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L’obbedienza che caratterizza la vita consacrata
ripropone in modo particolarmente vivo
l’obbedienza di Cristo al Padre
e, proprio partendo dal suo mistero,
testimonia che
non c’è contraddizione tra obbedienza e libertà.
(Vita consecrata, 91)
L’obbedienza dei discepoli
La prima adesione dei discepoli che Gesù richiede
è quella legata al
disegno paradossale del Padre su di lui.
Faciem tuam, 2008, n. 9:
Obbedienti a Dio attraverso mediazioni umane
Dio manifesta la sua volontà attraverso la mozione interiore
dello Spirito che «guida alla verità tutta intera» (cf. Gv 16,13),
e attraverso molteplici mediazioni esteriori.
la storia della salvezza è una storia di mediazioni che rendono
in qualche modo visibile il mistero di grazia che Dio compie
nell’intimo dei cuori.
Nella vita di Gesù si possono riconoscere mediazioni umane,
attraverso le quali Egli ha avvertito, ha interpretato e ha accolto
la volontà del Padre, come ragione di essere e come cibo
permanente della sua vita e della sua missione.
Le mediazioni che comunicano esteriormente la volontà di Dio
vanno riconosciute nelle vicende della vita
nelle esigenze della vocazione specifica;
nelle leggi che regolano la vita associata
nelle disposizioni di coloro che sono chiamati a guidarla.
Nel contesto ecclesiale, leggi e disposizioni, legittimamente
date, consentono di riconoscere la volontà di Dio, divenendo
attuazione concreta e “ordinata” delle esigenze evangeliche,
a partire dalle quali vanno formulate e percepite.
I consacrati sono chiamati alla sequela di Cristo obbediente
dentro un “progetto evangelico”, o carismatico,
suscitato dallo Spirito e autenticato dalla Chiesa.
Approvando un progetto carismatico quale è un Istituto reli-
gioso, la chiesa garantisce che le ispirazioni che lo animano e le
norme che lo reggono possono dar luogo ad un itinerario di
ricerca di Dio e di santità.
Anche la Regola e le altre indicazioni di vita diventano me-
diazione della volontà del Signore: mediazione umana ma pur
sempre autorevole, imperfetta ma assieme vincolante, punto di
avvio da cui partire ogni giorno, e anche da superare in uno
slancio generoso e creativo verso quella santità che Dio “vuo-
le” per ogni consacrato.
In questo cammino l’autorità è investita
del compito pastorale di guidare e di decidere.
Tutto ciò sarà vissuto coerentemente e fruttuosamente solo se
rimangono vivi il desiderio di conoscere e fare la volontà di
Dio,
ma anche la consapevolezza della propria fragilità, come pure
l’accettazione della validità delle mediazioni specifiche,
anche quando non si cogliessero appieno le ragioni
che esse presentano.
Le intuizioni spirituali dei fondatori e delle fondatrici
hanno sempre dato grande risalto all’obbedienza.
San Benedetto: “A te [monaco] si rivolge ora la mia parola; a te
che, rinunciando alle tue proprie volontà per militare per Cristo
Signore, vero re, prendi su di te le fortissime e gloriose armi
dell’obbedienza” (Prologo, 3).
il rapporto autorità-obbedienza si colloca nel contesto più am-
pio del mistero della Chiesa e costituisce una particolare at-
tuazione della sua funzione mediatrice.
Il Codice di Diritto Canonico
raccomanda ai superiori
di “esercitare la potestà
che hanno ricevuto da Dio,
mediante il ministero della Chiesa”
in spirito di servizio
(can. 618).
L’obbedienza dei discepoli nel vangelo di Marco
Gesù forma i discepoli alla volontà del Padre
per renderli progressivamente capaci
di far proprio un duplice atto di obbedienza:
verso la necessità della sua passione e morte
verso l’inevitabilità dell’insuccesso e del fallimento.
Tre indizi:
- il frequente verbo greco dein («è necessario che...»),
- i ripetuti annunci del mistero pasquale,
- il riferimento alle antiche Scritture.
La prima obbedienza che Gesù chiede ai suoi discepoli:
– non è legata a norme di carattere morale
– o a indicazioni di ordine pratico,
Egli esige dai suoi:
l’adesione piena alla logica pasquale,
l’adesione al ministero (affidatogli dal Padre)
che necessariamente deve passare
per la via dolorosa della spoliazione,
intesa come esperienza di fiasco e di fallimento.
