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1 ISTITUTO SUPERIORE UNIVERSITARIO DI SCIENZE PSICOPEDAGOGICHE “PROGETTO UOMO” Affiliato alla Pontificia Università Salesiana SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI Anno 2017/2018 Docente Andrea Santini Dispense / 1, 2 e 3 – Appunti del novembre e dicembre 2017 e gennaio 2018 Avete presente il momento in cui un amico, o una amica, vi prendono da parte e, con un sussurro goloso, vi dicono in un orecchio (se non vi è capitato, vi capiterà): “Devo rivelarti un segreto”, e poi si guarda intorno per vedere se qualcuno vi spia? La prima cosa che fate è logica. Cercate un posto comodo, riservato, vi trascinate la persona, vi mettete comodi o comode, vi prendete un attimo per pregustare il momento, poi sussurrate: ”Dimmi”. Sembrerà banale, ma di solito la prima cosa che dice è: “Non so da dove cominciare”. E, nello stesso modo banale ma automatico, a voi uscirà di bocca: “Comincia dall’inizio”. Ora parlare, e raccontare storie costruite su una narrazione che è sempre personale, e che in genere la nostra mente ha già almeno sommariamente elaborato prima di cominciare a parlare, è abbastanza semplice. O, almeno, lo sembra. Perché? Guardiamoci intorno. Quelle che vediamo, sentiamo, e anche immaginiamo attraverso i segnali che ci arrivano, si chiama contesto. Il contesto lo abbiamo creato noi, scegliendo quel posto particolare. Certo, materialmente è stato costruito da altri: che sia un tavolo, una panchina, un muretto, un divano, una stanza. Ma siamo noi che abbiamo individuato quel contesto in base ai requisiti di cui ritenevamo di aver bisogno: un posto tranquillo, isolato, silenzioso, riparato agli occhi altrui, eccetera quanto si viole. O, almeno, si può all’interno dei nostri desideri. Quindi siamo a posto. Il nostro amico, o amica, può cominciare dall’inizio. Ma qui, nei nostri incontri, ci troveremo a parlare di qualcosa di molto più complesso, e spesso insidioso, di un segreto tra amici. Non useremo solo la parola per raccontare. Ma parleremo della parola. Anzi, della comunicazione,

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ISTITUTO SUPERIORE UNIVERSITARIO DI SCIENZE PSICOPEDAGOGICHE

“PROGETTO UOMO”

Affiliato alla Pontificia Università Salesiana

SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTURALI E COMUNICATIVI

Anno 2017/2018

Docente Andrea Santini Dispense / 1, 2 e 3 – Appunti del novembre e dicembre 2017 e gennaio 2018

Avete presente il momento in cui un amico, o una amica, vi prendono da parte e, con un sussurro goloso, vi dicono in un orecchio (se non vi è capitato, vi capiterà): “Devo rivelarti un segreto”, e poi si guarda intorno per vedere se qualcuno vi spia? La prima cosa che fate è logica. Cercate un posto comodo, riservato, vi trascinate la persona, vi mettete comodi o comode, vi prendete un attimo per pregustare il momento, poi sussurrate: ”Dimmi”. Sembrerà banale, ma di solito la prima cosa che dice è: “Non so da dove cominciare”. E, nello stesso modo banale ma automatico, a voi uscirà di bocca: “Comincia dall’inizio”. Ora parlare, e raccontare storie costruite su una narrazione che è sempre personale, e che in genere la nostra mente ha già almeno sommariamente elaborato prima di cominciare a parlare, è abbastanza semplice. O, almeno, lo sembra. Perché? Guardiamoci intorno. Quelle che vediamo, sentiamo, e anche immaginiamo attraverso i segnali che ci arrivano, si chiama contesto. Il contesto lo abbiamo creato noi, scegliendo quel posto particolare. Certo, materialmente è stato costruito da altri: che sia un tavolo, una panchina, un muretto, un divano, una stanza. Ma siamo noi che abbiamo individuato quel contesto in base ai requisiti di cui ritenevamo di aver bisogno: un posto tranquillo, isolato, silenzioso, riparato agli occhi altrui, eccetera quanto si viole. O, almeno, si può all’interno dei nostri desideri. Quindi siamo a posto. Il nostro amico, o amica, può cominciare dall’inizio. Ma qui, nei nostri incontri, ci troveremo a parlare di qualcosa di molto più complesso, e spesso insidioso, di un segreto tra amici. Non useremo solo la parola per raccontare. Ma parleremo della parola. Anzi, della comunicazione,

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che fa muovere la parola, Di più: dei meccanismi che costruiscono la comunicazione che fa muovere i processi culturali i quali modificano la comunicazione che a sua volta modifica i processi culturali creando, insieme, contesti capaci di evolvere ma anche di involvere, incidendo sia sulla parola che sulle culture. E quindi su di noi. Questo cosa significa? Che faremo esattamente come avete fatto voi con il vostro amico o la vostra amica, quando siete andati a scegliere il luogo tranquillo in cui scambiarvi confidenze. Avete cominciato l’incontro scegliendo il contesto. Ovvero siete partiti dalla fine. E solo a quel punto la vostra amica ha potuto cominciare dall’inizio. Così anche noi, prima di cominciare la storia della comunicazione e di ciò che vi è collegato, partiamo dalla fine per vedere dove e come si sviluppa il contesto in cui questa comunicazione finale di svolge, in modo da poter poi affrontare l’inizio, e arrivare a comprendere le cose che oggi stanno intorno a noi, e che quindi tutti noi formalmente sappiamo ma di cui, senza comprenderne cause ed effetti, siamo il più delle volte vittime. Per lo più inconsapevoli. Ma non per questo meno responsabili. Il contesto di cui parliamo è costituito da questo nostro bellissimo pianeta, dove è nata la vita e dove la vita evolve. O involve. Bello ma complicatissimo. Una volta, in anni abbastanza vicini, uno dei giganti del Nobel, sulle cui spalle tutti camminiamo, disse una cosa straordinaria ma sulla quale dovremmo riflettere maggiormente. Cito a braccio: per far nascere la vita sulla terra si sono incontrate miliardi di miliardi di miliardi di casualità. Per farla finire, basterebbe toglierne una sola. Esattamente come questo pianeta è responsabile della nostra vita, noi siamo responsabili della vita di questo pianeta. Esattamente come la comunicazione è responsabile del nostro contesto, noi siamo responsabili della comunicazione. Ho voluto aprire il discorso sul pianeta perché, lo vedremo, quasi ad ogni generazione questo pianeta cambia. Nell’ottocento andavano a cavallo e in treno, nel novecento in auto aereo, oggi sulla Luna e su Marte. Misure e orologi sono state unificate a fine ottocento, e non dappertutto. La radio è recente. La Tv nasce a metà del secolo scorso. I telefonini cellulari negli anni ’80, prima serviva un telefono a colonnina con i gettoni. Nel pianeta odierno anche i bambini alle elementari usano cellulare e computer. La prima macchina da scrivere l’ha inventata Olivetti a Ivrea, i libri elettronici oggi convivono con le librerie e il commercio cartaceo. Nel 1800 il mondo era pieno di analfabeti, che però conoscevano a memoria la Divina Commedia, l’Orlando Furioso, l’Odissea, l’Iliade, il Tasso, l’Ariosto, le poesie di Foscolo e Carducci. Oggi i ragazzini non ricordano a memoria neppure la Vispa Teresa. Telefonini computerizzati forniscono in maniera immediata qualsiasi memoria di cui riteniamo di aver bisogno. Se non abbiamo salvato la rubrica sul computer o sul Cloud e perdiamo il cellulare siamo persi anche noi.

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Il corpo evolve e si adatta. In meglio e in peggio. Se il telefonino sostituisce la memoria, il cervello addormenta la parte che costruisce memoria, anche se sviluppa la parte che velocizza le connessioni attraverso telefonino e computer. Se cambia il contesto cambiamo noi, se cambiamo noi cambia il contesto. Ad una velocità che non ha a che fare con i tempi precedenti. Come ho detto prima, non è un pianeta che cambia, è ogni volta un altro pianeta, in cui convivono generazioni spesso aliene le une alle altre. Non è più solo questione di colore, di razza, di cultura. Spesso a loro diamo la colpa, ma in realtà è questione di abitudini. Il corpo umano prende abitudini in fretta, le perde molto lentamente. A volte mai. E anche le mente è fragile, aiutata chimicamente dal cervello a rifuggire dai pesi troppo gravosi, dalle grandi responsabilità, dal dolore, dal disagio, a modificare la realtà nella memoria. Tanto che, quando il conflitto diventa troppo forte, andiamo in depressione, o scegliamo la via altrettanto pericolosa della dissociazione. (Sull’effetto che le nuove tecnologie hanno sulla società, e soprattutto sulle giovani menti, e quindi sulla cultura del nostro futuro, il sociologo Franco Ferrarorri ha scritto, nel 2012, una interessante analisi dal titolo poco rassicurante: “Un popolo di frenetici, informatissimi idioti”, editore Solfanelli, riproposto in edizioni successive negli anni seguenti, l’ultima nel 2018, con alcune revisioni nella presentazione e il titolo anch’esso rivisto, Il viaggiatore sedentario, Internet e la società irretita, edito da EDB Lampi)- Gli antichi greci, che avevano succhiato cultura dovunque potessero, dall’Egitto alla Mesopotamia, dove i filosofi e matematici (anche Platone e Pitagora) andavano a studiare, imparare e rubare idee, adattandole alla cultura occidentale, dalla Persia all’India e oltre, avevano una definizione per gli oggetti creati dalla tecnica, quelle che oggi definiamo nuove tecnologie, e dalle quali ci siamo lasciati sedurre. Li chiamavano “Pharmakon”. Il termine aveva due significati, a seconda di come veniva usato. Uno era Cura, l’altro Veleno. Gli specchi ustori di Archimede potevano riscaldare una serra d’inverno o incendiare le navi degli aggressori di Siracusa. Così come oggi l’energia atomica può fornire energia e luce ad una città, o raderla al suolo con tutti i suoi abitanti, avvelenando la terra per centinaia e centinaia di anni. Come ieri, così oggi. Eppure noi, di Pharmakon, abbiamo mantenuto solo il significato di Cura.

La Democrazia e la ricerca del Consenso

Nell’epoca moderna, in cui i diversi processi culturali hanno già una loro definizione di base, l’evoluzione e l’involuzione di questi processi non può

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prescindere dai meccanismi della comunicazione. La globalizzazione, all’interno della quale convivono culture diverse, impone di affrontare la comunicazione, nei suoi vari aspetti e strumenti, come un elemento fondante delle modificazioni della società. Nelle democrazie contemporanee, dove il potere viene gestito attraverso il consenso, e dove il mercato segue la regola della fidelizzazione indotta al prodotto, la formazione dell’opinione pubblica attraverso i media di massa ha portato ad un utilizzo sempre più tecnicamente specialistico di questi strumenti, che sono, saranno e rimarranno squisitamente artificiali. Dato che la comunicazione è uno dei fondamenti su cui si basano sia il pensiero che la conoscenza individuale, ma anche quella conoscenza collettiva che forma la cultura di un Paese o di un popolo, ne deriva che la natura dello strumento artificiale utilizzato diventa, attraverso il meccanismo della percezione più o meno consapevole, un fattore di trasformazione del pensiero e, quindi, della cultura e, quindi, della società in cui viviamo e nella quale ci riconosciamo. La tesi è di Marshall McLuhan (Canada, 1911-1980), che proprio da questa parte per rivoluzionare il modo di affrontare lo studio dei processi comunicativi. Anche se altri, e alcuni prima di lui, si erano occupati lungamente e in maniera approfondita dei vari meccanismi di costruzione del linguaggio. Ecco, in questo momenti ho fatto la stessa cosa che ha fatto la vostra amica, o il vostro amico, quando vi si è accostato all’orecchio per sussurrarvi: “Ti devo rivelare un segreto”. E poi, prima di cominciare, siete andate (o andati) a cercarvi la fine, cioè il contesto giusto, da dove cominciare. Così, prima di affrontare il professore canadese, è necessario fare il punto sulla situazione di oggi, che si è arricchita in questi anni recentissimi, di strumenti completamente nuovi, almeno per quanto riguarda l’applicazione alla materia. Questo ci costringerà, subito dopo, a fare un salto ancora indietro nel tempo, molto lontano, un salto di ben 25 secoli, alle basi, lontanissime, della comunicazione occidentale moderna. Che, come vedremo, somigliano in maniera sbalorditiva all’epoca attuale. Faremo, in pratica, quello che fanno i nostri sensi e il nostro cervello quando si trovano in un luogo sconosciuto. Prima fissiamo con gli occhi il punto in cui vogliamo guardare, e che pensiamo sia quello che ci dirà di più, una volta approfondito (McLuhann). Poi contestualizziamo. Cosa ci offre il luogo dove siamo stati catapultati? E’ comodo? E’ disagiato? Siamo in una Genova nel mezzo di una alluvione? Siamo alle Maldive tra sole e mare? Chi sono e cosa fanno gli altri? Ci appaiono amici o ci sono palesemente ostili? Aggrediranno la nostra autostima o ci gratificheranno della loro approvazione? E questa è solo la parte relazionale che rappresenta il meglio del nostro “sé”, quella che è chiamata a svolgere, appunto, un compito di relazione. Poi interviene il nostro “Io”, il cosiddetto cervello rettiliano, la parte più primordiale e animale di noi, che usa esclusivamente una logica protettiva del nostro

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interesse. Questa situazione mi può essere favorevole? Come posso trarne vantaggio? Gli altri mi sfrutteranno o riuscirò io a servirmi di loro? Eccetera. I dati che la nostra vista, il nostro udito, il nostro odorato, il nostro tatto, sono in grado di percepire sono moltissimi, molti di più di quelli che siamo capaci sul momento di scandagliare. Oltre tutto ci sono le emozioni che vengono provocate da tutto quello che i nostri sensi afferrano, e questo ancor prima che ce ne accorgiamo. Facciamo cioè una serie di cose che, spiegate attraverso la comunicazione, comporterebbero una sequenza molto complessa di parole, ma che possiamo definire convenzionalmente con un solo verbo: contestualizziamo attraverso i nostri sensi. Vale a dire che “somatizziamo”, interpretiamo con il corpo. Il verbo contestualizzare, come vedremo un po’ più avanti nei nostri incontri, indica una azione. E’ sempre una parola, ma una parola in movimento. In una guerra, i termini “combattiamo” e “scappiamo” indicano due azioni opposte, e la scelta tra l’una e l’altra cambia la realtà di chi le pronuncia. In un ambiente nuovo per la nostra esperienza, fosse pure un ambiente intellettuale, l’amigdala, la ghiandola fisica che segnala eventuali ostilità, è la prima ad attivarsi. Quindi la nostra partenza in territori nuovi è quasi sempre una partenza da guerra. Alla quale dovremo fare molta attenzione. Prima ancora della parola è con il nostro corpo, attraverso un atteggiamento che può essere timoroso, prudente, aggressivo, respingente, oppure affabile, disarmato, includente, che noi comunichiamo. E l’altro che, di fronte alla presenza di una faccia nuova si trova subito ad acuire i suoi sensi per capire se siamo invasori o alleati, sarà influenzato da questa prima impressione, o percezione di noi. Come in guerra, la prima mossa è sempre quella che imposta il carattere della battaglia. O dell’alleanza. A questo punto si apre il campo alla seconda mossa. Quando abbiamo assorbito con i sensi, il nostro cervello compie la terza operazione, la più importante: spedisce i neuroni a cercare, tra le nostre esperienze passate, tutto quello che può somigliare alla situazione in cui ci troviamo adesso, a cercare di scegliere, tra le varie situazioni che troviamo, il tipo di atteggiamento o di azione che abbiamo intrapreso ottenendo risultati migliori. Tenendo conto che il cervello contestualizza ad una velocità spaventosa, andando indietro nel tempo (ma per lui, abbiamo scoperto in questi anni, è solo spostarsi tra le immagini di un ologramma denso di miliardi di informazioni) finché non trova situazioni sperimentate e utilizzabili come riferimento, per noi un salto all’indietro di 25 secoli è quasi uno scherzo. E’ qui infatti che troveremo una situazione che non è troppo dissimile dalla realtà contestualizzata. Dal nostro oggi, appunto. Lo osserveremo con i nostri sensi, come facciamo nel luogo sconosciuto. Perché con i sensi? Perché, lo abbiamo già detto e lo vedremo subito, le parole sono molto più complicate.

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Si fa presto a dire Parola

In principio fu la Parola… Siamo nella Bibbia, e quindi il termine è già stato tradotto in aramaico. Poi in greco. Poi in latino. Si parla della creazione, o almeno della nascita del nostro universo, vale a dire della materia. La connotazione del termine è quindi di carattere teosofico, cioè mette insieme religione e scienza (Teo e Sofia). Un termine metafisico da una parte, matematico dall’altra. In dotazione, secondo gli antichi, oltre che a Dio, solo all’uomo. Il quale si è sbizzarrito nei secoli a dare a questo termine tutti i significati che gli venivano, di mano in mano, utili e opportuni per le sue tesi. Alla fine, la traduzione più consistente l’hanno data i greci: Logos. Che, appunto, vuol dire parecchie cose e può essere utilizzato in contesti anche contraddittori. I latini hanno fatto un passo successivo. Hanno tradotto: in principio fu il Verbo. Che è qualcosa che, una volta partito, non può essere fermato. Il Verbo, è, nella concezione teosofica, l’atto della volontà creatrice di Dio. Ma rappresenta anche l’azione della Parola. O la Parola in azione che dir si voglia. Vale a dire la volontà creatrice dell’uomo. Nel mondo che conosciamo, la parola è costruttrice della Realtà che conosciamo e nella quale si svolge la nostra vita. E tuttavia, proprio per la sua origine che si presta a tante diverse traduzioni, siamo sicuri che la realtà che noi mettiamo in moto verso l’altro, mostrandogliela attraverso la parola che noi conosciamo bene, sia la stessa che l’altro percepisce e che gli comunichi, sempre nella sua percezione, quello che era nostra intenzione comunicargli? E siamo sicuri che la sua risposta, quando arriva alla nostra percezione, sia la stessa che, nella sua intenzione, ci ha rivolto? Certo, un Si, un No o un Forse non possono essere fraintesi. Ma un discorso complesso? Il nostro mondo, come il mondo dei filosofi scientisti presocratici, è un mondo pieno di apparenti paradossi. Molte scoperte fatte oltre 25 secoli fa, ma bloccata dalla impossibilità, nel contesto storico di allora, di evolvere, sono approdate a questi ultimi due secoli e si sono sviluppate ad una velocità impressionante, trascinandoci, in solo un paio di generazioni, dal triciclo ai viaggi nello spazio, dal torchio di stampa alla realtà virtuale offerta del computer, a Twitter, Facebook e Social vari, dal pony express a cavallo a whatsapp e agli smartphone ultima generazione, dalle arti figurative con pennelli e scalpello alla Tv e fra poco agli ologrammi, dai libri e dai giornali al mondo dell’informazione infinita e ininterrotta di Internet, dal teatro delle persone al teatro virtuale e fra poco olografico in salotto. Eppure tutto parte da quella massa di secoli che abbiamo alle spalle. E, lo si è scoperto da poco, ancor prima. Circa 5000 anni fa, dalla cultura sumera

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(cui si devono la scrittura, la religione, la morale, l’etica e l’economia) e indiana, che hanno ispirato gli scienziati e i filosofi greci di allora, grandissimi curiosi e viaggiatori, che ci hanno portato le conoscenze strappate all’Oriente, adattandole ai contesti e alla cultura greca. Se è vero che abbiamo un linguaggio fonetico basato sulle lettere dell’alfabeto da meno di 30 secoli, le prime scritture lineari provengono dalle culture micenea e minoica di oltre 35 secoli fa, estrapolate dalla scrittura cuneiforme sumera ed egiziana di 50 secoli fa, da popoli che già conoscevano astronomia, posizione della Terra nel Cielo, significato astrologico dell’Universo e il mondo dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. La struttura atomica dell’Universo e della vita? I presocratici già la conoscevano. La fisica delle particelle? Già nota. La meccanica e la fisica quantistica? Non come adesso, ma ne discutevano animatamente, dividendosi in scuole di pensiero. La teoria del Caos avanzata con la fisica quantistica? Anassimandro, nato a Mileto oltre 26 secoli fa, aveva già stabilito il paradosso di una realtà costruita sui contrari. Riscoperta oggi con la fisica delle particelle. La struttura spazio-tempo come cosa interdipendente? Intuita sia come filosofi che come matematici già nei 600 a.C., e noi abbiamo dovuto aspettare Einstein. Corpo e mente interdipendenti? Ebbene, va detto, come quasi tutti, anche Cartesio ha copiato, naturalmente migliorando e contestualizzando. Per arrivare al Cogito ergo sum, Penso quindi sono, che si è sviluppato in Sono quello che penso, (che ha un forte debito nei confronti del “Non si può prescindere da ciò che si è” di Aristotele) quando le verità deterministiche e quindi intangibili sono saltate, sono dovuto passare oltre venti secoli. Già Anassagora, nato a 496 avanti Cristo, aveva scoperto che la Terra galleggiava nel cielo senza cadere e che l’uomo aveva potuto evolvere evitando, cosa non possibile agli animali, i mutamenti del proprio corpo, grazie alle mani con pollice opponibile, capaci di afferrare, disegnare, costruire. Aveva identificato l’ Homo faber, l’uomo creatore di artefatti che costruiva autonomamente fuori da sé ciò che gli mancava o serviva, in modo che il suo cervello potesse evolvere per connessioni e non per necessità epigenetica materiale. In questo modo aveva potuto sviluppare il Logos, il pensiero dell’Homo Sapiens, e la comunicazione, in modo da continuare a creare la propria realtà al di fuori di sé. Non solo a crearla, ma a riuscire anche a manipolarla.

La realtà? Non ci intenderemo mai E’ vero, hai ragione anche tu

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Le parole, si è detto poco prima, sono assai complicate. Per capirci meglio, credo sia necessario ricorrere alla maschera teatrale. Quella che, nelle commedie, indossavano gli attori. E non è un caso che, in latino, le maschere degli attori venissero chiamate “Persone”. Prendiamo Luigi Pirandello, siciliano di Girgenti, morto non ancora settantenne nel 1936, uno dei maggiori autori interpreti delle schizofrenie comunicative. Tutta la sua opera, in un modo o nell’altro, si appoggia a vari modelli di incomunicabilità. Che traduce, a sua volta, una serie di leggi fisiche. Apriamo Uno, nessuno, centomila, (quasi tutto Pirandello – come moltissimi altri autori - si può scaricare gratuitamente o con un obolo volontario di 2 euro, da LiberLiber), e andiamo a pag. 42. “Ma il guaio è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare, come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, o e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente affatto……. Ahimè caro, per quanto facciate, voi mi darete sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e sarà, non dico, magari sarà, ma a un modo mio che io non so né potrò mai sapere; che saprete solo voi che mi vedete da fuori: dunque un modo mio per voi, non un modo mio per me….. C’è in me e per me una realtà mia, quella che io mi do; una realtà vostra in voi e per voi, quella che voi mi date; le quali non saranno mai le stesse, né per voi né per me”. Saltiamo a pag. 53. "Eppure non c'è altra realtà al di fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto. Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà" e conclude: Fermezza di volontà, quindi. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate sorprese. Ma che belle costruzioni vengono fuori!” Fermezza di volontà (la mente e la ragione) e costanza di sentimenti (il corpo, i suoi sensi, le sue emozioni). La realtà che si costruisce non può essere mantenuta stabile, nel senso di equilibrata, scevra da patologie, senza usare l’una e l’altro insieme. Diversamente, c’è sempre un prezzo da pagare. Pirandello c’era arrivato prima della Scuola di Palo Alto con Gregory Bateson (Verso una ecologia della mente, 1972, e Mente e Natura, un’unità necessaria, 1980. Ha sviluppato la Teoria del doppio legame per spiegare la schizofrenia) e Paul Watzlawick, (Pragmatica della comunicazione umana,

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Astrolabio 1967. E’ tra i maggiori esponenti dell’approccio sistemico) e prima che Humberto Maturana e Francisco Varela (L’Albero della Conoscenza, 1987; Autopoiesi e cognizione, 1980; Autocoscienza e realtà, 1983) si affacciassero dalla Scuola di Santiago a raccontarci come la vita si autotoproduce rinnovandosi. Passiamo ad un altro testo pirandelliano, molto interessante, “Sei personaggi in cerca di autore”, finzioni di realtà che, una volta scoperti, scompaiono, seguendo la sorte di particelle instabili e solitarie individuate dalla fisica quantistica in tempi abbastanza recenti, che, osservate, o si trasformano o scompaiono. Che, nella realtà, non reggono alla finzione, esattamente come la menzogna che, e lo vedremo meglio più avanti, una volta scoperta, viene annullata. Una frase, a pagina 17, sintetizza il tutto. E’ pronunciata dal personaggio che impersona il Padre. "Ma se è tutto qui il male. Nelle parole. Abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ciascuno un suo mondo di cose. E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e con valore che hanno per sé, del mondo che egli ha dentro? Crediamo di intenderci: non c'intendiamo mai". Cosa ci è successo? Siamo tutti dissociati? In crisi sicuramente. Sempre di corsa. A inseguire cosa non siamo certi di saperlo. Il fatto è che tutto corre intorno a noi e noi di corsa dietro al tutto. Non riusciamo più a riconoscere la nostra realtà. Forse la fretta ci spinge ad errori, il fatto è che dura troppo poco, decade velocemente. Del resto il nostro mondo è riconoscibile solo ad una piccola élite, mentre tutti gli altri annaspano. Le mode, che prima duravano anni, a volte resistono solo per pochi mesi. I ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi, il ceto medio scompare, mentre i poveri sono sempre più poveri e più numerosi. Esattamente il contrario di solo poche decine di anni fa, quando le ricchezze si distribuivano su un numero sempre più ampio di persone e il ceto medio pensava che avrebbe continuato a crescere all’infinito. La società, anzi, le società, proprio nella globalizzazione che dovrebbe rendere il mondo materiale accessibile a tutti, sono diventate, come ha ben descritto Zigmund Bauman, ancora più liquide e inafferrabili, tanto che sempre di più troviamo rifugio nelle piccole patrie, creando minuscoli gruppi di autodifesa che vivono non in un mare liquido, ma in catinelle d’acqua dove ogni minima scossa crea paure, travasi e conflitti. Ma anche, appunto, senso di difesa e di appartenenza. Oltre che di esclusione dell’estraneo. Basti vedere come funzionano le ahstag, ossia parole d’ordine dei messaggi sui social, che, pur navigando nel mare liquido sociale che non ne consente l’individuazione e il riconoscimento, si identificano con la piccola catinella della parola comune, creando stesse paure, scosse, conflitti ed esclusione dell’estraneo. Il fatto è che stiamo vivendo a cavallo di due mondi. Quello che leggiamo attraverso la teoria della relatività di Einstein, che è curvo e in espansione, e

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quello descritto dalla meccanica e dalla fisica quantistica, che è piatto, finito, pieno di oggetti saltellanti che appaiono e scompaiono, che chiamiamo probabilità e ci riesce sempre più difficile afferrare. Per capire i suoi effetti sulla Parola e sulla Comunicazione, responsabili sul piano architettonico e ingegneristico della facoltà creativa umana, ho bisogno di prendere in prestito alcune storielle. La prima la rubo al sintetico e fulminante “Sette brevi lezioni di Fisica”, di Carlo Revelli, uno scienziato che si occupa di cose saltellanti, visto che è sua la teoria del nostro universo creato non da un Big Bang, una grande esplosione, bensì da un Big Loop, un grande rimbalzo. La storia, che appare a pagina 48, è quella di un rabbino chiamato a dirimere una lite fra due contendenti. Questi ascolta le ragioni del primo, riflette, poi dice: "Hai ragione”. Quindi ascolta il secondo, riflette, e anche a lui dice: "Hai ragione". La moglie del rabbino, che origliava dalla stanza accanto, gli grida: "Non possono aver ragione entrambi". Il rabbino ci pensa su, poi risponde alla moglie: "Hai ragione anche tu".Sembra di essere in un talk Show di oggi, in cui ognuno è convinto di avere ragione e possiede strumenti dialettici e retorici per convincere gli altri. E' quello che vediamo ogni giorno nel nostro mondo. Ma quale dei due? Il piatto e saltellante o il curvo in espansione? Proviamo con un’altra storiella. Questa volta la rubo al vecchio mondo comunista, più pragmatico e sotto alcuni aspetti paradossali anche deterministico. E’ quella del compagno millepiedi e del compagno segretario di federazione. "Caro compagno segretario, dice il millepiedi, sono nei guai. Anche a prescindere dalla crisi, non posso permettermi mille paia di scarpe, che oltretutto si consumano e vanno risuolate in continuazione. Cosa posso fare?"L'altro lo guarda con cipiglio poi risponde: "Caro compagno millepiedi, è molto semplice, e avresti dovuto pensarci da solo. Basta che tu ti alzi su due piedi e usi quel paio di scarpe per camminare".Il compagno millepiedi arrossisce, si scusa ed esce. Ma dopo un po' ritorna. "Caro compagno segretario, ci ho provato ma non ci riesco. Gli altri 998 piedi sono troppo pesanti e mi impediscono di alzarmi. Cosa devo fare?"Il compagno segretario lo guarda e scuote la testa. "Ma tu proprio non hai voglia di fare nulla? Io ti ho dato la linea, il come realizzarla spetta a te".E anche questa è la condizione in cui viviamo, e in cui siamo costretti ad accettare un diktat generico e cercare di scegliere tra possibilità saltellanti del mondo quantistico.La soluzione delle apparenti contraddizioni la ritroviamo nelle leggi elementari dell'universo.Il rabbino non ha sbagliato dando ragione a tutti.Il primo contendente, essendo sicuro di avere ragione, ha illustrato sia contesto che motivazioni in modo da ottenere ragione. Lo stesso ha fatto il secondo, ma dalla sua ottica, ottenendo quindi ragione anche lui, in quanto la sua realtà, essendo diversa da quella dell'altro, non legava il rabbino ad alcun

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schema di realtà unica e sola. E anche la moglie, che aveva sentito le risposte del rabbino da un'altra stanza (e quindi da un'altra realtà), in questo contesto ancora diverso aveva ragione.Come nella storiella comunista aveva ragione il compagno millepiedi, che nella sua realtà doveva risolvere il problema delle scarpe, e aveva ragione il compagno segretario il quale, costretto ad affrontare continuamente richieste che provenivano da realtà personali diverse, non poteva andare oltre ad una enunciazione di linea, vale a dire di un comportamento elementare corrispondente alle leggi elementari dell'universo che ci forniscono la “linea matematica” ma poi ci abbandonano alla nostra autodeterminazione.Cosi come le leggi elementari si legano a contesti diversi che provocano connessioni e quindi trasformazioni diverse, il libero arbitrio umano deve rimanere in grado, facendo base sulle leggi elementari dell'etica, oppure sulle leggi altrettanto elementari dell’interesse personale, di trovare connessioni, elaborazioni e soluzioni che meglio si adattino al proprio contesto, ossia alla propria visione della realtà. Cosa che, a seconda del punto di vista (lo Spin, ovvero l’angolo di rotazione della particella all’interno dell’atomo), può apparire in modo deterministico, cioè apportatore di pericolosa confusione, o può essere osservato dal punto di vista creativo, cioè apportatore di grande ricchezza. Non a caso il manipolatore della realtà personale, quello che modifica l’apparenza della nostra personalità, facendo in modo da renderla gradita agli altri, viene chiamato Spin Doctor.

E’ l’angolo da cui si guarda il mondo che costruisce il nostro mondo

Il punto di vista, per chiunque di noi, è sostanziale. E il punto di vista è anche il più modificabile, in quanto su di lui influiscono moltissimi elementi che hanno poco a che fare con la realtà oggettiva, ma moltissimo con quella personale. Il punto di vista di un povero e di un ricco non possono essere uguali. Il punto di vista di un padrone e di un servo non possono essere uguali. Così come quello di un imprenditore e di un dipendente, o di un sindacalista. Potremmo andare avanti pagine a costruire differenze, ma credo che ci siamo capiti. Questo cosa significa? Che sarà sempre impossibile comunicare? Che siamo senza speranza? Fortunatamente no. E la strada ce l’ha indicata Pirandello: volontà e costanza, cuore e cervello, sentimenti e ragione, corpo e mente, sensi e pensiero. Bisogna usare con intelligenza uno dei grandi paradossi: più ci allontaniamo dall’oggetto che occupa la nostra attenzione, stringendo l’angolo di visuale, più riusciamo a vedere tutti la stessa cosa. Più

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ci avviciniamo, allargando l’angolo di visuale, più siamo in disaccordo su che cosa vede ognuno di noi. Il significato non è difficile da capire: più ci distacchiamo dal nostro io, vale a dire la parte egoisticamente animale di noi, e più utilizziamo il nostro sé, cioè la parte relazionale che riconosce l’altro, più saremo in grado di trovare un compromesso che ci unisca. In pratica, mantenendo il paradosso, più l’angolo di visuale si restringe, distaccandosi dall’oggetto, più si allarga l’angolo etico che è costruito per unirci agli altri, capovolgendo il paradosso stesso e portandoci ad utilizzare non più una comunicazione fatta di parole di contrasto, ma una comunicazione che ci porti ad aveva una visuale comune. Che è appunto il modo in cui una cultura comune costruisce una società. Non è l’oggetto della nostra osservazione che cambia. Cambia solo il nostro modo di osservarlo assieme ad altri. Ma proprio per questo è anche l’elemento più debole e inquinabile nel processo di costruzione della realtà. Perché, conoscendo le tecniche adatte, il punto di vista è proprio il più facile da cambiare. Gli Spin doctor non trasformano il personaggio che si affida alle loro cure. Cambiano solo la sua apparenza, e la percezione che noi abbiamo di lui. Vale a dire che operano sulla immagine della realtà all’interno della quale noi lo collochiamo. Raccontandoci di lui un’altra storia.

