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La classe politica italiana nel ventesimo secolo: continuità e mutamento
di Maurizio Cotta
Le ricerche empiriche sul personale politico e la teoria classica delle élites
Dopo le prime formulazioni, all’inizio del secolo, della teoria della classe dirigente negli scritti di Mosca, Pareto e Michels, si è verificato un considerevole sviluppo degli studi che riguardano coloro “che governano” . Alla rivoluzione comportamentistica degli anni cinquanta va senza dubbio attribuito il merito della mole, in continuo aumento, prodotta negli ultimi vent’anni di dati empirici riguardanti i backgrounds sociali, le carriere, gli atteggiamenti dei politici in generale e dei membri delle assemblee legislative in particolare.
Una valutazione imparziale di questi sviluppi non riesce tuttavia a dissipare l’impressione che la crescita della ricerca sulle élites sia stata spesso più quantitativa che qualitativa. Di fronte alla ricchezza dei dati raccolti (di per sé certamente un fatto positivo), l’elaborazione degli schemi teorici che consentano di interpretarli è stata relativamente trascurata.
Un raffronto tra la situazione attuale degli studi sulle élites e la teoria classica di inizio secolo rivela un netto rovesciamento dell’equilibrio tra formulazioni teoriche e analisi empirica. L’arditezza e la portata delle generalizzazioni di Mosca e di Pareto, spesso basate su una documentazione empirica limitata e non molto accurata dal punto di vista metodologico, offrono uno stridente contrasto con la scarsa attenzione dedicata da molti studiosi contemporanei delle élites politiche al significato teorico dei loro sofisticati studi empirici. In questo contesto, non c’è da stupirsi che sia stata periodicamente posta la questione stessa della rilevanza degli studi sulle élites'.
Ma dobbiamo davvero giungere alla conclusione che non valga la pena studiare le élites? In effetti, più che porre in discussione, la legittimità degli studi sulle élites nel loro complesso queste critiche sono dirette contro un quadro di riferimento teorico troppo rudimentale, accettato più o meno implicitamente e in modo acritico da molte ricerche empiriche. È quindi a questo quadro di rife-
Questo saggio già apparso col titolo The Italian Politica! Class in the Twentieth Century: Continuities and Discontinuities nel volume a cura di M.M. Czudnowski, Does Who Governs Matter? Elite Circulation in Contemporary Societies, De Kalb, Northern Illinois University Press, 1982, è stato presentato quale contributo al seminario sulle “Elites in Francia e in Italia negli anni quaranta”. “Italia contemporanea” ritiene utile la sua pubblicazione a completamento degli Atti pubblicati sul fascicolo 153 del dicembre 1983.1 C fr., L. J. Edinger e D.D. Searing, Social Background in Elite Analysis: A Methodological Inquiry, in “American Politicai Science Review” , 1968, voi. 57; U. Schleth, Once Again: Does It Pay to Study Social Background in Elite Analysis? in “Sozialwissenchaftliches Jahrbuch fiir Politile” , 1971, vol. 1; e K. von Beyme, Elite Input and Policy Output: The Case o f Germany, in M. Czudnowski (a cura di), Does Who Governs Matter? Studies in Elite Circulation, cit.
“Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155
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rimento che dobbiamo rivolgere preliminarmente la nostra attenzione. La natura di questa impostazione si può così sintetizzare: il ruolo delle élites nel sistema politico viene interpretato senza la mediazione di ulteriori variabili intervenienti. I rapporti tra la società e le élites politiche da un lato, tra queste e gli outputs decisionali dall’altro, vengono, interpretati come legami diretti.
Ne consegue che per il primo versante il principale criterio di analisi e valutazione sarà quello della rappresentatività sociologica; da ciò l’enorme attenzione dedicata dalle ricerche empiriche alle caratteristiche sociali delle élites. Per quanto riguarda il secondo versante, le caratteristiche sociologiche individuali dei componenti delle élites vengono identificate come la principale variabile esplicativa degli outputs decisionali. Paradossalmente questi assunti teorici implicitamente accettati da molte ricerche empiriche sulle élites, sono spesso condivisi dagli stessi critici di queste ricerche. Dopo aver constatato la debolezza della correlazione tra gli outputs decisionali e i profili sociologici dei membri delle élites, essi mettono in discussione l’intero significato degli studi sulle élites anziché l’insufficienza del quadro di riferimento teorico.
Nel corso degli ultimi anni si è tuttavia venuta manifestando l’esigenza di uno schema più articolato per interpretare il ruolo delle élites in politica tanto sul versante àsYL'input che su quello dell’output.
Per quanto riguarda l’input, la ricerca di uno schema interpretativo meno rudimentale
induce a spostare l’attenzione sul ruolo di mediazione tra la società e le élites politiche esercitato da altre variabili, tra le quali particolarmente importanti sono quelle relative alle organizzazioni partitiche. Anziché un rapporto diretto tra la società e le élites politiche, che deve necessariamente essere interpretato in termini di rappresentatività sociologica, dobbiamo ricercare un rapporto indiretto all’interno del quale i partiti esercitano un ruolo di ‘traduzione’. L’attenzione verrà quindi concentrata sulle caratteristiche politiche dei politici, più che su quelle sociali; o comunque su queste ultime solo in quanto possono essere utilizzate come indicatori delle prime. I concetti di professionalizzazione politica e di carriera politica acquistano in questa prospettiva un ruolo fondamentale2.
Per quanto concerne l’altro versante del problema, cioè quello dell’output, il passo da fare consiste nello spostarsi, da un approccio che si serve dell’analisi delle élites politiche per spiegare in modo diretto i contenuti degli outputs decisionali e del comportamento politico, a un approccio più indiretto che applichi questa analisi alla comprensione della struttura e del funzionamento del quadro istituzionale all’interno del quale vengono prodotti gli outputs decisionali e i comportamenti politici. È questa la via seguita, ad esempio, da diversi studiosi delle élites parlamentari che hanno cercato di applicarne i risultati alla valutazione del consolidamento istituzionale del Parlamento3.
Questa prospettiva ci suggerisce tuttavia la necessità di studiare le élites non soltanto co-
2 Si veda G. Sartori, Dove va il Parlamento in Aa.Vv., Il Parlamento Italiano, Napoli, ESI, 1963; M. Dogan, Les f i lières de la carrière politique en France, in “Revue Française de Sociologie” , 1967, vol. 8; K. A. Eliassen e M.N. Pedersen, Professionalization o f Legislatures: Long-term Change in Political Recruitment in Denmark and Norway, in “Comparative Studies in Society and History” , 1978, voi. 20; e M.N. Pedersen, Political Development and Elite Transformation in Denmark, Berkeley, Sage, 1976.3 Cfr. N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, in “American Political Science Review”, 1968, voi. 58; M.N. Pedersen, The Personal Circulation o f a Legislature: The Danish Folketing, Università di Aarhus, Istituto di Scienza della Politica, 1972; e G. Loewenberg, The Institutionalization o f Parliament and Public Orientation to the Political System, in A. Kornberg (a cura di), Legislatures in Comparative Perspective, New York, McKay, 1973.