A. L’uso del verbo deî («è necessario che») in Mc
Il verbo deî ricorre sei volte (Mc 8,31; 9,11; 13,7.10.14; 14,31).
Esso esprime una necessità incondizionata,
spesso iscritta all’interno della volontà divina.
Mc 8,31 : per la prima volta, Gesù manifesta ai suoi discepoli
il destino che lo attende come “necessario”.
«È necessario (deî) che il Figlio dell’uomo soffra molto,
che sia riprovato dagli anziani,
dai capi dei sacerdoti e dagli scribi,
sia ucciso e dopo tre giorni risorga».
Da questo deî dipendono tutti gli infiniti della frase:
è necessario:
- soffrire (patheîn),
- essere disprezzato (apodokimasthênai),
- essere messo a morte (apoktanthênai),
- risorgere (anastênai).
Il mistero pasquale (passione, morte e risurrezione),
costituisce una vera e propria necessità.
Mc 9,11
I discepoli interrogano Gesù circa la “necessità” (deî)
della venuta del profeta Elia. Gesù conferma la necessità di tale
venuta, ma sposta sottilmente l’accento su un altro argomento:
«Sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa; ma, come sta scritto
del Figlio dell’uomo? [K. Tischendorf] Che deve soffrire molto
ed essere disprezzato» (Mc 9,11)
La missione di Elia viene collocata sul medesimo sfondo
della missione del Figlio dell’uomo:
della sofferenza e del disprezzo che egli dovrà sperimentare.
La “necessità” qui diventa duplice:
Elia “deve” ritornare
Elia “deve” soffrire, proprio come il Figlio dell’uomo.
Mc 8,31 e Mc 9,11 sono collocati esattamente prima e dopo
la grande manifestazione di Gesù ai discepoli prediletti
nel contesto della trasfigurazione (Mc 9,2-8).
B. Gli annunci della passione
Il verbo deî comunica in maniera esplicita
ciò che è implicito in tutti gli annunci della passione
(Mc 8,31; 9,31; 10,33-34), e di altri brani significativi,
come la parabola dei vignaioli omicidi in Mc 12,1-11
o la predizione dello scandalo generale in Mc 14,27-28.
La medesima idea si esprime con l’uso del futuro
o attraverso un “annuncio profetico” legato al destino di Gesù.
Egli “deve” attraversare il mistero della passione e della morte,
che i discepoli lo vogliano o meno.
La reazione dei Dodici: essi sono continuamente in tensione
con la prospettiva tratteggiata dal loro Maestro:
Mc 8,32: è solo Pietro che si oppone,
Mc 9,32: tutti i discepoli non comprendono le parole di
Gesù e addirittura temono di chiedere qualche spiegazione
Mc 10,35.41 l’intera comunità dei Dodici non è per nulla
in sintonia con quanto il Maestro ha appena annunciato.
Mc 14,27 (lo scandalo e la dispersione): tutti si uniscono
nell’unica e grande promessa di fedeltà (Mc 14,31).
Sembrano riconoscere la necessità di una fine umiliante
per il Maestro, ma la promessa sarà totalmente disattesa.
Nessuno dei Dodici reggerà di fronte alla morte umiliante
e spoglia di Gesù sulla croce.
Mc 14,32-42 (la preghiera di Getsemani):
Gesù è «triste fino a invocare la morte».
Il calice della passione (Mc 14,36; 10,38)
esprime tutta la sua amarezza e tutta la sua necessità:
Il Maestro prega perché passi da lui quell’ora (Mc 14,35)
e perché sia allontanato da lui quel calice (Mc 14,36)
tuttavia egli si china di fronte alla volontà del Padre:
«Non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu».
Il succedersi degli eventi iscriverà la misteriosa necessità
di Mc 8,31 in un preciso disegno divino.
C. Il riferimento alle Scritture: «così sta scritto»
La “necessità” della passione e morte
è sottolineata dal compimento delle Scritture.
Secondo Marco,
Gesù deve soffrire,
essere rigettato ed essere messo a morte
perché «così sta scritto».
Mc 9,12 (la domanda dei discepoli sulla venuta di Elia)
Gesù rimanda a quello che «sta scritto» riguardo
al Figlio dell’uomo: deve soffrire ed essere disprezzato.
(un ulteriore annuncio della passione)
il testo parallelo in Lc 17,25: Gesù afferma che «è neces-
sario (deî) che egli [il Figlio dell’uomo] soffra molto e
venga ripudiato da questa generazione».
Il medesimo concetto teologico è ripreso in Mc 12,10-11 a
conclusione della parabola dei vignaioli omicidi, quando il
destino del figlio prediletto, inviato per ultimo, viene ri-
letto sullo sfondo di un preciso passaggio veterotesta-
mentario: il Salmo 117,22-23.
Mc continua a ribadire la “necessità” che la pietra venga “scar-
tata” prima di divenire la «testata d’angolo».
Nei passi paralleli di Mt 21,33-46 e di Lc 20,9-19 il riferimento
al Sal 117 viene subito riletto e applicato alle autorità religiose
presenti (Mt 21,43-44; Lc 20,18).
Marco insiste maggiormente sull’accostamento
tra il destino di Gesù e la necessità della sua passione
iscritta misteriosamente nei testi sacri.
Mc 14,27-28: l’annuncio del mistero pasquale nel
suo triplice aspetto di passione, morte (v. 27: «Percuoterò
il pastore e le pecore saranno disperse») e risurrezione (v.
28: «ma dopo la mia risurrezione vi precederò in Galilea»).
- Tutti rimarranno scandalizzati ma anche questo fa parte
delle cose che stanno scritte.
- La citazione di Zc 13,7: tutto si sta svolgendo
seguendo una linea tracciata nelle Scritture.
È totalmente vana l’opposizione di Pietro
e di tutti gli altri discepoli (v. 31).
Il contrasto tra l’assicurazione di fedeltà dei discepoli e la ne-
cessità di uno scandalo generale è un tratto fortemente enfa-
tizzato da Marco: è una tappa obbligata alla quale né i disce-
poli, né il Maestro possono sottrarsi.
Mc 14,49
Gesù cade nelle mani dei suoi arrestatori,
dicendo: «Si adempiano dunque le Scritture».
Alcuni: l’espressione illuminerebbe tutti gli avvenimenti
precedenti collocandoli sotto il segno della volontà di Dio,
con un richiamo evidente a Mc 14,27,
Altri: un rimando alla dispersione e alla fuga dei discepoli
menzionata subito dopo, in 14,50.
È un indice puntato verso tutto il mistero pasquale,
annunciato a partire da 8,31.
Le Scritture trovano il loro compimento
nei fatti che precedono l’arresto di Gesù
nella fuga generale dei discepoli,
in tutte quelle tappe che porteranno il Maestro
dal Getsemani al Golgota e da qui al sepolcro.
Marco 14,49: l’espressione assume un senso totalmente diverso
da quello che le attribuisce Matteo 26,56
Matteo modifica il senso della frase: «Tutto questo è av-
venuto perché si adempissero le Scritture dei profeti». Però
Mt orienta lo sguardo del lettore su
ciò che è appena successo a Gesù.
Marco, al contrario, orienta l’attenzione
anche verso ciò che gli sta per succedere.
È questa la prima obbedienza che viene richiesta ai suoi:
obbedienza a una logica che sembra assurda,
a un cammino di sequela che si deve confrontare con la
passione e la morte, l’umiliazione e il disprezzo, lo scan-
dalo e la fuga.
La parabola dei due figli: Mt 21,28-32
Controversia con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo.
– la cacciata di quanti vendevano e compravano nel tempio
(Mt 21,12-14)
– le acclamazioni ambigue di alcuni fanciulli nell’area sacra
(Mt 21,15-16),
I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo rivolgono a Gesù
la domanda:
«Con quale autorità fai questo?
Chi ti ha dato questa autorità?»
(Mt 21,23).
L’interrogativo solleva la questione dell’obbedienza:
a chi obbedisce Gesù?
Entrato nel tempio, ne ha cacciato i venditori...
obbedendo a chi?
Gesù non risponde, ma rilancia il confronto tramite un quesito
su Giovanni Battista, di fronte al quale le autorità non se la sen-
tono di prendere posizione (Mt 21,24-27).
A questo punto egli racconta la parabola dei due figli.
Il tema di fondo continua ad essere quello dell’obbedienza.
L’accento viene posto sulle posizioni dei due figli:
– il primo si presenta con un “no” che diventa un “sì”;
– il secondo con un “sì” che diventa un “no”.
Non c’è un terzo figlio che si comporterebbe con coerenza…
Un uomo (v. 28)
Non è un uomo qualunque: è un padre che esprime la sua vo-
lontà e coinvolge in essa i suoi figli. La domanda conclusiva è
molto chiara: «Quale dei due ha fatto la volontà del padre?».
La questione dell’obbedienza o della disobbedienza
non si pone di fronte a una persona qualunque,
si pone di fronte all’appello della paternità.
Aveva due figli (v. 28)
Due: la diversità, la differenza. I figli sono diversi tra loro e
opposti nel modo di reagire alle interpellanze della volontà pa-
terna.
Nesun figlio viene escluso.
Dietro ad ogni figlio c’è una individualità e una libertà.
Il padre non impone l’obbedienza ma semplicemente la sotto-
pone ai due giovani, dialogando con ciascuno di loro.
Accostandosi al primo disse: «Figlio!» (v. 28)
L’obbedienza nasce come confronto e come avvicinamento del padre al figlio (prosérchomai). Il figlio viene interpellato non
con un atteggiamento di comando, ma con delicatezza e rispetto
(il vocativo téknon, il verbo prosérchomai).
Va’ oggi a lavorare nella vigna (v. 28)
Un incarico di fiducia: la vigna rappresenta un bene talmente
prezioso che viene utilizzata quale simbolo del popolo eletto.
Dando fiducia, il padre interpella non solo la figliolanza ma
anche il senso di responsabilità dei suoi. E lo richiede per
l’«oggi», non per il domani. Il suo è un incarico che coinvolge
subito, senza esigere periodi di prova.
Questi però rispose: «Non ne ho voglia» (v. 29)
Chi conosce la parabola, è portato a guardare al primo figlio con
un atteggiamento di simpatia. Il suo “no” è deciso e schietto. Il
fatto che riesca a dirlo, guardando in faccia il padre, denota una
certa personalità. Il suo è un atto di autonomia e di distacco,
inusuale nel contesto del I secolo. Di fronte a tale netta posizione,
il padre non reagisce, né reclama, pur avendo tutti i diritti per
farlo. Il suo è un amore vero e libero e, in quanto tale, ammette la
possibilità di un rifiuto.
Poi, però, pentitosi ci andò (v. 29)
Il greco (metamelētheís, dal metamélomai) evoca un cammino di
conversione che, probabilmente, non si è prodotto senza diffi-
coltà. Nella strada dell’obbedienza, a volte, anche la rivolta e la
ribellione possono avere un loro ruolo. La strada della rivolta non
porta necessariamente a una via senza uscita; a volte è proprio
questa a produrre la piattaforma giusta per comprendere il Padre.
Si rivolse quindi al secondo e gli disse la stessa cosa.
Questi rispose: «Sì, Signore». Poi però non ci andò (v. 30)
Interpellato, il secondo risponde con un “sì” che dissolve in
partenza. Il figlio offre il suo assenso, ma esso rivela due punti
deboli:
- prima di tutto non riconosce la paternità di chi lo interpella,
ma vede in lui il «signore, padrone» e ciò sbiadisce
l’incarico che gli viene affidato;
- in secondo luogo, al centro della sua risposta troviamo egṓ
(usato per esprimere in modo cordiale l’accettazione di
qualcosa), che qui comunica anche una centratura scorretta
del soggetto. L’obbedienza delle parole si traduce in una
disobbedienza nei fatti. Quando la relazione è squilibrata e
l’io è al centro, difficilmente è possibile obbedire e
prendersi cura della vigna.
Gesù stesso interpreta e illustra la parabola. Partite da una posi-
zione di “sì”, le autorità si ritrovano ad essere classificate nella
posizione dei “no”, nello status dei ribelli.
La parabola non vuole essere una sterile accusa,
a beneficio dei pubblicani e delle prostitute: il fatto di trovarsi
dalla parte del “no”, di per sé, mette anche loro nella condizione
di fare un cammino di conversione, come il primo figlio; il mo-
mento di grazia attende anche loro.