Narrazione, Storytelling, Macrologia e Brachilogia.

La narrazione è il modo in cui decidiamo di rappresentare la realtà che ci circonda. Possiamo usare un Twitter, un filmato, delle foto, un racconto, una metafora, una storia, un telegramma, un’espressione, un sorriso o un insulto. Oppure il silenzio, perché anche il silenzio narra. La decisione di cosa usare e come usare il cosa è nostra. La storytelling è la scelta prevalente che ci troviamo ad affrontare: in politica, in economia, in cronaca, in pubblicità, nel commercio, nella descrizione di noi stessi e degli altri, eccetera. E’ la narrazione cucita intorno alle emozioni. Che però non proviene o non si affianca o non procede con altre operazioni originate dal cervello prima e dalla mente poi. Si ferma lì, alle emozioni. Usa, in pratica, il nostro corpo. Per questo ha bisogno di un altro strumento, la macrologia. In filosofia è equivalente ad una retorica ridondante, ricca di parole ma povera di significati. In enigmistica consiste nell’ostentazione della soluzione, o di una parola che fa parte della stessa. Insomma, promesse e chiacchiere, a volte addirittura evocazione di miracoli, ma fatti pochi. Oggi questa parola viene usata per definire un concione, un comizio, un qualcosa, insomma, che non consenta contraddittorio. Un discorso ripetitivo, prolisso, senza connessione logica ma pieno di connessioni emotive. Per questo, in enigmistica, è finita

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tra gli errori tecnici ed è stata eliminata. In politica, nel commercio e in pubblicità, invece, ha trovato maggiore fortuna. La pubblicità ha trovato vari modi per utilizzare la Storytelling attraverso l’uso di una macrologia funzionale. E poiché la pubblicità ha un fortissimo legame con l’economia, nel senso che ne deriva e ne è nello stesso tempo creatrice, tempo addietro ho cercato lumi su un particolare che mi interessava in un corso di Marketing e direzione d’impresa. Uno dei capitoli aveva un titolo che mi ha incuriosito: “Il processo di acquisto del consumatore”. Ancora mi chiedo se questo processo riguarda il consumatore come soggetto dell’acquisto, oppure come oggetto dell’acquisto. E’ lui che compra, o che viene comprato? Chi vende? L’Azienda un oggetto o il Compratore una parte di cervello? I termini usati, da “fidelizzazione” a molti altri che vedremo in seguito quando approfondiremo l’argomento, non sono riusciti a sciogliere il dubbio. In tempi recenti la narrazione pubblicitaria è cambiata: si costruisce una storia “laterale” con poche immagini e meno parole parole, una delle quali è la chiave che poi ci porta ad una conclusione emotiva non più sulla storia che si è costruita come inizio, ma su un’altra storia che costituisce la conclusione e che è il vero obiettivo della pubblicità. Il meccanismo, in breve, è il seguente: attirare in una trappola il consumatore con un inganno verbale “sensibile”, ma “altro”, e poi si spinge nella direzione che interessa. La prima parte risulta quindi pubblicità ingannevole, ed è l’Ancora che attira, la seconda è vera ed è il bersaglio cui la pubblicità mira mentre ti distrae. Il contrario del termine macrologia è brachilogia: indica una cosa precisa, dice che cosa è, o spiega un fatto sulla base del fatto stesso, in modo che chi ascolta possa confrontare le parole con ciò che vede o ciò che conosce, fare una ricerca nei propri neuroni e capire se chi parla dice il vero o il falso. La brachilogia, come strumento della comunicazione, è odiata da politica e mercati, mentre la macrologia invece è amatissima. Anche se, soprattutto riguardo alla comunicazione politica, costituisce un paradosso. La storytelling macrologica è efficace quanto più è veloce e continuamente contestualizzata, mentre il processo per trasformare concetti e promesse politiche in fatti ha tempi amministrativi talmente lenti, complessi e non sempre applicabili alle regole, che rendono i contenuti dichiarati nella macrologia inefficaci, anzi, alla lunga – ma non troppo - dannosi per il protagonista. Non è un caso che, nella storia, i vari tipi di macrologia, demagogia, populismo, siano stati ampiamente utilizzati nei vari schemi tirannici e dittatoriali, dove il “fare” non è legato a tempi burocratici o a concetti come legittimità, giustizia, etica, capacitò finanziaria, ma esclusivamente a termini come efficienza, decisionismo, necessità, che appartengono esclusivamente alla volontà del tiranno o del dittatore di turno. E comunque, anche quando ciò è accaduto, i tiranni non hanno retto a lungo, almeno in tempi storici, ed hanno fatto una brutta fine.

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Il consenso costruito non come valore aggiunto ma come sottrazione

Lo spettacolo che si presenta al nostro amico catapultato in questo mondo sconosciuto (ma non a tutti, coloro che lo usano lo conoscono bene) che è la comunicazione oggi ha una serie di caratteristiche. Deve essere povero di concetti, scomodo all’etica, agevole per gli opportunismi. Deve contenere poca sostanza e molta apparenza. Ricco di orpelli e scarso di concretezze. In pratica, deve essere svuotato di una realtà concreta che va sostituita con una realtà apparente, su schema virtuale, costruita apposta a dimensione dei sensi e delle emozioni. In realtà è più semplice di quanto si creda: basta creare artificiosamente un vuoto accanto ai concetti scomodi, in modo da poter poi inglobare in questo vuoto il concetto stesso. Automaticamente il concetto si svuota del suo significato, e quindi della necessità, o quanto meno della utilità, della sua esistenza. Un po' quello che fece Ulisse con Polifemo dicendogli di chiamarsi Nessuno. Accadde quello che accade in matematica dove 1 (la cosa, il fatto, l'evento) moltiplicato per 0 (il niente, il non essere) dà come risultato 0. Cioè sparisce. Quando i ciclopi chiesero a Polifemo chi lo avesse accecato e questi rispose Nessuno, il fatto scomparve. O, almeno, scomparve una eventuale responsabilità nel fatto stesso.

Lo Zero, nel suo significato aggiuntivo o moltiplicativo è stato utilizzato, pressoché contemporaneamente, dalla cultura indiana e da quella Maya la quale lo rappresentava come un elemento figurativo, un uomo, o un fiore. Anche se in realtà sembra, in base a scoperte recenti, che sia stato portato nelle Americhe, insieme ad altri pezzi di cultura, religione a scienze, dai Cartaginesi, grandi navigatori e in stretto contatto con le civiltà egiziana e orientali. In Europa lo Zero è giunto solo nel Medio Evo, dopo l’anno Mille. Ma è stato proibito. Prima dalla chiesa, in quanto rappresentava un numero negativo, cioè a debito, quindi veniva accostato all’usura, che la Chiesa considerava peccato, e poi dal potere laico, composto da aristocratici proprietari terrieri, che ne proibirono l’uso ai contadini, in quanto attraverso lo “0” avrebbero potuto far di conto e capire il valore del lavoro e quindi il tipo di sfruttamento cui erano sottoposti.

Lo “0” come elemento negativo si esprime solo nell’azione, proprio come il verbo nel linguaggio. Ogni numero, moltiplicato per zero, fa come somma Zero. Facciamo un esempio: prendiamo il concetto di Giustizia, che è uno dei fondamenti dell’etica e della morale, e quindi della convivenza umana e sociale. Se lo affianchiamo col suo supporto logico, vale a dire Giustizia

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Giusta, diamo al secondo termine un significato di valutazione dell'evento da applicare (la giustizia) secondo una contestualizzazione da valutare caso per caso. In modo cioè sostanziale. Vedremo in prossime lezioni lo sviluppo di questo concetto. Per ora fermiamoci al fatto di come far sparire il concetto di giustizia. A volte è sufficiente sostituire il termine giusto con il termine formale. Se il termine giusto ha bisogno di valutazione contestualizzata al caso in esame, il termine formale, deterministico quindi immutabile, inserisce un nuovo concetto, quello di immobilità, che formalmente comporta anche quello di uguaglianza (si dice che la giustizia è uguale per tutti). Ora il termine giustizia, che contiene in sé il concetto di giusto, cioè valutato caso per caso, contestualizzata all'episodio che ne richiede l'applicazione, rappresenta una azione e quindi funziona. Se si toglie il giusto e si mette il formale, il concetto, rappresentando solo una “forma”, immutabile e immobile, toglie al termine giustizia la possibilità di “agire”; diventando anche formalmente uguale per tutti, impedisce al giudice l’azione di applicarla, e annulla il concetto implicito di giustizia. Un omicidio sarà uguale se commesso per legittima difesa o per gelosia o per derubare la vittima. Il formale infatti elimina la necessità di un contesto. Avrà infatti la stessa forma in qualsiasi contesto. Basterà un computer per gestirla, Il giudice sarà obsoleto. E la parola giustizia o è compromessa o sparisce. Convenzionalmente magari potrà continuare ad essere usata, ma il concetto che rappresentava non sarà più quello.

Basti pensare all’uso anomalo che già viene fatto del termine nella banalizzazione della cronaca. Quante volte avete sentito usare una frase del tipo “E’ stato giustiziato con un colpo di pistola alla nuca”. In genere, si tratta di un omicidio mafioso, un omicidio che, oltre a raggiungere il suo scopo, eliminare la vittima, vuole raggiungere anche un altro scopo: essere da monito per terze persone. Ora, il termine “giustiziato” non può certo essere certo applicato ad una “azione” che coinvolga la giustizia. Quello di cui si parla è un omicidio, in cui la vittima ha perso “ingiustamente” la vita. Questo significa che abbiamo usato (ingiustamente) il termine sulla base di un elemento “formale”, cioè non diversificabile. Era un termine che veniva usato, e trasformato in azione, solo durante le guerre. Lo aveva inventato la gerarchia militare per ammonire i soldati in modo che non pensassero alla fuga dinanzi al nemico, neppure per esercitare quello stimolo che è primario nell’uomo: sottrarsi alla morte, sopravvivere. Era un omicidio di stato che doveva servire da monito: se non ti ammazza il nemico ti ammazzo io. Un fatto quindi formale, uguale per tutti, contestualizzato non all’uomo o al termine usato, ma alla situazione “ingessata” in un contesto bellico. E, con questo, la giustizia non ha assolutamente a che fare.

Oggi, per qualsiasi esercito, è fondamentale che il soldato salvaguardi la propria vita, con qualsiasi mezzo a disposizione. Se non altro, per poter tornare a combattere, facendo fruttare il proprio costoso addestramento.

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Nessuno, nel mondo militare, si sognerebbe di usare in questa epoca il termine giustiziato. Se lo fa il cronista, pur sbagliando, significa che la percezione che la giustizia, in molti casi, abbia perso la sua essenza e il suo significato, è arrivata, anche se non in modo consapevole. Resiste, anche in questo, l’apparenza. Che è, appunto, “forma”.

Lo stesso tipo di ragionamento si può applicare alla verità. Se questa corrisponde semplicemente ed esclusivamente all'opinione che ognuno si fa di una realtà, opinione che, rimanendo all’interno di noi senza trasformarsi in “convenzione” con gli altri (ricordiamo che il linguaggio è una “convenzione” sociale e territoriale) allora è vero che un'opinione vale un'altra e la verità, formalizzata, scompare. Lo stesso esercizio si può sperimentare su significati compositi come morale, etica, valori, coscienza etc.

Se ripensiamo agli ultimi venti anni di comunicazione televisiva, ma anche politica, ci rendiamo conto di quale tipo di operazioni culturali siano state operate sui concetti in modo da cambiar loro significato se non addirittura eliminare il loro significato primario, annullando i concetti stessi sulla base dello stesso agente moltiplicativo Zero.

Questo ha portato ad un linguaggio politico che può ormai fare a meno di spiegare i concetti della propaganda politica, cioè fornire loro un corpo fisico che possa dimostrarne la realtà e conseguentemente la volontà di trasformare, da parte di chi li pronuncia, i concetti in fatti. In modo, appunto, brachilogico.

Con quali strumenti? Lavorando sulla percezione da parte di chi ascolta e facendo in modo di impedirgli di porsi delle domande. Operando quindi sulle emozioni e sulla zona limbica, impedendo la connessione con quei meccanismi di coscienza o consapevolezza che mettono in moto la mente, depositaria dello spirito critico.

È a questo punto che entra in scena il macrologio politico. Se noi analizziamo la comunicazione dei tre maggiori esponenti di successo che utilizzano questo metodo comunicativo si scopre che, se la strategia è simile, pur con alcune differenze, variano invece la tattica e la tecnica.

Tutti e tre parlano a braccio, non scrivono niente, neppure appunti. Uno è sicuramente un fenomeno per quanto riguarda l’uso della memoria. La usa esattamente come la usavano durante il periodo omerico, prima che fosse utilizzata la scrittura. Possiede il talento di una narrazione che mantiene i suoi

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schemi e le sue simmetrie attraverso l’appoggio sugli stereotipi, una sorta di ripetizione ossessiva di concetti uguali o simili che serviva allora, e serve adesso, per fissare le parole d’ordine nell’ascoltatore, oltre che per stabilire uno schema cui appoggiare la mente per non perdere il filo. Dal punto di vista della memoria e della continuità del linguaggio fa pensare a un solo altro leader politico in grado di parlare per ore senza riprendere fiato e a velocità crescente, Fidel Castro, e con la stessa capacità di convincere. La sua tecnica, ormai studiata, analizzata e sviscerata, segue schemi precisi, come si fa con uno spartito musicale. Ritmo e metrica sono molto importanti, e dato che l’insegnamento viene da Omero e resiste da oltre tremila anni, non va preso alla leggera. Parte con tono confidenziale, del tipo chiacchierata in famiglia, poi sale, un crescendo velocissimo di banalizzazioni, semplificazioni, esempi, in cui coinvolge continuamente l'eventuale interlocutore, crea una aspettativa e poi conclude con una analisi legata al senso comune, con il quale non si può non concordare. Fa tutto da solo, si fa le domande usando un tono, si da le risposte cambiando tono, si mette nei panni dell'interlocutore, prende le sue parti e poi da uomo di potere (ma attenti, dice, sono solo uno di voi, cui voi avete solo delegato una responsabilità) tira fuori la risposta che l'altro vorrebbe e che ormai è stato spinto ad aspettarsi.

Agisce esattamente come fa il cervello. Un po' di dopamina' un po' di serotonina, non fornisce tempo per pensare perché offre sempre lui la risposta giusta. E’ sempre dalla tua parte, non sale mai in cattedra anzi, tiene un profilo basso, banale.

Parla all'ipofisi ma non consente domande. Perché offre insieme a queste anche le risposte. Insomma, ti fa contento prima che il tuo cervello possa indugiare sul problema. Funzione come una droga. O un placebo.

Se il primo (ormai diventato ultimo) parla all'ipofisi fornendo sempre la droga necessaria a rendere la realtà percepita la stessa che offre lui rendendola appetibile, il secondo (ormai diventato primo) parla invece alle viscere. Se il precedent3 punta sulla complicità, la partecipazione e la corresponsabilità, giungendo a stimolare i sensi di colpa di chi gli è contro (i “gufi”, cioè i portatori di malaugurio), pur senza arrivare alla criminalizzazione, l’altro sceglie invece di stimolare la rabbia, la reazione, appunto, viscerale. La usa, eccita se stesso per eccitare gli altri, urla, accusa, rifiuta il dialogo, punta a sollecitare al massimo i sensi e ad impedire un normale dibattito, in cui comunque rifiuta, condannandola, l'identità dell'altro. Come tutti gli arrabbiati, i talebani, i partigiani, è l'unico a possedere la ragione e il motivo per gridarla. Solo lui può salvare il mondo. Lo schema di base è: chi non è con me è contro di me. Non molto diverso dal precedente, cambia solo il metodo.

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Il terzo, ormai diventato secondo, si pone a metà. Cerca di coinvolgere gli altri, ma non ne usa la rabbia. Ne usa le paure. Si rivolge all’Amigdala, centro di raccolta di tutti i timori e scatenatrice di tutte le difese, quindi degli egoismi. Che naturalmente, nella percezione umana e sociale, trovano auto giustificazione nel fatto di rispondere ad un istinto primario: quello di salvaguardare la propria sopravvivenza e la sopravvivenza, quando vi sia, della propria famiglia. Il nostro terzo personaggio (come si è detto in avanzata), è dalla parte di chi ha paura ed ha sempre il dito puntato contro i responsabili di questa paura Ma se si ha fiducia in lui non c'è problema, si assume lui il compito di rimediare. A costo di farsi carico lui di tutti gli anatemi e tutte le accuse, sporcandosi le mani lui per conto degli altri

In realtà nessuno dei tre apre un dialogo. Ognuno parla a un popolo immaginario, esattamente come fa un imbonitore in Fiera. La politica si sposta dai luoghi tradizionali del potere politico a quelli dei media visivi e virtuali, dalla tv ai social. E ne assume i linguaggi. Dalla politica spettacolo degli anni ’80, inaugurata dal presidente americano Ronald Reagan, siamo oggi passati direttamente allo spettacolo come unico strumento per fare politica. E non è un caso che l’immagine pubblica di questi tre protagonisti di successo della politica odierna sia rappresentata non da loro, ma dai tre simulacri che ne ha tratto un comico straordinario, che domina televisioni e You Tube, e che ormai ha reso i tre uomini figure familiari, tanto che loro stessi hanno cominciato a conformarsi a queste immagini virtuali. Anche perché, intorno a loro, sembra regnare una sorta di inafferrabile caos.

Dal presente al passato

Tracciato, pur se schematicamente, il panorama che contestualizza il presente, il cervello a questo punto è libero di cercare nel passato situazioni simili. E le trova nell’Atene dell’antica Grecia, mezzo secolo circa prima della nascita di Cristo. Così come oggi l’arrivo di Internet in modo capillare a miliardi di persone cambia la percezione attuale della realtà, cosi, 25 secoli fa, la messa a disposizione del popolo della scrittura e la nascita di scuole e accademie aperte a chi avesse la qualità per parteciparvi, senza alcuna differenza di nascita o di ceto, costituì una vera rivoluzione.

Mentre prima della scrittura a disposizione di (quasi) tutti, l’attenzione degli ascoltatori era concentrata sul mandare a memoria il racconto poetico, di colpo il trovare il poema scritto liberava l’ascoltatore da questo debito, e

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lasciava alla sua mente la libertà di speculare su contenuti e significati. Si rinunciava ad una parte di capacità di memoria, si cresceva nella capacità di elaborazione. E nel numero di persone che potevano accedervi. Certo, l’istruzione non riguardava gli schiavi, ma non diversamente da come oggi non riguarda un numero tuttora enorme, e sempre crescente, di poveri totali, e quindi privi di diritti. I nuovi schiavi.

Oggi, con Internet, si rinuncia ancora di più alla memoria, ma si acquista enormemente, attraverso un accesso incredibilmente più veloce e di una ricchezza fino a pochi decenni fa assolutamente non immaginabile, una capacità di connessioni che, sulla base dei recenti studi sul cervello e sui centri neurali sparsi nel corpo, dovrebbe sviluppare velocemente la nostra intelligenza e la nostra capacità di adattamento ad una realtà in movimento vertiginoso.

L’altra sbalorditiva somiglianza tra queste due sponde larghe 25 secoli è il linguaggio, quindi la comunicazione. Così come oggi domina la mistificazione del linguaggio, il mondo dell’apparenza, l’utilizzo delle emozioni al posto di coscienza e spirito critico, la perdita di significato di termini come etica, verità, consapevolezza, giustizia, il prevalere degli egoismi e della corruzione, nell’altra sponda di questi 25 secoli i termini erano pressoché identici. Una democrazia incompiuta ma apparentemente funzionante, il degrado di una filosofia della scienza, quella dei sofisti della scuola di Mileto (Talete, Eraclito, Anassimene, Anassimandro) e di quella Eleatica (Parmenide, Zenone), che guardava per la prima volta con attenzione all’uomo, alla natura e al cosmo, che pensava in termini di giustizia e non di semplice bene, che vedeva la donna con uguali diritti dell’uomo, che considerava tutti gli esseri umani uguali quindi non ammetteva la schiavitù, con la trasformazione del sofismo in una compravendita di concetti sempre più elastici e privi di significato, in cui l’importante non era avvicinarsi (o almeno tentare) al vero, ma semplicemente vincere e battere l’avversario in una dialettica degradata a pura strumentalizzazione. Una nuova scuola sofistica, contestualizzata a quel presente ateniese, la scuola di Protagora, Gorgia e Prodico. I primi passi verso il nichilismo e il relativismo, che avranno poi tanto successo in Europa nella prima metà del secolo scorso.

Il problema, ieri come oggi, era che sia il sofismo di ieri, denso di concetti nuovi e straordinari, ma difficilmente afferrabile dalle menti comuni, esattamente come il nichilismo e i suoi succedanei del secondo corso, inseriti in epoche in cui il sistema democratico era ed è fortemente legato alla comunicazione, rendevano e rendono facile l’accesso alla banalizzazione, con tutti i suoi derivati di semplificazione che portano ad una sorta di degrado culturale per sottrazione. In grado, e questo lo vedremo nel corso dei nostri incontri, di modificare le percezioni e quindi la cultura maggioritaria.

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Naturalmente adesso, in questo nostro approccio al mondo antico, ne daremo solo alcuni tratti essenziali che servano ad evidenziare alcune consonanze tra queste due epoche, passata e presente. Alcune pennellate “funzionali”, che siano sufficienti a farci un’idea, senza approfondire figure che sono gigantesche, e che ancora oggi vengono sviscerate e discusse, poiché continuano ad incidere sulla nostra cultura occidentale e non abbiamo ancora finito di imparare da loro.

Gli ateniesi

Atene, nel mezzo millennio che precede la nascita di Cristo, è il brodo colturale delle moderne democrazie e dei moderni processi comunicativi. Tra il 460 a.C. e il 322 a.C. vivono i tre filosofi che segnano, in modo indelebile, lo sviluppo del pensiero occidentale: Socrate, Platone e Aristotele, allievi il secondo del primo e il terzo del secondo, vicini nel modo di affrontare lo studio del loro tempo, lontanissimi come personalità. Il periodo in cui vivono affronta una rivoluzione culturale che si potrebbe paragonare, come si è detto, a quella che stiamo vivendo adesso, con la rivoluzione nel campo comunicativo e culturale indotta dalla scoperta dell’elettronica, con il passaggio dai mezzi di comunicazione di massa al mondo virtuale del Web, che trasforma completamente quello che McLuhan definisce il Villaggio Globale, con tutto ciò che ne deriva. L’epoca dei tre filosofi greci viene segnata anch’essa da una rivoluzione culturale: la scrittura, considerata uno degli elementi fondanti del potere e fino a quel momento in mano solo a sacerdoti e scribi, diventa patrimonio di tutti. Viene insegnata nelle scuole e, ampliandosi la capacità di leggere e scrivere, ecco che il manoscritto – che poi diventerà libro - si trasforma in uno strumento alla portata di tutti, e non più strumento del potere di pochi, con conseguenze che influenzeranno tutto lo sviluppo della cultura occidentale.

Socrate

Socrate è il primo e il padre di questa trasformazione. Quando la sua filosofia si sviluppa si trova subito a confrontarsi con i Sofisti, i sapienti di professione, i quali forniscono a pagamento tutto quanto è necessario sapere. Sono i maestri dell’apparenza, convinti che, in mancanza di una verità universale, la quale non esiste e che comunque verrebbe portata via dalla morte, l’uomo debba usare la conoscenza per raggiungere i suoi scopi personali: ottenere ragione, piaceri, ricchezze, fama personale, potere, onori. E tuttavia sono i primi a porsi domande sulla vita e sulla morte, sul significato dell’essere e del non essere, ponendo le basi della dialettica filosofica. Ma di loro parleremo

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più avanti, quando affronteremo il tema dei nuovi media che, in epoca moderna, stanno affrontando un percorso involutivo, che riporta l’essenza e l’etica all’utilitarismo e all’opportunismo, recuperando la parte peggiore e più facile della filosofia presocratica, attraverso una semplificazione che privilegia l’ovvio, il banale, l’egoismo e il pregiudizio. Al contrario dei sofisti, Socrate comincia col dire di sapere una sola cosa: che sa di non sapere. E’ un vero piantagrane per la sua epoca, sicuramente non simpatico, oltretutto bruttissimo in una società in cui la cura del corpo va di pari passo con la cura dell’anima, e in cui l’estetica ha un forte peso sull’impatto sociale. Socrate è l’uomo alla ricerca continua della verità, e per cercarla va a chiedere a coloro che affermano di possederla, come i sofisti. Li ascolta, poi li contesta, usa l’ironia per sottolineare le loro contraddizioni, dimostrando alla fine che non sanno niente. Non solo, mette in discussione le basi della democrazia ateniese, in cui tutti i cittadini possono intervenire nei dibattiti pubblici per consigliare il governo nella gestione della città. Secondo Socrate ognuno deve occuparsi delle cose che sa e non di quelle che non conosce. Se gli artigiani sanno fare tavoli, facciano tavoli, ma non si occupino di governo. In pratica usa la dialettica per dimostrare che dietro l’apparente conoscenza strumentale, che tiene conto, appunto, delle apparenze, esiste un’essenza, che è la cosa più importante per poter capire, e che più si avvicina alla verità. Muore a 70 anni, giustiziato dagli ateniesi che ha fatto arrabbiare, vale a dire dai poteri di cui i sofisti, come gli artigiani, facevano parte. Denunciato pubblicamente, potrebbe cavarsela con una multa, ma possiede solo una moneta d’argento perché non si è mai fatto pagare. Quando gli dicono di scegliere fra l’esilio e la morte sceglie la morte: l’esilio, dice, è una cosa triste. La morte, invece, potrebbe essere un sogno infinito senza sogni, quindi forse preferibile alla vita. Se invece fosse l’inizio di una nuova vita, perché, si chiede, questa dovrebbe essere peggiore di quella che sta vivendo? Polemico e problematico sino in fondo. E sceglie la cicuta. In realtà la scelta della morte, per la coerenza di Socrate, è inevitabile, in quanto lui ha contribuito a costruire le leggi che ora vengono utilizzate per condannarlo e, quindi, non le può né le vuole contestare nel momento in cui ne rimane vittima. Né può accettare le scorciatoie che gli offrono per salvare la vita a meno di rinunciare alla propria coerenza. Offre, con la sua morte, la sua ultima lezione ai suoi contemporanei e a chi verrà dopo.

Platone

Allievo di Socrate, è un aristocratico conservatore ma, nello stesso tempo, rivoluzionario nei concetti. Vive a lungo, fino a 80 anni. Secondo lui, il governo migliore è quello aristocratico, in quanto governo dei migliori, ma resta tuttavia a rischio perché, corrompendosi, diventa un governo oligarchico, cioè governo di pochi, e non necessariamente i migliori. Come

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alternativa vede la democrazia, cioè il governo del popolo. Ma anche questo per Platone a lungo andare si guasta, e i guasti della democrazia si portano dietro la tirannide, vale a dire il totalitarismo. Platone, in fondo, era convinto che la scelta migliore sarebbe stata quella di un re che diventa filosofo o di un filosofo che diventa re. Nel suo testo fondamentale, La Repubblica, rielaborata 13 volte, Platone, attraverso il mito della caverna , ci fa capire la sua visione del mondo in cui vive. Uomini incatenati all’interno di una buia caverna e da sempre e obbligati a guardare dinanzi a sé vedono, sulla parete di fronte, susseguirsi delle ombre di cose, di animali, di altro, proiettate da altri uomini dietro di loro, che hanno acceso un fuoco e, con delle forme di legno, fanno apparire sulla parete della caverna le ombre. Per gli uomini incatenati la realtà è, appunto, questa apparenza. In fondo, se non ci fossero cinema e televisione, un bambino cresciuto in città e mai andato in campagna potrebbe credere che un pollo fosse solo quello che vede sui banchi del supermercato. Poi però Platone prosegue nel suo mito, e tra gli uomini incatenati pone un filosofo, il quale riesce a sciogliere le catene e ad uscire dalla caverna, dove scopre il bagliore del sole. Ma quando rientra nella caverna i suoi occhi sono abbagliati dal sole e non vede più niente. Così va a sbattere da tutte le parti, mentre coloro che non sono usciti e non sono rimasti abbagliati dal sole continuano a muoversi agevolmente, ormai abituati all’ambiente in cui sono nati e cresciuti. Platone, parlando del suo maestro Socrate, racconta dei suoi timori per l’arrivo della scrittura, e lo fa servendosi, come si usava allora, di una commedia, o una favola, il Fedro. Fa dire a Socrate, che parla con Fedro, che la scrittura atrofizza la memoria. E che, in ogni caso, chi legge può mal interpretare e tradire quindi il senso e le intenzioni di chi scrive, quindi è pericolosa. E a Fedro che gli chiede quale sia la vera memoria, risponde che la vera memoria è scritta nell’animo che impara. (McLuhan, lo vedremo fra poco, nel suo saggio sugli Strumenti del comunicare, ed. Il Saggiatore, Milano 1964 e Il medium è il messaggio, Feltrinelli, 1967, quando parla degli strumenti caldi, che sono capaci di intorpidire la mente di chi li usa, fa una differenza con coloro che possiedono gli anticorpi, vale a dire una capacità critica e un patrimonio culturale e di conoscenza consolidato. La mente di costoro, afferma, non si lascia intorpidire, ma è in grado non solo di accorgersi se la ingannano, ma anche di capire dove vogliono andare a parare e, quindi, è capace di prevedere. Non è forse la vera memoria indicata da Platone, quella fornita dalla conoscenza consapevole?). Anche la dialettica di Platone è rivolta alla conoscenza, al sapere, al termine del quale si può incontrare la verità. E anche se per lui la dialettica non porta direttamente alla verità, consente quantomeno di cogliere gli errori nel percorso intrapreso “dialetticamente” per raggiungerla.

Aristotele

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Aristotele fu allievo di Platone e precettore di Alessandro Magno, l’uomo che prima dei 30 anni unificò Oriente e Occidente in un impero all’epoca senza eguali. Intellettualmente è nipote di Socrate e di Platone, ma nello stesso tempo non potrebbe essere più diverso. Inventò la metafisica, che definì scienza delle cause prime, cioè lo studio dell’essenza stessa delle cose, al di là dello studio attraverso gli strumenti della natura, la matematica e i propri cinque sensi, alla ricerca dell’essenza stessa della realtà, o della verità, dallo scopo dell’esistenza del’uomo alla nascita dell’universo all’esistenza di dio. E, tuttavia, fu un pragmatico, perfettamente inserito nel suo mondo, convinto che anche l’apparenza rivelasse una realtà che, facendo parte del mondo in cui l’uomo viveva, meritasse di essere studiata. Quindi, diceva, prima si dà ragione alle apparenze, poi si studia il motivo per cui sono tali. Per Aristotele, che sviluppa il pensiero di Platone, la conoscenza si forma attraverso una serie di passaggi. All’origine c’è la sensazione, nell’accezione di risposta dei sensi che, attraverso il senso comune, porta ad una percezione. A quel punto si mette in moto la fantasia che, a questa percezione, fornisce un’immagine, la quale passa tutto il suo materiale all’intelletto potenziale, che dovrebbe a sua volta fornire stimoli all’intelletto attivo, un passaggio che avviene attraverso l’intuizione, che a sua volta presuppone consapevolezza e libertà di pensiero. Più avanti vedremo come, nell’epoca moderna, la comunicazione si serve proprio dell’analisi di questi passaggi per studiare strumenti che blocchino il passaggio finale, fissando la realtà che si vuole comunicare in una fase intermedia, molto più manipolabile. Aristotele scinde la dialettica dall’analitica. Quest’ultima, per arrivare ai suoi risultati, parte da premesse vere che deve dimostrare con la logica, mentre la dialettica segue la logica dell’apparenza. Né può essere diversamente, visto i passaggi creati per arrivare alla conoscenza, i quali non prescindono dall’uso dei sensi che devono portare ad una percezione. E’ il primo passo per la dialettica moderna che, tuttavia, nella sua accezione corrotta, torna a rivelarsi quella utilizzata dai nemici di Socrate, i Sofisti. Vale a dire la dialettica usata per convincere, cioè vincere con la dialettica, senza alcun riguardo per il giusto e per il vero. Dopo 25 secoli i timori di Platone sui guasti dei sistemi, compreso quello democratico, si dimostrano reali. Gli strumenti non sono molto cambiati, si sono solo evoluti, mentre è decaduto a finalità strumentale l’uso che di questi strumenti viene fatto. Aristotele, a differenza di Socrate, non teme la scrittura, che è lo strumento del comunicare del suo tempo. Vede la mente umana come un grande libro con le pagine bianche su cui, durante la vita, si continua a scrivere. E il senso della parole usate è dato dalla propria lingua, la quale a sua volta è frutto di una convenzione sociale. E l’interesse che ci porta a riempire quelle pagine bianche è dettato dalla percezione delle cose che ci circondano e dal modo in

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cui ci stimolano. Nella nostra realtà e nel nostro tempo. La curiosità di Aristotele per il suo tempo è bulimica: si occupa di etica, poetica, logica, biologia, psicologia, fisica. E quando non riesce a spiegare il suo mondo con queste, usa la metafisica. La filosofia, diceva Aristotele, nasce dalla paura dell’ignoto che, appunto, la filosofia cerca di spiegare. E la paura, alla fine, determina la sua uscita di scena. Alla morte di Alessandro Magno, il conquistatore macedone, visto che gli ateniesi odiano i macedoni, se ne torna al paesello, per evitare che gli ateniesi gli riservino la sorte che avevano scelto per Socrate. Muore a 62 anni.