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me semplici aggregati di individui ma come entità strutturate. La semplice somma delle caratteristiche individuali non è sufficiente a far comprendere il comportamento delle élites.
È poi necessario citare un’ulteriore sviluppo nel campo degli studi sulle élites, che anch’esso si muove nella direzione della ricerca di una prospettiva teorica più significativa. Intendo riferirmi al passaggio da analisi statiche o di breve termine ad analisi diacroniche e di lungo termine. La prospettiva comune alla base di sforzi di questo tipo4, è che lo studio della continuità e del mutamento, della stabilità e del rinnovamento delle élites politiche relativamente a un’arco temporale di una certa ampiezza fornisce un buon punto di osservazione per comprendere gli sviluppi dell’intero sistema politico. In un certo senso potremmo quindi concludere che le nuove tendenze emergenti nel campo degli studi sulle élites politiche sono indice di un rinnovato interesse per i temi più ampi tipici della teoria classica, senza naturalmente rinunciare alla eredità del rigore empirico lasciata dalla rivoluzione comportamentistica.
Questo saggio rappresenta un modesto tentativo di ripensamento di alcune delle intuizioni teoriche della teoria classica della classe dirigente da utilizzare, per così dire, come un trampolino per la ricerca di una interpretazione, significativa dal punto di vista teorico, di alcuni fenomeni relativi alle élites
politiche nella storia d’Italia del ventesimo secolo.
La teoria classica e il problema del rinnovamento delle élites
Leggendo le opere di Mosca e Pareto vi è un tema che occupa con tutta evidenza un posto centrale: la dinamica delle élites5. In netto contrasto con la maggior parte della ricerca orientata empiricamente dei tempi più recenti, la quale ha rivolto gran parte dell’attenzione a una analisi statica delle caratteristiche individuali dei membri delle élites, i classici assegnavano nella loro teoria un ruolo preminente ai processi di riproduzione, mutamento, rinnovamento e disgregazione delle élites, intese come complessi strutturati.
Ciò che essi definiscono con l’espressione “circolazione delle élites”6 o simili viene interpretato come una variabile fondamentale per spiegare la continuità e il mutamento, il funzionamento e le disfunzioni dei sistemi politici. Per quanto diversi Mosca e Pareto possano essere, per formazione culturale, stile e prospettive scientifiche, se si guarda alla sostanza delle loro formulazioni teoriche su questo argomento, risultano evidenti forti somiglianze.
Cominciamo da Mosca. La prima e molto generale osservazione empirica che egli fa è che nella dinamica della classe politica si pos-
4 Tra le opere che si sono mosse in questa direzione meritano una menzione almeno le seguenti: M. Dogan, La stabilité du personnel parlementaire sous la Troisième République, in “Revue Française de Science Politique”, 1953 vol. 3; J. J. Linz, Continuidady discontinuidad en la elite espanola de la Restauración al régimen actual, in Libro Home- naje al Professor Carlos Olierò: Estudios de ciencia politica y sociologia, Guadalajara, Grafica Carlavilla, 1972; V. Zapf, Wandlungen der deutschen Elite, München, Piper, 1966 e P. Farneti, Sistema politico e società civile, Torino, Giappichelli, 1971.5 La prima formulazione della teoria della classe politica di Gaetano Mosca si trova, come è noto, nell’opera Teorica dei governi e governo parlamentare pubblicata per la prima volta nel 1884. Il pieno sviluppio della teoria si trova invece negli Elementi di scienza politica del 1896. Le citazioni qui di seguito si riferiscono alla quinta edizione (Bari, Laterza, 1953). Quanto a Pareto il grosso della discussione della teoria delle élites si trova nel secondo volume del Trattato di sociologia generale, pubblicato nel 1916. Qui è stata usata la terza edizione (Milano, Comunità, 1964).6 V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., voi. 2, p. 534.
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sono distinguere periodi di grande stabilità (e scarso rinnovamento sia quantitativo che qualitativo) seguiti da altri periodi di maggiori mutamenti7. Il secondo passo compiuto da Mosca consiste nel cercare una spiegazione per questo due diverse situazioni. Egli stabilisce innanzi tutto un principio che, secondo lui, si può applicare a tutte le élites politiche. Una specie di ‘legge di inerzia’ agisce all’interno delle élites politiche, determinandone la tendenza a perpetuare se stesse. Di qui un carattere comune delle élites consolidate: un basso rinnovamento e la presenza di meccanismi di tipo ereditario8.
Come Mosca stesso è però disposto ad ammettere, questo principio è tutt’altro che assoluto, anche perché, se lo fosse, “la storia dell’umanità sarebbe molto più semplice”9 e non potremmo spiegarci perché le vecchie classi dominanti perdono il potere e vengono sostituite da nuove. I fattori che provocano la caduta di una classe dominante vecchia possono essere, secondo Mosca, sia esterni che interni. I primi sono connessi all’ambiente sociale: ad esempio cambiamenti nella natura della società e di conseguenza delle qualità richieste alla classe dirigente10. I secondi hanno a che fare con la organizzazione della classe politica stessa: quando una classe politica è diventata troppo chiusa e vi è insufficiente rinnovamento, si verificherà un suo decadimento11. In sostanza quando il principio di continuità si spinge al di là di un certo limite, può diventare la molla che provoca il suo stesso capovolgimento.
Il terzo passo compiuto dall’analisi di Mosca consiste nel valutare il significato, per il sistema politico, del processo di rinnovamen
to e delle variazioni dei suoi ritmi. Come abbiamo già osservato, mutamenti troppo piccoli e un eccesso di continuità nella classe politica hanno, secondo Mosca, effetti negativi sul funzionamento del sistema politico, dal momento che producono un declino qualitativo della classe dirigente. La conseguenza sarà quindi l’emergere, prima o poi, di una classe politica antagonistica, dal momento che la vecchia classe non è stata in grado di neutralizzare, cooptandoli al proprio interno, gli elementi di punta delle classi dominate. Ne conseguirà molto probabilmente una crisi di regime e una improvvisa sostituzione della vecchia classe politica. D’altro canto una eccessiva apertura della classe politica, pur introducendo nel gioco politico elementi innovatori (e nuove forze), potrebbe a sua volta danneggiare la struttura del sistema politico preesistente e provocarne la dissoluzione12. È chiaro che per Mosca, che su questo punto segue la tradizione classica del governo moderato, un equilibrio dei due principi (principio democratico = rinnovamento; principio aristocratico = continuità) determinerà, unendo i vantaggi di entrambi, le condizioni più favorevoli per la stabilità e il buon funzionamento di un sistema politico.
Quanto a Pareto, le sue argomentazioni partono da una divisione di massima delle élites in due categorie generali, definite sulla base delle motivazioni e dei principi che le guidano e delle capacità e qualità di cui esse dispongono. Si tratta della ben nota distinzione tra “volpi” e “leoni” , “speculatori” e “rentiers”13. La discussione del profilo qualitativo delle élites è però soltanto il primo
7 G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., vol. 1, pp. 102 sgg. e voi. 2, p. 97.8 Ivi, vol. 1, pp. 95 sgg.9 Ivi, p. 100.10 Ivi, pp. 101 sgg.11 Ivi, p. 155.12 Ivi, voi. 2, p. 125.13 V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., voi. 2, p. 623 e 667.
