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 ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI ANTONIO GARGANO: KANT - LE TRE CRITICHE CRITICA DEL GIUDIZIO Kant aveva edificato due grandi costruzioni teoriche, l’una riguardante la conoscenza, l’altra riguardante l’attività pratica e la morale, in contrasto tra di loro. Alla fine della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forte opposizione con le conclusioni della C ritica della ragion pur a. Il tentativo di Kant nella Critica del giudizio è proprio quello di sanare queste contraddizioni. Tale tentativo comporta lo sforzo di creare una nuova terminologia, il che fa della Critica del giudizio un’opera per certi versi oscura, che si presta a varie interpretazioni, un’opera ancora aperta. Lukács, un importante pensatore del Novecento, ha affermato che tutta l’estetica possibile per l’umanità è contenuta nella Critica del giudizio, ma si tratterà di dipanarla nei tempi venturi: si dovrà sempre attingere a quest’opera se si vorrà considerare i problemi della bellezza e del finalismo della natura. Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio di libertà: la visione del mondo della Critica della ragion pura è meccanicistica. Il meccanicismo, già sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è una visione del mondo secondo la quale la natura procede per una concatenazione di cause ed effetti che non è indirizzata a nessuno scopo. Di solito il sostantivo ‘meccanicismo’ si accoppia con l’aggettivo ‘cieco’. Il meccanicismo è cieco: la natura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è solo un gioco di cause ed effetti senza finalità. Nella Critica della ragion pura la natura era vista in questa chiave; delle dodici categorie kantiane quella decisiva per l’interpretazione fisica della natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da relazioni causali che non hanno alcuno scopo. Nella Critica della ragion pura si ritrovano dunque il dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo: il cieco gioco di cause ed effetti è necessario, non lascia nessuno spazio alla libertà. La visione kantiana della prima Critica è deterministica: non c’è nessuna libertà. Nella prima Critica, inoltre, Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere soltanto il fenomeno, può conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dalle sue stesse strutture conoscitive: spazio, tempo, categorie e idee, ma non può assolutamente raggiungere la realtà quale è in se stessa. La cosa in sé è inconoscibile. Il noumeno è assolutamente al di là delle nostre possibilità di conoscenza. Il mondo è spaccato a metà: il fenomeno, soggetto alla necessità e al determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e inattingibile. L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica.

Kant. Critica Del Giudizio

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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

ANTONIO GARGANO: KANT - LE TRE CRITICHE

CRITICA DEL GIUDIZIO

Kant aveva edificato due grandi costruzioni teoriche, l’una riguardante laconoscenza, l’altra riguardante l’attività pratica e la morale, in contrasto tra diloro. Alla fine della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forteopposizione con le conclusioni della Critica della ragion pura. Il tentativo di Kantnella Critica del giudizio è proprio quello di sanare queste contraddizioni. Taletentativo comporta lo sforzo di creare una nuova terminologia, il che fa dellaCritica del giudizio un’opera per certi versi oscura, che si presta a varieinterpretazioni, un’opera ancora aperta. Lukács, un importante pensatore delNovecento, ha affermato che tutta l’estetica possibile per l’umanità è contenutanella Critica del giudizio, ma si tratterà di dipanarla nei tempi venturi: si dovràsempre attingere a quest’opera se si vorrà considerare i problemi della bellezzae del finalismo della natura.

Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio dilibertà: la visione del mondo della Critica della ragion pura è meccanicistica. Il

meccanicismo, già sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è unavisione del mondo secondo la quale la natura procede per una concatenazione dicause ed effetti che non è indirizzata a nessuno scopo. Di solito il sostantivo‘meccanicismo’ si accoppia con l’aggettivo ‘cieco’. Il meccanicismo è cieco: lanatura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è solo un gioco di cause edeffetti senza finalità. Nella Critica della ragion pura la natura era vista in questachiave; delle dodici categorie kantiane quella decisiva per l’interpretazione fisicadella natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da relazioni causaliche non hanno alcuno scopo. Nella Critica della ragion pura si ritrovano dunque il

dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo: il cieco gioco di causeed effetti è necessario, non lascia nessuno spazio alla libertà. La visione kantianadella prima Critica è deterministica: non c’è nessuna libertà. Nella prima Critica,inoltre, Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere soltanto ilfenomeno, può conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dallesue stesse strutture conoscitive: spazio, tempo, categorie e idee, ma non puòassolutamente raggiungere la realtà quale è in se stessa. La cosa in sé èinconoscibile. Il noumeno è assolutamente al di là delle nostre possibilità diconoscenza. Il mondo è spaccato a metà: il fenomeno, soggetto alla necessità eal determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e inattingibile.L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica.

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Nella Critica della ragion pratica, invece, si approda a una visione oppostarispetto a questa, in quanto al meccanicismo della Critica della ragion pura sicontrappone il finalismo della ragion pratica (in tutta la storia della filosofia ilcontrario di “meccanicismo” è “finalismo”). La Critica della ragion pratica

presenta uno spiccato finalismo: tutta la vita morale è tesa alla realizzazione delfine del bene. Nella vita morale l’uomo si pone un fine: la virtù, il bene. Anzi,Kant aveva anche parlato di un “regno dei fini”, cioè un regno ideale di tutti gliuomini che si rispettano vicendevolmente, e, seguendo la seconda formuladell’imperativo, si trattano sempre come fini e mai come mezzi. Il regno dei fini èil regno della morale: se la morale si realizzasse pienamente sarebbe il regnodella finalità: ognuno sarebbe considerato dagli altri come un fine in sé. Ilfinalismo della Critica della ragion pratica è opposto al meccanicismo dellaCritica della ragion pura. Soprattutto, nella Critica della ragion pratica si presentala libertà come uno dei tre postulati, cioè uno dei tre requisiti fondamentali senzai quali la vita morale non può aver luogo. Siamo dunque di fronte a questacontraddizione: da una parte Kant concepisce la natura come priva di ognifinalità e come priva di libertà; dall’altra considera l’uomo come capace di porsifini, e come operante in una dimensione di libertà. Dalla Critica della ragionpratica emerge la visione di un’umanità che vive in una dimensione che non haniente a che vedere con quella naturale: sembrerebbe che ci sia un’estraneitàtra la natura e l’uomo, la natura meccanicista e l’uomo dotato di finalismo. Kantsi rende perfettamente conto di questa contraddizione e cerca di sanarla nellaCritica del giudizio.