Il fatto è che ne devono prendere coscienza.
Si gioca qui il senso profondo della parabola: Giovanni Battista
«è venuto nella via della giustizia e voi non gli avete creduto [...]
non vi siete nemmeno pentiti (metemelḗthēte) per credergli» (v.
32), diversamente dai pubblicani e dalle prostitute.
Tre modelli di obbedienza:
- Gesù: non teme le conseguenze del “sì” detto al Padre,
- Giovanni Battista: ne ha già pagato il prezzo,
- i pubblicani e le prostitute: dopo un primo “no”,
hanno fatto un percorso di conversione
abbracciando il “sì” del Regno.
Le autorità hanno fatto il percorso contrario:
hanno detto il loro “sì”, ma quando Giovanni Battista e Gesù si
sono fatti avanti, si sono opposte.
Prima ancora che le autorità abbiano il tempo di reagire, Gesù
racconta un’altra parabola, che è legata a quella dei due figli: la
parabola della vigna e dei vignaioli (Mc 12,1-11, cf. Mt 21,33-45
e Lc 20,9-18).
le tragiche conseguenze a cui può condurre un “no”
che non è seguito da un cammino di conversione.
la drammatica fine a cui può condurre il “sì” del Figlio
alla volontà del Padre.
La parabola di Matteo aggiunge un dato importante:
la condizione previa all’obbedienza è la disposizione di fondo che il singolo vive;
se tale disposizione nasce dalla figliolanza
e dall’umiltà di lasciarsi mettere in discussione,
l’obbedienza troverà uno spazio di incarnazione,
in caso contrario ciò sarà pressoché impossibile.
L’obbedienza nelle prime comunità
L’obbedienza si caratterizza in modo diverso
nel periodo prepasquale rispetto a quello postpasquale.
Finché Gesù è in mezzo ai suoi discepoli, obbedire signi-
fica aderire a lui, alla sua vita, al suo messaggio;
l’obiettivo è incarnato dalla sua Persona che si propone ai
discepoli come un modello luminoso.
Dopo la Pasqua di Gesù, la situazione cambia radicalmente:
sorge il problema della “mediazione”
un “no” può scattare non a motivo di “cosa” è richiesto,
ma da “come” viene richiesto e da “chi” lo esige.
Cf. il rapporto di Paolo con i Corinzi o con gli Efesini:
è un problema che si è posto da subito nella prima comunità.
Qualcuno metteva sempre in discussione l’autorità di Paolo.
Senza la mediazione dei suoi collaboratori
Paolo probabilmente avrebbe “perso” le due comunità.
Il nocciolo del problema è:
la saldatura fra l’obbedienza come struttura teologica e l’obbedienza
come disciplina all’interno di una comunità visibile e istituzionale.
Questa forma di obbedienza mediata è tipicamente postpasquale, e
trova la sua esigenza, e dunque il suo fondamento, nella nuova mo-
dalità di presenza del Signore
(B. Maggioni, «Il fondamento evangelico»).
Dopo il mistero pasquale lo Spirito agisce e parla
in modo umano, attraverso il ministero dell’autorità.
L“obbedienza religiosa”
nasce storicamente in questa cornice:
alcuni, nel desiderio evangelico di aspirare alla perfezione,
hanno deciso di diffidare della propria volontà
e di affidarsi al cosiddetto “padre” o “maestro spirituale”,
nella convinzione che lui, ricolmo dei doni divini
e del discernimento che venivano dallo Spirito,
potesse fare da guida sulla via della santità.
Gli eremiti nel deserto si raccolgono attorno a un padre spirituale
sotto la sua guida per libera volontà e spontaneamente.
È un’obbedienza filiale e confidenziale.
Il nucleo dell’obbedienza postpasquale: 1Cor 11,1
«Siate miei imitatori (mimētaí)
come io lo sono di Cristo»
Tessalonicesi: l’imitazione usata per elogiare i fratelli o
per richiamarli alla verità del vangelo da lui annunciato:
«Voi siete diventati imitatori (mimētaí) nostri e del Signore,
avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo»
(1Ts 1,6; 2Ts 3,6-9);
Filippesi: simile richiamo:
«Siate miei imitatori (symmimētaí), fratelli, e fissate la vostra
attenzione su coloro che si comportano secondo il modello che
avete in noi, perché molti [...] si comportano da nemici della
croce di Cristo» (Fil 3,17-18); cf. anche 1Cor 4,14-17.