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passo dell’analisi di Pareto. Il problema al quale egli volge subito la sua attenzione è quello della persistenza nel tempo delle élites di governo. A quali condizioni esse mantengono il proprio controllo sul potere politico, e a quali altre invece vengono sostituite? La spiegazione di carattere generale offerta da Pareto per la circolazione delle élites è una situazione di squilibrio tra la classe dominante e le classi dominate. La natura di questo squilibrio trova origine nella distribuzione delle motivazioni e delle capacità tra le due classi. Pareto pensa che ogni élite al governo sia destinata a subire un processo di omogeneizzazione qualitativa e di decadimento14. A meno che non riesca a ricostituire il proprio equilibrio qualitativo incorporando elementi nuovi provenienti dalla classe dominata, sarà costretta a fronteggiare una crisi e a sottostare ad un mutamento di tipo rivoluzionario. Tali mutamenti improvvisi avvengono in genere quando si verificano due condizioni. Primo, l’élite al governo è ormai composta prevalentemente da “volpi”, cioè da politici che governano con mezzi negoziali, clientelari e spesso corrotti. Tali politici esercitano un limitato richiamo simbolico sulla popolazione in generale, e si astengono dal ricorrere alla coercizione in nome di quello che Pareto definisce in maniera alquanto sprezzante “umanitarismo”. Secondo, dalle classi dominate è emersa una nuova élite in grado di controllare un vasto consenso popolare con l’aiuto di forti ideali politici e pronta a fare ricorso nel gioco politico a mezzi coercitivi. Come risultato di questa disparità la nuova élite è destinata a sostituire la vecchia; avrà così inizio un nuovo ciclo di élites15.
Possiamo fermarci a questo punto e tentare una sommaria valutazione del significato che le analisi di Mosca e di Pareto posso
no avere per i fini che ci proponiamo. Le loro debolezze sono subito evidenti. La prima è ovviamente l’altissimo livello di astrazione delle loro generalizzazioni sulla dinamica delle élites. A causa del loro alto livello di astrazione è molto difficile poter falsificare queste proposizioni; allo stesso tempo il loro potenziale produttivo di eventi empirici specifici risulta limitato. Inoltre si nota spesso un eccessivo stiramento dei concetti (e soprattutto del concetto stesso di élite e di classe dominante). Un’altra critica che può essere rivolta ai due autori riguarda più la sostanza che la metodologia delle loro analisi. La loro teoria delle élites politiche dedica troppa poca attenzione all’aspetto istituzionale della politica. Per Mosca e Pareto le élites politiche costituiscono la variabile chiave per comprendere il processo della politica. Ma la scarsa attenzione prestata all’ambiente istituzionale, all’interno del quale le élites sono costrette a muoversi fa sì che la variabile chiave rischi una specie di disincarnamento. Diventa allora difficile identificare in termini meno generali e più specifici i rapporti, sia attivi che passivi, delle élites con la società e con il sistema politico. Un approccio soddisfacente deve essere meno riduttivo: né le élites né le istituzioni possono essere ridotte completamente le une alle altre. Esse forniscono invece due punti di vista complementari per comprendere la politica, che traggono vantaggio dal fatto di essere posti in relazione tra loro. Fatte queste critiche, dobbiamo tuttavia riconoscere che le analisi di Mosca e Pareto hanno mantenuto, nonostante il tempo trascorso una notevole forza di suggestione, proprio perché si appuntano sui processi fondamentali di ogni sistema politico: come cioè coloro che detengono il potere cerchino di mantenere la propria posizione e come
14 Ivi, pp. 539 sgg., 623 e 894 sgg.15 Ivi, pp. 623-626.
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vengano rimpiazzati. È quindi necessario non tanto respingere le loro generalizzazioni, quanto sviluppare gli stimoli che forniscono, avvicinandole semmai ad un livello di empiricità maggiore.
Cercherò ora di muovere un primo passo in questa direzione, e per farlo applicherò alla storia del sistema politico italiano nel ventesimo secolo una prospettiva analitica centrata sui processi dinamici delle élites politiche.
Il sistema politico italiano attraversa in questo periodo tre fasi ben distinte: 1) quella del regime liberale avviato verso una completa democratizzazione (dall’inizio del secolo al 1922-24); 2) quella del regime autoritario fascista dal 1924-26 al 1943; 3) quella della ridemocratizzazione e del consolidamento dell’attuale regime democratico a partire dagli anni 1943-45. La mia analisi sarà centrata sulla prima e sulla terza fase (cioè sulle fasi protodemocratica e democratica); l’attenzione alla fase intermedia sarà solo incidentale, limitata ai rapporti di questa fase con le altre.
Il problema che intendo discutere è il rapporto tra il processo di riproduzione e rinnovamento della classe politica e la discontinuità del regime democratico. Ciò comporta un’analisi dei rapporti che intercorrono tra le élites e le articolazioni istituzionali fonda- mentali di questo regime, allo scopo di indagare sul ruolo che esercitano e sui cambiamenti nei quali incorrono durante queste fasi di transizione. All’interno di questa problematica di carattere generale tre interrogativi meritano particolare attenzione:
1. Si può in qualche modo collegare il processo di rinnovamento delle élites alla crisi e caduta del regime democratico (o protodemocratico) che determinano l’avvento del fascismo?
2. Di quale entità è la distruzione della vecchia classe politica democratica prodotta dalla fase autoritaria? Alla fine di quest’ulti- ma il numero dei sopravvissuti della prece
dente esperienza democratica è tale da garantire un certo grado di continuità con il passato nella ricostruzione del nuovo regime democratico e della sua classe politica, oppure questo processo deve ripartire da zero? E ancora ciò deve essere considerato un fatto positivo o negativo?
3. La stabilizzazione della classe politica democratica postautoritaria ha esito positivo? E qual è il suo ruolo nel garantire il consolidamento del nuovo regime democratico?
La classe politica e la crisi della democrazia prefascista: i rischi del rinnovamento
Ai fini dell’accertamento del ruolo della variabile classe politica nella caduta della democrazia prefascista è possibile avvalersi di due indicazioni, diverse e a prima vista contradditorie fornite dalla teoria classica. Primo, che una classe politica troppo chiusa va incontro al rischio di un declino qualitativo e può essere rimpiazzata da una classe politica nuova e antagonista. Secondo, che una apertura e un rinnovamento eccessivi possono altresì produrre una crisi nel regime esistente. Ci dobbiamo chiedere allora quale di queste due teorie eventualmente serva a spiegare la caduta del regime democratico nel caso italiano.