La Critica del giudizio è un tentativo di rintracciare la finalità nella natura. Se sirintraccia tale finalità l’opposizione si supera: la natura è cieca, l’uomo si dàfinalità, sono opposti, ma se ritroviamo la finalità anche nella natura laconciliazione sarà avvenuta . Questo è appunto il tentativo che Kant compienella Critica del giudizio. Un altro elemento per capire dove si colloca la Criticadel giudizio è questo: abbiamo detto nella Critica della ragion pura si conoscesolo il fenomeno, il noumeno è inconoscibile di per sé, quindi l’assoluto, l’infinito,Dio, la cosa in sé, sono inconoscibili. Nella Critica della ragion pratica Dio e

l’immortalità dell’anima non vengono dimostrati, in quanto non sono oggetto diun discorso conoscitivo, ma sono postulati attraverso i quali l’uomo entra incontatto con il noumeno. Si palesa quindi un altro antagonismo: nella sferaconoscitiva l’uomo è confinato al fenomeno, nella sfera morale, invece, l’uomoattinge il noumeno. Come si può conciliare tutto questo? È possibile unaconsiderazione della natura che ci faccia andare oltre la conoscenzafenomenica? Kant affronta qui un problema enorme della storia della filosofia:esiste un’unica realtà di cui l’uomo è parte, allo stesso titolo di tutti gli altri enti,oppure l’uomo è qualche cosa di qualitativamente diverso dal resto della realtà?Su questo la filosofia, le religioni, sono state in continua polemica, perché, peresempio, la religione cristiana implica che oltre al mondo materiale c’è unmondo spirituale, che ha altre leggi, ha un’altra qualità; il platonismo implica il

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mondo sensibile e il mondo delle idee; Cartesio divide la realtà tra la res extensa,il mondo materiale, e la res cogitans, con tutti i problemi che derivano poi dalrapporto tra questi due mondi, ecc. Kant quindi, con un linguaggio nuovo,esprime un problema molto antico. Per risolvere questo problema egli compie un

grande sforzo teorico che comporta anche un’innovazione linguistica, che è unadelle difficoltà di questo testo. La prima innovazione è proprio nel titolo: Criticadel giudizio. Bisogna tenere presente che in tedesco il termine tradotto initaliano come “giudizio” è Urteilskraft, una parola composta da Kraft = forza,facoltà, capacità, e Urteil = giudizio. Il titolo andrebbe quindi più esattamentetradotto come Critica della capacità di giudicare. Evidentemente Kant si riferiscea un’altra capacità, a un’altra facoltà dell’uomo, oltre la ragione e la volontà.Infatti sostiene proprio questo: l’uomo non è solo diviso tra teoria e pratica, traconoscenza e agire morale: nell’uomo c’è anche un’altra sfera che deve essereidentificata, regolata, criticata, cioè capita nei suoi limiti, questa sfera, grossomodo, è la sfera del sentimento, del gusto. Tale sfera egli la vede come unafacoltà da definire con un termine nuovo: la facoltà di giudicare. La facoltà digiudicare, una facoltà intermedia che comprende il sentimento e il gusto, emettetipi di giudizi che si chiamano giudizi riflettenti e sono tutta un’altra cosa rispettoai giudizi conoscitivi trattati nella prima Critica.

È opportuno riepilogare i problemi terminologici: Critica del giudizio significavalutazione della facoltà di giudicare; i giudizi sono di due tipi: da una parte c’è ilgiudizio della Critica della ragion pura, vale a dire il giudizio conoscitivo, il

giudizio sintetico a priori, che ora Kant chiama, con un nuovo termine, giudiziodeterminante; poi ci sono i giudizi emessi dalla sfera del sentimento, del gusto,dalla facoltà di giudicare, che chiama giudizi riflettenti. Kant denomina ora“giudizio determinante” il giudizio sintetico a priori, cioè il giudizio conoscitivoemesso dall’intelletto, di cui ha detto tutto quello che c’era da dire nella Criticadella ragion pura. Perché questa innovazione terminologica? Perché Kantsostiene che, per distinguerlo da quello riflettente, il giudizio sintetico a priori sipuò chiamare “determinante” in quanto consiste in una reciprocadeterminazione, delimitazione, della categoria e della cosa. ‘Determinare’ viene

dal latino terminus, che significa confine, pietra di confine tra i vari poderi, tra ivari appezzamenti di terreno. Determinare significa confinare, delimitare; ungiudizio determinante è un giudizio che restringe, cha dà limiti a qualche cosa.Che cosa viene limitato? Prima di tutto le categorie. Se consideriamo peresempio la categoria di causalità, essa si può applicare a infiniti fenomenicausali; nel momento in cui dico: “A è causa di B”, sto determinando la categoriadi causalità, la sto cioè confinando, le sto ponendo limiti, applicandola a un casospecifico, particolare. Così pure, a loro volta, gli oggetti vengono delimitati, si dàloro una caratterizzazione specifica collegandoli attraverso la categoria dicausalità. Il giudizio sintetico a priori, illustrato nella Critica della ragion pura, èdunque determinante in quanto delimita, determina: determina la categoria einsieme i fenomeni cui essa si applica. Il giudizio determinante è un giudizio

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conoscitivo. Il giudizio riflettente, proprio della Urteilskraft, cioè della facoltà digiudicare, invece non è un giudizio conoscitivo. La conoscenza è stata giàanalizzata in maniera esaustiva nella prima Critica; bisogna tenere presente checol giudizio riflettente ci muoviamo in un’altra sfera. Il giudizio riflettente è un

giudizio di tipo particolare e si chiama “riflettente” perché, mentre nel giudiziodeterminante la categoria da applicare è già nota, nel giudizio riflettente bisognariflettere sull’oggetto per trovare la categoria, quindi la categoria non è già data,ma deve essere rintracciata attraverso una riflessione. La categoria, che consistequi in una specifica finalità dell’oggetto, deve essere rintracciata attraverso lariflessione. Ma c’è anche un altro motivo, per cui il giudizio è detto riflettente: inun oggetto della natura, o in un’opera creata dall’uomo, esso ci permette dicogliere riflessa la finalità che ci portiamo dentro di noi. Abbiamo scoperto nellaCritica della ragion pratica che siamo esseri che si danno fini, si danno il finemorale del bene; ora, nel giudizio riflettente vediamo riflesso questo nostrofinalismo all’interno di certi tipi di oggetti della realtà. Questi tipi di oggetti sonogli oggetti belli da una parte, e gli organismi viventi dall’altra. Il giudizioriflettente mi porterà a vedere riflessa la mia esigenza di finalismo negli oggettibelli e negli organismi viventi, esso si dividerà in due sottotipi: il giudizio esteticoe il giudizio teleologico.