Proviamo a tirare qualche conclusione sui tre personaggi, almeno dal punto di vista della comunicazione. Socrate è sicuramente un personaggio radicale. Sfida il sistema, sfida i falsi maestri, e ci insegna che le false verità possono sempre essere confutate. Ci insegna ad evitare la superficialità, a non accontentarsi dell’apparenza. E soprattutto, ci insegna la coerenza, fino all’ipotesi estrema, in nome della verità. Senza consentire al sistema di corromperci. Un rivoluzionario ante litteram. Con Platone abbiamo un sognatore conservatore, il quale è convinto che ogni tipo di governo, conservatore o democratico, finisca per subire degenerazioni provocando la nascita di oligarchie o totalitarismi, perché sul fondo della caverna ci sono burattinai che ci mostrano non la realtà, ma un’apparenza di realtà, in cui alla fine siamo costretti a muoverci se non vogliamo andare a sbattere come ciechi. Con Aristotele abbiamo un tuttologo realista, duttile ma non corruttibile, a conoscenza dei meccanismi del potere (per tre anni, ricordiamolo, è stato maestro di Alessandro Magno) che cerca di spiegare ogni cosa e, quando non ce la fa con gli strumenti ordinari, ricorre alla metafisica, cercando comunque di trovare una spiegazione a tutto. E’ il primo che indaga a fondo sulle varie fasi della conoscenza, e che quindi fornisce, non premeditatamente, gli strumenti per interrompere le connessioni automatiche e quindi per manipolarne il processo. Individua il linguaggio come una “convenzione” e determina la nascita di linguaggi differenziati a seconda degli argomenti: la scienza, la medicina, la biologia, la fisica, la chimica, l’etica, il diritto, la politica eccetera. Analizza le apparenze come qualcosa che fa parte della società in cui vive e quindi non le demonizza, ma le studia prima di andare oltre. Con Aristotele, troviamo tutte le basi della comunicazione moderna.

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Sono passati, si diceva, quasi 25 secoli, ma sembra di parlare di protagonisti della vita odierna. Sono i padri nobili della filosofia, ma sono anche i padri nobili della cultura e della comunicazione occidentale così come la conosciamo, ed è difficile trovare un testo di comunicazione in cui non siano citati. Nelle loro opere c’è già la base di tutto. La ricerca della verità, la consapevolezza che non esiste un’unica verità, lo scontro con i poteri forti, il decadimento dei sistemi, la manipolazione della realtà, il compromesso con la società all’interno della quale si vive, i conti con le emozioni, i rapporti con il potere. E, soprattutto, i mutamenti che portano le tecnologie. Per loro, la scrittura.

Un mondo tecnologico

Partiremo proprio da qui, dalle tecnologie. Se il Socrate raccontato da Platone si era accorto subito, anche se con timore, di quello che si sarebbe modificato, a livello culturale, nei rapporti tra il popolo e il potere, concedendo a tutti la conoscenza della scrittura , nel mondo contemporaneo si è dovuta aspettare la metà degli anni 60 e l’avvento a livello di massa della televisione per capire il tipo di rivoluzione culturale che determina l’affacciarsi di un nuovo media. Il merito di averlo capito, e spiegato, va ad un professore canadese, Marshall McLuhan, il quale fece una scoperta che trasformò in un vero e proprio slogan: il mezzo è il messaggio. Scoprì, in pratica, che il cervello aveva reazioni diverse a fronte dei mezzi diversi con cui la comunicazione, e con essa l’informazione, raggiungevano l’utente. Non si trattava più solo della qualità o della quantità, come si era creduto sino ad allora, ma proprio del mezzo: libro, giornale, telegrafo, telefono, radio, televisione e, successivamente – ma se ne sono occupati soprattutto i suoi allievi - il web, la rete. In più, la presenza di radio e televisione, che hanno un ascolto e una visione collettiva e di massa, a differenza di libro e giornale, che vengono letti singolarmente, o del telefono, attraverso il quale la comunicazione passa da una persona ad un’altra persona, comporta un impatto culturale tale da poter modificare il modo di pensare di un’intera società. Come Anassagora, 25 secoli prima, aveva scoperto che il possesso della mano aveva permesso l’Homo faber, McLuhan è il primo a intuire che il mezzo tecnologico avrebbe trasformato l’uomo accelerando, in maniera esponenziale, la sua nuova evoluzione. Ma anche che il mezzo tecnologico non è mai neutrale, e che è necessario studiare a fondo i suoi effetti e, soprattutto, le sue ricadute. Un esempio che fa, per dimostrare come la tecnologia porti con sé profonde modifiche culturali, è quello della scoperta della ruota. La ruota, per non affondare nel terreno, comporta la necessità di

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strade ben battute se non pavimentare. Il passo successivo, su strada, è l’aumento della velocità per raggiungere un luogo diverso. Nascono gli strumenti per attaccare un cavallo ad un carro e quindi guidarne la corsa. E via di questo passo. La tecnologia, afferma, è come un sasso un uno stagno, che provoca un cerchio, che provoca un altro cerchio, che provoca un altro cerchio, a seconda del peso del sasso e della tecnica con cui viene lanciato. Per la comunicazione non è molto diverso. Se l’orecchio ascolta telefono e radio, l’occhio guarda televisione e cinema. E’ lo stesso occhio che legge libro e giornale o fumetto. Ma, a questo punto, entrano in campo altri elementi: la completezza e la definizione. Il libro usa parole, ma è l’immaginazione di chi legge a dare un volto e una voce ai personaggio, a dare i colori ai panorami, a volte a dover creare dal nulla i panorami e gli ambienti stessi. La radio, oltre alle voci, offre anche i rumori, ma ancora una volta l’ascoltatore deve far ricorso all’immaginazione per ricreare una scena completa di quello che ascolta. Cinema e televisione non lasciano più molto spazio all’immaginazione. Contengono voci, rumori, ambienti, panorami, profondità di campo, prospettive, personaggi, azione e, in un secondo tempo, anche colori. Se all’inizio il numero dei pixel che l’occhio coglie (l’insieme di puntini che forma l’immagine) sono insufficienti, e quindi il cervello deve elaborare e aggiungere ciò che manca, man mano che si va avanti e i pixel e quindi la definizione dell’immagine aumentano, il nostro cervello non ha più bisogno di sforzarsi. Ora, con l’arrivo del digitale, possiamo goderci un filmato con il cervello completamente a riposo. In pratica, un inizio di atrofizzazione. A meno che non si possiedano già, dice McLuhan, quegli anticorpi culturali – capacità di analisi e di giudizio critico, cultura di tipo avanzato eccetera – che ci consentono, appunto, capacità critiche autonome e non dipendenti dal mezzo. Come si ottengono? Con l’educazione. Fin da piccoli. McLuhan definisce gli strumenti che stimolano il cervello “freddi”, e quelli che lo rendono intorpidito “caldi”. Naturalmente, tutti gli strumenti tecnologici, proprio in quanto prodotto di una tecnica, sono in perenne evoluzione e quindi, anche al di là degli anticorpi che l’uomo può o meno possedere, le definizioni di caldo e freddo sono modificabili alla stregua delle modifiche dello strumento stesso. Se il telefono venti anni fa poteva essere considerato uno strumento freddo, oggi il telefonino, lo smartphone al quale si possono dare ordini vocali, che legge localmente i messaggi, attraverso il quale si può comunicare in rete e coi social network, che può essere usato per vedere i film e la televisione, ascoltare musica, parlare con vari amici in multi conferenza, ha una definizione molto più elastica a seconda dell’uso che se ne fa. Ora, con lo sviluppo dei nuovi studi sul cervello, sulla biologia, sulla fisica, con nuove specializzazioni offerte da una tecnologia sempre più avanzata che hanno ampliato le ricerche in biologia, in genetica, in neuroscienze, in psicologia, in informatica e in intelligenza artificiale, le scoperte di McLuhann

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appaiono addirittura obsolete e comunque scontate. E tuttavia, senza le straordinarie intuizioni e il lavoro di lui e di coloro che lo hanno seguito su questa strada, probabilmente staremo ancora affannando per poter capire. Il suo concetto di “caldo” e “freddo”, legati alla emozioni e alla razionalità, erano conosciute si può dire da sempre. La raffigurazione di Dionisio e Apollo, che rappresentano il primo le emozioni incontrollabili e il secondo la mente razionale, provengono dalla Grecia arcaica. Nel mito di Arianna e del Minotauro, il Minotauro rappresenta le passioni, le emozioni, gli impulsi irrefrenabili. Il Minotauro vive in fondo ai sotterranei della reggia di re Minosse, il Labirinto, che rappresenta il cervello umano. Teseo deve raggiungerlo e ucciderlo, ma ha bisogno del filo di Arianna per poi tornare, attraverso un cervello altrimenti inestricabile, alla luce della ragione. I termini “testa calda” per indicare chi si fa dominare dalle emozioni, agisce senza pensare, fa parte dell’antica cultura popolare. Così come le frasi “pensare con la testa, non con la pancia”, “pensare con freddezza”, “fredda razionalità”, hanno sempre indicato una persona che non si fa dominare dalle emozioni o dalle paure irragionevoli. Certo, ora noi non uccidiamo le emozioni per ragionare, come fece Teseo col Minotauro, ma bisogna pensare che allora la narrazione, per sostenersi, aveva bisogno di essere gestita un po’ sopra le righe. Ma è proprio vero che oggi non accade qualcosa di simile? Recentemente una rivista a tiratura mondiale ha svolto una sorta di sondaggio tra i lettori, attraversando quindi territori, costumi, lingue e culture, chiedendo come avrebbero definito e quindi chi avrebbero scelto come capufficio tra due uomini dalle seguenti caratteristiche (cito a memoria): uno freddo, con grandi capacità organizzative, legato al lavoro e alla famiglia, disponibile a spostarsi di città, disponibile a lavorare oltre l’orario di ufficio; l’altro con le ultime tre caratteristiche identiche, ma con le prime due diverse: emotivo e un po’ arruffone. Il primo fu bocciato, il secondo promosso. I lettori avevano definito il primo “sicuramente ambizioso, ma arrogante e carrierista, quindi che avrebbe pensato più a sé che a loro, mentre il secondo era stato giudicato affidabile, simpatico e “caldo”. Come si vede, il Minotauro è ancora profondamente radicato in noi.

Quello che ci interessa comunque è che i concetti esistevano ed erano conosciuti, e che McLuhan ha avuto la capacità di contestualizzarli, applicandoli scientificamente al suo presente, che era un presente tecnologico. Talmente bene da poter indicare le linee su cui ancora, ad anni di distanza dalla sua morte, continuiamo a muoverci. Il suo libro è degli anni 60. Quasi vent’anni prima che Internet e la Rete emettessero i primi vagiti. E tuttavia, è proprio grazie al suo concetto di Caldo e Freddo, a cui si sono aggiunti nuovi studi in campo neurologico, che abbiamo i supercomputer che ci consentono non solo di effettuare calcoli il cui frutto è la conoscenza dell’universo come mai lo abbiamo conosciuto, ma anche il mondo delle

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nanotecnologie, che stanno trasformando la medicina, e delle minitecnologie (pensiamo agli smartphone e ai tablet) che stanno cambiando, assieme ai nostri costumi, la nostra cultura e la nostra realtà. Come? Trasformando la trasmissione di dati e informazioni da lineare e sequenziale (una informazione dietro l’altra, una per una in fila come formiche) in trasmissione a pacchetti. Si è scoperto, in pratica, che il cervello umano ha la straordinaria capacità di elaborare masse di informazioni trasferendole a gruppi grazie ad un unico trucco: raffreddando i canali di scorrimento. Per semplificare, diremo che i neuroni sono collegati ad altri neuroni attraverso le cui scaturisce consentono tra l’altro la circolazione delle idee. Più è ricca questa ramificazione, più sono ricche le nostre idee. Ora, visto che il nostro cervello possiede 136 mila miliardi di sinapsi, ed è in grado di elaborare contemporaneamente, sotto forma di impulsi elettromagnetici, un numero incredibile di informazioni (dai 10 milioni ai 100mila miliardi al secondo), se dovessero transitare una alla volta il flusso sarebbe sicuramente rallentato. Inoltre, il surriscaldamento provocato dal continuo flusso elettromagnetico di queste informazioni potrebbe provocarci al minimo un febbrone, bloccando la capacità del cervello stesso di elaborare. Come molti hanno avuto sicuramente occasione di sperimentare, la febbre ci impedisce di connettere bene. Il febbrone a 40 ci impedisce addirittura di connettere. Il caldo è un nemico temibile di ogni capacità di tipo razionale. Cosa fanno allora i dendrìti? Provvedono a raffreddarsi chimicamente, in modo non solo di mantenere la velocità di trasmissione senza surriscaldare i condotti, ma addirittura riescono a trasmettere le informazioni a pacchetti coordinati, aumentando la capacitò di elaborazione del cervello. Sempre per semplificare, ma per lasciare intatto il meccanismo e i suoi risultati, diremo che i costruttori di computer, copiando il processo cerebrale sulla base dei principi di caldo-freddo di McLuhann, hanno trovato il modo di raffreddare i cavi attraverso cui le informazioni vengono trasmesse sotto forma di bit. Il risultato è stato la nascita del qbit, il bit quantistico, in grado di trasmettere pacchetti interi di informazioni, esattamente come fa il cervello. Non solo: il meccanismo di semplificazione che il cervello opera su questi pacchetti di informazioni, concentrandone i significati in concetti ridotti a stereotipi, è stato copiato dagli ingegneri e dai matematici informatici i quali hanno creato un sistema di concentrazioni di qbit seguendo la stessa filosofia di trasformazione semplificata del cervello. Una applicazione che ha come vantaggio di potersi applicare anche al calcolo matematico, cosa che attualmente il cervello umano non è ancora in grado di fare.

Vedremo più avanti che cosa hanno comportato e continuano a comportare gli inevitabili errori che affiancano questo tipo di processo, sia informatico che mentale, e contro i quali nessuno, ancora, ha trovato una cura. Tenendo conto che una percentuale di errori ritenuta accettabile dal sistema

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informatico può provocare, nel cervello umano, in grado di apprendere, di elaborare, di contenstualizzare e di evolvere, cataclismi inimmaginabili. Il nostro obiettivo, per adesso, è sottolineare l’importanza di McLuhann nella scoperta della struttura base che ha poi consentito tutta l’evoluzione attuale.

La psicologia, le pulsioni e la manipolazione delle folle

Dobbiamo considerare che le scoperte dello studioso canadese nascono tardive confronto a quelle del potere, all’inizio soprattutto del potere economico, che fin dalla metà dell’ottocento con la nascita delle prime società industriali, ha avuto bisogno di espandere il proprio mercato e quindi di convincere gli utenti ad acquistare i propri prodotti. La cosa si complica ancora di più con la nascita delle prime democrazie, che cambiano radicalmente il rapporto tra potere politico e popolazione. L’autorità e costretta a cedere il passo al consenso, e questo significa usare i mezzi di comunicazione per convincere, così come hanno fatto gli imprenditori, l’utente a “comprare” il prodotto politico. Già prima della metà dell’800 un filosofo francese, August Comte, aveva studiato la società urbanizzata come organismo collettivo. In Austria, lo psicologo Sigmund Freud aveva scoperto le pulsioni nascoste che muovevano le emozioni umane e inviavano stimoli al cervello. Alla fine dell’800 un giurista e sociologo italiano, Scipio Sighele, (La folla delinquente (1891), La delinquenza settaria, 1897; L'intelligenza della folla, 1903), che guarda quindi alla folla con timore e da un punto di vista quasi esclusivamente criminale, un medico psicopatologo francese, Gustave Le Bon, e un sociologo e criminologo, anch’egli francese, Gabriel Tarde, considerato il fondatore della psicologia sociale, cominciano ad occuparsi della psicologia delle folle. E’ proprio con questo titolo, La psicologia delle folle, (può essere scaricato gratuitamente alla Url http://www.codice-3.org/PDF/psicologia_folle.pdf ), che nel 1895 esce, in Francia, presto tradotto in altre lingue, un saggio di Gustav Le Bon, che sarà la base di una serie di studi il cui fine è quello di spiegare come, appunto, sia possibile manipolare le folle senza che queste se ne rendano conto. Le Bon e le sue analisi costituiscono una sorta di bomba a orologeria che attraversa la storia. E che oggi. A distanza di un oltre un secolo, sconvolto da terremoti che lo psicopatologo francese aveva previsto, il suo testo rimante di una attualità inquietante. Per una anticipazione, lascialo la parola a lui:

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“Per comprendere le idee, le credenze che oggi germinano nelle folle, per fiorire domani, bisogna sapere come è stato preparato il terreno. L’insegnamento dato alla gioventù d’un paese permette di prevedere un po’ il destino di quel paese. L’educazione della generazione d’oggi giustifica le più tristi previsioni. L’anima delle folle, in parte, si migliora o si altera con l’istruzione. E’ dunque necessario far vedere come l’ha forgiata l’imbonitore di turno e come la massa degli indifferenti e dei neutrali è diventata progressivamente un immenso esercito di malcontenti, pericolosamente pronto a seguire tutte le suggestioni degli utopisti e dei retori. La scuola, oggi, forma dei malcontenti e degli anarchico e prepara, per i popoli latini, dei periodi di decadenza”.

Suggestivo, no? Per ampliare il quadro, che svilupperemo nei prossimi incontri parlando di comunicazione di massa, diamo un assaggio dell’inizio di questo libro:

….. ”I veri sconvolgimenti storici non sono quelli che ci stupiscono con la loro grandiosità e violenza. Gli unici mutamenti importanti, quelli da cui scaturiscono rinnovamenti di civiltà, si operano nelle opinioni, nelle concezioni e credenze. Gli avvenimenti memorabili sono gli effetti visibili degli invisibili cambiamenti dei sentimenti degli uomini”.

(Nota. Scaricandolo da Internet, possiamo poi trovare il punto esatto delle frasi usando la lente di ricerca).

Le cornici tecnologiche del cervello

Mentre l’Europa scopriva Le Bon e cominciava a valutare le implicazioni della sua ricerca, la pragmatica società americana tirava fuori dal magico cappello dello zio Sam un uovo che avrebbe stravolto la macchina dell’informazione. In un mondo in cui i giornali e i giornalisti, guardiani dell’etica sociale e della trasparenza, costituivano il Quarto Potere, nasceva una sorta di organismo contaminato che avrebbe cambiato la qualità genetica delle società mondiali: veniva creata la comunicazione aziendale, un motore che avrebbe dato una enorme spinta alla macchina capitalistica, liberista, e produttiva, trasformando definitivamente il mondo dell’economia e del lavoro. L’iniziativa parte dalle delle grandi famiglie imprenditrici, i cosiddetti padroni delle ferriere che, fino a quel momento, avevano dettato loro le regole. Che erano abbastanza semplici: a parte la loro volontà, nessuna regola. Ma la crescita degli stati uniti, la necessità di consolidare ed espandere la loro

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economia, aveva costretto i grandi imprenditori a chiedere l’appoggio del denaro pubblico. Questo significava finanziamenti statali e federali, e cioè danaro pubblico, quindi sacro al popolo americano, in quanto, essendo di provenienza fiscale, apparteneva alla gente. Questo metteva le grandi famiglie in una posizione per loro nuova: accettando i finanziamenti statali, si trovano improvvisamente a dover accettare anche il controllo dello Stato, e di conseguenza dei media, e quindi nella necessità di ingraziarsi questi ultimi o, comunque, di riuscire a incidere sull’informazione. In pratica, creando la comunicazione d’azienda, potevano assumere giornalisti che venivano così trasferiti al servizio dei padroni per manipolare altri giornalisti e, attraverso questi ultimi, il pubblico, visto soprattutto come “consumatore” dei beni prodotti dai padroni. Sono gli anni previsti da Le Bon per la trasformazione del mondo. Solo che questa trasformazione non proviene dai sentimenti dagli uomini ma, come spiega poi nel seguito del suo libro, che viene studiato dai grandi comunicatori e pubblicitari americani, dalla capacità del potere di manipolare le folle, spingendone nella direzione, anche culturale, che chi detiene il potere – in quel momento i grandi poteri economici statunitensi – indica ai propri comunicatori d’azienda. Sono gli anni in cui cambia l’economia, cambia il lavoro, e il “sogno americano”, quello in cui l’ascensore sociale che consente di accedere ai piani alti a chi ne abbia le capacità, da qualsiasi sottoscala possa essere uscito, pare avverarsi. Ma ci sono prezzi da pagare. Se il lavoro, come tutto il resto, appartiene al Mercato, che è l’unico detentore del potere commerciale, anche l’uomo, il cui unico bene è il lavoro, appartiene al mercato, e di questo segue le regole. In pratica, come tutto, l’uomo diventa merce in vendita. Nello stesso tempo l’uomo-lavoratore-consumatore si trasforma, nello stesso tempo, in schiavo e garante di questa schiavitù. Che gli migliora la vita, ma che può trovare la dignità solo nel lavoro e in questa sorta di circuito chiuso. Sono gli anni del Taylorismo, dell’organizzazione scientifica del lavoro così ben rappresentata nello straordinario film “Tempi moderni” di Charlot, in cui le parole d’ordine nei confronti del lavoratore da parte di chi dirige sono del seguente tipo: “Tu sei pagato per lavorare, non per pensare”, “Fai quello che ti ho detto di fare perché te lo ordino io. Non hai bisogno di sapere il motivo”. Nel momento in cui si paga il lavoro, in pratica, si compra anche l’uomo che lavora. Il quale non può più gestirsi partendo dai suoi bisogni, ma viene gestito da coloro che hanno potere sul suo lavoro. Questo è un privilegio cui potrà accedere solo se riuscirà a salire nell’ascensore sociale. Fino a che punto potrà arrivare per entrare in questa scatola in salita?

Niente paura. Come vedremo, sarà questo mutamento genetico di comunicatori che gliene fornirà gli strumenti, studiando tutta una serie di tecnologie del linguaggio e della comunicazione che apriranno la strada ad una sorta di manipolazione “indolore”, mentre altre generazioni di

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comunicatori, come ad esempio McLuhann, cercheranno di svelare alla gente come funziona il trucco, in modo da crescere generazioni maggiormente avvertite. Ma sarà sempre una minoranza di fronte alla massa. Noi, in questi nostri incontro, ci occuperemo prevalentemente di questa minoranza, cercando di fornire alcuni strumenti minimi di difesa che, se non possono modificare la realtà, possano almeno accrescere la consapevolezza. Come? Indicando i virus, e le tecniche per contrastarli. Che ognuno poi saprà adattare alle proprie caratteristiche, in modo da creare in sé gli antivitus necessari

Intorno al 1970 si sviluppa, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, lo studio del “framing”, un processo di influenza selettiva sulla percezione del significato che un individuo attribuisce ad una parola o ad una frase, o al contesto in cui queste vengono situate. Consiste in una operazione, nell’uso delle parole, in cui il senso delle parole stesse non indica solo la qualità delle cose di cui si sta parlando, ma orienta la percezione in una direzione diversa e voluta. Se io in ufficio dico ai colleghi di stare attenti, oggi, all’umore del direttore, metto in evidenza qualcosa di interesse generale e invito i colleghi alla prudenza e ad evitare eventuali gaffes. Ma se io dico: attenti, oggi il direttore è sobrio, faccio una operazione di framing, usando una frase apparentemente innocua che però da ai miei colleghi la percezione che abitualmente il direttore sia ubriaco. Letteralmente, il termine “framing” viene tradotto in italiano come “corniciatura”. Vale a dire separare gli elementi e trovare a ciascuno una cornice che possa essere utilizzata a nostro vantaggio. Ora, se torniamo alle teorie di McLuhan , vediamo che la definizione che il suo allievo più famoso, Derrik De Kerkhove, dà dell’influenza della tecnica sulla mente umana è, appunto, appunto, “Brainframes”, letteralmente “cornici del cervello”. Le diverse tecnologie incorniciano il nostro cervello, al quale forniscono una struttura che filtra la visione della realtà che ci circonda, sfidandoci ad elaborare un modello diverso di interpretazione, che l’uomo ne sia cosciente o meno. Cambiando i mezzi di comunicazione, spiega de Kerkhove, si modificano anche i modelli di pensiero e l’approccio alla conoscenza che è alla base. Il brainframe alfabetico (libri, giornali), sarà quindi differente da quello televisivo, che a sua volta trova in quello elettronico (il computer) tratti innovativi. Considerando che le tecnologie non sono mai additive (non si può fare libro + Tv = computer) il brainframe in questo caso è completamente diverso. La Tv è un mezzo di comunicazione di massa di fronte al quale il telespettatore è passivo. L’unica interattività concessa è spegnere o cambiare canale. (E la Tv, negli ultimi 30 anni, ma sicuramente ancora oggi, è stato un veicolo fondamentale per la diffusione delle culture. Elisabeth Noelle- Neuman, una sociologa tedesca scomparsa nel 2010, in un saggio significativo dal titolo “La spirale del silenzio”, ha spiegato gli effetti che la

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Tv ha sul singolo il quale, in disaccordo con la maggioranza, per timore di rimanere isolato, preferisce il silenzio. Il passo successivo è culturale: l’incapacità nel pubblico di selezionare e comprendere i processi di percezione e di influenza dei media. La tappa finale è la scelta del conformismo, naturalmente all’opinione dominante, per non subire il senso di isolamento). Il computer invece, pur essendo un mezzo di comunicazione individuale, è connesso ad altri milioni di individui, e chi se ne serve è profondamente attivo. Gli studi di De Kerkhove, che amplia i concetti base di McLuhan, approfondiscono il concetto di tecnologia come estensione della mente umana, e fanno capire alche i meccanismi della manipolazione che, potenzialmente, i contenuti dello strumento che usiamo, o che viene usato nei nostri confronti, possano effettuare su di noi.

L’epoca limbica

Ma parleremo più avanti della manipolazione del linguaggio nella comunicazione. Quello che ci preme sottolineare adesso è come, attraverso gli strumenti “caldi”, la comunicazione faccia leva non tanto sulla corteccia cerebrale, sollecitando quindi la riflessione e mettendo in moto neuroni e sinapsi, ma colpisca unicamente a livello limbico, quindi la sfera delle emozioni. Due anni fa, nel corso di una intervista televisiva per i suoi cento anni, la scienziata premio nobel e senatrice a vita Rita Levi Montalcini, alla domanda di come definirebbe l’epoca attuale, rispose con una sola parola: “Limbica”. Si ragiona con la pancia, che mette in moto l’amigdala, la ghiandola delle emozioni, e soprattutto delle paure, più che con la corteccia cerebrale, che elabora e gestisce i dati che ci comunica il nostro cervello. Basti pensare alla crisi economica che stiamo vivendo a livello mondiale. Che cos’è che fa scattare la speculazione sui mercati, i crolli finanziari, le vendite irragionevoli di azioni, con tutte le conseguenze che tutto ciò comporta, se non la paura?

E proprio le emozioni tendono a governare la nostra epoca. McLuhan divide la storia umana in tre ere. La prima è l’Era Tribale. E’ l’era dell’orecchio, dominata dalla parola, che suscita emozioni. L’uomo tribale dà alla parola un potere magico ed è fortemente coinvolto nella vita della società a cui appartiene. L’essenza dell’uomo e la sua apparenza si intrecciano e si confondono nella narrazione della sua vita. E’ l’epoca della narrazione eroica dell’essere umano, la cui immagine viene costruita dalle sue gesta (ciò che

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appare agli altri) che a loro volta sono guidate dai suoi valori: l’amicizia, la lealtà, il valore (che compongono la sua essenza). La seconda è l’Era meccanica. E’ l’era dell’occhio, caratterizzata dall’invenzione dei caratteri a stampa e da uno spirito scientifico e analitico che porta alle grandi scoperte. L’uomo meccanico non partecipa all’intero processo sociale, ma solo ad un passaggio di questo. Le tecnologie specialistiche dell’era meccanica lo hanno de-tribalizzato e quindi isolato. La terza è l’Era Elettrica, quella che stiamo vivendo. E’ l’era del tatto, caratterizzata da un ritorno alle dinamiche tribali pur se su scala planetaria. Come l’uomo tribale, l’uomo elettrico è fortemente coinvolto nella vita della società cui appartiene. Solo che questa è una società prevalentemente virtuale (facebook, twytter, i vari social network, blog eccetera) e si sviluppa nel Villaggio Globale. Vale a dire che è una società potenzialmente senza limiti nello spazio, e nello stesso tempo limitata agli “amici” che si riconoscono nelle esperienze e nelle tendenze. Ci siamo ri-tribaizzati, e anche per questo siamo tornati ad essere fortemente soggetti alle emozioni, imparando ad utilizzarle in sostituzione dello spirito critico. Tra il vecchio villaggio tribale e quello di oggi c’è una differenza sostanziale: oggi, alla fine dell’era elettrica che sfocia in quella virtuale, viene privilegiata l’apparenza che, in mancanza della “presenza”, si presta a ogni tipo di auto manipolazione. Meglio ancora se questa manipolazione viene effettuata da esperti della comunicazione il cui compito, in pratica, è quello di rendere accettabile l’individuo agli altri individui. Ci siamo trasformati in una società dell’immagine. Il concetto non è molti distante dall’epoca eroica narrata da Omero. I molteplici talenti di Ulisse non sfigurerebbero certo ai tavoli del Consiglio di amministrazione di una moderna multinazionale. E senza la narrazione del personaggio fatta da Omero, Ulisse non esisterebbe. Anche oggi i personaggi nascono dalla narrazione che se ne fa o che loro stessi ne fanno (ad es. su Facebook o Twitter) . La differenza è che Omero, attraverso la narrazione dei suoi personaggi, pur manipolando la realtà, cercava di trasmettere valori a chi ascoltava le sue storie. Gli spin doctor odierni creano immagini attraverso un processo inverso: partendo dagli studi freudiani sulle pulsioni umane, analizzano il destinatario cui l’immagine deve arrivare per trovare consenso, e la costruiscono in modo da far accettare il cliente. Se in Omero, accanto all’apparenza, c’era la sostanza, quello che rimane nel tribalismo odierno è solo l’apparenza, che è l’unico non-valore preso in considerazione.

Le scorciatoie di Internet e le architetture politiche

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Si è accennato, nella passata lezione, alla manipolazione di quella complessa macchina che è la comunicazione, nella quale convergono molti elementi, che vanno dalla filosofia alla tecnica, dalla psicologia alla chimica del nostro cervello, confrontandosi con una realtà, quella del Villaggio Globale, che supera culture, religioni, differenze sociali o ideologiche. Cerchiamo di approfondire partendo dalla nostra realtà occidentale, in modo da appropriarci degli strumenti base che ci consentano, oltre che di capire meglio la realtà in cui viviamo adesso, di affrontare, in un domani assai prossimo, una realtà che potrebbe essere molto diversa. E assai più complessa. Che comunque accentua un aspetto già presente in ogni novità portata dal progresso: il distacco fra le generazioni. Già adesso Internet, le realtà virtuali, la logica diversa della Rete, che privilegia l’algoritmo Problema – Soluzione, rendendo superfluo tutto ciò che sta in mezzo, hanno scavato un baratro tra giovani e anziani. Non a caso questi ultimi, in massima parte, pur con eccezioni, incapaci di affrontare le nuove tecnologie e di tenersi ad un passo sempre più veloce e complesso, sono passati dal ruolo di “saggio consigliere” come portatore di esperienze a un ruolo di “inutile e rottamabile” per un fine di utilizzazione. Se le fondamenta sono state gettate dai filosofi dell’antica Grecia, l’architettura delle democrazie occidentali moderne, i cui principi sono introdotti dal liberismo inglese, è stata disegnata dalla rivoluzione francese. E poiché il sistema democratico è basato sul consenso, che determina le rappresentanze popolari, appare chiaro che la comunicazione, e quindi i mezzi di comunicazione e il modo in cui vengono usati, costituiscono i mattoni con cui questo sistema, estremamente delicato – basti vedere le dittature che hanno attraversato questi ultimi due secoli, non solo in Europa, ma nel mondo - appaiono a volte solidi come il cemento, a volte, come in questo particolare momento, fragili come l’argilla. Le regole della moderna democrazia, pur con varie interpretazioni, tra cui quella populista di Toqueville, si basano soprattutto sul lavoro del borghese Benjamin Constant e su due principi fondamentali: libertà dell’individuo, libertà del commercio. Sono le stesse che hanno portato oggi il Villaggio Globale a stabilire che, più che la politica, è il libero mercato a determinare le scelte dei meccanismi democratici e, di riflesso, della comunicazione. E a determinare l’importanza di tutti gli strumenti di comunicazione, che vanno dai media, alla pubblicità, alla comunicazione aziendale, agli uffici stampa. Fino agli spin doctor, quei professionisti della comunicazione, cioè, che sono in grado di incidere sull’immagine di chiunque abbia bisogno di consenso per il proprio lavoro, sia esso una star del cinema o della musica, o un dirigente di multinazionale, o uno scrittore, o un politico, o un amministratore pubblico, o un industriale, o un finanziere. Tutto questo bombardamento comunicativo è diretto al cittadino elettore il quale, in una economia di mercato, è anche utente e consumatore. Questo fa sì che gli interessi politici e quelli

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commerciali abbiano finito per coincidere, quantomeno nello strumento comunicativo procuratore di consenso. A livello di comunicazione, oggi, si vende una saponetta, un profumo, un investimento finanziario, uno spettacolo, un film, un successo letterario, una destinazione turistica, esattamente come si vende un’idea, una candidatura politica, l’immagine di un amministratore delegato o di un presidente di banca. E non diversamente vale per una legge o per una modifica costituzionale. Anche se questo significa una contaminazione delle deontologie che dovrebbero regolare il comportamento dei media. Perché l’obiettivo finale della comunicazione, quando subisce questo tipo di contaminazione, non è informare, ma convincere. Cioè “vincere con”. Il tutto, però, facendo salvo l’altro principio base del sistema democratico, vale a dire la libertà della persona che, nei regimi totalitari, non rappresenta un problema, in quanto è il primo principio che viene soppresso.

L’importante è la vittoria funzionale 38 stratagemmi per avere ragione

Ecco che la manipolazione del linguaggio, o anche semplicemente quello che viene definito “uso con intelligenza”, e che è funzionale al commercio, dove l’oggetto in vendita ha l’obbligo di apparire il più appetibile sul mercato, sia questo vero o meno, diventa funzionale ad ogni livello. Ecco che la manipolazione si trasforma essa stessa in tecnica. Che può essere studiata per utilizzarla, appunto, a proprio vantaggio, o analizzata per affrontarne le aggressioni con consapevolezza e, se non ci convince, contrastarla. Naturalmente questo tipo di tecnica è sempre esistito, ma con il tempo e l’esperienza si è sempre più affinato. Un filosofo tedesco vissuto a cavallo tra il ‘700 e l’800, Arthur Schopenhauer, grande amico di Goethe, che ha lavorato molto sulla dialettica, ha scritto un libro il cui titolo, nella traduzione italiana, è “L’arte di ottenere ragione”, pubblicato dopo la sua morte assieme a molti altri che riguardavano i modi di vivere, dall’Arte di insultare, all’Arte di trattare le donna, all’Arte di invecchiare, all’Arte di farsi rispettare, al’Arte di conoscere se stessi all’Arte di essere felici eccetera. Nel’Arte di ottenere ragione spiega come si possano usare ben 38 stratagemmi dialettici per ottenere ragione, quando si è convinti di averla, e altrettante contromosse per averla anche quando non la si ha. Chi osserva Talk Show e dibattiti in televisione o li ascolta alla radio oggi, a distanza di un secolo e mezzo, ne riconoscerà moltissimi.

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I casi da dibattere, sostiene Schopenhauer, possono essere due: uno che riguarda uno scontro dialettico su una verità oggettiva, sulla quale si può essere d’accordo o in disaccordo. L’altro caso riguarda una verità soggettiva, e noi siamo chiamati a contraddire questa verità soggettiva enunciata da un altro. I metodi possono essere confutazione diretta o confutazione indiretta. Nel primo caso la confutazione può riguardare i fondamenti o può riguardare le conseguenze, nel secondo caso la confutazione dell’altrui tesi si basa su una conseguenza falsa, oppure per dimostrazione di casi contrari. Ed ecco i 38 stratagemmi proposti:

1) Ampliamento: fornire una interpretazione della tesi dell’avversario generalizzando il più possibile mentre si presenta la propria tesi analizzandola nei termini più sintetici e riduttivi possibili..

2) Omonimia: far finta di fraintendere, trasferendo la tesi presentata dall’avversario ad un argomento che, pur avendo lo stesso nome, è tutta un’altra cosa.

3) Generalizzazione: trattare l'affermazione dell'avversario, che ha un valore relativo, come se avesse un valore assoluto. Quindi universalizzare il partito colare, rendendolo generico.

4) Occultamento: presentare le premesse alla propria conclusione una alla volta, in modo che l'avversario le ammetta senza accorgersene.

5) False proposizioni: usare tesi false ma vere sulla base di una verità soggettiva sfruttando i preconcetti e i pregiudizi dell'avversario.

6) Dissimulazione di petitio principii: postulare ciò che si dovrebbe dimostrare. Un esempio viene dato dalla lotta al terrorismo: basta definire un avversario terrorista perché venga giustificato il fatto che con lui non vi può essere trattativa per arrivare ad una pace.

7) Metodo socratico o erotematico: traformare il dibattito in una serie di domande all’avversario, mirate a ricavare la verità della propria affermazione dalle ammissioni dell'avversario stesso.

8) Provocazione: suscitare l'ira dell'avversario per confonderlo. I modi possono essere molti, dal sarcasmo all’insinuazione, a continue interruzioni, a strumentalizzazione continua delle sue parole.

9) Confusione: porre all'avversario domande in un ordine diverso da quello nel quale se le sarebbe aspettate.

10)Ritorsione delle negazioni dell'avversario: se l'avversario intenzionalmente risponde in modo negativo a tutte le domande, chiedere il contrario della tesi di cui ci si vuole servire.

11)Generalizzazione dell'inferenza: se l'avversario accetta la verità di fatti particolari dare per scontato che abbia accettato anche l'universale relativo.

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12)Metaforizzare: scegliere sempre metafore e similitudini favorevoli alla propria affermazione, introducendo nella definizione ciò che si vuole provare in seguito.

13)Presentare l' opposto della propria tesi: presentare l'opposto della propria tesi in modo denigratorio, per far sì che l'avversario sia costretto a rifiutarlo.

14)Dichiarare la vittoria: dopo che l'avversario ha risposto a molte domande senza peraltro giungere alla conclusione desiderata, dichiarare la vittoria anche se è palese che la disputa non è ancora finita.

15)Usare tesi apparentemente assurde: se la propria tesi è paradossale e non la si riesce a dimostrare, proporre all'avversario una tesi giusta ma non evidente; se questo la rifiuta condurlo ad un ragionamento per assurdo, sistema molto usato da Euclide nelle sue dispute matematiche, in modo da lasciarlo senza argomenti. Ad esempio: se ognuno di noi esprime un’opinione, e tutte le opinioni hanno pari dignità, allora la tua affermazione che la mia opinione è sbagliata si può tranquillamente capovolgere e affermare che è la tua opinione ad essere sbagliata.

16)Argomenti soggettivi: cercare contraddizioni nelle affermazioni dell'avversario.

17)Usare sottili distinzioni: se l'avversario incalza con un controprova, occorre trovare una sottile distinzione se la cosa consente un doppio significato.

18)Mutatio controversiae: se c'è il rischio che l'avversario possa avere ragione, spostare l'argomento della disputa su altre questioni. Ad esempio, commentando un’accusa specifica che ci viene fatta, basta spostare l’argomento senza preoccuparsi di spostare l’accusa. Del tipo: “In realtà il problema vero non è questo, e la domanda (o l’accusa) viene fatta per nascondere quest’altro problema che metterebbe in imbarazzo l’accusatore…” e dedicarsi all’altro problema.

19)Generalizzazione: se l'avversario sollecita ad esprimere un'opinione su un particolare, estrapolare l'universale ed opporsi a questo.

20)Trarre conclusioni: se l'avversario ha concesso parte delle premesse, trarre la conclusione anche se le premesse sono incomplete, in modo da trasferire le ammissioni su tutto.

21)Controargomentazione: se l'avversario fa uso di un argomento solo apparente o sofistico, liquidarlo usando un controargomento altrettanto sofistico o apparente.

22)Petitio principii : rigettare le premesse dell'avversario come petitio principii. Se la premessa è sbagliata e il ragionamento si basa sulla

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premessa, anche il ragionamento, pur se riguarda un’altra cosa,è sbagliato.

23)Esagerazione: spingere l'avversario ad esagerare le proprie affermazioni e quindi confutarle.

24)Forzare la consequenzialità: trarre a forza dalle affermazioni dell'avversario, con false deduzioni, tesi che non vi siano contenute. In cui la verità di una tesi si prova dimostrando la falsità delle conseguenze della tesi contraria; quindi la giustificazione della falsità di un'affermazione avviene sottolineando l'assurdità delle conseguenze.

25)Istanza o Exemplum in contrarium: Il ragionamento per assurdo si demolisce presentando un unico caso per cui il principio non è valido.

26)Retorsio argumenti: l'argomento che l'avversario vuole usare a proprio vantaggio viene usato meglio contro di lui.

27)Sfruttare l'ira dell'avversario: se di fronte a un certo argomento l'avversario si adira, insistere su quell'argomento, poiché è facilmente il punto debole del suo ragionamento.

28)Argumentum ad auditores: funziona meglio quando persone colte disputano di fronte ad ascoltatori incolti. Avanzare un'obiezione non valida ma "spettacolare", che richieda, per essere smentita, una lunga e noiosa disquisizione. L’attenzione dello spettatore (oggi) viene catturata dalla spettacolarità dell’affermazione (che non ha bisogno di sostegno di prova) mentre chi confuta, costretto a portare prove, quindi ragionamenti, annoia lo spettatore la cui attenzione cala.

29)Diversione: qualora l'avversario fosse sul punto di vincere la disputa cambiare completamente argomento e proseguire come se fosse pertinente alla questione e costituisse un argomento contro l'avversario.

30)Argumentum ad verecundiam: invece che di motivazioni ci si appelli ad autorità rispettate dall'avversario. Oggi funzionerebbe benissimo: l’ha detti tre mesi fa il presidente della Repubblica. Anche se quella dichiarazione riguarda un argomento diverso da quello in discussione.

31)Dichiarazione di incompetenza: dichiararsi incompetenti per insinuare negli spettatori il dubbio che l'affermazione dell'avversario sia una cosa insensata.

32)Denigrazione: per accantonare, o almeno rendere sospetta, un'affermazione dell'avversario ricondurla ad una categoria odiata dagli spettatori.

33)"Vero in teoria, falso in pratica": ammettere con questo sofisma le ragioni e tuttavia negarne le conseguenze.

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34)Incalzare l'avversario: se l'avversario si dimostra evasivo riguardo ad un argomento, incalzarlo su quell'argomento, poiché facilmente sarà uno dei suoi punti deboli.

35)Argumentum ab utili: anziché agire sull'intelletto con il ragionamento, agire sulla volontà con motivazioni, dimostrando all'avversario che la sua opinione, se vera, non può recargli che danno.

36)Sproloquiare: l'avversario rimarrà sconcertato e sbigottito da sproloqui privi di senso.

37)Spacciare un argomento soggettivo per uno oggettivo: se l'avversario sceglie una cattiva prova a sostegno del suo argomento confutare la prova e passare questa confutazione come una confutazione all'intero argomento.

38)Argumentum ad personam: come ultima risorsa diventare offensivi, oltraggiosi e grossolani.

Naturalmente, a livello comunicativo, i 38 stratagemmi di Schopenhauer si possono usare in due modi opposti. Utilizzandoli per manipolare la verità e ottenere sempre ragione, o servirsene per capire quando altri li usano e quindi per smascherarli. E’ il dilemma che si presenta continuamente dinanzi agli operatori dell’informazione. Almeno a quelli che fanno informazione sui media, perché chi si occupa di comunicazione aziendale o di uffici stampa, ma spesso anche chi frequenta il gossip, avendo come interesse primario la difesa dell’azienda o la spettacolarizzazione della notizia per ottenere il massimo delle vendite non si pone problemi deontologici. Ma quante volte, soprattutto nel dibattito politico, prevale la necessità di vincere ad ogni costo? E quante volte l’informazione dei media, nei resoconti di questi dibattiti, li riporta semplicemente senza affrontarli con spirito critico, fornendo quindi una falsa interpretazione? E anche se non necessariamente per dolo, quanto meno per omissione?

In realtà, se torniamo all’antica Grecia, ci rendiamo conto che è l’eterna lotta fra l’Iliade di Omero, tramandata oralmente dal IX secolo a.C. (secondo Erodoto, ma bisogna considerare che di Vite di Omero ne sono state scritte ben sette, tutte con particolari e origini diverse) e scritta nel VI secolo, e l’Anabasi di Senofonte, uno storico e mercenario ateniese contemporaneo di Socrate. Entrambi, Omero e Senofonte, narrano una guerra di conquista con fini imperialistici e commerciali portata dai greci nell’antica Persia. Ma quale enorme differenza. Omero è sicuramente l’antesignano delle moderne fiction.. L’Iliade ne contiene tutte le regole, rimaste immutate nei secoli. La guerra di conquista, talmente sanguinaria che Troia venne distrutta costringendo i superstiti all’esodo, si trasforma in una guerra per questioni d’onore, portata da un re cui era stata rapita la moglie contro il principe rapitore e la sue gente. Una guerra sanguinaria in cui tuttavia i due grandi

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eroi nemici, Ettore e Achille, sono entrambi grandi guerrieri ed eroi positivi ed onorevoli. Una guerra da cui trasse ispirazione Virgilio per raccontare nell’Eneide la storia di Enea, troiano profugo, figlio di Anchise, approdato sui lidi laziali e progenitore, con i superstiti di Troia, del popolo romano, considerando questa origine altamente nobile e inventando così una seconda, straordinaria fiction. Questo non significa che le due opere non contengano, nel contempo, gli alti insegnamenti etici e morali delle rispettive epoche. Anzi, ne sono portatrici magistrali. Nello stesso tempo, tuttavia, l’Iliade, storia per metà vera (le rovine di Troia scoperte in epoca moderna stanno a testimoniarlo) per metà manipolata e adattata, edulcorandola e nello stesso tempo utilizzando meccanismi di finzione che ne assicurassero la vendita nei secoli, è l’inizio di un grande compromesso. La storia, o la cronaca, destinate al popolo, non hanno bisogno di seguire le regole della verità. La narrazione, come si è visto all’inizio, ha regole più elasctiche. Basta cambiare alcuni contesti, introdurre elementi di romanticismo, e si può ottenere un migliore risultato di consenso evitando di apparire sgraditi e di rivelarne i veri intenti. Ben diverse le Anabasi di Senofonte. Prima di tutto quest’ultimo racconta una storia vera, di una guerra alla quale ha partecipato personalmente, e che riporta con uno straordinario realismo, facendo capire molto meglio di Omero le motivazioni che spingevano i propri contemporanei, senza ammorbidire né edulcorare la realtà. E la guerra di Ciro il Giovane contro il fratello Artaserse II rimane quella che fu: brutta, sporca e cattiva, con ben in evidenza gli appetiti e gli inganni dei potenti. Credo sia superfluo, in epoca moderna, spiegare le ragioni per cui l’Iliade, e poi l’Odissea, ebbero quello straordinario successo che hanno avuto (una fiction modernissima anche l’Odissea, con un protagonista eroico e ingannatore, prudente e temerario, determinato ma spesso sull’orlo del baratro e della perdita di speranze, con una moglie fedele e indomita, che resiste ai Proci anche lei utilizzando l’inganno). E altrettanto superfluo è spiegare perché Senofonte, pur mantenendo la sua testimonianza nelle scuole, non ha mai avuto successo popolare. Omero e Senofonte rappresentano (ma qui dobbiamo aggiungere “al meglio”, per prendere le distanze dall’epoca attuale, il cui questo scontro avviene “al peggio”) le due facce della comunicazione, le stesse che mostrano chi usa Schopenhauer per servirsi di stratagemmi nella comunicazione a proprio profitto e chi invece se ne serve per scoprire le manipolazioni della verità, pur se relativa. Chi è abituato a frequentare media diversi può rendersi conto della differenza tra le due scelte.

Il linguista radicale e il Potere

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Tra i contemporanei che hanno dedicato la propria vita di studiosi alla manipolazione del linguaggio e della comunicazione c’è un americano di origine russa (il padre, anche lui studioso, era trasmigrato negli Stati Uniti nel 1913). Si chiama Noam Chomsky, e la sua produzione in materia di comunicazione, applicata soprattutto alla politica, è impressionante, anche se la sua fama internazionale è legata soprattutto alla grammatica generativo – trasformazionale che cuce, per la prima volta, il linguaggio alla creatività umana. Capovolgendo le credenze precedenti ha scoperto che tutte le lingue si applicano agli stessi moduli presenti in ogni cervello umano, per cui seguono le stesse regole. Le moderne neuroscienze hanno poi aggiunto nuove indicazioni, che hanno confermato le sue teorie. Linguista, professore emerito al MIT (Massachuttes Institute of Technology) di Cambridge, dopo aver cominciato la sua carriera di docente a Harvard, è anche filosofo ed uno dei maggiori teorici della comunicazione, da una posizione di sinistra radicale americana cominciata con l’opposizione alla guerra del Vietnam. Molto legato all’Italia (ha ricevuto laurea ad honorem dalle università di Firenze e di Bologna), è uno dei massimi studiosi di quella “Fabbrica del consenso” di cui parlavamo prima che, attraverso il meccanismo di una Propaganda il più delle volte occulta, serve a chi detiene il potere per mantenere il controllo sull’opinione pubblica. E proprio dai suoi libri in materia è stato tratto una sorta di decalogo sulle strategie di manipolazione che potremo sintetizzare con questo schema:

1- Distrarre il pubblico bombardandolo di notizie interessanti (dal gossip ai grandi fatti di nera e di costume) ma non importanti dal punto di vista dei centri decisionali. Si chiama Strategia della distrazione.

2- Offrire le soluzioni dopo aver creato il problema: se si vogliono attuare misure di sicurezza molto dure, si allenta la difesa contro la criminalità, in modo che le misure che si vogliono applicare vengano richieste direttamente dai cittadini. Si chiama “problema, reazione, soluzione”.

3- La strategia della gradualità. Ad esempio il Neoliberismo spalmato su due decenni ha provocato un’accettazione che altrimenti sarebbe stata molto difficile. Una mannaia fiscale è più difficile da accettare che una rateazione fiscale negli anni.

4- La strategia del differire. A forza di essere rinviato, un problema perde d’interesse. E quando arriva la soluzione, questa non ha più

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l’attenzione critica necessaria, e c’è già la disponibilità alla rassegnazione.

5- Rivolgersi al pubblico come se fosse formato da bambini, utilizzando semplificazioni infantili. Chi viene trattato da bambino spesso reagisce come un bambino. Un famoso spin doctor di alcuni presidenti americani ha recentemente spiegato che per arrivare ad un pubblico il più largo possibile è necessario utilizzare un linguaggio per adolescenti, età massima 14 anni.

6- Puntare sull’aspetto emotivo, controllabile molto più della riflessione. Mettere quindi il fattore limbico davanti a tutto, lavorando mediaticamente sulle emozioni.

7- Mantenere il pubblico nella mediocrità differenziando l’educazione. Lo studio “alto” lasciato solo alle classi superiori, mentre per le classi inferiori ci sono i mestieri.

8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità. Si pensi alle molte trasmissioni televisive che esaltano vari modelli di mediocrità, mostrandoli come traguardi estremamente appetibili. O utilizzare linguaggi volgari con la giustificazione della comicità.

9- Utilizzare fatti possibilmente veri per rafforzare l’auto-colpevolezza, in modo da strumentalizzarla. L’esempio classico può essere quello dell’accusa di tradimento fiscale: se la nazione va a rotoli, la colpa è di chi evade e non di chi male amministra e consente questa evasione per propri fini. (Per fare un esempio, i capitali frutto delle attività illegali mafiose che comunque entrano nei circuiti bancari e alimentano attività legali). I sensi di colpa, amplificati dalla gogna mediatica, portano alla depressione, che è il contrario della ribellione.

10- Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano, vale a dire utilizzare psicologia, biologia e neuropsichiatria e neuroscienze in generale per controllare l’individuo.

Come si può vedere, la parte comune a tutti i singoli capi di questo decalogo è la comunicazione. E comune è il fatto che, attraverso la comunicazione, si cerca di influire sui processi culturali. Se la macchina della comunicazione non si rendesse, consapevolmente o inconsapevolmente, complice, le operazioni di manipolazione sarebbero impossibili. O, quanto meno, renderebbero il lavoro di chi vuole manipolare il cittadino (sia nella sua veste di consumatore che in quella di elettore) molto più difficoltoso. Con un rischio. Se il sistema democratico non è sufficientemente maturo, o gli appetiti -

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economici e politici, o semplicemente di nomenclature privilegiate che non accettano di condividere i privilegi – sono troppo forti, il rischio è quello di una deriva totalitaria. Tutto questo fa sì che, per chi si occupa di comunicazione, la verità tout court rappresenti un problema molto delicato, da affrontare con occhio attento alle realtà della società in cui si vive e si cerca di rappresentare. Perché, oltre a quelle totalitarie, possono essere scatenate, da un uso non prudente della comunicazione, anche derive populiste. Soprattutto quando ad essere interessate sono le classi meno abbienti, che possono essere spinte ad esprimere la ribellione attraverso una implosione, quella che viene definita la “guerra tra i poveri”, e che nasce quando si restringe lo spazio vitale e quando l’accesso ai benefici, pur limitati, non è più adeguato a concedere alle masse neppure il minimo necessario alla sussistenza.

Il secolo in cui le certezze scompaiono e il mondo di Einstein torna a sorprenderci

Il nostro secolo, come già, anche se in misura minore, la fine del secolo

precedente, sono sicuramente figli di un signore che si chiama Albert

Einstein, che ha scoperto la Teoria della relatività. Dico si chiama, e non si

chiamava, perché uno dei tanti paradossi costruiti da questa teoria è che,

anche se il tempo della vita di un uomo finisce, questi può continuare a vivere attraverso la memoria che è, appunto, il meccanismo mentale di riferimento

del Tempo. Vale a dire che, anche se l’uomo-materia scompare e torna

biblicamente polvere, non scompare la realtà, anche materiale, di quello che

ha costruito per mezzo del suo pensiero e delle sue parole. Mi rendo conto che può sembrare una ovvietà, visto che questo concetto del

sopravvivere a se stessi attraverso la memoria è patrimonio universalmente

acquisito. Ma la scoperta della relatività, che nasce da altre scoperte con cui

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tra la il 1700 e gli inizi del 1900 sono state costruite fisica, matematica e

meccanica quantistica, che stanno stravolgendo completamente il nostro

mondo, porta a rivedere tutti i principi, fisici e metafisici, sui quali l’umanità ha

costruito le sue basi, i suoi miti e le sue credenze. Cioè la sua realtà. E

quindi, se prima era ovvio a livello filosofico, oggi è dimostrabile a livello fisico.

Per cui credo sia necessaria un breve scorreria in un periodo precedente un

paio di secoli, che ci pare lontano ma che nella nostra realtà ricopre il tempo

di solo cinque generazioni. Noi abbiamo in genere esperienza di tre generazioni: figlio (noi), padre (madre) e nonno (nonna). Per chi è

particolarmente fortunato, bisnonno (a). Esperienza in quanto li abbiamo

conosciuti fisicamente, e non solo attraverso la memoria. Ma se abbiamo un

nonno che ci racconta di suo padre e suo nonno, ecco che ci ritroviamo proprio agli inizi del periodo che ci interessa.

Il Tempo del bisnonno

Siamo agli inizi nell’800, nascita del bisnonno, vale a dire del papà di nonno.

Il mondo che lui conosce ha ben poco a che vedere con il nostro. La Terra è,

come si è detto all’inizio, un altro pianeta. In Francia c’è stata una rivoluzione, ma già Napoleone III si è fatto nominare imperatore e sta commettendo una

grande quantità di errori, finché i francesi non riusciranno a buttarlo da

cavallo e restaurare la Repubblica. In Europa c’è un impero austro-ungarico,

che occupa anche il Veneto, e che scalpita, e una Prussia non ancora Germania che scalpita ancora di più, mentre l’Inghilterra si dà da fare

guardando con odio la Francia. La parte orientale dell’Europa e una parte

dell’Africa SubSahariana è dominata dall’impero Ottomano, oggi ristretto alla

sola Turchia. La Russia, non ancora Unione Sovietica che poi sarebbe

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tornata Russia, da lontano, guarda con interesse pensando ai suoi interessi. I

suoi intellettuali sono sparsi a studiare e insegnare nelle migliori università

europee, da Praga a Vienna a Parigi eccetera, L’elettricità è già stata

inventata, e si sta sviluppando. Mary Shelley ha già celebrato la nascita

dell’epoca moderna scrivendo la straordinaria storia di Frankenstein. In Inghilterra è nata la prima locomotiva a vapore e, con la comparsa dei treni,

le vie di comunicazione hanno fatto quel tipo di balzo in avanti che, come ci

ha spiegato McLuhann, ha cambiato la realtà.

Come? Cambiando il Tempo. Che fino a quel momento è stato solo un concetto filosofico. Tempo eterno e immutabile, fino a poco prima. Dal tempo

come immagine mobile dell’eternità di Platone al tempo come misura del

movimento di un prima e di un poi di Aristotele, da non confondere con il

tempo eterno e immutabile che è solo di Dio, fino al tempo sempre uguale e immutabile di Newton e Galileo. Certo, poco prima del treno, era arrivato il

filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant che, solo grazie a uno scambio di

posizioni (al centro del concetto non più il Tempo, che è l’oggetto, ma l’Uomo,

che è il soggetto) soggettivizza concetto ed effetti. Secondo questa

prospettiva, il Tempo si trasforma, assieme allo spazio, in una “Forma a priori della sensibilità”. E riesce a rendere interdipendenti Tempo e Spazio. Se

l’uomo non fosse in grado di percepire dentro di sé lo scorrere del tempo,

sostiene il filosofo, non sarebbe neppure in grado di percepire gli oggetti che

occupano lo spazio, e che vengono ordinati internamente nella memoria, dove si depositano e crescono, attraverso le esperienze sensoriali, in modo

da restare sempre a disposizione del pensiero.

Il Tempo, lo Spazio e i Treni

Tempo e Spazio sono appunto in quel periodo i problemi dei generali

prussiani che stanno ricostruendo a suon di cannonate la Grande Germania.

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Il problema dello spazio è stato affrontato, soprattutto dalla Francia, ma sarà

portato a compimento solo alla fine dell’800, attraverso una convenzione

internazionale che determina la lunghezza del metro, centimetri e decimetri

compresi, che possa fornire al mondo una misura unica con cui calcolare lo

spazio. Il problema del tempo è più complesso. E riguarda proprio i treni che, attraversando lo spazio in minor tempo e con vagoni che trasportano più

soldati, contribuiscono in maniera determinante alla vittoria nelle guerre.

In realtà il tema “Tempo” nelle ferrovie è, in Europa come in America come in

Inghilterra, in un gran caos. Ogni ferrovia – tutte private – ha i suoi orari, e mettersi in sequenza e corrispondenza comporta un lavoro defatigante e

molto lungo. Così tutti, belligeranti e non belligeranti, mettono in piedi una

Convention a livello mondiale che, come si è fatto per approvare il metro,

possa trovare il modo di sincronizzare il Tempo a livello mondiale. L’elettricità risulterà indispensabile, latitudine, longitudine e meridiani faranno il resto. Ma

ci vorrà un bel mezzo secolo perché tutti, in continua lite, si trovino d’accordo.

Così accade che si arriva ad un tempo convenzionale uguale per ogni

nazione e ogni continente proprio mentre Einstein scopre la Teoria della

relatività e i segreti dell’atomo, raccontando al mondo che il Tempo non è affatto quello che si pensava che fosse, e che la relazione con lo spazio è

talmente intrinseca che, se ne misuri uno, non riesci a misurare l’altro.

Arriva Einstein e il Tempo si trasforma

Tra il 1905, con la Relatività ristretta (o speciale), e dal 1913 al 1916, con la Relatività generale, Einstein, assieme ad altri scienziati suoi contemporanei

e ad altri che lo hanno seguito, cambiano non solo la fisica sino a quel

momento conosciuta, ma anche la filosofia, costretta a ripartire da un

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concetto di tempo presente nella mente dell’uomo, sul quale viene basato lo

spazio esterno percepito dall’uomo.

Prima vengono demoliti i principi fondamentali della fisica di Galileo e di

Newton con il lavoro sulla relatività ristretta. Partendo dal fatto che la velocità

della luce è costante in qualsiasi condizione, viene distrutto anche il concetto, basilare per la fisica di allora, che la massa non è invariabile ma varia con la

velocità. Se si imprime energia ad un corpo, gli si aumenta la massa. Se si

diminuisce energia a un corpo, si diminuisce anche la massa. La massa può

trasformarsi in energia, l’energia si può trasformare in massa. Ergo, massa ed energia sono solo due modi diversi di considerare la stessa cosa.

Dieci anni più tardi Einstein allarga la teoria della relatività ad ogni sistema di

riferimento della fisica, includendovi anche i fenomeni gravitazionali. Cambia

tutta la fisica moderna. E chi segue qualche rivista scientifica, si rende conto che sta continuando a cambiare.

Nel frattempo Einstein, nel libro “L’evoluzione della fisica”, scritto a quattro

mani con l’amico Leopold Infeld, che si trovava in difficoltà finanziarie e

aveva bisogno di soldi, aveva già espresso il suo orientamento: “I concetti

della fisica sono libere creazioni dello spirito umano e non sono, nonostante le apparenze, determinati unicamente dal mondo esterno”. E poiché lo

“spirito umano”, che si può condensare, pur se in maniera estremamente

limitativa, nel concetto di “pensiero”, è per sua natura mutevole, Einstein già

impostava un futuro di cambiamenti, che avrebbero magari potuto incrinare, come è accaduto e sta accadendo con la fisica quantistica (la stessa che

Zenone di Elea, 25 secoli fa, aveva già intuito con i suoi “paradossi”), se non

demolire, la sua teoria. In pratica, come aveva fatto riunendo massa ed

energia, esprimendo questo concetto ipotizzava la riunione del mondo fisico (“esterno”) appartenente a tutto l’universo, con il mondo interiore (“pensiero”),

appartenente esclusivamente all’uomo.

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Il nuovo Tempo costruito dal vecchio Logos, il Pensiero che diventa Parola

Abbiamo già visto che, anche nel mondo fisico, tutto funziona sulla base di “informazioni” e “comunicazione” (un cibo al posto di un altro è

informazione e comunicazione al nostro corpo, e se si varia variano anche gli

effetti fisici su di noi, una medicina al posto di un’altra ha effetti fisici su di noi

e così via), e che questo vale anche per il mondo intellettuale: sensi ed emozioni “comunicano” stimoli al nostro cervello, che li elabora attraverso

neuroni e sinapsi, alla ricerca delle esperienze memorizzate per produrre la

reazione più appropriata, quindi il ragionamento (pensiero sulle informazioni

raccolte) comunica con il corpo che applica la migliore reazione elaborata. E il corpo reagisce. In questo caso il corpo è la massa, il pensiero è energia. Ed

ecco che le teorie di Einstein si prestano ad una applicazione, nella fisica che

viene dopo di lui, mai neppure immaginata. Soprattutto nell’uso del concetto

di pensiero, quindi di immaginazione, alla soluzione scientifica di problemi

della fisica, della matematica, della chimica, con tutto quello che vi fa riferimento, dall’elettricità al magnetismo alla gravità, che utilizzando solo le

regole della fisica non potrebbero essere risolti.

La comunicazione odierna è frutto proprio di questo: se dentro il me il

pensiero causato da un evento esterno o da una sensazione interna provoca determinate reazioni da me controllabili nel mio corpo, perché il pensiero

trasformato in parola verso l’esterno non può provocare reazioni nei corpi

fisici esterni secondo la mia volontà? In breve: come posso controllare gli altri

attraverso la comunicazione? Il problema che è stato finora tralasciato, e che mi sembra utile affrontare prima di dedicarci ad un excursus storico dei

metodi utilizzati è: quali possono essere le conseguenze?

Le scoperte di Einstein e quelle che sono venute dopo di lui, assieme alla

comprensione approfondita di altre scoperte precedenti, non percepite nel

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loro significato profondo fino all’apparire della teoria della relatività, ci hanno

costretto a scoprire una serie di paradossi. Prima di tutto che ci sono due

misure e due matematiche distinte per valutare il mondo creato dalla nostra

mente, vale a dire la nostra realtà, e quella che riguarda invece l’infinitamente

grande (il Cosmo) e l’infinitamente piccolo (le particelle). In pratica, che non valgono le stesse regole per calcolare la corsa di un pallone verso una porta

e quella di un elettrone verso Sirio o di una molecola all’interno del nostro

corpo. Che per misurare un tavolo o la corsa di una Ferrari ci è sufficiente la

matematica di Euclide o di Newton, mentre per seguire il corso delle molecole nella nostra mente o nell’Universo dobbiamo fare riferimento alla

fisica quantistica. Che, essendo probabilistica, lascia a noi la scelta di fissare

la forma che andrà a determinare la realtà basata, appunto, sul nostro libero

arbitrio e sull’insieme di casualità. Che non sono altro che causalità talmente distanti da noi da non poterle misurare. Cosa che invece siamo in grado di

fare con la scelta. Basta ricordare il vecchio detto: “Scelta calcolata”.

Abbiamo scoperto, pur senza avere approfondito fino in fondo le

conseguenze che, se il concetto di tempo è creato dalla nostra mente che

percepisce, attraverso i sensi, lo spazio esterno a noi, significa che leghiamo la nostra vita, cioè la nostra esistenza fisica, alla misura del tempo. Questo

porta ad un altro paradosso: che è lo stesso tempo che ci dà la vita a

corrompere e consumare la nostra vita. Il che può voler dire solo una cosa:

che se vogliamo prolungare il tempo, dobbiamo rallentare la corruzione del tempo, avendo maggior cura della materia di cui siamo composti, cioè del

corpo. Esattamente il “Mens sana in corpore sano” di Giovenale. Se lo

trasportiamo a livello filosofico e sociale, ci rendiamo conto di come il

concetto di corruzione che consuma il tempo sia universalmente valido. Ma non ancora entrato nel circuito della consapevolezza. Soprattutto che, se il

tempo, che è la misura della nostra vita e della nostra realtà, nasce dal nostro

pensiero, esattamente come il “logos” greco, la parola in movimento, ovvero

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la comunicazione, anche la comunicazione deve sottostare alle stesse regole

della corruzione.

Il Pensiero, attraverso la Comunicazione, cambia il Tempo e la Realtà

Gli avvertimenti non sono mancati. Si è visto, tragicamente, che, prima

ancora di diventare scienza speculativa per accedere ad altra scienza, il prodotto “corrotto” della teoria della relatività è stato la bomba atomica, un

frutto devastante che il mondo non riuscirà mai a dimenticare.

E allora torniamo al mondo della scienza e vediamo cosa accade nel corpo

umano se prendiamo la via sbagliata. Abbiamo già parlato di ordine e di creatività. “Ordine” è una definizione umana e matematica per descrivere la

ricerca di equilibrio che pervade tutta la fisica dell’universo e quindi anche noi

che ne facciamo parte. E tuttavia, poiché la vita è legata in primo luogo al

movimento, questo movimento ha continuamente bisogno di nuovi stimoli,

che possono provenire da sensazioni ma, soprattutto, dal pensiero, che nasce nel cervello. Faccio un esempio: se un cervello muore, ma il cuore

continua a battere, esiste ancora una vita. Ma, mancando gli stimoli

provenienti dal cervello, quindi dal pensiero che, come abbiamo visto,

procura l’energia al corpo, la nostra vita, avendo raggiunto il massimo ordine (vale a dire la totale mancanza di stimoli e di cambiamenti) è solo vegetativa.

Esiste un corpo fisico, ma non è un uomo, mancando il pensiero. Vale a dire

che manca il motore primario, l’energia, costituita da quello che può essere

definito coscienza o anima. Quindi, per avere una continuazione della vita e del movimento che la nutre,

abbiamo bisogno di rompere, almeno a cicli temporanei, l’ordine, in modo da

creare sempre nuovi stimoli di cui si nutrono, come un universo, i miliardi di

cellule che compongono il nostro corpo, compreso il nostro cervello. La

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creatività, quella che ci consente i cambiamenti e il progresso, è proprio

questo: un momento di disordine nel nostro pensiero. Vale a dire la nascita di

qualcosa che si scioglie dalle briglie dell’equilibrio e va ad esplorare territori

sconosciuti. Non per distruggere, ma per ricreare un nuovo ordine,

possibilmente migliore, quasi sempre utile al genere umano. E tuttavia, questo momento di disordine creativo si sviluppa in quella parte

del nostro cervello che è anche la sede di un disastro che si chiama

schizofrenia. Vale a dire che, per un attimo, le nostre cellule, per essere

creative, si devono sdoppiare esattamente come la schizofrenia sdoppia la nostra coscienza, cioè la consapevolezza di noi stessi. Argomento che

filosofia e neuroscienze hanno sviluppato e continuano a sviluppare,

soprattutto attraverso lo studio della fisica delle particelle, ormai già recepito,

ad esempio, a livello di psicoterapie. E che la medicina nucleare, quella oggi più avanzata, è riuscita a localizzare ma non ancora a spiegare in modo

sufficiente per poter intervenire. In una risonanza magnetica, la foto di un

cervello in un momento creativo e di un cervello in un momento schizofrenico

sono pressoché identiche.

Le cellule che compongono la nostra forma fisica sono elementi straordinari, che ci rivelano sempre nuove sorprese. Vedremo, in un prossimo incontro in

cui parleremo della comunicazione moderna, della rete e dell’intelligenza

artificiale, come le cellule del nostro corpo abbiano già sviluppato tutta la

fisica e la matematica che stiamo cercando di applicare al mezzo computer. Per ora utilizziamole per cercare di capire cosa avverrebbe alla

comunicazione se prendesse la strada sbagliata, vale a dire se dalla

creatività si bloccasse in un sistema schizofrenico.

Come l’ordine, che ha bisogno di disordini temporanei per fornire il movimento che fornisce energia alla vita, i miliardi di cellule, vale a dire il

sistema ordinato di cui siamo fatti, sono costrette ad affrontare momenti di

disordini temporanei che le portano alla morte. La loro vita è molto breve ma,

come muore una cellula, ne nasce immediatamente un’altra, in un moto

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continuo. Accade però, a volte, che l’informazione alla cellula “disordinata”

che deve morire e lasciare il posto ad un’altra (non avviene lo stesso nel

cervello di un creativo che, costretto ad affrontare un nuovo concetto, è

costretto contemporaneamente a far morire il precedente?) venga recapitata

ad un indirizzo sbagliato. Che cosa accade quando la cellula chiamata in causa senza ragione si ribella e si rifiuta di morire? E quando, anzi, cerca di

convincere tutte le cellule che sono in contatto con lei a schierarsi dalla sua

parte, creando quella che fisicamente viene definita metastasi e nel sistema

pensiero schizofrenia? A livello fisico questa ribellione si trasforma in cancro. A livello mentale e di coscienza in sdoppiamento di personalità.

La Fisica delle Onde elettromagnetiche e del Pensiero

Torniamo alla fisica, almeno a quella che è servita ad Einstein per elaborare

le sue teorie. Uno dei matematici verso i quali è maggiormente debitore è uno

scozzese vissuto nell’800, James Clerk Maxwell, che elaborò la prima teoria moderna dell’elettromagnetismo, dimostrando che elettricità, luce e

magnetismo sono tutte manifestazioni del fenomeno elettromagnetico e che

hanno quindi capacità di trasmettere tra di loro a distanza attraverso onde

magnetiche. E scegliamo il metodo di indagine teorica di Maxwell che procede per analogie.

Per analogia i cervelli umani usano tutti le stesse onde elettromagnetiche,

quindi, anche se sono costretti a trasformare i loro pensieri in assemblaggi di

parole per poter comunicare coi propri simili, secondo le ipotesi di Maxwell sarebbe teoricamente possibile trasmettere le onde elettromagnetiche del

pensiero a distanza. Ma restiamo alla parola, visto che la ricerca sulla

telepatia, pur sperimentata da molto tempo, è rimasta ancora arenata.

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La parola, quindi, rimane ad ora l’unico metodo di comunicazione possibile,

anche se gli esperimenti di pilotaggio di un aereo attraverso la gestione delle

onde elettromagnetiche cerebrali effettuata attraverso un casco ed elettrodi in

contatto con il cervello stanno dando già ottimi risultati. Ma questo vale finora

per una manipolazione singola, e non di massa. Che cosa potrebbe accadere ad un meccanismo di comunicazione umano

che, fatto per trasmettere informazioni che altri cervelli vengono chiamati a

valutare sulla base delle proprie esperienze, e che per questo deve essere

onesto nella sua elaborazione e rispettoso di quella altrui, deviasse dal proprio compito originale? Se cioè, dopo aver imparato ad invadere altri

cervelli operando sulle emozioni che provengono dalla percezione esterna,

non volesse rinunciare ad andarsene, ma anzi pensasse che, per suo

personale profitto, dovrebbe permanere dentro di loro, continuando a condizionarli? Che cosa cambierebbe nello sviluppo del pensiero umano?

In realtà siamo tornato, in questa epoca, all’uso totalmente egoistico della

comunicazione. Ancora una volta torniamo indietro all’antica Grecia, ai sofisti,

partiti dalla scoperta dell’atomo e della verità soggettiva, e degradati a

mettere la comunicazione al servizio del proprio interesse, o della personale verità del compratore dei loro servizi. Usandola anzi indiscriminatamente per

avallare qualsiasi verità, o menzogna o fallacia che dir si voglia, purché al

servizio del proprio guadagno. Aprendo la strada ai nuovi sofisti, specializzati

a utilizzare non solo la propria comunicazione a personale vantaggio, ma anche per utilizzare gli altri a proprio vantaggio. O insegnare al potente di

turno come farlo.

E’ la base filosofica che è servita a strutturare oggi il capitalismo e il neocapitalismo, che sta bloccando l’ascensore sociale che permette anche ai più umili ma dotati di accedere al tavolo della spartizione globale (biologicamente parlando, creare le nuove cellule che sostituiscono quelle morte, in modo da garantire la sopravvivenza del corpo), che ha allargato a livello sociale la forbice tra ricchezze e

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povertà e che sta producendo, in termini di Potere (o ha già prodotto), come aveva previsto Platone 25 secoli fa, uno dei possibili effetti malati della democrazia, la trasformazione in oligarchia. E che si potrebbe descrivere anche come effetto di una metastasi cellulare.

E adesso, signori, Pubblicità! Altro linguaggio, altre regole

Abbiamo visto, nei due incontri precedenti, come tutto quello che passa

attraverso la comunicazione si trasforma, e questo sin dalla sua origine

nell’antica Grecia, oltre due millenni fa, in cultura. Abbiamo visto come la

scrittura ha cambiato la percezione degli uomini e del mondo, e come già nei tempi antichi la parola, parlata o scritta, potesse venire manipolata a

vantaggio di pochi. Abbiamo visto come questa manipolazione, con la nascita

delle nuove tecnologie, abbia trovato nuovi strumenti e nuova evoluzione e

come, contemporaneamente, anche se con difficoltà, siano cresciuti gli

anticorpi per difendere il principio delle libertà generali e individuali. A questo punto cercheremo di capire come, nei sistemi democratici, sia nata

e si sia sviluppata una vera e propria “ingegneria del consenso” che ha

dominato il secolo scorso e che, a distanza di un centinaio d’anni, continua a

dominare, con strumenti sempre più sofisticati, una società che appare sempre più disarmata nelle proprie difese, soprattutto dal punto di vista

culturale. Soprattutto in un momento storico in cui le nuove tecniche della

comunicazione hanno trasformato quest’ultima in uno strumento di controllo

individuale, sociale e di massa, attraverso un processo che si è sempre più raffinato nell’ultimo secolo e che ha fornito, alle classi che frequentano le

stanze dei bottoni (economica, politica, finanziaria, militare per una vasta

parte del mondo) una ricchissima fabbrica nella quale costruire il consenso.

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E poiché, crollati i vari idealismi, che hanno la loro sede principalmente nel

cervello, nei lobi frontali e nel ragionamento, e quindi contemplano una

scelta, trasformati anch’essi in materiali di consumo che hanno il loro centro

quasi esclusivamente nel cuore e nelle viscere, culturalmente visti come

motore delle emozioni e dei bisogni primari, partiremo in questa breve ma, speriamo, succosa seconda scorreria temporale, dalla pubblicità. Cioè da un

denominatore comune che ha scandito, e condito, l’ultimo secolo e che,

certo, non minaccia di abbandonare il campo, visto che si appoggia alla

nostra pigrizia, arrivando a scegliere per noi. Anzi, dato che si comincia già a parlare di pubblicità mirata addirittura

individualmente (negli smartphone) in 3D e addirittura in ologramma nel

nostro salotto a seconda dei nostri desideri, è difficile pensare che la

pubblicità, la quale regge finanziariamente gran parte della comunicazione moderna, e che aveva cominciato a reggerla alla nascita del sistema liberale

e capitalistico, non farà parte ancora a lungo della nostra vita, usando la

nostra scienza e la nostra tecnica per influire sulla nostra cultura. Ma per

questo ha bisogno, come abbiamo visto nell’incontro precedente

soffermandoci sul decalogo di Noam Chomsky, di annichilire il nostro senso critico e di renderci sempre meno reattivi.

Basti vedere il recente spot pubblicitario di una delle maggiori compagnie di

Telecomunicazioni nazionale per sponsorizzare i propri, ormai innumerevoli,

gadget tecnologici, che volano fantascientificamente sullo sfondo dello schermo su una città stile Matrix, fa dire al proprio protagonista: “Le nuove

tecnologie ci danno la possibilità di non scegliere. Non vi pare fantastico?”

Dato che l’essere umano costruisce la propria etica, la propria

consapevolezza e il proprio carattere proprio intorno alle scelte che compie, non è necessario essere particolarmente acuti per immaginare le

conseguenze su chi viene bombardato da questo tipo di sloogan.

I meccanismi della sopravvivenza dei mezzi di comunicazione dettati dalle

regole del mercato si reggono, e si reggevano, su una contraddizione che

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pare impossibile risolvere: la pubblicità fornisce ai media gli strumenti

finanziari per crescere o, quanto meno, per continuare a pubblicare. O a

trasmettere, nel caso si tratti di radio o televisioni. Quindi, ad un esame

superficiale, fornisce la libertà. Nello stesso tempo la pubblicità,

provenendo dai settori produttivi o di servizio dell'economia, costituisce per i media uno strumento che è contemporaneamente di ricatto: difficile

pensare che un media che critica pesantemente una azienda, una società

o un istituto bancario che lo finanziano e che ormai, e spesso, fanno parte

del consiglio di amministrazione, possa continuare a ricevere dai primi pubblicità e quindi i finanziamenti necessari a vivere e prosperare e dai

secondi la garanzia di continuare a lavorare in libertà.

Antonio Pilati, ne “L’industria dei media” (Edizioni Il Sole-24 ore, 1990, quindi verso la fine del secolo scorso, quando si sviluppò con maggior

forza il dibattito sul problema), fornisce una spiegazione di questo

contrasto di contraddizioni che da una parte vede una proprietà, l’editore,

per il quale l’informazione è un prodotto che deve fornire utili, economici e

politici, e dall’altra gli operatori dell’informazione, che chiedono il rispetto dell’autonomia professionale e delle loro scelte, vale a dire la libertà di

stampa che, se deve essere valutata nei confronti con l’esterno, spesso è

molto più difficile da conquistare all’interno.

All’inizio è avvenuto come per la grande distribuzione, vale a dire che le concentrazioni sono diventate un’esigenza di economia e a volte anche di

qualità. Né più né meno che per una catena di supermercati. Il primo passo

è molto semplice: per vendere un prodotto bisogna prima comunicare

l’esistenza di quel prodotto. Ecco che i media, che si occupano di comunicazione, diventano indispensabili perché una qualsiasi produzione

di beni o di servizi possa offrire a chi la produca un ritorno economico.

L’elaborazione di questo concetto, del quale si vede il frutto nelle pubblicità

radiofoniche o televisive, arriva fino all’informazione, attraverso quella che

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viene definita pubblicità indiretta, molto più fruttuosa. E’ meglio pagare una

pubblicità sui viaggi in Turchia, o finanziare un ampio servizio giornalistico

sulle bellezze turistiche della Turchia, mettendo all’inizio e alla fine la sigla

dello sponsor, vale a dire della struttura imprenditoriale che organizza i

viaggi? Dall’economia alla politica il passo non è molto lungo. Dalla presenza nei

telegiornali dei politici di una decina di anni fa, siamo passati alla presenza

dei politici nei talk show e addirittura nelle trasmissioni di svago o di

intrattenimento. Se ci basiamo sulle elaborazioni teoriche dei maghi della pubblicità, un semplice passaggio in una trasmissione di alto ascolto, vale

a dire che fa audience, vale dieci volte dieci passaggi pubblicitari

tradizionali. Se la grande distribuzione ha scoperto la necessità di creare immagine, ecco che le trasmissioni con diverso target offrono la possibilità di avvicinare surrettiziamente il target che è più funzionale, sia in senso economico per gli interessi economici, sia con scopi elettorali e di consenso per gli interessi politici.

In questi ultimi decenni si è assistito da una parte ad una grande

proliferazione di media “moderni”, vale a dire radio e televisioni (parleremo

a parte dei Nuovi media che traggono origine dalla Rete e dai suoi strumenti tecnologici), dall’altra ad una grande concentrazione delle

proprietà, sia per la televisione che per la carta stampata. Nello stesso

tempo si assiste ad una offerta sempre più differenziata della

comunicazione. Dopo le Tv generaliste, quelle via cavo, quelle satellitari, è in arrivo il digitale terrestre, la pay-tv, la pay per wu, il sistema televisivo

interattivo, la televisione utilizzata per ricevere internet, internet utilizzato

per ricevere televisioni. Dietro lo slogan “maggiore diffusione, maggiore libertà”, si intravede lo spirito del libero mercato, in cui

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questo tipo di diffusione diversificata e capillare ha soprattutto tre scopi, non necessariamente nell’ordine: informare, condizionare e raggiungere tutti i possibili target di consumatori. I cambiamenti del

sistema commerciale e della grande distribuzione hanno già modificato in

profondità il profilo economico delle maggiori (nel senso di quelle che raggiungono un pubblico più vasto) forme di comunicazione. Anche la

grande diffusione delle radio private, che ha inizialmente costituito uno dei

capisaldi della libera informazione, non si sottrae da tempo alla logica della

concentrazione e – pur con tempi più lunghi, vista la quantità e la capillarità delle radio sul territorio nazionale e la nascita delle web radio – queste

finiranno per subire gli stessi effetti che colpiscono gli altri strumenti della

comunicazione di massa.

I sei cappelli di De Bono come le aure delle filosofie orientali

E che, soprattutto, i pubblicitari tendono a rendere sempre più appetibili. Considerati, fra le varie professioni, i creativi per eccellenza, hanno un

vasto armamentario di tecniche alle quali fare riferimento. L’ultima trovata è

la commistione tra la pubblicità diretta e quella indiretta attraverso l’utilizzo

di quello che in neuroscienze viene individuato come il “pensiero laterale”, un termine inventato (in realtà estratto dal concetto di aura delle filosofie

orientali, e manipolato su basi culturali occidentali) dal maltese Edward De Bono, (Sei cappelli per pensare, Rizzoli 1999) considerato una delle

maggiori autorità in campo creativo contemporaneo. De Bono ha insegnato ad affrontare un problema non sotto un unico aspetto, quello che ci appare

come il più logico, ma variando il punto di vista, come se ogni volta

cambiassimo cappello e quindi punto di vista. Ogni cappello è di un colore

diverso, ed è interessante notare che i colori sono quelli delle cosiddette

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aure individuate dalla cultura orientale, che li identifica con colori, più o

meno brillanti, che circondano la figura umana e che riguardano i diversi

stati d’animo (e di salute) della persona. Altrettanto interessante è che

manchino nei suoi cappelli i colori di due aure: il bianco, che indica la

verità, la sincerità e il pensiero onesto, e il nero, che indica soprattutto la negatività.

Il pensiero laterale, che viene “agganciato” casualmente dai neuroni che,

di fronte ad una nuova esperienza, vengono inviati a cercare nelle sinapsi

esperienze simili può, nel processo sequenziale che segue, trasformarsi nel filone di pensiero principale. Per fare un esempio: se stiamo cercando

un cappello in una serie di negozi, anche se la ricerca è finalizzata a

trovare un cappello di nostro gusto, una eventuale scena tra due persone

cui abbiamo assistito lungo la strada, anche se non ha niente a che fare coi cappelli, ci può condurre a decidere per un tipo di cappello particolare o a

decidere di non prendere il cappello che piace a noi ma l’idea di cappello

sponsorizzata dalla pubblicità. Per portarci a questa decisione, il nostro

cervello ha bisogno di creare una narrazione sulle due persine incontrate

per strada. Questa narrazione, alla fine, è proprio quella che cementa la nostra scelta. Nello stesso modo la pubblicità di quest’ultimo periodo viene

legata ad una “narrazione” laterale i cui stimoli precostituiti (e non casuali)

ci guidano verso la scelta che i pubblicitari vogliono che prendiamo.

La differenza con le vecchie pubblicità “dirette” è che quest’ultima è molto più pervasiva in quanto il nostro cervello viene distratto dalla storia laterale

ma, alla fine, si trova nella testa un “bisogno” creato artificialmente. Non

siamo stati convinti, siamo stati influenzati, e quindi la nostra convinzione diventa che la scelta sia stata esclusivamente nostra.

E' chiaro che chi controlla il mercato della pubblicità controlla i media, e

questo fa capire perché, intorno alle leggi che determinano le regole in

questo campo, si siano scatenate formidabili battaglie politiche. Anche

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perché, a sua volta, la pubblicità deve sottostare a delle regole che

vengono decise dalla politica la quale, da parte sua, non può ignorare le

regole dettate dall’economia. D’altra parte, la politica non può ignorare

neppure gli stimoli, le pressioni e i condizionamenti che provengono

dall’interno della società, dato che la società è costituita da gruppi di individui che, per legittimare la politica e le sue scelte, devono dare il loro

consenso.

Ecco che la tentazione di manipolare l’opinione pubblica inserendosi

all’interno delle contraddizioni che caratterizzano l’esercizio della libertà da parte dello strumento di comunicazioni di massa, finisce per diventare

irrimediabilmente parte integrante della macchina organizzativa del potere.

Sia esso economico che politico che sociale.

La confusione tra Informazione e Propaganda

E’ un fenomeno comune alla società moderna, ma che forse in Italia

diventa più visibile data la carenza di strumenti di controllo, o la mancanza di potere effettivo di questi strumenti, quando non si verifica il fatto che, al

loro interno, è difficile dirimere il problema di conflitto di interessi in cui,

spesso, controllati e controllori si identificano negli stessi individui o nelle

stesse strutture. Non è difficile oggi, da noi, trovare confuse insieme, su giornali che

dovrebbero essere di informazione, notizie, pubblicità occulta, propaganda,

servizi di economia che somigliano molto a comunicazione d’azienda,

polemica politica che, più che al servizio del lettore, è al servizio del vincitore politico di turno, e via di questo passo. Cosa che, per fare un

esempio, negli Stati è molto più difficile da trovare, a causa di regole, non

solo deontologiche, più difficile da aggirare. D’altra parte il termine quarto

potere – come potere popolare di controllo degli altri poteri – nasce proprio

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negli Stati Uniti, e non a caso. Tutto è legato alla sacralità del concetto di

denaro che contraddistingue la società americana. Quando gli Stati Uniti,

da colonia della corona inglese, si trasformano in una repubblica

indipendente, si formano anche le prime grandi ricchezze.

L’industrializzazione e la necessitò di creare infrastrutture, a quei tempi gigantesche (pensiamo ad una ferrovia che attraversi tutta l’America, o a

grandi linee di navigazione, o alle stesse strade, o all’espansione delle

grandi città) in un intero continente rende però insufficiente il pur enorme

potere economico delle grandi famiglie industriali, che sono costrette ad accedere al finanziamento pubblico. Il quale però, in cambio, chiede, in

nome del popolo americano, visto che il denaro, in un sistema

democratico, viene dalle tasse pagate dal popolo, di poter controllare

spese e progetti.

In questa fase sono soprattutto i giornali a ricoprire il ruolo di strumenti di

controllo e di denuncia. Questo spinge le grandi famiglie di imprenditori

non solo a scendere in politica, per la quale è necessario il consenso degli elettori, ma ance a cercare consenso per le proprie attività industriali che

supportano le loro ricchezze e il loro nome.

Nasce così la necessità di una comunicazione aziendale, attraverso gli

uffici stampa e pubbliche relazioni formati da giornalisti incaricati di curare l’immagine del capo dell’azienda, quindi degli affari dell’azienda, presso i

giornalisti che fanno informazione. Due ruoli precisi, ben separati: da una

parte i controllori dell’azienda e della spesa pubblica – i giornalisti di

informazione – dall’altra i difensori dell’azienda e della sua immagine – i giornalisti aziendali – ognuno fedele al suo incarico. Gli Stati Uniti hanno

quindi avuto più tempo per sperimentare i rischi di una possibile

commistione dei due diversi tipi di giornalismo e trovare, quando hanno

voluto, i rimedi. E tuttavia è proprio negli Stati Uniti che viene sperimentata

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per la prima volta, a livello di comunicazione di massa, la manipolazione

dell'intera opinione pubblica. E proprio negli anni in cui veniva scoperta da

Einstein la Teoria della relatività della quale parlavamo all’inizio per

illustrare i mutamenti del Tempo e il suo paradosso di Costruttore della Vita e Corruttore della Vita..

…e l’Inizio della manipolazione moderna

L'origine risale alla prima guerra mondiale, e alla richiesta di aiuto che la

Gran Bretagna, impegnata nel conflitto contro la Germania, rivolge agli

Stati Uniti. Presidente americano, nel 1916, è Woodrow Wilson, eletto sulla base di un programma denominato “Pace senza vittoria”, che aveva

trovato il consenso della popolazione americana, in quel periodo

decisamente pacifista e intenzionata a non farsi coinvolgere nel conflitto

europeo.

Wilson, pur eletto dai pacifisti, si rende tuttavia conto che, senza l’intervento americano, la Germania del Kaiser potrebbe diventare egemone in Europa,

tagliando i legami tra l’America e i cugini britannici e diventando,

contemporaneamente, un pericoloso concorrente e livello economico. La

scelta, per Wilson, non può essere che interventista. Ma ha bisogno di far cambiare idea agli americani che lo accusano di tradire il proprio programma

elettorale. Ed in poco tempo: sei mesi al massimo prima che l’Inghilterra

soccomba. Quindi istituisce una Commissione governativa per la propaganda

con sezioni estere in ben 30 Paesi, la Commissione Creel, dal nome del giornalista (ma poi, datosi alla politica, diventa Capo della Polizia di Denver,

carica elettiva) che la presiede, George Creel. Questa viene incaricata di

trasformare in tempi stretti un popolo pacifista in un popolo guerrafondaio.

Ufficialmente, lo slogan che porta avanti Creel è “Rendere il mondo sicuro

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per la democrazia”. Uno slogan che verrà poi usato ogni volta che gli Stati

Uniti entreranno in guerra.

Della Commissione fanno parte, all’inizio come consulenti, poi con ruoli sempre più incisivi, un giornalista radicale, Walter Lippmann, autore poi, nel

1922, del libro “L'opinione pubblica”, (tradotto in Italia nel 1963) in cui critica

pesantemente l'abitudine dei governi di manipolare l'informazione, e un

pubblicista e poi pubblicitario di origine viennese, Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud (il padre è fratello della moglie di Freud e la madre è sorella

del grande neurologo e psicanalista austriaco) presso il quale passava le sue

vacanze giovanili. Nel 1928 Bernays esprime le sue idee in “Propaganda”,

l’unico suo libro tradotto in Italia, e solo nel 2008, mentre nel 1923 pubblica “Crystalliziong Public Opinion”, che sembra una risposta a Lippmann.

Entrambi i libri diventeranno poi le bibbie del ministro della propaganda

nazista Goebbels. Nel 1947 il suo testo “L'ingegneria del consenso. Approccio scientifico alle pubbliche relazioni”, diventa una vera e propria

guida pratica alla costruzione moderna del giornalismo aziendale, ripresa anche a livello di formazione del consenso politico e utilissima per la

formazione degli Spin doctor, i “costruttori di immagine.

Le ricerche e le pubblicazioni dello zio Freud influiscono in maniera

determinante sull’interpretazione del mondo, e quindi sulle tecniche usate per manipolare la gente, da parte di Bernays., differenziandolo profondamente da

Lippmann.

Se Bernays sviluppò la tecnica delle “terze parti”, vale a dire l'utilizzo e la

diffusione di notizie prodotte da enti o personalità apparentemente estranee alla campagna in corso, ma in realtà create spesso artificialmente e istruite

su quello che devono dire, Lippmann, assieme a un gruppo di radicali e di

progressisti, formalizzò la tecnica dell'ascolto e dei sondaggi, in modo da

monitorare continuamente le sensibilità e i desideri dell'opinione pubblica.

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Non solo per adattare la campagna alla volontà della gente, ma anche per

poter cercare nuovi argomenti che potessero convincerla a seguire la

indicazioni migliori.

Socratico contro Sofista, ovvero Brachilogia contro Macrologia

C’è, fin dall’inizio, qualcosa che avvicina e nello stesso tempo oppone

Lippmann e Bernstein. Entrambi sono affascinati dalle teorie espresse da

Freud. e questo li unisce, ma è nell’interpretazione che sono divisi. Per

Lippmann l’uomo va aiutato a dominare le proprie pulsioni e a far prevalere la razionalità. Il riferimento filosofico è quindi al gruppo dei socratici. Per

Bernstain, invece, l’uomo, soprattutto quando si raggruppa in folla, resta un

animale concentrato solo sulle pulsioni e sui suoi bassi istinti. Nella sua tesi

sono sempre le pulsioni a prevalere, e quindi queste vanno stimolate e

strumentalizzate ai propri fini. Come si vede, il riferimento è squisitamente sofisticco.

Così da una parte Bernays usò le scoperte dello zio Freud per poter sfruttare

le pulsioni, i vizi e i desideri nascosti delle persone fornendo loro una serie di

realtà modificate in modo da soddisfare le loro aspettative; dall'altra Lippmann e il gruppo progressista teorizzarono che, se era vero che la

democrazia era una cosa troppo importante da poterla abbandonare ai

capricci del popolo, allora era necessario creare una élite avvertita che

potesse indirizzare la gente verso le scelte giuste. Naturalmente, “giuste” secondo i propri criteri. Non a caso, negli anni seguenti usò tutta la sua

influenza per indicare all’opinione pubblica non i partiti, ma gli uomini che

riteneva maggiormente meritevoli per guidare l’America, scegliendoli

indifferentemente nell’uno o nell’altro partito.

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La campagna propagandistica della Commissione Creel, ebbe un successo

enorme: nei sei mesi previsti trasformò il popolo americano in un feroce

nemico dei tedeschi visti, nell'immaginario popolare, fomentato dalle notizie

europee proveniente dall’ufficio della Propaganda britannico, come un popolo di divoratori di bambini, (le storie sulle braccia strappate ai bambini belgi

trovano ancora spazio in alcuni libri di storia americana), con lo slogan “I tedeschi mangiano i bambini”, quindi erano da sterminare a qualsiasi costo

per poter salvaguardare la democrazia. Né più né meno quello che accadde dopo la seconda guerra mondiale quando, nella Russia di Stalin, secondo la

propaganda americana, “i comunisti mangiavano i bambini”. Anche allora

era stata nominata una commissione, presieduta dal senatore McCarty che,

con la sua caccia ai “comunisti”, convinse il popolo americano a vedere i sovietici come un grande pericolo per la democrazia. Per capire la portata

della falsificazione, basti pensare che, su 20 mila processi istruiti dalla

commissione, solo in quattro casi vi furono sentenze di condanna. Ma intanto

lo scatenamento del “terrore rosso”, come venne chiamato, era riuscito a

distruggere i sindacati, parte della libertà di stampa e aveva creato forti condizionamenti alla libertà del pensiero politico.

Lo stesso fenomeno si è potuto osservare in questi anni, con la diffusione

della paura del “pericolo islamico”, una paura cresciuta sulla spinta delle

teorie della “guerra preventiva”, programmata dal gruppo definito, naturalmente in campo liberista, progressista (i neocons) messo all'opera

dall'amministrazione americana per convincere non solo gli americani, ma il

mondo intero, che dopo l'attentato dell'11 settembre l'unica risposta possibile

era la guerra. Se consideriamo le leggi speciali, le limitazioni ai diritti umani, l’accettazione delle carceri speciali e delle “reddicion”, come sono stati definiti

i rapimenti di possibili nemici anche in territorio straniero, si ha un esempio di

quanto certe manipolazioni non cambino solo la mentalità della gente, ma

costituiscano un vero e proprio mutamento culturale.

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Anche la commissione Creel organizzata da Wilson era formata da

progressisti. Lo erano sia Lipmann che Bernays, pur se su linee

completamente diverse, attraverso una visione quasi opposta del liberismo.

Per Bernays il popolo doveva essere manipolato da persuasori che dovevano

rimanere occulti, e che individuava nel mondo degli affari. Anche per Lipmann il popolo doveva essere manipolato, ma da un’élite politica che prendesse a

cuore le sorti dei cittadini americani e potesse fare, per conto loro, le scelte

migliori. Entrambi; non ancora trentenni (uno era nato alla fine del 1889,

l’altro nel 1891), parteciparono poi alla conferenza di pace di Parigi nel 1919, in cui vennero definiti nuovi confini all’interno dell’Europa.. Lipmann era stato

tra l’altro incaricato dal presidente Wilson di redigere i 14 punti del

Programma di pace per la firma dell’Armistizio e collaborò in seguito alla

stesura dell’accordo della Lega delle Nazioni, quella che poi diventerà l’Onu. Il differente modo di affrontare il problema della propaganda da parte di

Lippmann e di Bernays ebbe un seguito a livello mondiale. Da una parte

Lipmann trovò come estimatore Lenin, che applicò alcune delle sue teorie per

costruire l'Unione Sovietica; dall'altra Bernays ebbe come massimo

estimatore Joseph Goebbels, il quale, da ministro della propaganda di Hitler, si basò proprio sui principi di Bernays per convincere i tedeschi del principio

della purificazione della razza che avrebbe portato all'Olocausto.

Sia Lippmann che Bernays dominarono, nei rispettivi campi, lo scenario

americano fino a oltre gli anni '70. Il primo nel campo dell'informazione: si diceva che i confronti televisivi da lui condotti tra i candidati alla Casa Bianca

determinassero la scelta degli americani. Il secondo nel campo della

pubblicità e delle relazioni pubbliche. Le regole in questi settori da lui dettate

sono tuttora in vigore, e si sono estese anche al campo politico con la nascita dei cosiddetti spin doctors, costruttori di immagine, cui fanno ricorso non solo

politici, ma anche personaggi dello spettacolo o dello sport per ottenere il

consenso popolare.

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Bernays e la Scuola del Consumismo

I primi esperimenti (e affari di grande successo) di Bernays furono con

l'industria del tabacco: progettò un modello pubblicitario per l'Associazione

dei medici americani – da lui creata - che durò quasi 50 anni “dimostrando” che il fumo faceva bene alla salute. Convinse le suffragette che la sigaretta

fosse il simbolo dell'emancipazione femminile, mandando in sfilata nella

tradizionale sfilata di Pasqua nel 1929 una ventina di debuttanti con la

sigaretta accesa (allora le donne che fumavano in strada venivano arrestate), in una manifestazione dal titolo “le torce della libertà”, con riferimento

esplicito alla statua della Libertà. Una operazione che comunque servì, oltre

che ad aumentare i rischi cardiaci e tumorali anche nelle donne, ad aprire per

queste spazi di libertà fino ad allora sconosciuti. Spinse le case produttrici di tabacco a finanziare Hollywood facendo in modo che gli attori, nei film,

avessero sempre una sigaretta in mano. Bernays è anche il primo

responsabile dell'obesità americana: è sua, infatti, l'invenzione del bacon a

colazione, su mandato degli allevatori di maiali americani, allora una vera e

propria potenza economica. Ed è sempre suo il rilancio del concetto di Machiavelli secondo cui un messaggio, anche menzognero, purché ripetuto centinaia di volte diventa verità e crea l'influenza voluta su grandi

masse di persone. Un principio ben utilizzato dalla propaganda nazista e non

solo. Oggi menzogna, strumentalizzazione, separazione del fatto dal contesto,

occultamento della verità, utilitarismo e opportunismo della comunicazione

fanno parte del linguaggio comune della politica e mediamente accettato dal

cittadino il quale, ormai, più che comprendere, “consuma” il messaggio sulla base delle proprie emozioni, percezioni e bisogni indotti, E non è ancor nato,

come accadde subito dopo Machiavelli, un monsignor della Casa che, con il

suo “Galateo”, cercò di insegnare ai principi e potenti, se non altro, una

educazione e una moderazione quantomeno formali.

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D'altra parte i principi su cui si basavano le teorie di Bernays hanno ben

poco di democratico. Secondo il suo libro “Propaganda”, che va letto come

messaggio politico, “il pensiero, nel senso stretto del termine, non ha posto

nella mentalità collettiva, guidata dagli impulsi, dalle abitudini e dalle

emozioni”. Le “pulsioni”, appunto, studiate dallo zio Sigmund Freud. L'assioma di Bernays fu: ”Controlla le masse senza che loro lo sappiano”, in

quanto il popolo è “un gregge che ha bisogno di venire guidato”.

Per lui la propaganda era l'organo esecutivo di un governo invisibile, e

doveva servire per “irreggimentare le menti dei cittadini in modo simile a quanto avviene per i soldati di un esercito”. Una cosa, diceva negli anni Venti,

che “promette molto bene per il futuro”. Sulla base delle sue tecniche,

teorizzava che vendere una automobile o un candidato alla presidenza

fossero la stessa cosa. E tuttavia, negli anni più maturi, prestò la sua opera contro il Ku-Klux-Klan e contro l’apartheid, per la libertà degli americani di

colore. Morì a 103 anni, senza riuscire a realizzare l’ultimo sogno: quello di

dotare il giornalismo d’azienda, assieme ad una deontologia a se stante,

anche di un riconoscimento statale che lo regolamentasse.

Nel frattempo, la sua lezione aveva trasformato non solo il mondo della pubblicità, ma anche quello industriale, finanziario, della comunicazione e

della politica, seminando in questi ultimi due mine la cui pericolosità

continuiamo a verificare ancora oggi, a quasi cento anni di distanza. Anzi,

oggi i suoi inganni basati sulle debolezze umane, a forza di essere ripetuti, sono diventati verità, quindi cultura di massa, Naturalmente senza che la

massa se ne renda conto, visto che il principio base di Bernays era proprio

questo: creare una guida occulta di cui il popolo non doveva avere neppure la

percezione.

Emozioni, Percezione, Tecnologia

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Le linee guida erano poche e semplici. Primo, la psicologia delle masse non

deve essere basata su fatti, ma esclusivamente su emozioni, perché i fatti

hanno bisogno di essere dimostrati, mentre le emozioni vengono solo

percepite. Secondo punto, la tecnologia, con tutti i nuovi mezzi che metteva a

disposizione, andava recepita come una vera e propria religione.

Già questi punti portavano ad una conclusione: se le masse, seguendo le

analisi di Gustav Le Bon nel suo “Psicologia delle folle” passate attraverso il setaccio di Freud, non erano capaci di formulare pensieri razionali, essendo

spinte dalle emozioni, e per questo bisognava lavorare solo sulle emozioni,

allora il significato di democrazia come controllo del popolo era pericoloso.

Era necessario quindi dare la percezione di una democrazia solida ma, senza che il popolo lo sapesse, lasciarne il controllo ombra solo agli esperti, vale a

dire al mondo della finanza e degli affari, vendendo al popolo un’illusione.

Questo principio valeva naturalmente non solo per la politica, ma per tutto il

campo delle “vendite”: dalla finanza allo spettacolo, dagli alimenti alla sanità,

dai prodotti industriali ai prodotti dell’intelletto. Quindi il soggetto in vendita al consenso popolare, sia un politico che una saponetta o un trattore o una

rock-star non doveva essere visto come sostanza, ma solo come immagine.

Ecco che l’essenza di una cosa o di una persona scompare di fronte

all’apparenza. Per creare un’immagine, le parole vanno scelte con cura. Ogni campo specifico ha parole da usare e parole proibite, perché creano

immagini negative. Utilizzare al massimo i luoghi comuni, che si trovano già

nell’inconscio accettato. Semplificare e ripetere. Mai usare chiaramente una

bugia facilmente dimostrabile, ma insinuarne l’immagine. Bernays, pur se non condivisibile, fu un vero genio della comunicazione.

Nella sua carriera, lunga, densa e miliardaria, creò decine di associazioni con

titoli altisonanti, in tutti i campi possibili: industria automobilistica, clima,

biologia, medicina, qualsiasi cosa gli fosse utile nei suoi affari. Funzionarono

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da cosiddette “terze parti”, ufficialmente indipendenti, per avvalorare le sue

iniziative. Per comprendere l’uomo e il suo progetto basti un suo slogan:

“Non esistono i cittadini, esistono i consumatori”. Quando nel 1929 fu

eletto il presidente Herbert Hoover, promotore del consumismo come spinta

motrice della vita americana, Bernays era al suo fianco per l’inaugurazione dei grandissimi festeggiamenti nel 50mo anniversario dell’invenzione della

lampadina, in onore di Thomas Edison. Era stato proprio il nipote di Freud

ad organizzare quei festeggiamenti, su incarico dei giganti dell’ elettricità, la

General Electic e la Westinghouse. Già allora era il pubblicitario più noto e pagato d’America.

I pericoli degli Stereotipi e del Pregiudizio

Diverso l’approccio di Walter Lippmann. Quello che per Bernays era lo

strumento principe già utilizzato dal popolo, e quindi facilmente

strumentalizzabile, il luogo comune, per Lippmann era un problema da

capire e da risolvere. Nel suo libro “L’Opinione pubblica” affrontò il tema

degli stereotipi all’interno delle scienze sociali. Propose per primo la necessità di studiare l’influenza dello stereotipo e di capire quali meccanismi

presiedevano alla sua formazione. La sua tesi era che si trattasse della

costruzione semplificata e distorta di una serie di immagini per ridurre alla

nostra comprensione una realtà sociale per noi difficile da spiegare. Lo stereotipo può essere di due tipi generali: uno è il cosiddetto luogo comune, vale a dire la versione semplificata e condivisa (comune, appunto,

a persone dalle stesse caratteristiche) su un fatto, un luogo, un oggetto, una

circostanza. L’altro è l’accezione in termini negativi, quindi pregiudizievoli: in questo caso si trasforma in pregiudizio, che rimane pur sempre un luogo

comune. Può riguardare etnia, sessualità, politica, professione, nazionalità,

religione. In genere è di gruppo contro gruppo, ma è anche culturalmente

singolare in quanto viene espresso da un individuo, pur se fa parte di un

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gruppo. Lo stereotipo provocato dal pregiudizio nasce in genere dalla paura

del diverso e dalla approssimazione e superficialità con cui scegliamo di (o

siamo costretti per nostre carenze a) affrontare l’argomento.

Singolare per Lippmann, che era un giornalista, il fatto che il termine

stereotipo fosse stato inventato da un tipografo, Firmin Didot, per indicare una piastra di metallo con lettere o una immagine che doveva essere

replicata più e più volte sulla carta stampata. In linguaggio tipografico veniva

usato anche il termine cliché, che poi nel linguaggio comune aveva lo stesso

significato. Per Lippmann lo stereotipo era uno strumento dannoso, in quanto veniva

utilizzato da gruppi in difesa dei propri interessi. E tuttavia non riuscì a trovare

una soluzione a livello sociale. La sua proposta, alla fine, fu di creare gruppi

di esperti, con la mente sgombra da pregiudizi, che avrebbero dovuto essere chiamati a risolvere le controversie. Una soluzione individualista ad un

problema che già allora era sociale. E tuttavia il fatto che si ponesse il

problema dal punto di vista etico faceva già la differenza.

Oggi, quasi un secolo dopo, il mondo dello stereotipo e quello della ricerca di

comprensione dell’altro ancora si affrontano. Lo stereotipo viene utilizzato, spesso travestito da politicamente corretto, per rafforzare l’identità di gruppo,

il noi e il loro, e Bernays ha indicato ai vari sistemi di potere come usarlo a

proprio vantaggio in politica, negli affari, nel commercio, nelle amicizie, nel

lobbysmo. Attraverso le moderne tecnologie usate dalla comunicazione crea opinioni che, grazie alla pigrizia mentale del gruppo, si trasformano in verità.

Preferiamo generalizzare piuttosto che sforzarci di capire e accettare le

differenze.

E’, in realtà, una delle tante facce del nichilismo, oggi leggibile attraverso la trasformazione nel “Qui e Ora (vedete come si torna sempre ai temi dello

Spazio e del Tempo?). Ma anche utilizzando quello scontro tra contrari o, più

spesso, sulla linea del politicamente corretto, tra uguaglianze, che serve ad

annichilire la verità. Se la tua è un’opinione e la mia è un’opinione, allora

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esse si equivalgono e una verità comune non può esistere. Così il mondo si

trasforma nello stereotipo tipografico: ognuno ha la sua immagine rigida che

può replicare a piacere, creandosi una propria realtà e annullando le realtà

altrui. Se tutto è mafia, niente è mafia e quindi la mafia non esiste. Se tutti i

valori hanno lo stesso valore, allora i valori scompaiono, o comunque non hanno più senso.

E tuttavia, secondo le regole del paradosso, senza il Pregiudizio che crea lo

Stereotipo, non saremmo in grado di valutare una Società, una Cultura, a

volte semplicemente un Gruppo, e quindi di accettarlo e inglobarlo nel nostro patrimonio di conoscenze. Quante volte ci troviamo a dire: “A pelle mi

sembra…:”, “La prima impressione…”. Sono i nostri sensi e le nostre

emozioni a parlare. Il sistema corporeo di trasmissione delle informazioni che

il corpo raccoglie e invia al cervello, incaricato di elaborare. Ed è su questo che si stabilisce uno stereotipo generico, che utilizziamo poi a livello statistico

per procedere oltre sul giudizio. Senza questo meccanismo preventivo non

saremmo in grado di valutare. Come si vede, siamo sempre in un inframondo

instabile, e la scelta su come procedere resta a noi.

Vedremo, in un prossimo incontro, come questi strumenti di manipolazione valgano, paradossalmente, anche per i nuovi media, nonostante questi

abbiano caratteristiche completamente diverse dai media tradizionali. Mentre

questi ultimi, infatti, non contemplano l’interattività, ma sono solo a direzione

unica, i nuovi strumenti del comunicare, in questo caso la Rete, hanno un rapporto bidirezionale con i suoi utenti. Questo vale per tutte le espressioni

che compongono il labirinto del Web, dai suoi social network, ai blogger, dagli

archivi infiniti immediatamente raggiungibili ai suoi utenti diversi, di razze

diverse, con lingue e mentalità diverse, geograficamente irraggiungibili ma virtualmente presenti, fino a una intelligenza connettiva che si sta

trasformando in collettiva. La Rete, in pratica, ha un controllo continuo e

totale da parte dei suoi utenti, che sono gruppo ma nel contempo individui,

che non solo assistono ma anche partecipano e, quindi, costruiscono il

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dialogo e lo scambio. La Rete, quindi, dovrebbe provvedere da sola agli

anticorpi che sono chiamati a difenderla, così come l’antivirus si oppone ai

virus degli hackers.

E tuttavia, visto che, usando le parole di McLuhann, “il mezzo è il

messaggio”, e che il messaggio è permeabile, allora qualsiasi mezzo diventa permeabile. Solo che, anche se il principio e i fini della manipolazione restano

identici, le tecniche sono diverse. Molti più raffinate, ma anche molto più

veloci, pervasive e, soprattutto, convincenti. Come diceva Bernays, “senza

che la gente se ne renda conto”. Vedremo quali sono i mezzi di manipolazione e come vengono usati. E perché sia possibile che la gente

non se ne renda conto. Sono i problemi della “Società Liquida” di Zigmunt Bauman, sociologo e filosofo polacco, che caratterizza il nuovo millennio.

Controllata attraverso lo stimolo più antico: la paura.

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ISTITUTO SUPERIORE UNIVERSITARIO DI SCIENZE

PSICOPEDAGOGICHE

“PROGETTO UOMO”

Affiliato alla Pontificia Università Salesiana

SOCIOLOGIA DEI PROCESSI CULTIRALI E COMUNICATIVI

Docente Andrea Santini

Appunti / 4 del 6/04/2017 e 10/5/2017

Continuiamo a seguire il modello che abbiamo imboccato fin dall’inizio dei nostri incontri. Un panorama sintetico del contesto attuale, con gli equilibri, i disequilibri e le crisi; qualche salto all’indietro per vedere da dove siamo partiti per arrivare all’oggi, cercando possibili similitudini; un percorso a tappe per segnare gli snodi neurali (in questo caso politici, economici e culturali) con cui abbiamo costruito il sentiero e le chiavi di volta con cui lo abbiamo sostenuto, per tornare quindi all’oggi con gli strumenti di comprensione necessari per capire il tipo di architettura che abbiamo messo in piedi e trarne le conseguenze per immaginare il futuro. Vale a dire il tipo di modello utilizzato dalla nostra mente per riconoscere la realtà che siamo riusciti a materializzare.

Stiamo parlando della globalizzazione, ovvero il concetto che sta alla base di questo strano pianeta in cui ci troviamo a vivere, che non è il pianeta d’origine dei nostri padri, nonni e bisnonni, anche se hanno attivamente lavorato a costruirlo in questa realtà in cui voi, le nuove generazioni, siete nate. Cerchiamo quindi di osservare le generazioni precedenti alla vostra come migranti in una realtà che loro stessi hanno originato, ma alla quale, sulla base delle loro origini, rimangono estranei, pur portandone sulle spalle le colpe, e osserviamo questa globalizzazione. Con cautela ma, da parte vostra, con libertà di giudizio, dato che non siate responsabili di quello che è, ma dovrete diventare responsabili di quello che sarà.

Primo impatto, un aspetto di cui abbiamo già parlato: un mondo di razze diverse, di culture diverse, di credenze e religioni diverse, ma in cui le nuove tecnologie della comunicazione hanno annullato spazio e tempo. Un mondo in cui possiamo dialogare in tempo reale con un amico che si trova sull’altra faccia del pianeta, in una lingua comune fornita da un traduttore meccanico (sia scritto che vocale), aggiungerlo alla nostra cerchia di amici (o noi alla sua) senza averlo mai conosciuto e senza porci il

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problema di comprenderlo a fondo (vi ricordate di Pirandello?) accontentandoci di un rapporto superficiale e fondato sull’apparenza e di un numero di parole semplificato al massimo. Un mondo in cui pubblicità e propaganda si sono ormai fusi in maniera pressoché indissolubile, creando una ingegneria della comunicazione e della persuasione composita e difficile da districare, che ci mostra realtà altamente desiderabili, dandoci l’impressione che siano anche raggiungibili. Un mondo in cui le disuguaglianze ormai costituiscono baratri invalicabili, le povertà sono sempre più abissali e le ricchezze sempre più stratosferiche, un mondo in cui il numero dei poveri aumenta assieme alla profondità del pozzo della loro povertà, mentre il numero dei superricchi, pur diminuendo, aumenta a dismisura in quanto a ricchezze. Un mondo in cui il concetto di povertà è relegato al calcolo quantitativo, visto che la povertà, equivalendo a zero, si può misurare solo col numero degli uomini, mentre per i ricchi il calcolo diventa qualitativo, vale a dire esamina la qualità delle loro ricchezze, riproducendo lo schema di calcolo del mondo antico: gli uomini (i padroni), e gli animali (gli schiavi).

Effetto della globalizzazione, e quindi realtà non più ritoccabile? Zygmunt Bauman (abbiamo concluso il precedente incontro con Bauman e la Paura – “Il demone della paura”, Ed. Laterza - Repubblica 2014 -, e riprendiamo quindi con Bauman e la Povertà, in “La solitudine del cittadino globale”, Feltrinelli 2000, 2008, 2017, pg 177/79) sostiene di no. La sua tesi è terribile: non è la globalizzazione in se stessa a produrre questi effetti, ma è il tipo di globalizzazione che abbiamo scelto di costruire, vale a dire il “Come”, che ha bisogno, per coprire effetti devastanti che colpiscono soprattutto le nuove generazioni, della povertà come deterrente di paura. In pratica, il meccanismo di precarietà che tiene in piedi Architetture come la delocalizzazione, con la ricerca del minimo onere di lavoro da pagare, e la necessità di trovare luoghi territoriali privi di ricchezze che hanno bassa fiscalità da ricattare concedendo loro un obolo fiscale che spesso supera il normale guadagno degli abitanti, ha bisogno di una comunicazione che mostri il più possibile l’immagine della povertà nei suoi vari aspetti (e anche i migranti che muoiono in mare sono uno di questi aspetti), per poter fare accettare al mondo giovanile una precarietà di lavoro, di istruzione e quindi di cultura, che appare sempre preferibile alla povertà e alla morte. Così come per chi ha un reddito statale molto basso, la fiscalità pur minima della grande multinazionale è sempre preferibile alla paura del niente e della povertà. Come è stato possibile questo? Semplicemente degradando il modello politico, figlio di una logica deontica, vale a dire dei doveri, quindi razionale e prescrittiva in nome del bene comune, e sostituendolo con un modello economico dal nome accattivante: Mercato. Ovvero il luogo dove vive una logica ontica, figlia del corpo, dei suoi desideri e dei suoi piaceri individuali. Secondo i termini della antica filosofia greca, Apollo viene venduto schiavo a Dioniso. La politica diventa serva dell’economia, ribaltando tre millenni di storia e di cultura. Vediamo come-

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Globalizzazione come Modello planetario

Quando si parla di Globalizzazione bisogna prima di tutto trovare un’intesa sul significato della parola stessa. La traduzione in termini concettuali, intanto, varia a seconda del contesto. Prima del crollo del blocco sovietico, ad esempio, il termine evocava una serie di significati che ora non hanno più corrispondenza con la realtà, anche se sono rimasti nella storia, nella memoria. In un regime in cui il mercato era in mano alle finanze di Stato, e quindi non era corretto parlare di “economia di mercato”, l’immaginario che derivava dalla parola assommava una serie di concetti diversi: potere, masse, condivisione, collaborazione, cultura, scambio, tanto per citare alcuni elementi. Ma anche controllo, quindi rischio di perdita di controllo, e di concerto maggior censura, insicurezza del potere, necessità di strumenti più efficaci per mantenerlo, culture estranee e quindi pericolose maggiormente accessibili, eccetera. L’elenco, a voler proseguire, sarebbe molto lungo, ma quello che ci basta sapere, adesso, è che a diversi immaginari, che hanno origine in contesti politici e sociali diversi, corrispondono diverse narrazioni e diversi comportamenti.

In una situazione concorrenziale alla prima, in cui invece la liberalizzazione del mercato aveva portato al dominio del mercato stesso sull’economia, e di conseguenza al dominio di quest’ultima anche sul sistema da cui scaturiva la politica, la globalizzazione veniva invece intesa come estrema opportunità, allargamento di mercati, possibilità di ampliare la produzione e quindi il guadagno e il potere economico, possibilità di accedere non solo a nuovi mercati, come il terzo mondo, e quindi a nuova forza lavoro molto più economica e in grado di produrre guadagni estremamente rilevanti rispetto all’epoca precedente. Questo, influendo sull’immaginario incaricato di concretizzare le possibilità e le probabilità in progetti, quindi di ingenierizzare i comportamenti, provocava un effetto che entrava inevitabilmente in contrasto con quello della situazione di cui abbiamo parlato all’inizio. Se da quella parte la spinta era alla chiusura e al controllo, da quest’altra la spinta era all’espansione e alla massima deregolamentazione: non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista culturale e politico. Vale a dire che, all’esportazione delle produzioni in nuovi mercati, doveva corrispondere anche l’esportazione di una cultura e di un sistema politico che rendesse omogenei e coerenti con gli obiettivi prefissi anche i nuovi mercati.

Un meccanismo le cui connessioni si sono rivelate in tutta la loro complessità e pericolosità nel momento in cui il sistema sovietico è crollato sotto il peso di una economia inefficace a sostenere l’attacco della concorrenza, e gravata da problemi di corruzione, inefficienza, errori e faide interne, oltre che dalle contestazioni dei Paesi satelliti. Se fino a poco prima gli equilibri, anche se in modo sbilanciato, continuavano a tenere ed a costringere l’altra parte a regole e prudenze in modo da evitare uno scontro dal risultato comunque non prevedibile, il collasso di uno dei due

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maggiori contendenti ha reso l’altro completamente padrone del campo mondiale, consentendo l’accumulo di ricchezze private come mai, nella storia umana, era accaduto.

Difficile pensare che Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, o Steve Jobs, fondatore di Apple, pur essendo geniali, abbiano posseduto, a livello ingegneristico, capacità superiori a Leonardo Da Vinci o, a livello creativo, a Michelangelo. Eppure, con una sola idea, anche se poi elaborata e mantenuta viva, hanno accumulato ricchezze e quindi potere economico, culturale e politico che i due geni del Medio Evo non sarebbero riusciti ad accumulare neppure in mille vite. E dovrebbe essere sufficiente questo a delineare lo squilibrio della realtà che stiamo vivendo.

Già così la situazione diventava sufficientemente complessa. Ma bisogna considerare che questa descrizione contiene solo una parte del problema, cui dobbiamo aggiungere altri due partecipanti: i Paesi poveri, destinatari delle delocalizzazioni, e una terza grande potenza, la Cina, anch’essa con una finanza sotto il controllo dello Stato, ma dotata di un gigantismo che, dopo le prima incertezze (le censure di Google e dell’informazione globale come prima cosa) ha capito che il controllo di tutto il patrimonio nazionale le offriva possibilità tali da poter entrare tranquillamente in concorrenza con i patrimoni liberali ma divisi dell’occidente. Potremmo definire questo atteggiamento il sistema “Casinò”: quando il banco ha una cassa talmente piena da poter raddoppiare all’infinito, il banco vince sempre.

Quindi, per la Cina, la globalizzazione ha investito un immaginario in cui, da una parte, c’erano gli elementi di chiusura comuni con l’Unione sovietica; dall’altra, gli elementi di spinta all’espansione comuni con i Paesi ricchi governati da democrazie liberali o socialdemocratiche. I primi li ha saputi risolvere aprendo le porte al mercato proveniente dalle delocalizzazioni occidentali, e approfittando di queste per generare nuove opportunità di lavoro che sono andate ad occupare soprattutto le sacche di miseria, quindi risolvendo un problema che senza questo aiuto occidentale, non sarebbe riuscita a risolvere, quantomeno negli stessi tempi. Dall’altra ha approfittato dell’occasione per ampliare la propria offerta di istruzione, per migliorarla, per creare nuove e più capaci professionalità con cui aggredire i nuovi mercati che si presentavano.

Nello stesso contesto ha aperto uno spiraglio consistente all’iniziativa privata, consentendo l’accumulo di ricchezze che potessero far da ponte verso l’estero, con acquisizioni e partecipazioni, in modo da non apparire invadente, ma utilizzando esclusivamente i sistemi del capitale privato occidentale e inserendosi nel mercato globale attraverso alleanze. A livello più basso ha facilitato (spesso semplicemente per omissione, non impedendo l’espatrio organizzato dalle mafie cinesi, che poi ne mantenevano e ne mantengono il controllo all’estero) della parte meno abbiente, la quale ha opportunità di rifarsi una vita all’estero, essendo nello stesso tempo “rete” controllata da organizzazioni criminali o comunque para-legali. E, quindi, ha

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alleggerito in patria il peso che grava sui sistemi assistenziali e l’impegno finanziario derivante dalla necessità di massimo controllo. L’allargamento dei bacini di ricchezze e di libertà, in connessione con la liberalizzazione degli espatri, alleggerendo il problema di una popolazione numericamente “invadente”, pur controllata dalla regola di “un solo figlio”, ha consentito di ampliare gli spazi di discrezionalità, ad esempio sul numero dei figli, alleggerendo contemporaneamente le tensioni sociali.

Un immaginario ancora diverso riguardava i Paesi poveri. Da una parte la Globalizzazione significava sfruttamento, dall’altra significava lavoro e opportunità. Il cosiddetto Terzo Mondo, in realtà, è ancora in mezzo al guado, e solo pochi sembra abbiano le possibilità di uscirne. Tra questi, stanno avanzando i grandi continenti, soprattutto India e Brasile, che hanno saputo approfittare della riduzione delle povertà per investire nella scolarizzazione, mentre gli altri sembrano condannati a mantenere lo status di Paesi fornitori di schiavi di un lavoro sempre più robotizzato e alienante. In pratica, il Terzo Mondo, che contemplava nelle statistiche i Paesi in via di Sviluppo, sta scindendosi per formare un Quarto Mondo di disperati. I quali, e si sta vedendo soprattutto nel continente africano, non trovano altro modo per tentare di uscirne che la protesta rivoluzionaria, come in altre lontane epoche camuffata spesso da crociata religiosa.

Quindi: Globalizzazione c’è, e Globalizzazione sia. Ma quale?

E, soprattutto, con quali strumenti culturali condivisi, nel momento in cui sono coinvolte parti che della globalizzazione hanno concetti interpretativi diversi e che questi, inevitabilmente, portano a comportamenti diversi?

Sui vocabolari solo il riferimento economico

I dizionari non ci aiutano gran che. Al termine Globalizzazione, come primo capoverso troviamo il riferimento economico: “Processo economico di integrazione dell’intera economia mondiale in un unico mercato, con conseguente superamento delle barriere nazionali” (Hoepli).

Se consultiamo l’enciclopedia Treccani, che dedica all’argomento ampio spazio, vediamo come prima cosa l’analisi del termine, e l’indicazione, per raggiungere la definizione, di un “insieme”: “Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo”. Quindi, subito, la globalizzazione dei mercati. Che riassumiamo stralciando: “Fenomeno di unificazione dei mercati a livello mondiale, consentito dalla diffusione delle innovazioni tecnologiche, specie nel campo della telematica, che hanno spinto verso modelli di consumo e di produzione più uniformi e convergenti”. Poi prosegue

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con una serie di asserzioni: “..progressiva e irreversibile omogeneità dei bisogni (non usa il termine “indotti”, ndr)…conseguente scomparsa delle tradizionali differenze tra i gusti dei consumatori…. Rilevanti economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing dei prodotti…strategie uniformi dell’impresa che opera in un mercato globale.” eccetera eccetera.

Torniamo a un dizionario semplificato. Dopo una breve ricerca, il più corretto, anche rispetto alle date, ci appare il dizionario online delle Edizioni Giuridiche SimonE, il quale cerca di semplificare attraverso un riferimento preciso. Dice: “Il termine deriva dall’espressione Villaggio Globale, coniata dal sociologo Marshall McLuhan (1911-1980), il quale concepiva il mondo, nell’era dei consumi e della comunicazione di massa, come un enorme villaggio in cui le informazioni si trasmettono in tempo reale. Per globalizzazione si intende, dunque, lo sviluppo su scala mondiale di relazioni economiche, politiche, sociali e culturali. Anche se usato per designare le straordinarie interconnessioni fra le economie di tutti i Paesi del mondo, oggi ha acquistato un significato più ampio, che comprende anche il contesto politico e la dimensione sociale della realtà in tutti i suoi aspetti”.

Tutti si trovano concordi su alcuni punti e, sulla base della loro cultura, interesse o specificità, ne decidono la collocazione privilegiata:

1) la Globalizzazione è la grande novità della realtà moderna ed ha, almeno negli aspetti che possiamo osservare nel nostro contesto storico, non più di mezzo secolo di vita, (in realtà, se consideriamo la data finale della Grande Guerra, 1918, con la nascita del prepotere americano, siamo alle soglie di un secolo, anche se gli strumenti definitivi devono vedere ancora due tappe: la deregolamentazione di Ronald Reagan e il crollo del sistema sovietico) è giovane e sta ancora crescendo, modificandosi e accumulando elementi positivi ed elementi negativi, come sempre accade a ciascuno in fase di crescita, come è accaduto dopo la scoperta dell’elettricità;

2) la Globalizzazione poggia principalmente su tre elementi: le nuove tecnologie, la conseguente libera circolazione a livello mondiale di informazioni, il denaro (potremo anche dire la finanza) come fattore non sempre necessariamente legato alle merci;

3) la Globalizzazione sta provocando effetti, di tipo culturale, sociale ed economico e politico, che stanno cambiando la nostra realtà, con conseguenze che ancora non siamo in grado di misurare, dato che sono tuttora in atto e ancora non riusciamo a trovare un accordo su una visione di insieme. Una cosa appare chiara a tutti: i tempi per trovare nuove spinte agli elementi positivi che vi riconosciamo e un rimedio agli elementi negativi è breve, il rischio di crisi a catena grande, e non è certo che lo sviluppo che riusciremo a trovare non provochi disastri ancora più grandi.

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Il Villaggio Globale di McLuhan

Tentiamo un breve riepilogo delle puntate precedenti, contestualizzato a ciò che sta accadendo adesso. Il sociologo canadese Marshall McLuhan ha avanzato la sua ipotesi di Villaggio Globale negli anni 60 del secolo scorso, un’epoca per noi lontanissima. La televisione (rigorosamente in bianco e nero), era appena arrivata, Internet apparteneva ancora a studi segretissimi in campo militare, le persone comunicavano per posta o per telefono, il tempo e lo spazio erano luoghi diversissimi da quelli che conosciamo adesso, nonostante fossero già stati definiti i crismi del cambiamento sia a livello filosofico (Immanuel Kant) che scientifico (Einstein e le due teorie della relatività), ed elaborati dai loro allievi e da altri studiosi. Basti pensare che il treno a vapore nasce e si espande solo un secolo prima, e la determinazione del tempo come elemento uguale per tutti (funzionale ai treni che si spostavano sia in Europa che in America su lunghissime distanze, ed erano strategici rispetto alle guerre che si stavano combattendo, in quanto servivano a spostare armi e uomini attraverso spazi il più vasti possibile nel minor tempo possibile) viene trovata per convenzione a fine 1800. Quindi pochi anni prima che Einstein rivoluzionasse sia tempo che spazio, unendoli in un unico elemento. E, sempre a fine ‘800, lo abbiamo già visto, risale anche l’accordo sulle misure, con metro e centimetro universale, in modo che, misurando gli spazi in modo identico, potessero essere disegnate mappe uguali per tutti.

McLuhann (Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore 1964; La galassia Gutemberg: nascita dell’uomo tipografico, 1976) descrive il nuovo mondo che avanza come una “estensione del nostro sistema nervoso centrale fino a farlo diventare un abbraccio globale, abolendo limiti di spazio e tempo”. I nuovi mezzi di comunicazione di massa, coinvolgendo i nostri sensi, con vista e udito, si trasformano essi stessi in messaggio. Questi messaggi, a seconda che coinvolgano o meno il nostro cervello, spingendoci all’elaborazione o sottraendoci la riflessione, sono freddi – stimolano il pensiero – o caldi – ci spingono a non pensare -, e vedremo più avanti quanto sarà importante questa scoperta con la nascita di Internet e la costruzione dell’hardware dei computer. Più avanti il suo allievo De Kerkhove, padre della “conoscenza connettiva” identificherà questi mezzi come “cornici del cervello” (Brainframes: mente, tecnologia, mercati, Baskerville 1993), quindi in grado di modificare il quadro, e Pierre Lévy, filosofo francese (L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del Cyberspazio, Feltrinelli 1996, 2002), diventerà il padre dell’Agorà, la sede virtuale destinata al dibattito sulla democrazia digitale diretta, che ha avuto forte eco alla nascita del movimento politico 5 Stelle e di altri movimenti di forte protesta in Spagna, Grecia, Europa del Nord, e che ora comincia a mostrare i suoi problemi. Proprio Pierre Lévy è stato il primo ad identificare il

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cambiamento profondo che la Rete stava provocando nel concetto di spazio e di tempo.

Lo Spazio, il Tempo e la globalizzazione.

In fondo, ridotta all’osso, la globalizzazione è prima di tutto un problema di tempo e di spazio, e di come il concetto viene interpretato. Domenico De Masi, sociologo del lavoro, nel suo ultimo libro (Mappa Mundi, Rizzoli 2014) ha voluto analizzare il fenomeno dal punto di vista culturale ma anche antropologico, e gli ci sono volute quasi 900 pagine. Il problema è che, attraversando tempo, spazio e culture, si perdono i riferimenti e il senso delle parole. Soprattutto attraverso l’ottica di una cultura del lavoro che, alla fine del circuito, comprende anche il consumatore in qualità di terminale avvertito e coinvolto, il quale, scrive De Masi citando il filosofo Habermas, “viene colonizzato”. I soggetti di questo sistema perdono collocazione territoriale, identità culturale, riconoscibilità finanziaria, identificabilità responsabile eccetera: insomma, tutti i parametri si confondono, e così anche la mente umana, sia che li serva sia che ne sia l’obiettivo.

Pensiamo ad un oggetto progettato in una città di una nazione – esemplifica De Masi - costruito, nei suoi componenti, in altre città di una diversa nazione, assemblato in un altro continente, venduto da una società che non è più quella da cui parte il progetto ma una sua derivata, attraverso una rete di vendita che fa capo ad altre società distribuite nei che offrono condizioni migliori, fatturato da società che collegate che si trovano in paradisi fiscali, consegnato attraverso altre società ancora che hanno i loro depositi nei vari Paesi dove poi la consegna deve essere effettuata e dove i lavoratori risultano solo magazzinieri, con un cliente che, se insoddisfatto, si trova a protestare con un Call Center situato in India o in Romania o dovunque i salari siano bassissimi, ai cui telefonisti siano state insegnate risposte preconfezionate da salmodiare senza accento, in modo da non poterne identificare la collocazione territoriale. I dipendenti polverizzati in varie nazioni e in varie società non potranno mai allearsi in una lotta o contrattazione o semplicemente colloquio nei confronti della società madre, il cliente, spedito verso Call Center irresponsabili e delocalizzati, non avrà mai soddisfazione, o dovrà comunque accontentarsi della risposta che riceve.

In questo nuovo percorso spazio-temporale, noi abbiamo perduto l’epistemologia, termine proveniente dall’antica Grecia, che riguarda condizioni e metodi attraverso i quali possiamo raggiungere una “conoscenza certa”, visto che chi in realtà ci vende il prodotto, attraverso tutto questo sistema di snodi e di deviazioni, è riuscito a nascondere la sua ontologia, sempre termine che deriva dal greco antico, che significa la propria essenza, vale a dire identità e responsabilità fisica. Che è riferito

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naturalmente alla persona umana ma che, nella nuova filosofia delle tecnologie, delle burocrazie e degli enti, e nelle disumanizzazioni che ne derivano, ben si adatta anche ai meccanismi economici della globalizzazione.

Ho scelto due termini che derivano dal greco perché proprio i greci furono i primi protagonisti di un tentativo di unione di varie culture, razze, religioni, regni e territori andato, anche se per un periodo breve, a buon fine. Naturalmente il termine breve è guardando con la nostra ottica moderna, mentre allora tempi e mezzi di trasporto avevano ben altra valenza. E quindi va loro accreditata una certa esperienza.

Protagonista fu il macedone Alessandro Magno, allievo del filosofo Aristotele, a sua volta discepolo di Platone che fu studente di Socrate. Alessandro, ancora non arrivato a compiere trent’anni, aveva messo insieme un impero vastissimo. Figlio di Filippo, re di Macedonia, nato nel 356 a.C, morirà a Babilonia un mese prima di compiere 33 anni. Nel frattempo aveva conquistato la Grecia, le sue colonie, i Balcani orientali, l’immensa Persia, il potente Egitto, fino a Babilonia e Gerusalemme. Poi l’attuale Afghanistan, l’India. Morì di malattia mentre stava per attaccare la penisola araba, puntando su Cartagine.

Nel frattempo aveva sposato una principessa persiana, spingendo i suoi generali (che alla sua morte si spartirono i territori conquistati) a sposarsi anche loro con donne del luogo. La sua globalizzazione fu culturale più che mercantile, e la Grecia, in quegli anni, si arricchì di sapienze orientali che trovarono, attraverso Alessandro, percorsi fertili in occidente. Basti pensare alla Biblioteca di Alessandria e ai saperi che, prima di andare distrutti, avevano comunque sparso in Occidente e nel mondo arabo una serie di conoscenze che avrebbero ampliato gli orizzonti della matematica, della geometria, dell’algebra e delle scienze. In arabo furono tradotti, e quindi salvati, moltissimi testi della Biblioteca di Alessandria. E furono proprio dal Medio Oriente che arrivò in Occidente, intorno all’anno 1000, assieme ai numeri, lo 0, che avrà un immenso rilievo nello sviluppo scientifico e tecnologico occidentale.

La seconda globalizzazione culturale, politica e sociale ci appartiene, ed è quella romana, sia a nord, sia verso est e Asia minore, sia sulle coste africane. In realtà, il primo concetto di Europa nasce proprio da Roma, con l’unione di popoli, costumi e religioni diverse, ed un arricchimento di mente e di spirito che ancora lascia le sue tracce. La globalizzazione romana, assieme alle idee, che già esistevano, portò nel mondo la loro trasformazione pratica e ingegneristica. La filosofia della giustizia diventò il Diritto Romano che ancora si studia nelle Università di tutto il mondo. Nasce la dialettica ciceroniana. Nasce a Roma il Senato come espressione della Politica. Ma, soprattutto, Roma esporta la prima vera tecnologia di massa. Città che ancora resistono oggi senza bisogno di interventi, ponti, strade, fognature, acquedotti, discariche. Persino sistemi di riscaldamento delle case organizzati sotto il pavimento. E, insieme, le Terme, indice di una igiene di massa fino ad allora sconosciuta. Città a misura d’uomo con strade che le collegavano a misura di Impero. Insomma, Beni

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Comuni, a disposizione dei cittadini, di cui sono tuttora ricche le terre delle conquiste romane, sotto qualsiasi latitudine, affiancati a Beni Pubblici, a disposizione di tutti e a misura di uno Stato potente.

Il concetto di globalizzazione legata invece soprattutto alle ricchezze e al potere che da questo derivano ha origine con la scoperta dell’America. L’Europa uscita dai secoli bui e con sacche di povertà enormi ha un bisogno famelico di denaro che, naturalmente, finisce in gran parte a finanziare guerre o in forzieri reali e aristocratici già pieni. Ma qualcosa arriva anche al popolo: cibo nuovo, che si può coltivare nell’orto di casa, come patate, pomodori, mais, nuovi tipi di verdure e di frutta. Condimenti esotici ma sani, come le spezie. Il caffè. Il the. E’ qualcosa di realmente straordinario in popolazioni abituate principalmente alle carni, all’uva, ai fichi. Vengono debellate malattie, viene variata l’alimentazione. Come prima la globalizzazione aveva arricchito soprattutto lo spirito, adesso la nuova globalizzazione arricchiva il corpo e la pancia. E, nello stesso tempo, apriva orizzonti incredibili sul piano della scienza e della conoscenza.

Ma, fino a quel momento, tempo e spazio se ne erano rimasti ognuno al proprio posto, senza fare confusione. Certo, c’erano state guerre, che avevano portato disastri, pestilenze e cambiato equilibri. Ma, alla fine, niente di diverso da quanto avveniva prima. Poi erano arrivate due rivoluzioni, quella francese e quella sovietica, che avevano cambiato molte carte in tavola, facendo sparire vecchie classi di potere legate al sangue e alla discendenza, e facendo nascerne nuove legate alla borghesia e al commercio. Era nata la nuova egemonia americana.

Ed era nata, soprattutto, l’idea dell’organizzazione scientifica del lavoro legata al tempo, sviluppando una filosofia nuova relativa ai metodi di produzione che avrebbe portato l’America a diventare la potenza industriale e militare che è adesso, al consumismo come filosofia universale, alla concezione di una umanità legata al concetto di forza lavoro e di una oligarchia ancor più strettamente connessa al concetto di denaro.

“L’organizzazione scientifica del lavoro”, questo il titolo dei punti generali fissati dall’ingegner Frederick Taylor nel 1911, ha come scopo la ricerca dell’unica via migliore esistente per compiere in un tempo minimo una qualsiasi operazione. Nei vari punti esaminati le parole che maggiormente ricorrevano erano “cronometrare il tempo”, “eliminare movimenti falsi, inutili e pigri”, “sostituire i movimenti lenti”. Veniva premiato l’operaio che trovava il modo di fare il suo lavoro in maniere ancora più rapida. Le teorie di Taylor vennero messe in pratica nelle fabbriche automobilistiche di Ford, che riuscì così a trasformare l’oggetto di lusso automobile in un mezzo di trasporto universale. (Henry Ford, “La mia vita e la mia opera”, 1930). Chi ha avuto modo di vedere i film di Charlie Chaplin non dimenticherò mai Charlot operaio in “Tempi moderni”.

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Il Taylorismo finirà all’arrivo dei sindacati, ma il concetto che si sta sviluppando da quelle che sono state le basi non si è spento, si è solo trasformato ed è stato trasferito sul Consumatore. Tutte le azioni, i progetti, le tempistiche, le ricerche di mercato, sono finalizzate a individuare, selezionare, fidelizzare, convincere e spremere il più possibile non più l’operaio gestore dell’artefatto, ma l’utente finale. Il quale, come appunto spiega De Masi citando Habermas, viene “colonizzato”.

L’allargamento della forbice

Torniamo ora a fotografare la situazione attuale, prima di passare all’analisi. E lo facciamo seguendo le tracce di tre economisti che, negli ultimi anni, hanno offerto gli strumenti migliori alla comprensione del fenomeno e dei rischi che stanno avanzando.

Uno è Joseph Stiglitz, americano, economista, Premio Nobel nel 2001. Nel 2013 ha scritto “Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro”, Einaudi. L’altro è il francese Thomas Piketty, docente di scienze sociali e di economia. Sempre nel 2013 ha scritto “Il capitale del XXI secolo”, tradotto in Italia da Bompiani nel 2014, un successo editoriale mondiale di cui ancora si discute. Il terzo è Jeremy Rifkin, economista e saggista statunitense, (il suo libro, La civiltà dell’Empatia. La corsa verso la coscienza sociale nel mondo, tradotto nel 2010 da Mondadori, continua a ristampare, e La società a costo marginale zero, Mondadori 2014), che cerca di proporre una via d’uscita dalla crisi.

Per tutti e tre, la fotografia attuale è quasi da incubo. Il modo in cui la globalizzazione è stata condotta può essere descritto come una vera e propria fabbrica della miseria: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri. Per Stiglitz il problema è dovuto non solo alle regole del mercato capitalistico, ma alle scelte delle istituzioni politiche chiamate a gestire il capitalismo. Scelte che favoriscono invariabilmente i patrimoni. Con il risultato che, nonostante la produttività negli ultimi 25 anni sia raddoppiata, il reddito medio è diminuito.

Piketty è ancora più severo, soprattutto nei confronti dell’Italia. Se prima, soprattutto a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, è stato il modello americano a produrre la più grande disparità tra ricchezze e povertà, adesso il primato è passato all’Italia che, dobbiamo ricordarlo, risulta ancora fra gli otto Paesi più ricchi del mondo. Nel nostro Paese la quota dei patrimoni privati, rispetto al reddito del Paese, si aggira sul 700 per cento; nello stesso tempo il patrimonio pubblico, che si va sempre più depauperando, detiene il record della quota più bassa, mentre il debito pubblico è il più alto. Soprattutto riguardo a Francia e Germania che nel 1955, anche grazie alla grande inflazione, ha ottenuto il perdono dei creditori ed hanno potuto riprendersi e investire.

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Jeremy Rifkin, da parte sua, parla senza mezzi termini di eclissi del capitalismo e di spazio aperto ad un nuovo fronte di economia ibrida, in cui un sistema che lui definisce collaborativo si affianca al sistema esistente. Le sue parole d’ordine sono collaborazione, orizzontalità e accesso libero dei privati, partendo prima di tutto dalla produzione autonoma di una energia ecocompatibile, che è da molto tempo uno dei suoi cavalli di battaglia.

Quello che sta accadendo torna a riguardare spazio e tempo. La globalizzazione precedente a quella innescata da Internet e dalle nuove tecnologie partiva, anticamente, da piccoli spazi (la tribù, il villaggio, il regno, la nazione) da ampliare in un tempo obbligato dai mezzi di trasporto, il più veloce dei quali era all’origine il cavallo. Piccoli spazi, quindi, e lunghi tempi. Che si sono abbreviati nei secoli, ma sono rimasti sempre lunghi.

Oggi che tempo e spazio sono, come dice Pierre Lévy, annullati dentro lo schermo di un computer, lo spazio raggiungibile appare immenso, mentre il tempo è riducibile a quello che decidi di utilizzare davanti al computer. O smartphone. O tablet. Entrambi trasportabili, e che quindi ti consentono di utilizzare il tuo tempo anche in altre attività.

E’ un po’ come vivere all’interno di una illusione. Ma con degli effetti che possono anche essere devastanti, e che forse offrono una spiegazione alla tesi di Rifkin, che coglie questo ritorno al piccolo, all’ecosostenibile, al rapporto umano e all’empatia.

Se analizziamo l’era di internet e l’ampliarsi del fenomeno della globalizzazione, anche se sono passati meno di 40 anni (che per chi ne ha meno di 20 sono due vite, per chi ne ha 80 sono mezza vita), ci rendiamo conto che sono accadute moltissime cose. Soprattutto dentro di noi.

Essere o Apparire?

Come abbiamo già visto in precedenti incontri, secondo l’antropologo britannico Robin Dunbar, che è partito in questa sua ricerca del 1992 dallo studio su 38 tipi di primati, l’essere umano è in grado di intrattenere un numero di relazioni stabili non superiore a 150, da quel momento accettato come Numero di Dunbar. Secondo un gruppo di studiosi americani guidati dall’antropologo Russel Bernard assieme a Peter Killworth, che hanno seguito altri percorsi di ricerca, il numero può invece raggiungere 290, quasi il doppio.

Ancora molto pochi rispetto alle migliaia di “amici” che spesso sono vantati nei social network che, quindi, restano solo virtuali. I social ci hanno cambiato e, spesso, sono riusciti a rendere virtuali anche noi, che ci siamo creati una identità illusoria, e questa continuiamo a seguire. A sua volta il linguaggio che pratichiamo continua a

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impoverirsi, puntando soprattutto a trasmettere emozioni piuttosto che concetti, nella disperata ricerca di allargare la quantità anche a scapito della qualità, visto che quello che conta è il numero dei “mi piace”.

Il problema è che, mentre i nostri meccanismi cognitivi non sono mutati, e il nostro cervello e i nostri sensi sono sempre la medesima macchina, anche se abbiamo imparato ad usarla in modo diverso, per l’economia globalizzata è cambiato tutto. Mentre noi cerchiamo l’equilibrio e se, offesi dalla realtà, non riusciamo a trovarlo, ci affidiamo a sensi, emozioni e istinto, che definiamo apparenza (se non possiamo o non siamo in grado di scegliere come essere, allora siamo come agli altri ci percepiscono sulla base, prima di tutto, della nostra apparenza, cioè della maschera che decidiamo di indossare), per l’economia e la finanza è cambiato tutto, a cominciare dalle leggi della fisica. Se noi riusciamo a vivere in un sistema complesso e liquido fingendo che tutto vada bene e creandoci una identità virtuale, le dinamiche finanziarie, un tempo abituate a confrontarsi con la scienza Newtoniana, prevedibile, ben regolata, con un futuro determinato dal passato, adesso hanno a che fare con la teoria del caos, dove regna il disordine, il contesto è costituito da probabilità, le possibilità non sono più regolate da leggi. E questo significa restare sempre in movimento, lottare sempre contro il tempo, dipendere dalle influenze esterne come forza motrice di una macchina economica in costante evoluzione o involuzione.

In un quadro di questo genere il margine dei possibili errori è molto più ampio, e le conseguenze di questi errori, a livello globale, diventano macroscopiche. Così la finanza ha dovuto chiedere aiuto alle nuove tecnologie e alle scienze matematiche che si sono sviluppate attraverso il calcolo ultraveloce di computer sempre più sofisticati. Vale a dire gli algoritmi. Ormai, in questo nostro mondo, quasi tutto è gestito da algoritmi, dai social network alle aziende, dalla selezione degli indirizzi pubblicitari ai giochi virtuali eccetera.

Con un problema che, almeno al momento, appare insormontabile. E che, forse, potrà essere affrontato meglio, ma non risolto, con l’evoluzione dei qBit, i bit Quantistici. Abbiamo visto nei mesi scorsi, ma vale la pena ripeterlo qui, come il cervello umano funzioni contemporaneamente in modo seriale (soluzione di problemi che si presentano, ma solo uno alla volta, e il secondo può essere affrontato solo dopo aver risolto il primo) e in parallelo (tutti gli stimoli provenienti dalla memoria, dai sensi, dall’immaginazione, dai pensieri paralleli, dai geni eccetera, il cui numero può essere altissimo). In pratica il processo decisionale umano funziona a tre stadi. Prima i sensi e le emozioni ci forniscono gli stimoli (sentire), poi il cervello accumula tutte le informazioni possibili e le confronta attraverso il meccanismo parallelo (pensare), poi, quando ha deciso cosa fare, cerca di risolvere i problemi che si presentano usando il sistema seriale (agire).

Un algoritmo affidato ad un computer funziona invece solo in modo seriale, attraverso codici composti solo da 0 e da 1, non sovrapponibili. Così il cervello

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umano si trova a prendere decisioni che hanno maggiore probabilità di essere azzeccate quanto più grande è il numero di informazioni cui riesce ad accedere, e minori probabilità a fronte di scarse informazioni, mentre un algoritmo più informazioni riceve a fronte di un problema complesso più diventa lento e impreciso nella soluzione, mentre ha maggiori probabilità di azzeccarla più le informazioni messe in campo sono poche e semplici. Sistema, quindi, opposto, anche se, di fronte a un problema semplice, l’algoritmo riesce a rispondere in tempi veloci il doppio rispetto ad un cervello umano, il quale ha bisogno di 1/500mo di secondo per far seguire una azione ad uno stimolo nervoso.

Così anche i qBit, (bit quantististici, sovrapponibili) che vengono usati per trasmettere fasci di informazioni destinate per ora alla compressione dei dati attraverso cavi raffreddati (soluzione mutuata dal sistema di raffreddamento dei dendriti nel circuito neuronale del cervello umano) restano ancora imprecisi ed hanno un sensibile margine di errore.

Naturalmente tutto questo, e non solo in campo economico, comporta possibilità, oltre che di errori, anche di manipolazioni, visto che il piano seriale, essendo composto di problemi da risolvere in sequenza, può scegliere sia di aggiungere un percorso che incide sulla scelta del cliente a vantaggio dell’azienda (è accaduto con alcuni social network) o togliere altri percorsi che disturbano la soluzione cui si tende. Temi come giustizia, etica, morale, possono essere eliminati in quanto non influenzano l’obiettivo finale, che è il raggiungimento dell’obiettivo, in genere pratico e utilitaristico. Il che ha conseguenze non indifferenti sul piano dei processi culturali e quindi dei comportamenti che ne derivano.

Soprattutto se gli esseri umani che usano il social applicano lo stesso metro di giudizio. E’ certo che il linguaggio scarno, veloce e abbreviato di oggi, se applicato al sistema seriale, ha lo scopo di raggiungere traguardi immediati (la regola del fare che sostituisce quella del riflettere su ciò che si fa), e quindi elimina tutto ciò che può rallentare il processo. E visto che il nostro cervello, pur di farci contenti, è uno spudorato mentitore e facilitatore (Edoardo Boncinelli, genetista e biologo - La vita della nostra mente, Laterza 2011), e sceglie, se possibile, la via più facile e meno faticosa per raggiungere uno scopo, per di più in questo aiutato da oltre vent’anni di bombardamento digitale che non spinge certo a pensare, una volta che proviamo la gratificazione di un risultato ottenuto sulla base dei nostri desideri, il resto diviene ininfluente.

La corruzione dilagante, il blocco dell’ascensore sociale che vede i privilegi passare di padre in figlio e la povertà scegliere il figlio dopo il padre, e quindi impedisce il ricambio e l’arricchimento di classi sociali, la politica che recede dal suo compito primario, che è il bene comune, e che privilegia interessi di oligarchie, la crescita di conflitti sociali e internazionali, sono solo i sintomi della malattia. Che ormai,

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all’interno di un sistema complesso e intimamente collegato, è entrata organicamente nel sistema stesso.

Il mutamento del linguaggio

Uno degli esempi è il mutamento del linguaggio. Che non fa più riferimento ai concetti, che hanno bisogno di riflessione e di analisi, ma esclusivamente ai fatti, che sono la materializzazione reale del concetto, ma in modo semplificato. Il fatto, e cioè l’azione, quindi la traduzione materiale dello stimolo, è semplicemente contestualizzato sulla base del nostro desiderio che ha come unico riferimento la possibilità di realizzazione. Vedremo più avanti come questa non è una storia nuova nel percorso della storia umana. Ma anche come ogni volta questo abbia delle conseguenze.

Un linguaggio di questo genere, legato unicamente alla realtà, più che alle cause, si pone delle domande, appunto, sugli effetti. Le cause sono il passato, gli effetti sono il suo presente. E la valutazione, oggi, in massima parte, è sul presente, che riguarda quindi non la causa del malessere, ma semplicemente i sintomi. Questo significa che, se ci viene chiesto di trovare un rimedio, cerchiamo un rimedio ai sintomi, ma non alle cause. E che, permanendo le cause, qualsiasi cosa troviamo, si rivela solo un palliativo temporaneo.

Prendiamo per esempio l’avvelenamento dei territori e delle acque. Potremo prendere la Terra dei Fuochi, in Campania. Il sistema criminale (mafia, ‘ndrangheta, camorra o sacra corona unita, non importa quale) ha sepolto in un vasto territorio agricolo scorie di tutti i tipi, dalle radioattive alle chimicamente pericolose, avvelenando quindi la zona, i paesi che ne dipendono, i lavoratori agricoli, e provocando la nascita e la crescita incontrollata di tumori, quindi la morte di adulti e soprattutto bambini. Sulla base del meccanismo cognitivo di cui ho parlato sopra, noi curiamo i tumori, mettiamo in galera i mafiosi, bonifichiamo la zona e ci convinciamo di aver curato la malattia.

Prendiamo un altro esempio, di cui si parla molto nelle cronache in riferimento alle elezioni Regionali prossime, vale a dire i collegamenti mafiosi di molti candidati, la incoerenza politica di molti altri (destre e sinistre si confondono), le condanne già subite da altri ancora. Sempre seguendo i criteri di cui sopra, cioè la valutazione sulla realtà presente, il rimedio che cerchiamo si risolve nel non votare quelli che consideriamo criminali o corrotti o nel non andare a votare. Anche qui ci convinciamo di aver curato la malattia.

Terzo esempio, l’evasione fiscale e i soldi nascosti all’estero. Pensiamo di risolvere il problema facendo accordi con la Svizzera e offrendo a chi ha evaso un congruo

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sconto propiziatorio perché facciano rientrare i capitali. Se questi rientrano, siamo anche qui convinti di aver guarito il malato.

Quarto e ultimo esempio. Le grandi società impegnate nel nuovo mondo economico legato alla comunicazione (Internet, computer, smartphone, social network eccetera) hanno trovato uno stratagemma per sottrarsi in modo legale al fisco: delocalizzano in Paesi, come il Liechtenstein, le isole dalla Manica, Panama, la stessa Gran Bretagna che offre facilitazioni alcuni depositi che fungono da magazzini smistatori di merce, e pagano il fisco a quei Paesi, previo naturalmente accordo economico. Se si considera che alcuni di Questi Paesi offrono tariffe che superano di poco l’uno e mezzo per cento, a fronte di tariffe “normali” che vanno dal 30 al 50 per cento, i conti che vengono fuori, in termine di guadagno per le aziende e di perdita per i sistemi fiscali dei Paesi in cui i prodotti vengono effettivamente venduti si trasformano in cifre sbalorditive, tali da far saltare qualsiasi mercato. Se consideriamo che le aziende di cui parliamo maneggiano annualmente prodotti, in un mercato mondiale globalizzato, per miliardi di dollari, non è difficile tirare le somme. Le aziende guadagnano in maniera enorme. Ma anche i piccoli Paesi che offrono queste facilitazioni, spesso abitati solo da poche centinaia di migliaia di persone (solo l’area metropolitana di Roma ha oltre 4 milioni di abitanti) hanno un tornaconto enorme, soprattutto se rapportato a quota per abitante.

Per ora l’unica soluzione trovata è stata quella di far pagare ad Amazon, distributrice mondiale di libri e non solo, la quota di Iva. Che, naturalmente, Amazon fa pagare ai suoi acquirenti.

Se noi teniamo queste realtà scollegate fra di loro, qualsiasi soluzione si trovi, sarà solo una soluzione tampone: curerà i sintomi, ma mai le cause, né tantomeno la malattia. Ma proviamo a collegare questi quattro esempi e vediamo cosa succede.

Prima di tutto, dobbiamo uscire per un momento dalla visione superficiale dei fatti e cercare i concetti. Ad esempio il concetto di Fisco. Che è molto semplice: è una sorta di livellatore tra chi ha di più e chi ha di meno. E’ lo Stato che, come garante della sopravvivenza di tutti i cittadini, modula il prelievo fiscale in modo percentualmente crescente sulla base delle ricchezze prodotte, e si serve di questo denaro per fornire i servizi per tutti, che comprendono quindi anche gli ammortizzatori sociali per evitare di causare povertà. Oltre tutto questo va a vantaggio di tutti, in quanto il povero, messo in condizione di avere garantita la sopravvivenza, può trasformarsi in cittadino produttivo.

Le aziende che praticano quindi il trucco fiscale, pur legalizzato dagli Stati che lo offrono, quindi decriminalizzato, compiono un atto che resta comunque eticamente un atto criminale nei confronti di coloro che, proprio a causa di questa sottrazione, non hanno più la garanzia della sopravvivenza, e di coloro che, comunque, avranno meno servizi. Se ampliamo questo costume al mondo globalizzato, vediamo che le

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conseguenze di questi comportamenti sottraggono ogni anno alle popolazioni mondiali centinaia di miliardi.

Ho portato l’ultimo punto al primo perché, in qualche modo, anche tutti gli altri sono collegati (attraverso un sistema di causalità che noi, esaminando singolarmente ognuna di questa, trasformiamo in casualità) allo stesso tema.

Prendiamo la Terra dei fuochi. Che cosa sono le scorie velenose sepolte in Campania se non la misura quantitativa della produzione delle aziende, dato che, anche a livello umano, possiamo misurare l’energia che produciamo e le quantità che mangiamo misurando le scorie che il nostro corpo produce. Lo stesso vale per le aziende, con variazioni che variano da settore a settore, ma tutte egualmente misurabili.

Se io azienda voglio evitare di pagare le tasse su quanto produco, non solo devo trovare il modo di nascondere la mia produzione – il che non è difficile attraverso la distribuzione interne ed estere di canali paralleli – ma devo prima di tutto nascondere le mie scorie, che denuncerebbero in maniera precisa la quantità del mio prodotto. E questo ci porta al secondo esempio, quello dei candidati condannati, corrotti o collusi, e soprattutto appartenenti al maggior numero di partiti possibili, alle elezioni politiche: comunali, regionali o nazionali, o addirittura europee, non ha importanza, pur di arrivare ai posti di potere dove si concordano i compromessi, e nei quali la narrazione dei fatti, vedremo più avanti come, può essere tranquillamente mascherata.

A questo punto, risolto il problema del quarto, del primo e del secondo esempio, quello del terzo diventa facilmente spiegabile. E cioè il trasferimento dei conti all’estero. Come appare evidente, tutti i comportamenti di cui sopra si riducono a congrui afflussi di denaro difficilmente spiegabile, e quindi chi lo intasca è costretto a nasconderlo. E, in questo, ha bisogno di complicità. Il danaro in Svizzera o in alcuni paradisi fiscali non giunge nascosto sotto il sellino di una bicicletta. Ha bisogno di strutture finanziarie organizzate e ufficiali, le quali siano a conoscenza dei meccanismi almeno paralegali per compiere questo tipo di operazioni, e che per questo loro servizio sono pagate. Naturalmente anche questa attività, ufficialmente, se si guarda solo alla realtà contestuale dei fatti, senza andare alla sostanza, risulterà perfettamente legittima. O, almeno, legittimata da norme che consentono questo tipo di operazioni da cui, come si vede, sono in molti a guadagnare.

Basterebbe poco per uscirne. Controllare l’energia che arriva a chi produce. Controllare gli scarti che la sua azienda produce. Quello che fa un medico quando sottopone un corpo umano ad esami: analisi delle feci, analisi delle urine, analisi del sangue, energia spesa in movimento. Sono le basi per poter aggredire qualsiasi malattia.

Ma bisogna volerlo. E il meccanismo della globalizzazione è ormai talmente coinvolto in questi sistemi, i quali arricchiscono “a ricaduta” i sistemi sottostanti, che

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la prima difficoltà è appunto trovare qualcuno che lo vuole. E la comunicazione, per lo meno nella sua parte più consistente, fatte salve alcune eccezioni, fa parte integrante del sistema. O, quanto meno, è entrata in un vortice il cui il linguaggio che potrebbe fornire consapevolezza viene bocciato come obsoleto, noioso, omicida di audience, quando non addirittura bollato di dietrologia o moralismo, e diventa quindi un delitto professionale usarlo.

Appunti/5 del 10/05/2016

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Assieme a Derrick De Kerckhove, uno dei primi a studiare in maniera più

completa l’impatto di Internet sulla società è stato il filosofo francese

Pierre Lévy, il quale approfondisce il concetto di De Kerkhove sulla

scomparsa del modo tradizionale di concepire lo spazio nel mondo delle

Reti. Ancora più incisivo il quadro offerto dal secondo, per il quale la rete

non cambia il concetto di spazio o di tempo, ma cambia addirittura lo

spazio e il tempo.

Quello che fa la televisione, spiega Levy, e in generale quello che fanno i

media classici - che di solito rappresentiamo come delle emittenti con un

gran numero di ricevitori, più o meno passivi e isolati gli uni dagli altri - è

all'interno di questo spazio soggettivo, lo spazio dell'esperienza, e scava

un immenso "attrattore" nel quale tutti i telespettatori cadono. I

telespettatori sono attirati verso il viso e verso quello che un personaggio

dice, tutti insieme nello stesso tempo, ed è come se si scavasse un canale

"attrattore" nello spazio all'interno della topologia collettiva. Se si guarda

come funziona il telefono, possiamo trovare un'altra tipologia

d'esperienza: si crea una grande rete nella quale ci sono piccoli punti,

piccoli nodi, e la particolarità di questa rete è che qualunque nodo può

diventare immediatamente molto vicino a qualsiasi altro nodo. I nodi si

riuniscono sempre due a due (qui si parla del telefono classico o del

vecchio cellulare, non del moderno cellulare o dello smartphone, i quali,

tra l’altro, possono mettersi in contatto a gruppi in teleconferenza, e

non solo a due) ed è uno spazio che funziona in questo modo, con una

tipologia molto particolare degli spazi. Nello spazio telefonico ci sono

luoghi assolutamente immobili, quelli che sono lontani dai nodi della

rete, e ci sono degli spazi che sono mobili, quelli che sono vicini al

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telefono. Partendo da lì ci si può avvicinare a qualsiasi altro.

Per opposizione a questa specie d'enorme "attrattore" creato dai media

classici, il telefono costruisce una rete con una struttura topologica

completamente particolare. E' un'insieme di punti dispersi sul territorio

che hanno una proprietà molto particolare. Questa particolarità sta nel

fatto che in qualsiasi momento lo si voglia, questi punti li si può

riavvicinare ad un altro. Lo spazio è sempre rigido tra i due punti e solo i

due punti possono agganciarsi tra loro. (Naturalmente con i moderni

smartphone o i Tablet dotati di scheda telefonica, usati come telefono

con il sistema di teleconferenza senza accedere a Internet, i punti si

moltiplicano, e tuttavia restano comunque fissi)

Internet crea un altro ulteriore spazio. La particolarità di questo

mezzo è che integra tratti già appartenenti ad altri media. Possiamo

affermare che le tecnologie Push funzionano come l'abbonamento con la

stampa o un po' come la radio o la televisione. La posta elettronica

funziona come la posta ordinaria. Il Web funziona in modo

completamente originale. Internet appare simile ad un paesaggio

variegato, all'interno del quale si riproduce un gran numero di tipologie

diverse. La grande originalità in rapporto ai media classici è che gli

individui possono quasi tutti contribuire alla costruzione di questo

paesaggio. Lo si potrebbe rappresentare come un immenso mondo

virtuale a partecipazione collettiva, con multiparticipanti, il numero dei

quali non solo può moltiplicarsi senza limitazioni che non siano i limiti di

compressione della linea, ma è un numero fluido, che può aumentare o

decrescere sulla base dell’interesse che l’argomento trattato riesce a

calamitare. Inoltre, sul Web, lo spazio culturale e letterario si è

trasformato. Se prendiamo una biblioteca e guardiamo i collegamenti tra

i diversi testi e i diversi libri, possiamo vedere che esistono: sono

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costituiti dalle bibliografie alla fine di ogni libro che rinviano ad altri

libri. Esiste anche uno schedario della biblioteca, ma tutti questi

collegamenti all'interno di una biblioteca sono dei legami virtuali,

mentali. Per renderli pratici, è necessario accedere agli altri testi,

spostandosi quindi nello spazio e utilizzando il tempo necessario Il World

Wide Web li rende reali nello stesso tempo e nello stesso spazio. Partendo

dal WWW, afferma Lévy, qualsiasi documento fa parte di un immenso iper

documento che si stende come un continuum di testi. E' questo il grande

ipertesto del WWW al quale ognuno può contribuire. Questo crea

effettivamente non un concetto di spazio, ma, secondo Pierre Lévy,

uno spazio culturale, documentario o di messaggi radicalmente nuovo,

in cui non solo lo spazio classico è annullato, ma anche il tempo

acquista dimensioni diverse: quelle cioè sufficienti al pensiero di

esprimersi attraverso la digitazione, da qualsiasi distanza questo

pensiero provenga.

In pratica il “brainframe” di cui si era parlato nella prima lezione, cioè

la cornice all’interno della quale il cervello si adatta allo strumento a

disposizione – colloquio faccia a faccia, libro, radio, televisione – cambia,

arricchendosi di possibilità che ancora devono essere completamente

sperimentate. Il meccanismo sequenziale della conoscenza, da sincrono

(per un dialogo con qualsiasi interlocutore è necessario sincronizzarsi con

il suo modo di esprimersi; di fronte ad un libro è necessario entrare in

sincronia con l’autore e così via di seguito) si trasforma in circolare,

attraverso uno spazio che è nello stesso tempo reale e virtuale, e nel

quale si muovono altre intelligenze e conoscenze che, provenendo da

luoghi, esperienze e culture diverse, formano quella che De Kerkhove

aveva definito una comunità nomade pensante in continuo movimento. Pierre Lévy individua questo incontro di intelligenze attraverso la

connessione in rete come “Conoscenza collettiva”, che produce una vera

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e propria “Cybercultura” (“L’intelligenza Collettiva. Per una

antropologia del cyberspazio”, Feltrinelli, 1996 – 2002.). In pratica,

quella che De Kerkhove aveva definito “Intelligenza connettiva”,

attraverso l’intenzionalità dell’incontro si trasforma in “collettiva”, con

sbocchi che influiscono non solo sui processi culturali delle persone che

ne sono investite, ma anche sul meccanismo democratico che si basa sul

consenso, che esprime, appunto, l’insieme delle regole che tengono

insieme una comunità. D’altra parte, suggerisce il filosofo francese,

cos’altro è la cultura se non l’incontro di immaginari, di intelligenze, di

memorie collettive?

In un incontro sul Web si partecipa tutti allo stesso contesto, ma nessuno

è costretto a condividere le idee degli altri. Anzi, ognuno può sviluppare

un ragionamento singolare sul’argomento in discussione, questo

argomento può essere ripreso ad altri, e nuovamente elaborato ancora da

altri. Non è obbligatorio arrivare ad una visione perfettamente comune,

ma si può raggiungere uno sguardo d’insieme sul problema in discussione,

alla costruzione del quale ognuno porta un suo mattone.

Un sistema che, a differenza dal metodo di costruzione, attraverso i

vecchi media, del consenso, non può più essere regolato dal meccanismo

del maggioritario, il quale ha bisogno di un consenso generale sulle grandi

linee. Un consenso che, in realtà, non potrà mai essere generale, dato

che una minoranza, che pur partecipa al voto, ne rimarrà comunque

fuori, subendo tuttavia la volontà della maggioranza. L’incontro in Rete,

attraverso questo multicontatto circolare di intelligenze, può finire con il

prefigurare, sui diversi problemi, diverse maggioranza, o anche sottili

differenze, che comportano, da parte della politica, la necessità di

approcci completamente diversi ( che Lévy sviluppa in

“Cyberdemocrazia. Saggio di filosofia politica”. Mimesis, Milano 2008,

introducendo il concetto di “Agorà”, la piazza pubblica virtuale nella

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quale ci si confronta e attraverso il voto della quale si attua la

democrazia in Rete).

Con tutti i problemi che ne conseguono, potremmo dire, e che a loro

volta hanno sviluppato e continuano a sviluppare una serie di studi. E,

naturalmente, di dubbi, dividendo gli esperti della Rete.

I “soluzionisti” e i “critici”

Poche cose, come la nascita di internet, hanno diviso chi ne fa uso su

sponde che vanno sempre più allargando le distanze, e che vede le

diverse opinioni scontrarsi su posizioni sempre più distanti, sempre più

manipolate e manipolatrici, e ogni giorno sempre più intransigenti. Da

una parte i “soluzionisti” e gli “utopisti”, coloro che affidano alla Rete la

soluzione di tutti i problemi, affidandole, contemporaneamente, il

proprio cuore e i propri cervelli: utilizzando, cioè, tecniche decisionali

che sono di origine informatica e che li allontanano sempre più dalle

modalità del pensiero umano

. Per fare un esempio, la caratteristica dei “soluzionisti” e di pensare, in

merito ad un obiettivo da raggiungere o di una soluzione da trovare, se

questa sia efficace e produttiva, e non più se sia giusta o ingiusta. Stesso

atteggiamento nei confronti dell’informazione che, attraverso soprattutto

i vari “social”, viene sempre più ridotta all’osso e non è più sottoposta ad

alcuna verifica. Vale a dire che l’informazione della Rete è sottoposta

alla sola verifica della Rete che cerca questa verifica solo nella Rete. La

teoria, che viene definita del “riduzionismo informativo”, è che ogni

elemento dell’informazione raggiunga l’interlocutore, interessato o

casuale, in modo totalmente indipendente dall’interpretazione umana,

costretta ad affrontare, nel valutare una notizia, problemi di etica, di

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congruità, di veridicità, di contesto, di impatto ambientale eccetera. E

quindi, secondo un concetto sempre più diffuso in Rete, a perdere tempo,

efficienza e produttività.

Non è un caso che questo dibattito si sia sviluppato da alcuni anni

soprattutto negli Stati Uniti, e che solo adesso stia arrivano a noi, anche

se in modo piuttosto clamoroso, attraverso la discesa in politica di un

Movimento che proprio sulla Rete come modello esclusivo basa le proprie

scelte, i propri giudizi, e lo sviluppo applicativo delle proprie idee.

Non è un caso soprattutto perché, nel Paese che ha dato origine al

capitalismo di tipo liberale, si sta formando una oligarchia informatica

che ormai domina e controlla tutto il globo. E le fortune che si sono

raccolte intorno alle iniziative di maggior successo (Google, Apple,

Mycrosoft, Facebook, Twytter eccetera) costituiscono, e non solo negli

Stati Uniti, dove sono nate, dei poteri fortissimi, in collegamento con i

potentati economici internazionali che si occupano di Hardware e di

Software, in grado di influenzare in un mondo globalizzato politiche,

economie e culture.

In questo quadro è facile capire come i tifosi di una internet

completamente libera siano visti (e sponsorizzati) con maggior favore di

coloro che, pur apprezzando pienamente gli effetti benefici di internet

sulla vita dell’uomo, poiché ne vedono anche i pericoli che possono

derivare in un mondo “deregolato”, privilegiano il concetto di un uomo

che si serve di una macchina più di quello della macchina che controlla

l’uomo.

Attualmente, nel dibattito non solo americano sul modo in cui gli uomini,

le economie e i governi utilizzano Internet, la voce di spicco è quella di

un giovane sociologo e giornalista di origine Bielorussa, Ewgey Morozov,

appena trentenne (è docente a Stanford e collabora ad alcuni tra i

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maggiori quotidiani negli Usa, in Russia, in Gran Bretagna, in Francia, in

Spagna e, in Italia, al Corriere della Sera), il quale non condivide né

l’ottimismo utopistico né la convinzione che il processo di Internet sia

neutrale sullo sviluppo culturale e democratico dell’uomo. Esattamente

come il canadese Marshall McLuhann aveva rifiutato, negli anni 60 del

secolo scorso, un ruolo “neutrale” dei media di massa, e soprattutto della

televisione, nei confronti dei processi culturali umani, indicandone i

meccanismi della possibile manipolazione, così Morozov sta facendo per

Internet.

Il suo primo libro, “L’ingenuità delle rete. Il lato oscuro della libertà

di internet” Torino, Codice, 500 pagine, 2011 (ma è possibile scaricarlo

gratuitamente da Internet al link http://

carminemangone.files.wordpress.com/2013/05/morozov-lingenuita-della-

rete-il-lato-oscuro-della-liberta-di-internet-pdf ) affronta in termini

generali la “scoperta” di Internet, spacciata come fonte di democrazia,

da parte della politica, quando venne usata, assieme ai social, come

strumento efficace di lotta durante le rivolte in Egitto, in Cina, in Iran, in

Libia e sulle coste africane del Mediterraneo, svelandone i retroscena non

sempre in linea con la propaganda che ne è stata fatta. In Italia e

nell’Europa del nord ha avuto una forte eco perché ha analizzato

l’utilizzo da parte del movimento dei “Pirati” e del M5S che ancora

domina il panorama politico.

La tesi di Morozov non esclude, nelle varie situazioni, che Internet,

assieme ai social media, rappresenti un formidabile stimolo

all’aggregazione popolare, soprattutto nel momento della protesta. E’

servito nelle rivolte democratiche, è servito ad una aggregazione

ribellistico rivoluzionaria, ma senza piazze di sangue, in Italia e nei Paesi

del centro e nord Europa. Ma secondo il sociologo, le difficoltà vengono

nel proporre e realizzare soluzioni che, in una società complessa, devono

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essere mediate. In pratica, a questo punto, la Rete rischia di diventare

una sorta di gallinaio da condominio, reintroducendo tutte le regole

disegnate a fine ‘800 da Gaston Le Bon con la sua “Psicologia delle folle”.

Internet, in pratica, è utile per unire intorno ad una idea di protesta, a

legittimare i movimenti che se ne servono, ma non è altrettanto utile per

costruire un sistema di sistemi quale è la democrazia. Anzi, spiega, è

semmai utilissima ai dittatori (e fa l’esempio del suo Paese d’origine, la

Bielorussia), per controllare i cittadini. Anche perché, ricordiamolo

sempre, nasce appunto come strumento militare.

Nel suo ultimo libro, (“Internet non salverà il mondo”, Milano,

Mondadori, Strade Blu,450 pagine, 2014) Morozov va ancora oltre, e

analizza i temi che sono diventati le parole d’ordine per chi vede in

Internet la soluzione di tutti i guai. Una di queste parole d’ordine, ormai

d’uso comune anche da noi, è il termine “trasparenza” come modello di

comunicazione, in particolar modo da parte di chi detiene il potere. Ora,

il concetto di trasparenza è assai chiaro. Una cosa è trasparente quando,

attraverso di essa, si possa osservare la realtà, vale a dire la verità dei

comportamenti, anche mentali, di chi la compie. Ce lo hanno insegnato i

nostri amici filosofi greci più di 25 secoli fa attraverso la “parresìa”: le

parole di ciascuno debbono riflettere esattamente il suo pensiero. Resta

il metodo migliore, anche se a volte il più scomodo, per avvicinarsi alla

trasparenza e alla verità.

Per i fautori di un futuro internet-centrico questo si traduce nel rendere

fruibili il maggior numero di informazioni a tutti. Possibilmente tutte le

informazioni in nome, appunto della trasparenza. Ora, più si va avanti

nell’utilizzo di Internet, più il numero dei fruitori si allarga, e insieme si

allarga, sia quantitativamente che qualitativamente, il numero degli

“interessi”. Uso il termine nel suo doppio senso: di informazioni

interessanti per fasce sempre più larghe e spesso sia culturalmente che

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linguisticamente distanti, sia di informazioni che rispondono a interessi

particolari. Non bisogna mai dimenticare, infatti, che la Rete nasce e

viene curata come strumento commerciale, che più cresce l’accesso più

cresce il flusso economico, e che quindi gli “interessi” coinvolti sono

sempre più complessi. E, poiché sono fonte di reddito personale e di

funzione economica sociale e globale, più l’utilizzazione viene

manipolata da chi ha, appunto, interesse a farlo.

Non solo. Considerando che il flusso di informazioni cresce in maniera

esponenziale, e raggiunge un pubblico sempre più vasto con messaggi

sempre più semplificati e non mediati, la qualità culturale viene

costretta in ghetti che utilizzano un linguaggio banale e veloce, più

funzionale al “fatto” e alla “forma” che non al pensiero e alla

argomentazione, in modo da essere fruibile a tutti. Per potersi difendere

da questa aggressione “a pioggia”, l’utente è costretto a cercare rifugio

in isole sempre più specializzate di “amici” che condividono i suoi

interessi, annullando in pratica la funzione di allargamento culturale e

informativo che dovrebbe avere la Rete prevista da De Kerkhove e da

Pierre Levy come sede di una “intelligenza collettiva”.

Cercherò di riassumere il pensiero di Morozov, che è assai complesso e si

avvale del contributo sul tema di molto studiosi, per sottolineare i punti

chiave del suo ragionamento.

Ci sono due valutazioni da fare riguardo alla trasparenza: prima, come

valore intrinseco, con riferimento a ciò che rappresenta; seconda, come

valore strumentale, come mezzo utile nei confronti di un obiettivo

importante, per esempio la responsabilità di chi compie un atto.

Cosa succede, si chiede Morozov, quando i due concetti, quello intrinseco

e quello funzionale, vengono confusi? E riporta una serie di ricerche e di

esperienze americane. Quando la Federal Reserve fu costretta dal

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Congresso americano a rendere pubblici i verbali delle discussioni che

precedevano la decisioni, analizzando il prima e il dopo della norma sulla

trasparenza si scoprì che, dopo, il dibattito su alcune proposte del

Presidente veniva limitato ed era meno critico. Ogni intervenuto, più che

la proposta da analizzare serenamente, teneva d’occhio la propria

carriera e la decisione finale tradiva questo retropensiero.

Ci furono poi studi nel campo delle scienze cognitive e della moderna

psicologia che analizzavano il modo in cui cambiano i processi decisionali

quando sappiamo che dovremo risponderne pubblicamente, vale a dire

che le nostre decisioni e il modo in cui ci saremo arrivati subiranno una

sorta di “processo” da parte di una opinione pubblica che le subisce.

L’atteggiamento sarà quello di adeguarsi, senza riflettere se sia giusto o

meno, all’opinione prevalente che già si conosce attraverso sondaggi e

analisi di mercato. Che, poi, è lo stesso tipo di analisi – di cui abbiamo

già parlato - che, negli anni ’70 del secolo scorso, fa Elisabeth Noelle-

Neuman elaborando la teoria della Spirale del silenzio a proposito

dell’utente televisivo, che, per non essere escluso, si conforma

all’opinione maggiormente seguita. O, nel caso, all’unica seguita.

Quando poi si sarà coscienti che l’unica decisione da prendere sarà

comunque impolitica, la tentazione sarà quella di mentire, o di

seppellire le cose sotto un diluvio di informazione che l’uomo comune

non riuscirà a sbrogliare, o comunque ad essere meno sinceri e trovare

una via d’uscita nell’inganno. La realtà, dice Morozov, è che le

tecnologie di Internet sono nate e cresciute con occhio rivolto a

necessità commerciali, in cui le questioni etiche non vengono mai poste,

ma solo quelle di efficienza e di produttività, e questo obiettivo viene

raggiunto attraverso la cosiddetta (ma è un eufemismo che cela una vera

e propria manipolazione) “comunicazione persuasiva”. Ne abbiamo

parlato a lungo riferendola al periodo precedente il mezzo televisivo e

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nel periodo, che continua ancora oggi, dominato dalla televisione.

Con Internet, in un certo senso, la situazione è, nella comprensione,

semplificata, ma nelle tecniche ancora più complessa, con una serie di

zone oscure non ancora indagate a fondo. Perché, nel frattempo, sono

nati gli algoritmi che costruiscono i modelli. Sia nel commercio come,

nella politica. Che, fin dai tempi di Ronald Reagan, è sempre stata

sensibile alla trasformazione in spettacolo ripetitivo, sulla base delle

teorie di Machiavelli secondo cui una menzogna, ripetuta cento volte da

un media dominante (nel suo caso il Principe), diventa verità. Internet

non ha inventato niente. Ha semplicemente, grazie alla potenza di

calcolo, modellizzato la formula attraverso calcoli matematici. Visto

che, come abbiamo appreso nei nostri incontri, quando si riduce tutto a

immagine (e anche la trasparenza lo è) si guarda a ciò che convince e si

può vendere, e non alla verità.

E poiché nel commercio non esiste democrazia, ma vince il più forte, il

più determinato, colui che riesce maggiormente a battere gli avversari e

a convincere l’utente finale, quando il meccanismo viene trasportato

nella politica e applicato all’apparato democratico, niente cambia. Chi

ha maggiori risorse per moltiplicare i link, chi può mobilitare un maggior

numero di influencer, chi riesce a ingannare il sistema, ottimizzando i

motori di ricerca, ha molti più strumenti di un altro privo delle

necessarie conoscenze. In questo caso la nota statistica “due persone,

due polli, uguale un pollo a testa”, anche se uno mangia due polli e

l’altro resta a bocca asciutta, è identica al modulo statistico di “una

testa, un voto”. Anzi, in questo caso è sufficiente una sola testa, ma

addentro ai meccanismi mistificatori della comunicazione in Rete, ad

aggregare molti voti. Attraverso la stessa “comunicazione persuasiva”

usata in pubblicità e riportata, pari pari, sui moduli della propaganda.

Nel frattempo, come accade nel commercio, noi avremo dimenticato i

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concetti di etica, di morale, di giusto e ingiusto, avremo completamente

perso il senso critico adeguandoci ai modelli più “efficienti” e

“produttivi”, e le nostre scelte dipenderanno dagli indirizzi che ci

verranno forniti da altri, più bravi di noi a controllare il mezzo, o

semplicemente più spregiudicati di noi.

Le reti sociali

La nascita e la crescita delle Reti Sociali, o Social Network (da Google a

Facebook , da MySpace a Twitter ad altre decine in tutto il mondo) ha

prodotto analisi e studi in sociologia, in antropologia e in etologia, e

anche in psicologia evoluzionista, ad esempio per capire su quale numero

massimo si potrebbe basare la capacità di un individuo nel tenere conto,

vale a dire riconoscere dal punto di vista emotivo, altri individui. La

risposta, individuata attraverso le varie discipline, e definita come

“Numero di Dunbar”, dall’antropologo britannico Robin Dunbar,

riconosce un massimo di 150 persone che possano fanno parte di un

gruppo mantenendo capacità relazionali ottimizzate. Il “Villaggio

globale”, a questo punto, si è già trasformato in un numero infinito di

“villaggi”, i quali diventano le nervature e le connessioni “aeree” di

questo mondo virtuale.

Se noi consideriamo che Facebook e Twitter, per esaminare i due

maggiori Social, sono contenitori relazionali di milioni di individui

ciascuno, si ha un’idea, ancora piuttosto vaga, dei problemi cui faceva

riferimento Pierre Lévy quando parlava di maggioranze diverse che si

formavano all’interno dello stesso contesto, e dei problemi gestionali che

potavano scaturire da questi incontri. Problemi che, comunque, non

avevano nulla in comune con le soluzioni cercate all’interno del

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meccanismo tradizionale di costruzione del consenso.

Sappiamo tutti come funziona l’accesso alle reti sociali: bisogna prima di

tutto costruire il proprio profilo personale, e più dati si forniscono più c’è

possibilità di allargare i propri contatti non solo agli amici, ma a tutti

coloro che condividono anche uno solo dei nostri interessi, e che possono

essere sparsi in una diffusione geografica che abbraccia tutto il mondo.

Inoltre, ognuno degli amici che invitiamo può portare altri amici che

porteranno altri amici, allargando il gruppo in maniera esponenziale.

A trarne immediato vantaggio sono prima di tutto i gestori del Social i

quali, analizzando le nostre preferenze e quelle del gruppo di cui

facciamo parte, hanno a disposizione un target “vendibile” alle aziende

interessate, che comunque risparmieranno cifre ragguardevoli in indagini

di mercato, che a questo punto vengono rese superflue. Non solo: con un

sapiente intervento sui gruppi, inserendo “amici” che in realtà sono

persone che lavorano nella comunicazione dell’azienda, potranno avere

anche potere di indirizzo. E i vantaggi possono essere enormi. Basti

pensare alle quotazioni multimiliardarie di Facebook al momento della

sua discesa in Borsa, anche se le voci che si sono diffuse sulla mancanza

di trasparenza hanno in un primo tempo ridotto l’interesse, che poi è

tornato a rialzarsi e resta altissimo. Ma che ha comunque mostrato come

questa nuova economia sia sensibile a fattori emozionali, e che adesso

sta spingendo gli investitori a diversificare (Apple costruirò automobili,

Google costruisce occhiali e lenti a contatto con effetto zoom eccetera).

La diffusione dei Social ha portato con sé una serie di problemi. Primo

fra tutti quello del diritto d’autore in rete, scatenando battaglie a livello

giudiziario che ancora non si sono completamente risolte, e che

comunque conducono a tutta una serie di considerazioni sull’utilizzo di

Internet provocando casi internazionali (vedi il caso di Wikileaks, oltre a

quello di Anonymous e, adesso, l’utilizzo che ne fa l’Isis con tecnologie

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altamente sofisticate.) che ancora non hanno avuto una soluzione, e

inserendo nel dibattito in corso il concetto di “controllo”, termine fino a

poco tempo fa completamente estraneo alla rete.

Inoltre i maggiori social soffrono anche di altre carenze. Twitter, con i

suoi messaggi che non arrivano alle 200 battute è costretto, spesso, a

contrazioni di linguaggi e, soprattutto di concetti, che impediscono

qualsiasi approfondimento. E che, comunque, per avere effetto, debbono

essere forti, seguendo il concetto dello “strillo” che veniva usato, e

spesso viene usato, per concentrare i titoli di maggiore interesse della

giornata. Facebook, pur lasciando molto più spazio alla scrittura, segue

comunque le prassi di una atomizzazione sociale che è caratteristica di

quella “Società liquida” studiata da Zygmunt Bauman, (Amore liquido.

Sulla fragilità dei legami affettivi, traduzione di S. Minicucci, Ed.

Laterza, Roma-Bari 2006 , 2008: Consumo, dunque sono, Ed. Laterza,

Roma – Bari, 2009: Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia

dell'effimero, traduzione di D. Francesconi, Il Mulino, Bologna, 2007:

Modus Vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido , I Robinson/Letture,

edizione del 2007. Altra ed: Ed. Laterza, Roma - Bari 2008)

rappresentata in massima parte da un precariato non solo lavorativo, ma

anche relazionale. Bauman non è né ottimista né tenero nei suoi giudizi.

Nella sua società liquida, quindi non più legata ad obblighi territoriali (il

territorio è quella zona in cui si trascorre la vita e si lascia la memoria di

sé) quali la cura dell’ambiente, la preoccupazione dell’eredità che si

lascia alle successive generazioni, quindi la preoccupazione non solo di

preparare queste generazioni, ma anche di predisporre le condizioni

ambientali perché possano costruirsi una realtà certa e positiva, il

concetto di libertà è completamente mutato. Libertà significa potersi

muovere liberamente senza preoccuparsi delle necessità altrui, portare i

propri interessi dove si rivelano più fruttiferi, usare il territorio in termini

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unicamente di sfruttamento e di costruzione di reddito, anche a costo di

devastarlo con cemento, agricoltura impropria e depauperante eccetera.

E costringendo le nuove generazioni ad andarsi a costruire altrove una

vita. Tutto questo ha portato un mutamento anche nella comunicazione,

in cui la sottrazione del lavoro al proprio territorio e il trasferimento dei

propri interessi produttivi in zone ad altissimo tasso di povertà, e quindi a

costi molto inferiori trova nel termine “delocalizzazione” l’alibi ad un

comportamento che in tempi diversi veniva definito sfruttamento

schiavistico.

Il mondo dei Social, unico luogo del ritrovarsi di molti giovani, è

frettoloso, effimero, in continua modificazione a seconda di chi

interviene, aperto a chiunque offra, a parole, “amicizia”. Un luogo

aperto, come si è detto, e quindi pericoloso, privo di barriere protettive,

adatto a guerriglie e assalti. Un luogo che attira molti adolescenti, che

porta con sé il fascino dell’ignoto e della sfida, che si presta alla

provocazione e alla menzogna. Per gli adolescenti è oggetto di desiderio,

di riconoscimento e di attrazione. E qui, per chi non ha ancora

consolidato una coscienza di sé e la cerca nell’approvazione degli altri, le

conseguenze possono essere drammatiche.

Accanto ai Social restano comunque, preferiti da molti, i Blog, che in

alcuni casi si trasformano in veri e propri siti di controinformazione, cui

partecipano squadre intere di persone accomunate dagli stessi interessi.

Luci ed ombre del Mediattivismo

Se da una parte il blog personale ha molte limitazioni (il protagonista

pontifica, gli altri, uno alla volta, commentano e spesso polemizzano fra

loro), i blog partecipati, o quelli che definiamo siti di

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controinformazione, soprattutto quelli a partecipazione “aperta” a chi ha

informazioni da fornire, hanno un respiro molto più ampio che, molto

spesso, si incontrano con quanto scaturisce da alcuni social. E cioè,

secondo il teorico dei media olandese Geert Lovink, la capacità di

trasformarsi in “Media tattici”, vale a dire di utilizzare lo strumento della

rete per sviluppare una contro narrazione dal basso degli avvenimenti

sociali. Poco alla volta anche questo sta diventando uno degli elementi

che, sotto la definizione di Mediattivismo, sta caratterizzando alcuni

nuovi meccanismi della democrazia, naturalmente con tutti gli aspetti

contraddittori che gli attuali strumenti di comunicazione ancora non

riescono ad evitare. In pratica si tratta di azione sicuramente politica, ma

che viene realizzata attraverso forme spesso culturali che servono a

sperimentare nuovi linguaggi e forme comunicative. E figlia della

controinformazione degli anni ’70; e come questa soffre a volte la

tentazione di distorcere gli avvenimenti a vantaggio della propria tesi. Se

vogliamo trovare un paragone attendibile, potremmo citare la cronaca di

molti anni fa, quando non esisteva internet, non c’erano computer, non

erano ancora stati inventati i cellulari, e l’unico punto di riferimento era

il cronista che si recava sui fatti e parlava coi protagonisti, riferendo poi

sul giornale quello che la propria esperienza e la propria capacità

professionale gli avevano consentito di capire. Anche perché il

giornalista, oltre a essere condizionato dalla propria cultura, dalla

propria (solida o carente) onestà intellettuale, dalla propria esperienza e

dalla propria etica personale, come qualsiasi cittadino, è anche legato, a

differenza di qualsiasi altro cittadino, a regole di deontologia, di etica

professionale e a normative di legge che lo rendono responsabile

penalmente di ciò che scrive o dice. Il giornalista, insomma, fino a poco

fa – e ancora oggi, ma in posizione non più monopolistica – come

mediatore esperto della notizia, da rendere comprensibile e fruibile al

proprio pubblico. Mentre oggi il Mediattivismo non si pone il problema di

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mediare, anche sulla base di regole di rispetto e convivenza, è svolto da

individui che in alcuni casi hanno alcune caratteristiche del vecchio

cronista (ma comunque non tutte), ma anche da individui che non hanno

alcuna pratica professionale di narrazione, non conoscono il rapporto tra

comunicazione ed etica, con tutti i pericoli che ne conseguono, stavolta a

livello globale.

Diverso è l’uso di Youtube, in quanto il fatto filmato e subito trasmesso

non sempre ha il tempo di essere manipolato. E tuttavia la limitazione

dell’obiettivo che riprende è quella che a volte limita il contesto al

riquadro di ripresa, mentre un allargamento del campo potrebbe magari

mostrare un contesto capace di modificare o addirittura cambiare

completamente l’interpretazione dei fatti.

Come si vede, neppure le nuove tecnologie riescono a eliminare del tutto

tecniche e possibilità di manipolazione, che semmai diventano sempre

più sofisticate ed efficaci, e per di più controllabili solo dagli stessi che le

praticano, dopo essersi “loggati”, cioè iscritti nel luogo che scelgono su

internet, creando quindi un circuito chiuso e impermeabile per chi rifiuti

di “loggarsi”. E le analisi di Morozov mostrano, già oggi, un’ampia

possibilità e capacità di peggioramento. L’ultima sua opera, un libretto

“leggero”, confrontato agli altri (solo 151 pagine, ma apodittiche),

“Silicon Valley: i signori del silicio”, 2016, Codice edizioni, Morozov

spara ad alzo zero. “…promettono prosperità, uguaglianza e una

nuova società in cui tutto sarà condivisibile e accessibile, superando

le vecchie logiche di mercato. (….) C’è invece una merce svenduta

sull’altare del profitto: i nostri dati personali, la nostra privacy e

soprattutto la nostra libertà”.