Paolo si presenta alla comunità
come un mediatore di Cristo e del vangelo
e chiede l’obbedienza dei suoi.
Cf. anche
1Pt 5,2-3 («facendovi modello [týpoi] del gregge»)
Eb 6,12; 13,7 (siate imitatori [mimētaí] di quelli che ere-
ditano le promesse mediante la fede e la longanimità»)
L’espressione «siate miei imitatori come io lo sono di Cristo»
ci aiuta a ricostruire
la struttura portante dell’obbedienza
nel periodo post-pasquale:
1) Paolo crea una corrispondenza molto stretta tra l’obbe-
dienza dei credenti a sé e la propria obbedienza a Cristo.
L’umiltà esige di non proporsi quale unico punto di rife-
rimento, ma è il suo costante lavorio di conformazione a
Cristo il vero segreto della sua autorevolezza.
Ogni richiesta di obbedienza dovrebbe avere alla base
questo duplice dinamismo: Paolo chiede ai suoi di aderire
alla via che lui ha fatto propria, ponendosi a sua volta sulle
orme di Cristo.
2) Paolo propone un concetto di imitazione che non equi-
vale semplicemente a seguire le orme di Gesù Cristo, ma a
permettere a Lui di essere vivo e operante nella storia.
L’imitazione in Paolo:
un percorso di conformazione a Cristo.
Senza tale disposizione
ogni obbedienza diventa faticosa.
Solo tale atteggiamento permette di accettare
il rischio dello stile di vita radicale di Gesù di Nazaret.
Su questo Paolo non ha esitazioni,
anche quando il prezzo da pagare è duro
e può far “perdere qualcuno per strada”
(cfr. 1Cor 5).
La conformazione a Cristo, visibile in ogni aspetto,
costituisce così il nucleo portante della vita consacrata.
Obbedienza frutto dello Spirito (Faciem tuam - 2008)
Numero 11: Nella luce e nella forza dello Spirito
Si aderisce dunque al Signore quando si scorge la sua presenza
nelle mediazioni umane, specie nella Regola, nei superiori, nella
comunità (Cf. ET, 25), nei segni dei tempi, nelle attese della
gente, soprattutto dei poveri; quando si ha il coraggio di gettare le
reti in forza «della sua parola» (cf. Lc 5,5) e non di motivazioni
solo umane; quando si sceglie di obbedire non solo a Dio bensì
anche agli uomini, ma, in ogni caso, per Dio e non per gli uomini.
Scrive Sant’Ignazio di Loyola nelle sue Costituzioni: “La vera
obbedienza non guarda a chi si fa, ma per chi si fa; e se si fa
soltanto per il nostro Creatore e Signore, è proprio a Lui, Signore
di tutti, che si obbedisce”.
Se nei momenti difficili chi è chiamato ad obbedire chiederà con
insistenza al Padre lo Spirito (cf. Lc 11,13), Egli lo donerà e lo
Spirito darà luce e forza per essere obbedienti, farà conoscere la
verità e la verità renderà liberi (cf. Gv 8,32).
Gesù stesso, nella sua umanità, è stato condotto dall’azione dello
Spirito Santo: concepito nel grembo della Vergine Maria per
opera dello Spirito Santo, all’inizio della sua missione, nel bat-
tesimo, riceve lo Spirito che discende su di Lui e lo guida; risorto,
effonde lo Spirito sui suoi discepoli perché entrino nella sua
stessa missione, annunciando la salvezza e il perdono da Lui
meritato. Lo Spirito che ha unto Gesù è lo stesso Spirito che può
rendere la nostra libertà simile a quella di Cristo, perfettamente
conforme alla volontà di Dio (Sacramentum caritatis, 12).
È indispensabile, dunque,
che ciascuno si renda disponibile allo Spirito,
a cominciare dai superiori
che proprio dallo Spirito ricevono l’autorità (MR, 13)
e, “docili alla volontà di Dio” (PC, 14),
sotto la sua guida
la devono esercitare.