Il giudizio estetico permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, faritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel sensoche gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche,

di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressionedi avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce dellabellezza, cioé verso l’osservatore, il soggetto. Per questo Kant dice che i giudiziestetici sono giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembraessere rivolta al soggetto; i giudizi teleologici, invece, sono giudizi che siriferiscono alla considerazione degli organismi viventi. Questi ultimi sembranoessere fatti in modo che le parti siano finalizzate al tutto: un organo di unorganismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non hasenso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il

braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi,ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismovivente. In questo caso il finalismo è rivolto all’oggetto, all’organismo, per cuiKant dice che i giudizi teleologici, cioè i giudizi finalistici, sono giudizi riflettenti difinalità oggettiva, cioè interna all’oggetto stesso.

A questo punto va sottolineata l’attenzione che Kant rivolge al mondo biologico.La filosofia del Seicento e del Settecento è stata dominata dalla fisica galileiana

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e newtoniana; i problemi di metodo che si sono posti i filosofi del Seicento e delSettecento erano stati suscitati prevalentemente dalla fisica. Il fiorire dellabiologia a fine Settecento e poi il suo sviluppo nell’Ottocento mostrano allariflessione filosofica che c’è un mondo molto più complesso di quello fisico, il

mondo del vivente, in cui il meccanicismo non spiega tutto. Nel corsodell’Ottocento si arriverà all’evoluzionismo di Darwin, a una filosofia che coincidecon una biologia, ma Kant è il primo a porsi con chiarezza il problema delvivente: l’organismo vivente scompagina la visione meccanicistica che ci èvenuta dal Seicento, dal Settecento, da Galileo e da Newton, in quantonell’organismo vivente non funzionano solo le leggi fisiche implicanti un rapportodi esteriorità fra le parti. Le leggi della fisica considerano parti di materia, corpiche agiscono su altri corpi dall’esterno, dando luogo a tantissimi fenomeni:gravità, accelerazione, attrito, dinamica dei fluidi, incidenza dei raggi luminosi,ecc., ma sono tutti eventi che riguardano esteriorità che si pongono in relazionecon altre esteriorità, oggetti che sono reciprocamente esterni, le cui dinamichesono interpretabili in base al meccanicismo. Nella sfera biologica invece ilmeccanicismo non spiega i fenomeni in maniera adeguata, perché in unorganismo il rapporto delle parti col tutto non è un rapporto di esteriorità, bensí di implicazione reciproca e di relazione col tutto. Per fare un esempio moltobanale, un organo divelto da un organismo vivente (un ramo staccato da unalbero, un petalo staccato da un fiore) non ha una sua consistenza autonoma:esso ha vero significato solo all’interno del tutto. Nella biologia il concetto ditotalità organica, di cui la parte è semplicemente parte, è decisivo; in biologia il

tutto precede le parti, nella fisica invece le parti possono essere autonome. Neglialtri campi delle scienze le parti non sono “parti”, sono elementi, stanno perconto loro, e quindi si potranno sommare tra di loro e sommandosi darannoluogo al tutto, invece in biologia il tutto precede le parti, in quanto logicamentela parte è subordinata al tutto e non si può svellere dal tutto mantenendougualmente la sua funzione. Pertanto in questa sfera il meccanicismo, lareciproca esteriorità, la prevalenza della parte sul tutto non spiegano i fenomeni,e soprattutto – fatto che ci interessa per lo sviluppo della filosofia romantica – sirivela inadeguata la mentalità propria della fisica (dominante anche nella Critica

della ragion pura) per cui c’è causa ed effetto, una esterna all’altro, e il mondo èfatto di tante cause e tanti effetti, cioè di tanti frammenti, che poi possonoessere ravvicinati tra di loro fino a formare somme e totalità, ma in effetti hannodimensione autonoma; nella biologia, invece, le parti non possono essere vistecome indipendenti: il tutto predomina sulle parti, e questa sarà una prospettivadecisiva per l’idealismo.

Riepiloghiamo: il giudizio riflettente si divide in giudizio estetico, cioè di finalità

soggettiva, e giudizio teleologico, di finalità oggettiva. Fissato questo schema,vorrei proporre una serie di brani tratti dalla Critica del giudizio, ma prima ditutto una delle ultime pagine della Critica della ragion pratica: «Due cose

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riempiono lo spirito d’un’ammirazione e d’una venerazione sempre nuova esempre crescente, quanto più la riflessione vi si applica: il cielo stellato sopra dime e la legge morale in me. Il primo spettacolo, d’una moltitudine innumerevoledi mondi, annulla, per così dire, la mia importanza di essere animale, che deve

rendere la materia di cui fu formato alla terra (un punto nell’universo), dopo diessere stato per breve tempo (non si sa come) animato da una forza vitale». Èuna visione molto suggestiva e drammatica: l’uomo è un granello di sabbia, eglideve rendere la sua energia vitale alla terra, che a sua volta è un puntonell’universo. Nella prospettiva della natura l’uomo è annullato, è un granello disabbia su un altro granello di sabbia, sembrerebbe privo di qualsiasi valore. Alcontrario, la legge morale ci fa scoprire il nostro enorme valore: «Il secondoinvece eleva infinitamente il valore di me come ragione per la mia personalità, incui la legge morale mi rivela una vita indi- pendente dall’animalità ed anche datutto il mondo sensibile». Nell’agire morale l’uomo è indipendente dalla materia.Questo è il dualismo, come Kant stesso lo ha espresso in maniera mirabile. Aquesto punto finisce la Critica della ragion pratica e inizia la Critica del giudizio.