Si pongono immediatamente due problemi. Il primo riguarda il significato del concetto stesso di apertura (o chiusura) della classe politica. Il concetto può infatti avere aspetti sia quantitativi che qualitativi: significa cioè che si verifica un alto livello di turnover tra i membri della classe politica, o che il rinnovamento della classe politica immette politici nuovi con caratteristiche diverse, oppure entrambe le cose? Il secondo problema è di stabilire quali sono le soglie che consentono di definire troppo chiusa o troppo aperta una classe dirigente. Bisognerebbe aggiungere anche un terzo problema: come rendiamo operativo il concetto di classe politica che
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sia Mosca che Pareto non definiscono con troppa precisione? Partendo dall’ultimo punto, e dato il contesto storico che sto analizzando, considererò la classe politica composta principalmente dai membri del Parlamento. A questi si dovrebbero aggiungere alcuni (ma non molti) leaders di partito e membri del governo che non appartengano già al primo gruppo. È possibile che alcuni elementi della classe politica vengano omessi da questa delimitazione. Non si può tuttavia negare che, per capire il funzionamento del regime democratico, questi gruppi definiti dal punto di vista istituzionale sono centrali. Un altro aspetto da non dimenticare, e sul quale mi soffermerò in seguito, è che all’interno di questa vasta classe di politici non tutti hanno certamente lo stesso peso: vi sono i capi e i gregari.
Per il momento lascerò da parte i due altri problemi menzionati più sopra per accostarmi subito ad alcuni dati empirici. Cominciamo, dunque dalla dimensione quantitativa del rinnovamento delle élites. Al volgere del secolo il turnover tra i membri del Parlamento italiano si attestava ad un livello alquanto basso: la media percentuale di nuovi deputati ad ogni elezione era al di sotto del 25 per cento (1895 = 19 per cento; 1897 = 24 per cento; 1900 = 24 per cento). A questo basso livello di rinnovamento corrispondeva una grande continuità di carriera, come dimostra il fatto che in questo periodo in media quasi un terzo dei parlamentari aveva alle spalle cinque o più legislature16.
Ho detto basso livello di rinnovamento; possiamo dire anche troppo basso? Dal momento che non siamo in possesso di generalizzazioni sufficientemente collaudate sulla
interpretazione delle soglie quantitative del turnover delle élites, non siamo in grado di dare una risposta precisa a questa domanda. Possiamo tuttavia introdurre alcuni elementi di valutazione, paragonando i dati italiani con quelli disponibili per altri paesi. I dati, raccolti da Mattei Dogan, riguardanti la terza repubblica francese mostrano un tasso più elevato di nuovi eletti alle elezioni generali durante lo stesso periodo: tra il 1893 e il 1919 una media del 29 per cento17. E un livello analogo di turnover è documentato da Linz per le elezioni spagnole antecedenti la prima guerra mondiale18.
Se si prende poi in considerazione l’area anglofona si ha un tasso di rinnovamento per la Camera dei rappresentanti statunitense al volgere del secolo che è significativamente più elevato che non nel caso italiano (36 per cento tra il 1891 e il 1903). Ma negli anni successivi la percentuale media di nuovi eletti scende a livelli ancora più bassi di quelli italiani19. Per quanto riguarda il Regno Unito tra il 1918 e il 1951 la media di nuovi eletti è stata del 28 per cento20.
Da questi confronti si può concludere che, mentre il livello di rinnovamento della classe parlamentare italiana alla fine dell’Ottocento è certamente alquanto basso, esso non si distacca poi molto da altre esperienze politiche. In ogni caso se una valutazione assoluta di un determinato livello di rinnovamento solleva problemi di non facile soluzione, si può compiere qualche passo verso una interpretazione più significativa in un’ottica diacronica. Si verificano nel tempo mutamenti nei ritmi di rinnovamento delle élites? La risposta è positiva: dopo il periodo di bassi tassi di turnover che si è visto si afferma una
16 P. Farneti, Sistema politico e società civile, cit., p. 195.17 M. Dogan, La stabilité du personnel parlementaire sous la Troisième République, cit., p. 322.18 Linz riporta le seguenti percentuali di parlamentari di prima nomina: 31 per cento nelle Cortes del 1907, 34 per cento nel 1910 e 30 per cento nel 1914 (Continuidady discontinuidad en la elite espanola, cit., pp. 396-70).19 N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., p. 146.20 G. Loewenberg, Parliament in the German Political System, Ithaca, Cornell University Press, 1967, p. 146.
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tendenza a un crescente rinnovamento delle élites parlamentari (figura 1). A partire dalle elezioni del 1904, la percentuale di nuovi eletti non scenderà mai al di sotto del livello del 30 per cento. Fino alla prima guerra mondiale l’aumento è tuttavia ancora contenuto. Le prime elezioni postbelliche del 1919 comportano invece un livello di rinnovamento assolutamente senza precedenti. I parlamentari eletti per la prima volta sono oltre il 60 per cento del totale. Il rapporto tra i vecchi e i nuovi membri è capovolto. Mentre in passato la grande maggioranza dei politici sopravviveva da una legislatura all’altra, in questo caso solo una minoranza riesce a farlo e la grande maggioranza deve abbandonare il campo21.
In conseguenza di una serie di fattori che non è possibile discutere qui nei particolari (l’introduzione del sistema elettorale proporzionale, la prima guerra mondiale, la fondazione di un partito cattolico) si verifica una rottura nella continuità della élite parlamentare. Le elezioni successive (1921) portano una certa stabilizzazione nel processo di rinnovamento; la percentuale dei nuovi eletti scende al 38 per cento. In ogni caso tuttavia il turnover è ancora notevolmente più elevato che non all’inizio del periodo del quale ci stiamo occupando. Nelle elezioni successive del 1924, il rinnovamento torna di nuovo ad un livello molto alto (il 54 per cento dei parlamentari sono eletti per la prima volta)22. In tal modo, almeno dal punto di vista quantitativo, gli anni che precedettero la caduta del regime democratico in Italia, anziché una diminuita apertura della classe politica, mo
strano al contrario una tendenza ad un maggiore rinnovamento. Delle due generalizzazioni di Mosca che riguardano il rapporto tra il rinnovamento delle élites e la stabilità, è semmai la seconda, che ipotizza gli effetti destabilizzanti di una troppo rapida circolazione delle élites, a poter essere applicata all’esperienza italiana. O forse potremmo suggerire una formulazione in un certo senso più complessa che prenda in considerazione entrambi gli aspetti. Un periodo di basso (e insufficiente) livello di rinnovamento delle élites politiche, quale quello che abbiamo rilevato in Italia al volgere del secolo, ha fatto sì che la classe politica ‘restasse indietro’ rispetto alle mutate condizioni della società ed ha quindi preparato il terreno per una improvvisa circolazione delle élites il cui effetto è stato poi il crollo delle fondamenta istituzionali del regime liberale. Un forte rinnovamento della classe politica si realizza non solo dopo la transizione a un nuovo regime (come ci si potrebbe facilmente aspettare) ma anche negli anni immediatamente precedenti. È interessante osservare come in almeno altri due importanti casi il crollo della democrazia si sia verificato dopo un periodo di elevato turnover nella classe politica: questo avviene negli ultimi anni della repubblica di Weimar23, e in Spagna durante la seconda repubblica24.
Naturalmente non vi sono elementi sufficienti per affermare che un alto livello di turnover della classe politica sia da solo la causa della caduta di un regime democratico. Vi sono in effetti altri casi in cui si verifica un consistente rinnovamento senza che la demo-
21 D. Novacco, Storia del Parlamento Italiano, Palermo, Flaccovio, 1967, voi. 12, p. 26 nota che dei 508 membri della legislatura precedente 203 non si ripresentarono neppure e che tra quelli ricandidatisi ben 126 furono sconfitti.22 Le elezioni del 1924 devono essere valutate con una certa cautela date le condizioni di violenza diffusa in cui si svolsero e le rilevanti limitazioni poste alla libertà di competizione politica. Tuttavia, non essendo state manipolate integralmente ed essendosi svolte ancora in presenza di un certo pluralismo politico, non possono essere scartate completamente, tanto più che i risultati di esse aiutano a capire le tappe successive della presa del potere autoritaria.23 G. Loewenberg, The Institutionalization o f Parliament and Public Orientation to the Political System, cit.,p . 146.24 J. Linz, Continuidady discontinuidad en la elite espanola, cit., pp. 394-99.
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crazia corra alcun rischio. Ad esempio nel Regno Unito le prime elezioni sia dopo la prima che dopo la seconda guerra mondiale mostrano un livello di turnover eccezionalmente alto: 48 per cento e 53 per cento25 — ma non comportano in alcun modo la caduta del regime democratico. E anche in Francia durante la terza repubblica le prime elezioni dopo la prima guerra mondiale provocano un turnover più elevato nella élite parlamentare (52 per cento di nuovi eletti), senza produrre una grossa crisi26. In presenza di esempi così contraddittori, una formulazione più prudente potrebbe consistere neH’affermare che mentre questa variabile non è di per sé sufficiente a spiegare il crollo delle democrazie, potrebbe invece essere significativa come uno degli elementi della complessa sindrome che è all’origine di questa crisi27. Quando non si verificano le altre condizioni di questa sindrome, una rapida circolazione delle élites politiche può venire assorbita senza eccessivo pericolo per il regime (e può anzi esercitare un ruolo positivo di rinnovamento); invece se si somma ad altri elementi può diventare un peso insopportabile. Al fine di rendere più solida questa ipotesi dobbiamo comprendere meglio quale è l’impatto istituzionale del tasso di rinnovamento della classe politica, e più specificamente di un mutamento in questo tasso. In questa prospettiva è importante osservare come dal tasso di rinnovamento dipenda la stratificazione di anzianità della classe parlamentare; e quindi un cambiamento significativo del primo comporta anche un cambiamento della seconda, con tutte le implicazioni che ciò può avere per la struttura della classe parlamentare stessa e
per i suoi rapporti con la istituzione parlamentare all’interno della quale essa opera. Come è stato sostenuto da alcuni autori, viene qui in gioco il consolidamento istituzionale del Parlamento28.
Per affrontare questo problema dobbiamo operazionalizzare il concetto di anzianità parlamentare. A questo scopo userò come criterio discriminante la soglia dei due mandati. Come ogni soglia anche questa presenta un certo grado di arbitrarietà: ma sembra plausibile affermare che ci vogliono almeno due mandati perché un legislatore diventi completamente padrone di una macchina istituzionale così complessa come il Parlamento. Distinguerò quindi tra legislatori giovani (cioè quelli al primo o al secondo mandato) e legislatori anziani (quelli con tre o più mandati) e credo si possa ragionevolmente avanzare l’ipotesi che la socializzazione istituzionale dei nuovi eletti alle norme, usi e convenzioni, del sistema parlamentare sarà più facile in presenza di un equilibrio tra le due componenti; al contrario, quanto più la componente giovane tende a prevalere su quella anziana, maggiori saranno le possibilità di una rottura della continuità istituzionale (e ciò può significare consistenti cambiamenti procedurali o una più vasta ristrutturazione del Parlamento o addirittura una crisi della sua funzionalità).
Se prendiamo in esame da questo punto di vista la classe parlamentare italiana durante questi anni, si può facilmente rilevare un notevole cambiamento. All’inizio del secolo la componente giovane non raggiunge neppure la metà del totale dei parlamentari: 40 per cento nel Parlamento eletto nel 1904. Nelle
25 G. Loewenberg, Parliament in The German Political System, cit., p. 146.26 M. Dogan, La stabilité du personnel parlementaire..., cit., p. 322.27 Per una ricostruzione analiticamente molto acuta dei meccanismi e dei tempi della crisi dei regimi democratici si veda il saggio introduttivo di J. J. Linz nell’opera collettanea a cura dello stesso autore: La caduta dei regimi democratici, Bologna, Il Mulino, 1981.28 Cfr. N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., p. 146 e G. Loewenberg, Parliament in the German Political System, cit., pp. 145-146.
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due legislature successive si può notare un aumento della percentuale dei legislatori giovani, ma modesto. Con le elezioni del 1919 il quadro cambia completamente. La componente giovane diventa una maggioranza schiacciante (78 per cento nel 1919; 75 per cento nel 1921; 74 per cento nel 1924), mentre la percentuale di legislatori anziani si riduce a circa un quarto di tutti i membri (figura 2). Coloro che potevano meglio garantire la continuità istituzionale sono così diventati una piccola minoranza.
Il rinnovamento e il ringiovanimento non colpisce però soltanto la classe parlamentare in genere ma anche un gruppo di legislatori più selezionati e più significativi dal punto di vista istituzionale: i presidenti e i vicepresidenti della Camera dei deputati. Se facciamo un paragone tra gli anni prima e dopo la guerra la diminuzione deH’anzianità parlamentare di questo gruppo di persone istituzionalmente rilevanti è notevole. Durante la XXII legislatura (1904-1909) l’anzianità media era di dieci mandati (compreso quello in corso); durante la XXIII (1909-1913) e la XXIV (1913-1919) legislatura di 8,2; dopo la guerra era scesa però a 4,9 durante la XXV legislatura (1919-1921), a 4 nella XXVI (1919-1924), e infine a 2,9 soltanto durante la XXVII (1924-1929). Un ulteriore punto da fare osservare è che nessuno dei legislatori che avevano coperto tale ruolo prima del 1919 ritorna in questa posizione istituzionale dopo il 1919 (anzi la maggior parte di essi non viene neppura rieletta in Parlamento). Come risulta da questi dati, la dimensione quantitativa dei processi di circolazione delle élites durante questo periodo della storia italiana segnala di per se stessa 1’esistenza di una situazione caratterizzata da un indebolimento dei fattori di continuità istituzionale.
Ma, come suggerirebbe Pareto, per una completa valutazione del significato di un processo di mutamento nella classe politica, bisogna prenderne in considerazione anche la dimensione qualitativa. La domanda da porsi è allora la seguente: l’alto livello di rinnovamento dell’élite parlamentare va di pari passo con un mutamento significativo nel suo profilo qualitativo? Il turnover elevato significa soltanto una più rapida circolazione di politici dello stesso tipo o anche una più rapida sostituzione della vecchia classe politica con una diversa generazione di politici? Nel secondo caso si pongono immediatamente alcuni interrogativi. Quali sono gli atteggiamenti dei nuovi politici nei confronti del regime esistente e della sua configurazione istituzionale? La loro coesistenza con i superstiti della vecchia élite politica come funzionerà nella fase di transizione? È possibile qualche forma di integrazione tra vecchi e nuovi politici?
Gli anni seguiti alla prima guerra mondiale vedono in effetti cambiamenti anche sul piano qualitativo. Il profilo sociologico dei legislatori muta: in particolare si ha un declino delle classi superiori e una crescita dei politici di professione29. Ma non in modo fonda- mentale. Gli aspetti qualitativi più significativi che cambiano nel corso di questi anni sono legati all’appartenenza dei parlamentari ai partiti. Il grande rinnovamento della classe parlamentare liberale che ha luogo con le elezioni del 1919 è in stretta relazione con un vero e proprio sconvolgimento del sistema partitico. I due partiti di massa, il partito socialista e il partito popolare compiono uno straordinario balzo in avanti mentre, parallelamente, l’area parlamentare liberale subisce una brusca riduzione. Un simile cambiamento nel sistema partitico si ripercuote diretta
29 Su questo punto si veda L. Lotti, Il Parlamento italiano, 1909-1963: raffronto storico, in II Parlamento italiano, cit. e P. Farneti, The Italian Parliamentary Elite from Liberalism to Democracy, relazione presentata alle Joint Sessions dell’European Consortium for Political Research, Grenoble, 1978.
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mente sulla classe politica. Intanto i due partiti in ascesa si collocano entrambi al di fuori de\Y establishment politico tradizionale; pertanto la classe politica che emerge con essi ha ovviamente un atteggiamento nei confronti delle istituzioni esistenti profondamente diverso da quello dei vecchi politici liberali: non è il ‘loro’ regime politico e non sentono nei suoi confronti forti sentimenti di identificazione30. In, secondo luogo, i nuovi partiti sono organizzazioni politiche profondamente diverse da quelle dell’area liberale e democratica, che non potevano essere considerate veri partiti, quanto piuttosto raggruppamenti personalistici a base parlamentare. Questo fatto inevitabilmente influenza i moduli organizzativi della classe politica. Il vecchio sistema personalizzato basato sui rapporti tra leader parlamentare e seguaci lascia il posto ad un sistema più formale e impersonale. Questa trasformazione diviene visibile anche istituzionalmente quando, con la riforma regolamentare del 1920, l’organizzazione operativa della Camera dei deputati viene a basarsi sui gruppi parlamentari riconosciuti giuridicamente invece che sui singoli deputati. Con ciò viene introdotto nel funzionamento del Parlamento un nuovo elemento non solo di disciplina ma anche di rigidità. Un’altra importante conseguenza del nuovo tipo di partito è che, a fianco dei gruppi parlamentari e della leadership da essi espressa, esiste ora una leadership potenzialmente di
versa, selezionata dalle organizzazioni esterne degli stessi partiti. Durante tutto questo periodo per esempio il leader politico ufficiale e reale del Ppi, Sturzo, non è un parlamentare. È una leadership dualista, con leaders parlamentari e leaders di partito quasi sempre divisi nelle posizioni politiche e nelle strategie, è evidente anche nel partito socialista31.
Il significato e l’impatto del rinnovamento della classe politica diventano quindi molto più evidenti se prendiamo in considerazione le due dimensioni, quantitativa e qualitativa, insieme. La nuova classe politica è anche una classe politica diversa.
Come abbiamo già osservato, i due partiti ‘nuovi’ sono i maggiori responsabili del rinnovamento della classe politica. Dei 156 deputati socialisti eletti nel 1919, 128 cioè l’82 per cento sono di nuova elezione, e anche per il Ppi vale una percentuale analoga (81 su 98, cioè l’83 per cento). Il Psi e il Ppi sono quindi partiti nuovi, sia per quanto concerne la loro posizione politica (al di fuori dell’esta- blishment) che per la loro classe politica, come pure nuovo è il loro ruolo nel Parlamento e nel processo politico. Nel passato rappresentavano una forza minoritaria32, ora, sommati, contano il 50 per cento dei legislatori; non è possibile formare un governo contro di essi.
Quanto ai partiti vecchi, essi hanno perso quasi la metà dei seggi; ma anche nelle loro
30 Non ultimo aspetto di questa situazione era lo scarso attaccamento di entrambi i partiti nei confronti dell’istituzione monarchica. Anzi nel caso del partito socialista si poteva parlare di netta ostilità, come si rivelò chiaramente quando, all’apertura della Camera, al momento del discorso della Corona i deputati socialisti abbandonarono l’aula. Non che il loro atteggiamento antimonarchico fosse una novità, solo che finché il Psi era un gruppo di ridotte dimensioni poteva passare quasi inosservato, ora invece, date le dimensioni raggiunte dal partito, acquistava un significato delegittimante ben più grave.31 Gli effetti di questa situazione si rivelano particolarmente seri per il processo di formazione delle coalizioni (necessarie per dare una maggioranza ai governi). I rapporti tra i vecchi leaders parlamentari liberali e la leadership dualistica dei partiti di massa sono difficili proprio per motivi strutturali, in quanto le due élites politiche devono muoversi nell’ambito di vincoli istituzionali molto diversi.32 II Psi aveva ottenuto nel 1913 solo 52 deputati (circa il 10% della Camera): il Partito popolare non esisteva prima del 1919 e i deputati ‘clericali’ non rappresentavano certo ancora una forza politica nazionale di una certa consistenza.
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fila il rinnovamento è stato elevato (106 nuovi eletti su 252, cioè il 42 per cento). Ciò significa che in quest’area il numero dei non rieletti è stato particolarmente alto, e che quindi, anche all’interno dei partiti che rappresentano in maniera più significativa la continuità del sistema politico, la classe politica deve affrontare in questi anni tutti i problemi di un riassestamento di grossa portata. Con le elezioni successive (1921) si verifica un netto calo nel tasso di rinnovamento dei due partiti di massa (solo il 37 per cento di nuovi eletti nel Ppi e il 33 per cento nel Psi). Ciò non ha, naturalmente un grosso impatto immediato sul livello di anzianità dei loro gruppi parlamentari, nei quali oltre l’80 per cento dei membri sono ancora deputati giovani. Negli altri partiti del centro e della destra, considerati nel loro complesso, il turnover rimane più elevato (41 per cento), seppure non omogeneo. La vecchia componente liberale e conservatrice ha ormai raggiunto una certa stabilità, unita però, bisogna riconoscerlo, ad un considerevole indebolimento del suo peso in Parlamento, mentre sono emersi nuovi gruppi politici — fascisti, nazionalisti — guidati da una leadership giovane e priva di esperienza parlamentare33. Per comprendere appieno il ruolo che questi nuovi politici (‘leoni’, se vogliamo caratterizzarli in termini paretiani) stanno per avere, non si deve dimenticare che, dato lo stato dei giochi di coalizione in questi anni e il veto reciproco tra alcune delle principali forze politiche, il loro peso politico eccede di molto il loro numero relativamente esiguo.
Un segno piccolo ma indicativo del fatto che la classe politica postbellica è una classe politica ‘nuova’ anche nei suoi orientamenti
politici può essere dato dal seguente elemento: le richieste presentate al Parlamento di sospensione dell’immunità parlamentare per deputati accusati di avere trasgredito la legge. Dopo la prima guerra mondiale il numero di casi in cui la trasgressione assume anche toni politici e istituzionali (ad esempio: diffamazione nei confronti dello Stato o di una delle sue istituzioni, incitamento alla violenza politica o sedizione, partecipazione a sommosse politiche ecc.) diviene significativo34. Possiamo leggere in questi dati un segno del deterioramento generale del clima politico, ma anche della parte avuta in questo processo dai membri della élite parlamentare. Un fatto da non sottovalutare. E che questa atmosfera conflittuale lasciasse traccia sulla istituzione parlamentare stessa trova conferma nel fatto che durante la XXVI legislatura (1921-24) furono avanzate proposte tese a rafforzare i poteri disciplinari del presidente della Camera dei deputati nonché a creare una apposita giuria che si occupasse delle controversie tra deputati35.
Quando si dibatte la questione degli effetti della variabile classe politica l’attenzione si accentra generalmente sugli effetti in termini di ‘politiche’. Il motivo è comprensibile: le ‘politiche’ concrete sono alla fin fine la ragione per cui è rilevante la ‘politica’. Come abbiamo però affermato all’inizio non dobbiamo dimenticare che le politiche sono prodotte da istituzioni e dipendono quindi dal funzionamento di queste. Si può trascurare la dimensione istituzionale solo quando le istituzioni possono essere date per scontate, cioè non sono in discussione né la loro esistenza né il loro funzionamento. Ma questo non è certamente il caso dell’Italia durante
33 Cfr. P. Fameti, The Italian Parliamentary Elite, cit., p. 16.34 Nella legislatura 1919-21 su 60 richieste prese in considerazione dalla Camera 29 avevano questo carattere; nella legislatura successiva 57 su 106. Nella legislatura 1909-1913 invece il numero era stato soltanto di 3 su 116. Per questi dati cfr. Camera dei deputati, La X X III Legislatura, Roma 1913; idem, La XXVLegislatura, Roma 1921. idem, La X X V I Legislatura, Roma, 1924.35 Vedi Camera dei Deputati, La X X V I Legislatura, cit., p. 106.
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gli anni che stiamo esaminando. Dobbiamo quindi prestare attenzione innanzi tutto all’aspetto istituzionale, ed abbiamo visto come i cambiamenti verificatisi nei processi di articolazione della classe politica abbiano un rapporto con questa dimensione. Al fine ora di accorciare in qualche modo la distanza tra il livello istituzionale e quello delle politiche dobbiamo prestare attenzione ad un processo che ha un ruolo fondamentale di legame tra i due. Intendo riferirmi al processo della formazione dei governi.
Le conseguenze della nuova situazione verificatasi nella classe politica dopo le elezioni del 1919 si fanno sentire molto chiaramente su questo processo che, per un regime parlamentare, è particolarmente importante e delicato. Tutti i politici sperimentati, candidabili alla guida del governo appartengono naturalmente alla vecchia classe politica espressa dai partiti tradizionali. Ma a causa dell’in- debolimento di questi sono diventati ‘generali senza soldati’. Nei partiti nuovi si verifica la situazione opposta: essi hanno infatti molti ‘soldati’ ma mancano di generali. C’era certo qualche leader politico più anziano, però con il fatto che questi partiti erano sempre stati all’opposizione nessuno aveva esperienza diretta del processo di formazione di coalizioni di governo. È probabilmente conseguenza di questa situazione che il solo politico dei nuovi partiti di massa (Meda del Ppi) al quale in quegli anni viene richiesto due volte dal re di cercare di formare un governo abbia rifiutato36. In un certo senso non si sentiva adeguato al compito e riteneva di non godere di sufficiente autorità in Parlamento. Il risultato è che i ‘vecchi generali’ devono formare i loro governi contando soprattutto
sui ‘nuovi soldati’. Ma il compito è diventato molto più difficile che non in passato: i nuovi settori della classe politica sono più rigidi dei vecchi in quanto agiscono seguendo strettamente linee di partito, e meno facilmente possono quindi venire cooptati per un appoggio al governo su basi personali. Non c’è quindi da stupirsi che anche il più significativo uomo politico liberale degli anni precedenti la guerra, cioè Giolitti, che aveva in passato dominato il processo di formazione dei governi, debba ora andare incontro a un fallimento. Il ‘miracolo’, al quale aveva abituato sia gli amici che gli avversari politici (essendo sempre in grado di ritornare dal- 1’ ‘esilio’ autoimpostosi e formare una maggioranza parlamentare), questa volta non avviene, ed egli preferisce ritirarsi e cedere il passo ad altri politici meno in vista.
Una riprova di quanto il processo di formazione dei governi sia diventato in questi anni sempre più difficile è fornita dalla durata media dei governi: mentre tra il 1900 e il 1919 era circa di sedici mesi, tra il 1919 e il 1922 scende a soli sei o sette. Questa situazione influisce necessariamente sulla efficacia politica dell’esecutivo. Ne dà una riprova l’indice di successo delle proposte legislative sottoposte al Parlamento dal governo che diminuisce in maniera drastica nelle legislature del dopoguerra rispetto alle percentuali degli anni precedenti la guerra37. Va detto inoltre che il calo nell’indice di successo delle iniziative legislative riguarda anche le proposte avanzate dai parlamentari: la crisi colpisce dunque entrambi gli elementi della coppia governo / Parlamento.
Abbiamo già osservato come i settori nuovi della classe politica siano organizzati più
36 G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla repubblica, Milano, Mondadori, 1968, pp. 41 sgg.37 Nella XXI legislatura (1900-1904) la percentuale di successo per i progetti di legge governativi introdotti alla Camera è del 70 per cento (su un totale di 882 progetti): nella XXII dell’88 per cento (su un totale di 933); nella XXIII dell’89 per cento (su un totale di 1111); nella XXIV del 33 per cento (su un totale di 1157); nella XXV del 13 per cento (su un totale di 1078); nella XXVI del 33 per cento (su un totale di 1551) (Camera dei Deputati, Manuale dei Deputati per la X X V II Legislatura, Roma, 1924, pp. 1086-87).
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rigidamente lungo linee di partito formalmente definite. Ciò non significa necessariamente che questi raggruppamenti siano sempre coesivi ed unitari. Anzi, durante questo periodo, sia il gruppo parlamentare socialista che quello popolare devono affrontare profonde spaccature all’interno dei loro ranghi, soprattutto riguardo alla loro partecipazione al governo. Questi dissensi producono dapprima una mancanza di flessibilità politica in entrambi i gruppi, che riduce al massimo la loro possibilità di esercitare un ruolo positivo nella soluzione della crisi governativa, e, in un secondo momento, scissioni formali di gruppi di dissidenti. Le spaccature nel Psi sono così serie da dare origine a tre diversi partiti (socialisti unitari, socialisti massimalisti e comunisti) con strategie in netto conflitto in ordine all’atteggiamento nei confronti delle coalizioni di governo. Quanto ai popolari, perdono un gruppo di deputati di una certa consistenza quando questi in un momento cruciale (il voto per la riforma elettorale del 1923) decidono di appoggiare la proposta fascista, contro la linea di voto del partito 38. Sembra plausibile argomentare che proprio l’enorme crescita dei due partiti e della loro classe politica abbia creato un terreno favorevole al nascere di dissensi interni sui laceranti problemi del periodo postbellico.
Problemi sociali meno gravi di quelli affrontati dalla democrazia italiana in quegli anni avrebbero forse concesso alla nuova classe politica più tempo per consolidare la propria struttura e per superarne le eterogeneità. Sarebbe forse accaduto ciò che avvenne nella Germania di Weimar, dove la classe
politica postbellica resistette dieci anni di più o forse sarebbe stato addirittura possibile evitare la fine della democrazia. Ma per una serie di motivi che non è possibile esaminare in questa sede nei dettagli, il tempo mancò, ed una nuova classe politica riuscì a sfruttare abilmente queste occasioni per impadronirsi del potere ed inaugurare un regime autoritario39.
Ritornando alle formulazioni della teoria classica quello che possiamo ricavare dall’esperienza italiana è che, se la variabile della classe politica ha avuto un ruolo nella caduta della democrazia, ciò è stato soprattutto per effetto di un troppo repentino processo di rinnovamento. La somma degli aspetti quantitativi e qualitativi (soprattutto l’aumentata eterogeneità all’interno della classe politica) di questo fenomeno ha contribuito in maniera significativa ad indebolire la capacità dell’esile governo democratico di affrontare le difficili prove di quegli anni. Sebbene questa spiegazione del caso italiano sembri alquanto plausibile, è necessario ribadire che per trarne una generalizzazione sufficientemente solida sarebbe indispensabile un raffronto più sistematico con altri casi. In particolare sarebbe opportuno discutere i casi in cui un ampio rinnovamento della classe politica ha costituito soltanto un fattore di rinnovamento, senza effetti destabilizzanti40. In sostanza bisognerebbe analizzare più a fondo le condizioni aH’interno delle quali si sviluppano i processi di circolazione delle élites e indagare su quali fattori possano controbilanciare le tensioni che si producono quando una classe politica è sottoposta ad un mutamento repentino.
38 G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica, cit., pp. 81 sgg.39 Per una interessante messa a fuoco di questa transizione di regime di veda P. Farneti, La crisi della democrazia italiana e l ’avvento del fascismo: 1919-1922, in “Rivista Italiana di Scienza Politica” , voi. 5, 1975.40 Per l’esame di un’esperienza di questo secondo tipo cfr. M.R. King e L.G. Seligman, Criticai Elections, Congressional Recruitment and Public Policy, in H. Eulau e M. Czudnowski (a cura di), Elite Recruitment in Democratic Politics, Beverly Hills, Sage, 1976.
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La classe politica della democrazia postbellica: il problema del consolidamento
Se esaminiamo la seconda esperienza democratica della storia d’Italia del ventesimo secolo — quella che ha inizio con la caduta del fascismo, causata dalla sconfitta militare nella seconda guerra mondiale — la natura dei problemi che dobbiamo affrontare non è molto diversa, tuttavia il quadro di riferimento e gli esiti non sono chiaramente gli stessi.
L’elemento in comune con l’esperienza precedente è che ancora una volta la classe politica è in gran parte nuova (quanto poi sia in effetti nuova è una questione sulla quale sarà necessario ritornare). È quindi una classe politica che dovrà sottostare a un processo di consolidamento e di apprendistato istituzionale. La differenza con la situazione precedente è che il rapporto tra il cambiamento di regime e il rinnovamento della classe politica è ora capovolto. Dopo la prima guerra mondiale un vasto rinnovamento della classe politica si era sviluppato nel quadro del regime politico preesistente, e il cambiamento di regime si era verificato dopo e, come abbiamo visto, poteva in un certo senso ritenersi conseguente a quel processo. Ora invece il rinnovamento della classe politica è una diretta conseguenza del cambiamento di regime — o meglio di due passaggi di regime; dalla democrazia al fascismo, e dal fascismo di nuovo alla democrazia. La differenza è significativa e facilita ovviamente il compito della classe politica postfascista. I nuovi politici del 1919 e del 1921, nella loro lotta contro la vecchia classe politica liberale, finiro
no per combattere anche il regime parlamentare esistente, rischiando così, come di fatto avvenne, la propria autodistruzione (avevano infatti potuto affermarsi sotto la tutela del vecchio regime e, con il suo disgregarsi, restarono travolti dal nuovo autoritarismo). La classe politica postfascista è riuscita invece a insediarsi lottando sia contro la vecchia classe politica (fascista) che contro il vecchio regime (fascista), conquistando così una doppia legittimità democratica.
In ordine al problema sul quale intendo qui focalizzare l’attenzione, cioè l’installazione e il consolidamento di una nuova classe politica (nel nostro caso quella postfascista), in Mosca e Pareto si possono trovare soltanto osservazioni di carattere generale sulla tendenza comune a tutte le classi politiche una volta raggiunto il potere, a diventare col tempo sempre più chiuse ed a perpetuare se stesse per mezzo di meccanismi di esclusione di diverso tipo e soprattutto traendo vantaggio da meccanismi ereditari41. Secondo Mosca questa tendenza svolge, almeno fino ad un certo punto, una funzione positiva, dal momento che garantisce la trasmissione di valori e qualità indispensabili al funzionamento del sistema politico42. Un punto di vista che, sebbene espresso in termini diversi, è condiviso dalla teoria dell’istituzionalizzazione43. È evidente invece che, nel contesto politico contemporaneo, il ruolo attribuito dalla teoria classica al principio ereditario sembra superato. Mentre questo principio può avere avuto in passato un grosso ruolo nel garantire la continuità di una classe politica, oggi hanno preso il suo posto altri fattori politici, in particolare l’organizzazione
41 G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., vol. 1, pp. 94 sgg.; V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., voi. 2, pp. 899 sgg.42 G. Mosca, op. cit., p. 95.43 Si veda per esempio N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., passim; G. Loewen berger, The Institutionalization o f Parliament, cit. e R. Sisson, Comparative Legislative Institutionalization: A Theoretical Explanation, in A. Kornberg, Legislatures in Comparative Perspectives, cit.
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partitica. Il principio ereditario è confinato ormai ad un ruolo marginale; il che non significa tuttavia che i legami di parentela abbiano perso ogni influenza, se è vero che tra il 1946 e il 1976 circa il 40 per cento dei deputati italiani aveva almeno un parente con una esperienza politica di qualche tipo e il 15 per cento un parente appartenente alla classe parlamentare44.
Prima però di affrontare il problema della stabilizzazione di una nuova classe politica, dobbiamo prendere in esame come questa classe si è formata. E in particolare dobbiamo rispondere alla seguente domanda: quale grado di discontinuità è stato determinato dal periodo non democratico, o, per porre altrimenti la domanda, fino a che punto è nuova la nuova classe politica? Il problema presenta in realtà due aspetti: 1. il grado di discontinuità con la classe politica autoritaria; 2. il grado di discontinuità con la precedente classe politica democratica. Il primo può essere significativo per valutare fino a qual punto un passato non democratico continui a pesare sulla rinata democrazia e in quale misura la transizione sia stata di tipo evolutivo oppure abbia configurato una rottura. