. La finalità nega perciò la casualità degli avvenimenti, troppo complessa la natura per affermare ciò. Tale finalismo chiede una intelligenza ordinatrice che sia intervenuta, esso si spiega solo così. Per Kant questo argomento dimostra solo una intelligenza ordinatrice, non creatrice. 5.2.9. Osservazioni sulle vie tomistiche Il Dio a cui approdano le cinque vie non è immediatamente un Dio creatore e provvi-dente, in particolare non è il Dio cristiano. Si arriva piuttosto ad un indivenibile, im-mutabile, causa incausata, ente necessario, massimamente buono, vero, bello, ente, ordinatore intelligente. È vero che Tommaso lo chiama Dio, ma nel senso che lui già sa che questi coincide con il Dio della fede cristiana e a lui rimanda senza troppi problemi, cosa che si com-prende all’interno del pensiero medioevale, ma risulta decisamente affrettato per la nostra sensibilità. 5.2.10. Il rifiuto delle prove di Tommaso

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Punto di partenza è la convinzione che il reale, se coincidesse solo con la percezione sensibile, sarebbe contraddittorio, dunque c’è dell’altro e di diverso, cioè di metafi-sico. Si può evitare questa conclusione solo negando l’intelligibilità del reale, accet-tando la contraddizione, accettando soluzioni irrazionali. Oppure si nega la contingenza del mondo, ritenendo che il mondo basti a se stesso. O ancora si pensa di aver trovato altre soluzioni scientifiche per motivare la sua esi-stenza. Ma la scienza resta sempre nell’ambito del come, non del perché. Essa potrà, ad esempio, spiegare il come del divenire, ma non il divenire in quanto tale. Il primato della tecnica, così diffuso oggi, allontana dalle questioni metafisiche perché esse non hanno alcuna utilità pratica, ma così facendo, in realtà, ci si allontana dalle risposte alle grandi domande che inquietano il cuore dell’uomo.

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6. LA VIA DELLA FINALITA’ La prova della finalità assume come punto di partenza la constatazione che nel mondo vi è una finalità che implica una intelligenza che progetta gli enti in vista di fini. Infatti ciò che non è animato non ha intelligenza, dunque ci vuole una intelligenza trascen-dente che dia loro mete e scopi. Tommaso ha due formulazioni della prova della finalità, con due testi diversi. Il testo della Summa contra Gentiles è più propriamente una prova dell’ordine, che parte dall’ordine esistente in natura. Summa contra Gentiles: “E’ impensabile che cose contrarie si accordino in un unico ordine senza il governo di qualcosa che dica alle cose di tendere verso un fine. Deve esserci qualcuno mediante il quale il mondo è guidato”. Alla base c’è qui l’omnes agens agens propter finem. Questo principio è però stato negato da filosofi (specialmente N. Hartmann) e scienziati. Per essi le cause sono solo efficienti e non finali, anzi, le cause finali sono addirittura dannose per la ricerca scien-tifica. Il finalismo sarebbe un antropomorfismo, noi proiettiamo sulla natura ciò che fac-ciamo come uomini coscienti. È però questa la via più convincente e la più diffusa ed anche chi la rifiuta ne riconosce la forza a livello di intelligenza spontanea. Per Kant è una prova da rispettare, essa accresce la fede. Anche i popoli primitivi hanno così pensato all’intelligenza ordinatrice. 6.1. Ripresa della prova Punto di partenza è il fatto, constatabile empiricamente, dell’esistenza della finalità, dell’ordine in quanto ordine ad un fine. L’ordine da solo potrebbe anche essere interpretato come puro determinismo natu-rale. Se fosse tutto solo ordine allora i deterministi, gli atomisti, avrebbero ragione. La finalità ammette l’ordine, ma dice qualcosa di più, in quanto indica un valore da realizzare. Sembra impossibile affermare che la natura riesca ad ottenere risultati in base alle proprie casuali capacità evolutive, tanto grande è la perfezione, ad esempio, della vi-sta. Il corpo umano è la struttura più perfetta che ci sia nell’universo, la mente umana di gran lunga la più complessa a quanto oggi è dato a vedere. Non si può allora negare che la natura sia disposta ed ordinata a raggiungere la con-servazione e lo sviluppo della vita. Chi invece intende negare la finalità afferma la teoria del caso che unisce però poi ad una forza immanente che dirige la natura verso il suo bene che è la conservazione. Essa può anche essere pensata come esclusivamente immanente in una prospettiva panteistica (Schelling, in qualche modo Hegel).

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L’idea del caso era già presente in atomisti come Leucippo, Democrito, Epicuro, Lu-crezio: l’ordine del mondo è per loro dovuto al movimento caotico degli atomi e al loro incontro-scontro casuale. La disposizione degli elementi che compongono l’uni-verso è solo una delle possibili combinazioni. Solo per una caso avremmo oggi una combinazione ordinata. 6.2. Sulla prova della Summa theologiae: la finalità è più dell’ordine C’è una finalità in alcuni corpi naturali: sono corpi che operano sempre allo stesso modo per raggiungere l’ottimo, ma cos’è l’ottimo per un ente? Tommaso intende per ottimo la perfezione della natura dei singoli enti. Ciò che è esi-stente come ottimo nelle cose è il bene dell’ordine universale. Questo significato di ottimo salda la via della finalità a quella dell’ordine, ma queste due non sono identi-che. Se si parla di finalità si parla di qualcosa di diverso dall’ordine. L’esposizione della Summa Theologiae parla infatti della finalità, non dell’ordine, la-sciando aperta la strada ad un discorso sulla finalità non riducibile all’ordine. Si deve parlare del fine facendo riferimento al valore, dobbiamo poter dire che nel mondo troviamo un valore, non basta cogliere il semplice comportarsi degli enti, la natura produce valore! Il valore dice che qualcosa ha da essere. Quando diciamo valore noi annunciamo qualcosa che deve essere, che è sentito come qualcosa che ha da esserci. Il di più è qui il valore, cioè l’avente da essere, che è bene che ci sia, è una constata-zione immediata, è un videmus che c’è, non ne occorre una dimostrazione. 6.3. Dall’ordine ad un ordinatore? Come escludere che invece la realtà sia già formata (dotata di forma/ordine/finalità) dall’origine? Potrebbe anche darsi che la natura sia così formata senza un ordinatore esterno. Ciò vale anche nel caso che, oltre all’ordine, si dovesse rintracciare in natura una finalità? Quali sono gli enti naturali che comportano la realizzazione di un valore? Sono gli organismi viventi. Quelli che qui interessano, sono, dice Tommaso, aliqua quae ratione carent. Tommaso dice aliqua perché per la sua prova bastano alcuni enti viventi, quelli che, non avendo ragione, sicuramente non possono essersi dati da sé il fine. Gli animali non hanno una razionalità, una coscienza in grado di anticipare il futuro, tanto meno i vegetali (una mela non sa niente del suo fine di nutrire l’uomo) questi sono gli enti che Tommaso intende. Ora, se si resta fermi all’ordine, esso potrebbe essere un ordine naturale, ma se ci si riferisce anche ad un fine, allora ci vuole un creatore.

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6.4. Obiezione di J. Monod (1910-1976) alla finalità in: “Il caso e la necessità” (1970) Si deve proprio parlare di una strutturazione organica delle cose in termini di finalità intrinseca o estrinseca? Non basta il caso? Per Monod la scienza non sa cosa farsene delle cause finali, anzi, cercare la causa finale è un danno per la scienza. Le cause finali erano proprie della scienza pre-gali-leiana, sono il fine per cui un ente c’è. Secondo il metodo scientifico, dice Monod, le cause finali non sono invece assoluta-mente vere. Questo perché la natura è oggettiva e non proiettiva, cioè non è mai cor-rispondente ad un progetto. L’unica conoscenza è la conoscenza scientifica che dà solo il come dei fenomeni e non il perché, perché un grande perché non c’è. Eppure Monod sostiene anche un carattere teleonomico (=che mira ad un fine) di ogni vivente, per cui nella struttura delle cose si realizza e persegue un progetto.6 Gli esseri viventi sono infatti degli esseri dotati di un progetto che realizzano nel loro svilup-parsi. Sembra esserci qui una contraddizione, il motivo è che in realtà Monod fa con-fusione tra scienza e filosofia. Egli parte da una antitesi: o il sapere scientifico, o quello filosofico, ma poi recupera la filosofia come appendice del sapere scientifico. Tanto che sottotitola la sua opera saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea. Per Monod la conoscenza scientifica è l’unica vera e riguarda la cause efficiente, essa è vera perché è l’unica che serve. Invece, contro Monod, si deve dire che vi è un’altra conoscenza vera e complementare a quella scientifica: la ricerca sul come delle cose non elimina la questione del loro perché. Qui rientra la questione della finalità, la quale è oggetto di un altro tipo di conoscenza, diversa da quella della scienza! Monod parla di postulato della oggettività scientifica, ma un postulato è ciò che si ritiene sia vero come ipotesi che io decido di assumere quale mio punto di vista nella ricerca. Il postulato può dunque andare bene se si fa scienza (è un modello, un punto di vista che poi si verificherà con l’esperimento), ma non va più bene se si intende fare filosofia, perché il filosofico è l’ambito della assolutezza. Usato cioè in filosofia il po-stulato non è più tale. Il punto di partenza di una filosofia, infatti, deve essere ritenuto certo, non ipotetico. Così il postulato scientifico di evitare le cause finali usato in filosofia diventa, spostato nell’ambito filosofico, una scelta ben precisa di tipo scientista, diventa un pregiudizio, una pre-comprensione. Ma va notato che è scorretto fare una filosofia naturale partendo da un postulato legittimo solo per la scienza. Inoltre fa difetto all’ateo Monod una pre-comprensione contro la finalità, dato il ri-schio che da essa si passi ad una teologia.

6 “L’oggettività, ciononostante, ci obbliga a riconoscere il carattere teleonomico degli esseri viventi, ad ammettere che

nelle loro strutture e nel loro attuarsi, essi realizzano e perseguono un progetto […]. Gli esseri viventi sono degli oggetti

dotati di un progetto che essi esprimono nelle loro strutture e realizzano attraverso il loro svilupparsi”.

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La posizione anti-finalistica di Monod è frutto allora di una scelta (il postulato), per questo il suo non può essere un saggio di filosofia naturale. 6.5. Il caso Il caso è l’incontro fortuito, non previsto, di due o più serie causali, si tratta di un incontro sempre non necessario. Il caso spiega le coincidenze fortuite, ma non l’or-dine dell’universo. Le cose per caso sono rare, eccezionali, fuori legge, nella natura le cose sono, invece, regolari e prevedibili. Il caso non può spiegare una evoluzione interna, le leggi necessarie che hanno pro-dotto questo mondo, c’è una capacità naturale che governa tutta la natura. Qui l’occhio vede perché è fatto in modo tale che non può non vedere, l’occhio vede perché è fatto per vedere, è un ente con una finalità ben precisa. 6.6. Critici della finalità I critici della finalità sostengono che basta la causa efficiente per spiegare l’ordine, la stabilità. Il determinismo naturale spiega tutto, il resto è solo proiezione antropomor-fica. Si può ammettere l’ipotesi di una strutturazione originaria senza un disegno intelli-gente, ma ad un certo punto dell’evoluzione non si ha solo una complessità maggiore, ma un salto ontologico, che il semplice fisico non può spiegare. È il salto al coscien-ziale, è l’apparire dell’uomo, una discontinuità vera e propria. La libertà è un fatto che gli uomini sentono di sperimentare, la comparsa della libertà è contraria al determinismo naturale. Il materialista può anche ammettere la co-scienza e l’auto-coscienza, ma non il salto, perché ritiene esserci un preciso legame tra fisico e psichico/spirituale, un legame di causalità efficiente. Tuttavia il salto ontologico resta nonostante il condizionamento reciproco tra fisico e psichico. 6.7. L’essere superiore ordinatore Due sono le ipotesi relative alla realtà originaria da cui si è sviluppato il mondo: il caso nello scontro degli atomi, oppure una realtà originariamente formata e differenziata dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Dal punto di vista scientifico non vi sono elementi certi per una delle due ipotesi, ma solo una può essere vera! In ogni caso, ci vuole sempre una ordinazione, si tratta di verificare se essa sia dovuta ad un ordinatore esterno o a meccanismi interni alla stessa natura. È troppo improbabile la teoria di un caso assoluto! Perciò le due ipotesi vanno prese insieme, ma entrambe necessitano di una finalizza-zione.

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6.8. QUESTIONI DIBATTUTE 6.8.1. Posizioni che riconoscono la finalità della natura, la teleologia, ma le interpre-tano in termini immanentistici e panteistici Troviamo in Marx (1818-1883) un indiretto riconoscimento di una finalità presente nel mondo. Il finalismo c’è in natura e implica un pensiero finalizzante, però esso opera nella natura in virtù della natura stessa. Così Giordano Bruno (1548-1600) sosteneva l’anima del mondo (dunque un disegno finalistico), così, anche, a titolo diverso, Anassagora, gli stoici, Campanella, Schelling, Bergson, La finalità non proviene dal caso, ma da una forza immanente la materia che si auto-governa, auto-organizza, autoripara. È una forza intelligente, è il potere di organizzarsi in molecole, macromolecole, organismi monocellulari, pluricellulari etc. La materia ha così inventato la vita, prodotto l’evoluzione etc. Marx: la materia è intelligente, è un essere primo che non dipende da nessuno, esiste per se stessa, si autocrea e autoevolve. Ma la materia è capace di pensare? Questo non si può dimostrare! Qui si rifiuta il passo successivo della trascendenza, sembra ci sia una confusione tra vivente e materiale, comunque non ci sono prove di uno spirito intrinseco alla natura che la guida nel suo sviluppo e nella sua evoluzione. Dunque siamo di fronte ad una posizione determinata da una precomprensione immanentistica. 6.8.2. Obiezione del caso e dell’evoluzione Il discorso sulla evoluzione è usato dagli avversari della finalità. Per i positivisti l’evo-luzione ha dato un colpo mortale alla teologia della creazione. Se le specie derivano da altre specie, infatti, l’uomo è frutto della evoluzione, perciò non è necessariamente creato da un Dio. Tuttavia, in una visione creazionista, l’atto creatore non è un solo un atto iniziale, ma un qualcosa di continuo che esplicita nel tempo la potenzialità del primo gesto. Ciò che grazie alle cause seconde sorge ad un certo punto, è dunque sempre da far risalire, implicitamente, all’atto creatore iniziale! Tutto dipende da Dio. La tesi di un Dio creatore sarebbe ancora valida, tra l’altro, an-che nell’ipotesi di una eternità del mondo. Una evoluzione, in un modo o nell’altro, può essere pensata come orientata da Dio e in nessun caso, come tale, essa implica l’esclusione di un creatore. Le teorie evoluzio-nistiche non spiegano poi l’inizio di tutto, ma solo il suo sviluppo. Gli evoluzionisti parlano di mutazioni che non si spiegano tutte in funzione di una legge già nota, Darwin pensava però che tutto si reggesse sulla base del caso e della selezione naturale, il che, in fondo, è, a suo modo, una legge.

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Nella interazione tra una mutazione accidentale e l’ambiente, si ha la stabilizzazione della mutazione e si produce qualcosa di nuovo che si mantiene quando è favorevole alla specie. Ma come pretendere una finalità immanente se c’è la casualità? Risposta possibile: il caso è qualcosa che non si può prevedere. Esso è qui una muta-zione che però, una volta avvenuta, produce risultati stabili, se si trattasse davvero fino in fondo di casualità, la cosa non dovrebbe comportare uno stabilizzarsi. Perciò è possibile ipotizzare che ciò che anche chiamiamo caso indichi qualcosa di già presente virtualmente, una sorta di pre-ordinazione genetica, nel disegno del progetto evolu-tivo, tale da essere pronto a fare proprie determinate mutazioni favorevoli che nel tempo, prima o poi, verranno. Dunque la realtà naturale è tale che in concomitanza con certi fattori produce certi risultati, ma in concomitanza con altri fattori, produce altri risultati, già virtualmente presenti in essa. S. Agostino (354-430) pensava alla evoluzione nei termini di rationes seminales. Il mondo è creato con queste rationes da Dio, esse poi si fanno presenti e si sviluppano nel tempo in concomitanza con l’azione causale efficiente di altri determinati fattori. Quando parliamo di caso pensiamo di solito a qualcosa che non può essere spiegato. Eppure noi non abbiamo sempre tutti gli elementi per dire che esso non possa dav-vero essere spiegato. Con caso si potrebbe allora designare l’ignoranza soggettiva dei fattori che portano ad un determinato risultato. È proprio la stabilità del risultato ad impedire l’accidentalità, la natura può perciò tornare ad essere concepita anche oggi, è lecito ritenere, in termini finalistici. L’evoluzione rende del resto ancor più teleologica la natura: non solo i singoli viventi sono subordinati per produrre un certo fine, ma essi erano anche già preordinati nel passato in altri enti che li contenevano virtualmente. Vi è poi una finalità insita nella creazione, essa è l’uomo, il quale raccoglie in sé le perfezioni di tutto ciò che vi è stato prima di lui. L’uomo realizza i “valori” di vegetali ed animali, ma ne ha anche molti di più. Perciò l’uomo è un fine della creazione, quello che noi sperimentiamo. Ciò non esclude, in ogni caso, che vi possano essere altri fini, in altri luoghi dell’universo. 6.8.3. Obiezione del male Il male contrasta la finalità, è un disvalore, eppure lo stesso concetto di disvalore pre-suppone quello di valore, il contrasto con il fine presuppone il fine, si dice che c’è disordine perché c’è un ordine. Ma se c’è l’ordine perché poi c’è il disordine?

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Si Deus est unde malum? Si Deus non est unde bonum? (Agostino).7 È la domanda eterna di ogni tempo, quella del male, che si allarga qui a considerare il fatto che l’as-senza di Dio diventa assenza della giustificazione di un fine buono (unde bonum?). Agire per il bene, in un sistema naturalistico, significa agire per il proprio bene, se-condo i criteri dell’evoluzione della specie. Eppure l’uomo è capace di comportamenti diversi, perfino di sacrificare la propria vita per gli altri. Come mai? La seconda parte risolve la prima, infatti, ammesso un Dio finalizzatore e provvidente, allora non possiamo non ammettere, anche se noi non vediamo il modo (non pos-siamo conoscere Dio fino in fondo!), che ci sia pur sempre una armonia che riscatti il male. Se introduco Dio riscatto il male, perché alla fine Dio vince. Ne consegue che è il rifiuto di Dio a rendere irrimediabile lo scacco del male. Il male è quello di un mondo imperfetto che diviene, il divenire ci permette di ricono-scere che ciò che ora è male può essere riscattato perché si va verso una perfezione. Non c’è un principio del male! Ma qui ad un certo punto la filosofia si ferma per aprire la strada alla rivelazione. 6.8.4. Distinzione tra male metafisico, fisico, morale Leibniz (1646-1716) chiama male metafisico un qualcosa che in realtà non è male, ma è solo la limitatezza della creatura. Il male metafisico consegue cioè dall’essere delle creature che non può essere illimitato in quanto creato. Il male è qui in funzione di un bene maggiore, la ragione vede che l’universo deriva dall’intelligenza creatrice, c’è un piano organico. I singoli mali sono ombre che contri-buiscono alla perfezione del tutto, anche se non vediamo come ciò accada. Per il credente il male ha a che fare con il peccato, come conseguenza del peccato originale. Si tratta del male morale, ma in questa prospettiva vi è poi la logica del riscatto operato da Cristo. 6.8.5. Tornando alla quinta via di Tommaso Tommaso: il finalizzatore è ciò che chiamiamo Dio! Però il risultato della quinta prova era diverso, era piuttosto una intelligenza finalizzatrice. Circa questo finalizzatore, in-

7 Donde viene dunque il male? Forse che la materia usata era cattiva ed egli, nel darle una forma ed un ordine vi lasciò

qualche parte che non cambiò in bene? E perché mai sarebbe successo questo? Non era forse in suo potere, lui che è

l'onnipotente, convertirla e trasformarla in maniera che non vi restasse alcunché di male? [...] O se non era giusto che

colui che è buono non creasse e non costruisse qualche cosa di buono, non avrebbe forse dovuto sopprimere ed annientare

questa materia cattiva, per fondarne una buona, da cui trarre poi ogni realtà?[...]. Tali erano i pensieri che rimescolavo nel

mio povero cuore, già appesantito da preoccupazioni assai pungenti, ispirate dalla paura della morte e dalla mia impotenza

nel trovare la verità. Eppure in questo cuore restava solidamente radicata la fede in Gesù Cristo, nostro Signore e nostro

Salvatore, così come la professa la chiesa cattolica; fede senza alcun dubbio ancora rozza su molti punti e fluttuante, oltre

il limite della giusta dottrina; però il mio spirito non l'abbandonava, anzi se ne impregnava ogni giorno di più. Agostino,

Soliloqui e Confessioni, a cura di A. Moda, Torino, UTET, pp. 411-413.

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fatti, non è detto che sia infinito, non è detto che sia unico, non è chiaro il suo rap-porto con il mondo. Un finalizzatore è stato poi spesso ammesso in filosofia senza però concludere ad un Dio come fa Tommaso. Prima di Tommaso: Nous di Anassagora, Demiurgo di Platone, Logos degli stoici infi-nito e ordinatore, principio divino ma anche immanente e materiale. In pratica il passaggio dal finalizzatore a Dio deve essere ancora argomentato. 6.8.6. Rapporto tra la prova del divenire e della finalità Sono prove complementari. Ciò che possiamo sapere di Dio è ciò che comprendiamo a partire dall’esperienza. Dunque si parla di Dio partendo dal mondo.

1. Dio come essere immutabile, eterno. Dio è vita e non può venir meno, è vita pur non divenendo. È un immutabile che crea le cose e le fa divenire.

2. Dio è puro e non ha in sé potenza passiva. Non può diventare ciò che ancora non è. Dunque Dio è già tutto ciò che potrebbe essere. Dio non diviene perché ha già in sé tutta la vita che può possedere.

3. Dio è semplice. Dio è atto puro, in lui non c’è potenza, perciò non è un essere com-posto, ma semplice. Perché vi sia composizione, infatti, ci vogliono più elementi che si compongono, dove c’è complessità, c’è potenzialità.

4. Dio è l’ipsum esse subsistens. In Dio essenza ed esistenza vanno insieme necessaria-mente, Dio “è”, e non “ha” l’esistenza. Dio ha in atto necessariamente tutte le potenze è ciò vale anche per l’esistenza.

5. Dio è l’essere che implica tutte le perfezioni. Non è un puro essere astratto e inde-terminato, egli è pienezza dell’essere, ha tutte le perfezioni assolute senza limiti e senza imperfezioni.

6. Dio è infinito. Lo è perché nulla lo può limitare. 6.8.7. Il Dio creatore e la questione dell’evoluzionismo Come intendere l’agire di Dio quale intelligenza creatrice. Tesi finalistica: se c’è una apparizione di nuove specie è necessario l’intervento di-retto del creatore per spiegare tale apparire, soprattutto l’apparire dell’uomo. Tesi evoluzionista: tutto è in evoluzione, dunque non c’è bisogno dell’intervento di Dio per spiegare l’esistenza dell’uomo, non c’è bisogno di una creazione. Le due tesi nascono dall’equivoco di pensare l’intervento di Dio come un insieme in-finito di atti temporali. Invece l’atto creatore potrebbe essere pensato come un atto unico potenziale che dà essere e agire a tutte le sostanze. Tale potenzialità si traduce in atto nel tempo (a questo livello si parla di creazione continua). L’atto creatore è all’inizio di tutto, l’effetto dell’atto creatore è inizialmente causa prima, poi vi sono le cause seconde. Perciò la lotta tra fissisti ed evoluzionisti non ha molto senso.

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Certo lo psichico dell’uomo non può venire dal non psichico, dal fisico. In ogni vicenda evolutiva si produce sempre un di più che viene dal meno. Dato che il più non può venire dal meno, si necessita l’azione creativa, e questo ad ogni livello. Si può allora affermare che tutto ciò che si arricchisce deriva dall’atto originario di Dio che si dipana poi nel tempo. 6.8.8. Il fine della creazione L’unica cosa che possiamo dire è che se c’è l’uomo capace di cose ulteriori, di altre funzioni di valore, rispetto agli altri esseri viventi (rapporto con Dio, amore, pensiero etc.) l’uomo è fine anche per gli altri organismi precedenti, dunque la creazione è fi-nalizzata all’uomo (principio antropico). Nell’universo creato che noi conosciamo il fine appare essere l’uomo, ma questo è l’universo che noi conosciamo. Così non possiamo dire che solo la terra è abitata! Perché l’uomo deve essere il solo fine della creazione?

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7. L’ARGOMENTO ONTOLOGICO DI ANSELMO D’AOSTA Anselmo (1033-1109) scrive il Proslogion (1077-78ca) per i suoi monaci e lo fa in un atteggiamento di preghiera: credo e voglio capire. Egli cerca un unum argumentum (nel Monologion, 1076, ne aveva presentati diversi a posteriori, come quello dei gradi) che sia definitivo nel confermare con la ragione ciò che comunque la fede sa già dalla rivelazione. La tesi è molto semplice: se anche una cosa esiste solo nell’intelletto (esempio del pittore che ha in mente l’opera prima di dipingerla) affermando che è l’IQM (Id Quo Maius cogitari nequit, ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore), essa deve esi-stere nella realtà.

7.1. Proslogion, Proemio Dietro le preghiere insistenti di alcuni confratelli, scrissi un opuscolo (il Mono-logion scritto un anno prima) come esempio di meditazione sulle ragioni della fede, in veste di uno che, ragionando tacitamente fra sé, indaga ciò che ignora; ma poi, considerando che lo scritto era costituito dalla concatenazione di molti argomenti, cominciai a chiedermi se non si potesse trovare un unico argo-mento che dimostrasse da solo, senza bisogno di nessun altro, che Dio esiste veramente e che è il sommo bene, che non ha bisogno di nulla e di cui tutto il resto ha bisogno per essere e per aver valore, e bastasse pure a dimostrare le altre verità che crediamo della sostanza divina. Ci pensavo spesso e con impe-gno, e talora mi pareva di afferrare quello che cercavo, talora l'argomento sfuggiva del tutto all'acume del mio pensiero; sicché alla fine, disperando di trovarlo, mi proposi di smettere la ricerca di una cosa che si presentava impos-sibile. Ma quando volli scacciar da me quel pensiero, affinché, occupando in-vano la mia mente, non mi distogliesse da altri argomenti nei quali potessi raggiungere qualche risultato, proprio allora cominciò ad assillarmi, sebbene non ne volessi sapere e mi difendessi da esso. Mentre, dunque, un giorno fa-cevo ogni sforzo per resistere alla sua importunità, nello stesso conflitto di pensieri, mi balzò alla mente ciò che ormai disperavo di trovare, sì che afferrai con ogni impegno quel pensiero che prima mi sforzavo tanto di allontanare. E ritenendo che quello che ero lieto di aver trovato sarebbe forse piaciuto a qualche lettore, se lo avessi scritto, scrissi questo opuscolo intorno a quell'ar-gomento e ad alcune altre cose, in veste di uno che si sforza di elevare il suo spirito a contemplare Dio e cerca di capire ciò che crede. Introduzione I. Esortazione della mente a contemplare Dio

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Orsù, omiciattolo (homuncio), fuggi per un poco le tue occupazioni, sottraiti un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Liberati un momento dalle pesanti cure e lascia da parte le tue laboriose distrazioni. Dedicati per un poco a Dio e riposati in lui. «Entra nell'intimo» del tuo spirito, escludi da esso tutto all'infuori di Dio e di ciò che ti giova a cercarlo, e, dopo aver chiuso l'uscio» (Matteo, VI, 60) cerca lui. Di' ora, o mio cuore tutto intero, di' a Dio: «Io cerco il tuo volto, ricerco il tuo volto, Signore» (Salmo 26, 8). E ora tu, Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come possa cercarti, dove e come possa trovarti. Signore, se non sei qui, dove potrei trovarti assente? E se sei dovunque, perché non ti vedo presente? Ma certo tu abiti una luce inaccessibile. E dov'è la luce inaccessibile? O come mi avvicinerò a una tale luce? O chi mi condurrà e mi introdurrà in essa, affinché in essa io ti veda? E poi, in base a quali tracce, a quale immagine ti cercherò? Non ti ho mai visto, o Signore Dio mio, non conosco il tuo volto. Che farò, altissimo Signore, che farà questo esule lontano? Che farà il tuo servo ansioso del tuo amore e gettato lontano dal tuo volto? Anela di vederti, e troppo è lontano dal tuo volto. Desidera di avvicinarsi a te, e il luogo dove abiti gli è inaccessibile. Brama di trovarti, e non conosce dove tu stia. Si sforza di cercarti, e ignora il tuo volto. Signore, tu sei il mio Dio e il mio Signore, e non ti ho mai visto. Tu mi hai creato e ricreato, e mi hai dato tutto quel che ho di bene, e non ti conosco ancora. Infine, sono fatto per conoscerti, e non feci ancora ciò per cui sono fatto. Riconosco, o Signore, e te ne ringrazio, che hai creato in me questa tua immagine, affinché memore, ti pensi e ti ami. Ma l'immagine è così cancellata dall'attrito dei vizi, e così offuscata dal fumo dei peccati, che non può fare ciò che dovrebbe, se tu non la rinnovi e la riformi. Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità, poiché non posso neppur da lontano paragonarle il mio intelletto; ma desidero intendere almeno fino a un certo punto la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire. Poiché credo anche questo: che «se non avrò creduto non potrò capire» (Isaia 7, 9). II. Dio esiste veramente Dunque, o Signore, che dài l'intelligenza della fede, concedimi di capire, per quanto sai che possa giovarmi, che tu esisti, come crediamo, e sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che tu sia qualche cosa di cui nulla può pen-sarsi più grande. O forse non esiste una tale natura, poiché «lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste » (Salmo 13, 1, e Salmo 52, 1)? Ma certo quel medesimo stolto, quando ode ciò che dico, e cioè la frase «qualcosa di cui nulla può pensarsi più grande», intende quello che ode; e ciò che egli intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro infatti è che una cosa sia nell'intelletto, altro è intendere che la cosa sia. Infatti, quando

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il pittore si rappresenta ciò che dovrà dipingere, ha nell'intelletto l'opera sua, ma non intende ancora che esista quell'opera che egli ancora non ha fatto. Quando invece l'ha già dipinta, non solo l'ha nell'intelletto, ma intende pure che l'opera fatta esiste. Anche lo stolto, dunque, deve convincersi che vi è almeno nell'intelletto una cosa della quale nulla può pensarsi più grande, poi-ché egli intende questa frase quando la ode, e tutto ciò che si intende è nell'in-telletto. Ma certamente ciò di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell'intelletto. Infatti, se esistesse solo nell'intelletto, si potrebbe pensare che esistesse anche nella realtà, e questo sarebbe più grande. Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste solo nell'intelletto, ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Il che è contraddit-torio. Esiste dunque senza dubbio qualche cosa di cui non si può pensare il maggiore e nell'intelletto e nella realtà. III. Non si può pensare che Egli non esista […] E questo sei tu, o Signore Dio nostro. Dunque esisti così veramente, o Signore Dio mio che non puoi neppure essere pensato non esistente. E a ra-gione. Se infatti una mente potesse pensar qualcosa di meglio di te, la creatura ascenderebbe sopra il creatore, e giudicherebbe il creatore, il che è assurdo. Invero tutto ciò che è altro da te può essere pensato non esistente. Tu solo dunque hai l'essere nel modo più vero, e quindi più di ogni altra cosa, poiché ogni altra cosa non esiste in modo così vero, e perciò ha meno essere. Perché dunque «disse lo stolto in cuor suo: Dio non esiste», quando è così evidente alla mente razionale che tu sei più di ogni altra cosa? Perché, se non perché è stolto e insipiente? 7.2. Rilievi: Anselmo dà per scontato che:

1. L’esistenza sia qualcosa che concorra alla grandezza dell’ente, perciò un ente senza esistenza è meno grande di uno che ce l’ha, dunque l’esistenza è una perfezione.

2. Anselmo non parte dal considerare Dio come l’essere necessario, l’essere la cui es-senza implica l’esistenza (così farà Cartesio), ma dal considerarlo come colui di cui non si può pensare il maggiore, cioè dall’idea di essere perfettissimo. Anselmo fa vedere che l’IQM non può non esistere e lo fa sostenendo il suo senso analitico (cioè egli è tale per cui nella frase “Dio esiste” il predicato, esiste, è conte-nuto nel soggetto, Dio, e dunque è certissimo). Anselmo parte dall’idea dell’essere perfettissimo che non è una idea vuota! L’IQM ha tra i suoi caratteri l’esistere, dunque non può non esistere. La sua è una esistenza

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necessaria perché senza l’esistenza l’IQM non sarebbe perfetto, cioè non sarebbe IQM. Se pensiamo Dio come essere perfettissimo non si può negarne l’esistenza, ma allora come è possibile dire che Dio non esiste? Lo dice chi per Dio intende altro, o dà un significato diverso alla parola Dio o alla parola perfettissimo. 7.3. Difesa da parte di Gaunilone dello stolto che dice in cuor suo che Dio non esiste [Sl. 14 (13) e 53 (52)] Il monaco Gaunilone obietta da subito ad Anselmo che una cosa è cogitare, cioè pen-sare, capire, altra cosa è intelligere, cioè avere nell’intelletto un qualcosa di realmente esistente. Vi è dunque una distinzione tra “capire ciò che si dice” ed “avere nell’intel-letto”. Infatti si capiscono anche le cose false, ma si ha una vera rappresentazione solo di ciò che si sa reale che per altra via si è accertato esistente. Nella mia mente, allora, vi possono essere cose capite (un asino con le ali) ed anche cose conosciute, rappre-sentate (l’asino con la coda). Come le distinguo? Secondo Gaunilone solo andando all’esperienza, e così per sapere che l’IQM esiste devo andare all’esperienza e l’argo-mento ontologico salta. Del resto se bastasse capire che una cosa, se è perfetta, allora deve esistere, sarebbe sufficiente pensare un‘isola perfetta ed essa dovrebbe esistere visto che ho capito (come sosteneva Anselmo) che la perfezione implica l’esistenza. Tutto ciò non ha al-cun senso. Ne consegue, per Gaunilone, che per verificare la realtà di un pensiero bisogna sem-pre andare alla realtà, cioè a posteriori (contro l’a priori di Anselmo). Diciamo subito che l’argomento dell’isola non regge in quanto il discorso di Anselmo verte sull’IQM in assoluto, mentre l’isola perfetta è solo la più perfetta delle isole, non di tutti gli enti! L’isola è una realtà finita, quindi se ne può sempre pensare una di maggiore. Inoltre Gaunilone equipara l’IQM con l’ente maggiore di tutti, ma questo non si può, sono due cose diverse! Si può anche pensare il maggiore degli enti esistenti al mondo, ma esso non è mai l’IQM, l’IQM è superiore a tutti gli enti possibili, non solo a tutti gli enti dati, dunque è molto di più di questo ipotetico ente maggiore di tutti. l’IQM non può non implicare l’esistenza, altrimenti non sarebbe l’IQM, invece un ente maggiore di tutti gli esistenti non implica tutte le perfezioni, quindi potrebbe anche non avere l’esistenza (restando sempre maggiore di tutti). Se ce l’ha, allora ce l’ha di fatto, ma non necessariamente. Ma il vero problema è un altro e riguarda il fatto che l’IQM sia Dio e che in noi vi sia realmente l’idea dell’IQM/Dio senza averne fatta, in qualche modo esperienza prima in forma mediata. 7.4. Replica di Anselmo

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Anselmo risponde molto semplicemente richiamandosi alla fede di Gaunilone: la fede dice che Dio è l’IQM e Dio è certamente nell’intelletto perché lo stesso Gaunilone lo ha riconosciuto grazie alla rivelazione (si è fatto perfino monaco!). Il richiamo alla fede spiazza, se si suppone la fede allora l’argomento non può valere come dimostrazione razionale, non servirebbe al dubbioso. Tuttavia esso non è co-munque inutile per il credente che vede così confermata con la ragione la sua fede in un Dio che esiste necessariamente. Proprio questo era, del resto, l’intento di An-selmo. Che Dio sia l’IQM lo dice la fede, che l’IQM esista nella realtà, avendolo per fede nell’intelletto, lo può dire la ragione.

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8. LE PROVE A PRIORI DI CARTESIO (1596-1650) Cartesio propone tre prove dell’esistenza di Dio. Le prime due si trovano nella terza meditazione delle Meditazioni metafisiche (1641), l’altra nella quinta. 8.1. La prima prova Cartesio afferma innanzitutto il principio di causalità: “E’ manifesto per lume naturale che in ogni causa efficiente deve esserci almeno altrettanta realtà o perfezione quanta è nell’effetto”. Si noti che qui Cartesio riceve tale principio dalla tradizione scolastica e non lo mette in dubbio, lo considera tale per lume naturale. Molti hanno notato già qui una contraddizione, perché Cartesio, dato il rigore del suo metodo, lo avrebbe invece dovuto mettere in dubbio. Da questo principio, che è intuitivamente vero, si deduce comunque che: a) Una cosa che ha una certa perfezione, deve essere prodotta da una causa che con-tenga almeno quello stesso grado di perfezione. Ad esempio, un animale, deve essere prodotto da una causa che contenga formal-mente (= in atto) le perfezioni di quell’animale. Oppure, lo stesso animale potrebbe essere prodotto da una causa che contenga eminentemente, cioè in maniera più ec-cellente, le perfezioni dell'animale stesso, quindi che abbia l’essere, il vivere, il sentire e la capacità di muoversi ad un grado più elevato di quanto essi non siano in quell’ani-male. È impossibile tuttavia che l’animale, ed è questo che qui ci interessa, sia pro-dotto da una causa che abbia meno realtà, meno perfezione di esso, cioè da una causa che non contenga formalmente (= in atto) tutte le perfezioni dell’animale (come, ad esempio, nell’ipotesi che un vegetale, che non possiede la capacità di muoversi, sia causa di un animale). Applichiamo questo principio alle Idee. La realtà formale di una qualsiasi Idea consiste nell’essere semplicemente un modo del pensiero, cioè nell’essere pensiero. Da questo punto di vista tutte le idee sono uguali. Esse però sono anche diverse perché esse hanno realtà oggettiva diversa, cioè hanno un contenuto diverso. In base al principio di causalità si può quindi affermare che: b) La realtà oggettiva di un’Idea deve essere prodotta da una causa nella quale sia contenuta quella stessa realtà. In altre parole, se io ho un’Idea con una certa realtà oggettiva, cioè un’Idea che ha un certo contenuto, un’Idea di qualcosa, questo contenuto dell’Idea (= realtà oggettiva) deve essere stato prodotto da una causa che possegga in atto, cioè formalmente (o eminentemente) ciò che l’Idea rappresenta. Questa causa avrà quindi formalmente (= in atto) almeno tanta realtà, tanta perfezione, quanta ne ha la cosa rappresentata dall’Idea (= realtà oggettiva).

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In definitiva, se noi consideriamo le nostre Idee solamente dal punto di vista della loro realtà formale (cioè come semplici pensieri), esse risultano tutte uguali, non ce n’è una più o meno perfetta di un’altra: sono tutti pensieri e quindi la loro causa è sem-plicemente il nostro pensiero. Ma se consideriamo le nostre Idee dal punto di vista del loro contenuto (= realtà oggettiva) vediamo immediatamente che ci sono Idee più o meno perfette (ad es. l’Idea di un animale possiede più realtà oggettiva, più perfe-zione, di quella di una pietra; l’Idea di una qualche sostanza possiede più realtà dell’Idea di un colore o di un sapore che la sostanza può avere [questi sono infatti meri accidenti]). Ora, dato che più un’Idea è perfetta (cioè ha una maggiore realtà oggettiva) più la sua causa deve contenere in atto tale perfezione, ne deduco che se io troverò in me qual-che Idea la cui realtà oggettiva è più grande di me, allora è chiaro che io non potrò essere stato la causa di tale Idea: dovrà quindi esistere qualche altra cosa fuori di me che ha causato questa Idea e che possiede tutta quella realtà o perfezione che è con-tenuta oggettivamente in quella mia Idea. C’è in me l’Idea di Dio, dice Cartesio, con la quale intendo una certa sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente e onnipotente. La realtà oggettiva di quest’Idea (=essere infinito) non è contenuta in me, in quanto riconosco chiaramente che non sono un essere infinito. Dunque deve esistere fuori di me una sostanza che è infinita: solo essa, infatti, può essere la causa della realtà oggettiva di questa mia Idea. 8.2. Seconda prova causale dell’esistenza di Dio Io sono certo di esistere e di avere in me l’Idea di Dio. Mi chiedo: qual è la causa della mia esistenza, cioè dell’esistenza di un essere che possiede l’Idea di Dio? Non posso essere io, perché se fossi io la causa della mia esistenza mi sarei dato tutte le perfezioni che sono nell’Idea di Dio e invece resto imperfetto perché dubito. Conclusione: Dio esiste, ha causato la mia esistenza all’inizio e continua a conservarmi nell’essere in ogni istante di tempo. 8.3. Terza prova: la prova ontologica dell’esistenza di Dio Siamo ora alla quinta meditazione dove Cartesio presenta la sua versione della prova ontologica. Come ai concetti della geometria, che sono essenze reali, appartengono necessaria-mente certe proprietà (es. al concetto del triangolo appartiene necessariamente la proprietà di avere i tre angoli pari a 180°), così al concetto (= essenza) di Dio appar-tengono necessariamente tutte le perfezioni, tra le quali anche la perfezione dell’esi-stenza. Per cui Dio esiste necessariamente. In altre parole, l’essenza (= il concetto) di Dio implica la sua esistenza. Mentre conoscere l’essenza delle realtà finite, imperfette, non implica la loro esi-stenza (es. io posso avere il concetto di un certo animale, con certe caratteristiche,

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ma il solo fatto che io ne abbia un concetto non implica che l’animale esista); al con-trario, il concetto che ho di Dio è quello di un ente sommamente perfetto, quindi Dio non può essere privo dell’esistenza, perché, se così fosse, non sarebbe un ente som-mamente perfetto, in quanto gli mancherebbe la perfezione più importante, cioè quella dell’esistenza. Continua Cartesio: come non posso pensare ad una montagna se non penso contem-poraneamente ad una vallata che la circondi (o non posso pensare ad un triangolo se non penso contemporaneamente che ha tre lati), così non posso pensare a Dio se non penso contemporaneamente che esiste. 8.4. Osservazioni critiche 1. Cartesio intende l’idea di Dio come quella di un essere infinito, ma si potrebbe obiettare che tale idea sia stata formata da noi stessi attraverso la negazione delle cose finite di cui facciamo esperienza. Noi infatti abbiamo continuamente esperienza di cose belle e buone, ma abbiamo anche una capacità originaria di pensare il bello e il buono sub specie aeternitatis, cioè come infiniti, anche se non abbiamo una loro rappresentazione adeguata (non ve-diamo il bello infinito). Tuttavia il fatto di estendere all’infinito ciò che cogliamo finito non può derivare solo, come dicono gli empiristi, dalla negazione di ciò che sperimentiamo come limitato. L’infinito al quale pensiamo è qualcosa di più di un portare all’infinito ogni predica-zione (il bello, il buono etc.) negando tutti i limiti. Dunque questo concetto di infinito mi è dato, è un previo sapere. Inoltre, sostiene Cartesio, l’Idea di infinito è antece-dente a quella di finito, cioè viene prima nella mia mente. Come potrei infatti perce-pirmi come essere finito, imperfetto, se non avessi prima nella mia mente l’Idea di infinito, di perfetto? Per Cartesio se vi è allora in noi l’idea di infinito, essa non può essere vuota, essa dovrà essere l’idea di un ente determinato che sia infinito ed eterno: Dio. Significa che ab-biamo a che fare con un ente infinito, cioè (in termini tecnici contemporanei) che lo intenzioniamo. Il fatto che la conoscenza di questo ente infinito sia solo, per noi, parziale, non signi-fica che di esso non se ne possa fare esperienza nel modo detto. 2. All’obiezione che l’idea di un ente infinito non può essere colta da una mente finita e limitata come la nostra, Cartesio risponde che non è necessario per noi avere una piena chiarezza di un concetto per dire di averne un’idea. Dice Cartesio, nella sesta meditazione, che si può, ad esempio, avere l’idea/concetto di un chiliagono (poligono di mille lati) pur senza averne una immagine ben precisa. Noi comprendiamo di una cosa ciò che di essa è intelligibile (diciamo di vedere il mare anche se ne vediamo solo una piccola parte), comprendiamo il poligono di mille lati, il chiliagono, anche ne non ne possiamo immaginare la figura.

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Dunque Dio non può essere compreso dallo spirito umano se questi pensa di cono-scerlo del tutto, ma non è necessario conoscerlo tutto per sapere che c’è come ente infinito. Il concetto è un pensiero, infatti, che vale anche senza l’immagine (come nel caso del chiliagono, così nel caso di Dio). Se si ammette che la conoscenza immediata di un oggetto non è totale si può avere un apparire di Dio non esaustivo alla coscienza e si può perfino dire di avere una qual-che esperienza di Dio, benché mai del tutto adeguata. 8.5. Ancora osservazioni critiche Si osserva che questa dimostrazione dà per scontata la presenza in noi dell’idea di Dio senza prima averne dimostrato l’esistenza. Per Tommaso ciò non è possibile, era la sua critica ad Anselmo. Per verificare ciò, infatti, è necessario partire dalla realtà, at-traverso le vie a posteriori. Alla proposta di Cartesio replicò già al suo tempo Johannes Caterus (1597-1641) espo-nente del pensiero tradizionale aristotelico. Egli afferma che se un triangolo esiste deve avere gli angoli con la somma di 180 gradi, così se Dio esiste gli compete l’esi-stenza necessariamente. Il dubbio è che l’idea di Dio sia fattizia (cioè costruita da me), non innata. Cartesio risponde che l’idee fattizie si possono dividere (l’idea fattizia di un leone alato si può dividere in leone e ali), mentre ve ne sono altre per le quali ciò non è possibile, perché sono idee di una “vera ed immutabile natura“ (non si può separare l’idea del triangolo dall’idea dei 180 gradi), tra esse l’idea di Dio (non si può separare la sua essenza dalla sua esistenza). Bisognerà almeno concludere, risponde Cartesio a Caterus, che l’esi-stenza di Dio è possibile, ciò ci appare con chiarezza e distinzione.

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9. LE CRITICHE DI KANT ALLE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO E LA SUA PROPOSTA Kant (1724-1804) scrive la Critica della ragion pura (1781) per verificare quali siano le possibilità della conoscenza umana e, più in particolare, se la metafisica possa dirsi scienza. Come è noto il risultato è che l’ambito della conoscenza dell’uomo resta per Kant ristretto a quello dell’esperienza e la metafisica non può dirsi scienza. Perciò non si può pretendere di dire qualcosa su Dio, ad esempio che lui esista, perché di Dio non abbiamo esperienza sensibile. Ne consegue che le prove della sua esistenza, così pre-senti nel pensiero occidentale, non hanno alcun valore. La critica di Kant a tali prove si trova nel terzo capitolo della Dialettica trascendentale della Critica della Ragion pura. 9.1. L’ideale della ragion pura Dio è però per Kant una presenza costante, egli è l’ideale della ragion pura, cioè colui che ha in sé tutte le perfezioni dell’essere, è la fonte/fondamento di ogni possibilità, la sintesi di tutti i possibili. Ipostatizzato, questo ideale è l’Ente originario, unico, sem-plice, onnipotente, eterno, oggetto della teologia. Il punto è che partendo solo da questo ideale della ragione non si può ancora dimo-strare la sua esistenza. 9.2. Critica della prova ontologica Il cammino della ragione umana volta a dimostrare l’esistenza di Dio non ha valore in quanto di Dio nessuno può dire di aver avuto esperienza. Per la prova ontologica torna la domanda se davvero vi sia in noi l’idea dell’essere necessario. Soprattutto, per Kant, l’esistenza non può essere un predicato, una carat-teristica necessaria di Dio, tale da aggiungere qualcosa alla sua identità e determi-narne la perfezione. Come per i 100 talleri che sono sempre tali sia che esistano sia che non esistano. Ne consegue che l’idea di Dio può anche esserci come idea perfetta senza che necessariamente Dio debba esistere. 9.3. Critica alla prova cosmologica. Due momenti della prova Per Kant il fatto della necessità dell’esistente necessario quale causa delle cose con-tingenti prima di tutto non ci dice ancora nulla sua identità (potrebbe anche essere qualcosa di diverso da Dio, tipo un mondo eterno, un qualcosa di materiale). Se poi si dovesse pensare che esso sia l’essere perfettissimo, allora per sostenere la sua esistenza, si riproporrebbe la prova ontologica. In particolare affermare, come fa la prova cosmologica, che se qualcosa esiste ci deve essere un essere necessario comporta per Kant un “nido di pretese dialettiche” (dia-lettico = logicamente non giustificato).

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A. Pretesa di poter far uso del principio di causalità (dal causato alla causa). Esso vale infatti solo in riferimento al mondo sensibile, vale solo per il mondo fenomenico. Cau-salità è infatti una delle dodici categorie della facoltà dell’intelletto con cui ordiniamo le nostre rappresentazioni. Essa opera esclusivamente sui dati sensibili spazializzati e temporalizzati dalla facoltà della sensibilità. B. Pretesa che non si possa andare all’infinito: nel mondo sensibile vi sono infinite cause, non si coglie mai una causa prima. La causa di un effetto fenomenico deve essere fenomenica perché solo nel fenomenico vale il principio di causalità. Nell’am-bito fenomenico sembra si possa andare all’infinito. C. La pretesa di aver così trovato l’incondizionato/necessario è una illusione. D. La pretesa di dare realtà all’ente necessario resta tale, in quanto essa può valere solo per i dati dell’esperienza, mentre dell’ente necessario non è data esperienza. 9.4. Critica kantiana della prova fisico-teologica La fisico-teologia del tempo faceva partire tutto dalla constatazione dell’ordine nell’universo pensandolo come estrinseco (=proveniente dall’esterno) agli enti di na-tura. Scrive Kant: “Questa prova merita di essere menzionata con rispetto. Essa è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione umana”. Essa però non può essere considerata rigorosa, apodittica, acquieta lo spirito, ma non lo sottomette. Vi è dunque per Kant un principio razionale ordinatore, causa sublime, saggia ed unica che liberamente dà misura al mondo. Il limite della prova è che essa non porta ad un creatore, ma ad un ordinatore, che proprio questi sia Dio significherebbe ricadere nella prova cosmologica e, di qui, a quella ontologica. 9.5. Dio come postulato della ragion pratica È la via morale. Dio risolve qui la contraddizione dovuta ad un sommo bene (virtù + felicità) di cui l’uomo virtuoso non riesce a godere su questa terra. Kant non è stoico, dunque per lui Dio è colui che premia chi segue la legge morale e risponde all’aspira-zione dell’uomo alla felicità che si deve ottenere seguendo la legge morale, diversa-mente essa mi ingannerebbe. Si deve perciò postulare un mondo, oltre quello terreno, in cui chi segue la legge rag-giunga il sommo bene. Dio è il garante dell’esistenza di questo mondo.

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10. L’ESSENZA DI DIO Che cosa si ricava da tutto questo dibattito? Che cosa può dire la ragione su Dio? Come per ogni argomento filosofico vi sono posizioni a favore, posizioni contrarie e poi mille distinguo tra le due. Per quanti però accettano una prova della dimostra-zione di Dio, spesso perché convengono nella correttezza di alcuni presupposti, la ra-gione ci istruisce almeno sulla sua esistenza e su alcuni suoi tratti lasciando aperta la possibilità di altre vie per cogliere in pienezza la sua identità. Chi si avventura in tale ricerca arriva a conoscere molti attributi necessari di Dio. Ne aveva già parlato Tommaso nella Summa theologiae prima parte, questione 3 (sem-plicità di Dio), questione 4 (perfezione), questione 6 (bontà), questione 7 (infinità), questione 9 (immutabilità), questione 10 (eternità), questione 11 (unità), questione 14 (scienza perfetta), questione 16 (verità). Potremmo anche aggiungere: Dio è atto puro, necessario, ipsum esse subsistens¸ unico, trascendente (contestando il pantei-smo). 10.1. Dio come persona e creatore Dio che è ipsum esse subsistens è l’essere per essenza. Tutti gli enti hanno invece l’es-sere per partecipazione, dunque dipendono da lui, e se dipendono da lui sono contin-genti e non necessarie. Dio crea il mondo e la sua creazione è libera, non necessaria, perché se fosse necessaria Dio avrebbe bisogno del mondo, quasi che il mondo finisse per essere una parte costitutiva di lui: è l’errore del panteismo. Ciò significa che la creazione non è necessaria (ma tale creazione potrebbe essere eterna?). Va poi precisato che Dio non comincia a fare qualcosa, perciò si deve pensare come virtualmente sempre presente in lui l’opera creatrice, nella sua volontà, mentre real-mente essa può anche avvenire in un momento successivo, come il pittore pensa già al quadro, ma poi lo pone in atto successivamente (l’esempio è di Cartesio). La libertà implica la scelta e una scelta adeguata implica l’intelligenza piena della cosa, perciò Dio è libero ed ha volontà e intelligenza. Sono contenuti che si predicano di Dio analogicamente (cioè in analogia con il loro significato umano di cui abbiamo diretta esperienza). In lui essi sono sempre presenti al massimo livello, in modo eminente. Se poi Dio è causa delle cose, allora anche le conosce, ma le essenze delle cose non sono in Dio come delle idee platoniche, come un qualcosa che è lì e che poi Dio usa alla stregua di un demiurgo. Le essenza delle cose fanno piuttosto parte dell’essenza divina. Tale conoscenza non è poi solo generale, bensì anche particolare. Perciò Dio conosce le sue creature una ad una, non in modo generico. Dio conosce l’uomo, vertice della creazione, instaurando con lui un rapporto personale.

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11. IDEA DI DIO E ATEISMO8 La nozione di Dio nell’uomo è inizialmente religiosa, essa nasce con l’uomo. Non esiste nella storia una civiltà non religiosa. Essa precede e resiste ai tentativi di negarla che sono stati fatti dalla modernità in poi.9 Tuttavia dall’annuncio di Nietzsche “Dio è morto” (afr. 125 La Gaia Scienza10, T1) con-tinua l’affermazione dell’impossibilità che Dio esista, eppure l’idea di Dio si mantiene sempre presente. Precisato questo, per storia dell’ateismo si intende la storia di chi ha combattuto l’idea di Dio, in questo senso essa è anche la storia di una battaglia persa. Benché dopo Nietzsche (o dopo Hegel, o dopo Kant, etc…) si dica che Dio è morto, si insiste infatti ulteriormente per affermare la sua negazione. Come può una idea che dovrebbe essere scomparsa continuare ad esserci al punto da dover essere continuamente negata? L’Italia è stata nel ‘900 idealista, pragmatica, esistenzialista, marxista, tutte correnti di pensiero atee, oppure fortemente problematizzate su questo punto. Eppure l’idea di un essere infinito, assoluto, di fatto non sembra caduta, ma solo rimodulata perfino nelle stesse correnti atee! (eccetto forse solo il neopositivismo).11 11.1. Nietzsche, la morte di Dio e il problema del male Se ci riferiamo al Dio della rivelazione cristiana, allora Nietzsche è certamente ateo, eppure in lui l’inquietudine dell’idea dell’assoluto non si è mai spenta. Infatti Dio è morto perché il superuomo viva. Nello Zarathustra afferma: “Se ci fosse un dio, come potrei sopportare di non essere dio?”. Il superuomo ha il compito della divinizzazione dell’uomo, ma non di ogni uomo, solo degli uomini superiori che Nietzsche/Zarathu-stra continua a cercare. Nietzsche non è un libertino teoretico per il quale se Dio non c’è l’uomo può fare ciò che vuole. Dio era il fondamento del bene e del male, ora bisogna vivere al di là del bene e del male, perché l’uomo è al posto di Dio: ecce homo: questo è il superuomo, egli presenta caratteristiche divine (perciò in Nietzsche resta l’istanza religiosa, solo ribaltata). Di fatto l’idea di un essere infinito resta sempre sullo sfondo di tutto il pensiero occi-dentale, non si riesce a superare, resiste ai tentativi di negazione. L’idea di Dio resta perfino nei casi della riflessione e dei temi più difficili come quello dell’esistenza del male. 8 Cfr. AaVv, L’ateismo contemporaneo, a cura della facoltà filosofica della pontificia università salesiana, SEI, Torino

1967, in quattro volumi; Henri de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1982 (ed. or. 1949);

Augusto Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1990 (ed. or. 1964); Jacques Maritain, Ateismo e ricerca

di Dio, Massimo, Milano1982. 9 Ma già il sofista Gorgia di Leontini (480ca-380ca) fu giudicato ateo. 10 Naturalmente un Dio non può morire. Ciò che è morta è l’idea di Dio che le religioni e le filosofie si sono fatte. 11 Tanto che si è parlato di rivincita di Dio. Cfr. Gilles Keppel, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano 1991.

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Se non c’è Dio il male è un dato terribile, ma non fa problema. Senza Dio il mondo può anche essere senza senso. Ma se c’è Dio il male diventa un gravissimo problema che deve poi trovare una soluzione. Il problema del male, dal punto di vista logico, non può contestare l’esistenza di Dio, lo fa invece (eccome!) dal punto di vista pratico che però è un punto di vista sogget-tivo, dunque non filosofico. Esso tocca l’emozione, non la ragione. Se però si è dimostrata l’esistenza di Dio, allora il male diventa un problema. Se Dio c’è si apre infatti la questione del suo rapporto con la giustizia (teodicea). Il risentimento per il dolore, inteso come universalmente diffuso, è però una espe-rienza soggettiva e trasversale che dice una protesta verso Dio (comunque se ne in-tenda l’identità) che sottintende, allora, la sua esistenza. Ma se Dio c’è, allora il problema del male è risolto in quanto Dio, se è Dio, è onnipo-tente ed è più forte di ogni forza contraria ed anche il male gli è sottomesso. Così il male crea il problema, ma anche lo risolve, perché Dio garantisce la vittoria finale del bene che riscatta il male. Noi non sappiamo (filosoficamente!) il modo di questo riscatto. L’esperienza di ogni giorno ci dice che il male non è cancellato, resta il mistero del perché, nonostante la vittoria finale del bene che riscatta il male. Qui il filosofo si arrende, ma sente di po-tersi aprire/affidare ad una rivelazione. 11.2. L’origine dell’idea di Dio in noi Tralasciando l’ipotesi mistica per la quale l’idea di Dio è frutto di una intuizione diretta e personale e quindi non riproducibile, l’idea di Dio o viene in noi dall’esperienza, op-pure è innata. Di sicuro non è un’idea avventizia, cioè una idea che si forma in noi tutti dall’espe-rienza: Dio nessuno l’ha mai visto! Potremmo allora essercela prodotta noi, oppure potrebbe essere stata trasmessa a noi da qualcuno che se l’è prodotta. Per produrla si opera togliendo i limiti, Dio è il non finito, il non limitato. L’idea di Dio, in questa prospettiva, è infatti idea dell’infinito, cioè del non-finito, ed è una idea negativa: l’idea dell’illimitato quale negazione della limitatezza. Così rispondeva Locke a Cartesio che sosteneva che l’idea di Dio fosse invece innata in noi. Il fatto è che nell’idea di Dio si devono però negare tutti i limiti, si devono negare tutte le negazioni possibili dell’esperienza. Si tratta cioè di una negazione assoluta, questo è l’infinito. Ma per farlo dovrei prima conoscere tutto e poi togliere tutti i limiti. Ciò non è possibile perché io non conosco tutto, al massimo conosco molto. I limiti che io sperimento (cioè le negazioni determinate: il tavolo non è giallo, la pesca non è ma-tura etc.) sono sempre finiti. Quando dunque penso all’infinito, dico che nego ogni

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negazione possibile e “ogni” indica universalità, una universalità che non può derivare dall’esperienza delle negazioni particolari. Perciò l’idea di Dio è negazione assoluta di tutte le negazioni parziali, ma di questa idea non possiamo avere esperienza perché non abbiamo esperienza di tutti i limiti possibili. Di conseguenza l’dea di Dio, se c’è, è originaria, o innata. Per Platone ciò è possibile perché le idee, che per lui costituiscono l’area del divino, sono state viste prima della nascita dell’uomo dalle anime preesistenti. Per Agostino è Dio che si manifesta alla coscienza illuminandola. Anche Anselmo, Tommaso, cercano prove razionali di una idea che è in noi, in quanto prodotta dalla fede che è dono di Dio. L’innatismo è la via Anselmo/Cartesio che si affianca alla via di Tommaso per la quale l’idea di Dio si forma in noi a partire dalla esperienza come causa prima. Le due proposizioni non si contraddicono, anzi, esse sono complementari e si confer-mano a vicenda.

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12. IL NICHILISMO, L’OSPITE INQUIETANTE “Aristotele nel IV libro della Metafisica scrive che chi sostiene che tutto è vero, deve riconoscere che allora è vera anche la tesi contraria alla sua, cioè: che qualcosa non è vero. Dunque si contraddice. D’altra parte chi afferma che niente è vero deve ricono-scere che allora non è vero neppure quel che lui stesso dice: allo stesso modo si con-traddice”.12 12.1. Il nichilismo e la svalutazione di tutti i valori L’espressione ospite inquietante è di F. Nietzsche13 ed è stata recentemente ripresa in un saggio di Umberto Galimberti per segnalare una condizione diffusa oggi nel mondo occidentale, specie in quello giovanile. A questo testo si intende ora fare brevemente riferimento.14 L’autore ci segnala come da Platone in poi la filosofia abbia tentato di offrire una gerarchia di valori in cui orientarsi tra vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto. In termini diversi anche il pensiero cristiano, e religioso in genere, lo faceva. Ora non è più così e siamo in tempi in cui non c’è più né alto né basso, buono e cattivo, dentro o fuori etc.15 Siamo in tempi di disincanto del mondo in cui emerge quel nichi-lismo, quel nulla di valori che però, da Gorgia ad Heidegger, era sempre stato pre-sente. Oggi sembra valere solo la razionalizzazione del mondo in cui non vi è alcun fine da realizzare, ma solo risultati da raggiungere. Alle domande di senso, del resto, la tanto osannata tecnica non può rispondere, il senso non le appartiene.16 Per questo il nichilismo è la conclusione del pensiero occidentale (=terra del tra-monto). Nietzsche lo aveva già anticipato: fine della morale, fine del cristianesimo, fine della metafisica, i valori perdono ogni valore (=nichilismo) e vanno transvalutati sulla linea dell’affermazione del superuomo. Così il nichilismo è l’ospite inquietante che porta con sé relativismo, scetticismo, di-sincanto. La fredda razionalità della tecnica ne è la conseguenza. Essa ha tolto il pri-mato dell’uomo su cui si era costruita la civiltà moderna. Ora manca l’orizzonte di senso. Con la tecnica è finito l’umanesimo, non si sa più come parlare di individuo, libertà, identità, salvezza, verità, senso, scopo, natura, etica, politica, religione, storia.

12 Franca d’Agostini, Introduzione alla verità, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 96.

Cfr. Aristotele, Metafisica, libro IV, 1012a, 29-35; 1012b, 1-22. 13 “Il nichilismo è alle porte: da dove ci viene costui, il più inquietante (sinistro) tra tutti gli ospiti?”. Friedrich Nietzsche,

Frammenti Postumi, VIII/I 1885-1887 2 [127]. 14 Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007. 15 Nietzsche aveva direttamente collegato questa condizione alla morte di Dio, cioè alla fine della metafisica, della reli-

gione e della morale. cfr. La gaia scienza, afr. 125. 16 Lo stesso vale per la tanta osannata scienza la quale, quand’anche riuscisse a risolvere tutti i suoi problemi non avrebbe

ancora toccato quelle che sono le domande più profonde dell’uomo. Cfr. Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee.

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Galimberti analizza in particolare la condizione giovanile nelle sue espressioni più co-muni. È la generazione più esposta alla crisi dei valori ed è una generazione triste. Essa vive una sorta di demotivazione che porta il giovane allo stordimento della musica o della droga. Genitori e insegnanti non hanno più autorità alcuna. Non trovando risposta alle attese e ai desideri reali, il giovane rischia una forma di frustrazione, alla quale si reagisce attaccando il più debole per potersi affermare, come, ad esempio, nei casi frequenti di bullismo. Non si gestiscono più le emozioni, ormai la soddisfazione del desiderio nella nostra società opulenta segue il criterio del consumismo più sfrenato. L’interiorità da preservare non c’è più, tutto è esteriore come nel “Grande Fratello” o “L’isola dei Famosi”. Il privato non c’è e non c’è il pudore, l’intimo è pubblicizzato. Per esserci si deve apparire, se non c’è altro da mettere in mostra, si mettono le proprie intimità. Nei casi più gravi l’eroina anestetizza tutto, chi la prende sente meno il disagio e la fatica. La cocaina aiuta a superare la depressione, etc. Un tempo, anni ’60-’70, vi era la nevrosi che nasceva dal conflitto tra la propria li-bertà/desiderio e una legge imposta, tra il permesso e il proibito, oggi, rifiutate tutte le norme, la tensione è solo tra possibile e impossibile. Si arrivare così anche ad uccidere “per noia”. I ragazzi dei sassi dal cavalcavia, non sanno neppure perché l’hanno fatto, in loro c’è il vuoto, il nulla. È il deserto di tanti giovani che possono anche arrivare, in alcuni casi, a preferire il suicidio a questa condizione. La conclusione di Galimberti non sembra dare molta spe-ranza. Oggi non resterebbe, infatti, che l’etica del viandante, propria di chi sa che non vi è una meta da raggiungere, un senso da realizzare. Bisogna perciò guardare in faccia l’indecifrabilità del destino. Si vive in una attesa senza speranza che è noia e poi de-pressione, così riappare l’ospite inquietante che è il nichilismo. Qui la vera speranza finisce per essere la morte. 12.2 ITINERARIUM MENTIS IN NIHILUM17 12.2.1. Per una storia del concetto e del problema Nato come termine tra il ‘700 e l’800, discusso come tema nell’800, il nichilismo è diventato argomento centrale nel ‘900 quale espressione di un malessere grave che ha espressioni artistiche e letterarie oltre che filosofiche. Per Nietzsche il nichilismo è l’ospite inquietante, come abbiamo visto. Nietzsche è stato il primo ad aver compreso la portata del nichilismo collegandolo alla svalutazione dei valori supremi sui quali si era costruita la civiltà occidentale18. Da lui in poi questo fuoco si è diffuso nel ‘900.

17 Cfr. Franco Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2004; Franco Buzzi, Nichilismo, Editrice Bibliografica, Milano

1998; Vincenzo Vitiello, Cristianesimo e nichilismo. Dostoevskij – Heidegger, Morcelliana, Brescia 2005. 18 Cfr. Frammenti Postumi VIII/II 2 [12]; 2 [266].

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Se però colleghiamo più esplicitamente il nichilismo al nulla, allora sue tracce si po-trebbero già trovare nel sofista Gorgia di Lentini (483/85-375): “nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; e se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunica-bile”.19 Perciò il nichilismo ha accompagnato il pensiero occidentale, sia pure in forme tra loro molto diverse. 12.2.2. Turgenev e la sua presunta paternità Fondatori e teorizzatori del nichilismo sono stati Dostoevskij (1821-1881) e Nietzsche (1844-1900), ma il termine è piuttosto da far risalire a Ivan Sergeevic Turgenev (1818-1883) nel suo romanzi Padri e figli (1862) dove nichilista è il protagonista Bazarov, studente di medicina, materialista e nichilista, figura dell’uomo nuovo del suo tempo. I figli sono qui i ribelli alla tradizione della nobiltà dei padri, essi ritengono nulla i loro valori e l’ordine tradizionale20. Il termine dilagò da subito in Russia dove venne però spesso preso in chiave politica piuttosto che esistenziale, come riferito ai giovani critici del regime e contestatori ri-voluzionari. 12.2.3. Nichilismo, romanticismo, idealismo In effetti il termine già circolava prima di Turgenev, che però lo rese celebre. Forse lo usò già Agostino per indicare i non credenti. Lo usò Gualtiero di San Vittore (+1180) dove i nichilisti sono quegli eretici che affermavano essere l’umanità di Cristo acci-dentale. Nel 1773 Fridrich Lebrecht Goetz (De nonismo et nihilismo in theologia) af-ferma che nichilismo significa ritenere che tutto sia nulla. In Francia, durante la rivo-luzione, i nichilisti erano quelli che non erano né a favore né contro la rivoluzione stessa. Dal punto di vista filosofico il contenuto del nichilismo è presente in effetti prima della nascita del termine. La nuova condizione dell’uomo moderno è tale che egli rompe con il mondo antico e medioevale, studia il cosmo e la natura senza riferimenti metafisici, ma basandosi solo sull’esperienza, vive la rivoluzione contemporanea, è spaesato, non sa rispondere al perché, al senso della vita e dunque prepara il nichilismo che porta con sé l’afferma-zione della morte di Dio e della libertà assoluta (che poi diventerà disperata) dell’uomo. Nel XVIII secolo nichilismo lo troviamo all’interno delle polemiche filosofiche tra rea-listi, idealisti e dogmatici. Si accusa cioè di nichilismo l’idealismo, perché esso rende

19 Altri riferimenti espliciti in Fridugiso di Tours (+834, De substantia nihili et tenebrarum, dopo l‘804) e Scoto Eriugena

(810-877, De divisione naturae, 862-866), ma anche nel misticismo di Meister Eckhart (1260-1327) e di altri (Dionigi

pseudo areopagita sec. metà V secolo, Giovanni della Croce, 1542-1591, Angelo Silesio 1624-1677). Ma molti altri autori

hanno fatto riferimento al nulla (de Bovelles, Leonardo, Sanches, Leibniz, Leopardi, etc.). 20 Definizione di nichilista del romanzo riportata a pag. 10 del Volpi, Op.cit..

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nullo il mondo oggettivo che emerge dai dati sensibili, così Hamilton contestava Hume. La stessa accusa la faceva Jacobi (1743-1819) che usa il termine nichilismo in una lettera a Fichte (1762-1814) del 1799 costitutiva dell’Atheismusstreit. Qui Jacobi allinea nichilismo con ateismo. Così erano per lui atei Spinoza (1632-1677), Fichte, Schelling (1775-1854). Usano il termine ai tempi di Jacobi anche il teologo Daniel Jenisch e i romantici Frie-drich Schlegel (1772-1829) e Jean Paul (1763-1825) con l’accusa di nichilismo ai poeti romantici attenti all’io e non al non-io che è la natura ed è anche Dio, da loro ridotto a nulla. Perfino Cristo sperimenta così il non essere del Padre alla fine dei tempi (Di-scorso del Cristo morto, dall’alto dell’universo, sulla non esistenza di Dio che si trova all’interno del Matrimonio, morte e nozze dell'avvocato dei poveri F. St. Siebenkas, 1796). Hegel (1770-1831) difende il nichilismo, come procedimento metodico, in Fede e Sa-pere (1802). Nel riprendere la controversia Fichte-Jacobi, li critica entrambi perché dualisti, per loro l’essere non si esaurisce nel pensiero (cioè non si ha ancora l’unità di materiale e spirituale, la grande conciliazione hegeliana), perciò il nichilismo ci vuole (inteso come la negazione delle distinzioni, anche quella Dio-creatura), ma Fichte non lo ha proposto bene. Invece la filosofia deve definire il nulla assoluto. Questo vero nulla è l‘Assoluto che nega ogni distinzione al suo interno. In parallelo il termine viene ad indicare non solo un contenuto filosofico, ma anche uno pratico, cioè il comportamento libero da ogni morale tenuto dal nichilista. 12.2.4. Il nichilismo in senso sociale e politico e la sua provenienza francese Ne parla il francese cattolico Franz von Baader (1765-1841) per indicare l’effetto del protestantesimo,21 che avrebbe annullato le sacre verità, dando libero ed indebito spazio alla scienza. Esso è da lui ritenuto un “abuso dell’intelligenza distruttivo per la religione”.22 Juan Donoso Cortés (1809-1953) accusa di nichilismo i socialisti francesi23 e fa del nichilismo l’effetto perverso dell’illuminismo. Espressione di un radicale nichilismo francese è anche quella del marchese De Sade (1740-1814) nei suoi romanzi. È allora chiaro che, in questi termini, il vocabolo nichilismo ha anche una provenienza francese. In area tedesca il termine è usato all’inizio in chiave polita e sociale con una valore negativo.

21 Cfr. Su cattolicesimo e protestantesimo, 1824. 22 Cfr. Sulla libertà dell’intelligenza, 1826. 23 Cfr Saggio su cattolicesimo, liberalismo e socialismo, 1851.

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12.2.5. Il nichilismo senza fondamenti di Max Stirner L’uso esplicitamente filosofico di nichilismo si deve a Max Stirner (1806-1856) in L’unico e la sua proprietà (1844). Non ci sono valori, senso, progetti, leggi, fonda-menti, conta l’io anarchico e nichilista, c’è solo l’io, tutto il resto è nulla. 12.2.6. Nichilismo, anarchismo, populismo nel pensiero russo Negli ultimi decenni dell’800 il nichilismo segna fortemente la cultura russa anche perché legato ad un movimento di ribellione molto forte e di grande impatto sociale. È la rivolta dei “figli contro i padri”, contro l’autorità dei padri e i valori della loro tra-dizione, ridotti a nulla (religione, metafisica, estetica etc.). Bakunin (1814-1876) le-gava nettamente nichilismo e anarchia. Vi è poi l’opera letteraria di Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1991) con Delitto e castigo (1863), I Demoni (1873), I fratelli Karamazov (1879-1880). Troviamo qui la de-scrizione del dissolvimento dei valori tradizionali e delle conseguenze. Raskolnikov di Delitto e castigo, Stavogrin de I Demoni, Ivan de I fratelli Karamazov, descrivono la lacerazione degli ideali del cristianesimo (cfr. il racconto del Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov) e la sovranità del male. Queste letture influenzarono anche il ni-chilismo di Nietzsche. 12.2.7. Nichilismo e decadenza in Nietzsche Nietzsche, soprattutto nei frammenti degli anni ’80 che hanno poi portato alla Vo-lontà di potenza (1906), propone la prima riflessione approfondita sul nichilismo. Nie-tzsche è perciò il teorico del nichilismo, il primo dei quattro libri della volontà di po-tenza si intitola proprio Il nichilismo europeo. Già la sua riflessione sulla morte di Dio (La gaia scienza, 1882) aveva anticipato il di-scorso, ma anche gli autori su cui Nietzsche si è formato portavano a queste conclu-sioni. Schopenhauer, in particolare. Nietzsche individuerà però in Schopenhauer l’esponente più noto di un nichilismo passivo, ben lontano dunque dal suo modo di interpretare il nichilismo. Influirono inoltre Nietzsche anche le posizioni nichiliste di Philipp Mainlander (1841-1876),24 che professava la morte di Dio, un ateismo scientifico, una legge universale del dolore, la raccomandazione al suicidio per avversare la volontà (e infatti morì sui-cida). Nietzsche lesse poi Turgenev e Dostoevskij. La dottrina della decadenza di Nie-tzsche ha come precursore l’opera letteraria di Paul Bourget (1851-1935) che già in-dicava la necessità dell’artista forte, maturo e coraggioso per saperla affrontare. Nietzsche segue Bourget quando, in Nietzsche contra Wagner (1895, raccolta di vari frammenti precedenti) riprende più volte il tema della decadenza. La musica di Wag-ner ora esprime in maniera eccellente la condizione di decadenza propria del tempo.

24 Cfr. La filosofia della redenzione 1876.

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Nel Caso Wagner (1888) la decadenza viene ormai vista come un qualcosa da condan-nare. Le intuizioni di Bourget sono però recepite da Nietzsche all’interno della sua visione della storia dell’Occidente e il nichilismo “non è una causa, ma solo la logica della decadenza”.25 La fine del mondo classico è segnata dalla sentenza della morte di Dio “il più grande avvenimento recente”, perciò siamo nella decadenza, i valori transvalutano. Proprio la svalutazione dei valori supremi dice, secondo Nietzsche, il significato più vero della parola nichilismo. Non c’è più la catena che ci legava al sole. La storia europea va inesorabilmente verso la decadenza di tutti i valori su cui si era costruita. È il termine di un percorso iniziato con Platone e con la metafisica che postulavano un mondo ideale a fianco di quello reale, un mondo vero nascosto dietro un mondo apparente. Così il mondo vero è ora diventato favola (Crepuscolo degli idoli 1889). Il mondo sen-sibile era stato svalutato ad apparente e transitorio, la visione platonica era diventata popolare, e per tutti, con il cristianesimo.26 Ora, con Nietzsche, questo mondo vero, che in realtà è solo immaginario, può finalmente essere distrutto. Bisogna abolire la concezione del mondo apparente del platonismo (quello sensibile) perché appaia che esso è, in realtà, il mondo reale, l’unico vero ed esistente. È questo il messaggio del “grande meriggio” di Zarathustra. Non c’è un senso, non c’è un principio organizzatore,27 non c’è fine, unità, verità que-ste che sono tutte illusioni. Il divenire non ha uno scopo, non c’è qualcosa che unisca il tutto: nichilismo (T2). Ma nella condizione attuale è ancora funzionante una difesa, di fronte a tutto ciò. Questa difesa è costituita dalla fede. Non solo fede religiosa. Per Nietzsche è fede, infatti, anche il positivismo, il meccanicismo come spiegazione dell’universo, la filoso-fia della storia in tutte le sue forme, il socialismo, la democrazia, il naturalismo ed estetismo francese, etc. Abbiamo così, per ora, un nichilismo ancora incompleto, in attesa di completezza. Tutto questo è il nichilismo passivo, un meccanismo di difesa, già proposto dal buddi-smo e da Schopenhauer. Altra cosa è invece il nichilismo attivo che cerca addirittura di accelerare tutta quest’opera distruttiva e ritiene esplicitamente falso ogni atteggiamento di fede nella verità, nel senso, nei principi/valori etc. Questo nichilismo è però preludio ad una nuova affermazione di valori. Nietzsche si sente davvero il primo vero nichilista d’Europa (ma per ora anche l’unico). Nichilismo significa anche eterno ritorno quale sua forma estrema. Se tutto ritorna, allora non ci sono fini, non ci sono mete da raggiungere.

25 Frammenti VIII, 4 [55] 26 Che Nietzsche chiamava anche platonismo dei poveri. 27 Cfr. Nietzsche, Critica del nichilismo fr. VIII 2 [256-259].

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Solo il superuomo è in grado di sopportare questo terribile annuncio, perché lui è ormai andato oltre i valori e le convinzioni dell’uomo tradizionale e non si lascia più irretire da esse. Egli vive la volontà di potenza ed accetta il ritorno di tutte le cose. 12.2.8. Nichilismo, relativismo e disincanto nella cultura della crisi In un frammento (T3) Nietzsche ricorda la scoperta dell’eterno ritorno avvenuta a Sils Maria nell’agosto 1981.28 Il tema ritorna poi più volte, in particolare nello Zarathustra e in Al di là del bene e del male,29 ma la questione dell’eterno ritorno era (e resta) di difficile comprensione, perciò furono piuttosto le tesi della decadenza, del cambia-mento di valori e del nichilismo ad avere successo agli inizi del ‘900. La contrapposizione ad Hegel e al positivismo ha trovato in Nietzsche, e successiva-mente in Heidegger, uno sbocco che portava con sé il germe del nichilismo, un nichi-lismo che, come è noto, trovò terreno fertile nella crisi del ‘900 segnata dalle due guerre mondiali. Nacque così il mito-Nietzsche. Nietzsche stesso, in Ecce Homo aveva previsto che il suo nome, quello del primo im-moralista, distruttore della metafisica, della morale e della religione, avrebbe creato tanto scompiglio e tanto scandalo: “Io sono dinamite”! (T4)30 Artisti e letterati trovarono in Nietzsche un nume tutelare, così anche filosofi. Forte, in particolare, fu l’incontro tra il nichilismo di Nietzsche e lo storicismo, testimoniato dalla cosiddetta “filosofia della vita” che manifestava una sfiducia per l’apollinea ra-gione e predicava una apertura dionisiaca all’esistenza. L’esito è stato il relativismo del pessimista misticheggiante Georg Simmel (1858-1918). Ispirato a Nietzsche è poi Osvald Spengler (1880-1936) con la sua filosofia della storia che mette insieme relativismo, nietzschismo, nichilismo, filosofia della vita. Sua è la visione tragica del mondo presente nel Il tramonto dell’Occidente (in due libri, 1918 e 1922) dove propone una successione di civiltà che, come ogni individuo, nascono, cre-scono e muoiono, senza però un principio che regoli tutto ciò e senza che l’età suc-cessiva si fondi sulla precedente, in una continuità di legame. Ne consegue che la sto-ria non può avere uno sviluppo lineare, ma ciclico. La nostra civiltà occidentale è ora giunta al suo tramonto, come anche gli avvenimenti di quegli anni stavano ad indicare. Così se ne va l’ottimismo della belle epoque. In area tedesca e in area francese troviamo continuamente una critica alla civiltà oc-cidentale. Ciò dà effettivamente la sensazione di un qualcosa che sta per finire, che è giunto alla sua dissoluzione. Per Max Weber (1864-1920) la scienza aveva portato al disincanto secolarizzando tutte le visioni di mondo ed offrendo in cambio una sua descrizione oggettiva. Ciò da un lato è un bene, ma dall’altro è pericoloso, perché in questa condizione non siamo

28 11[219]1881. 29 Cfr. III° capitolo: l’essere religioso. 30 Friedrich Nietzsche, Ecce homo, Adelphi, Milano 2003, p. 127

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più capaci di fondare i valori e le scelte di vita. Il risultato è il “politeismo dei valori” e quindi la loro indifferenza e relatività. Epoca relativista e nichilista è la nostra, in essa si deve vivere con forza e coraggio. Chi non ce la fa tornerà a rifugiarsi nella fede e nelle chiese, rinunciando però alla ragione. 12.2.9. Il nichilismo estetico-letterario Accanto alla fiducia nel progresso e nella scienza si stava dunque affermando, agli inizi del ‘900, un’ondata irrazionalista di tutt’altro indirizzo: volontà di potenza, spirito vi-tale, inconscio. La sfiducia nella razionalità provocò, tra l’altro, una sorta di rifugio nell’arte. Thoman Mann (1875-1955) aveva letto Nietzsche ed è presente nelle sue opere la componente irrazionale della vita. La recezione del nichilismo di Nietzsche si trova ulteriormente in Robert Musil, Hermann Broch, Gottfied Benn. 12.2.10. Il nichilismo europeo nella storia dell’essere: Heidegger e Nietzsche L’autore del ‘900 che più di tutti si è confrontato con il pensiero di Nietzsche è stato Heidegger (1889-1976). Heidegger assegna a Nietzsche il ruolo di spartiacque tra la metafisica classica, che si compie nella volontà di potenza di Nietzsche, e il nuovo modo di darsi dell’essere nella contemporaneità. Heidegger cita Nietzsche già nella tesi di docenza La dottrina delle categorie (1916), ma ben più ampio è il riferimento in Essere e Tempo (1927). Qui egli riconosce in Nie-tzsche colui che sta sullo sfondo dell’epoca che stiamo vivendo. Heidegger stesso dice che Nietzsche diventa autore per lui fondamentale a partire dagli anni ’30. Punto di svolta sarebbe il corso universitario del 1929-1930 terminato con la citazione del canto dell’ebbrezza dello Zarathustra.31 Siamo alla svolta perché Heidegger sta lasciando come punti di riferimento quegli autori che, sulla base della metafisica classica, presentavano intenti fondativi (Aristotele, Kant, Leibnitz, Cartesio) e si avvicina a Nietzsche che porta a definitivo compimento questa parabola (La dot-trina platonica della verità 1942, corso inizi anni trenta), la critica (il mondo vero è favola!) ma ne resta dentro (con la teoria della volontà di potenza). Nel discorso di inizio rettorato32 Nietzsche viene ancora citato in riferimento all’afori-sma sulla morte di Dio. Si chiede di riflettere sulle conseguenze di tale evento. Per Heidegger la morte di Dio è annuncio parallelo alla propria convinzione “dell’abban-dono dell’uomo in mezzo all’ente”, cioè della condizione di esserci, di gettatezza in cui egli si ritrova, senza punti di riferimento e senza certezze. A ciò si associa l’espe-rienza dell’angoscia, intesa come esperienza del niente più originaria di quella a cui si arriva attraverso un ragionamento logico.

31 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Orsa Maggiore, Torriana (FO) 1993, pp. 268-274. 32 L’autoaffermazione dell’università tedesca 27 maggio 1933.

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Heidegger non era molto interessato agli aspetti filologici delle opere di Nietzsche, quanto a quelli filosofici.33 Essi iniziarono negli anni ’30, quando Nietzsche era dibat-tuto tra Jaspers, Löwith, Jüng ed altri. Il confronto di Heidegger con Nietzsche occu-perà diversi corsi universitari dal 1936 al 1946 e i risultati saranno raccolti nell’opera pubblicata nel 1961. Dal ’36 al ’40 Heidegger tenne corsi quasi esclusivamente su Nie-tzsche. 12.2.11. Perché il nichilismo Il termine nichilismo entra in Heidegger grazie a Nietzsche, ma non solo. Influisce in lui anche la consapevolezza della negatività del tempo e delle critiche alla metafisica comuni in quegli anni. Il termine si trova nel corso su Schelling dell’estate 1936, dove Heidegger parla del nichilismo tentando vie per superarlo. A tema per Heidegger è qui la questione dell’essere. Egli è attento al contributo che Nietzsche offre alla sua trattazione. Nietzsche conclude la parabola della metafisica occidentale iniziata da Platone, egli porta tutto a compimento affermando che ogni ente è espressione di volontà di potenza, soprattutto l’uomo e che vi è l’eterno ritorno dell’uguale. La centralità dell’essere in metafisica, continuamente erosa da Platone in poi, è ora persa del tutto. Heidegger prende soprattutto in considerazione i frammenti postumi, in particolar quelli che verranno a formare la Volontà di potenza. Egli fu molto critico della edizione curata dalla sorella di Nietzsche, Elizabeth e dall’amico di Nietzsche Peter Gast. Lui stesso si adoperò per una pubblicazione più corretta. La volontà di potenza esprime la fine del percorso moderno che pone al centro l’uomo. Essa è una metafisica incen-trata sul soggetto, non sull’essere. Questa è, precisamente, l’età della tecnica, dove centralità significa sfruttamento per il proprio personale tornaconto. 12.2.12. Nichilismo, esistenzialismo, gnosi La denuncia heideggeriana del nichilismo porta con sé la via d’uscita della svolta. La fine dei concetti e dei teoremi della filosofia tradizionale ha come risultato l’apertura della problematica del sacro e del divino. In questo senso vi è una sorta di vicinanza tra nichilismo e misticismo. Ciò farebbe pensare alla possibilità di un accostamento tra il pensiero di Heidegger e la gnosi (intesa come una conoscenza che porta al di-vino). Recuperare il paradigma gnostico come chiave interpretativa del ‘900 è una prospettiva dibattuta in particolare da Eric Voegelin (1901-1985) e Hans Blumemberg (1920-1996). Per Voegelin Heidegger, Marx, Nietzsche, sono tutti filosofi gnostici, essi indicano un percorso di redenzione, di recupero di un sapere, di una condizione nuova salvifica ottenuta grazie alla conoscenza. È evidente che siamo qui di fronte ad una sorta di

33 Benché fosse stato coinvolto per l’edizione critica delle opere, soprattutto dei frammenti della Volontà di Potenza.

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immanentizzazione della salvezza cristiana ripresa in chiave nichilista (perché Dio e i valori tradizionali non ci sono): questa è la modernità. Blumemberg invece difende la modernità che non è la secolarizzazione del cristiane-simo (secondo la nota tesi di Karl Löwith 1897-197334) ed è la sconfitta della gnosi in quanto nega il dualismo assolutizzando la dimensione terrena. La visione gnostica consente di interpretare meglio il nichilismo che diventa ora un moderno gnosticismo ateo che descrive la nostra tragica esistenza mortale. Ciò ha consentito una ripresa religiosa nella forma della teologia negativa o apofatica che evita la determinazione di Dio, oppure, da tutt’altro lato, ha portato ad un rifiuto religioso con l’esistenzialismo ateo (Sartre, Camus), la negazione di principi e valori in nome della libertà e la negazione di essenze prestabilite che la negherebbero (per questo l’esistenza precede l’essenza e la determina). 12.2.13. Nichilismo, posthistoire, fine della storia: Kojeve, Gehlen Il nichilismo attacca anche le filosofia della storia avendo alle spalle lo storicismo e il positivismo della storia (che considera i fatti storici come a sé stanti, negando legami, rapporti e mete/scopi), già Nietzsche aveva fatto le sue critiche, nella seconda delle sue considerazioni inattuali35, alla moderna comprensione scientifica della storia che rende l’uomo incapace di fare storia, paralizzato nell’agire dal peso di una conoscenza del passato che lo condiziona. Anche da altri segnali si comincia a teorizzare la fine della storia e l’inizio di un’epoca post-storica, la posthistoire. È posizione che rifiuta la visione lineare di un progresso della storia. Alexandre Kojève (1902-1968) formula la fine della storia in una originale lettura he-geliana e marxista. La storia finisce con la vittoria di Napoleone a Jena (1806). Grazie a Napoleone i principi di libertà ed uguaglianza della rivoluzione francese sono ora affermati nel mondo. Termina la lotta che ogni uomo deve intraprendere per farsi riconoscere dall’altro e raccontata nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (preci-samente nella dialettica servo-padrone), dunque termina anche la storia, ma così l’uomo della post-storia non è più pienamente uomo. Pacificato, egli non realizza più storia. Ma allora regredisce allo stato animale, teso alla soddisfazione dei desideri, nel gioco e nell’amore. Ciò si può trovare realizzato, secondo il russo Kojève, nell’Ameri-can way of life. La società capitalistica avanzata americano porta a compimento la storia, e dunque ne decreta la fine, anche per Francis Fukuiama.36 Arnold Gehlen (1904-1976), tedesco, ha parlato di post-histoire in chiave conserva-trice, non marxista. Siamo in una stasi della storia che lo sviluppo tecnologico-indu-striale cristallizza nel suo tendere a diffondersi dappertutto. Non vi è niente allora di

34 Cfr. Karl Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Il Saggiatore, Milano

1989 (ed. or. 1947) 35 Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e danno della storia per la vita, 1874. 36 È la nota tesi del saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992.

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nuovo, niente di diverso, non si esce da questo solco. Non vi è più il lieto fine, non si guarda più al futuro, ma al presente. Anche questo è nichilismo. 12.2.14. Tecnica e nichilismo Per molti la tecnica è oggi responsabile del decadimento dei valori tradizionali e dun-que anche dell’accadere del nichilismo, tenuto anche conto della sua evidente globa-lizzazione. Oggi si parla perfino di filosofia della tecnica accettando perciò come scon-tata questa situazione. In generale queste filosofie del genitivo (oggi c’è una filosofia per ogni cosa…) segnano l’incapacità della filosofia di essere come è nata, cioè riflessione sul tutto/intero, non su una parte o addirittura su un dettaglio. Può essere la tecnica oggetto di indagine filosofica? Certamente i suoi effetti sulla vita e sull’uomo sono evidenti. Già Rousseau (1712-1778) si domandava nel 1750 se la scienza sia servita a purificare i costumi e sferrava un attacco alla civiltà, all’illuminismo, all’illusione del progresso: nella misura in cui la scienza e le arti procedono verso la perfezione, le anime degli uomini si sarebbero corrotte. Questa società porta così alla decadenza.37 Molti autori hanno in effetti poi seguito questi filone. 12.2.15. Il conflitto tra tecnica e umanesimo Gli effetti negativi della tecnica si erano già visti con la rivoluzione industriale, ma l’ot-timismo del progresso aveva illuso di poter così risolvere ogni problema. Dopo il po-sitivismo, anche nel primo ‘900 la filosofia non ha per lo più criticato la tecnica ed ha pensato che la razionalità scientifica possa contribuire all’umanesimo. Si distingueva tra scienza e tecnica, la prima è neutra ed accumula sapere ed è dunque un bene in sè, la seconda passa alla sua applicazione pratica e va valutata. Entrambe sono un valore che va salvaguardato. In particolare la libertà di ricerca scientifica non deve sopportare vincolo alcuno. Ma da alcuni decenni le cose sono cambiate di fronte al fatto che scienza e tecnica sono diventate preponderanti nella nostra società globalizzata. Si intravedono i peri-colo della loro applicazione perché si comincia ad erodere il quadro simbolico tradi-zionale entro il quale erano cresciute. Ora che scienza e tecnica promuovano sempre l’umano non è più scontato.38 La scienza va per la sua strada se non arginata in un contesto umanistico, essa si sente sempre neutrale rispetto ai sistemi valoriali. Anche questa è, in fondo, una forma di nichilismo.

37 Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Discours sur cette question: le retablissement des science set des artes a-t-il contribué à

epurer les moeurs? 1750. 38 Una lettura del pensiero del ‘900 come reazione al mondo della tecnica è quella offerta da Gianni Vattimo in Tecnica

ed esistenza, Bruno Mondadori, Milano 2002.

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Ci si comincia allora a domandare se non si debbano mettere dei paletti alla ricerca, qui ci vuole cautela e vigilanza. Come già Heidegger aveva intuito/denunciato, l’uomo non è preparato a vivere una trasformazione così veloce del mondo. Scienza e tecnica non possono offrire visioni di mondo, offerte di senso, quadri simbolici di vita, riferimenti al bene. Esse risolvono problemi, ma i problemi meno importanti. Esse hanno disincantato il mondo, tolto i fondamenti, senza offrire realmente qualcosa di alternativo. Ci si rifugia allora in forme di compensazione alternative alla razionalità scientifica: mito, religione, occul-tismo, sacro etc. 12.2.16. Per una antropologia a misura della tecnica Siamo spaesati, ma l’umanesimo deve poter offrire un quadro in cui inserire lo svi-luppo scientifico, affinché esso sia ancora umano. Dalla grecità abbiamo recepito la condizione dell’uomo come animale politico, dalla Bibbia quella di uomo come per-sona. Da Pico della Mirandola (1463-1494) la convinzione che l’uomo sceglie la sua forma, il suo destino. L’uomo è fine in sé, mai mezzo (Kant). Ma oggi l’esistenzialismo ci ha detto che l’esistenza dell’uomo precede la sua essenza, cioè la definisce e dun-que saltano le essenze. Lo sviluppo scientifico ha così rotto l’ipotesi di una definizione condivisa di umanità. La tecno-scienza, specie con l’intervento sul genoma umano, sta trasformando l’uomo senza un riferimento condiviso ad una guida responsabile. An-che questo è effetto del nichilismo. 12.2.17. Il nichilismo in Italia Per Franco Volpi la filosofia italiana è stata sensibile al tema del nichilismo il cui ter-mine si trova già in Pasquale Galuppi (1770-1846)39 per indicare il niente del divenire in Zenone di Elea. Così anche Carlo Cattaneo (1801-1869). Il De Sanctis (1817-1883) parla di nichilismo in Leopardi (1798-1837). Albero Caracciolo (1918-1990) e Luigi Pareyson (1918-1991) hanno messo a tema il nichilismo nella diagnosi della cultura contemporanea, esso è esperienza decisiva del ‘900, va compreso bene e superato, attraverso la via del recupero del sacro. Gianni Vattimo (1936) vede nel disagio verso il nichilismo solo il segno che la nostra cultura non è ancora sufficientemente nichilista perché continua a cercare un senso da imporre alle cose. Bisogna invece rinunciare alle categorie forti della metafisica classica e fondativa, in nome di una ontologia debole che accetti il divenire, che è senza senso, che è ciò che è, e non ha un significato in cui irrigidirlo. La frammentazione del reale non può essere ricondotta ad unità. Questa unità, la grande meta della filosofia, proprio non c’è, dunque non si deve neppure avere no-stalgia di essa. Con Nietzsche dobbiamo essere nichilisti coraggiosi fino in fondo.

39 Cfr. Considerazioni filosofiche sull’idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto, 1845

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Se si accetta questo, allora il nichilismo può essere vissuto con serenità, in forma gaia, senza false nostalgie, un nichilismo attivo alla Nietzsche, appunto. Emanuele Severino (n. 1929) spiega la vicenda della civiltà occidentale come nichili-smo e tecnica in un modo che è vicino alla posizione di Heidegger, per il quale, ap-punto, la metafisica classica si compie nel nichilismo e nell’essenza della tecnica mo-derna. La differenza è che Heidegger legge il tutto all’interno dello svolgersi, del dirsi dell’es-sere come evento in chiave storico-epocale (lungo la storia l’essere si dà a noi in modo via via differente), mentre, ovviamente, per Severino l’essere non ha a che fare con il tempo in quanto il tempo implica il divenire e il divenire è contraddittorio (dato che ammette il non-essere). Per Severino il pensiero moderno è allora nichilista perché in tutti è sottesa la volontà che l’ente sia niente (cioè niente di stabile, che nasce e muore), ciò perché tutte le forme di pensiero credono, con il famigerato Eraclito, nella realtà del divenire per il quale le cose nascono e muoiono, cioè vengono dal niente e al niente ritornano. È questo il grande errore dell’Occidente. È nel dire che l’ente è niente che siamo nichilisti, ma qui, per Severino, vi è una con-traddizione da denunciare, perché l’ente, se esiste, non può essere niente, cioè non può venire dal niente ed andare al niente. Tutto ciò che ha a che fare con il divenire è allora nichilismo perché ammette il non-essere. L’aspetto pratico e il vertice di tutto ciò è lo sviluppo della tecnica che fa e disfa, realizza e distrugge. La tecnica è nichilismo. C’è allora affinità tra Dio (il Dio crea-tore del cristianesimo fa e disfa) e la tecnica, e Dio e tecnica sono espressione di ni-chilismo. In questa prospettiva, per Severino, gli immutabili dell’Occidente (ideali, valori, forme etc.) si consumano in quanto abitano il tempo. È il destino di tutto ciò che riguarda il tempo e dunque il divenire. È questo il destino del cristianesimo, del capitalismo, del marxismo, delle filosofie etc. Si sfaldano tutte le illusioni perché non sono fondate. Bisogna perciò riprendere la via del giorno di cui parlava Parmenide. Il parricidio va fatto con Platone (il primo responsabile della degenerazione in quanto ci illuse di aver risolto la questione di Parmenide con la seconda navigazione), ripor-tando tutto ad un livello, l’unico livello possibile, il livello dell’essere eterno ed immu-tabile. Perciò il divenire diventa apparire e scomparire delle cose, non loro nascere e morire. Per Severino il pensiero deve saper dire tale verità e lo può fare quando riesce a ve-dere la realtà sub specie aeternitatis cioè dal punto di vista dell’Assoluto, non dal punto di vista finito del tempo come è per l’uomo comune che così accetta il divenire dell’esperienza quotidiana. C’è qui uno spostamento verso Spinoza.

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12.2.18. Oltre il nichilismo? ll fantasma del nichilismo si aggira ancora nella cultura contemporanea, ma molti hanno cercato di sconfiggerlo, specie sul piano della morale. C’è oggi una diffusa do-manda di etica. Ma l’etica oggi è babelica, vi è perfino una neuro-etica, manca un paradigma condiviso. L’ipotesi di una legge naturale è fortemente contestata. L’unico paradigma sembra essere quello imposto dalla scienza/tecnica. Come reagire? Oggi il nichilismo ci insegna che non vi è più una prospettiva privilegiata, né filosofico-metafisica, né religiosa. Siamo senza radici, navighiamo a vista, non ci sono bussole, né rotte o percorsi dopo il disincanto. Il nichilismo fa saltare le religioni, ma anche tutte le ideologie, gli assolutismi e i dog-matismi. Non ci restano che le convenzioni. Questo è ormai il post-moderno.

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13. LA VERITA’40 Cartesio, all’inizio del suo Discorso sul metodo (1637) ha sostenuto che il buon senso, o ragione, è la qualità meglio distribuita al mondo e che essa consiste nel saper distin-guere con certezza il vero dal falso.41 Parlare oggi di verità può sembrare invece fuori luogo, desueto, oppure frutto di or-goglio e superbia, specialmente se essa ha a che fare con la sfera dei comportamenti, della legge morale.42 Verità sa oggi, per molti, di dogmatico, di impositivo, addirittura di violento. Ma tutta la ricerca umana, e da sempre, è stata una ricerca del vero come condizione per raggiungere la realizzazione/felicità. La nostra stessa natura inten-ziona dunque la verità, cioè tende verso di essa, è fatta per raggiungerla. I sensi prima e la ragione poi (che, classicamente, pensa i dati sensibili) intendono comprendere ciò che ci circonda. La crisi della verità pone inoltre una questione non solo teoretica, ma anche pratica. Si può vivere senza una verità? senza alcuna certezza? La questione è stata centrale nel pensiero del ‘900 e lo è tuttora, ma le sue radici vanno rintracciate già nella seconda metà del XIX secolo e precisamente nell’opera filosofica di Friedrich Nietzsche (1844-1900). Nietzsche si è formato nell’epoca del po-sitivismo, cioè nel tempo dell’ottimismo per la scienza, nell’epoca del socialismo e dell’umanitarismo, ma fu sempre critico verso queste correnti di pensiero di cui ha piuttosto cercato di smascherare i veri moventi psicologici, tutti legati a quella che chiamerà poi volontà di potenza, cioè ad una forma di egoismo che è costitutiva l’identità di ciascuno, lo si sappia o no. I valori della tradizione sono menzogna, ma è menzogna anche la pretesa di verità che le filosofie e le religioni difendono.

40 Cfr. Antonino Poppi, La verità, La Scuola, Brescia1988; Antonio Pieretti, Verità, in Enciclopedia filosofica Bompiani,

vol 12, pp. 12049-12071; Guido Fornero, Verità, in Dizionario Filosofico Abbagnano, Vol III, pp. 742-760; Bruno Puntel,

Verità, in I concetti fondamentali della filosofia, Queriniana, Brescia 1982, vol III, pp. 2316-2337. 41 “Il buon senso è la cosa meglio distribuita al mondo: ciascuno infatti pensa di esserne così ben provvisto che anche

coloro che in tutte le altre cose sono i più difficili da accontentare, non hanno l’abitudine di desiderarne di più di quanto

ne hanno. Nella qual cosa non è verosimile che tutti si ingannino, ma piuttosto ciò attesta che la capacità di ben giudicare

e di distinguere il vero dal falso, che è ciò che propriamente si chiama buon senso o ragione, è naturalmente uguale in

tutti gli uomini”. Renato Cartesio, Discorso sul metodo, a cura di L. Urbani Ulivi, Rusconi, Milano 1999, pp. 87-89. 42 La Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato nel 2009 un ampio documento, frutto di un lavoro collegiale

durato alcuni anni, sul tema della legge naturale che viene difesa e riaffermata. CTI, Ricerca di un’etica universale: uno

sguardo sulla legge naturale. “Purtroppo da decenni, con il pretesto che ogni pretesa di verità oggettiva ed universale

sarebbe fonte di intolleranza e che soltanto il relativismo potrebbe salvaguardare il pluralismo dei valori e la democrazia,

si fa l’apologia del positivismo giuridico, che rifiuta di riferirsi a un criterio oggettivo del giusto”. Editoriale, La civiltà

Cattolica, n. 3816, p. 534.

Papa Benedetto XVI così afferma: “In tutte le culture ci sono singolari e molteplici convergenze etiche, espressione della

medesima natura umana, voluta dal Creatore, e che la sapienza etica dell’umanità chiama legge naturale. Una tale legge

morale universale è saldo fondamento di ogni dialogo culturale, religioso e politico e consente al multiforme pluralismo

delle varie culture di non staccarsi dalla comune ricerca del vero, del bene e di Dio”. Benedetto XVI, Caritas in veritate,

n. 59. E ancora “Per educare bisogna sapere chi è la persona umana, conoscerne la natura. L’affermarsi di una visione

relativistica di tale natura pone seri problemi all’educazione, soprattutto all’educazione morale, pregiudicandone l’esten-

sione a livello universale. Cedendo ad un simile relativismo, si diventa tutti più poveri, con conseguenze negative anche

sull’efficacia dell’aiuto alle popolazioni più bisognose”. Id, n. 61.

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Nel 1873 il giovane Nietzsche scrive un breve saggio (pubblicato postumo), Su verità e menzogna in senso extramorale, dove nega la possibilità di possedere e dire la ve-rità. Le parole, infatti, sono tutte metafore, “esercito mobile di metafore”,43 che non hanno mai un rapporto esclusivo con la cosa detta, con l’essere effettivo delle cose. Ogni discorso, ogni affermazione, è solo la metafora vincente oggi, quella affermatasi, ma non è la verità. Queste metafore, denuncia Nietzsche, sono quelle dei potenti, dei vincitori della storia, sono un qualcosa di imposto secondo un meccanismo spesso nascosto, se non inconscio. Per questo le metafore sono fonte di menzogna, ma in senso extramorale, data la loro inevitabilità, e la loro legittimità è solo imposizione storica. Circa una visione critica sulla verità Nietzsche è del resto poi intervenuto più volte.44 13.1. RIFLESSIONI STORICHE 13.1.1. Il paradigma classico La Verità nel mondo antico Il tema della verità è presente nel mondo classico già nelle opere di Omero ed Esiodo. Essa viene qui considerata come universale prerogativa degli dei. Il filosofo non smentisce il poeta, ma sa dei suoi limiti (è amico della sapienza, non sapiente, sapienti sono solo gli dei) e, al posto del mito, ricorre al logos. Il logos è, pur nelle modalità diverse in cui ci viene presentato, la legge profonda che governa tutte le cose e che dà loro unità di fronte al molteplice e al divenire. Poter cogliere questo logos significa avere la sapienza, avere quasi tratti divini, o co-munque poter guardare al mondo come degli dei. Parmenide riceve una sorta di rive-lazione dalla dea, quando annuncia i suoi principi. Per Platone la verità delle cose può essere colta, grazie alla ragione umana, a partire dalle cose stesse, ma non fermandosi ai sensi, che ci danno una visione opaca, incerta

43 “Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di

relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite ed abbellite e che dopo

un lungo uso sembrano ad un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui ci si è dimenticata la

natura illusoria, sono metafore che si sono logorate ed hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine

si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Sinora noi non

sappiamo onde derivi l’impulso verso la verità; sinora infatti abbiamo inteso solo parlare dell’obbligo imposto dalla so-

cietà per la sua esistenza: essere veritieri, cioè servirsi delle metafore usuali”. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso

extramorale, in Opere complete, a cura di Colli-Montinari, vol. III, tomo II, Adelphi, Milano 1990, p. 361. 44 La convinzione è la credenza di essere, in un qualche punto della conoscenza, in possesso della verità assoluta. Questa

credenza presuppone dunque che si diano verità assolute; così anche che siano stati trovati quei metodi perfetti per giun-

gere ad esse […] l’uomo delle convinzioni non è l’uomo del pensiero scientifico. […] Interi millenni hanno però vissuto

con quei presupposti puerili, e da essi sono sgorgate le più potenti fonti di energia dell’umanità. Gli innumerevoli uomini

che si sacrificarono per le loro convinzioni, credettero di farlo per la verità assoluta. […] Se tuttavia tutti coloro che

pensavano così altamente della loro convinzione, da farle sacrifici di ogni specie e da non risparmiare, per servirla, onore,

corpo e vita, avessero dedicato solo la metà della loro forza a indagare con quale diritto arrivavano a questa o a quella

convinzione, per qual via erano giunti ad essa; come apparirebbe pacifica la storia dell’umanità! Quanta più conoscenza

ci sarebbe! Tutte le crudeli scene di persecuzione degli eretici di ogni specie ci sarebbero state risparmiate.

F. Nietzsche, Umano troppo Umano, vol I, aforisma 630, Adelphi, Milano 2002, pp. 298-299.

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e di continuo variabile, bensì attraverso la ragione, in un procedimento dialettico/fi-losofico che ci consente di raggiungere, grazie alla seconda navigazione, il luogo im-mutabile ed eterno della verità, cioè il mondo delle idee. La verità del mondo sensibile si trova perciò in un mondo non sensibile, intelligibile, “popolato” di idee molteplici, ma tutte generate dall’idea suprema che sta oltre, cioè l’idea del Bene (l’Uno delle dottrine non scritte). Per Platone è vero un discorso che dice le cose come sono,45 siamo perciò vicini al concetto di conformità che si affermerà successivamente. Per Aristotele la filosofia è scienza della verità, essa è episteme, cioè poggia su fonda-menti indubitabili, su principi primi evidenti. Conoscere una cosa significa conoscere le sue cause (materiale, formale, efficiente e finale). La verità è l’orizzonte di ogni conoscenza, ma essa non può essere colta in pienezza per i limiti del sapere umano. La nostra intelligenza si trova infatti nella stessa condi-zione di difficoltà in cui si trovano gli occhi della nottola alla luce del giorno.46 Sia per Platone che per Aristotele la verità e la falsità stanno nei nostri enunciati, non nelle cose. Essi sono affezioni della mente, si trovano nel discorso che è vero se ri-specchia la realtà (più avanti si dirà “adeguazione”), falso se non la rispetta. Stoicismo ed epicureismo torneranno poi a dare valore centrale veritativo ai sensi i quali ci dicono con certezza la verità sulla realtà che sta al di fuori di noi. La Verità nel pensiero medievale Nel periodo patristico, segnato dalla presenza del cristianesimo, Dio stesso diventa la fonte e la garanzia della verità. Il logos della filosofia classica diventa così la sapienza di Dio, la cui manifestazione massima è il Figlio. Perciò la verità è prima di tutto frutto di una rivelazione. Ciò significa anche che una pienezza di verità sarà disponibile in pienezza solo alla fine dei tempi. “Esiste una verità delle cose che è ciò per cui esse assomigliano al loro principio che è Dio; e in questo senso Dio stesso è la prima e la somma verità”.47 Si prende atto che Dio è il creatore presente come impronta/sigillo nelle realtà create. Dunque, a partire da esse, si può risalire a Lui, suprema verità, per quanto almeno la nostra mente è in grado di fare. Dopo le invasioni barbariche e secoli difficili per la cultura, fu la nascita della scuola carolingia nel nono secolo a dare energia alla filosofia e alla ricerca sulla verità. Il primo trattato De Veritate si deve ad Anselmo d’Aosta (1033-1109). Vi è un principio di rettitudine delle cose che le rende vere e le tiene in vita, esso proviene diretta-mente da Dio che è il creatore. Le proposizioni della mente sulla realtà sono vere per

45 Cfr. Platone, Cratilo 385b. 46 Cfr. Aristotele, Metafisica, II, 993b. 47 Guido Fornero, Verità in: Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, vol III, p. 743.

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lo stesso principio di rettitudine, quando cioè esse rispecchiano la realtà stessa, attra-verso un giudizio adeguato, conforme alla cosa. Tommaso definisce così la verità come “conformità dell’intelletto e della cosa”48. Tale conformità non è percepita direttamente dai sensi, bensì dall’intelletto. La Verità nel pensiero moderno “Il concetto dell’adeguazione o della conformità perde, a partire dal sec. XIV, la sua portata metafisica e teologica, per assumere un significato strettamente logico, o, come oggi si direbbe, semantico”.49 In generale si perde cioè il concetto di verità come proprietà della cosa a cui la mente si adegua. 1. Da un lato abbiamo comunque anche affermata la continuità con il paradigma clas-sico dell’adeguazione, per esempio nei neoplatonici di Cambridge, per i quali la verità è adeguazione dei contenuti della mente con la realtà. Così Vico (1668-1744) che vede in Dio il fondamento ultimo di tale correlazione. 2. Ma il filone più consistente del pensiero moderno è quello inaugurato da Cartesio. Tralasciata l’attenzione verso il mondo esterno, sempre incerto, cade il criterio della verità come adeguazione. Cartesio (1596-1650) concentra tutta la sua attenzione sul criterio dell’evidenza, la prima regola del metodo,50 per la quale solo ciò che appare con chiarezza e distinzione può essere considerato vero. Tale apprensione è una in-tuizione della nostra mente rivolta ad idee che sono in noi e che presentano tali ca-ratteristiche (cioè sono chiare e distinte). In questa prospettiva si parte sempre dalle idee che possediamo, per poi sostenere l’esistenza di Dio e, successivamente, del mondo esterno. Perciò il criterio di adeguazione non va alla realtà esterna, qui si resta sempre chiusi nel soggetto. In Spinoza (1632-1677) le cose sono simili, la verità ha a che fare non con le cose esterne, ma neppure con le cose interne del cogito, bensì direttamente con il Dio/so-stanza. Così si spiega la conformità. Del resto, a rigore, per Spinoza non esistono cose interne e cose esterne in quanto tutto è Dio. Leibniz (1646-1716) aggiunge una distinzione tra verità di ragione, necessarie, il cui contrario è contraddittorio e verità di fatto che sono contingenti e possono esserci e non esserci. In Kant la verità a noi disponibile è sempre e solo fenomenica, è la verità delle nostre rappresentazioni, che sono tali in forza delle strutture a priori della mente. Gli oggetti percepiti sono sempre adeguati a queste strutture. Dunque, in questo senso, pos-

48 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I q. 16, a. 2. 49 Guido Fornero, Verità in Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, vol III, p. 743. 50 “Non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi con evidenza essere tale: vale a dire, di evitare accu-

ratamente la precipitazione e la prevenzione, e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di ciò che si presentasse

alla mia mente così chiaramente e distintamente, che io non avessi occasione alcuna di metterlo in dubbio”. Renato Car-

tesio, Discorso sul metodo, a cura di L. Urbani Ulivi, Rusconi, Milano 1999, p. 121.

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siamo ancora parlare di verità come adeguazione. Qui né il cogito, né Dio sono fonda-mento, ma l’io penso che, accompagnando tutte le rappresentazioni, ne assicura la loro verità fenomenica universale. Per Hegel (1770-1831) “vero è l’intero” che si realizza, e si riconosce come tale, nel suo sviluppo. Si tratta di una verità onnicomprensiva tale da conservare al suo interno anche il negativo. È questa una radicalizzazione della verità intesa come adeguazione del pensiero con se stesso. 13.1.2. La revisione del paradigma classico La Verità come utilità Oltre il paradigma classico si colloca, nel pensiero contemporaneo, la posizione prag-matica che fa coincidere il vero con l’utile. Già presente in Marx e Nietzsche (“Vero non significa se non ciò che è adatto alla conservazione dell’umanità”, Volontà di po-tenza), si è poi sviluppata nell’area anglosassone. Così per Charles Sanders Pierce (1839-1914) la verità non ha una consistenza ben de-finita perché si dà solo come certezza soggettiva o opinione ipotetica (tale è la verità della scienza). Per William James (1842-1910) la verità è relativa ai benefici vitali che rende possibili. Per lo stesso motivo la verità è il fine della ricerca. Perciò vero è il buono e l’utile e la verità non è più un qualcosa di definito, immutabile e fisso nel tempo, ma è nella logica del processo/sviluppo/progresso. La Verità come rivelazione o manifestazione La fiducia per i sensi da parte degli empiristi li porta a pensare la verità dell’ente come frutto di un suo rivelarsi/manifestarsi a noi che viene percepito grazie agli organi di senso. Ma vi è anche una versione metafisica di questa impostazione, per cui la verità è ma-nifestazione dell’essere, o una versione teologica, in cui a rivelarsi è Dio. Per Cartesio l’evidenza originaria è un qualcosa che si offre a noi, alla nostra intui-zione. Per Karl Jaspers (1883-1969) la verità coincide con l’essere tutto abbracciante, che è come l’orizzonte di esistenza degli oggetti, mai totalmente compreso, ma pur sempre disponibile, in particolare attraverso le esperienze-limite che facciamo, che sono cifre della trascendenza. Il paradigma classico della adeguazione è del tutto trasformato in Heidegger. Ora il luogo della verità non è più il giudizio, ma l’apertura in cui l’esserci (cioè l’uomo) si trova gettato nel suo progetto da vivere in una forma autentica. Detti in altre parole l’uomo definisce identità dell’ente quella per la quale un ente è quell’ente, è quel particolare svelamento dell’essere (che un martello sia tale lo de-cide il progetto-uomo di chi lo usa. Se l’uomo è un falegname esso avrà una sua iden-

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tità, ma se questi è un violento, il martello diventa corpo contundente, arma per uc-cidere). Perciò Heidegger dice che l’essenza della verità (cioè l’identità/vocazione di un oggetto) è la disvelatezza/manifestazione dell’ente che dipende dalla libertà, poi-ché il suo dirsi dipende infine dalla scelta dell’uomo. Si tratta, però, di una libertà re-lativa, poiché le scelte dell’uomo dipendono sempre dalla propria condizione proget-tuale che è quella di un essere gettato e tale gettatezza non dipende da lui. Questa centralità dell’uomo viene successivamente a perdersi. Dopo la Khere (la svolta del pensiero di Heidegger da collocarsi attorno alle metà degli anni ’30), verità tende a coincidere principalmente con l’accadere dell’essere stesso. Il luogo della ve-rità non è più l’uomo, ma, in toto, l’essere (antiumanismo di Heidegger). Inoltre per Heidegger adesso verità implica ancora di più la non-verità perché verità è a-letheia, svelamento, dunque un’azione preceduta da un velamento. La verità si svela perché prima si era velata/nascosta. Anche la fenomenologia si interessa della verità. Essa è in fondo un metodo che ci consente di cogliere l’offrirsi a noi delle essenze degli enti. La Verità come corrispondenza/conformità/adeguazione La teoria della corrispondenza/adeguazione è ben presente nei primi decenni del XX secolo. È teoria che fa riferimento ad una visione del mondo realista. George Edward Moore (1873-1958) e Bertrand Russel (1972-1970) sono su queste posizioni. Verità come corrispondenza è la posizione di Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Vi è una relazione tra i nomi e gli oggetti, solo il confronto con la realtà consente di definire il vero e il falso. Poi però Wittgenstein stesso ammette la difficoltà per il linguaggio di dire la verità, aprendo la porta alla mistica. Moritz Schlick (1882-1936) e il circolo di Vienna legano piuttosto la possibilità di un enunciato vero alla sua verificabilità in chiave empirica. La Verità come coerenza È tesi già presente negli idealisti inglesi della seconda metà del XIX° secolo (Francis. Herbert Bradley 1846-1924): vi deve essere coerenza tra le affermazioni vere, ciò che è contraddittorio non può essere reale. Per Otto Neurath (1882-1945) del circolo di Vienna un enunciato è vero quando con-corda con gli altri enunciati del sistema linguistico. Ma è lo stesso sistema linguistico che poi può venir modificato per accogliere nuovi determinati enunciati scoperti che dicono nuove proprietà degli enti. 13.1.3. Il rifiuto del paradigma classico Teorie semantiche della Verità Ben più critiche riguardo il tema della corrispondenza sono le teorie semantiche della verità. Già introdotta da Gottlob Friedrich Ludwig Frege (1848-1925) che negava la

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corrispondenza e dunque limitava vero e falso ai pensieri, la teoria semantica della verità si deve prima di tutto ad Alfred Tarski (1902-1983). Non si va alla realtà, tutto si gioca all’interno degli enunciati. La filosofia analitica ha fortemente seguito questi filone. Le teorie deflazionistiche (Frank Plumpton Ramsey 1903-1930) della verità, della ri-dondanza, renderanno infine inutile il concetto stesso di verità ritenuto e definito ri-dondante. Teorie ermeneutiche Nietzsche denuncia che ciò che per secoli si è spacciato per verità in realtà è una men-zogna vera e propria tenuta in vita per interesse, per sopravvivenza sociale. Questo a cominciare dal sogno platonico di un mondo vero. Così la volontà di verità è un tratto di volontà di potenza perché l’uomo non è capace di sopportare la verità di un mondo crudele, falso e contraddittorio, senza senso né meta e di porsi di fronte ad esso dio-nisicamente, da super-uomo. Con Gadamer la verità si manifesta nel linguaggio, ad essa si accede in forma non metodica (cioè non nel modo del metodo scientifico) ma “eventuale” (=che si dà come evento) nel senso che la verità degli oggetti, delle cose del mondo, è sempre storiciz-zata nell’orizzonte concreto dell’interpretante. Perciò non si afferra mai la verità in modo definitivo, in quanto tutto dipende dal contesto in cui essa si dà. L’ermeneutica “di destra” ha ripreso queste suggestioni evitando che esse compor-tino però uno scivolamento verso il relativismo o una deriva verso il pensiero debole. Si è così tentata una ermeneutica che non rinunci ad un fondamento solido, un’erme-neutica che non sia un succedersi infinito di interpretazioni. Per Luigi Pareyson (1918-1991) la verità è unica e senza tempo, ma essa ci trascende ed è perciò oggetto di continue interpretazioni. Così la pluralità delle descrizioni sempre possibile non la di-sperde, ma la arricchisce, consente alla verità stessa di parlare a tutti, perché essa trascende tutti e tutto ed è sempre ulteriore. Così Pareyson elabora una “ontologia dell’inesauribile” che si colloca a metà tra l’illusione di una esplicitazione totale (He-gel) e la negazione del misticismo heideggeriano. Analoga è la posizione di Paul Ri-coeur (1913-2005). L’ermeneutica “di sinistra” risolve decisamente la verità nel pluralismo delle interpre-tazioni legate alle diverse aperture storiche (Richard Rorty 1931-2007, Jacques Der-rida 1930-2004) e ai mutevoli punti di vista. La verità non dipende da essenze metafi-siche, da qualcosa di stabile e immutabile, bensì si sottrae continuamente, proprio laddove si concede.

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Verità nel pensiero debole Ogni enunciato vero è tale in riferimento ad un orizzonte che lo rende possibile. Esso è dato dal contesto culturale proprio di una comunità, dall’insieme delle sue tradi-zioni. Tale contesto, però, non va confuso con un fondamento stabile e definitivo, ma è l’orizzonte originario cui ognuno appartiene. Questa è la nostra condizione, essa è il momento della storia dell’essere che stiamo vivendo. Ora l’essere si offre in forma debole, sotto forma di mezze verità in un mondo in cui coesistono molte verità. Siamo nella biblioteca di Babele, molti libri spie-gano il mondo. Per Gianni Vattimo questo significa pensare il nichilismo post-moderno in cui i valori assoluti e le affermazioni metafisiche sono nulla. Modelli forti di Verità Vi sono però ancora oggi studiosi che si collocano, all’opposto, all’interno della tradi-zione classica o neo-classica, che pensano ancora ad un pensiero forte, alla verità come adeguazione, ad un essere intelligibile. Un esempio è Emanuele Severino per il quale la verità coincide con la struttura eterna dell’essere. Anti-debolisti sono anche Karl Otto Apel (n. 1922) e Jürgen Habermas (n. 1929). Tutti coloro che parlano e pensano devono ritrovarsi in un orizzonte comune, diversa-mente ogni comunicazione sarebbe impossibile. Queste posizioni forti sono in minoranza nel pensiero contemporaneo. Lo scontro tra posizioni forti e posizioni deboli caratterizza il panorama filosofico oggi. 13.1.4. Conclusioni La teoria dell’adeguazione ha ricevuto due attacchi, il primo, all’inizio dell’età mo-derna, con il primato della conoscenza sulla teoria dell’essere, ci ha portato alla rivo-luzione copernicana prima e all’assolutizzazione della ragione idealistica poi. Il secondo, per la priorità riconosciuta alle questioni semantiche, è stato ancora più radicale. Tuttavia gli aspetti gnoseologici e quelli semantici della verità non hanno eliminato l’aspetto ontologico della stessa, che resta anche oggi, benché indebolito. 13.2. RIFLESSIONI TEORETICHE 13.2.1. La verità come adaequatio Prima di tutto, in generale, la negazione radicale della verità è, in filosofia, una con-traddizione logica. È la nota posizione dello scettico che sostiene l’impossibilità di ogni verità, ma così facendo egli afferma una verità, cioè l’impossibilità di ogni verità.

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Comunque la si consideri, possibile o no, affermare una verità conoscitiva significa sostenere che vi è un rapporto adeguato tra il pensiero e l’essere. È la tesi del veritas est adaequatio rei et intellectus che si è soliti riferire a Tommaso.51 L’intelligenza, cioè, è in grado di cogliere gli oggetti della realtà in termini oggettivi, pensando i dati sensibili. Il pensiero è così pensiero dell’essere, diversamente sarebbe pensiero del nulla cioè, in pratica, nulla di pensiero, perché inutile e fuorviante, tale da cadere nella rete delle proposizioni di Gorgia52. In ogni caso questa formula è punto di partenza di un dibattito in quanto se da un lato non è confutabile, dall’altro lato non sembra neppure del tutto soddisfacente. Credere nella comprensione della verità significa affermare, prima di tutto, l’intelligi-bilità dell’essere e, allo stesso tempo, la nostra capacità di coglierlo, cioè l’intenziona-lità della nostra coscienza. Vi sono pertanto due poli da prendere in considerazione, quello dell’essere e quella dalla coscienza dell’uomo. Lungo la storia una loro diversa coniugazione ha dato luogo a diversi concetti di verità, come abbiamo visto. 13.2.2. L’intelligenza e l’essere Conoscenza dell’essere significa di tutto l’essere, quello che si dà nelle forme più sem-plici, cioè negli enti soggetti a divenire, e quello che si dà nelle forme più alte quale causa indiveniente di ogni cosa. Può la ragione raggiungere questa vetta? Il pensiero antico ha tentato, ma in esso abbiamo presenti diverse posizioni scettiche: sofisti, megarici, pirroniani, medi e nuovi accademici, quasi che valga l’ammonizione dei poeti a non aspirare alle cose divine. Tuttavia lo strumento per cogliere le verità più alte c’è, esso è la filosofia, questo ci hanno insegnato Platone e Aristotele 13.2.3. L’intelligenza e Cristo Se Cristo mi rivela la verità assoluta sul mondo, sulla storia, su me stesso, ed io la posso comprendere, allora le verità parziali, a maggior ragione, possono essere com-prese, dunque la fede spinge a comprendere e rassicura. Ne consegue che negare la verità significa negare il senso stesso della vita ed è negare l’esperienza di fede. Con la venuta del cristianesimo accanto alla ragione si profila dunque in Occidente il contributo della religione. Fede e ragione operano ora insieme e la verità assume con-notazioni pratiche e salvifiche, non solo teoretiche. Basti notare il percorso di conver-sione di S. Agostino. Ora non ci si ferma alla ricerca del bene, del bello, del pensiero, ma si ricerca il Logos, la parola di Dio incarnata in Gesù Cristo, colui che ha detto di essere la verità (“via, verità e vita” cfr. Gv 14, 6).

51 Cfr. Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de veritate, q. 1, a. 1; Summa Theologiae q. 16, a. 2, ad 2. 52 Gorgia di Leontini (480ca-380ca). 1. La verità non esiste; 2. Se esistesse non la potrei conoscere; 3. Se anche la potessi

conoscere non la potrei comunicare.

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Per il credente il cammino verso la verità passa perciò attraverso l’accoglienza e la sequela di Gesù. Ciò consente di penetrare meglio i misteri di Dio, della storia, del mondo e di comprendere anche come non spetti alla filosofia la parola ultima sulla verità. In una prospettiva credente le verità colte dalla ragione sono allora sempre parziali e limitate e sono false se in contrasto con le verità della rivelazione. Tuttavia un approc-cio esclusivamente religioso alla verità, che esuli cioè dalla ragione, sarebbe fuor-viante quanto un approccio che rifiuti il dato rivelato o che rifiuti l’aiuto che esso offre alla ragione indirizzandola nella sua ricerca. Da Agostino in poi si manifesta la possibi-lità di una conoscenza veritativa garantita dalle rationes aeternae del Verbo e dalla illuminazione divina. In tal modo la conoscenza non è più vincolata alle incertezze del sensibile e del divenire. Si può così raggiungere, grazie alla collaborazione fede-ragione, la verità su Dio, la verità ontologica sull’essere, la verità logica, il logos, che penetra l’intelligenza del reale e dunque anche la verità sulla storia e sulla condizione umana. 13.2.4. L’autocoscienza e la verità Essere o Dio erano il fondamento della verità fino all’età moderna quando invece, a cominciare da Cartesio, il fondamento della verità viene riposto nell’uomo. Tutto di-pende dalla ragione umana, come abbiamo visto. Assistiamo perciò ad una soggetti-vazione dove l’intelletto/ragione ha una connotazione quasi divina e la res diventa, primariamente, la rappresentazione, l’idea, il concetto mentale di una realtà la cui esistenza stessa viene messa in dubbio o tra parentesi, dato che non ci appare con evidenza (o almeno con l’evidenza pretesa da Cartesio). Significa che l’attenzione prima riguarda qui lo studio delle idee in quanto concetti mentali presenti nella nostra mente (cfr. Cartesio) e non l’analisi degli oggetti reali fuori di noi: tutto si gioca all’in-terno del soggetto. È un passaggio che indica una inversione di tendenza mediata e favorita dal periodo dell’Umanesimo per la quale ora l’uomo vuole fare da sé, senza appoggiarsi a inter-venti divini. Nel Medioevo era infatti Dio, in ultima istanza, a garantire la verità della conoscenza dell’uomo e tutto era fondato su di lui. Si tratta di una specie di rivendicazione, una riconquista della propria alienata forza, l’ideale di un mondo nuovo e diverso, un vero regno dell’uomo. Questa centralità dell’uomo dà origine alla modernità. Essa è l’aspetto ereditato oggi da questa forma di proposta e dai suoi sviluppi successivi. Proprio le prospettive post-moderne na-scono quando si è inteso mettere in discussione questa centralità. Sono comunque tutti fermenti che si coagulano e si sedimentano agli inizi del ‘600 con la rivoluzione scientifica (si afferma la centralità dell’uomo che ora è in grado di conoscere e sfruttare la natura: Francesco Bacone, 1561-1626, Galileo Galilei 1564-

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1642) e la rivoluzione filosofica (Cartesio 1596-1650). Troviamo una rinnovata atten-zione alle osservazioni, agli esperimenti scientifici, alla critica della tradizione, soprat-tutto aristotelica. Da un lato nasce, nell’area delle scienze naturali, un concetto di verità ristretto all’am-bito quantitativo e oggettivamente misurabile in termini matematici, il resto rimane nell’ambito dell’incertezza e di esso non si può fare scienza. Ciò che è certo è ciò che l’uomo misura e sperimenta. Cadono anche le cause formali e finali. Tutto si comincia a spiegare semplicemente in termini di cause materiali ed efficienti. Abbiamo qui così le radici di quello che, successivamente, sarà chiamato scientismo, espressione di un riduzionismo nel campo conoscitivo. Dall’altro lato, e ancor più radicalmente, la posizione di Cartesio e la sua regola dell’evidenza, rinchiuse la verità nell’ambito del soggetto. Tutto ciò che posso sapere con evidenza riguarda il mondo delle idee, delle cose pensate, ma sulla realtà al di fuori di noi, con la quale abbiamo a che fare grazie al rapporto dei sensi, non vi è niente di certo se non che esiste qualcosa (ma ne sono certo solo perché ho dimo-strato l’esistenza di Dio come di un essere perfetto che dunque non può ingannarmi quando sento che il mondo esterno a me esiste!) e che questo qualcosa ha, come carattere evidente, solo il fatto di essere esteso. Questa idea che tutte le certezze restano interne all’uomo, che l’uomo conosce come certe solo le proprie rappresentazioni, convincerà la filosofia, nel suo filone moderno razionalista, ad elaborare un pensiero del tutto estraneo al sapere sperimentale (che è incerto) ed anche spesso al buon senso comune (che si lascia facilmente ingannare). Leibniz giunge ad elaborare un sistema, quello delle monadi, che non ha più niente a che vedere con le osservazioni empiriche, così anche, in qualche modo, Spinoza. Questo dualismo avrà sviluppi successivi con modalità diverse, ma sempre riferentisi alla medesima radice. Le uniche certezze stanno in ciò che è presente nella mia mente, posso essere certo solo di esse (o, addirittura, esistono solo esse: esse est per-cipi, George Berkeley 1685-1753). Questa sorta di dualismo presenta due mondi contrapposti: quello delle scienze na-turali e quello della filosofia. Si tratta di un dualismo che va superato. Kant lo ha di-mezzato, facendo della conoscenza una sintesi a priori tra oggetto e soggetto. Hegel lo ha superato portando tutto sul versante del soggetto (Spirito Assoluto). Qui ragione e realtà certa ormai si identificano e quando Hegel scriverà la sua Logica dirà che essa coincide con la metafisica, data la totale identità di ragione e realtà (“tutto ciò che è reale è razionale”). La Fenomenologia dello Spirito di Hegel (1807) è precisamente il percorso che la ragione compie per rendersi conto di ciò, cioè per raggiungere la consapevolezza di essere essa stessa tutta la realtà. In tal modo si è realizzato il progetto di Spinoza e si sono superate le timidezze di Kant che aveva man-tenuto un’area di inconoscibile, l’ambito noumenico della realtà. Siamo cioè al trionfo bacchico della verità (Hegel) ora completamente raggiungibile.

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Non ha qui più alcun senso, allora, parlare di verità come adeguazione, non vi è infatti un concetto in noi di cui verificare l’adeguazione con un ente fuori di noi. La vecchia contrapposizione soggetto-oggetto è infatti superata, la grande riconciliazione di tutto si è realizzata. Questa chiusura in sé della ragione ha fatto sì che la filosofia si sia colta prima di tutto come una gnoseologia, cioè studio della ragione conoscitiva e delle sue possibilità. Effetti negativi: rivolta contro il singolo e contro l’essere Gli esiti di questa idealizzazione hanno portato ad una dimenticanza del singolo sog-getto, della sua identità, della sua dignità (da qui la reazione di Kierkegaard), ma anche ad una manipolazione dell’essere attraverso la tecnica. Se poi la verità è diventata la tecnica, cioè il nostro uso degli enti, allora l’oggetto non è più rispettato. La perdita di un riferimento al trascendente, la morte di Dio di Nie-tzsche (ulteriore conseguenza della modernità), hanno portato infine ai problemi etici noti. Mancano le norme regolatrici condivise. L’antropocentrismo della modernità ha negato così la differenza ontologica fra ente ed essere ed esaltato l’uomo illuministico con i risultati drammatici del ‘90053. 13.2.5. L’oblio della verità oggi Dopo la morte di Dio oggi è diventato quasi di moda parlare anche della morte dell’uomo. A questo punto sono morti i due garanti, l’antico e il moderno, della verità, dunque è morta la verità. Perciò se ancora si parla di verità essa ha ormai assunto un significato più modesto, limitato e riduttivo, che consente il vivere quotidiano e ri-sponde ai piccoli bisogni, quando non si proclama il nichilismo più totale. Il neopositivismo e la filosofia analitica hanno ricondotto il sapere esclusivamente nell’ambito del sapere matematico/scientifico facendo uso del criterio di verifica-zione. Tuttora oggi questa convinzione di verità non è più sostenibile dopo le critiche di Popper e l’adozione del suo principio di falsificabilità per identificare una teoria scientifica. Così non sapremo mai se una teoria scientifica sia effettivamente corri-spondente alla realtà che intende descrivere. La scienza da sola rende debole la verità. L’esistenzialismo di Heidegger ha liberato l’uomo dal soffocamento della chiusura verso la realtà dell’uomo di Cartesio e di Hegel. Scopriamo un uomo che è aperto all’essere, che svela l’essere, è casa dell’essere, è pastore dell’essere, è il luogo dove comprendere il manifestarsi dell’essere che si dà come evento nella storia in una mo-dalità sua propria. Al tempo stesso l’uomo di Heidegger dipende dall’essere, è un Da-sein, un esser-ci, un ente gettato in un progetto che non si è scelto e che è chiamato a vivere autenticamente. Gadamer ha ben contestato le pretese scientiste e la loro affermata esclusività di comprensione della verità. Il metodo scientifico, infatti, comprende solo un aspetto

53 Secondo la nota tesi di T. Adorno e M. Horkheimer in La dialettica dell’illuminismo (1947).

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delle cose. La verità del mondo si svela piuttosto mediante un continuo e progressivo rapporto tra l’uomo che comprende e l’oggetto compreso in un dialogo ermeneutico teoricamente senza fine (il circolo ermeneutico). Il rischio in Heidegger e Gadamer è però quello di cadere nel relativismo, in un sog-gettivismo ed anche in uno storicismo. Gadamer ponendo tutto a livello di interpre-tazione lega la realtà interpretata all’interpretante, cioè all’uomo. Ma qui almeno la verità è ancora ricercata. Vi sono autori che invece escono del tutto da questa tradizione e si nominano come post-moderni. Essi guardano con continua diffidenza alla verità. Un lavoro questo ini-ziato dai maestri del sospetto che hanno guardato appunto con sospetto alle verità tradizionali, leggendo la realtà, la cultura, il mondo sempre in chiave di volontà di po-tenza (Nietzsche), di economia (Marx), di libido/inconscio (Freud). Su queste posizioni critiche si può collocare anche lo strutturalismo che si spinge fino ad affermare la morte del soggetto ridotto ad istinti da soddisfare. Alle spalle abbiamo sempre Nie-tzsche e il suo filosofare con il martello, il suo essere dinamite, che ha spazzato via l’essere, la metafisica, il soggetto, la libertà, la morale, in favore del superuomo. “Non esistono fatti, ma solo interpretazioni”54, salta la nozione tradizionale di verità quale rappresentazione obiettiva della realtà. Si rifà proprio a Nietzsche e ad Heidegger Gianni Vattimo e la sua elaborazione di una ontologia ermeneutica che è una ontologia della decadenza. J.-F. Lyotard raccomanda di andare oltre le meta-narrazioni (La condizione post-moderna, 1979) che fondavano un tempo il contesto e legittimavano così la verità. 13.2.6. Per un ritorno alla verità L’uomo non può vivere senza la verità vera e profonda della sua esistenza, ne è con-tinuamente alla ricerca. Si propone il realismo critico di Jacques Maritain (1882-1973) che ripensa la tradizione classica e rinnova la fiducia nelle capacità della ragione. È un realismo non ingenuo che tiene conto del ruolo del soggetto senza assolutizzarlo, ri-spettando l’oggetto. Si profila qui un ermeneutica con impronta ontologica che si trat-terà di individuare. Questo richiamo all’essere potrebbe trarre vantaggio dall’Heideg-ger della svolta. Vi è comunque una opzione da fare, quella tra l’ipotesi che la nostra ragione sia il fondamento costitutivo della verità e dell’essere, e l’ipotesi che essa debba piuttosto aprirsi ad un al di là non posto da noi che noi possiamo solo avvicinare e comprendere, quoad nos. Perciò né disperazione, né onnipotenza. La ragione rivela l’essere ed è illuminata dall’essere che la indirizza nei vari campi della morale, della politica, dell’estetica, della religione, etc.

54 Cfr. Nietzsche, Al di là del bene e del male, af.. 22; Volontà di potenza, af. 481.

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La crisi della verità è anche crisi della filosofia stessa inutilmente sostituita oggi da altri saperi che non riescono però mai a raggiungere la verità delle cose. Le verità parziali invocano una verità totale, che stia sullo sfondo, per essere legittimate. Va perciò rilanciato il percorso della metafisica come percorso verso la verità in grado di uno sbocco finale verso la Verità che sta nel divino/trascendente. Tutto ciò nella consapevolezza dell’inesauribilità del vero, un vero che noi possiamo comprendere solo storicamente, in continuo progresso mai esaurito.

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14. UMBERTO GALIMBERTI: L’UOMO NELL’ETA’ DELLA TECNICA

Gli esiti della fine della modernità e dell’irrompere di un mondo nuovo, chiedono oggi

di riflettere su una antropologia capace di essere aggiornata ai tempi. Questo assume

ormai i tratti di una sfida per la filosofia in quanto lo scenario che si è aperto sembra

oggi mettere in discussione tanti suoi presupposti, per lungo tempo ritenuti impre-

scindibili. Per cominciare un punto sembrerebbe per Galimberti definitivamente as-

sodato, quello del superamento del dualismo anima-corpo che per tanto tempo ha

segnato l’antropologia filosofica occidentale.

14.1. UN’ANTROPOLOGIA UNITARIA

14.1.1. Oltre il dualismo antropologico occidentale di anima e corpo

Galimberti va alle origini quando segnala che Omero nomina la parola corpo solo per

indicare il cadavere. Quando parla di viventi egli usa nominare piuttosto gli organi del

corpo. La parola anima, psiche, che significa semplicemente per lo più respiro, viene

usata da lui per indicare l’ultimo respiro, la fine della vita. Già per Omero, dunque, io

sono il mio corpo, l’io è il suo corpo.

La nozione di anima, intesa come uno dei due poli costitutivi l’uomo, manca anche nel

mondo ebraico. I LXX saggi che ad Alessandria tradussero l’Antico Testamento in

greco resero nefes con psiche. Ma l’ebraico nefes significa collo, gola, cadavere, vita.

L’anima nefes/psiche non indica dunque nella Scrittura un qualcosa di altro dal corpo

che sopravvive dopo la morte. Per Paolo, infatti, i cristiani risorgeranno con un corpo

d’aria (non con una psiche).55 Nella professione di fede i cristiani credono “nella re-

surrezione dei corpi”.

Il concetto di anima nasce nella cultura greca ad opera di Platone. Per Galimberti la

sua genesi risponde ad una esigenza gnoseologica. Per un sapere oggettivo dobbiamo

infatti prescindere dai sensi che sono soggettivi. Perciò l’episteme ricorre a idee, nu-

meri, costrutti della mente, rapporti, figure geometriche e l’organo per queste cose

è, appunto, l’anima e non si entra nell’Accademia se non si è geometri, cioè esperti in

queste cose.56

55 Cfr. 1Cor 15, 44 56 Cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2005 (or. 1999), pp. 124-127

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Inizia in tal modo la denigrazione del corpo. Esso, soma, è prigione, sema, dell’anima,

tomba dell’anima. L’anima è il luogo della verità, il corpo quello della follia, di ciò che

non ha a che fare con la ragione e dunque con la verità epistemica.

Agostino, tra il IV e il V secolo d.c., riprende il concetto di anima di Platone e lo collega

al cristianesimo per spiegare non più la conoscenza, ma la salvezza, che è vita oltre la

morte. Ora l’anima costituisce l’individualità, il soggetto interiore, e Dio abita nell’in-

teriorità dell’uomo. Nasce qui la nostra cultura persuasa che l’uomo sia costituito di

anima e corpo.

Un passaggio ulteriore, continua Galimberti, avviene nel ‘600, all’inizio della moder-

nità. Cartesio riduce il corpo alle sue idee chiare e distinte, cioè a quelle descritte dalla

fisica. Ora il corpo è sommatoria di organi, è come una macchina, ora il corpo è ridotto

ad organismo, in tedesco Körper (a differenza di Leib che indica il corpo come per-

sona). Proprio da questa distinzione nasce la medicina moderna, chiamata esclusiva-

mente ad intervenire sull’organismo per rimediare alle sue carenze.57

Stabilito poi nel Settecento che i malati di mente non hanno disfunzioni organiche,

nasce una nuova scienza, che cura un morbus sine materia, una malattia senza riscon-

tro organico. Essa è la psichiatria, cioè la cura medica dell’anima, trattata come se

essa ci fosse e si potesse ammalare. La psichiatria vuole essere scienza, ma in essa

non c’è mai un riscontro oggettivo, perché per la malattia dell’anima ogni caso è un

caso a sé.

14.1.2. Lieb come unità materiale, psichica, spirituale

In questa situazione, sostiene Galimberti, bisogna elaborare un concetto nuovo di

corpo. Infatti noi diciamo: “Sono stanco”, e non: “Ho un corpo stanco”. Il corpo mi

costituisce, esso non è “altro” da me che sarei essenzialmente anima.

Questo tentativo è avvenuto nel ‘900 grazie alla fenomenologia. Per essa il corpo è

sempre un corpo nel mondo della vita. La fenomenologia considera le cose così come

appaiono e si danno, non come la scienza ce le descrive. C’è allora il corpo della

scienza, l’organismo, Körperding, il corpo ridotto a cosa, ma c’è il corpo del mondo

della vita, che è il Leib.58

Non si può ridurre tutto a Körper, come vorrebbero gli organicisti, perché ognuno

vede i luoghi e le cose del mondo sempre dal proprio punto di vista, non vi può mai

57 Quando si va in ospedale il corpo è considerato solo organismo. I sintomi narrati dal malato sono tradotti dal medico

in qualcosa di oggettivo e ispezionabile. Così deve fare una scienza. 58 Cfr. Umberto Galimberti, il corpo, Feltrinelli, Milano 2007 (or. 1983), pp. 280-293.

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essere una oggettività assoluta. Così è anche per il tempo che scorre veloce per alcuni

e lentissimo per altri a seconda dei momenti particolari. Il nostro corpo vive e speri-

menta sempre, infatti, le situazioni nel mondo.

Le neuroscienze tendono a tradurre invece i vissuti psichici a livello organico, biochi-

mico. Ma con ciò siamo in fondo ancora nell’impostazione cartesiana del corpo orga-

nismo. Esse pensano cioè che le malattie della mente siano malattie del cervello. Si

cerca in tal modo di ridurre i problemi psichici a livello corporeo, appunto con la con-

cezione di corpo come organismo.59 Così non va.

In tale impianto organicistico se al depresso manca la serotonina, allora basta dar-

gliela, ma la verità è piuttosto che ogni malattia della mente è cosa a sé. Non c’è, ad

esempio, la depressione, ma la mia, la tua, depressione. La fenomenologia ha sottoli-

neato il ruolo dell’empatia (vedi Edith Stein), essa si orienta per un approccio perso-

nalistico al malato, ma in ciò è contestata ed osteggiata dalla scienza psicologica uffi-

ciale che, ritenendosi scienza, pensa ad indagini oggettive, ad esempio con largo uso

di test, sul modello della medicina.

Già Jaspers lo aveva capito bene, si deve perciò passare da una psichiatria esplicativa

che dice che cos’è una malattia, ad una psicologia comprensiva, grazie alla quale si

coglie la patologia del paziente, proprio quella e solo quella.

Quelle che abbiamo chiamato dimensioni psichiche ci sono allora perché c’è il corpo-

Leib, il mio corpo, che è al mondo e reagisce alle situazioni del mondo. Dunque non

c’è bisogno dell’anima per spiegarle. L’area dello psichico ora indica la nostra rela-

zione col mondo, non un qualcosa di altro dal corpo. Ecco così superato il dualismo.

Tale parola, la parola anima, al massimo, potrebbe servire per indicare la relazione

corpo mondo. L’anima/coscienza, infatti, non è qualcosa di reale, ma solo il mio rap-

porto con il mondo che viene intenzionato. Così la fenomenologia.60

59 Eugenio Borgna, psichiatra fenomenologico, direttore dell’ospedale psichiatrico di Novara che Galimberti frequenta

dal 1976 al 1979, si schiera contro la psichiatria organicistica che prende invece oggi sempre più quota, studia scientifi-

camente il cervello e cura con le medicine. La fenomenologia è in altra cosa, essa è il tentativo di incontrare il paziente.

Non si guarda qui alla depressione come tale, ma a come quel paziente è depresso, relazionandosi con il malato e non con

la malattia, attraverso il dialogo e l’ascolto. Perciò la psichiatria così intesa non è scienza, perché essa non può oggettivare

l’uomo perdendo la sua specificità individuale. Sul tema: Giorgio Maria Ferlini, Maria Armezzani, Psicologia e filosofia

alla luce dello sguardo fenomenologico "Essere con l’altro, essere se stesso; la fenomenologia alla prova dell’espe-

rienza" Ed. ASIA, Bologna 2012. 60 “Husserl, con la fenomenologia, recupera finalmente il concetto di corpo in maniera corretta e, al rapporto anima-corpo

com’era nella tradizione occidentale, sostituisce, opportunamente, il rapporto corpo-mondo. Vale a dire, io non sono al

mondo come questo quaderno che ho davanti a me, ma sono al mondo come colui che vede il mondo, è sollecitato dal

mondo e risponde al mondo”. Umberto Galimberti, Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Aliberti editore, Roma

2011, pp. 61-62.

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Naturalmente rinunciare all’anima significa, per Galimberti, accettare di perdere dei

vantaggi, soprattutto quello di aver garantito per secoli l’immortalità, di aver mante-

nuto la speranza ultraterrena. Ritorniamo così ai greci, ecco la sua proposta, che chia-

mavano gli uomini mortali e prendevano sul serio la morte. Essi sapevano sopportare

l’inevitabile dimensione tragica del vivere, quella di doversi costruire da sé un senso

destinato a perire.

14.2. ABITIAMO UN MONDO NUOVO

“Siamo tutti persuasi di abitare l’età della tecnica, di cui godiamo i benefici in termini

di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi perché abbiamo più

campi di gioco in cui inserirci. Ogni rimpianto, ogni disaffezione al nostro tempo ha

del patetico. Ma nell’assuefazione con cui utilizziamo strumenti e servizi che accor-

ciano lo spazio, velocizzano il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su cui

sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di

essere uomini non è troppo antico per abitare l’età della tecnica che non noi, ma

l’astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci, con un obbligazione più forte

di quella sancita da tutte le morali che nella storia sono state scritte, a entrarvi e a

prendervi parte.”61

Ecco la nostra condizione: siamo nell’età della tecnica, è questo un dato di fatto, ep-

pure ancora non ce ne siamo pienamente resi conto, dato che continuiamo a ragio-

nare con categorie umanistiche, benché l’uomo non sia più il soggetto della storia,

bensì sia diventato ormai solo un funzionario di apparati tecnici.62 L’evento della tec-

nica chiede, ulteriormente, che non sia la scienza a sequestrare l’ambito del sapere

veritativo. Una riflessione solo scientifica su tale presenza onninvasiva, infatti, non

permetterebbe una piena comprensione del fenomeno che il filosofo è dunque chia-

mato ad indagare.63

61 Umberto Galimberti, Psiche e techne, Op. cit., p. 33. 62 “(dobbiamo) avvertire che oggi noi siamo governati dalla tecnica, e che l’uomo non è più il soggetto della storia, ma è

ormai diventato un funzionario dell’apparato tecnico”. Umberto Galimberti, Marco Alloni, Il viandante della filosofia,

Op. cit., p. 27. 63 “Il depotenziamento della scienza a sapere diminuito rispetto alla filosofia non si riferisce al sapere scientifico che si

propone di essere tale, ma a quell’atteggiamento scientifico che si annuncia quale unico sapere autentico e definitivo della

realtà nella sua compiutezza, a quell’atteggiamento cioè che, prevaricando i limiti della scienza, pretende di porsi come

interpretazione esaustiva della totalità del reale, e quindi come filosofia (mentalità positivistica) [...]. Una simile posizione

sarebbe giustificabile solo dopo aver dimostrato che la totalità del reale si riduce alla totalità dei fatti empirici, dimostra-

zione che la scienza non offre e non può offrire”. Umberto Galimberti, introduzione a: K. Jaspers, La fede filosofica,

Cortina, Milano 2005, p. 16.

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La tecnica non è la tecnologia, ma è molto di più, essa è la forma più alta di razionalità

raggiunta: ottenere il massimo risultato con l’impiego minimo di mezzi.

La tesi di fondo di Galimberti è radicale: la tecnica è ormai oggi oltre l’uomo, più an-

cora dell’economia, la quale almeno risente ancora di una passione umana che è la

passione per il denaro. Che l’uomo sia ormai sottomesso alla tecnica lo si coglie dal

fatto che oggi non si può vivere senza di essa. Oggi la tecnica è diventata, perciò, l’es-

senza dell’uomo.64

Eppure essa è nata a servizio dell’uomo. Platone, nel Protagora, racconta che Zeus

aveva assegnato a Epimeteo (= quello che pensa dopo, l’improvvido) il compito di

dare a tutti i viventi le loro qualità, ma giunto all’uomo era rimasto senza. Così Zeus

incaricò Prometeo (= colui che pensa in anticipo, il saggio) di dare agli uomini la tec-

nica e la virtù di anticipare il futuro, di prevedere e operare sulle cose del mondo.

14.2.1. La nascita dell’età della tecnica

Galimberti sostiene che l’età della tecnica così intesa nasce con la seconda guerra

mondiale. Egli riprende qui la tesi del filosofo ebreo tedesco Günther Anders, per il

quale il nazismo è stato la sua prima espressione completa.

L’apparato organizzativo del nazismo, infatti, ha pensato per primo il modello che ca-

ratterizza oggi l’età della tecnica. In esso nessuno ha una responsabilità, ma è chia-

mato solo a fare bene la propria parte, come facevano bene il proprio lavoro i coman-

danti dei campi di sterminio. Eichman al processo di Gerusalemme continuava a dire

che obbediva agli ordini: la sua era la risposta esatta. Questa è la regola della tecnica,

ideologia della efficienza e della produttività. Ecco l’antitesi tra l’umano e la tecnica.65

Già Heidegger aveva denunciato queste cose, aggiungendo che non siamo preparati

a questo perché non disponiamo di un pensiero alternativo a quello tecnico/calco-

lante. Perciò sappiamo bene cosa è utile, ma non più cosa è bello, santo, vero etc.

Oggi funziona solo il sapere come calcolo e la scienza non pensa.

64 Se la si toglie l’uomo muore. È questo un tema cha ha fortemente coinvolto il pensiero di Galimberti, lui stesso lo ha

definito come una sorta di trip. Cfr. Umberto Galimberti, Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Op. cit., pp. 104-106. 65 Galimberti a questo proposito cita spesso il libro di Gitta Sereny In quelle tenebre, costituito di una serie di interviste a

Franz Stangl, comandante del campo di sterminio Treblinka. Stangl non si ritiene colpevole di nulla, egli ha solo fatto

bene il proprio lavoro che consisteva nell’eliminare con efficienza i prigionieri che regolarmente venivano portati al

campo la mattina e il pomeriggio. La stessa risposta diede il comandante americano dell’aereo che sganciò la bomba

atomica su Hiroshima: “Questo è il mio lavoro”.

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14.2.2. Due modi di intendere l’impegno del mondo

Come comprendere questo agire “tecnico” sul mondo? Per Galimberti si deve tornare

ad Atene.

Nella cultura greca la natura è lo sfondo immutabile che nessun Dio fece (Eraclito) e

che sempre sarà. Dalla natura gli uomini traggono le leggi per regolare la città e per

dirigere i propri comportamenti. Qui la tecnica serve poco, conta solo assecondare

con le proprie azioni la natura.

Per Platone e i greci l’uomo è iscritto nella natura, così egli è giusto quando si adegua

alla sua armonia. Nel Prometeo incatenato di Eschilo, Il coro chiede a Prometeo se sia

più forte la tecnica o la necessità (ananke) che regola le leggi di natura. Egli risponde

che la tecnica è più debole. Del resto al tempo dei greci la tecnica era molto elemen-

tare, ma oggi non è più così.66

Nell’altra tradizione chiave dell’Occidente, la tradizione giudaico-cristiana, invece, la

natura è creata, dunque è prodotto della volontà di Dio, e da essa dipende. Perciò la

natura non è più qualcosa di immutabile, e la tecnica si fa mezzo di dominio sulla

natura, benedetto da Dio. Essa è una possibilità data ad Adamo, poiché l’uomo è al

vertice del creato e domina su di esso. Gli scenari cominciano a cambiare.

Ne consegue che la tecnica è un evento occidentale dominato dalla cultura giudaico-

cristiana.

14.2.3. La rivoluzione scientifica

In questo orizzonte accade nel 1600 una grande novità: nasce la scienza moderna, la

scienza matematica (Cartesio, Bacone, Galileo). Con essa l’uomo diventa davvero pa-

drone del mondo, effettivamente vertice del creato, come dice la Genesi.

La scienza/tecnica moderna si sviluppa perciò all’interno di un contesto cristiano, se-

gnato dalla fiducia e dall’ottimismo. Bacone pensa alla scienza come rimedio del pec-

cato originale.67

Nell’Ottocento Hegel, nella Logica, afferma due teoremi che risulteranno profetici per

l’età della tecnica. Il primo dice che il fondamento della ricchezza non è costituto dai

beni (come sostenuto da Adam Smith), ma dagli strumenti che producono i beni, dun-

que dalla tecnica. Il secondo dice che quando un fenomeno aumenta quantitativa-

mente vi è anche un cambiamento qualitativo (fa l’esempio di togliersi un capello o

66 Cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Op. cit., pp. 51-52 67 Cfr. Id, cap. 33: L’epoca moderna e il primato della scienza e della tecnica come deriva teologica, pp. 293-304.

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togliersi tutti i capelli, prima non sono calvo, poi sì, dunque vi è cambiamento da quan-

titativo a qualitativo).68

Marx ha applicato queste leggi all’economia. Tutti pensiamo al denaro come un

mezzo per raggiungere dei fini, soddisfare bisogni e produrre beni, ma se il denaro è

la condizione irrinunciabile per realizzare qualsiasi fine allora esso diventa il primo

fine per ottenere il quale si vedrà se soddisfare i bisogni e in che misura produrre i

beni. Quindi se un mezzo aumenta quantitativamente fino a diventare la condizione

universale per realizzare uno scopo, allora diventa lui stesso il primo scopo. È un caso

di eterogenesi dei fini ed è ciò che accade oggi, proprio in riferimento alla tecnica.

Se infatti la tecnica è diventata la condizione universale per realizzare qualsiasi scopo

essa non è più un mezzo, ma è diventata lo scopo di tutto, il primo scopo cui tutti gli

altri sono subordinati.69

Galimberti fa questo esempio, seguendo il proprio maestro Severino: l’Unione Sovie-

tica è crollata per carenza di tecnica rispetto al capitalismo degli Stati Uniti, non è

crollata per questioni economiche, umane, di diritti etc.

Crolla un fine se manca una tecnica che lo possa realizzare. Il comunismo è crollato

perché la sua realizzazione non era più possibile stante quella tecnica. Perciò tutto

dipende dalla tecnica.70

14.2.4. Conseguenza: La politica nell’età della tecnica 71

Per Platone la politica è il luogo della decisione. Il politico sa cosa fare e perché farlo.

Oggi non è più così, la politica per decidere guarda l’economia la quale guarda le ri-

sorse tecniche. Dunque tutto dipende dalla tecnica.

68 Cfr. Id, pp. 337-339. Così anche Emanuele Severino: “Se uno strumento è insostituibile –cioè la sua perpetuazione e

l’incremento della sua potenza- è destinato a diventare lo scopo delle forze che intendono servirsene come di un semplice

mezzo. E l’apparato planetario della scienza e della tecnica è ormai lo strumento insostituibile per la sopravvivenza

dell’uomo”. Emanuele Severino, Destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, p. 22. “Come l’Io idealistico, anche la

tecnica vuole diventare l’assoluta, incondizionata e infinita potenza. Anche per la tecnica il compito supremo è diventare

Dio”. Id, p. 203. Commenta Leonardo Messinese: “Questo esito caratterizza la tendenza fondamentale del nostro tempo,

osservabile all’interno delle stesse coordinate di pensiero della civiltà occidentale: la tendenza dell’Apparato scientifico-

tecnologico a riprodursi indefinitamente e porsi esso stesso qual fine supremo, rispetto a una sua assunzione strumentale

da parte dei sistemi ideologici e delle forze etiche”. Leonardo Messinese, Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la

filosofia, Dedalo, Bari 2013, p. 138. 69 “Quando la crescita non ha altro scopo che continuano a crescere, è l’uomo stesso del mondo privilegiato a divenire

semplice funzionario di questa idea fissa che, se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il senso

della vita, il suo sapore, il suo significato per noi”. Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli 2009, p. 281. 70 Cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Op. cit., pp. 431-435. 71 Cfr. Id, pp. 436-456.

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La tecnica cambia anche la modalità di concepire il potere. Essa dà il potere al com-

petente. I luoghi di competenza tecnica diventano i luoghi di potere. La scienza è po-

tenza. Abbiamo come conseguenza il collasso della democrazia. La tecnica infatti

mette sul tavolo problemi sui quali non possiamo essere sempre competenti. Non è

più possibile una competenza personale adeguata in ogni campo del sapere per fare

scelte davvero responsabili. Così esse vengono fatte non per ragioni di competenza,

ma di appartenenza religiosa, politica, ideologica etc. Perciò vince la retorica, vince

chi riesce a convincere toccando gli affetti, le passioni etc., come novelli sofisti. Tutto

ciò è la morte della democrazia e della libertà, come già aveva denunciato Platone.

14.2.5. Conseguenza: la morale nell’età della tecnica72

Oggi non abbiamo una morale all’altezza dell’età della tecnica. Tutte le morali infatti

si sono sempre riferite a categorie umanistiche non più proponibili in un tempo in cui

l’uomo ha perso la sua centralità per ridursi a funzionario della tecnica, come abbiamo

visto.

Anche i principi naturali, nati facendo riferimento ad una natura inviolabile, non reg-

gono più, in quanto ora la natura è del tutto violabile con la tecnica.

La morale cristiana è stata la morale dell’intenzione, essa ha funzionato molto bene

in passato, al punto che l’ordine giuridico oggi è ancora regolato su di essa (per esem-

pio abbiamo l’omicidio colposo, quello preterintenzionale, etc.). Ma nel tempo della

tecnica questa morale non serve più a niente, perché oggi tutto si valuta secondo gli

effetti dei comportamenti, non secondo le intenzioni.

La morale di Kant, fondata sulla ragione, esalta l’uomo come un fine e mai come un

mezzo. Per la tecnica l’uomo è invece un mezzo, egli vale se è un mezzo per produrre.

Si vale se si lavora per gli interessi di un apparato.

C’è poi l’etica della responsabilità (Weber, Jonas) un’etica che si basa sugli effetti delle

nostre azioni: di essi siamo sì responsabili, ma solo quando sono prevedibili. Il fatto è

che nella scienza/tecnica gli effetti non sono quasi mai prevedibili. Uno scienziato,

prima di tutto, ricerca, solo poi scopre l’eventuale utilità pratica della sua ricerca. Si

studia per sapere, senza avere uno scopo concreto che indirizzi.73 Ne consegue che

72 Cfr. Id, pp. 457-473 73 “L’etica intrinseca della scienza è appunto la volontà della scienza di realizzare lo scopo supremo che essa possiede di

per se stessa: l’incremento infinito della propria potenza”. Emanuele Severino, La tendenza fondamentale del nostro

tempo, Adelphi, Milano 2008, p. 71. “La civiltà della tecnica è la conseguenza inevitabile del passo iniziale dell’Occi-

dente: la riflessione greca sul senso dell’essere e del niente”. Id, Pensiero sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 2010, p. 298.

La tecnica ormai “è destinata a subordinare a sé il grande passato dell’Occidente (cristianesimo, democrazia, capitalismo

e, innanzitutto, la verità dell’episteme)”. Id, Dall’Islam a Prometeo, Rizzoli, Milano 2003, p. 107.

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nessuno può controllare la scienza, essa è auto-referenziale, la scienza non ha scopi,

essa tende al suo auto-perfezionamento.74

Perciò la morale qui non può intervenire. Come può l’etica chiedere alla tecnica di

non fare ciò che può? Così l’etica diventa patetica, può solo invocare, implorare, ma

di fatto la storia insegna che una cosa che si può fare prima o poi la si fa.75

Bisogna allora elaborare una nuova etica all’altezza dell’età della tecnica che sia con-

sapevole di non potersi basare né su principi antropologici o naturali, né su comanda-

menti divini. Galimberti la chiama etica del viandante, fondata su valori e norme che

dobbiamo costruire “a partire da una sorte di saggezza che consiste nel prendere de-

cisioni senza aver alle spalle alcun principio”.76

14.3. IL NICHILISMO

L’uomo dell’età della tecnica è dunque costretto a rinunciare nei fatti, se ancora non

formalmente, alla democrazia, è sottomesso a tutti i rischi della retorica, è incapace

di elaborare una morale davvero all’altezza. Ridotto a tecnica l’uomo si perde, non

comprende più la propria condizione che non è solo razionalità e tanto meno solo

razionalità produttiva.77 Quest’uomo è inevitabilmente nichilista.

Afferma Nietzsche: “Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si sva-

lutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al perché?”.78

I valori sono tramontati e non ne sono nati altri. Heidegger, seguendo Hölderlin, af-

ferma che siamo nel tempo della povertà estrema, in cui gli dei sono fuggiti e non ne

sono venuti di nuovi.

Di fronte a questa situazione, come già aveva insegnato Nietzsche, si aprono due op-

poste prospettive: quella del nichilismo passivo che porta alla rassegnazione e alla

74 Galimberti fa l’esempio della moglie, biologo molecolare, che dedicò otto anni della sua carriera alla ricerca del dia-

spartato ossidasi, ricerca che gli americani e i giapponesi avevano abbandonato. Alla fine ci riuscì, ma non vi erano risvolti

pratici, solo un aumento di conoscenza. Cfr. Umberto Galimberti e Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Op. cit., p.

105 75 “L’etica come forma dell’agire in vista di fini, celebra la sua impotenza nel mondo della tecnica regolato dal puro e

semplice fare, dove quelli che noi, a posteriori, chiamiamo “fini” sono in realtà semplici “risultati” di procedure tecniche

afinalizzate. Ma una volta che l’agire è subordinato al fare, come osserva opportunamente Severino, in qual modo si può

impedire alla tecnica che può fare di non fare ciò che può?”. Umberto Galimberti, Cristianesimo. Religione dal cielo

vuoto, Feltrinelli, Milano 2012, p. 388. 76 Umberto Galimberti, Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Op. cit., p. 38. Cenni all’etica del viandante, in: Um-

berto Galimberti, Senza l’amore la profezia è morta, Cittadella, Assisi 2010, pp. 55-66. 77 “Se infatti la tecnica procede solo in termini di rigorosa razionalità, il bisogno di dare espressione a ciò che razionale

non è si fa ancora più urgente e pressante. L’umano, infatti, non è solo razionalità. È amore, dolore, angoscia, disperazione,

insensatezza”. Umberto Galimberti, Senza l’amore la profezia è morta, Op. cit., p. 75. 78 Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano 2011, af. 2, p. 3.

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decadenza, e quella del nichilismo attivo che ci fa guardare sul serio in faccia la pro-

spettiva di questo ospite inquietante.79

14.3.1. Vita, dolore, morte nell’età del nichilismo

Come abbiamo visto, viviamo nell’Occidente che ha una matrice greca e una cristiana.

Per quella greca il compito etico dell’uomo è di adeguarsi all’armonia naturale prima

di tutto accettando la propria condizione di mortale.

Per il “greco” Galimberti l’uomo fa parte dell’ordine naturale con le sue leggi eterne

a cui attingere per regolare la città e la propria anima. Tutto è regolato dalla necessità

naturale, dall’ananke. Per la natura l’uomo nasce, cresce e muore.80 Il coro del Pro-

meteo incatenato di Eschilo accusa Prometeo di aver donato agli uomini la speranza

della vita eterna, per questo inganno è giusta la punizione subita.81

Per i greci la mente è cervello, il cervello è il corpo, gli uomini sono come i pianeti e

gli animali: nascono crescono, muoiono. Non esiste neppure il soggetto io, inteso

come individuo, come persona, il vero soggetto è la specie. Gli uomini sono solo fun-

zionari della specie.

Ne consegue che la morale è quella stoica: substine et abstine, sopporta e astieniti dal

manifestare la sofferenza, dal lamentarti.

Così il greco è consapevole di vivere una dimensione tragica: bisognosa di un senso,

ma destinata alla morte che è l’implosione di ogni senso. Del resto per l’io individuale

la morte è un assurdo, mentre per la specie essa è una necessità. Questa tragicità la

dobbiamo vivere accettando il limite, e chi conosce il proprio limite non teme il de-

stino.

La tradizione giudaico-cristiana è stata però quella vincente in Occidente. Il cristiane-

simo ha detto all’uomo che non morirà, da qui una carica ottimistica fondamentale.

Perfino il dolore è diventato un valore, fonte di salvezza. Esso ora acquista un senso.82

La natura è creata da Dio e affidata all’uomo, essa è buona perché prodotta dalla vo-

lontà di Dio, mentre per il greco essa è solo indifferente. L’uomo inoltre domina la

79 Cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Op. cit., pp. 703-710; Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli,

Milano 2007. 80 “Questo significa che l’uomo deve essere concepito alla maniera di tutti gli altri enti. Vale a dire: nasce, cresce e muore

secondo le leggi di natura. E questa è naturalmente una visione tragica. Il Greco è tragico, infatti, perché concepisce

l’uomo -che tra l’altro non chiama mai uomo, ma sempre brotos e thmetos, cioè mortale- come subordinato alle leggi di

natura”. Umberto Galimberti, Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Op. cit., pp. 30-31. 81 Cfr. Umberto Galimberti, Psiche e techne, Op. cit., pp. 78-79. 82 “Se l’Occidente è una civiltà superiore rispetto a quelle un po’ medievali che ci circondano, lo deve proprio al cristia-

nesimo, il quale ha infuso un ottimismo tale, a partire dall’immortalità dell’uomo, che non ha pari in nessuna civiltà

mondiale”. Umberto Galimberti, Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Op. cit., p. 31.

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natura per volere del Dio creatore, ecco perché scienza e tecnica nascono in Occi-

dente.

Ora cambia anche il concetto di tempo. Il tempo greco, infatti, era ciclico, con il cri-

stianesimo esso è rettilineo, ha un inizio e una fine, una meta da raggiungere perché

vi è un disegno superiore. E se il tempo è iscritto in un disegno, allora abbiamo la

storia, e se dunque facciamo parte di una storia, la nostra vita ha un senso.83

Questo schema ottimistico ha segnato di sé tutto l’Occidente: il passato è male, il pre-

sente è redenzione, il futuro è salvezza. Con la nascita della scienza moderna lo

schema si ripete, infatti, in chiave laica, la scienza gronda di metafore teologiche e si

alimenta di esse. Anche per la scienza il passato è ignoranza, il presente è ricerca e il

futuro è progresso. Questo stesso schema è presente in Marx, per il quale il passato

è ingiustizia, il presente è rivoluzione, il futuro è giustizia, ed è presente in Freud, per

il quale il passato è luogo del trauma e della formazione del disagio, il presente è ana-

lisi e il futuro guarigione.84 Ha ragione la chiesa a rivendicare le radici cristiane dell’Eu-

ropa.85

83 “Nell’età moderna, infatti, lo schema della storia della salvezza ha perso il suo contenuto religioso, ma non la sua forma

e il senso che la storia della salvezza aveva conferito al tempo si trasferisce nella teoria del progresso, per cui ogni stadio

del tempo è compimento di certe preparazioni storiche e anticipazioni di compimenti futuri. In questo modo un fondo

soteriologico sopravvive anche nella più radicale desacralizzazione dell’escatologia cristiana, dove il tema della reden-

zione viene recuperato e ripresentato nella forma della liberazione. Si presentano come figure di liberazione, e quindi

come forme secolarizzate dell’escatologia della salvezza, sia la scienza, sia l’utopia, sia la rivoluzione, ciascuna con le

proprie varianti, determinate dal diverso modo con cui le figurazioni del tempo si contaminano fra loro correggendosi

reciprocamente, ma conservando lo schema cristiano che prevede il passato come male, il presente come redenzione, il

futuro come salvezza”. Umberto Galimberti, Cristianesimo. Religione dal cielo vuoto, Op. cit., p. 27. 84 “A differenza del tempo ciclico e di quello progettuale, il tempo escatologico iscrive la temporalità in un “disegno” che

va dall’origine alla fine del mondo. Quando è iscritto in un disegno, il tempo acquista un “senso”, e quando il tempo è

fornito di senso, nasce la “storia”. Non c’è infatti storia nel tempo ciclico che ripete se stesso, e neppure nel tempo pro-

gettuale che si esaurisce nel raggiungimento dello scopo. Il cristianesimo, annunciando all’uomo una sopravvivenza ul-

traterrena, ha immesso nella cultura occidentale un’enorme carica ottimistica investita sul futuro. Per il cristianesimo

infatti il passato è male (colpa originaria), il presente è redenzione, il futuro è salvezza. Questa differenza qualitativa delle

figure del tempo la ritroviamo pari pari nella scienza, per la quale il passato è ignoranza, il presente è ricerca, il futuro è

progresso. Lo stesso si può dire per la sociologia prima illuminista e poi marxista, per le quali il passato è ingiustizia, il

presente rivoluzione, il futuro giustizia sulla terra. Così ragiona la psicoanalisi: il passato è trauma o nevrosi infantile, il

presente è analisi, il futuro è guarigione. Tutto è cristiano in Occidente, perché, in ogni sua espressione, questa cultura è

percorsa da una carica ottimistica orientata al futuro, promossa dall’annuncio della salvezza, di cui il progresso scientifico,

la giustizia sociale, la guarigione della malattia sono le sue figure laicizzate”. Umberto Galimberti, Storia occidentale di

un enigma, Repubblica, 4 luglio 2010, p. 35. 85 “Quando Ratzinger chiede che si riconoscano le radici cristiane dell’Occidente, mi sembra che chieda troppo poco.

Perché, da parte mia, gli concederei non solo le radici, ma anche il tronco dell’albero, i rami, le foglie, i frutti. Tutto è

cristiano in Occidente, perché il cristianesimo ha immesso nella storia una visione ottimistica del futuro dove si compirà

la salvezza”. Umberto Galimberti, Senza l’amore la profezia è morta, Op. cit., p. 15.

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14.3.2. Il cristianesimo e la morte di Dio

Il cristianesimo ha vinto in Occidente, ma Nietzsche ha annunciato che Dio è morto.86

Se Dio è morto, significa che prima era vivo. A conferma di ciò più volte Galimberti

nota che, ad esempio, Dio era vivo nel Medioevo, dato che non si comprende il Me-

dioevo senza Dio. Ma oggi non è più così, se oggi, si togliesse la parola Dio, il mondo

contemporaneo si potrebbe comprendere ancora, cosa impossibile se togliessimo, in-

vece, la parola tecnica, o denaro.87 Oggi Dio non fa mondo, dunque egli è morto. Con

la morte di Dio l’ottimismo cristiano collassa e nasce il non senso del nostro tempo,

che è nichilista, niente attira nel futuro, il futuro vien visto come un qualcosa di im-

perscrutabile, minaccioso, demotivante.

Si parla perciò oggi di fine della storia. L’uomo non è più il soggetto della storia, il

soggetto della storia è la tecnica, non c’è infatti un progresso (qualcosa per l’uomo),

ma solo uno sviluppo, un aumento qualitativo dei mezzi tecnici fine a se stesso e non

per il bene dell’uomo. Così la storia non ha più quel fine che fino ad oggi era pensato

come il miglioramento della condizione umana.

14.3.3. Altri scenari e nichilismo

Ne consegue che il mondo accade oggi ormai in base ad altri scenari, secondo il de-

naro, secondo la tecnica. Come già accennato, il denaro non è più un mezzo in vista

di scopi. Esso è condizione universale di tutto ed è allora diventato il primo scopo di

tutto, e lo stesso vale, e sempre di più, per la tecnica. Abbiamo un capovolgimento di

mezzi e fini, ciò che era prima un mezzo ora è diventato il primo fine. La tecnica è ora

lo scopo primo, perché si è capito che essa è il mezzo indispensabile per raggiungere

tutti i singoli scopi.88

Siamo qui nel nichilismo in quanto denaro e tecnica non hanno una finalità, se non

quello di una propria, continua replicazione. La tecnica non ha, ad esempio, lo scopo

del benessere dell’umanità.

86 Cfr. Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza, af. 125. 87 “Se noi facciamo riferimento al Medioevo, in cui l’arte era arte sacra e la letteratura parlava di inferno, purgatorio e

paradiso, e persino le donne erano considerate donne-angelo, Dio certamente esiste. Poiché se tolgo la parola Dio dal

mondo medievale automaticamente quel mondo non lo capisco più, ma se tolgo la parola Dio dal mondo contemporaneo

le cose proseguono, esattamente, come prima. Mentre la stessa cosa non accadrebbe se togliessi, per esempio, la parola

denaro o la parola tecnica. Allora affermare che Dio è morto significa affermare in primo luogo e fondamentalmente che

Dio non fa più mondo. Ma se Dio è morto non solo abbiamo un collasso della tradizione cristiana, ma anche, contempo-

raneamente, della tradizione metafisica. Che, se ci pensiamo bene, non era altro che la copia laicizzata dei pensieri teolo-

gici”. Umberto Galimberti, Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Op. cit., pp. 19-20. Cfr. Umberto Galimberti, Cri-

stianesimo. Religione dal cielo vuoto, Op. cit., p. 412 88 La tecnica è “un assoluto che si presenta come un universo di mezzi, il quale, siccome non ha in vista veri fini, ma solo

effetti, traduce i presunti fini in ulteriori mezzi per l’incremento infinito della sua funzionalità e della sua efficienza”.

Umberto Galimberti, Psiche e techne, Op. cit., p. 41.

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Qui l’uomo è ormai ridotto a funzionario di apparati economici e tecnici, non siamo

più neppure funzionari della specie.89

Perciò all’uomo si chiede l’efficienza e la competenza, lui è responsabile di come fa la

cosa, non delle conseguenze della sua azione. Spesso chi lavora non sa neppure lo

scopo finale delle sue azioni. È questo lo scenario della tecnica, il cui modello toglie a

ciascuno la responsabilità della propria azione. Nell’età della tecnica siamo perfetti

esecutori di un contenuto di cui non siamo responsabili.

In questo contesto di nichilismo il primato dell’uomo è finito, Dio è morto ed è morto

anche l’uomo che non è più un valore assoluto, l’uomo conta solo se produce denaro:

questo è nichilismo, l’uomo non è più il soggetto della storia.

Cercare un rimedio a questa situazione significa pensare che soluzioni ci possano es-

sere, ma questo è ancora un pensare cristiano che non può più essere proposto. Lo

scenario è cambiato, esso non è più umanistico, dunque non si può più cercare di

rimettere al centro l’uomo.90

In questa situazione l’unica soluzione, secondo Galimberti, consiste nel prendere atto

di ciò, proprio come farebbe un greco. Solo chi spera si dispera, un greco qui non si

dispera perché non ha mai sperato.

14.4. CRISTIANESIMO, RELIGIONE DEL CIELO VUOTO

Il cristianesimo sembrava vincente, e lo è stato per molti secoli. Primariamente esso

conferiva la categoria del senso agli uomini che lo cercavano, e con essa la speranza.91

Esso però ha fallito nel suo ruolo religioso, secondo Galimberti, perché è stato inca-

pace di arginare efficacemente la forza del sacro e di aggiornare in maniera convin-

cente le proprie categorie di fronte all’irrompere dell’età della tecnica.

89 Cfr. Id, pp. 351-353. 90 “Della storia e della fede che l’ha inaugurata, nell’epoca della tecnica, ne è nulla, perché la tecnica inaugura un tempo

senza direzione, senza disegno, senza finalità, senza senso, perché non rientra nelle sue competenze dare risposte a simili

esigenze”. Umberto Galimberti, Cristianesimo. Religione dal cielo vuoto, Op. cit.,135. “La tecnica, come condizione

universale per la realizzazione di qualsiasi scopo, tende solo al proprio autopotenziamento, senza che le finalità umane

abbiano ormai alcuna possibilità di governarla, l’economia, dal canto suo, tende alla crescita indefinita, versione mone-

taria dell’autopotenziamento tecnico, al di là della portata dei bisogni reali, in quel deserto dei valori dello spirito che

taglia alle radici le figure della speranza”. Id, p. 179. 91 “È dunque a partire dalla non accettazione del dolore e della morte che fede e speranza traggono il loro alimento, e, in

questo scenario, Dio e l’aldilà compaiono come rimedio a quest’angoscia. Tutto il resto, tra cui se la vita sia il prodotto

di un atto creativo o di un processo evolutivo, sono problemi che vengono dopo, a sostegno o a smentita di quel Dio da

sempre invocato come rimedio dell’angoscia, generata dalla fatica di reperire nella nostra vita un senso che si soddisfa-

cente e rassicurante”. Umberto Galimberti, Il segreto della domanda, Apogeo, Milano 2008, p. 36.

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91

14.4.1. La separazione del sacro

Sacro significa separato, esso indica luoghi e tempi che sono “altro” dalla nostra espe-

rienza quotidiana. Il sacro ha in sé perciò una dimensione spaventosa che le religioni

riescono a contenere. Ecco la loro fondamentale utilità per la nostra civiltà. Il sacro

richiede così spazi separati, chiese, templi etc. ed anche tempi separati, quelli delle

feste liturgiche, nonché sacerdoti, uomini che mediano tra sacro e profano.92

Gli uomini hanno collocato il sacro in un al di là perché il sacro è tremendo oltre che

buono.

Tuttavia tale distacco non può essere, per Galimberti, radicale, perché esso è la proie-

zione della follia che ci abita. Il sacro, allora, è il luogo “oltre”, in cui non abita la ra-

gione, e se la ragione indica armonia, ordine, sicurezza, il sacro dice allora pericolo,

timore, follia.93 Nel sacro, non vale più né il principio di identità, né il principio di non

contraddizione. In esso bene e male, bello e brutto, vero e falso sono tutti com-pre-

senti. Eraclito dice che Dio è giorno e notte, guerra e pace, inverno ed estate e tutto

si mescola. In tale situazione di confusione l’uomo non può vivere, da qui il rifugio nel

razionale.

A tal fine prima l’umanità ha elaborato delle norme, dei rituali, per evitare la confu-

sione dei codici, poi ha inventato la ragione che rassicura tutti molto meglio, perché

universale.94 Così noi ragioniamo come Platone ci ha insegnato con i suoi principi. In

tal modo siamo usciti dal mondo del sacro dove le distinzioni non valgono più e tutto

è indifferenziato.

Tuttavia la ragione non esaurisce la verità, perché la verità abita primariamente il sa-

cro, una cosa è sì quella che è, ma è anche altro. Questo lo sanno bene i bambini che

non hanno ancora l’età della ragione e usano le cose dando loro vari significati. Così

92 Per difendersi dal sacro (che impedisce la vita perché i significati oscillano) gli uomini hanno collocato la follia al di

fuori, nel mondo degli dei. I sacrifici agli dei venivano fatti per tenerli lontani. L’indifferenziato del sacro emerge in

Sofocle nell’Edipo re e Edipo a Colono. Dopo aver conquistato Tebe Edipo incoronato Re vuole sapere la verità da Tiresia

che gli dice che è meglio per lui non sapere. Quando Edipo sa entra nel sacro perché è nella confusione dei codici: la

madre è la sposa, il figlio è il marito. Qui non si può più vivere ed Edipo si acceca e se ne va, lì non può più vivere. 93 “Il sacro è dunque quello sfondo indistinto, quella riserva di ogni differenza, quella indecifrabilità che gli uomini, dopo

essersene separati, hanno avvertito come loro sfondo di provenienza e hanno tenuto lontano, fuori dalla loro comunità,

nel mondo degli dei, che per questo vengono prima degli uomini”. Umberto Galimberti, Cristianesimo. La religione dal

cielo vuoto, Op. cit., p. 17. “Il sacro è indifferenziato, dove nulla si distingue e tutto si con-fonde, la religione prima e la

filosofia poi si sono incaricate di delimitare l’area del sacro e di tenerla separata dalla condizione umana che, se dovesse

essere invasa dal sacro, perderebbe il suo orientamento e il suo ordine. La religione ha delimitato gli spazi sacri tenendoli

separati da quelli profani, i tempi festivi da quelli feriali, ha introdotto pratiche rituali in grado di scandire la vita degli

uomini e ha enunciato precetti e comandamenti capaci di regolare la loro condotta”. Id, p. 211. 94 “L’umanità ha sempre saputo che tenersi distante dal sacro non esime da una certa esposizione al sacro, e perciò si è

sempre premurata di contenere questa esposizione, che polarizza violenza, nella ritualità che sempre accompagna i sacri-

fici”. Id, p. 23.

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è anche dei poeti in cui gli enti assumono significati sempre nuovi.95 Così è dei folli,

ma anche dei sognatori e degli innamorati. È una esperienza di tutti: l’amore non può

parlare con la ragione.96

Perciò la ragione, che non crea niente, è solo un insieme di regole utili per intenderci

e vivere insieme. Essa definisce le parole e le cose e ci consente di capirci. Essa è una

convenzione, non la verità, un qualcosa di utile in quanto evita l’angoscia dell’impre-

vedibile.

Questa follia deve comunque essere contenuta, e va contenuta insieme, nessuno può

reggere da solo la propria follia. Oggi però, con la fine delle religioni, ciascuno deve

vedersela da sé e l’unica soluzione è andare in farmacia.

La dimensione del sacro è naturalmente presente nell’Antico Testamento. Jahvè non

si fa vedere da Mosè. Dio chiede ad Abramo di uccidere il figlio contro ogni legge mo-

rale e Kierkegaard, commentando questo brano in Timore e Tremore, afferma come

giustamente Dio stia al di là dell’etica, perché essa è razionale. Lo stadio religioso su-

pera quello etico senza conservarlo, siamo nell’ambito dell’aut-aut, non dell’et et he-

geliano, quello dell’Aufhebung.97

95 “A conoscere questa follia non sono la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la poesia che, di fronte al cosmo

della ragione, il solo che gli uomini possano abitare, sa da quale fondo esso si è liberato e perciò non chiude l’abisso del

sacro, non ignora la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della raziona-

lità, perché sa che è dal sacro che vengono le parole che poi la ragione ordina in maniera non oracolare e non enigmatica”.

Id, p. 88. 96 Infatti dopo aver organizzato la ragione, Platone ci dice che i beni più grandi ci vengono dalla follia data come dono

divino, essa è migliore della saggezza umana. Infatti con la ragione non si crea, non si fa arte, non si fa storia, esse vengono

dalla follia. Secondo il Fedro di Platone (244A-245C) vi sono quattro possibili forme di mania/follia: quella della profezia

presieduta da Apollo, in essa il profeta vede oltre il presente, intuisce ciò che accadrà, qui non c’è ragione. Vi è poi la

follia dell’iniziazione, percepita dalle religioni, che interviene quando vi è un momento di crisi, come nel caso, per il

cristianesimo, del battesimo alla nascita, la cresima quando si cresce, il matrimonio per la scelta di coppia etc. Terza follia

è quella delle Muse, protettrici dei poeti che sono i folli perché usano le parole secondo un significato da loro stessi dato,

non la ragione che qui è sospesa. Quarta follia, e più alta, è la follia di amore.

Al banchetto del Simposio platonico Socrate afferma di sapere intorno alle cose d’amore, ha episteme d’amore, un sapere

che sta su da sé, non ha bisogno di ragionamenti. Socrate non sa come i sapienti, come i religiosi che tramettono dei

contenuti, delle verità. Invece la verità è in noi, ma va tirata fuori dalle sporcizia come la statua di Glauco che in fondo al

mare si è tutta sporcata. Secondo Socrate la nostra parte razionale non ha potere su amore, è amore che dispone di noi

disordinando la parte razionale. Eros ci fa folli, ci fa stare tra gli dei e gli umani. Il linguaggio razionale viene tradotto per

la nostra parte folle e viceversa, amore fa da mediatore tra queste due nostre parti. Ecco il motivo delle frasi irrazionali

degli innamorati, presso i quali fuoriesce la follia. Con una storia d’amore è toccata la follia, e non si torna come prima

quando finisce, perché anche la dimensione razionale è segnata. Sia che l’esperienza vada bene, sia che vada male. 97 “Come ha mostrato Kierkegaard, Dio è al di là della morale perché è al di là di ciò che gli uomini giudicano vero o

falso, bene o male, essendo queste distinzioni inaugurate dalla ragione umana che procede per differenze, mentre il Dio

biblico, che ancora appartiene all’area del sacro, abita l’indifferenziato. Un tratto, questo, che in un certo senso non scom-

pare neppure nel cristianesimo, se è vero che al Dio cristiano appartiene l’attributo dell’onnipotenza, che significa che

Dio può fare una cosa e al contempo il suo contrario”. Id, p. 105

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Giobbe cerca di ragionare con Dio chiedendo il perché di ciò che gli è accaduto, ma

con Dio non si può usare la ragione, la razionalità è umana. Infatti Dio lo zittisce.

14.4.2. Il cristianesimo è la fine del sacro

Il cristianesimo ha però eliminato la distanza tra sacro e profano, ha desacralizzato

tutto con l’evento dell’incarnazione. Se Dio si fa uomo, allora il sacro non c’è più, per-

ché non c’è più la separatezza (ancora presente nell’ebraismo e nell’Islam in cui Dio,

ad esempio, non può essere raffigurato). L’umanizzazione del divino uccide il divino

stesso. Galimberti cita qui anche quello che lui ritiene un degrado della liturgia che,

per rendersi oggi comprensibile, ha perso del tutto la dimensione affascinante del

mistero. Il punto è che il linguaggio del sacro non può essere assolutamente il linguag-

gio abituale degli uomini. Nella liturgia come nella teologia: Dio non è comprensi-

bile!98

In merito alla questione della salvezza Galimberti sembra ben più vicino ad una posi-

zione protestante che non cattolica, perché il Dio cattolico è il Dio della retribuzione

secondo ragione, è il Dio del giudizio giusto secondo legalità, mentre il Dio protestante

è il Dio della grazia e della predestinazione, cioè il Dio del sacro.

Questa desacralizzazione ha infine ridotto il cristianesimo ad agenzia etica. Infatti oggi

le questione etiche sono al centro degli insegnamento della chiesa: la fecondazione,

la sessualità, tutte questioni in cui Dio non c’entra perché possono essere risolte tran-

quillamente dalla comunità civile.99 L‘etica è un sistema di regole per consentire ad

una comunità di vivere senza conflitti. Essa se le dà da sé, attraverso la ragione, non

occorre un fondamento teologico.

La religione, infatti, è al di là dell’etica che, essendo razionale, ancora distingue tra

bene e male. La colpa del cristianesimo è l’aver dimenticato tutto ciò. Lo vediamo

98 Afferma Galimberti: “Penso che la liturgia debba parlare una lingua che non sia assolutamente straniera all’uomo, ma

che sia al contempo distante dal suo linguaggio quotidiano. Con Dio non c’è un rapporto diretto, e non c’è mai stato in

nessuna religione. E dunque un linguaggio meno abituale, più cantato, più vocalizzato, più liturgizzato e più estetizzato,

perché la liturgia è bellezza”. Raffaele Luise, La visione di un Monaco, Cittadella, Assisi 2001, p. 13. 99 “Venendo a patti con la ragione, con la buona educazione, con la cultura, con la morale civile, il cristianesimo si è fatto

evento diurno, e perciò parla di morale sessuale, di contraccezione, di fecondazione artificiale, di aborto, di divorzio, di

scuola pubblica e privata. E così, producendosi in discorsi che ogni società civile può fare tranquillamente da sé, lascia la

gestione della notte indifferenziata del sacro o alla solitudine dei singoli che cercano rimedi in farmacia, o alla follia dei

gruppi che, privi come sono di quelle metafore di base dell’umanità che hanno fatto grandi le religioni storiche, producono

quelle promesse vuote, ma più spesso tragiche, che sono il nutrimento di quella religiosità da new age che viene incontro

a quel nucleo di follia che ciascuno di noi avverte dentro di sé come non interpretabile, non culturalizzabile, non leggi-

bile”. Umberto Galimberti, Cristianesimo. Religione dal cielo vuoto, Op. cit., pp. 29-30.

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anche nella teologia che non ha più a che fare con il vangelo, ma con Platone e Ari-

stotele. Ma La fede non è la ragione, e la verità razionale non c’entra con la fede. Essa

è un sapere, le cose che si vedono, si sanno. Verità di fede e di ragione non sono perciò

compatibili.100

Rispetto alle altre religioni almeno Il cristianesimo ha al suo centro l’amore che è la

più grande delle follie. C’è la chiesa dell’amore, l’amore per il prossimo, ma c’è anche

la chiesa del potere e il potere dice ancora di una perdita del sacro perché esso dà

regole, norme etiche, così la chiesa diventa agenzia etica, ma l’etica ce l’ha già la so-

cietà civile, non ha bisogno di Dio. Dio sta altrove, Dio è al di là dell’etica.

Tuttavia il sacro ci abita nella forma della follia e mentre prima le religioni avevano riti

per contenere l’area del sacro e la follia trovava così un luogo di espressione e rego-

lazione, dopo il cristianesimo questo non c’è più.101

14.4.3. Conseguenze

Ora, il sacro dimenticato è pericoloso perché il rimosso potrebbe tornare (Freud).

In questa situazione, sopravviverà l’Occidente alla fine del cristianesimo oppure l’Oc-

cidente seguirà il suo destino iscritto nel nome di terra del tramonto? E, nel caso,

sopravviverà il cristianesimo alla fine dell’Occidente?

Secondo Galimberti il cristianesimo morirà perché la tecno-scienza istituisce nella no-

stra psiche una qualità temporale incompatibile con la temporalità richiesta per es-

sere religiosi, quella del futuro. Il tempo della tecnica è tempo oggi-domani, oggi ho i

mezzi per realizzare la cosa e la faccio subito. Qui non si pensa l’escatologico, gli ultimi

giorni, i novissimi. Se in noi il tempo lungo non è interiorizzato, ma vi è solo quello

breve della tecnica, allora il religioso non è più colto e non può sopravvivere se non in

forme esteriori, emozionali, superficiali, consolatorie.

100 “Il problema è antico e la soluzione sarebbe semplicissima se la religione si tenesse nei limiti della fede e la scienza

nei limiti della ragione. Ma perché questi limiti possano essere rispettati è necessario che la religione rinunci a considerare

la ragione subordinata alla fede, e quindi scardini un fondamento della sua tradizione, peraltro ribadito da Giovanni Paolo

II e riconfermato da Benedetto XVI, che, sul dettato tomista, considerano la filosofia ancella della teologia”. Id, p. 256. 101 “Oggi le religioni storiche, con in testa il cristianesimo della cui simbologia si è nutrita la nostra cultura, da tempo

hanno smesso di fare il loro valore che è la gestione del sacro, dove il bene non si distingue dal male, il giusto dall’ingiu-

sto, il santo dall’empio, ma tutti si confonde in quella notte indifferenziata da cui l’umanità si è gradatamente emancipata,

prima con i riti che distinguevano il puro dall’impuro, il permesso dal proibito, il totem dal tabù, e poi con la ragione,

prima filosofica e poi giuridica, che ha costruito quegli argini collettivi, capaci di regolare i pensieri, i sentimenti e i

comportamenti degli uomini, difendendoli così dalla follia, che è il modo con cui il sacro, quando invade, devasta la

mente”. Id, p. 364.

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Ed ecco la profezia: “Passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, che

ancora si alimentano degli ultimi resti della cultura umanistica, che la religione cri-

stiana ha inaugurato ponendo l’uomo al centro dell’universo, nessuno più considererà

il bisogno di dare un senso alla vita un problema davvero fondamentale. Il rapido de-

clino dell’orizzonte umanistico determinati dalla tecnica che, non proponendosi alcun

fine, estingue ogni possibile reperimento di senso sembra oggi acutizzare e rendere

più drammatica la domanda inevasa di senso e la ricerca affannosa di una speranza

religiosa. Ma sono gli ultimi bagliori di un giorno che si sta spegnendo: il giorno

dell’uomo che, pur continuando a pensarsi protetto da Dio, senza esitazione ricorre

alla protezione della tecnica che ignora il nome di Dio”.102

Ora che la tecnica ha abolito la storia come deposito di senso, sia esso sacro o profano,

e l’uomo ha perso la sua padronanza sul mondo, non essendo più il suo un mondo

naturale, ma un mondo artificiale governato dalle macchine, occorre congedarsi dalla

categoria del “senso”, perché tentare di conservarla, come fanno gli uomini di reli-

gione, nel mistero, significa dichiararla inconoscibile, mentre tentare di sostituirla,

come fanno gli scienziati con il fascino del più rigoroso determinismo che ha preso il

posto lasciato vuoto dal progetto divino, significa dichiarare che non c’è alcun senso

che sia davvero reperibile.103

14.5. CONCLUSIONI SU GALIMBERTI

1. La scia che da Nietzsche passa per Heidegger, tocca l’analisi della società capitali-

stica dei francofortesi, giunge a Galimberti e mette a tema la questione della tecnica,

è ben nota nel pensiero del ‘900. Non sfugge a nessuno l’importanza di questa rifles-

sione e la consapevolezza del ruolo che essa ha ormai assunto nella società contem-

poranea.

In Galimberti tutto sembra ruotare attorno a tale verità. Se la tecnica è la più alta

manifestazione della razionalità umana, allora essa è al vertice davvero di tutto, di

tutto il processo evolutivo. Si ha come l’impressione di un destino inesorabile, da

tempo annunciato, che ormai sta per realizzarsi in pienezza.

L’uomo pensa ancora di avere in mano il potere, una passione che lo guida, come

quella per il denaro, per il successo etc., ma è solo una illusione. In realtà egli è sempre

102 Id, pp. 390-391. 103 Id, p. 395

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stato un mezzo di qualcosa ormai giunto alle porte. Tale scenario era già stato antici-

pato, in forme diverse, da tutti quei pensatori che hanno sacrificato il singolo per af-

fermare il tutto, l’individuo per affermare la specie. Già i greci nel rapporto citta-

dino/polis pensavano così, Hegel vedeva in ogni singolo ente ed avvenimento

l’espressione della vita dello Spirito, Schopenhauer faceva della realtà la manifesta-

zione della volontà di vivere, Nietzsche della volontà di potenza, etc. Tuttavia la civiltà

occidentale è stata anche segnata dal cristianesimo la cui posizione è, all’opposto, la

valorizzazione del singolo e l’apertura alla trascendenza e verso la trascendenza quale

vero senso/meta del percorso umano. Per Galimberti la lotta fra queste due diverse

prospettive è conclusa, il cristianesimo, un tempo vincente, ora non dice più nulla,

all’orizzonte abbiamo la fine di quelle piccole illusioni che ancora l’uomo tenta di te-

nere per sé. Di conseguenza dei tanti valori che hanno sostenuto la storia del passato

non è più nulla: siamo nel nichilismo.

Si apre qui però la domanda sugli effetti di questa descrizione. Se infatti Galimberti

aderisce così, come sembra, alla tesi di Karl Löwith per la quale la modernità è una

progressiva secolarizzazione del cristianesimo,104 allora egli deve poi domandarsi se

l’Occidente regga in questa situazione, visto che il cristianesimo è alla fine, come ha

denunciato Nietzsche. Se sia così Galimberti non lo dice apertamente, se lo pone

come domanda, ma l’impressione è che davvero lui lo pensi.

2. Quando in tante conferenze il professore espone queste tesi, sorge poi dal pubblico

la domanda se, in tale scenario, non vi sia una qualche speranza. Galimberti non ri-

sponde, proprio non vede dove trovare motivi per cambiare un indirizzo inesorabile.

La sua soluzione è, ancora una volta, di tipo greco, stoico: substine et abstine, affer-

mava Epitteto. Dopo il fallimento delle morali sperimentate, tutte inadatte a soppor-

tare l’età della tecnica, l’unica possibilità sembra essere questa: sopporta il dolore e

astieniti dai beni apparenti. Nell’invito ad abbandonare ogni forma di illusione, che si

rivelerebbe il più doloroso dei fallimenti, Galimberti ci chiede di tornare ad Atene, alla

saggezza dei greci, che avevano capito tutto in anticipo. Egli ci invita a tornare ad in-

catenare Prometeo, reo di aver acceso negli uomini una speranza di immortalità e a

denunciare il colpo di genio del cristianesimo, come dice Nietzsche, che è stato quello

di offrire una speranza ultraterrena.

Nella sua poderosa opera maggiore, Psiche e Techne, l’autore di fatto dedica al tema

della speranza solo una mezza paginetta finale. Citando Nietzsche egli pensa che

104 Cfr. Karl Löwith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano 1989 (or. 1949).

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l’uomo, non legato dall’istinto, potrebbe anticipare la condizione dominante della tec-

nica tentando di arginarla, potrebbe almeno prepararsi a gestirla, a non lasciarsi sor-

prendere dal suo, imminente, trionfo, forse per evitare così, una propria forma di

estinzione. Ma non è chiaro se ciò sarà possibile.105

Non c’è speranza allora nel suo discorso, perché la speranza è una categoria cristiana,

l’abbiamo visto, cioè propria di un orizzonte culturale che Galimberti rifiuta. Con i

greci, con Socrate, c’è solo da dire: tutto si conclude, abbiamo fatto la nostra parte.106

Toni cupi, dunque, che sorprendono per la loro radicalità e che sembrano assai difficili

però da sostenere fino in fondo. Può davvero una razionalità greca rendere conto di

altre dimensioni dell’uomo, i sentimenti, le emozioni, il desiderio che di fronte al mi-

stero della vita manifestano l’esigenza di un’altra risposta? È davvero possibile elimi-

nare l’ineliminabile domanda sul senso della vita? La prospettiva greca la toglie in ra-

dice. Nietzsche, nel proporre la dottrina dell’Eterno Ritorno, aveva lo scopo prima di

tutto di eliminare ogni illusione di senso/progresso all’esistenza degli uomini.107 Ciò

che la fredda ragione elabora con i suoi concetti non esaurisce invece la loro ricerca.

Galimberti stesso confessa, dopo la morte della moglie, tutto il suo disorienta-

mento.108

105 “Il fatto che la tecnica non sia ancora totalitaria, il fatto che quattro quinti dell’umanità viva di prodotti tecnici, ma non

ancora di mentalità tecnica, non deve confortarci, perché il passo decisivo verso l’assoluto tecnico, verso la macchina

mondiale l’abbiamo già fatto, anche se la nostra condizione sentimentale non ha ancora interiorizzato questo fatto, quindi

non ne è all’altezza. C’è una sola speranza, quella che abbiamo incontrato all’origine della tecnica e che Nietzsche ha

sintetizzato in quell’espressione: “L’uomo è un animale non ancora stabilizzato” volendo con ciò marcare la differenza

tra l’animale che vive nel mondo stabilizzato dall’istinto e l’uomo che non stabilizzato dall’istinto può vivere solo grazie

alla sua azione (…) non deve estinguersi la capacità di anticipare, quella capacità che i Greci avevano attribuito a Prome-

teo, l’inventore delle tecniche, il cui nome significa letteralmente colui che vede in anticipo (…) questo ampiamento

psichico, ben lungi dall’esser sufficiente per dominare la tecnica, evita almeno all’uomo che la tecnica accada a sua

insaputa e, da condizione essenziale all’esistenza umana, si traduca in causa della sua estinzione. Occorre infatti evitare

che l’età della tecnica segni quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più

Che cosa possiamo fare noi con la tecnica? Ma Che cosa la tecnica può fare di noi?”. Umberto Galimberti, Psiche e

techne, Op. cit., pp. 714-715. 106 “La speranza non è propriamente la mia categoria. Non sono in grado di sperare e tanto meno di credere. Ecco, se io

dovessi collocarmi antropologicamente, mi collocherei in un’antropologia greca, dove il buon Socrate a un certo punto

dice di sé: Quello che avevo da dire verità l’ho detto, inutile che io prolunghi la mia vita oltre una certa misura” Cit. da

Raffaele Luise, Il sacro e il cristianesimo nel pensiero di Umberto Galimberti, in Gianluigi Pasquale (a cura di), Ritorno

ad Atene. Studi in onore di Umberto Galimberti, Carocci, Roma 2012, p. 580. 107 È questa l’interpretazione dell’Eterno Ritorno data da Gianfranco Morra nel suo recente studio su Nietzsche. Cfr.

Gianfranco Morra, Il cane di Zarathustra, Ares, Milano 2013, pp. 93-96. 108 “E adesso, se devo dire la verità, ho una grandissima tristezza che mi viene dalla consapevolezza di avere vissuto

praticamente soltanto per avere un testimone. La mia storia aveva un valore solo quando la potevo raccontare a qualcuno

mentre adesso, finito questo racconto, non so più perché devo fare le cose. Sono in una fase di totale disorientamento:

non so perché si devono fare le cose, non so perché si devono scrivere libri, non so più nulla. Non soggetto più perché

sono al mondo”. Umberto Galimberti e Marco Alloni, Il viandante della filosofia, Op. cit., pp. 87-88.

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3. Galimberti è stato allievo di Severino a Milano, a lui dedica Psiche e techne.109 Tut-

tavia il maestro prende le distanze dall’allievo per smarcarsi su alcuni punti e scrive:

“Il saggio condivide con i miei scritti la tesi che la tecnica, da mezzo per realizzare gli

scopi dell’agire umano, sta diventando il fine di quest’ultimo”.110 Ma per Severino ciò

è diretta conseguenza della fede dell’Occidente che ammette il divenir-altro dell’ente,

mentre per Galimberti “il contenuto di quella fede è un’oggettività indubitabile e

quindi non è fede, ma verità (…) è chiaro che per lui quel rovesciamento, per cui oggi

la tecnica da mezzo diventa fine, è, a sua volta, una verità oggettiva e non è la conse-

guenza inevitabile di una premessa che (come si mostra nei miei scritti) viene affer-

mata dal punto di vista della fede nell’esistenza del divenire e dell’azione, ossia dal

punto di vista della Follia essenziale”.111

Discutibile anche, in fondo, l’affermazione che la tecnica da mezzo sia diventata fine

dell’agire, poiché da sempre e in ogni momento l’uomo ha avuto bisogno di mezzi per

ottenere fini.112 Le due cose sono sempre state insieme, in correlazione.

4. Galimberti propone, sulla scia della fenomenologia, una concezione di “corpo vi-

tale” inserito nel mondo della vita che gli consentirebbe di superare la questione del

dualismo anima-corpo che egli considera come un errore metafisico fondamentale.

Responsabile di esso è stato, prima di tutto, Platone che inoltre, per esaltare il mondo

della verità iperuranico ed epistemico, ha così svalutato quello materiale, derivato e

di opinione. Quello dunque che per il platonici è un pregio113, per Galimberti è un

grave difetto. Lì sta la vera realtà, qui vi è solo apparenza, e il vero significato delle

cose è sempre altrove. Da questo dualismo, poi radicalizzato agli inizi della modernità,

ha inizio una separazione in cui filosofia/medicina e teologia si sono spartiti i compiti,

alle prime il sapere umano, alla seconda quello divino/spirituale.

La tensione filosofica di cercare unità nel molteplice (tutta la filosofia è come un

grande sforzo in questo senso) porta invece a cercare unità nell’uomo costituito di più

parti. Il pensiero omerico pre-filosofico la pensava possibile solo nella morte, perché

lì le varie parti fisiche dell’uomo perdono il loro significato individuale che le differen-

zia, per diventare come un tutt’uno chiamato corpo, che in Omero costituisce il cada-

vere. 109 In esergo: “A Emanuele Severino che, nel nostro tempo, ha pensato nel modo più radicale il problema della tecnica”. 110 Emanuele Severino, Discussione intorno al senso della verità, in Gianluigi Pasquale (a cura di), Ritorno ad Atene,

studi in onore di Umberto Galimberti, Op. cit., p. 305 111 Id, p. 306 112 “Va rivelato che se il motivo per cui la tecnica da mezzo diventa fine è che ormai tutti gli scopi sono realizzati da

mezzi, allora questo motivo è inconsistente, appunto perché da sempre l’uomo vive se stesso come un essere che organizza

mezzi per raggiungere scopi”. Id, p. 307. 113 Cfr. Giovanni Reale, Corpo, anima, salute, Cortina, Milano 1999.

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Galimberti insiste continuamente sul fatto che bisogna prendere con serietà il tema

della morte, ma lo si dovrà fare da vivi, cogliendo, con Omero, ma oltre Omero, l’unità

dell’uomo già in vita. Secondo lui tale unità chiede l’eliminazione di uno dei poli ed

una corretta interpretazione del secondo. Si elimina dunque l’anima e si comprende

l’organismo come corpo, “corpo vitale”.

È però in grado di preservare il concetto di Lieb, qui elaborato, quanto ci assicura

quello di anima? È una sfida aperta e problematica, ancora tutta da dimostrare. Non

sfugge l’impressione che l’eliminazione dell’anima sia funzionale piuttosto ad una po-

sizione ideologica tesa ad eliminare il polo spirituale dell’uomo e a ridurre tutto ad

una materialità che lo svilisce e ne annulla qualsiasi senso individuale.

5. Sulla distinzione corpo-organismo c’è da chiedersi fino a che punto sia realmente

proponibile. Essa sembra piuttosto essere un dualismo di ritorno. Quando, ad esem-

pio, egli afferma l’azione del medico come effettuata sull’organismo, non sul corpo,

non sull’uomo nella sua globalità, quando ad una conferenza sul tema delle nanotec-

nologie Galimberti ha ripreso questa posizione, diversi medici presenti in platea

hanno poi contestato questa sua separazione. Oggetto della loro cura non è l’organi-

smo, ma l’uomo, il corpo-Leib. Si cura la parte come parte di un tutto ed il benessere

del tutto influisce sulla condizione della parte.114

6. Il ritorno ad Atene viene motivato da Galimberti come esempio di coerenza

dell’uomo greco capace di sopportare il proprio destino di non avere destino, di far

parte della natura, una natura in cui si nasce e si muore, in cui la morte del singolo è

indispensabile per il bene della specie. In realtà Galimberti sembra così proporre una

grecità pre-platonica o post-aristotelica in cui la prospettiva era legata alla sola di-

mensione materiale. Ma tutta la grande tradizione platonica e aristotelica, che fa se-

guito alla scoperta della “seconda navigazione”, cioè della metafisica, è invece aperta

ad una dimensione che ci trascende. Platone dimostra l’immortalità dell’anima e nel

mito ne racconta le vicende di caduta e di redenzione. Aristotele, nel De Anima, pur

se in maniera meno esplicita, ammette la sopravvivenza di un qualcosa, l’intelletto

agente, “che viene dal di fuori”, che appartiene all’uomo dalla nascita e che poi, alla

morte, ritorna da dove è venuto. Se viene dal di fuori è allora qualcosa di irriducibile

al corpo e dunque trascendente il sensibile e abitante l’area del divino. Vi è perciò uno

spirituale in noi.

114 Cfr. Fondazione Corriere della Sera, La scienza e l’altro. Il corpo tra tecnologia ed etica. Con Mauro Ferrari ed

Umberto Galimberti, coordina Pierluigi Panza.

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7. Sul cristianesimo l’agnostico Galimberti pronuncia un grave giudizio. Nel mondo

occidentale esso ha sequestrato la questione religiosa, affermandosi dappertutto ed

ha così tolto quella che era la dimensione fondamentale di ogni religione: difenderci

dal sacro, arginare l’area dell’irrazionale dove l’uomo non può entrare, pena la follia.

Il “greco” Galimberti ci riporta evidentemente ai tempi della grecità quando il mondo

degli dei era inteso come un’area da cui difendersi con il culto, con i sacrifici, un area

verso la quale l’uomo non può andare, pena il bruciarsi le ali. Sacro come separato,

ma anche come pericoloso, sacro come origine misteriosa dell’indifferenziato, buco

nero dal quale allontanarsi il più possibile per non essere ingoiati. L’orrore del Sacro

è del tutto ribaltato dal cristianesimo. L’Antico Testamento manteneva ancora dimen-

sioni antiche, ma la pienezza della rivelazione del Nuovo Testamento ha finalmente

rivelato il mistero nascosto dai secoli. Non un Dio nemico dell’uomo, ma padre ed

amico. Il luogo del Sacro non come un pericolo, allora, ma come una meta verso la

quale l’umanità è diretta. Dio non come un totalmente altro, ma tanto vicino agli uo-

mini da farsi uomo lui stesso, affinché gli uomini stessi possano diventare come Dio,

entrando in comunione con lui ed ottenendo, così, la propria piena realizzazione. La

differenza non può essere più radicale e quella che per Galimberti è illusione dannosa

di cui l’Occidente paga il prezzo, è per i cristiani l’evento che cambia la storia. Se la

storia è tale perché dà senso al tempo, il cristianesimo è anche alle origini della storia.

Galimberti, filosofo della storia, eliminando il senso alla realtà, elimina anche la storia

e declina una antropologia cupa e rassegnata. In tale situazione non vi sono neppure

richiami alla solidarietà e alla carità (come in Schopenhauer o in Vattimo), ma solo

l’invito a saper accettare con coraggio questa situazione, lasciando perdere inutili con-

solazioni. Così si è uomini all’altezza: si nasce, si vive, si muore. Si può reggere una

visione di questo tipo?

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15. GIANNI VATTIMO Ontologia, ermeneutica, cristianesimo e post-modernità115 Il pensiero del ‘900 ha visto nell’ermeneutica una delle sue correnti più significative. Il termine si presenta con molte sfaccettature ed è, effettivamente, oggi ancora piut-tosto generico.116 L’ermeneutica di Vattimo, in particolare, considera l’approccio alla realtà come un percorso interpretativo della stessa che segue le regole dello studio dei testi. Ne con-segue che tale approccio non sfocia mai ad una conclusione definitiva, ma sempre parziale. Esso è sempre, cioè, storicamente determinato, tanto da necessitare conti-nue correzioni. Sotto questo profilo l’ermeneutica presenta i tratti di una propedeu-tica al pensiero debole che ne è uno degli esiti più significativi. 15.1. ONTOLOGIA ERMENEUTICA 15.1.1. Il significato nichilistico dell’ermeneutica L’attenzione all’ermeneutica è generalizzata nella cultura europea del primo nove-cento. Essa ha come riferimento imprescindibile l’opera Verità e Metodo (1960) di Hans-Georg Gadamer (1900-2002), in cui troviamo la sua prima grande sintesi: ogni esperienza di mondo è sempre una interpretazione. Vattimo, che ha tradotto e commentato l’edizione italiana dell’opera,117 per primo ha parlato dell’ermeneutica come di una koiné del pensiero contemporaneo118 e si è preoccupato di cogliere quelli che sono i suoi autentici fondamenti filosofici, per chia-rire in che senso si debba affermare oggi che non si dia “esperienza della verità se non come atto interpretativo”.119 È necessario tener conto del fatto che questa attenzione per l’ermeneutica si colloca all’interno del ‘900, cioè di una fase del pensiero occidentale segnata dalla crisi della 115 Vedi, in particolare, Davide Monaco, Gianni Vattimo, ETS Pisa 2006. Vedi ancora: Dario Antiseri, Le ragioni del

pensiero debole, Borla, Roma 1995; Gianni Carchia e Maurizio Ferraris (a cura di) Interpretazione ed emancipazione.

Studi in onore di Gianni Vattimo, Cortina, Milano 1995; Carmelo Dotolo, La teologia fondamentale davanti alle sfide del

pensiero debole di G. Vattimo, LAS, Roma 1999; Daniele Mattia, Gianni Vattimo. L’etica dell’interpretazione, Athe-

neum, Firenze 2002; Giovanni Giorgio, Il pensiero di Gianni Vattimo, Franco Angeli, Milano 2006; AaVv, Pensare

l’attualità, cambiare il mondo. Confronto con Gianni Vattimo, Bruno Mondadori, Milano 2008; Enrico Radaelli, Il nodo

dei nodi. Il pensiero in Vattimo, Vitiello, Sini, ETS, Pisa 2008; Dario Antiseri, Silvano Tagliabue (a cura di), Filosofi

italiani contemporanei in Storia della filosofia, Vol. 14, Bompiani, Milano 2008, pp. 606-619. Santiago Zabala (a cura

di), Una filosofia debole. Saggi in onore di Gianni Vattimo, Garzanti, Milano 2012. 116 Per un primo approccio vedi: Maurizio Ferraris, Ermeneutica, in Paolo Rossi (a cura di), Filosofia, Vol. IV, UTET

Torino 1995, pp. 39-83; G. Chiurazzi - G. Vattimo, Ermeneutica, in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006, pp.

3547-3557; Franco Bianco, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 2002; Maurizio Ferraris, Storia dell’erme-

neutica, Bompiani, Milano 2008. 117 Hans-Georg Gadamer, Verità e Metodo, a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2000. 118 Se si volesse indicare nel pensiero di oggi una tendenza che possa considerarsi la koinè filosofica attuale, paragonabile

a ciò che sono stati il marxismo negli anni cinquanta-sessanta, e lo strutturalismo negli anni settanta, si dovrebbe proba-

bilmente riconoscere che, sebbene forse con tratti e modi di diffusione diversi, questo ruolo è svolto oggi dall’ermeneutica.

Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, p. 27 119 Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 7.

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metafisica classica. Tale crisi, preparata nell’800 da Nietzsche ed inaugurata nel ‘900 da Heidegger, non comporta necessariamente il rifiuto di una ontologia, cioè di un discorso adeguato sulle strutture dell’essere, ma ne chiede una riformulazione. Si manifesta così l’urgenza di elaborare un progetto che tenga conto delle implicanze ontologiche dell’ermeneutica: di quale essere possiamo dunque parlare? L’attenzione alla questione ermeneutica è presente fin dagli studi di Vattimo su Schleiermacher (1768-1834), l’autore in cui l’ermeneutica passa, per la prima volta, da semplice tecnica per interpretare i testi, a modello interpretativo di tutta l’espe-rienza umana.120 Il punto cruciale è che, secondo Vattimo, l’ermeneutica è legata di sua natura al nichi-lismo. Questo legame viene indagato nel primo capitolo di Oltre l’interpretazione dal titolo: La vocazione nichilistica dell’ermeneutica,121 in cui troviamo descritta tale stretta relazione. L’ermeneutica dunque è chiamata a comprendere la sua identità nichilista e a prenderne atto. Heideggerianamente questa è la situazione in cui ci tro-viamo oggi gettati. Il nichilismo è l’evento/condizione in cui mi trovo (senza che di-penda da me) e all’interno del quale interpreto la realtà. I referenti principali di Vattimo sono qui, naturalmente, Nietzsche, Heidegger e Gada-mer, oggetto di molti suoi studi. Essi sono però come dei poli, tra i quali troviamo altri autori a cui il nostro fa riferimento, tra di essi in particolare Luigi Pareyson (1918-1991), e Paul Ricoeur (1913-2005). Se l’essere si dà a noi nel suo accadere, nel suo offrirsi storico (Heidegger dice: nel suo eventualizzarsi) esso, per forza di cose, non è più descrivibile come semplice presenza, essenza, idea, non più come un qualcosa di stabile ed immutabile. È finita l’epoca della metafisica classica in cui l’essere veniva colto in questo modo122. Tutto ciò non porta però ancora ad una caduta nell’irrazionalismo. Vi è infatti la pos-sibilità di esplicitare un qualche fondamento filosofico che consista di una razionalità, diversa però da quella della metafisica di un tempo. “Non si tratta qui di esibire fon-damenti inconcussi o descrizioni, bensì di passare ad un altro tipo di razionalità che si può dire narrativo-interpretativa”.123 Questa impostazione ha alle spalle, oltre a Gadamer, anche Richard Rorty (1931-2007) e Jacques Deridda (1930-2004), autori amici di Vattimo. La prospettiva ermeneutica considera il termine fondazione in maniera nuova. Tale fondazione tiene conto, in particolare, degli effetti, per la cultura e la società del ‘900,

120 Gianni Vattimo, Schleiermacher filosofo dell’interpretazione, Mursia, Milano 1986 (ed. or. 1968). 121 Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, cap. 1: La vocazione nichilistica dell’ermeneutica,

pp. 3-19. 122 L’ontologia nichilistica nietzscheano-heideggeriana va oltre la metafisica anche e soprattutto perché non ritiene più di

dover cercare strutture stabili, fondamenti eterni e simili –perché proprio questo significherebbe ancora aspettarsi che

l’essere abbia la struttura dell’oggetto, dell’ente. Essa pensa invece di dover cogliere l’essere come evento, come il con-

figurarsi della realtà peculiarmente legato alla situazione d’epoca.

Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, p. 8 123 Davide Monaco, Gianni Vattimo, ETS, Pisa 2006, p. 30.

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dell’annuncio della morte di Dio fatto da Nietzsche e del nichilismo che ne consegue. Per Vattimo ciò significa, in primo luogo, che Dio non serve più. Questo Dio va supe-rato, egli è il Dio della metafisica, servito in passato solo per l’organizzazione della società, per darle serenità e sicurezza. Ora, nell’età della tecnica, ciò è assai meglio realizzato dalla scienza, dunque quel Dio non è più necessario. Dio era come l’idea di verità cioè un fondamento che dava sicurezza, ma ora né lui, né la verità servono più. Per Vattimo uccidere Dio significa così far fuori l’idea di verità tradizionalmente intesa. Con Nietzsche, il mondo vero, il mondo vero della metafisica, è, infatti, diventato una favola (T5).124 Non si tratta però di un discorso necessariamente ateo. Anche l’ateismo, infatti, pecca qui della stessa colpa del teismo (cioè pretende di dire la verità della non esistenza di Dio), semplicemente “la morte di Dio è la fine delle strutture stabili dell’essere”.125 Sono questi gli eventi nichilistici che portano alla ermeneutica, ad una filosofia della interpretazione. La sua “verità”, la sua possibilità/giustificazione, consiste nel fatto che essa è la conseguenza della morte di Dio e della fabulizzazione di un mondo me-tafisico immutabile. Dunque essa ha a che fare costitutivamente con il nichilismo. Questa nuova razionalità sarà allora debole in quanto “basata non su una struttura del reale, ma sulla fedeltà ad una situazione in cui il pensiero si trova gettato”.126 Una situazione peraltro sempre in continua evoluzione. L’ermeneutica è la filosofia che si adatta alla condizione epocale in cui ci troviamo e che condiziona il filosofo come provenienza (non scelta da lui) del suo pensare. Qui non si può più parlare, ribadiamo, dell’essere come ne parlava la metafisica clas-sica e della realtà come ne parla il metodo scientifico-positivo. La storia dell’essere si è così manifestata come un suo indebolimento, dunque come un andare verso il ni-chilismo. Sullo sfondo di questa nuova condizione sta la lettura della metafisica come storia di nichilismo (che Vattimo eredita da Heidegger), come storia nella quale l’essere si è, cioè, via via obliato. È questo processo che fonda l’ermeneutica, che ne è l’esito com-piuto. In questo senso l’ermeneutica è anche la filosofia della post-modernità. Essa è l’unica risposta possibile e coerente ad una condizione di indebolimento dell’essere nella quale ci troviamo gettati.

124 Cfr. F. Nietzsche, Come il “mondo vero” finì per diventare favola, in Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 2000,

pp. 46-47. 125 Davide Monaco, Gianni Vattimo, ETS, Pisa 2006, p. 33. 126 Id, p. 34.

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15.1.2. La scienza tecnico-moderna127 Nell’ambito della filosofia ermeneutica la scienza/tecnica assume, in Heidegger e Vat-timo, un ruolo importante. L’ermeneutica di Vattimo, che tiene conto di una inelimi-nabile storicità e della sua vocazione nichilistica (cioè di essere una filosofia che opera all’interno del nichilismo, in un’epoca storica in cui l’essere si è come nascosto e le certezze di un tempo sono diventate nulla), intende elaborare il suo rapporto con la scienza in una forma diversa da quella dell’ermeneutica koinè (=la più diffusa), ma anche da quella di Gadamer. Questa infatti considera ancora l’ermeneutica nella lo-gica della superiorità delle scienze dello spirito sulle scienze della natura. La questione per Vattimo è invece un'altra. In una visione che va oltre la metafisica classica, il rapporto con la scienza deve oggi cambiare. La scienza moderna stessa, cioè, dopo Popper, conferma che ormai non vi sono più fatti, ma solo interpretazioni, dunque nichilismo (nel senso che la verità come definizione, concetto, struttura stabile, risultato certo dell’esperimento scienti-fico, etc. non c’è più, è nulla). Il tema, per Vattimo, è centrale soprattutto nel ‘900. La cultura del ‘900 ha demoniz-zato infatti la tecnica, in quanto negatrice della libertà umana. Essa standardizza l’uomo, lo sfrutta, lo globalizza, gli impone le proprie scelte. È stato Heidegger a inserire la vicenda della tecnica all’interno della storia dell’essere, a ricercarne le radici filosofiche. La tecnica porta a compimento la storia della metafi-sica classica, che è storia dell’oblio dell’essere (perché credeva di indagare l’essere e invece indagava gli enti metafisici, come idee, essenze, Dio, finendo, senza volerlo, per tralasciare l’essere, che si è così obliato), storia di nichilismo dunque. La fase della tecnica è evento, darsi storico dell’essere, che è ora del tutto obliato (nel senso che l’essere si dà obliato, cioè non lo si trova più attraverso i concetti, le definizioni, etc., ma lo si pensa, erroneamente, presente ormai solo negli enti sempre più perfetti e tecnologici e a loro, solo a loro, si attribuisce valore) perché al centro di tutto sta l’uomo e il suo potere. Ciò porta a compimento la modernità. Ormai la centralità della tecnica è però andata oltre, essa ha reso superfluo l’uomo come soggetto, coscienza di sé, etc. Essa stessa ha preso il suo posto e l’uomo ne è risultato sfruttato. Per Vattimo non si esce dalla tecnica tornando all’umanismo della centralità dell’uomo, perché così saremmo ancora nel vecchio paradigma, bisogna piuttosto tentare una lettura della tecnica diversa, che non sia demonizzante. Il primo ‘900 non ha in effetti compreso la tecnica vedendola solo in chiave di mecca-nicismo, di massima produttività, di sviluppo e progresso, costi quel che costi, di sfrut-tamento della mano d’opera (inumanità della catena di montaggio), di profitto etc., dando poi luogo ad una società dal potere centrale.

127 Cfr. Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, cap. 2: La scienza, pp. 21-35.

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Le cose oggi sono cambiate da quando la tecnica è diventata soprattutto sviluppo della comunicazione ed informatica. Si tratta di un aspetto positivo. Abbiamo tante informazioni sul mondo che viene visto attraverso tante discipline. Ciò dà luogo sempre a visioni prospettiche (=soggettive). È diventata perciò illusoria una sua (del mondo) descrizione oggettiva, in quanto ogni cosa è sottomessa al complesso gioco delle visioni, che diventano interpretazioni dell’oggetto. In questo mondo dell’informazione a tutti è data la possibilità di esprimersi, di pro-porre le proprie visioni le proprie etiche, credenze etc. (cfr. internet!). Resta il fatto, in sede critica, che i mass-media si propongono come “agenzie interpre-tative” mosse talora da interessi tali da nascondere anche del tutto la realtà. Sono questi i temi trattati da Vattimo in La società trasparente.128 A tutto ciò si accompagna la convinzione che la scienza non sia in grado di offrirci una immagine oggettiva del mondo. Già Heidegger aveva negato alla scienza la capacità di accedere alla verità. 15.1.3. Ermeneutica e scienza Vattimo imposta però il rapporto tra ermeneutica e scienza in modo nuovo in Oltre l’interpretazione. L’ermeneutica infatti si trova legata alla scienza. Il suo legame con l’accadere del nichilismo (la citata vocazione nichilista dell’ermeneutica) la porta alla scienza in quanto la scienza, secondo lui, segnala gli stessi esiti nichilistici. Grazie alla scienza abbiamo cioè una trasformazione nichilista del senso dell’essere (da interpre-tare qui come sicurezza, stabilità, verità). Essa ci conferma, e ci fa comprendere an-cora meglio, che non vi sono fatti, ma solo interpretazioni, convenzioni, approssima-zioni. Sono del tutto negate, come si vede, le illusioni neopositiviste del primo ‘900, che avevano esaltato la scienza e il metodo scientifico della verificazione come unica fonte certa di verità. Il principio di realtà e di verificazione si è allora dissolto e questo è nichilismo (cioè del principio di realtà, in grado di dire la realtà in forma oggettiva ed universale, dunque di dare prove, non abbiamo più nulla). Se la scienza/tecnica porta a compimento, in tal modo, la metafisica classica, allora ci dovrà anche essere ora un modo diverso di elaborare l’indagine sull’essere. Per Vattimo, cioè, la filosofia non deve tanto opporsi alla scienza rivendicando i diritti del “mondo della vita” (cultura, religione, senso, etica, umanesimo etc.), come si è pure pensato (Husserl), ma deve piuttosto invitare la scienza a prender atto della pro-pria condizione riconoscendo ed assumendo quella vocazione nichilistica che le è pro-pria. Così essa sarà davvero a servizio dell’uomo (ad esempio non sarà più violenta). Sta qui la proposta di Vattimo che invita ad evitare il rischio di una demonizzazione della scienza. Non si tratta di fuggire la tecnica, cosa che sarebbe oggi improponibile, essa si deve però porre di fronte ai problemi con una prospettiva nichilista, cioè senza

128 Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989.

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pretese universalistiche, senza arroganza arbitraria contro i più deboli, nel più asso-luto rispetto della volontà di ciascuno. Ne sono aspetti concreti i temi oggi eticamente sensibili del vivere e del morire, delle scelte sessuali, della libertà, del razzismo, dell’ingegneria genetica, dei trapianti d’or-gano, della fecondazione assistita, dell’eutanasia etc. Su di essi si deve discutere e giungere ad una qualche forma di consenso, ma senza imposizioni violente di nessun tipo, né fondate sulla scienza, né sulla filosofia, né sulla teologia o su qualcos’altro. La questione si pone appunto in quanto nell’epoca nichilista le antiche certezze/es-senze stabili immutabili, garantite dai fondamenti (su tutti Dio!) si sono dissolte, la tradizione non va più rispettata/sacralizzata, ma riletta ed attualizzata. 15.1.4. Il carattere etico dell’ermeneutica129 Heidegger critica l’idea di verità come conformità, propria della metafisica classica, in quanto essa presuppone una concezione dell’essere come fondamento ultimo, prin-cipio primo oltre cui non si va. Invece dietro l’illusorio Grund (=fondamento) c’è l’ab-Grund, l’abisso. Si tratta di un rifiuto etico prima ancora che teoretico, intendendo Heidegger la metafisica come atto di violenza (imposizione di un significato) che si impone autoritativamente e che chiede una sua silenziosa ed ossequiosa accetta-zione. Invece l’ermeneutica chiama in causa il soggetto, lo fa attivo nel campo della verità. Il tema del pensiero violento torna spesso anche in Vattimo, ma era già presente nel primo Novecento. La reazione contro un mondo definito veniva fatta in nome della libertà e della storicità dell’uomo, ma anche contro le ideologie totalitarie diffuse a quel tempo e contro le illusorie sicurezze della scienza e della tecnica che riducono tutto a calcolabile e manipolabile. In buona sostanza, il rifiuto della metafisica sta ad indicare il rifiuto della modernità, che ha avuto il suo punto massimo nella scienza/tecnica del ‘900. Qui Vattimo è ancora una volta hedeggeriano. Heidegger non cercava, però, un nuovo principio, un nuovo fondamento, saremmo ancora nel paradigma violento della me-tafisica, lui vedeva piuttosto l’essere come tessuto connettivo del sapere metafisico, sfondo da cui tutto proviene. La metafisica diventa così la storia del dirsi dell’essere in quanto sfondo dell’essere130 che si offre come evento, che tiene unite le varie im-magini di mondo che la filosofia ermeneutica elabora. Ciò garantisce una razionalità nuova che non si fonda su strutture oggettive ed immutabili.

129 Cfr. Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, cap.3: Etica, pp. 37-52; Id, Etica dell’inter-

pretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 135-147. 130 Vattimo usa per dire questo il termine, non proprio elegantissimo, di sfondamento.

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Il riverbero etico di tutto questo viene individuato da Vattimo nel rifiuto di ogni vio-lenza131, nella necessità del dialogo, addirittura nella pietas verso il prossimo. In particolare sono in tal modo ermeneutiche l’etica della comunicazione di Karl Otto Apel (n. 1922) e Jürgen Habermas (n. 1929), l’etica della ridescrizione di R.Rorty (1931-2007),132 benché esse non sfuggano, secondo Vattimo, al rischio metafisico. Più coe-rente, in questo senso, è l’etica di Gadamer.133 Si deve tener conto che la nostra condizione è, secondo Heidegger e Vattimo, quella di abitare in una apertura che ci costituisce, che è il nostro orizzonte/paradigma. Tale abitare non è, ovviamente, una struttura stabile ed immutabile dell’uomo, ma è piut-tosto il contesto storico-culturale in cui mi trovo, in cui vivo, in cui mi trovo gettato, in cui mi impegno e mi realizzo, dato che in tale apertura non sto passivamente, ma attivamente. Questo abitare è come abitare in una biblioteca che propone molti libri da leggere, nella quale il bibliotecario sa trovare i libri per tutti e la loro collocazione adeguata. Il sapere del bibliotecario è il sapere ermeneutico che individua i libri giusti da leggere ora e ci salva dal relativismo.134 Tuttavia è pur vero che questa biblioteca, nella nostra civiltà occidentale della comunicazione, è la biblioteca di Babele, con molte immagini, lingue, messaggi che indicano il darsi dell’essere in aperture via via sempre diverse, tutte da rispettare, se si vuole uscire dalla metafisica come violenza. Ne consegue che la verità è costituita dal nostro abitare la biblioteca di Babele. Siamo certi che questo non sia relativismo? 15.2. CRISTIANESIMO E SECOLARIZZAZIONE 15.2.1. Il cristianesimo e la dissoluzione della metafisica La vocazione nichilista dell’ermeneutica è legata, secondo Vattimo, anche alla tradi-zione cristiana. Nietzsche e Heidegger ci hanno detto del nichilismo e della fine della metafisica, Vat-timo va oltre e segnala il fatto che la nostra epoca è tale (cioè nichilista) prima di tutto per il diffondersi del messaggio cristiano. Dunque le radici sono parecchio antiche. L’ermeneutica, cioè, per la sua vocazione nichilista, è un effetto dell’annuncio del van-gelo. Vattimo, legge l’avvento del cristianesimo come l’evento che rende possibile la

131 Il disincanto si configura anche come un’opzione per la non-violenza. Non c’è un fondamento per sottomettersi a un

ordine obiettivo dato, che ci trascenda; e nemmeno per sottomettersi a qualcuno, che potrebbe domandare la nostra ob-

bedienza solo in nome di quell’ordine. Nel mondo senza fondamenti tutti sono uguali, ogni imposizione di un sistema di

senso sopra agli altri è violenza e sopraffazione, perché non può mai legittimarsi in riferimento ad un ordine obiettivo. Il

solo fondamento del prevalere di un ordine di senso potrebbe essere la forza.

Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, p. 127 132 Cfr., Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 42-47. 133 Cfr., Id, pp 48-49. 134 L’immagine della biblioteca si trova in Oltre l’interpretazione, Op.Cit., p. 104.

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fine della metafisica, collocando così l’ermeneutica contemporanea all’interno di un’epoca dell’essere aperta dal cristianesimo. Il cristianesimo ha reso possibile la dissoluzione della metafisica, perché ha messo al centro l’interiorità lasciando da parte la realtà oggettiva. È così iniziata un’epoca dell’essere che poi Nietzsche e Heidegger porteranno a compimento. Secondo Wilhelm Dilthey (1833-1911. Introduzione delle scienze dello spirito seconda parte, 1833), e a conferma di ciò, vi è, accanto ad una metafisica degli antichi, una metafisica dei moderni, inaugurata dal cristianesimo, che si conclude con la dissolu-zione della metafisica stessa, con Kant e gli sviluppi kantiani. La separazione è dovuta al fatto che il cristianesimo ha appunto portato la centralità del discorso dal cosmo/natura, all’interiorità umana, alla persona. Volere, libertà, sto-ricità sono centrali nel cristianesimo. Lo stesso Dio è Trinità, cioè relazione, vita, non fondamento immutabile, non idea del Bene o motore immobile, o non solo. Vattimo afferma che la filosofia moderna, e ancor più quella contemporanea, sono figlie dell’autentica tradizione cristiana e inconsapevolmente ne hanno portato avanti le istanze centrali. Invece, paradossalmente, proprio la chiesa ha tralasciato tale tradizione, si è irrigidita in posizioni metafisiche, ha ingaggiato una polemica con la modernità e si è sempre più allontanata dal genuino messaggio di Cristo. Così la chiesa di Giovanni Paolo II e di papa Benedetto è un esempio di chiesa “forte”, autoritaria, che pretende di possedere e difendere la verità su Dio e sull’uomo. In questa situazione l’unico futuro possibile per il cristianesimo è solo quello di “ricon-vertirsi” al suo significato kenotico e secolarizzante originario. Secondo Vattimo, storicamente ciò è dovuto alla chiesa stessa, chiamata a presentarsi in maniera forte dopo il crollo dell’impero romano. Da qui la sua struttura rigida co-struita attorno alle affermazioni dogmatiche. In tal modo si segnala e si sostiene anche la connessione tra metafisica e potere. In questo senso non si poterono perciò intra-vedere allora le potenzialità anti-metafisiche del cristianesimo che oggi il filosofo to-rinese intende rivelare. Forte della verità, la chiesa divenne dunque autoritaria, in quanto unica depositaria fedele di tale verità. Essa è sempre stata una struttura di potere.135 L’esito del processo di dissoluzione della metafisica è l’annuncio della morte di Dio di Nietzsche. Perciò Nietzsche compie ciò che il cristianesimo autentico ha fatto nascere: la fine del Dio delle certezze. Secondo Vattimo, ciò che ancora resta del cristianesimo, dopo la morte di Dio, è il principio di carità veicolato proprio da esso. È questo l’unico valore che possa realiz-zare oggi l’incontro tra culture, religioni, filosofie, culture differenti senza cadere nella violenza.

135 Cfr. Gianni Vattimo-Richard Rorty, Futuro della religione, Garzanti, Milano 2005, p. 68.

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15.2.2. La Kenosis come indebolimento dell’essere Mettere al centro l’interiorità, la volontà, la libertà etc. e non le essenze significa dis-solvere la metafisica classicamente intesa. È ciò che ha fatto l’autentico cristianesimo prima di essere inglobato nella metafisica greca, e che ora deve tornare a fare, se vuole recuperare la propria autenticità. Il cristianesimo è infatti per Vattimo costitutivamente portatore di un indebolimento, esso è l’annuncio storico che la metafisica violenta dell’essere eterno e immutabile non è più proponibile. L’evento Cristo, che da Dio si fa uomo, infatti, è la narrazione di un evento metafisico: l’essere indebolito, che si dà nella debolezza. Perciò Vattimo propone un preciso parallelismo tra l’indebolimento dell’essere e l’in-carnazione di Dio. Già il Dio biblico aveva iniziato questo percorso culminato poi con l’incarnazione. La creazione, infatti, è un agire gratuito di Dio che esce dalla sua perfezione, crea ed ha cura della creazione, stipula un’alleanza. Dio si indebolisce per amore, entra nella sto-ria. Siamo ben oltre il motore immobile. Il Figlio poi si è incarnato, si è abbassato fino alla morte di croce. Gesù stesso, nel farsi autentico interprete della legge e dei profeti, ci indica inoltre la dimensione ermeneutica, dunque storica del cristianesimo. Anche lo Spirito presenta un ruolo ermeneutico, perché ci aiuterà a comprendere la verità tutta intera,136 lo spirito del testo, oltre la lettera. Insomma, il Dio cristiano è del tutto anti-metafisico e lo stesso contenuto del cristia-nesimo è oggetto continuo di interpretazione (si veda, ad esempio, il riferimento all’evoluzione del dogma in Dei Verbum 8) attuata dalla comunità cristiana (non da un singolo), dalla chiesa. La fede è, del resto, esperienza comunitaria. È questo un punto essenziale per Vattimo. L’ipotesi di una interpretazione definitiva della Scrittura si collocherebbe, infatti, nell’ambito di una metafisica definitiva. L’ipo-tesi di una interpretazione autorevole ed autoritaria si collocherebbe nello stesso al-veo. Troviamo così una critica radicale alla chiesa che cade in questo errore. Tuttavia vi è un criterio interpretativo al quale tutti devono sottostare e che evita la caduta nel relativismo e nel conflitto delle interpretazioni. Questo criterio è la caritas. 15.2.3. Ancora sull’indebolimento L’esperienza cristiana dell’attesa escatologica, con in sé anche tutti i tratti del timore, dell’incertezza, del dubbio ed anche della crisi, sono, ulteriormente, un segno di ab-bassamento. Se poi si rinvia a qualcosa di ulteriore che verrà, abbiamo descritta una dinamica dell’attesa del nuovo che è proprio la narrazione della condizione anti-metafisica (in cui tutto di solito è spiegato ed è tranquillo) che Vattimo segnala. Siamo insicuri e deboli perché attendiamo sempre qualcosa.

136 Cfr. Gv 16, 13.

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L’apparato dogmatico, invece, tende piuttosto a spiegare tutto e a rassicurarci con un pensiero oggettivante. Ma se l’indebolimento dell’essere ha la sua espressione simbolica massima nella croce di Gesù, punto culmine della kenosis di Dio, non si deve più attendere il ritorno finale di un qualcosa di forte. In termini cristiani la salvezza/verità è data dall’abbassamento che tale resta. Non è previsto un innalzamento (il cristianesimo di Vattimo non pre-vede la resurrezione?). Siamo oltre la metafisica classica, ma non per tornarci poi in maniera ancora più forte. Su questo punto in Credere di credere137 Vattimo dice di essere debitore di Renè Gi-rard (n. 1923) e della sua teoria che collega il sacro alla violenza.138 Per Girard la violenza che nasce dal rapporto tra i gruppi e dal desiderio di prevalere sugli altri va incanalata verso un capro espiatorio. Ciò impedisce una devastante lotta e ristabilisce la concordia. Questi è sacrificato, ma, al tempo stesso, diventa oggetto di culto, manifestazione del sacro. I miti e i culti sacrificali ci dicono proprio ciò. Nasce così la religione. Dunque ora la violenza cambia, da lotta tra i popoli diventa imposi-zione di un culto. Il sacro nasce e si impone all’uomo con caratteri violenti. In questo panorama il cristianesimo provoca una rottura decisiva, perché esso opera una desa-cralizzazione rivelando il meccanismo, l’origine umana della sua violenza (della vio-lenza del sacro). Già l’Antico Testamento presenta uno sforzo in questo senso, ma esso mantiene an-cora segni di violenza. Il Nuovo Testamento porta invece una radicale novità: l’interpretazione che Gesù dà alla Legge e ai Profeti, anzi, l’interpretazione che lui stesso è, spoglia Dio di qualsiasi connotato “violento” (onnipotenza, giudizio, castighi, etc…). Dio è Padre, non più il Terribile: si prende “congedo da un Dio «necessario» e potente in favore di un Dio discreto e amichevole”139. Qui è centrale il concetto paolino di kenosis: in Gesù Cristo Dio si “svuota” d’ogni carattere “violento” e si sottopone a un destino di morte, cioè ad un progressivo indebolimento, fino a perdersi del tutto. Da qui la reazione degli ebrei ancora legati al vecchio modo. E infatti Gesù è pericoloso e subisce perciò violenza. Ma lui è vittima innocente (invece nei miti fondatori l’ucci-sione avviene per una qualche colpa commessa, Prometeo ruba il fuoco agli dei) e viene ucciso ingiustamente. Questo evento rompe il meccanismo: non ci saranno più violenze per affermare il sa-cro. Gesù muore per la violenza voluta dagli uomini. Il Padre invece non vuole la morte del Figlio, non vuole il sacrifico espiatorio. Non c’è più vendetta del divino. Il Dio del vangelo non manda distruzioni, malattie, carestie etc. Questo aspetto della divinità, così presente, invece, nelle religioni primitive, viene ora negato una volta per tutte.

137 Gianni Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996. 138 Cfr. René Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2008 (ed. or. 1972). 139 Giorgio Sgubbi, Il Dio di Gesù Cristo Dio dei filosofi, EDB, Bologna 2004, p. 201.

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Il sacro così inteso, con il cristianesimo, se ne va. Il trascendente violento delle reli-gioni naturali, che chiedeva il sacrificio espiatorio, non c’è più. Viene svelato il mecca-nismo sacrificale. La violenza è questione umana, solo umana. Per Vattimo, allo stesso modo, anche la metafisica era sacrificale e violenta impo-nendo le sue definizioni e chiedendo il sacrificio dell’intelletto. Del resto la dissolu-zione della metafisica del primo ‘900 si è realizzata proprio in una cultura occidentale segnata dal cristianesimo. Il cristianesimo ha allora dato il via ad una forma di secolarizzazione quale espressione autentica del messaggio di Gesù. La kenosis è appunto la trascrizione in chiave teolo-gica dell’ontologia dell’indebolimento. Perciò quando si parla di secolarizzazione o di nichilismo si fa riferimento proprio a questo processo che per Vattimo è l’essenza del cristianesimo. Questi concetti egli li recupera anche a partire da Gioacchino da Fiore (1130ca-1202) e dalla sua esegesi biblica che pensava ad una storia della salvezza e ad una rivelazione come ad un qualcosa di ancora in corso, teso all’età dello Spirito, il regno della libertà e della contemplazione. A partire dalla tesi gioachimita delle tre età (età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo) e tenendo conto di Girard e della novità della demitizzazione del sacro, si può affermare, secondo Vattimo, la logica di uno sviluppo contro la violenza e le cose forti. Un indebolimento questo che ancora continua, ma che è necessario per il vivere umano degli uomini, secondo il principio della caritas. La secolarizzazione con la quale abbiamo a che fare, e che si esprime anche con una perdita del riferimento al sacro istituzionale nella società industrializzata, è dunque sempre all’interno del cristianesimo stesso e ne è espressione. 15.2.4. Il cristianesimo secolarizzato Dopo la cristianità140 ha come sottotitolo per un cristianesimo non religioso, cioè tale da non legare l’uomo a Dio attraverso il meccanismo del sacrificio violento (come è nella religiosità pagana). L’ipotesi di un cristianesimo non religioso, di una religione secolarizzata, era già pre-sente in Bonhoeffer (1906-1945) per il quale l’uomo, ora finalmente adulto, non ha più bisogno di un Dio tappabuchi. Qui la matrice è K. Barth (1886-1968) che insisteva sulla differenza tra fede cristiana e religione (che è sempre paganesimo). Per i teologi della crisi, della teologia dialettica, la secolarizzazione (che ci distacca dal paganesimo religioso e dalle sue pretese su Dio) è conseguenza del cristianesimo che ha effettivamente secolarizzato il mondo. Una fede autentica presuppone il disincan-tamento del mondo. Per Barth Dio trascende totalmente il mondo.

140 Gianni Vattimo, Dopo la cristianità, Garzanti, Milano 2002.

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Però, per Vattimo, questo Dio totalmente altro è casomai quello dell’Antico Testa-mento, non il Dio di Gesù di Nazaret. Vattimo critica perciò l’idea del totalmente altro che ha ancora i tratti metafisici di un fondamento, benché ci sfugga oltre la storia. Su questo punto egli si distanzia dalla visione di Luigi Pareyson, il suo maestro tori-nese, che parlava di un cristianesimo tragico che stacca la storia della salvezza dalla storia secolare. La rivelazione affermerebbe appunto la totale insensatezza della sto-ria per la realizzazione dell’uomo, che si pone ad un altro livello. In Ontologia della libertà141 Pareyson aveva dato proprio una visione/interpretazione tragica del cristianesimo142 che per Vattimo resta ancora segnato dal pensiero meta-fisico, non va realmente oltre la metafisica e non sarebbe fedele all’evento dell’incar-nazione. Perciò Vattimo va ancora oltre. Per lui il cristianesimo è secolarizzazione, solo così si attua la novità della salvezza cristiana. Siamo salvi dal Dio forte/violento del sacro, il mondo è finalmente umanizzato. Per questo la secolarizzazione, come abbiamo visto, non è un fenomeno anti-cristiano, ma anzi è l’«evoluzione» stessa del cristianesimo. Essa non è solo un momento dialettico di passaggio verso una sintesi superiore, una “crisi” che prepara al nuovo “trionfo” della religione, ma è piuttosto l’essenza stessa del cristianesimo (e di ogni autentica esperienza religiosa), è il senso della sua storia passata e l’unica direzione possibile per il suo futuro. Perciò l’odierno contesto seco-larizzato non solo non è incompatibile col cristianesimo, ma anzi ne è la “condizione d’esistenza”: la secolarizzazione è una “fede purificata”!143 In altri termini, ancor più radicali, la secolarizzazione è la cifra e il compimento della storia della salvezza. La “morte di Dio” è la missione storica del cristianesimo! Questa è la tesi che Gianni Vattimo cerca di argomentare. Una prima conferma può venire dal fatto che il fenomeno del ritorno al religioso, oggi così diffuso, è avvenuto in concomitanza con la crisi delle ideologie forti: ciò dimostra che la religiosità post-moderna è effettivamente incompatibile con ogni “metafisica” e, anzi, nasce proprio dalle ceneri dei sistemi di pensiero “violenti”. Ma allora si può anche liberare il messaggio del vangelo dalle gabbie dell’istituzione ecclesiastica. Dunque secolarizzazione non è sinonimo di scristianizzazione, ma piut-tosto di cristianizzazione autentica e di una salvezza liberante continuamente in corso. Tutto questo chiede una nuova interpretazione della Bibbia resa possibile dalla con-sapevolezza che anche la rivelazione è continuamente soggetta ad interpretazione. Del resto così si è costruito l’Occidente. Il cristianesimo, con la secolarizzazione, ha reso possibile la civiltà industriale moderna, la scienza e la tecnica. Già l’Antico Testa-mento aveva proceduto a ciò, consentendo lo sviluppo di una scienza della natura che

141 Luigi Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Milano 1995. 142 Cfr. Gianni Vattimo, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, pp. 82-87 143 Id, p. 40.

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la domini a favore dell’uomo. L’etica protestante favorì poi lo sviluppo economico quale segno della benevolenza divina (cfr. Calvino). 15.2.5. Effetti radicali di tutto ciò Modernità e cristianesimo non sono in lotta tra loro, né in alternativa. Metterle in contrapposizione è ancora ricadere nella violenza metafisica, perché il risultato che si ricava sempre è l’affermazione dell’una e l’oppressione dell’altra, l’affermazione cioè del cristianesimo (integralismo cattolico) o della modernità (laicismo, scientismo etc.). Effetto della secolarizzazione cristiana sarebbe anche, ormai, l’affermazione del post-moderno, dunque l’indebolimento del principio di realtà e di verità (della filosofia, ma anche della scienza) che caratterizza la cultura contemporanea. Ciò porta alla fine della violenza e alla nascita della tolleranza e del pluralismo riconosciuto. Ciò porta alla pluralità dell’informazione, ma anche ad una sua critica (consapevolezza che i mass-media possono mentire) perché l’informazione è sempre interpretazione. Tutti questi fenomeni, che hanno dato vita al post-moderno, possono essere riuniti sotto il termine di secolarizzazione che allora non dice più tanto, o solo, abbandono del sacro, ma piuttosto si ampia come concetto venendo a significare abbandono delle certezze, delle sicurezze, delle affermazioni immutabili. La fine dei totalitarismi e delle violenze, la nascita delle democrazie, sono proprio i frutti migliori dell’annuncio del vangelo. Essi sono espressione dell’amore/carità. Questo è il principio chiave, ed è l’unico, che non può in alcun modo essere indebo-lito/secolarizzato. L’appello all’amore che il cristianesimo ha lanciato è precisamente ciò che ha portato poi al rifiuto della metafisica intesa come violenza. Fatto ciò, la pars costruens viene assegnata, da Vattimo, all’ermeneutica, aperta ad ogni tipo di interpretazione perché impossibilitata a definire (sarebbe violenta!). Ne consegue che l’ermeneutica, intesa come ontologia post-metafisica o nichilista, è conseguente all’evento cristiano e al suo appello alla caritas. Essa ne è, per Vattimo, come il suo proseguimento costitutivo e salvifico. Ma questa salvezza non è più quella cristiana trascendente, si tratta di una salvezza debole, umana, solo terrena. 15.2.6. Cristianesimo ed ermeneutica L’ermeneutica è uno dei capisaldi del pensiero di Vattimo che considera lo stesso evento cristiano come un fatto ermeneutico. Questo perché la Rivelazione non è una verità-oggetto definitiva, ma si configura come interpretazione sempre nuova della tradizione, degli annunci del passato, di ciò che nella storia della salvezza ci sta alle spalle. Ora, secondo Vattimo, questa storia non è finita con Gesù, perciò anche la dinamica ermeneutica che la caratterizza continua: l’interpretazione è infinita, sem-pre aperta, mai definitiva. Al contrario la Chiesa, legata a un’idea forte di verità, ha di fatto negato ogni progresso nella comprensione vitale della Rivelazione, difendendo

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in modo rigido la (presunta) interpretazione data da Gesù, in quanto quella “ultima”. In realtà la stessa fedeltà al vangelo ci chiede di reinterpretarlo sempre in modo nuovo alla luce dei sempre nuovi contesti: è propriamente questo che Gesù ci ha insegnato dandoci l’esempio. Fissarsi su un’unica interpretazione “vera”, eterna e univoca signi-fica voler fermare la storia della salvezza. Come abbiamo visto l’unico principio critico, in grado, tra l’altro, di discriminare ciò che è cristiano da ciò che non lo è, è la carità. Ogni interpretazione che scavalchi que-sto principio non può dirsi cristiana. Si capisce bene, allora, come, a partire da queste posizioni, nasca e si mantenga un continuo dibattito, e talvolta una polemica, tra Vat-timo e il magistero della chiesa. 15.2.7. Da Oltre l’interpretazione, cap. 4: Religione.144 L’ermeneutica si presenta, secondo Gadamer, come un pensiero amichevole per la religione. Infatti la sua critica alla verità si fa critica di quelle filosofie che hanno pen-sato di poter teorizzare una posizione atea. L’ermeneutica “liquida le basi dei princi-pali argomenti che la filosofia ha offerto a favore dell’ateismo”.145 Inoltre l’ermeneutica, proprio a partire dal dissolvimento della verità come confor-mità, considera altre aree del dirsi plurale della verità, come quella del mito che così essa recupera. Si dà valore alla capacità metaforica del linguaggio. Ciò non va però confuso con la dottrina aristotelica dell’essere che si dice in molti sensi, perché essa, comunque, ha un fondamento solido (il comune riferimento alla sostanza) che invece l’ermeneutica non accetta. Per Vattimo la plurivocità dell’essere va intesa nel senso heideggeriano della sua eventualità storica sempre nuova, che lui interpreta nella logica dell’indebolimento. Questo atteggiamento ermeneutico, che porta ad una ontologia nichilista, proviene dalla tradizione ebraico cristiana, basata sulla kenosis, sull’indebolimento. Perciò Vat-timo contesta che la chiesa abbia inteso chiudere la rivelazione, imporre una sua in-terpretazione ufficiale del magistero. Con Gioacchino da Fiore andiamo verso una nuova era, con una nuova interpretazione della Scrittura (L’età dello Spirito). L’incar-nazione e la croce non concludono allora la storia dell’indebolimento, cioè la deriva nichilistica, anzi, essa continua con la Pentecoste, la vita dei credenti, la loro interpre-tazione della Scrittura etc. La modernità nasce e si sviluppa come applicazione dell’eredità cristiana (contro Hans Blumemberg che aveva sostenuto l’autonoma identità del pensiero moderno e con Karl Löwith che l’aveva negata)). Così l’ermeneutica appartiene alla modernità come secolarizzazione dell’eredità religiosa dell’Occidente. Nichilismo e kenosis si assomi-gliano, per tutti vale il principio di carità. Tutto questo però non nel senso hegeliano, che vede nel religioso la narrazione di ciò che la filosofia porta a concetto superando,

144 Gianni Vattimo, Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002 (ed. or. 1994), pp. 53-71. 145 Id, p. 56.

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ma conservando. Le tesi di Hegel non vanno più perché metafisiche. In Hegel, infatti, vi è ancora la convinzione di una meta da raggiungere e di un contenuto forte di verità da affermare. La kenosis/secolarizzazione non si dà, non va affermata ed argomentata, come una legge filosofica di ragione (Hegel), ma come una legge della religione, annunciata e poi resa possibile dal cristianesimo. Ciò avviene se accettiamo il Verwindung della metafisica, cioè la lettura della storia della metafisica che Heidegger propone. In questo sforzo di superamento, allora, il contenuto della rivelazione cristiana resta, ma in forme diverse, come una sorta di liberazione sempre da attuare. Se l’ermeneutica secolarizza il cristianesimo, allora la stessa operazione si allarga fino a comprendere tutti i miti, filosofici e religiosi. L’annuncio del cristianesimo e l’uscita dalla concezione naturale della religione, portano esattamente questa novità. Per Vattimo questa posizione consente un vero ecumenismo perché a partire da ciò non è più possibile sostenere una superiorità della tradizione cristiana sulle altre tra-dizioni religiose. 15.3. POST-MODERNITA’ E VERWINDUNG DELLA METAFISICA DAL GRUND ALL’ANDENKEN 15.3.1. Il post-moderno: il post come Verwindung La nuova concezione del tempo, introdotta dal cristianesimo, ha mutato la condizione valoriale di “moderno” che inizialmente aveva un significato negativo (perché allon-tanava dall’antico, dalla tradizione, dalla sicurezza/verità). In seguito, dalla fine del XII secolo, moderno viene piuttosto percepito come un qualcosa di buono, perché nella logica di un progresso orientato. Se è così, post-moderno (nel senso di un qualcosa di diverso dal moderno) non può allora essere frainteso come il passaggio successivo al moderno, perché in questo caso saremo ancora nella logica della modernità/pro-gresso/sviluppo. Per l’ermeneutica, il mondo è, infatti, il luogo di infinite interpretazioni. Esso perciò si colloca al di fuori dell’esperienza metafisica classica e della concezione lineare del tempo, che si devono definire ora superate. Siamo entrati decisamente nel post-mo-derno. Il post viene presentato da Vattimo alla luce della Verwindung di Heidegger, ma già anticipata da Nietzsche quando parlava di una filosofia del mattino (ultimo aforisma primo volume Umano troppo umano).146 Verwindung indica il nuovo modo di inten-dere ora la metafisica147. Esso andrebbe tradotto, secondo Vattimo, con accettazione-

146 Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, vol. I, afr. 638, Il viandante, Adelphi, Milano 2002, pp. 304-305. 147 (la post-modernità è) una messa in crisi della legittimazione storicistica che suppone una pacifica concezione lineare-

unitaria del tempo storico. Questo modo diverso, però, non si è semplicemente lasciato alle spalle lo storicismo e la

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approfondimento. Non va perciò usato il termine Uberwindung che indica un supera-mento/oltrepassamento che lascia alle spalle ciò che supera, distruggendolo148. Dun-que la metafisica va accettata, non va distrutta, ma va colta nella sua dimensione più profonda, che ora storicamente ci è data e che Heidegger scopre149. Qui l’essere non si dà più come fondamento/principio primo immutabile e stabile, ma come appello e destino che si offre nella forma della condizione storica in cui ci tro-viamo. In questa apertura, posta dall’essere stesso, noi stiamo e siamo gettati. Vattimo propone una nuova ontologia che tenga conto di questa condizione, in cui l’essere non è più fondamento, ma evento, dato che questo è il suo carattere costitu-tivo che l’epoca della fine della metafisica, in cui ci troviamo, ci ha consentito di com-prendere. (Dire che l’essere è evento significa affermare che esso è un qualcosa che si dà stori-camente, attraverso gli enti che da lui provengono, in maniera sempre diversa, sem-pre nuova, a seconda delle epoche. Secondo Heidegger e Vattimo, l’essere è lo sfondo da cui gli enti provengono che non posso mai raggiungere e definire concettualmente. Io posso solo conoscere gli enti e pensare l’essere come la “luce” che, illuminandoli, li lascia vedere. La storia della metafisica è precisamente la storia di questo eventua-lizzarsi dell’essere, di questa luce, cioè del suo “dirsi” nella storia). L’accesso all’essere non è quindi diretto, come si pensava, esso è sempre mediato dalla situazione storica in cui ci troviamo gettati. Questa Verwindung presenta una qualche parentela con l’Aufhebung hegeliano, il su-perare conservando, ma essa non va fraintesa come la tappa di un percorso lineare storico, l’esito di un processo stabilito e rintracciabile/descrivibile. La storia della me-tafisica, come la interpreta Heidegger, non presenta, infatti, una linearità, essa è sem-pre evento/sorpresa del dirsi dell’essere che dobbiamo cogliere.

metafisica; ha piuttosto, con essi, un rapporto analogo a ciò che Heidegger indica con il termine Verwindung: una ripresa-

rassegnazione-convalescenza-distorsione.

Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, p. 17 148 La modernità non può essere superata criticamente, giacché proprio la categoria del superamento critico la costituisce;

non si può uscire dalla modernità –o dalla metafisica- attraverso la via del superamento –o della critica-, perché questo

significherebbe rimanere per l’appunto nell’orizzonte moderno, della fondazione, dello storicismo […]. Post-moderno,

possiamo tradurre, è ciò che ha con il moderno un rapporto di verwindend: che lo accetta e riprende, portandone in sé le

tracce, come di una malattia della quale continuiamo ad essere convalescenti, e che lo prosegue, ma distorcendolo.

Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 18-19 149 Si vede così che il rapporto del pensiero non-fondativo con il pensiero della fondazione non è quello dello smettere un

abito vecchio, non è un distacco netto, ma piuttosto, anche in questo senso, una secolarizzazione, una trasformazione che

mantiene, distorce e ricorda, solo come passato, ciò a cui si collega prendendone congedo. […] Il pensiero secolarizzato

mantiene e distorce l’esigenza di unità, cercandola come continuità (genealogica, ancora con Nietzsche) di rassomiglianze

di famiglia, di concatenazioni storico-destinali, di interpretazioni di messaggi. È probabilmente vero ciò che diceva Nie-

tzsche: questa comprensibilità e praticabilità del mondo in termini di continuità rammemorativa è propria di una umanità

che vive nell’epoca di una sia pur relativa sicurezza, e che per questo non ha più bisogno delle soluzioni rassicuranti

estreme cercate dal pensiero fondativo.

Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 33-34

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Dunque in Vattimo post-moderno significa post-metafisico perché è venuta meno la metafisica classica, perché l’essere non si dà più così (e grazie all’essere stesso lo ab-biamo capito, non perché oggi siamo più intelligenti o abbiamo studiato di più…). Si pensa perciò ora in maniera nuova. Guardiamo al passato non come alla custodia della verità. Di questo passato possiamo fruire, ma non nel senso che esso preludi ad un futuro, come in una visione lineare della storia. Il post-moderno è pensiero della pluralità, dell’elogio della differenza150, è pensiero di dialogo e contaminazione. Arnold Gehlen ha parlato di post-istoricità sostenendo che l’odierno sistema tecnico-scientifico-industriale sancisce la fine della storia. Non dobbiamo più aspettarci alcun-ché di nuovo. Vattimo è un po’ su questa linea nel suo Fine della modernità.151 Per Lyotard (1924-1998) il post-moderno indica la fine delle narrazioni (illuminismo, idealismo, marxismo, capitalismo, cristianesimo),152 per Vattimo esso indica la fine soprattutto delle grandi filosofie della storia, ma ci si rende conto che anche la fine dei meta-racconti è a sua volta un meta-racconto. Perciò i meta-racconti andrebbero letti secondo le indicazioni di Heidegger, cioè così come Heidegger legge la storia della metafisica. Tutti i meta-racconti, infatti, in vario modo, leggono ancora l’essere come una struttura stabile. Ora essi sono superati perché si possono superare. Dunque Vattimo propone una Verwindung della modernità ed elabora una storia della metafisica. Il segnale di questa possibilità ha radici antiche e consiste nell’evento del cristianesimo con la sua kenosis. Nasce perciò una storia dell’Occidente come secolarizzazione che è la ripresa auten-tica all’annuncio cristiano, il suo inveramento, come abbiamo già visto. Idee fondamentali per la modernità, quali uguaglianza, fratellanza, democrazia, per-dono, forza, metafisica, ragione naturale universale, nella post-modernità perdono la loro violenza. Ora possono venir lette per quello che sono. In esse si possono intuire le radici cristiane, che uno stesso cristianesimo violento e sacralizzato, nascondeva. Il termine dell’avventura coloniale degli stati europei è il segnale pratico della fine di un concetto di storia che prevedeva una meta da raggiungere (tipo colonizzare fac-cetta nera) in cui l’uomo bianco portava la civiltà all’uomo nero. È la teoria della storia dei vincitori che Walter Benjamin (1892-1940) aveva già criticato nelle sue Tesi di fi-losofia della storia (1942 postumo)153 perché solo per loro, solo per i vincitori, la storia poteva essere compresa in forma lineare, come processo. Per Vattimo un altro aspetto della fine della metafisica è la fine dell’eurocentrismo occidentale. L’Occidente non è più in grado di inglobare gli altri popoli, le altre culture ritenute incivili o primitive.

150 Cfr. Gianni Vattimo, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980. 151 Gianni Vattimo, Fine della modernità, Garzanti, Milano 1985. 152 Cfr. Jean-Francois Lyotard, La condizione post-moderna, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1979) 153 Cfr. Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Milano 1997.

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Salta ora, ad ogni livello, qualsiasi pensiero dalla folle pretesa fondazionalista (anche quello scientifico). È sempre questo il senso dell’annuncio nietzschiano della morte di Dio che torna di attualità. Vi sono allora molti corsi della storia, tutti con uguali diritti e dignità. La ragione della modernità era ritenuta universale, dunque uniformava, la ragione della post-modernità è Verwindung cioè sua ripresa in modo nuovo. Così la ragione si fa ora tollerante e rispettosa del diverso. La ragione resta universale solo a livello di ermeneutica cioè di consapevolezza, per tutti, della condizione storica di gettatezza nel tempo e nello spazio in cui ciascun uomo si trova. La conseguenza pratica di tutto ciò è che nessuno può far prevalere la propria verità e che dunque si procede attraverso il dialogo rispettoso ed accogliente. Si tratta evi-dentemente qui, per Vattimo, della messa in opera del principio di carità cristiano. 15.3.2. La questione della globalizzazione La Babele che la società della comunicazione e dell’informazione ha creato impone oggi la capacità di realizzare una convivenza contro ogni fondamentalismo. Vanno perciò evitati il rischio di una globalizzazione forzata (che di fatto sarebbe una occidentalizzazione) e quello, opposto, di una esaltazione del locale che porrebbe gravi limiti di rapporto. A partire dall’ermeneutica Vattimo evita i due pericoli. I due momenti (universalizza-zione come occidentalizzazione e particolarismi, cioè il globale e il locale), infatti, si richiamano secondo una circolarità ermeneutica. È questo rapportarsi che evita ogni rischio, dando luogo ad una interazione locale/universale. Tuttavia la globalizzazione che sperimentiamo oggi è frutto della storia della metafi-sica occidentale, essa è appello dell’essere così modulato oggi a noi (non frutto di leggi naturali cha avrebbero portato l’umanità alla condizione globalizzata), per questo la diffusione economica e tecnologica è un qualcosa che non può essere bloccato. Ciò che conta qui, anche dal punto di vista etico, è una corretta risposta a tale appello. Vi sono dunque diversi modi possibili di gestire la globalizzazione. Per Vattimo la globalizzazione fa parte dell’esito della storia della metafisica che porta al nichilismo post-moderno e all’inevitabile destino di tramonto dell’Occidente. Si esprime, con la globalizzazione e il nichilismo, il venir meno della potenza monolitica dell’Occidente, in favore di un pluralismo culturale, di un meticciato senza centro. In questo senso anche l’Occidente si è allora indebolito. Cioè: la globalizzazione/occi-dentalizzazione diffusa (economia, tecnologia, cultura etc.) ha portato all’incontro dell’Occidente con le culture locali. In questo suo diffondersi esso si è indebolito per aprirsi a tali culture, e questo è un bene. Tuttavia, allo stesso tempo, una globalizzazione forte dell’Occidente, di tipo econo-mico, di mercato, si è imposta, dando luogo a fenomeni di reazione anche violenta in chi invece intende mantenere ed affermare la propria identità, e questo non è un

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bene. Da tale contrapposizione nascono infatti forme di fondamentalismo. Il pro-blema è, evidentemente, ancora aperto e drammatico. Troviamo qui il disagio per un’azione economica che impone la legge del più forte, fa guadagnare di più i ricchi e rende i poveri sempre più poveri. La conseguenza è che essa viene vissuta come una imposizione che provoca una perdita di identità (McDo-nald’s…), da qui il suo rifiuto. Di fatto la globalizzazione ha spesso operato in questo senso, ma si tratta di un effetto negativo che ha moltiplicato le difese locali rifugiatesi, come reazione, in una identità forte, metafisica, fondamentalista, riaprendo la questione poi dei rapporti, perché ognuno ritiene la propria cultura come l’unica possibile, e dunque da difendere o per-fino da imporre agli altri (per esempio anche imponendo il proprio Dio): è questa la deriva fondamentalista, destinata però a fallire perché questo è uno stadio di regresso della storia della metafisica che oggi non può essere riproposto. Ben altra cosa è vivere la globalizzazione post-moderna in forma attiva. Già Nietzsche aveva detto (in il nichilismo europeo prima parte della Volontà di potenza) che la vo-lontà di potenza, collegata al nichilismo della morte di Dio/fondamento, non porta alla lotta, ma alla moderazione, essa, davanti alla consapevolezza dei propri limiti, consente una accettazione serena. Così per Vattimo si deve vivere nel mondo del pluralismo globalizzato: è questa la via di uscita, la corretta recezione del dirsi dell’essere nell’oggi della storia della metafi-sica. Ciò è possibile soltanto se si riconosce la contingenza della propria condi-zione/identità. In tal modo il pericolo di una lotta continua è scongiurato, perché ognuno sa bene che la propria condizione non ha una valore assoluto, tale da essere imposta agli altri. Se si è attivi, allora si guarda all’altro in modo nuovo, anche come una opportunità di confronto e di crescita. 15.3.3. Una visione estetica e religiosa Tra i linguaggi/culture/metafore che la Babele postmoderna libera e sdogana (oltre cioè l’unico linguaggio normativo della metafisica o della scienza) vi è quello dell’este-tica. Le culture sono come diversi stili artistici che convivono in un museo. Da qui l’idea di una democrazia simbolica (=che mette assieme) sul modello del mu-seo. In questa logica dialogica entra nel dibattito anche il rapporto tra le religioni. In esso il cristianesimo ha un ruolo fondamentale, ma solo se e quando accetta la propria condizione di laicità, evita di presentarsi con una identità forte nel campo dogmatico, morale e disciplinare e si apre così al dialogo con gli altri. Incarnandosi Dio nel mondo, infatti, tutte le espressioni del divino acquistano valore: dall’universalismo (cioè esclusivismo cristiano) all’ospitalità. Ecco la nuova era, l’età dello Spirito già prevista da Gioacchino da Fiore, come abbiamo visto. Questo è esat-tamente il post-moderno.

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Ecco il nostro mondo, mondo in cui la verità non è più adeguazione, ma è accessibilità e persuasività all’interno di un sistema mobile costituito dalla comunità degli esseri interpretanti. In altre parole la verità è consenso. Si tratta di una spiritualizzazione del reale che toglie al reale l’identità metafisica violenta di un tempo. Il connubio tra indebolimento e cristianesimo si compie infine nella prospettiva esca-tologica. Così Vattimo interpreta l’indebolimento dell’essere anche come una specie di storia della salvezza. In tal modo storia sacra e storia profana vanno perfino unite. Vattimo propone allora una interpretazione della salvezza cristiana semplicemente come progressivo indebolimento delle strutture pesanti dell’essere. Consapevoli di ciò, siamo oggi in uno stato estetico, cioè senza connotati rigidi, quasi poetico. 15.3.4. L’oltre-uomo post-moderno L’uomo di Vattimo riprende da Nietzsche l’immagine dell’oltre-uomo. Heidegger la collocava ancora all’interno della metafisica classica, anzi, per lui ne era l’espressione compiuta, Vattimo la pone decisamente oltre quella tradizione, ormai conclusa. L’ol-tre-uomo è oltre perché ciò che era prima si è rivelato favola. Il mondo vero e il mondo apparente che vi si è costruito sopra, sono scomparsi, sono niente (nichilismo), Dio è morto. L’oltre-uomo è la risposta attiva all’inevitabile momento della venuta del ni-chilismo. Il nichilismo di cui parlava Nietzsche corrisponde alla Babele post-moderna di cui parla Vattimo. In essa l’oltre-uomo è in grado di interpretare il mondo secondo un modello da lui scelto. Ma l’oltre-uomo di Vattimo non ha i tratti aristocratici di quello di Nie-tzsche (il cui messaggio poteva essere fatto proprio, in fondo, da poche persone “elette”). Egli dovrebbe essere il soggetto della democrazia post-moderna, un oltre-uomo di massa, per così dire. Anche la dottrina nietzschiana dell’eterno ritorno richiede, per Vattimo, una lettura ultra-metafisica. Esso rappresenta un modo nuovo di rapportarsi con la temporalità, oltre la visione della linea di progresso di matrice cristiana. In essa, ogni attimo di-pende dal precedente ed orienta al successivo. Ciò mina alla base la felicità dell’uomo, perché l’attimo non è allora più libero, manca di una sua autonomia. In Verità e menzogna in senso extramorale (1873), opera giovanile di Nietzsche pub-blicata postuma, il linguaggio non è rispecchiamento del reale, esso non dice la cosa, ma si impone alla cosa, la domina, non potendola evocare in verità. Così il linguaggio è espressione del dominio del mondo, cioè della volontà di potenza, ma è solo un esercito mobile di metafore.

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15.3.5. Sull’eterno ritorno Sull’eterno ritorno l’interpretazione circolare del nano in La visione e l’enigma dello Zarathustra154 risente ancora di una metafisica che va superata. Esso è qualcosa di stabile e ripetitivo come le canzoni d’organetto (così, dice Zarathustra, descrivono gli animali l’eterno ritorno in Il convalescente), risente di una struttura rigida del reale. Dunque non si tratta semplicemente di adeguarsi ad una verità. L’eterno ritorno chiede che essa sia fatta propria, chiede che sia morso il serpente entrato in bocca. Il pastore si ritrova il serpente in bocca come un già dato, un qualcosa di oggettivo, stabile, presente. La decisione di mordere il serpente segna il passaggio da un nichili-smo passivo ad un nichilismo attivo. È un momento decisivo che per Vattimo è il mo-mento dell’interpretazione, per la quale passato, presente e futuro perdono i loro tratti oggettivi, ma sono ricompresi all’interno della decisione presa nell’attimo di mordere il serpente. Questo tipo di comprensione, che evita il ripetersi delle canzoni d’organetto (sempre uguali, perciò indice di un qualcosa di stabile, forte, eterno, me-tafisico) è il frutto di una decisione/interpretazione simboleggiata dal morso del ser-pente. 15.3.6. Sulla volontà di potenza In Nietzsche l’arte è il modello per pensare e descrivere il mondo come gioco di inter-pretazioni e come volontà di potenza. Secondo Vattimo l’estetica occidentale è stata segnata dalla condanna platonica, essa è però poi diventata strumento di conoscenza ed educazione morale. Per Vattimo l’arte è disidentificante, toglie l’identità, fa saltare l’ordine metafisico. Vattimo ri-prende questo da Nietzsche che segnala l’elemento dionisiaco dell’arte che viola il principium individuationis, protetto dall’apollineo che ci fa credere all’ordine e all’ar-monia del mondo come un velo di maya. Questa espressione dell’arte, la dionisiaca, è per Nietzsche il modello della volontà di potenza, ma allora l’artista è già figura dell’oltre-uomo. Questa, per Nietzsche, è l’arte sana, ma vi è anche l’arte malata, come quella romantica. L’andare oltre, lo sperimentare, l’accettare l’avventura senza rifugiarsi nelle strutture stabili, è segno di sanità. Per Nietzsche qui l’arte è soprattutto la tragedia. Incipit tragoedia conclude l’ultimo aforisma della Gaia Scienza. L’ordine morale, la convinzione di un senso/fine ultrater-reno è una risposta che blocca tutto ciò ed è posta in atto dai poveri. L’arte tragica è sana e non ha bisogno di queste cose. Qui pensiero tragico sta allora per opposto a pensiero metafisico, è questa una posizione di Nietzsche che Vattimo condivide e che accetta perché in grado di sopportare il carattere abissale, inesauribile, dell’essere. Chi accetta tutto ciò è anche chi accetta il nichilismo e la volontà di potenza, cioè l’oltre-uomo del post-moderno.

154 Il riferimento, naturalmente, è qui all’episodio dal titolo La visione e l’enigma di Così parlò Zarathustra.

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Questi mette assieme, simbolicamente, i tratti della vita assegnando loro un senso e un ruolo, ma mai in maniera definitiva, come faceva la metafisica. Perciò per Nie-tzsche/Vattimo vi è come un continuo oltrepassamento, una continua interpreta-zione, una continua creazione di mondo. Così si esercita oggi la volontà di potenza. Tutto questo si traduce in una società della comunicazione e in una attenzione all’al-tro come mio prossimo. È il messaggio del vangelo, è l’oltre-uomo nichilista che se ne può appropriare, accettando la logica dell’indebolimento contro le sicurezze metafi-siche di ogni tipo cercate dall’uomo della tradizione, il quale, preso dalla paura e dalla insicurezza, così reagiva, imponendo la propria identità. Questo ora non lo si deve e non lo si può più fare. 15.4. OSSERVAZIONI CRITICHE CONCLUSIVE SU VATTIMO Vattimo considera il suo pensiero debole una filosofia cristiana, anzi una eredità del genuino vangelo: egli stesso si ritiene, con una battuta, “l’unico filosofo cristiano dell’epoca postmoderna”.155 La base di tutto il pensiero debole è il rifiuto d’ogni verità “forte”, secondo l’equazione verità = “violenza”156. Partendo da tale principio è inevitabile l’attacco a qualsiasi me-tafisica (in senso ampio), colpevole d’ogni fanatismo, guerra, totalitarismo, ingiusta oppressione, violenza, etc… Ora ci si chiede: può esserci un cristianesimo senza “verità”? Ancor più radicalmente: davvero il cuore stesso del cristianesimo è il rifiuto di essa? E poi realmente ogni verità è violenza? Non è forse vero l’opposto? La stessa negazione del concetto di fondamento è pregiudiziale. Si tratta di un dogma post-moderno, che sembra dispensato dal bisogno di essere dimostrato. Semplice-mente esso è dato per scontato, come qualcosa di assolutamente evidente. Come sottolinea Sgubbi, “il pensiero non diventa «debole» in «forza» di ragioni logiche o argomentative (se così fosse lo stesso «pensiero debole» ammetterebbe l’uso proprio di quei principi forti che intende non concedere), ma per motivi pregiudiziali (non a caso Vattimo parla di «presupposto»)”.157 Certamente il cristianesimo non può essere ridotto a metafisica: “il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù Cristo” è indubbiamente ben diverso dal “Dio dei filosofi” (cfr. Pascal). Però, se anche sono differenti, non sono necessariamente opposti e in-conciliabili: possono essere complementari. Precisamente il cristianesimo completa la

155 Cfr. Giorgio Sgubbi, Il Dio di Gesù Cristo Dio dei filosofi, EDB, Bologna 2004, p. 201. 156 Anche la verità, del resto, nella forma secolarizzata che sola è pensabile per la filosofia non più metafisica, non ha più

i caratteri dell’evidenza colta in un atto puntuale, ma quelli della persuasività di un sistema di rimandi, o addirittura di

uno “sfondo” reggente.

Gianni Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, p. 36 157 Id, p. 204.

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visione, certo parziale, ma non per questo del tutto falsa, della metafisica. Ancor me-glio: il cristianesimo presuppone una previa fondazione metafisica della realtà e della conoscenza. Se il mondo e la nostra comprensione di esso sono incerti e instabili, an-che il cristianesimo sarà insicuro, provvisorio, ipotetico, con l’inevitabile deriva fidei-stica. Ora forse è proprio questo il cristianesimo a cui allude Vattimo con la formula “credere di credere”. Ma il cristianesimo non si accontenta di essere sospeso nel vuoto, vuole costitutiva-mente essere ben fondato, sia pure senza la pretesa di ridursi ad una gnosi che de-grada la fede ad un sapere. Per questo esso non è “avversario” della metafisica e in genere della filosofia, ma anzi chiede che essa faccia la sua parte. La fede parte proprio là dove si ferma la ragione, in un itinerario unitario. Non sono percorsi paralleli, non ci sono due verità. La verità è unica, ma viene colta dalla fede e dalla ragione (metafisica) con prospettive e atteg-giamenti differenti e con diversi gradi di profondità. Questa è la tradizione della Chiesa, che è stata ribadita da Giovanni Paolo II nell’enci-clica Fides et Ratio, la quale afferma esplicitamente158 che il cristianesimo non può non essere metafisico, e che una filosofia che voglia dirsi cristiana non può essere chiusa all’orizzonte ontologico. Bisogna precisare che per “metafisica” qui s’intende una conoscenza che va “dal fenomeno al fondamento”, che cioè rende ragione della realtà quale appare all’esperienza, riportandola a una causa trascendente la realtà stessa. Non è perciò una conoscenza astratta ed a-storica, ma, al contrario, parte pro-prio dalla realtà concreta, dal mondo del divenire, e risale, a partire da esso, ad un ordine superiore, trascendente la storia, il particolare, il contingente. 15.4.1. Un’ermeneutica cristiana Vattimo difende un’ermeneutica “radicale”, infinita, senza un orizzonte metafisico, senza un “residuo” oggettivo di significato che permanga immutabile tra le infinite interpretazioni. Ben si comprende come questa tesi sia in diretta dipendenza dalla negazione del “fondamento”. Secondo lui le varie interpretazioni, tutte legittime, sono necessariamente condizionate dal contesto storico. Tutte le interpretazioni sono costitutivamente storiche, perciò nessuna di esse è assolutamente vera, universale e necessaria (cfr. il problema di Lessing: verità storiche non possono avere valore uni-versale). Quest’ermeneutica è assolutamente libera e soggettiva: non riconosce al-cuna autorità super partes che custodisca un’unica presunta interpretazione “vera” e definitiva. Sono evidenti i pericoli insiti in una simile concezione: radicale soggettivi-smo, relativismo, storicismo. Il pensiero debole rivela qui tutta la sua inconsistenza, soprattutto l’incapacità strutturale di proporre poi un’etica che abbia dei contenuti precisi e concreti universalmente condivisibili. Troppo poco il principio critico della carità.È vero che l’ermeneutica del dirsi di Dio a noi, della rivelazione, non finisce con

158 Fides et Ratio, 83.

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Gesù, essa però non va avanti con arbitrarie opinioni soggettive, ma con un cammino ordinato, in cui c’è sempre un riferimento chiaro a Gesù Cristo, garantito dalla chiesa, accompagnata dallo Spirito Santo. Il risultato di una kenosis infinita è l’annichilimento di Dio! Questa è appunto la critica che anche Salvatore Natoli rivolge a Vattimo: Dio “si svuota di sé fino a diventare irri-levante”, un’ermeneutica troppo libera “dissolve la Rivelazione”.159 L’alternativa con-siste nel mettere dei limiti all’interpretare. Ciò però può essere fatto solo a patto di accettare un fondamento, un qualcosa di oggettivo, di valido per tutti. In effetti Vattimo pone un principio critico, la carità, ma esso è arbitrario e viene in-trodotto in modo indebito solo per “salvare” l’intenzione fondamentale: la pacifica e tollerante convivenza delle idee nel mondo postmoderno. Inoltre la carità cristiana ha un fondamento: è l’amore stesso di Dio.160 Il nostro amore è per così dire partecipa-zione del Suo amore, è partecipazione della sua stessa natura, perché “Dio è amore”.161 Il cristianesimo, ridotto a carità svuotata del suo fondamento teologale-sacramentale, diventa “un vago e problematico moralismo” o “un’incerta utopia della carità universale”162. In fin dei conti la rinuncia al fondamento rende il comandamento opprimente e faticoso e, in ultima analisi, violento.163 Esso diventa un imperativo ca-tegorico indimostrabile e indimostrato, fine a se stesso. 15.4.2. Ancora sulla kenosis La kenosis è svuotamento. Un cristianesimo così diventa come un contenitore vuoto, che ciascuno è chiamato a riempire a proprio piacimento, pur se nella fedeltà alla carità. Il pensiero debole, pensiero della kenosis, è un pensiero inconsistente. Esso è in linea con un fenomeno tipicamente post-moderno: l’abdicazione da parte della filosofia ai grandi problemi e al rigore dimostrativo (la “fatica del concetto” di Hegel). Oggi la filosofia si accontenta di orientare l’agire quotidiano proponendo ideali, moti-vazioni e modi di vivere, ma senza la pretesa che essi siano gli unici, quelli “veri”. A ciò corrisponde un abbandono del linguaggio tipico della logica. L’intento non è più dimostrare, quanto piuttosto proporre in modo allettante. Al tradizionale linguaggio dimostrativo subentra un linguaggio “pubblicitario”. Ma se la filosofia rinuncia a essere conoscenza certa e rigorosa, sapere argomentativo e logico, essa perde la sua specificità e identità. È il ritorno della doxa, dell’opinione acritica e superficiale, a scapito dell’episteme, del sapere critico basato sulla dimostrazione. La deriva scettica è l’esito inevitabile di un

159 Salvatore Natoli, Caro Vattimo, non c’è fede senza fondamento, in Avvenire, 30/05/1996. 160 Cfr. 1 Gv 4, 10-11. 161 1 Gv 4, 8b. 162 Giorgio Sgubbi, Il Dio di Gesù Cristo Dio dei filosofi, EDB, Bologna 2004, p. 230. 163 Id, p. 229.

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pensiero che rinuncia a fondare rigorosamente la realtà e la conoscenza su solide basi metafisiche: è la tanto paventata “crisi della ragione”. Del resto proprio un pensatore post-moderno, Richard Rorty, ha riconosciuto, sulla base di presupposti simili a quelli di Vattimo, la fine della filosofia: siamo nell’era della post-filosofia. In fondo il pensiero “cristiano” di Vattimo, nelle sue conclusioni, fa pensare a un “mo-dernismo postmoderno” o anche alle idee della teologia liberale ottocentesca, quando si tentò di conciliare il cristianesimo con la cultura del tempo. Non a caso egli talvolta si richiama espressamente a Schleiermacher, a Schelling, a Buonaiuti, e si di-mostra poi critico verso il “cristianesimo tragico” del suo maestro Pareyson, legato piuttosto alla teologia dialettica ed esistenzialistica di Barth, grande alternativa alla teologia liberale. Quello di Vattimo è un cristianesimo “spiritualizzato”, svuotato della “lettera”, aperto al progresso della storia, soggetto a continue reinterpretazioni, ridotto a vago “senti-mento”, privato della sua specificità, per divenire espressione categoriale e storica di una generica religione della carità. Come osserva Sgubbi “sono sempre più numerosi quei filosofi che vestono con troppa disinvoltura i panni del teologo, che caricano, cioè, troppo frettolosamente la propria riflessione di contenuti che non appartengono, propriamente, alla disciplina da essi coltivata”164. Ne nasce una “teologia filosofeggiante” o una “filosofia teologizzante”, “un prodotto spurio, di scarso valore e di scarsa utilità”165. In effetti Vattimo deforma concetti teologici come carità e kenosis. Il sospetto è quello che a lui interessi solo una conferma teologica al suo pensiero, e che per averla non esiti a creare combinazioni discutibili.

164 Id, p. 231. 165 Id, p. 232.

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TESTI

1. L’uomo folle

Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino,

corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poi-

ché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò

grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un

altro. “Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gri-

davano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li

trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo

stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto

questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte

la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa

terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi?

Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in

avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come

attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più

freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lan-

terne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non

udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche

gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!

Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di

piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli;

chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti

espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la

grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire al-

meno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande: tutti coloro che verranno dopo

di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano

state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di

nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Fi-

nalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo

presto – proseguí – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora

per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli

uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le

azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascol-

tate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni:

eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto

irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem

aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere

invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse

e i sepolcri di Dio?”.

Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza, afr. 125.

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2. L’avvento del nichilismo

“Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò

che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora

essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per

mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte

le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una tortu-

rante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe:

irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine,

che non riflette più ed ha paura di riflettere.

Chi prende qui la parola sinora non ha fatto altro che riflettere: come filosofo ed eremita

d’istinto, che ha trovato vantaggio nell’appartarsi, nel restar fuori, nel ritardare, come

uno spirito audace, indagatore e tentatore che già si è smarrito in ogni labirinto dell’av-

venire; …che guarda indietro mentre narra ciò che avverrà, come il primo nichilista

compiuto d’Europa, che ha già vissuto in sé sino il nichilismo sino alla fine, e ha il

nichilismo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé.»

Friedrich Nietzsche, Volontà di potenza, afr. 2-3.

3. L’intuizione dell’eterno ritorno

Il ritorno delle stesse cose. Il nuovo centro di gravità: l’eterno ritorno delle stesse cose.

Importanza infinita del nostro sapere, dei nostri errori, delle nostre abitudini e modi di

vivere per tutto il futuro. Che facciamo noi con ciò che rimane della nostra vita, noi

che ne abbiamo vissuto la maggior parte senza sapere la cosa più importante? Ci dedi-

chiamo a insegnare questa teoria, è il mezzo più efficace per assimilarla noi stessi. Il

nostro tipo di felicità in quanto maestri della più grande teoria.

Primi di agosto 1881 a Sils-Maria, a 6000 piedi al di sopra del mare e molto più in alto

di tutte le cose umane”

Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 11[219]1881.

4. “Io sono dinamite”!

Conosco la mia sorte. Un giorno al mio nome sarà legato il ricordo di qualcosa di gi-

gantesco, - di una crisi come mai ce ne furono sulla terra, del più profondo conflitto di

coscienza, di una decisione evocata contro tutto ciò che fino ad allora si era creduto,

voluto, santificato. Io non sono un uomo, io sono dinamite. E con tutto questo non ho

niente di un fondatore di religioni - le religioni sono roba da plebaglia, io sento il biso-

gno di lavarmi le mani dopo essere stato a contatto con persone religiose. Io non voglio

"credenti", mi ritengo troppo maligno per credere in me stesso, non parlo mai alle

masse.

Friedrich Nietzsche, Ecce homo, Adelphi, Milano 2003, p. 127

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5. Come il mondo vero finì per diventare favola

Storia di un errore

1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, egli con esso, lui stesso è

questo mondo (la forma più antica dell’idea, relativamente intelligente, semplice, per-

suasiva. Trascrizione della tesi “Io, Platone, sono la verità”).

2. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al vir-

tuoso (“al peccatore che fa penitenza”). (progresso dell’idea: essa diventa più sottile,

più capziosa, più inafferrabile, diventa donna, si cristianizza).

3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pen-

sato una consolazione, un obbligo, un imperativo.

(in fondo l’antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo, l’idea sublimata, pallida,

nordica, königsbergica).

4. Il mondo vero, inattingibile? Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto,

anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci

potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto? …

(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).

5. Il mondo vero, un’idea che non serve più a niente, nemmeno più vincolante, un’idea

diventata inutile e superflua, quindi un’idea confutata: eliminiamola!

(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di

vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).

6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello

apparente? …

Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!

(Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo

dell’umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA).

Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 2000, pp. 46-47.

5/1. Non fatti, ma interpretazioni A

Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni dicendo “ci sono soltanto fatti”, io direi:

no, appunto i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni. Non possiamo stabilire

nessun fatto in sé: forse è assurdo il volere qualcosa del genere. Voi dite: “tutto è sog-

gettivo”, ma già questa è una interpretazione. Il soggetto non è che un che di dato, ma

un che di immaginato in aggiunta, di posto sullo sfondo. E infine è necessario porre

anche un interprete dietro l’interpretazione? Già questo è immaginazione poetica, ipo-

tesi.

Nella misura in cui la parola conoscenza ha in genere un senso, il mondo è conoscibile;

ma lo si può interpretare in altro modo: esso non ha un senso dietro di sé, ma innume-

revoli sensi. “Prospettivismo”.

Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo: i nostri istinti, il loro pro e contro.

Ogni istinto è una sorta di avidità di potenza, ognuno ha la sua prospettiva che vorrebbe

imporre come norma a tutti.

Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, af. 481

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5/2. Non fatti, ma interpretazioni B

Mi si faccia venia, come vecchio filologo che non può esimersi dalla malizia di riveder

le bucce a certe cattive arti interpretative: ma quella normatività della natura di cui voi

fisici parlate con tanta prosopopea, come se esistesse soltanto grazie alle vostre spie-

gazioni e alla vostra cattiva filologia, non è un dato di fatto, un testo, ma piuttosto

soltanto un riassetto e una distorsione di senso ingenuamente umanitari, con cui venite

abbastanza incontro agli istinti democratici dell’anima moderna! […] Ma, come si è

già detto, questa è interpretazione, non testo; e potrebbe venire qualcuno che con un’in-

tenzione e un’arte interpretativa diametralmente opposte sapesse desumere dalla lettura

della stessa natura in relazione agli stessi fenomeni proprio una affermazione, dispoti-

camente spregiudicata e spietata, di rivendicazione di potenza, un interprete che vi met-

tesse sotto gli occhi la perentorietà e l’assolutezza insite in ogni volontà di potenza, in

modo tale che quasi ogni parola e persino quella di tirannide apparirebbe in conclusione

inutilizzabile oppure già una pallida e , una parola troppo una blanda metafora. posto

poi che anche questa fosse soltanto una interpretazione – e voi sareste abbastanza sol-

letici da obiettarmi ciò- ebbene, tanto meglio.

Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, af. 22

6. Definizione della metafisica come scienza dell’essere in quanto essere

C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono

in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nes-

suna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale, ma, dopo aver

delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte. Così

fanno, ad esempio, le matematiche.

Aristotele, Metafisica, IV, 1, 20-26.

7. Alla scienza dell’essere compete anche lo studio degli assiomi e in primo luogo

del principio di non-contraddizione

Dobbiamo dire, ora, se sia compito di un’unica scienza oppure di scienze differenti,

studiare quelli che in matematica sono detti assiomi e anche la sostanza. Orbene, è

evidente che l’indagine di questi assiomi rientra nell’ambito di quell’unica scienza,

cioè della scienza del filosofo. Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono

proprietà peculiari di qualche genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E

tutti quanti si servono di questi assiomi, perché essi sono propri dell’essere in quanto

essere, e ogni genere di realtà di essere. Ciascuno, però, si serve di essi nella misura in

cui gli conviene, ossia nella misura in cui si estende il genere intorno al quale vertono

le sue dimostrazioni.

Aristotele, Metafisica, IV, 3, 18-29.

8. La matematica ci porta alla verità

(dialogo tra Socrate e Glaucone)

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Tutta questa disciplina (matematica/geometria) andrebbe sviluppata in vista della co-

noscenza.

Indubbiamente, disse.

E anche questo non è forse un punto su cui consentire?

Quale?

Che la geometria è la scienza di ciò che sempre è, e non di ciò che in un certo momento

si genera e in un altro momento perisce.

Su questo punto non si può non essere d’accordo, disse: la geometria è conoscenza

dell’essere che sempre è.

Dunque, caro amico, essa, nei confronti dell’anima, è forza trainante verso la verità, è

stimolo per il pensiero filosofico ad elevare ciò che ora in maniera sconveniente man-

teniamo terra terra.

Certo, convenne, più di ogni altra disciplina.

Platone, Repubblica, VII, 527, B

9. Il ritratto del filosofo: Talete contemplativo

SOCRATE. “Quello, Teodoro, che si racconta anche di Talete, il quale, mentre stu-

diava gli astri e stava guardando in alto, cadde in un pozzo: una sua giovane schiava di

Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro, osservando che si preoccupava tanto di

conoscere le cose che stanno nel cielo, e, invece, non vedeva quelle che aveva davanti,

tra i piedi. La medesima facezia la si può riferire a tutti quelli che dedicano la loro vita

alla filosofia. In realtà, ad un uomo simile sfugge non solo che cosa fa il suo prossimo,

persino il suo vicino di casa, ma quasi quasi anche se è un uomo o qualche altro ani-

male. Invece, che cosa sia un uomo e che cosa convenga alla natura umana fare o subire

in modo diverso dalle altre nature, di questo va in cerca, e si impegna a fondo nell’in-

dagine. Tu capisci, suppongo, Teodoro; o no?”

TEODORO: “Io sì, e dici il vero”.

Platone, Teeteto, 174 A-B.

10. Come le anime cercano di raggiungere la Pianura della Verità e la loro caduta

Quanto alle altre anime, invece, una, seguendo il dio nel modo migliore possibile e

rendendosi simile a lui, solleva il capo dell’auriga verso il luogo che sta al di fuori del

cielo e viene trasportata nel moro di rotazione, ma a stento contempla gli esseri, perché

turbata dai cavalli. Un’altra anima, invece, ora solleva il capo, ora lo abbassa; ma poi-

ché i cavalli le fanno violenza, vede alcuni esseri. Mentre altri no. Seguono le altre

anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma, non essendo capaci di farlo, ven-

gono sommerse e trascinate nel moto di rotazione, urtandosi l’una con l’altra, accal-

candosi e tentando di passare l’una davanti all’altra. Nasce, dunque un tumulto e una

lotta con un estremo sudore, e, per l’ignavia degli aurighi, molte anime rimangono

storpiate, e molte riportano molte delle loro penne spezzate. Tutte, poi, oppresse da

grande fatica, se ne allontanano senza aver fruito della contemplazione dell’essere; e,

una volta che si siano allontanate, si nutrono del cibo dell’opinione. Il motivo per cui

esse mettono tanto impegno per vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento

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adatto alla parte migliore dell’anima proviene dal prato che è là, e la natura dell’ala con

cui l’anima può volare, si nutre proprio di questo.

Platone, Fedro, 248 A-C.

11. Russel e il tacchino induttivista

Un tacchino, in un allevamento statunitense, decise di formarsi una visione del mondo

scientificamente fondata.

Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell'allevamento dove era stato por-

tato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso

nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di

circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che pio-

vesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una pro-

posizione osservativa in condizioni le più disparate. Finché la sua coscienza induttivi-

sta non fu soddisfatta ed elaborò un'inferenza induttiva come questa: "Mi danno il cibo

alle 9 del mattino". Purtroppo, però, questa concezione si rivelò incontestabilmente

falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato.

Bertrand Russell, cit. in A. F. Chalmers, Che cos'è questa scienza?, trad. it., Monda-

dori, Milano 1979, p.24.

12. La scienza che si basa sulla fede

Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede

metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della

conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere il nostro fuoco

dall’incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana che era anche la

fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina. Ma come è possibile, se proprio

questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l’errore, la

cecità, la menzogna, se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna?

Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 344.

13. Il filosofo non affida le cose di maggior valore alla scrittura, ma all’oralità

SOCRATE. E per quanto riguarda i discorsi, abbiamo scherzato abbastanza. Ma tu va’

da Lisia e digli che noi due, discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe, abbiamo ascol-

tato dei discorsi che ci ordinavano di dire a Lisia e a chiunque altro componga discorsi,

e ad Omero e a chiunque altro abbia composto poesia senza musica o con musica e, in

terzo luogo, a Solone, e a chiunque in discorsi politici che chiama leggi, ha composto

opere scritte, che se ha composto queste opere sapendo come sta il vero, ed è in grado

di soccorrerle quando viene a difendere le cose che ha scritto, e quando parla sia in

grado di dimostrare la debolezza degli scritti, ebbene, un uomo del genere va chiamato

non col nome che quelli hanno, ma con un nome derivato da ciò cui egli si è dedicato

con verità.

FEDRO. E qual è questo nome che tu gli dai?

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SOCRATE. Chiamarlo sapiente, o Fedro, mi pare troppo, e che tale nome convenga

solamente ad un Dio; ma chiamarlo filosofo, ossia amante di sapienza, o con qualche

altro nome di questo tipo, gli si adatterebbe meglio e sarebbe più adeguato.

FEDRO. E non sarebbe per nulla fuori luogo.

SOCRATE. Invece, colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a

quelle che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando

una parte con l’altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta o composi-

tore di discorsi, o scrittore di leggi?

FEDRO. E come no?

SOCRATE. Di’, allora, queste cose al tuo amico!

Platone, Fedro, 278 B-E.

14. Facciamo come in un mito narrato per immagini

A questo punto intervenne il fratello di Glaucone: “Non ho alcun dubbio sul fatto che

questa ricerca ci agevolerà nella nostra impresa (di individuare i criteri per una corretta

educazione dell’uomo)”. “Per Zeus, caro Adimanto, esclamai, non lasciamocela scap-

pare di mano neppure se dovesse essere alquanto lunga!” “No, assolutamente”.

“Dunque facciamo come in un mito narrato per immagini, prendiamoci il tempo ne-

cessario, e a forza di ragionamenti diamo un’educazione a questi uomini (i custodi)”.

Platone, Repubblica, 376 D.

15. L’amore deriva dalla bellezza che è un tralucere dell’intelligibile nel sensibile

SOCRATE. Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte quante le altre cose che

hanno valore per le anime, nessun fulgore è presente nelle immagini di quaggiù. Ma

solo pochi, mediante gli organi oscuri, avvicinandosi alle coppie, a mala pena vedono

l’originario modello che è riprodotto in quelle coppie. Invece, allora, la Bellezza si

vedeva nel suo splendore, in un coro felice avevamo una beata visione e contempla-

zione, mentre noi eravamo al seguito di Zeus ed altri erano al seguito di un altro degli

dei e ci iniziavamo a quella iniziativa che è giusto dire la più beata, che celebravamo,

essendo integri e non toccati dai mali che ci avrebbero aspettato nel tempo che doveva

venire, contemplando nella iniziativa misterica visioni integre, semplici, immutabili e

beate, in una pura luce, essendo anche noi puri e non tumulati in questo sepolcro che

ora ci portiamo appresso e che chiamiamo corpo, imprigionati in esso come l’ostrica.

Tutto questo sia detto, dunque, in omaggio al ricordo in virtù del quale, per il desiderio

che abbiamo delle cose di allora, ora si è parlato piuttosto a lungo.

Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di

lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre

sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo.

Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo.

Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista, susciterebbe terribili

amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà

che sono degne d’amore.

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Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più mani-

festo e più amabile.

Platone, Fedro, 250 B-E.

16. Il modo in cui la bellezza mediante l’amore fa rinascere le ali dell’anima

Dunque, chi non è di recente iniziato, o è già corrotto, non si innalza prontamente di

qui a lassù, verso la Bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta lo stesso

nome, di conseguenza, guardandola, non la onora, ma, dandosi al piacere come un qua-

drupede che cerca solo di montare e generare figli, e, abbandonandosi agli eccessi, non

prova timore e non si vergogna nel correre dietro ad un piacere contro natura.

Invece, colui che è di recente iniziato e che ha molto contemplato le realtà di allora,

quando vede un volto di forma divina che imita bene la bellezza, o una qualche forma

di corpo, dapprima sente i brividi, e qualcuna delle paure di allora penetra in lui. Poi,

guardandolo, lo venera come un dio, e se non avesse timore di essere ritenuto in stato

di eccessiva mania, offrirebbe sacrifici al suo amato come ad una immagine sacra e a

un dio.

Al vederlo, lo coglie come una reazione che proviene dal brivido, e un sudore e un

calore insolito. Infatti, ricevendo attraverso gli occhi l’effluvio della bellezza, si scalda

nel punto in cui la natura dell’ala si alimenta. E, una volta riscaldatasi, si sciolgono le

parti che stanno attorno ai germi, le quali, essendo da tempo chiuse, per inaridimento,

non lasciavano germogliare le ali. In seguito all’affluire del nutrimento, lo stato dell’ala

si gonfia e comincia a crescere dalla radice, per tutta quanta la forma dell’anima. Infatti

un tempo, l’anima era tutta alata.

Dunque, a questo punto, essa ribolle tutta quanta e palpita. E quello che provano i bam-

bini, allorché mettono i denti al momento in cui questi cominciano a spuntare, ossia

quel senso di prurito e di irritazione intorno alle gengive, lo stesso prova l’anima che

inizia a mettere le ali: ribolle e sente irritazione mentre sta mettendo le ali.

Quando, dunque, guarda la bellezza di un ragazzo, e riceve le parti che ne procedono e

fluiscono e che appunto per questo sono dette “flusso d’amore”, l’anima viene irrigata

e si riscalda, si riprende dal dolore e si allieta. Invece, quando ne è separata e si inari-

disce, la bocche dei condotti da cui escono le penne, disseccandosi e chiudendosi, im-

pediscono il germoglio dell’ala. Ma questo, rinchiuso dentro insieme al flusso d’amore,

come i polsi che battono, pizzica sui condotti, ciascun germoglio sul condotto che gli

è proprio, cosicché l’anima rimane pungolata tutt’intorno e presa dall’assillo e dal do-

lore. Però, di nuovo avendo il ricordo della bellezza, prova gioia.

In conseguenza della mescolanza di queste cose, essa si trova in uno stato di grande

turbamento per la stranezza di ciò che sente e, trovandosi senza una via d’uscita, delira,

e, essendo presa dalla mania, non riesce a dormire di notte, né di giorno riesce a ripo-

sare da qualche parte, ma, spinta dalla brama, corre là dove pensa di poter vedere colui

che possiede la bellezza. E dopo che ha visto ed è stata irrorata dal flusso d’amore, si

sciolgono i condotti che prima si erano ostruiti e, ripreso respiro, cessa di avere punture

e travagli e allora gode, nel momento presente, di un piacere dolcissimo.

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Di sua volontà non si allontana e non tiene conto di alcunché più che del suo bello.

Addirittura si dimentica di madri, di fratelli, di tutti gli amici; e se le sue ricchezze

vanno in rovina, perché non se ne cura più, non gliene importa nulla.

In dispregio di tutte le buone regole e delle convenienze di cui si ornava prima di quel

momento, essa è disposta a servire e a giacere con l’amato, dovunque le sia concesso,

purché si trovi il più vicino possibile a lui. Infatti, oltre che onorare colui che ha la

bellezza, ha trovato in lui l’unico medico dei suoi grandissimi mali.

Questa passione, o bel ragazzo al quale si rivolge il mio discorso, gli uomini chiamano

Eros, mentre gli dei la chiamano in un modo che, non appena l’avrai udito, verosimil-

mente, a causa della tua giovinezza, ti metterai a ridere. Alcuni Omeridi, forse traendoli

da poemi segreti, citano due versi rivolti ad Eros, il secondo dei quali è irriverente e

non del tutto regolare nel metro. Questi versi suonano così: I mortali lo chiamano Eros

alato, / gli immortali lo chiamano invece Pteros, perché fa crescere le ali.

A questi versi si può credere oppure non credere; tuttavia, la causa e ciò che accade

agli innamorati sono proprio questi.

Platone, Fedro, 250 E-252 C.

17. L’inesperienza dei mali espone al rischio di una cattiva scelta di vita

Aveva appena finito di dire queste cose che, stando al racconto di Er, il primo sorteggio

andò a scegliersi una vita da tiranno, proprio il più grande che c’era- certo, fu una scelta

dettata da ignoranza ed avidità, fatta senza un’analisi ben ponderata di tutte le circo-

stanze, tant’è vero che alla fine egli nemmeno si accorse che in questa sorte era com-

preso il destino di divorare i propri figli ed altre sciagure. Quando poi ebbe modo di

esaminarla tranquillamente, non gli rimase che battersi il petto piangendo questa scelta,

attuata senza tener conto degli avvertimenti del sacerdote. E il bello è che non incol-

pava se stesso del male capitatogli, ma il destino e gli dei: tutto, insomma, tranne che

se stesso. E pensare che costui era uno di quelli che veniva dal cielo e che era vissuto

nell’esistenza precedente in uno Stato ben organizzato; egli, però, ebbe parte della

virtù, non secondo filosofia, bensì per abitudine acquisita.

A dire il vero non erano pochi quelli che venivano dal cielo e che finivano in questo

modo, e ciò per il fatto che non avevano affrontato la prova del dolore. Invece, quelli

che provenivano dalla terra, poiché avevano patito essi stessi le sofferenze, e le ave-

vano viste patire dagli altri, , il più delle volte non facevano una scelta precipitosa. Per

tal motivo, oltre che per il causale ordine del sorteggio, la maggior parte delle anime

finiva con scambiare i mali con i beni.

Platone, Repubblica, 619 B-D

18. La scoperta del mondo ideale

(E Socrate disse:) “Torno nuovamente su quelle cose di cui molte volte si è parlato, e

da esse incomincio, partendo dal postulato che esista un bello in sé e per sé, un buono

in sé e per sé, e così via […]. A me sembra che, se c’è qualcos’altro che sia bello oltre

il bello in sé, per nessun’altra ragione sia bello, se non perché partecipa di questo bello

in sé […] e se qualcuno mi dice che una cosa è bella per il suo colore vivo o per la

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figura fisica o per altre ragioni del tipo di queste, io tutte queste cose le saluto e le

mando a spasso, perché in tutte queste cose mi confondo e solo questo tengo per me,

semplicemente, rozzamente e forse ingenuamente che nessun altra ragione fa essere

quella cosa bella, se non la presenza o la comunanza di quel bello in sé, o quale altro

sia il modo in cui ha luogo questo rapporto.

Platone, Fedone, 100 B-D.

19. La zattera e la nave

SIMMIA. Infatti, trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di

queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi;

ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e

meno facile da confutare e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della

traversata del mare della vita: ameno che non si possa fare il viaggio in modo più

sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi ad una rivelazione di-

vina.

Platone, Fedone, 85 C-D.

20. Agostino e la terza navigazione

Ma perché è stato crocifisso? Perché per te era necessario il legno della sua umiltà.

Infatti tu ti eri gonfiato di superbia, ed eri stato gettato lontano da quella patria; dai

flutti di questo secolo la via era stata interrotta; e non c’è un mezzo con cui puoi com-

piere la traversata per arrivare alla patria, se non ti lasci portare dal legno della croce.

Ingrato che sei, tu ti fai beffe di colui che è venuto a te, proprio per farti ritornare a lui!

Lui stesso si è fatto via, una via attraverso il mare: perciò egli ha camminato sul mare,

per mostrarti che c’è una via attraverso il mare.

Ma tu, che non puoi camminare sul mare, come ha fatto lui, lasciati portare da questa

nave, lasciati portare dal legno della croce: credi nel crocifisso e potrai arrivare.

Agostino, Amore assoluto e terza navigazione, Commento alla prima lettera di Gio-

vanni e al vangelo di Giovanni, Rusconi, Milano 1994, p. 501.

21. Il mistico

Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra a sé, è il Mistico.

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, pr. 6.52

22. Religione, “oppio dei popoli”

Il fondamento della critica alla religione: è l’uomo che fa la religione, e non è la reli-

gione che fa l’uomo.

Infatti, la religione è la coscienza di sè e il sentimento di sè dell’uomo che non ha

ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un'entità

astratta posta fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Que-

sto Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo,

poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo

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mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo punto

d’onore spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne com-

pletamento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è

la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede

una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel

mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale.

La religione è il sospiro della creatura oppressa, è l'anima di un mondo senza

cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio

del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire

esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è

l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni.

La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la

religione è l'aureola. La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché

l'uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga

i fiori vivi. La critica della religione disinganna l'uomo affinché egli pensi, operi, dia

forma alla sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si

muova intorno a se stesso e, perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il

sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove intorno a

se stesso. E' dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di la della verità,

quello di ristabilire la verità dell'al di qua. E innanzi tutto è compito della filosofia, la

quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'auto-estra-

neazione umana, smascherare l'auto-estraneazione nelle sue figure profane. La critica

del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica

del diritto, la critica della teologia nella critica della politica. La critica della religione

approda alla teoria che l'uomo è per l'uomo l'essere supremo.

Karl Marx, Per la critica alla filosofia del diritto di Hegel, introduzione.

23. Pascal, Pensieri

Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è una infinità di cose che la

sorpassano. È ben debole, se non giunge a riconoscerlo. Se le cose naturali la trascen-

dono, che cosa dire di quelle soprannaturali? (n. 139).

Descartes, inutile e incerto (n. 50).

24. Il memoriale di Pascal

Pochi giorni dopo la morte di Pascal un domestico rinvenì cucito nella fodera di un

indumento che gli era appartenuto un foglio autografo, il cui contenuto faceva riferi-

mento a un'esperienza di grande intensità spirituale vissuta la notte del 23 novembre

1654.

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L'anno di grazia 1654, lunedì 23 novembre, giorno dedicato a San Clemente papa e

martire e ad altri nel martirologio, vigilia del giorno di San Crisogono martire e di altri,

dalle dieci e mezzo circa di sera fino a mezzanotte e mezzo circa, FUOCO

"Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe", non dei filosofi e dei dotti.

Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Il mio Dio e il Dio

vostro.

"Il tuo Dio sarà il mio Dio."

Oblio del mondo e di tutto, tranne che di Dio. Lo si trova solo per le vie indicate dal

Vangelo.

Grandezza dell'anima umana.

"Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto."

Che io non debba esser separato da lui in eterno. Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia.

Mi sono separato da lui. Mi hanno lasciato le sorgenti di acqua viva.

"Mi abbandonerai, mio Dio?".

"Questa è la vita eterna, che essi ti riconoscano come il solo vero Dio e colui che hai

inviato: Gesù Cristo." Gesù Cristo. Gesù Cristo.

Mi sono separato da lui, io l'ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Che non debba esserne

separato mai più. Lo si conserva soltanto per le vie insegnate dal Vangelo.

Rinuncia totale e dolce. Sottomissione totale a Gesù Cristo e al mio direttore spirituale.

In gioia per l'eternità in cambio di un giorno di esercizio sulla terra.

Non dimenticherò le tue parole. Amen.

25. Il dramma della separazione tra fede e ragione

45. Con il sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più diretta-

mente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico. Sant'Alberto Magno e san

Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i

primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano

bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo

Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressiva-

mente in una nefasta separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, pre-

sente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filo-

sofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le

altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza sempre più

forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia ge-

nerale, scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni

possibile riferimento razionale.

Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come

unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte

della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una

conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa.

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46. Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia

dell'Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico mo-

derno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino

a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toc-

cato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell'idealismo hanno cercato in diversi modi

di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di

Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si

sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno

prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità.

Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di pro-

getti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per

l'umanità.

Nell'ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista

che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo,

ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e mo-

rale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, ri-

schiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua

vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnolo-

gico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere

demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano.

Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo.

Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contempo-

ranei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né pos-

sibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell'interpretazione nichilista, l'esi-

stenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato.

Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere

più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.

47. Non è da dimenticare, d'altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare

il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è ridotta progres-

sivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata

limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel frattempo

affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del sapere

filosofico. Invece che verso la contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo

e del senso della vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili

— come « ragione strumentale » al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere.

Quanto sia pericoloso assolutizzare questa strada l'ho fatto osservare fin dalla mia

prima Lettera enciclica quando scrivevo: « L'uomo di oggi sembra essere sempre mi-

nacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più,

del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multi-

forme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non sol-

tanto e non tanto oggetto di 'alienazione', nel senso che vengono semplicemente tolti a

colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e

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indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono, in-

fatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l'atto

principale del dramma dell'esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e uni-

versale dimensione. L'uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi

prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli

che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano

essere rivolti in modo radicale contro lui stesso ».(53)

Sulla scia di queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca

della verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento della

certezza soggettiva o dell'utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato l'offuscamento

della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il vero e

di ricercare l'assoluto.

48. Ciò che emerge da questo ultimo scorcio di storia della filosofia è, dunque, la con-

statazione di una progressiva separazione tra la fede e la ragione filosofica. E ben vero

che, ad una attenta osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro che contri-

buirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano talvolta germi preziosi

di pensiero, che, se approfonditi e sviluppati con rettitudine di mente e di cuore, pos-

sono far scoprire il cammino della verità. Questi germi di pensiero si trovano, ad esem-

pio, nelle approfondite analisi sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e l'in-

conscio, sulla personalità e l'intersoggettività, sulla libertà ed i valori, sul tempo e la

storia. Anche il tema della morte può diventare severo richiamo, per ogni pensatore, a

ricercare dentro di sé il senso autentico della propria esistenza. Questo tuttavia non

toglie che l'attuale rapporto tra fede e ragione richieda un attento sforzo di discerni-

mento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono divenute deboli l'una

di fronte all'altra. La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sen-

tieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata

della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di non

essere più una proposta universale. E illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ra-

gione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di

essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia

dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità

dell'essere.

Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la

filosofia recuperino l'unità profonda che le rende capaci di essere coerenti con la loro

natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve corrispon-

dere l'audacia della ragione.

Giovanni Paolo II, Fides et ratio, nn. 45-48.

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1. TEMA DELLA VERITA’ E DELLA FILOSOFIA IN FIDES ET RATIO 1.1. L’interesse della chiesa per la filosofia 1.2. I limiti e i rischi della ricerca filosofica 1.3. Il Magistero e la filosofia 1.4. Esortazione ai filosofi 1.5. Per una filosofia cristiana 1.6. La domanda di senso 1.7. Una filosofia di portata metafisica 2. METAFISICA E TEOLOGIA RAZIONALE 2.1. Una teologia razionale 2.2. Contestazioni alla possibilità della filosofia di conoscere l’assoluto 2.3. La nascita della filosofia 2.4. Una comprensione originaria dell’assoluto 2.5. Rapporto tra archè e stoicheion 2.6. Il limite del pensiero greco 3. ESSERE E DIVENIRE 3.1. Difesa del buon senso 3.2. La difesa di Kant 3.3. Verso la giustificazione del divenire 3.4. La distinzione essere-qualcosa 3.5. Ancora sulla distinzione di essere e qualcosa 3.6. Corollario 3.7. Mantenere Parmenide con una nuova interpretazione del divenire? 3.8. Altra difesa di Parmenide 4. SCHEMA SINTETICO IN DIFESA DEL DIVENIRE CONTRO PARMENIDE 5. LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO 5.1. PREMESSA 5.2. CINQUE VIE CHE DIMOSTRANO L’ESISTENZA DI DIO IN TOMMASO D’AQUINO 5.2.1. Sulla necessità di dimostrare l’esistenza di Dio 5.2.3. Le cinque vie: Summa theologiae I, q. 2, art. 3 5.2.4. Prima via: ex motus, dal mutamento Precisazione sulla non necessità della creazione

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Ancora sulla prima via 5.2.5. Seconda via: ex ratione causae efficientis, dalla causalità efficiente 5.2.6. Terza via: ex possibili et necessario, dalla contingenza 5.2.7. Quarta via: ex gradibus, dalla gradazione che si trova nelle cose 5.2.8. La quinta via: ex gubernatione rerum, dal governo delle cose 5.2.9. Osservazioni sulle vie tomistiche 5.2.10. Il rifiuto delle prove di Tommaso 6. LA VIA DELLA FINALITA’ 6.1. Ripresa della prova 6.2. Sulla prova della Summa theologiae: la finalità è più dell’ordine 6.3. Dall’ordine ad un ordinatore? 6.4. Obiezione di J. Monod (1910-1976) alla finalità in: “Il caso e la necessità” 6.5. Il caso 6.6. Critici della finalità 6.7. L’essere superiore ordinatore 6.8. Posizioni che riconoscono la finalità della natura, la teleologia, ma le interpretano in termini immanentistici e panteistici 6.8.1. Materialismo teleologico: Marx 6.8.2. Obiezione del caso e dell’evoluzione 6.8.3. Obiezione del male 6.8.4. Distinzione tra male metafisico, fisico, morale 6.8.5. Tornando alla quinta via di Tommaso 6.8.6. Rapporto tra la prova del divenire e della finalità 6.8.7. Il Dio creatore e la questione dell’evoluzionismo 6.8.8. Il fine della creazione 7. L’ARGOMENTO ONTOLOGICO DI ANSELMO D’AOSTA

7.1. Proslogion, Proemio 7.2. Rilievi: 7.3. Difesa da parte di Gaunilone dello stolto che dice in cuor suo che Dio non esiste [Sl. 14 (13) e 53 (52)] 7.4. Replica di Anselmo 8. LE PROVE A PRIORI DI CARTESIO (1596-1650) 8.1. La prima prova 8.2. Seconda prova causale dell’esistenza di Dio

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8.3. Terza prova: la prova ontologica dell’esistenza di Dio 8.4. Osservazioni critiche 8.5. Ancora osservazioni critiche 9. LE CRITICHE DI KANT ALLE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO 9.1. L’ideale della ragion pura 9.2. Critica della prova ontologica 9.3. Critica alla prova cosmologica. Due momenti della prova 9.4. Critica kantiana della prova fisico-teologica 9.5. Dio come postulato della ragion pratica 10. L’ESSENZA DI DIO 10.1. Dio come persona e creatore 11. IDEA DI DIO E ATEISMO 11.1. Nietzsche e la morte di Dio 11.2. L’origine dell’idea di Dio in noi 12. IL NICHILISMO, L’OSPITE INQUIETANTE 12.1. Il nichilismo e la svalutazione di tutti i valori 12.2. Itinerarium mentis in nihilum 12.2.1. Per una storia del concetto e del problema 12.2.2. Turgenev e la sua presunta paternità 12.2.3. Nichilismo, romanticismo, idealismo 12.2.4. Il nichilismo in senso sociale e politico e la sua provenienza francese 12.2.5. Il nichilismo senza fondamenti di Max Stirner 12.2.6. Nichilismo, anarchismo, populismo nel pensiero russo 12.2.7. Nichilismo e decadenza in Nietzsche 12.2.8. Nichilismo, relativismo e disincanto nella cultura della crisi 12.2.9. Il nichilismo estetico-letterario 12.2.10. Il nichilismo europeo nella storia dell’essere: Heidegger e Nietzsche 12.2.11. Perché il nichilismo 12.2.12. Nichilismo, esistenzialismo, gnosi 12.2.13. Nichilismo, posthistoire, fine della storia : Kojeve, Gehlen 12.2.14. Tecnica e nichilismo 12.2.15. Il conflitto tra tecnica e umanesimo

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12.2.16. Per una antropologia a misura della tecnica 12.2.17. Il nichilismo in Italia 12.2.18. Oltre il nichilismo? 13. LA VERITA’ 13.1. Riflessioni storiche 13.1.1. Il paradigma classico La Verità nel mondo antico La Verità nel pensiero medievale La Verità nel pensiero moderno 13.1.2. La revisione del paradigma classico La Verità come utilità La Verità come rivelazione o manifestazione La Verità come corrispondenza/conformità/adeguazione La Verità come coerenza 13.1.3. Il rifiuto del paradigma classico Teorie semantiche della Verità Teorie ermeneutiche Verità nel pensiero debole Modelli forti di Verità 13.1.4. Conclusioni 13.2. Riflessioni teoretiche 13.2.1. La verità come adaequatio 13.2.2. L’intelligenza e l’essere 13.2.3. L’intelligenza e Cristo 13.2.4. L’autocoscienza e la verità 13.2.5. L’oblio della verità oggi 13.2.6. Per un ritorno alla verità 14. UMBERTO GALIMBERTI: L’UOMO NELL’ETA’ DELLA TECNICA

14.1. Una antropologia unitaria

14.1.1. Oltre il dualismo antropologico occidentale di anima e corpo

14.1.2. Lieb come unità materiale, psichica, spirituale

14.2. Abitiamo un mondo nuovo

14.2.1. La nascita dell’età della tecnica

14.2.2. Due modi di intendere l’impegno del mondo

14.2.3. La rivoluzione scientifica

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14.2.4. Conseguenza: La politica nell’età della tecnica

14.2.5. Conseguenza: la morale nell’età della tecnica

14.3. Il nichilismo

14.3.1. Vita, dolore, morte nell’età del nichilismo

14.3.2. Il cristianesimo e la morte di Dio

14.3.3. Altri scenari e nichilismo

14.4. Cristianesimo, religione del cielo vuoto

14.4.1. La separazione del sacro

14.4.2. Il cristianesimo è la fine del sacro

14.4.3. Conseguenze

14.5. Conclusioni su Galimberti

15. GIANNI VATTIMO Ontologia, ermeneutica, cristianesimo e post-modernità 15.1. Ontologia ermeneutica 15.1.1. Il significato nichilistico dell’ermeneutica 15.1.2. La scienza tecnico-moderna 15.1.3. Ermeneutica e scienza 15.1.4. Il carattere etico dell’ermeneutica 15.2. Cristianesimo e secolarizzazione 15.2.1. Il cristianesimo e la dissoluzione della metafisica 15.2.2. La Kenosis come indebolimento dell’essere 15.2.3. Ancora sull’indebolimento 15.2.4. Il cristianesimo secolarizzato 15.2.5. Effetti radicali di tutto ciò 15.2.6. Cristianesimo ed ermeneutica 15.2.7. Da Oltre l’interpretazione, cap. 4: Religione. 15.3. Post-modernita’ e verwindung della metafisica 15.3.1. Il post-moderno: il post come Verwindung 15.3.2. La questione della globalizzazione 15.3.3. Una visione estetica e religiosa 15.3.4. L’oltre-uomo post-moderno 15.3.5. Sull’eterno ritorno 15.3.6. Sulla volontà di potenza 15.4. osservazioni critiche conclusive 15.4.1. Un’ermeneutica cristiana 15.4.2. Ancora sulla kenosis

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EXCURSUS Gianni Vattimo, ADDIO ALLA VERITA’ Ed. Meltemi, Roma 2009 INTRODUZIONE 1. OLTRE IL MITO DELLA VERITÀ OGGETTIVA 1.1. Politica senza verità 1.2. Il compito politico del pensiero 1.3. Dalla fenomenologia all’ontologia dell’attualità 1.4. Filosofia e politica 2. IL FUTURO DELLA RELIGIONE 2.1. Solo un Dio relativista ci può salvare 2.2. Nichilismo, sessualità, cristianesimo post-moderno 2.3. Per un cristianesimo non religioso 2.4. La fede dell’Europa 3. LA FINE DELLA FILOSOFIA 3.1. Pensieri sull’etica 3.2. Filosofia ed emancipazione 3.3. Dialettica, dialogo e dominio 3.4. Conversione e catastrofe 3.5. Perché Hegel oggi?

TESTI

1. L’uomo folle

Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza, afr. 125.

2. L’avvento del nichilismo

Friedrich Nietzsche, Volontà di potenza, afr. 2-3.

3. L’intuizione dell’eterno ritorno

Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 11[219]1881.

4. “Io sono dinamite”!

Friedrich Nietzsche, Ecce homo, Adelphi, Milano 2003, p. 127

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5. Come il mondo vero finì per diventare favola

Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 2000, pp. 46-47.

6. Definizione della metafisica come scienza dell’essere in quanto essere

Aristotele, Metafisica, IV, 1, 20-26.

7. Alla scienza dell’essere compete anche lo studio degli assiomi e in primo luogo del

principio di non-contraddizione

Aristotele, Metafisica, IV, 3, 18-29.

8. La matematica ci porta alla verità

Platone, Repubblica, VII, 527, B

9. Il ritratto del filosofo: Talete contemplativo

Platone, Teeteto, 174 A-B.

10. Come le anime cercano di raggiungere la Pianura della Verità e la loro caduta

Platone, Fedro, 248 A-C.

11. Russel e il tacchino induttivista

Bertrand Russell, cit. in A. F. Chalmers, Che cos'è questa scienza?, trad. it., Monda-

dori, Milano 1979, p.24.

12. La scienza che si basa sulla fede

Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 344.

13. Il filosofo non affida le cose di maggior valore alla scrittura, ma all’oralità

Platone, Fedro, 278 B-E.

14. Facciamo come in un mito narrato per immagini

Platone, Repubblica, 376 D.

15. L’amore deriva dalla bellezza che è un tralucere dell’intelligibile nel sensibile

Platone, Fedro, 250 B-E.

16. Il modo in cui la bellezza mediante l’amore fa rinascere le ali dell’anima

Platone, Fedro, 250 E-252 C.

17. L’inesperienza dei mali espone al rischio di una cattiva scelta di vita

Platone, Repubblica, 619 B-D

18. La scoperta del mondo ideale

Platone, Fedone, 100 B-D.

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19. La zattera e la nave

Platone, Fedone, 85 C-D.

20. Agostino e la terza navigazione

Agostino, Amore assoluto e terza navigazione, Commento alla prima lettera di Gio-

vanni e al vangelo di Giovanni, Rusconi, Milano 1994, p. 501.

21. Il mistico

Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, pr. 6.52

22. Religione, “oppio dei popoli”

Karl Marx, Per la critica alla filosofia del diritto di Hegel, introduzione.

23. Pascal, Pensieri nn. 50 e 139

24. Il memoriale di Pascal

25. Il dramma della separazione tra fede e ragione, Fide set Ratio, nn. 45-48.

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FILOSOFIA TEORETICA Sintesi breve del programma (prima parte) 1. IL TEMA DELLA VERITA’ E DELLA FILOSOFIA IN FIDES ET RATIO Cfr. Fides et Ratio, nn. 1-5, 30, 49-50, 55-56, 62, 76, 81-83, 91, 94, 106 La chiesa fa proprio il cammino dell’umanità verso la verità, essa annuncia il Cristo via, verità e vita ed offre al mondo una diaconia alla verità. Vi sono delle verità fondamentali elaborate dalla filosofia, esse riguardano l’uomo e rendono, tra l’altro, possibile l’intelligenza della fede. Nel contesto odierno sembra necessario rivitalizzare la ragione che può così guardare ai grandi orizzonti che trascendono l’immediato ed evitare la deriva del relativismo e dello scetticismo. In ciò la chiesa non propone una propria filosofia, ma denuncia le correnti di pensiero che risultano incompatibili con la verità rivelata, in particolare quelle che negano la possibilità oggi di una metafisica. Essa esorta i filosofi nel loro lavoro e raccomanda un filosofare cristiano, cioè una speculazione concepita in unione vitale con la fede, secondo la logica della “distinzione e non separazione” nel rapporto fede-ragione. In tal modo sarà anche possibile recuperare la domanda sul senso dell’esistenza oggi spesso dimenticata. 2. METAFISICA E TEOLOGIA RAZIONALE Si indaga il rapporto tra metafisica e teologia, entrambe concentrate sul principio ori-ginario assoluto. La rottura del rapporto, la separazione fede-ragione, la contrapposi-zione dell’ateismo. La nostra ragione è in grado di conoscere l’assoluto senza relati-vizzarlo a sé? L’apertura all’assoluto e l’intenzionalità della coscienza. La filosofia nasce come pensiero dell’assoluto, dell’archè. Abbiamo in noi un naturale riferimento all’assoluto come essere infinito (Anselmo, Cartesio) causa di tutte le cose che vediamo (Tommaso). Esso viene compreso quando il pensiero greco elabora la seconda navigazione, pro-ponendo i due livelli di realtà e vincendo le obiezioni di Parmenide. Solo con il con-cetto di creazione, del tutto assente dal pensiero greco, si evita però di cadere in forme di dualismo. 3. ESSERE E DIVENIRE

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L’essere che non può non essere è quello di Anselmo, l’IQM (Id quo maius cogitari nequit), e di Tommaso, la causa prima. Essere necessario ed essere contingente. Oltre Parmenide e in difesa del buon senso comune che si appella all’esperienza. Kant difendeva il divenire, ma solo nell’ambito fenomenico. Con Aristotele, e contro Parmenide, si deve affermare la distinzione tra ente ed es-sere (la somma degli enti) e tra ente ed ente. Un conto è l’essere, altro conto l’ente/qualcosa. Il qualcosa è indisgiungibile dall’essere, ma non indistinguibile (per-ché il qualcosa è parte dell’essere), perciò si può negare il qualcosa senza negare l’es-sere. Posso inoltre affermare che un tavolo non è giallo in quanto il giallo non è costi-tutivo dell’essere (ma di quel particolare ente) e dunque, negandolo, non si nega l’es-sere. Cioè vi sono delle proprietà che definiscono i qualcosa/ente, ma che non hanno a che fare con l’essere. Dunque affermare un non essere nel senso di un non qualcosa non comporta negare l’essere (ma solo un ente che è parte dell’essere), come invece pensava Parmenide. In assoluto, nel loro substrato che è l’essere, le cose rimangono sempre quando c’è un cambiamento. Qualcosa e non essere (dire che un tavolo è una non sedia) possono allora stare insieme. Nel divenire nasce e muore non l’essere assoluto, ma l’infinito numero di esseri con-tingenti, i qualcosa. L’eternità del mondo, affermata dal pensiero greco, sopporta dunque il divenire. Se ci si pone nella prospettiva della creazione allora il problema di Parmenide è risolto in radice in quanto la creazione, dal nulla, presuppone il non-essere che viene perciò ammesso. Severino: le cose non nascono e muoiono, ma solo appaiono e non appaiono, il dive-nire è perciò una illusione. L’apparire che resta nella memoria. 4. LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO Oltre la teologia negativa e l’aut aut tra Dio e il mondo. La prova di Tommaso, premessa: reale intelligibile, principio di non contraddizione, primato dell’atto, non si risale all’infinito. Le cinque vie: dal mutamento, dalla causalità efficiente, dalla contingenza, dalla gra-dazione (delle proprietà trascendentali), dal governo delle cose (finalità). Osservazioni critiche. Attualità e interesse per la via della finalità che rimanda ad una intelligenza che pro-getta. Essa è un ordine che comprende un fine da realizzare dato dall’esterno. Critica

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alla teoria del caso. La negazione delle cause finali in J. Monod e il suo riduttivismo scientista. Una finalità immanente: Bruno, Marx. Il caso, l’evoluzione, la creazione, il principio antropico. L’obiezione del male. La capacità dell’uomo di agire per gli altri, non solo per il proprio bene. L’argomento ontologico del Proslogion di Anselmo: l’unum argumentum. Dio è l’IQM, l’ateo è stolto. Il maggiore degli enti deve esistere nella realtà oltre che nell’intelletto poiché l’esistenza concorre a definire la perfezione/grandezza di un ente. La distin-zione tra cogitare ed intelligere sostenuta da Gaunilone contro Anselmondo. L’obie-zione dell’isola perfetta e la risposta di Anselmo che si richiama alla fede. Le prove di Cartesio: 1. Dio stesso è la causa dell’idea innata di Dio presente in noi. 2. Dio è la causa della mia esistenza, di un essere che ha in sé l’idea di Dio. 3. A Dio appartiene necessariamente l’esistenza come ad una montagna una valle. Osservazioni critiche: 1. Un’idea infinita potrebbe essere stata formata dalla nega-zione del finito, ma per Cartesio l’idea di infinito è anteriore a quella di finito. 2. Noi, finiti, non possiamo contenere nella mente un’idea infinita, ma per Cartesio non è necessario avere chiarezza di un’idea per sentirla presente (come nel caso del chilia-gono). Caterus: se c’è l’idea di Dio in noi, allora Dio esiste necessariamente. Ma l’idea di Dio potrebbe essere fattizia. Per Cartesio essa non consente però la separazione tra essenza ed esistenza, mentre le idee fattizia sono sempre divisibili. Le critiche di Kant. Dio non si può dimostrare attraverso la ragion pura, la sua idea è, per essa, un ideale regolativo. 1. Contro l’argomento ontologico: l’esistenza non ag-giunge nulla alla perfezione di un ente (argomento dei 100 talleri). 2. Contro la prova cosmologica: l’ente necessario potrebbe essere anche qualcosa di diverso da Dio, e se fosse un essere perfettissimo si ricaverebbe la sua esistenza dalla prova ontologica già confutata. Il principio di causalità (una delle 12 categorie dell’intelletto) non si può applicare a ciò di cui non abbiamo esperienza sensibile. Nell’ambito dei fenomeni si può anche risalire all’infinito nella ricerca delle cause. Il rispetto per la prova fisico-teologica (cioè della finalità), che rimanda però non a Dio, ma ad un ordinatore/fina-lizzatore. Dio come postulato della ragion pratica, garante della possibilità di essere virtuosi e felici seguendo la legge morale. 5. L’ESSENZA DI DIO, L’ATEISMO, IL NICHILISMO

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Tratti propri di un ente assoluto e necessario che la ragione è in grado di affermare. Dio come esse ipsum subsistens che possiede l’essere per essenza e non per parteci-pazione. Libertà di Dio e non necessarietà della creazione. L’aforisma 125 della Gaia scienza di Nietzsche: fine della morale, della metafisica, della religione. La questione del male è un problema solo se esiste Dio, ma se Dio esiste la questione è risolta. L’origine dell’idea di Dio in noi: non nasce dall’elimina-zione dei limiti che andrebbero tutti conosciuti e tolti, essa è originaria, innata. Il nichilismo, l’ospite inquietante. Non c’è più né alto, né basso… il nichilismo è il nulla dei valori, è la conclusione/fallimento del pensiero occidentale. Non resta che l’etica del viandante. Tanti autori, tanti significati: Gorgia, Turgenev, Goetz, Jacobi, Jean Paul, Hegel (per il quale ogni distinzione è nulla), De Sade, Stirner, Bakunin, Dostoevskij (sono nulla i valori tradizionali). Nietzsche: Il nichilismo europeo, nichilismo passivo (Schopenhauer) ed attivo. Il mondo vero è diventato favola. Nichilismo ed eterno ritorno. Nulla di senso e di valore assoluti. La transvalutazione di tutti i valori. “Io sono dinamite”. Spengler e “Il Tramonto dell’Occidente”. Weber, il disincanto del mondo e il politei-smo dei valori. Heidegger: Nietzsche porta a compimento la storia della metafisica occidentale come oblio dell’essere, ora dell’essere non vi è più nulla (dunque: nichilismo). La volontà di potenza nietzschiana è il punto massimo del nichilismo (dalla centralità dell’essere alla centralità dell’uomo). Heidegger: la gettatezza e l’angoscia. Dalla ricerca dell’es-sere all’ascolto del suo eco attraverso l’opera d’arte, la poesia. La pretesa moderna di auto-redenzione dell’uomo suona come una forma di gnosti-cismo, di laicizzazione del percorso di salvezza offerto dal cristianesimo (tesi Löwith contestata da Blumemberg). Oltre alla religione, il nichilismo attacca ogni filosofia della storia. Critica di Nietzsche all’eccesso di storia che limita e blocca la manifestazione del dionisiaco. Soprattutto il nichilismo dei valori e del senso ha dato via libera all’impero della tec-nica. Oggi tutto è asservito alla tecnica, uno dei miti del nostro tempo (Galimberti). Si tratta di un anti-umanesimo che sfrutta l’uomo. La tecnica è supportata dalla razio-nalità scientifica, dall’ingenua convinzione di un continuo progresso. Oltre l’esalta-zione della scienza e denuncia dei suoi limiti. Proporre un’antropologia a misura della tecnica in cui l’uomo sia sempre un fine e mai un mezzo (Kant). La domanda di etica come segnale di superamento oggi del nichilismo, ma l’etica va ancorata ad una teoria della verità. 6. LA VERITÀ

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Cartesio: il buon senso come capacità di distinguere il vero dal falso. La nostra co-scienza intenziona la verità, tende verso di essa, “tutti gli uomini, per natura, tendono a sapere, desiderano giungere alla conoscenza della verità” (Aristotele). Ma per Nietzsche la verità è solo un “esercito mobile di metafore”, una illusione, essa è definita dalle metafore vincenti di un periodo, che però non sono mai universali, ma cambiano continuamente (sono mobili). Greci: logos come legge profonda che regola le cose. La verità nel mondo intelligibile (Platone), come episteme, vera scienza (Aristotele) basata su principi evidenti. impor-tanza dei sensi (epicureismo e stoicismo). Dio creatore, fonte e garanzia della verità (epoca patristica). Il paradigma classico: adaequatio rei et intellectus (Tommaso). Razionalisti moderni: la verità non è data dai sensi che ci ingannano, essa è frutto della ragione che indaga nella coscienza degli uomini e vi coglie le idee chiare e di-stinte (Cartesio). Ciò consente a Spinoza di elaborare la teoria della sostanza e a Leib-nitz quella delle monadi. In Kant la verità è riservata solo al mondo dei fenomeni che sono nostre rappresentazioni. Per Hegel la verità è l’intero, lo spirito assoluto che dice la grande conciliazione di tutto (tutto è spirito, il reale è razionale). Nell’impossibilità di far coincidere verità e certezza l’utilitarismo americano ha elabo-rato il criterio pragmatico dell’utile: è vero ciò che, ora, funziona. Verità come rivelazione e manifestazione: ripresa del realismo empirico, ma ogni ente è parte di un tutto abbracciante (Jaspers), è espressione del decidersi dell’essere attraverso l’uomo che, nel suo essere progetto-gettato dice la verità strumentale delle cose (Heidegger). L’essenza della verità è allora la libertà, quella dell’essere che, in ultima analisi, decide tutto. Dopo la svolta (l’inizio di un nuovo percorso del suo pensiero), Heidegger pensa alla verità sul versante dell’essere che si dona a noi come vago eco indefinibile, ma reale, che ha sempre a che fare con le cose, la cui verità (delle cose) implica il suo (dell’essere) ritrarsi/nascondimento che consente all’ente di svelarsi (verità=aletheia=svelamento). Rimane nel ‘900 la teoria della conformità nell’area anglosassone e nel neopositivi-smo (Circolo di Vienna). La relativizzazione della verità viene piuttosto dalle teorie ermeneutiche che ridu-cono tutto ad interpretazione quando non sono ancorate a qualche solido riferimento metafisico (Pareyson, Ricoeur). Ora la verità è storicizzata dall’orizzonte concreto dell’interpretante. Gadamer contesta le illusorie certezze del metodo scientifico. Er-meneutica di destra e di sinistra.

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La deriva verso il pensiero debole e la biblioteca di Babele. In reazione abbiamo anche posizioni forti sul tema della verità (Severino, Habermas), benché minoritarie. Osservazioni teoretiche. La negazione della verità e la contraddizione dello scettici-smo. La ragione che intenziona la verità. Verità e esperienza antropologica fondamen-tale. L’essere è intelligibile ed abbiamo la capacità di coglierlo (le due scommesse) attraverso la filosofia. Il contributo della religione che incoraggia il percorso razionale verso la verità. La modernità (da Cartesio) ha spostato sull’uomo il fondamento della verità toglien-dolo all’essere (antichità) e a Dio (medioevo). Così, allo stesso modo, gli empiristi mo-derni indagano e classificano le idee presenti nella mente dell’uomo e Bacone invita a sfruttare con la scienza la natura a vantaggio dell’uomo. La verità delle scienze è la misurazione/quantificazione. Il dualismo filosofia/scienze naturali e il suo superamento in Kant e Hegel. Gli esiti negativi: perdita del valore del singolo, manipolazione della tecnica, perdita della trascendenza. Il soggetto è governato dalla verità tecnologica. Ma nel pensiero del ‘900 alla morte di Dio ha fatto seguito la morte dell’uomo, dun-que anche della verità agganciata all’uomo della modernità. È l’esito del post-mo-derno. Le scienze naturali dopo Popper. In reazione Heidegger ci invita ad ascoltare l’essere e Gadamer ha contestato l’esclu-sivismo scientista. Ma resta qui ancora il rischio dello storicismo e del soggettivismo. Restano critici verso la verità autori che si rifanno a Marx, Nietzsche, Freud e allo Strutturalismo. Il richiamo all’esperienza antropologica fondamentale rilancia il tema della verità. Si propone il mantenere il riferimento all’essere come qualcosa di stabile, oggettivo e solido al di fuori di noi, intelligibile e dunque conoscibile dalla ragione umana, di riva-lutare la ragione come strumento contro il riduttivismo del pensiero debole, di man-tenere la centralità dell’uomo quale conquista della modernità, ma un uomo aperto al trascendente quale garanzie ultima delle sue possibilità.

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1. Il tema della verità e della filosofia in Fides et Ratio 1. La chiesa e la diaconia della verità. 2. Ruolo della ragione: grandi orizzonti, recuperare il fondamento, evitare relativismo e scetticismo, proporre una intelligenza della fede, recuperare la metafisica, denun-ciare le correnti di pensiero incompatibili con la fede. 3. Distinzione e non separazione tra fede e ragione. 2. Metafisica e Teologia razionale 1. La ragione e la possibilità di conoscere l’assoluto: obiezione gnoseologica (la mente relativizza tutto a sé) intenzionalità della coscienza che si apre all’essere, alla verità (la stessa filosofia indaga sempre un assoluto). 3. Essere e divenire 1. Perché va superato Parmenide? Per affermare che vi è un essere necessario ed uno contingente è necessario superare l’obiezione di Parmenide e difendere il divenire e il molteplice. 2. Contro Parmenide. L’ente è indisgiungibile dall’essere, ma non indistinguibile, l’ente è parte dell’essere, dunque si nega il qualcosa ma non l’essere. Così si negano le proprietà dei qualcosa, ma non l’essere. Nel divenire il substrato resta, così anche nel molteplice (resta sempre l’essere). 3. La soluzione della creazione. 4. Le prove dell’esistenza di Dio Tommaso 1. Dio si deve dimostrare? Per Tomaso la sua esistenza è in sé evidente (predicato contenuto nel soggetto) ma solo per una conoscenza perfetta (che conosce il predi-cato e il soggetto). La nostra non è mai una conoscenza perfetta 2. Premesse delle vie di Tommaso: intelligibilità del reale, principio di non contraddi-zione (l’ente che muove non può essere mosso perché sarebbe allo stesso tempo atto e potenza), primato dell’atto (dunque all’origine non vi può essere qualcosa di mosso che indica potenzialità), non si risale all’infinito. 3. Ciò che è mosso, è mosso da altro? Ma movetur potrebbe essere tradotto con di-viene e la causa del divenire potrebbe essere interna nell’ipotesi dell’eternità del mondo (Hegel). 4. Uso del principio di causalità nella seconda prova. Critica di Hume. Ciò che comincia d essere potrebbe essere trasformazione di altro (seme-pianta).

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5. Sulla terza via necessario-contingente. Salta se c’è l’eternità. 6. Via debole dei gradi. Le perfezioni sono i trascendentali, non le proprietà fisiche. È debole il concetto stesso di perfezione. In Spinoza tutto è perfetto. 7. Sulla finalità (nella Summa contra gentiles è detta ordine). Ci si riferisce a aliqua quae cognizione carent (vegetali). 8. E’ davvero colui che tutti chiamano Dio? 9. Critica alla finalità (che è ordine+valore da realizzare). Darwin, finalismo come an-tropomorfismo, teoria del caso. L’ordine può anche venire dal caso o dalla natura stessa, ma la finalità chiede una causa esterna. 10. Tesi di Monod. Sì al caso, ma ogni vivente ha un progetto. Confusione tra sapere scientifico e filosofico. 11. Evoluzione e questione del salto ontologico. Il determinismo della natura e la li-bertà dell’uomo. 12. Il bene e il male in un sistema naturale e la capacità dell’uomo di opporsi ad esso (dare la vita per i fratelli), come mai? Solo un Dio provvidente risolve la questione. Anselmo 1. Perché unum argumentum? Confermare con la ragione ciò che la fede già conosce. 2. Perché l’IQM esiste necessariamente? 3. Gaunilone un conto è cogitare (pensare, capire una cosa) un conto intelligere (avere nella mente una cosa che esiste effettivamente), la differenza si coglie solo andando all’esperienza. 4. L’obiezione dell’isola perfetta. 5. Tommaso: c’è o non c’è in noi l’idea di Dio? (per Tommaso se ne deve fare una esperienza, sia pure in forma mediata, per Anselmo basta la fede). Cartesio 1. Prima prova di Cartesio e la premessa del lume naturale (la causa deve avere al-meno la stessa realtà dell’effetto). 2. Seconda prova: non mi posso essere creato io avendo in me l’idea di qualcosa di perfetto ed essendo io imperfetto. 3. Terza prova: Dio-esistenza come angoli-triangolo, montagna-valle 4. La presenza in noi di una idea infinita-perfetta (potremmo essercela formata noi negando ogni forma di finitudine ed imperfezione). 5. Possiamo avere un idea infinita dato che la mente è finita? (chiliagono, mare). 6. Caterus: se c’è in noi l’idea di Dio, Dio esiste. Se una idea di Dio è fattizia può essere divisa, ma se è innata non lo può. L’idea di Dio è innata dunque non si separa essenza ed esistenza. Kant

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1. Perché la teologia non può essere scienza? 2. Perché Dio è un ideale regolativo? 3. 100 talleri contro la prova ontologica (l’esistenza non aggiunge perfezione ad una essenza) 4. L’ente necessario delle cose contingenti potrebbe non essere un Dio. La prova co-smologica usa indebitamente il principio di causalità. Nel’ambito fenomenico si può andare all’infinito. 5. La prova fisico-teologica (ma postula solo un ordinatore). 6. La via della ragion pratica. 5. L’essenza di Dio, l’ateismo il nichilismo 1. Il Dio della ragione. Dio come esse ipsum subsistens: semplice, perfetto, buono, infinito, immutabile, eterno, uno, sapiente, vero, atto puro, trascendente. Ha l’essere per essenza e non per partecipazione. 2. Creazione libera ed eterna (nel senso del progetto). 3. L’aforisma 125 della Gaia Scienza. 4. La questione del male è risolta se è un problema. (perché è problema solo se esiste un Dio). 5. L’idea di Dio è innata in noi. 6. il nichilismo è inquietante perché rompe la scala/gerarchia dei valori, porta al rela-tivismo e allo scetticismo/disincanto. Etica del viandante. 7. Il mondo vero diventato favola. Eterno ritorno, transvalutazione dei valori. Nichili-smo attivo e passivo. 8. Heidegger: nichilismo perché la metafisica ha perso l’essere, con Nietzsche al cen-tro vi è solo il super-uomo. Gettatezza ed angoscia. 9. Secolarizzazione della modernità come auto-redenzione, nichilismo come moderno gnosticismo ateo (primo esito del nichilismo). 10. Fine delle filosofie della storia (secondo esito del nichilismo) 11. Esaltazione della tecnica (terzo esito del nichilismo, nulli sono i valori classici) con-tro l’uomo che invece è un fine (Kant). 12. Fine degli immutabili del pensiero occidentale. 6. La verità 1. Cartesio e il buon senso (distinguere il vero dal falso) distribuito a tutti. La ragione intenziona la verità, non si vive senza una verità. 2. Verità come esercito mobile di metafore (Nietzsche). 3. Le verità forti: Platone, Aristotele, sensazioni, cristianesimo, adeguazione (Tom-maso) Cartesio, Spinoza, Leibnitz, Kant, Hegel.

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4. Accogliere il rivelarsi/manifestarsi della verità, la verità si dà. 5. Il tutto abbracciante di Jaspers. 6. Verità come apertura libera posta dall’essere (Heidegger) che è il progetto che rende le cose strumento. Il ritrarsi dell’essere per dare vita all’ente. Verità come sve-lamento che segue a questo velamento/ritrarsi. 7. Lo scientismo e il circolo di Vienna. 8. Relativizzazione della verità, sua storicizzazione. La filosofia ermeneutica: Nie-tzsche, Gadamer. Ermeneutiche di destra /Pareyson, Ricoeur) e di sinistra (Rorty). 9. Che cos’è la biblioteca di Babele (Vattimo)? 10. Modelli forti di verità: Severino, Habermas 11. Non si può negare la verità perché è contraddittorio. L’esperienza antropologica fondamentale: siamo fatti per la verità, intenzioni amo la verità. Il credente è rassicu-rato sulla verità. 12. Due scommesse: l’essere è intelligibile e noi lo cogliamo. 13. La centralità dell’uomo (non l’essere esterno a me, non Dio) per cogliere la verità dettata dalla modernità. Cartesio e razionalisti. Empiristi (indagano le idee presenti in noi grazie all’esperienza). Rivoluzione scientifica (Bacone: sfruttare la natura!). Verità quantificabile della scienza e poi scientismo. 14. Il dualismo tra filosofia e scienza, superamento in Kant ed Hegel. Trionfo bacchico della verità (Hegel). 15. Aspetti negativi: dimenticanza del singolo, esaltazione della tecnica, perdita del trascendente, “Dialettica dell’illuminismo”. 16. La morte dell’uomo e della verità agganciata all’uomo. Fallibilità della scienza. 17. Reazione: ascoltare l’essere (Heidegger), andare oltre il sapere scientifico (Gada-mer). Rischio: relativismo (Nietzsche: “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”). 18. Soluzione: un realismo non ingenuo. Affermare il soggetto rispettando l’oggetto. Un’ermeneutica con impianto ontologico. Due scommesse (intelligibilità dell’essere e intenzionalità della coscienza) + l’apporto della fede (che invita alla trascendenza) + l’esperienza antropologica fondamentale. Recuperare l’oggettività dell’essere (immutabile. Eterno etc., pensiero antico) e il ri-ferimento a Dio (Medioevo).