Questa è la definizione che dà Kant di giudizio: «Giudizio in generale è la facoltàdi pensare il particolare come contenuto nel generale». Il giudizio riconduce unparticolare a un universale mediante una categoria. Si tratta di congiungere unsoggetto con un predicato, un soggetto particolare con un predicato universale:questo è il giudizio. «Se è dato il generale (la regola, il principio, la legge) [intermini kantiani la categoria] il giudizio che a questo sussume il particolare è

determinante. Se è dato invece soltanto il particolare [il fiore, il tramonto,l’arcobaleno, la statua, ecc.], il giudizio che deve trovare il generale [a cuisussumerlo] è semplicemente riflettente». Kant dà questa definizione perdistinguere i giudizi: il giudizio determinante è un giudizio in cui l’universale è giàdato sotto la forma di una categoria, invece nel giudizio riflettente ho di fronte ame il particolare e devo riflettere per trovare qual è la sua finalità, sotto qualeuniversale finalistico ricondurlo.

A questo punto Kant apre un discorso molto importante: cerca di fondarel’autonomia della sfera estetica. Il giudizio estetico mi permette di cogliere il

fatto che l’oggetto, naturale o artificiale che sia, sembra essere fatto apposta persuscitare il giudizio nel soggetto. Kant sottolinea che questo giudizio estetico, ilgiudizio per cui una cosa viene qualificata come bella, non ha niente a chevedere con un giudizio empirico, quindi non ha niente a che vedere con lamaterialità, con la fattualità della cosa, è, come sempre in Kant, un giudiziotrascendentale. Kant opera una rivoluzione copernicana anche nell’estetica. Larivoluzione copernicana nella conoscenza è racchiusa nella formula: l’Io è illegislatore della natura. La seconda rivoluzione copernicana è quella dellamorale: non ci sono contenuti buoni di azione, ma è il soggetto, con la sua

ragione, a stabilire ciò che è buono, cioè corrispondente alla ragione; anche nelcampo morale il legislatore è l’Io, il soggetto, l’uomo. Infine nell’estetica, nellasfera del bello, è il soggetto che decide che cosa è bello; è l’uomo che, con

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un’operazione di tipo trascendentale, ricerca il riflesso della bellezza nelle cose.Non ci sono oggetti belli di per sé: è l’uomo, il soggetto, che proietta l’esteticità,il finalismo estetico sugli oggetti. Una rivoluzione copernicana anchenell’estetica: l’essere bello di una cosa non dipende da fattori di carattere

empirico, materiale, ma da un elemento di carattere trascendentale. E la parola,“trascendentale” per Kant indica sempre qualche cosa che è presente a priori nelsoggetto e viene messo in gioco dall’oggetto. Su queste basi, Kant cerca didistinguere con chiarezza il gradevole dal bello. In quanto trascendentale, ancheil giudizio riflettente è universale; questo sembra oggi un paradosso, in quantodominano estetiche di tipo arbitrario. Kant afferma che il bello è soggettivo mauniversale nello stesso tempo: è vero che il bello è una proiezione del soggettosull’oggetto, ma tutti gli uomini attuano questa proiezione in maniera analoga. Ilpunto non è evidente a prima vista. Kant afferma con nettezza: il bello non haniente a che fare col gradevole. Il gradevole risponde alla famosa massima latina“De gustibus non disputandum”: quello che è gradevole per me può non esseregradevole per te, e non possiamo prevalere l’uno sull’altro, ognuno si terrà lapropria opinione su quello che considera gradevole secondo i suoi gusti, inquanto il gradevole è qualche cosa di empirico; a Tizio piace il caffè amaro, aCaio piace dolce: sui gusti non si discute. Quando si tratta del bello, invece,secondo Kant si ha a che fare con una sfera universale: il bello non è soggettivonel senso di arbitrario, individuale. Tale è il gradevole. Il bello è soggettivo nelsenso universale e trascendentale.

La prima caratteristica del bello è che esso è disinteressato. «Bello è ciò chepiace senza interesse – Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o unarappresentazione mediante un piacere o un dispiacere, senza alcun interesse.L’oggetto di tal piacere dicesi bello». Che cosa intende Kant per interesse? «Èdetto interesse il piacere che noi connettiamo alla rappresentazionedell’esistenza di un oggetto». Kant tra l’altro apre qui la strada all’esteticaromantica del fantastico: l’arte e la bellezza in generale non hanno niente a chevedere con la reale esistenza delle cose di cui si occupano, in quanto la bellezzaè qualche cosa di trascendentale, non è legata alla materialità, all’empiria, alla

fattualità, e neppure all’esistenza. Il bello è disinteressato: ci si trova in unrapporto di godimento estetico quando non si ha alcun interesse per l’esistenzareale dell’oggetto. Kant specifica meglio questo nel periodo successivo: «Esso haperciò sempre relazione alla nostra facoltà pratica (desiderio o appetizione ovolontà). Ora invece, quando si tratta di decidere se qualcosa sia bello o nonbello, non si chiede se a noi o a qualunque altro importi o anche solo possaimportare l’esistenza della cosa, ma come noi la giudichiamo nell’atto dellasemplice pura contemplazione (intuizione o riflessione)». Quando ho interesse ache una cosa esista, secondo Kant, è per tre motivi: o perché mi può darepiacere (desiderio); o perché mi può essere utile (appetizione); o perché puòportare al bene (volontà). Desiderio, appetizione, volontà che cosa implicano?Desiderio implica interesse alla cosa perché mi può dare piacere; appetizione,

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interesse alla cosa perché essa mi può recare utilità; volontà, la volontà buona,interesse all’esistenza della cosa perché essa mi può portare al bene morale.Queste affermazioni di Kant sono state di importanza grandissima nella storiadell’estetica. Il bello è definito come una qualità autonoma, disinteressata

rispetto all’esistenza dell’oggetto, quindi disinteressata rispetto a ogni finalitàpratica. Di conseguenza, quando ci troviamo di fronte a un’opera che peresempio produce effetti di utilità, o di bontà, non per questo siamo di fronteall’arte. Dal punto di vista kantiano, quando un artista ricerca un fine di utilità,per esempio di suscitare un sentimento patriottico, di dare un insegnamento,ecc., non c’è la bellezza, non siamo in contatto con l’arte. Allo stesso modo Kantdice che bisogna stare attenti anche all’interesse della volontà, cioè all’interesseche l’oggetto artistico, l’oggetto bello, susciti bontà, muova la volontà buona,perché anche questo è estraneo alla pura contemplazione estetica. In questi casil’arte è stata inquinata da un interesse pratico. Questo interesse pratico, bassocome l’utilità, o alto come la bontà, comporta pur sempre un inquinamento dellapura contemplazione estetica. Allora, perché ci sia la poesia veramente pura,perché ci sia l’arte veramente pura, ci dev’essere il disinteresse assoluto versotutti i risvolti pratici che l’oggetto può implicare. Non parliamo, ovviamente, deibanali risvolti di mercato: è chiaro che un’opera d’arte non ha niente a chevedere con il suo valore di mercato, che è un fatto crassamente pratico,utilitaristico in senso bruto. Ma addirittura, ripeto, anche l’utilità nel senso piùelevato, come nel caso del patriottismo, è estranea alla sfera della bellezza, allasfera estetica, alla sfera dell’arte.

«Bello è ciò che piace universalmente senza concetto. Circa il gradevoleciascuno riconosce che il suo giudizio, fondato su di un sentimento personale, silimita, quanto al valore, alla sua persona. Quando perciò egli dice: il vino delleCanarie è gradevole, egli non s’offende se un altro lo corregge e gli ricorda chepuò solo dire: il vino delle Canarie è gradevole per me… in riguardo al gradevolebisogna attenersi al principio che ciascuno ha il suo proprio gusto (dei sensi). Tutt’altrimenti sta la cosa per il bello. sarebbe ridicolo se alcuno, che ci tenesseal proprio gusto, cercasse di giustificarlo col dire: quest’oggetto (come

quest’edifizio, quell’abito, quel concerto, quella poesia) è bello per me. Perchéegli non può chiamare bello ciò che piace solo a lui… Egli dice perciò: la cosa èbella, e non attende l’accordo degli altri circa il suo giudizio perché li ha trovatipiù volte d’accordo con sé, ma lo esige. Egli li biasima quando giudicanodiversamente e nega loro quel gusto, che pure tutti dovrebbero avere. Perciònon si può dire che ciascuno ha il suo gusto particolare: ciò sarebbe come direche non vi è gusto». Il gradevole è soggettivo e personale, il gusto è invecesoggettivo ma universale, trascendentale; il gusto è quello che ci permette diformulare il giudizio estetico, che Kant infatti chiama “giudizio estetico o digusto”. Quest’affermazione sembra paradossale, ma riflettiamo con un esempio:anche se consideriamo l’opera d’arte più riconosciuta, la Gioconda, qualcuno puòdire di essere andato al Museo del Louvre a vedere la Gioconda e di non aver

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vissuto alla sua vista alcuna emozione estetica. Si può mai sostenere che il gustoè universale, come afferma Kant? Direi che la difesa di Kant si può articolare inquesti termini: per raggiungere veramente il giudizio estetico bisognaprescindere da tutto ciò che è empirico, da tutto quello che è fattuale, materiale.

Bisogna escludere l’utilità, la morale, ogni praticità. Non è facile, perché tuttoquesto si insinua nelle maniere più imprevedibili nella nostra considerazioneestetica. Che cosa voglio dire? Una cosa apparentemente banale: se una personaè stanca o distratta non riesce ad apprezzare la Gioconda, infatti c’è unelemento fisico, materiale, fattuale, che impedisce di mettere in moto la funzionetrascendentale superiore. Tutto ciò non è per niente scandaloso, infatti, se unapersona è stanca, non riesce neppure a dimostrare un teorema di geometria,cioè a usare correttamente la ragione. Per Kant si può entrare in sintonia con labellezza, si può emettere il giudizio estetico, soltanto quando si sono messe daparte tutte le pesantezze dell’empiria. Ripeto, se non c’è una disponibilità o unaeducazione all’apprezzamento della bellezza, purtroppo spesso avviene che nonc’è neppure un’educazione o una disponibilità all’uso dell’in- telletto e dellaragione. Allora, come una persona non colta, non avendo avuto coltivata lapropria razionalità, non riesce a risolvere un problema, così, non avendo avutocoltivata la propria facoltà di giudicare, non riesce ad apprezzare un’operad’arte; ciò non toglie che la capacità di risolvere il problema e la capacità diapprezzare l’opera d’arte siano universali, a patto che però queste potenzialitàumane vengano educate ed esercitate. E Kant aggiunge anche un altroelemento: «Bello è ciò che piace universalmente senza concetto». Si riesce a

cogliere la bellezza di un’opera d’arte in maniera intuitiva, senza unragionamento, senza uno sforzo di carattere concettuale. La bellezza si coglieintuitivamente, “senza concetto”. Come non ha niente a che vedere con lapratica, così l’arte non ha niente a che vedere con la teoria. Ciò che è bello nonriguarda la pratica, l’utile, il piacevole e la morale, ma non riguarda neppure laconoscenza, la teoria: un romanzo non ci dà una conoscenza sul reale; ilromanzo, la poesia, le giraffe in fiamme o gli orologi che si liquefano di SalvadorDalì, sono oggetti non reali, la Divina Commedia è un viaggio completamentefantastico, non ci dice niente sulla realtà di fatti che siano avvenuti. Kant vuol

dire: l’estetica è una sfera autonoma dalla pratica, ma anche dalla teoria. Belloè ciò piace universalmente senza concetto, cioè senza riferimento allaconoscenza.

Il bello è disinteressato e universale, poi Kant aggiunge che è necessario.Ribadisce che tutti devono ricono- scere, se si mettono in sintonia con la cosabella, che essa è bella, quindi il bello è appunto universale e necessario insieme.Infine aggiunge un’altra definizione: il bello è finalistico senza scopo. Che cosavuol dire? Se avesse uno scopo, ricadremmo nell’empirico; cioè se avesse loscopo di arricchirci, di darci piacere, ecc., sarebbe un fatto empirico. La bellezzapresenta un ben diverso finalismo: il bello nasce quando c’è una finalità diarmonia, di proporzione tra le parti che compongono la cosa bella; questa finalità

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si manifesta poi nella finalità di rispondere al nostro senso di armonia, diproporzione. Il bello è finalistico nel senso che ha il fine di attivare il senso diarmonia del soggetto, di mettere in moto il finalismo interno al soggetto. Questesono le caratteristiche del bello per Kant.

Kant distingue il bello libero e il bello aderente. Il bello libero è quello che egliconsidera più puro. Si tratta di un concetto che ci aiuta molto a capire che cosaKant intende per bellezza. Leggiamo il brano che vi si riferisce: «Così i disegni àla grecque [i disegni geometrici che si ripetono in maniera armoniosaindefinitamente], gli arabeschi [Maometto impediva la venerazione delleimmagini, per cui gli Arabi svilupparono la decorazione per arabeschi, motiviornamentali vegetali che si ripetono inde- finitamente, senza rappresentareniente di preciso], nelle incorniciature o nelle tappezzerie non significano nullaper sé: essi non rappresentano nulla, non rispondono ad alcun oggetto secondo

un concetto determinato, e sono bellezze libere. Si può anche ricondurre almedesimo genere di bellezza le fantasie musicali (senza tema), anzi tutta lamusica senza testo. Nella valutazione di una bellezza libera (secondo la puraforma) il giudizio di gusto è puro». La musica senza tema, gli arabeschi, legreche, ecc., che non mirano a far immaginare niente e non sono la riproduzionedi un’immagine, sono le forme di bellezza più pure, in quanto non presentano ilpericolo di inquinamento dell’emozione estetica da parte di un interesse. Oltre albello libero c’è anche un bello aderente, che aderisce all’oggetto. Dice Kant: «Mala bellezza di una figura umana (sia essa maschile, femminile o infantile), la

bellezza di un cavallo, di un edificio (chiesa, palazzo, arsenale, villa) presupponeil concetto di un fine che determina ciò che la cosa deve essere e quindi unconcetto della sua perfezione, ed è perciò una bellezza aderente». La bellezzalibera non si riferisce a nessun concetto, a nessuna immagine, a nessun modello;la bellezza aderente: un cavallo perfettamente proporzionato, un essere umanocome quelli che disegnava Leonardo da Vinci, oppure una casa armoniosa, ecc.,bene o male rispondono pur sempre al modello di cavallo perfettamenteelegante, di casa perfettamente proporzionata, ecc. Il bello aderente è menopuro di quello libero in quanto cerca di rispondere alla perfezione di un modello,

di aderire a un modello, al concetto della cosa di cui è immagine, mentre inveceil bello libero non pre-tende di riprodurre alcuna immagine. Kant prosegue:«L’unione del buono (ciò per cui il molteplice è buono a qualche cosa, secondo ilsuo fine) con la bellezza altera a sua volta il giudizio stesso». Nel bello aderentec’è la tendenza a che la bellezza corrisponda a un modello che altera il giudizioestetico, non lo fa essere perfettamente puro.

A questo punto Kant nella Critica del giudizio passa a un’altra dottrina cuiaccenno soltanto perché è importante per il Romanticismo: a proposito del bellod’arte, afferma che il bello d’arte ha una caratterizzazione precisa, esso è

prodotto dal genio. Introduce un concetto che sarà al centro dell’esteticaromantica: il bello artificiale per essere prodotto ha bisogno di una personalitàparticolare, di una personalità che abbia una sensibilità fuori del comune, ha

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bisogno del genio. La definizione del genio è data da Kant in questo senso: ilgenio possiede una tale creatività originaria che sembra dare luogo a fenomeninaturali. Esso è assolutamente alieno da regole; non può sottostare a regole. C’èuna polemica con il classicismo: il genio non si può ispirare a modelli, esso è

semplicemente creatore; come la natura, dà luogo a forme che crea da sestesso. La vera opera d’arte deve dare l’impressione di una tale perfezione, diuna tale organicità, da sembrare un organismo vivente nato dalla forzageneratrice della natura. La forza generatrice della natura è eguagliata soltantoda pochi uomini eccezionali, che hanno una sensibilità particolare, i geni, la cuicreazioni danno l’idea di un che di spontaneo come un organismo naturale.

Un altro elemento romantico in Kant è quello del sublime. In che cosa questo sidistingue dal bello? Il bello è qualche cosa che ha una forma, che ècaratterizzata da proporzione e armonia. Il sublime, invece, è qualche cosa di

informe. Per esempio sublimi sono la distesa dell’oceano, un massicciomontuoso, una nevicata, un’eruzione vulcanica. Mentre il bello è sempre qualchecosa di circoscritto, di delimitato, che ha forma, il sublime, proprio perché èinforme, è tendenzialmente infinito, e si distingue dal bello anche perché ciprocura un’inquietudine. Il bello ci fa sentire a casa nostra, ci mette a nostroagio, ci sembra rispecchiare la nostra più intima finalità, è pienamente consonocon noi stessi. Invece il sublime ci spaventa, ci dà il senso della nostrapiccolezza, della nostra insignificanza fisica, a cui, però, subentraimmediatamente dopo il senso della grandezza morale, della grandezza

spirituale dell’uomo. Il sublime presenta dunque una dinamica particolare: primasembra essere qualche cosa di aggressivo, che schiaccia l’osservatore, ma ilsoggetto, subito dopo, recupera il senso della propria superiorità spirituale suquesta entità che dal punto di vista fisico gli sembrava soverchiante eminacciosa. Il sentimento del sublime, che si manifesta nei confrontidell’informe, del grandioso, presenta due manifestazioni: il sublime matematicoe il sublime dinamico. Il sublime matematico è generato da un’estensioneimmensa: il mare, il deserto, un ghiacciaio, un massiccio montuoso. Invece ilsublime dinamico è una forza soverchiante, una potenza straordinaria che

sembra doverci travolgere e di fronte a cui, invece, acquistiamo poi il senso dellanostra grandezza morale; per esempio l’eruzione vulcanica, il mare in tempesta,un uragano, una tormenta di neve, e così via.

Vediamo un po’ meglio e più da vicino che cosa dice Kant: «Il sentimentoestetico del sublime è un piacere o senso di esaltazione che segue a un senso didepressione delle nostre energie vitali [mentre il bello intensifica le nostreenergie vitali, ci fa sentire in espansione, il sublime è un’esaltazione che segue auna depressione: ci sono due momenti, è più complesso]. Il piacere del sublime èdiverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di

esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta,giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energievitali, seguito da una più intensa loro esaltazione». Dapprima si ha un senso di

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oppressione e di sconfitta, poi ci si riprende. Questa concezione influenzeràprofondamente l’estetica romantica, anzi l’estetica fino a oggi, in quanto,rispetto all’arte classica, all’arte rinascimentale, all’arte neoclassica, in cui tuttoè ben proporzionato, ben delimitato e c’è il senso della prospettiva, con la teoria

del sublime anche l’informe e l’illimitato rientrano nella sfera estetica. L’informeprende il sopravvento su quello che è dotato di forma. Questa tendenza, iniziatacon il Romanticismo, è delineata nella teoria del sublime di Kant. Se i romantici sipossono avventurare su strade che pervengono fino all’orrido è proprio per lateoria del sublime di Kant, il quale per primo ha colto una sfera dell’estetica chenon implica semplicemente la soddisfazione di veder riflessa l’armonia, di goderel’intensificazione delle energie vitali, ma può essere anche la conseguenza di unsentimento contrapposto; su questa strada poi alcuni romantici arriveranno ateorizzare l’estetica del brutto, perché paradossalmente anche certe formeparzialmente brutte possono mettere poi, per contrasto, in moto un sentimentodi armonia nell’uomo. L’arte, dall’Ottocento in poi, è arrivata a forme che primaerano assolutamente impensabili.

«Chi teme può tanto poco giudicare del sublime della Natura, quanto colui che èin preda delle passioni e degli appetiti può giudicare del bello». Del sublime nonsi deve provare orrore, timore, come non si deve provare piacere nel caso delbello; anche nel sublime, sottolinea Kant, non c’entra l’empirico, il materiale, ilsensibile: se temo non sono in procinto di avvertire il sentimento del sublime;come se ho una sensazione di piacere corporeo, non sto avendo a che fare col

bello. Come il bello è separato dal corporeo, dal sensibile, dal materiale, cosìanche il sublime. Quindi: «Chi teme può tanto poco giudicare del sublime dellaNatura, quanto colui che è in preda delle passioni e degli appetiti può giudicaredel bello. Egli fugge la vista dell’oggetto che gli incute timore ed è impossibileprovar piacere in un timore effettivamente sentito [se si è veramente in pericoloper un’eruzione vulcanica non si potrà provare nessun sentimento estetico perl’eruzione stessa]. Perciò il senso di sollievo che ci dà il cessare di una minacciaè gioia. Ma questa, se deriva dalla liberazione di un pericolo, è gioia solo quandonoi pensiamo che non ne saremo più minacciati; e si è tanto lontani dal cercare

l’occasione di riprodurre in noi tale sensazione, che anzi non ci pensiamo maivolentieri. Le rocce che s’elevano ardite e quasi minacciose, le nuvoletemporalesche che s’ammassano nel cielo tra lampi e tuoni, i vulcani nella loropotenza devastatrice, gli uragani che lasciano dietro di sé la devastazione,l’oceano senza limite sollevantesi in tempesta, l’alta cascata di un grande fiume,tutte queste cose riducono a un’insignificante piccolezza il nostro potere diresistere a tanta forza. Ma la loro vista ci esalta tanto più quanto più èspaventevole, a condizione che ci troviamo al sicuro». Se contempliamo questispettacoli della natura senza essere affetti da un sentimento empirico di paura,allora si mette in moto il senso del sublime, cioè allo sgomento segue il nostrosenso di superiorità morale. «In tal modo la Natura nel nostro giudizio esteticonon è giudicata sublime in quanto essa è temibile, ma in quanto essa risveglia in

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noi una forza (che non è natura), per cui consideriamo come insignificanti quellecose delle quali ci preoccupiamo (i beni, la salute, la vita), e riconosciamo quindiche la forza della Natura (a cui noi, per rispetto a tali cose, siamo assolutamentesoggetti) non ha sopra di noi e sopra la nostra personalità, fuori di questo

campo, un così assoluto dominio che noi ci dobbiamo piegare ad essa, come seessa si estendesse alla sfera dei principii supremi della nostra vita e riguardassela loro affermazione o il loro abbandono». Il sublime è anch’esso trascendentale:la natura si presenta come sublime non perché sia sublime in se stessa, infatti semi trovo non di fronte a un uragano, ma dentro, se mi trovo ad assistere aun’eruzione vulcanica, ma troppo da vicino, questo non mi dà il senso delsublime. Vi ho proposto questo brano perché mi sembra illustrare bene il fattoche l’estetica di Kant è un’estetica antiempirica, non ha niente a che vedere conl’empirico: mi posso trovare di fronte a un’eruzione vulcanica a distanza, senzatemerla, e provo il senso del sublime; ma se mi trovo in un luogo minacciato daun’eruzione vulcanica, non lo provo. Il sublime quindi non dipende dall’empirico,dalla cosa, ma dalla proiezione del senso del sublime che il soggetto opera sullacosa. Ancora la rivoluzione copernicana: il bello, ma anche il sublime, ètrascendentale, è una proiezione umana sull’oggetto. Si tratta di un apportosoggettivo e non naturale. «La Natura dunque è detta sublime in questo casosolo perché essa eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’animapuò sentire la sublimità della sua destinazione, anche al di sopra della Natura. Lasublimità dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell’animonostro».

Abbiamo discusso il giudizio estetico. Segue il giudizio teleologico, cioè il giudizioche permette di rintracciare una finalità negli organismi viventi. Esso si formulasoprattutto di fronte alle piante, agli animali, agli organismi che danno l’idea chele parti sono fatte al fine di rendere possibile la vita del tutto. Kant dice aproposito del giudizio teleologico: «La finalità d’un oggetto dato dall’esperienzanel giudizio teleologico riposa su di un principio oggettivo, come accordo dellaforma dell’oggetto con la possibilità della cosa stessa secondo un concetto diessa che precede e contiene il principio della sua forma». Nel giudizio teleologico

c’è un principio oggettivo, c’è una finalità che riguarda l’oggetto, mentre nelgiudizio estetico c’era una finalità che riguardava il soggetto osservante, ilsoggetto contemplatore. Qui invece la finalità è un principio oggettivo che dàl’idea che ci sia un concetto della cosa che precede e contiene il principio dellasua forma: sembra che l’animale, il gatto, il cane, la pianta, siano rispondenti aun principio, siano frutto di un progetto, siano stati “fatti apposta”. È chiaro checosì si apre la strada alla visione di un architetto della natura che ha inseritofinalità all’interno della natura stessa e degli organismi che la popolano. Gliorganismi viventi danno l’idea che ci sia stato un architetto che li ha disegnati.«Un organismo vivente ha quella data “conformazione” in quanto alla suaproduzione ha presieduto – come fine – il concetto di essa, nel quale erarappresentata la possibilità di quel tutto nel quale dovevano coordinarsi le varie

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parti [è come se ci fosse stato un progetto, che aveva il fine di dar luogo aquell’organismo, come se esso non fosse un frutto casuale]. Questa finalità,poiché non riferisce la forma dell’oggetto alle facoltà conoscitive del soggettonell’apprensione dell’oggetto stesso, ma la riferisce a una determinata

conoscenza dell’oggetto sotto un concetto dato, non ha da fare col sentimento dipiacere suscitato dall’oggetto». Vuol dire: non c’entra il piacere e quindil’emozione estetica del soggetto, ma qui si tratta di una finalità internaall’oggetto stesso. Sembra che gli organismi viventi ci facciano intuire che nellanatura c’è un finalismo. Gli esseri biologici sono costituiti di parti che sembranofatte “al fine” del tutto, ma c’è anche un finalismo superiore: sembra che tutta lanatura abbia il fine di rendere possibile la vita dell’uomo.

Sembrerebbe che tutti i regni, minerale, vegetale e animale, siano costruiti,organizzati, al fine di rendere sempre migliore la vita dell’uomo e sempre più

possibile l’espressione dell’umano. A questo punto Kant delinea un passaggiomolto importante: l’espressione dell’umano, la vita dell’uomo, in che cosaconsistono? Non nell’empirico e nei bisogni naturali: consistono nella ragione.Sembra che gli organismi viventi contribuiscano a un regno della natura, chesembra fatto apposta per l’uomo, e quindi favoriscano il fine dell’uomo che è ilfine razionale, cioè morale. Il finalismo degli organismi biologici si amplia nelfinalismo di tutta la natura. La natura sembra fatta al fine di favorire l’esistenzadell’uomo e il dispiegarsi dell’attività dell’uomo, ma l’attività dell’uomo ha il finedella morale, quindi sembrerebbe che la natura sia fatta apposta per agevolare

la capacità dell’uomo di inserire fini morali nel suo agire. Kant afferma, con untermine più preciso: «La natura sembra fatta al fine di favorire la cultura». È unafrase molto bella che significa che la natura sembra fatta apposta per esseredominata dall’uomo, perché l’uomo possa erigere la civiltà, ma la civiltà implicala creazione di un mondo pienamente umano, cioè di un mondo in cui tutti gliuomini siano rispettati come fini in sé, in cui sia coltivata l’umanità in tutti gliuomini, e quindi si affermi un regno dei fini, in cui ogni uomo si veda riconosciutala dignità di persona ragionevole, rispettata per la sua razionalità. Nella Criticadel giudizio la natura è l’insieme degli organismi biologici che sembra, nel suo

insieme, fatta apposta per favorire la vita dell’uomo; la vita dell’uomo è la vitadella cultura, cioè della civiltà che cresce sempre di più per permettere all’uomodi esplicare la propria personalità, la propria umanità; ma la propria personalità,la propria umanità, sono il fine morale. Sembra che la natura sia fatta appostaper favorire il fine morale dell’uomo. Il fine morale dell’uomo è il bene; la naturasembra finalizzata al bene.

A questo punto si chiude la Critica del giudizio e la riconciliazione è avvenuta: lanatura all’inizio era deterministica, estranea a fini, adesso la natura, attraverso ilgiudizio estetico, ma soprattutto attraverso il giudizio teleologico, presenta

oggetti, o, addirittura, tutto il suo insieme come rivolti a una finalità, quella difavorire la virtù dell’uomo. L’uomo con la sua morale, la sua libertà, il suo finedel bene, non è più antagonista della natura, che anzi favorisce questo fine.

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Nell’ultima citazione che vi propongo è come se Kant dicesse: «Guardate, hofatto tutto questo discorso, ma state attenti, non rinnego una parola di quelloche ho detto nella Critica della ragion pura. Il discorso conoscitivo, per me, èchiuso con la Critica della ragion pura. Tutto quello che ho detto nella Critica del

giudizio si riferisce a un’aspirazione, a un’esigenza, molto simile in qualche modoai postulati della ragion pratica, ma non è un che di conoscitivo». «Poiché noinon osserviamo propriamente i fini come vere intenzionalità nella natura, maaggiungiamo questo concetto col pensiero […] è per noi impossibile dimostrarel’accettabilità d’un tale concetto come oggettivamente valido». Non è un fattoconoscitivo, ma evidentemente la Critica del giudizio apre la strada all’infinito,all’assoluto, alla finalità, alla libertà, cioè, in una parola, non al fenomeno, maevidentemente all’altra metà della realtà, al noumeno. Kant aveva detto dailluminista: l’uomo è limitato, può conoscere solo il fenomeno. L’Illuminismo è lafilosofia del limite dell’uomo: l’uomo è potente perché ha la ragione, ma laragione, per l’Illuminismo, può conoscere solo le cose finite. Kant ha datosistemazione a tutta la filosofia illuministica, ha sostenuto: l’uomo con lostrumento potente della ragione può conoscere il finito, ma non può raggiungereil noumeno. L’infinito, l’assoluto, la sfera noumenica sono fuori della portata dellaragione umana. Ora, però, nella Critica del giudizio Kant fa affermazioni sufinalità e libertà, su elementi quindi che fanno parte della sfera del noumeno,dell’incondizionato, dell’assoluto. E quindi apre la strada al Romanticismo, che èla filosofia dell’assoluto, è la filosofia dell’infinito, è la ribellione ai limitidell’Illuminismo.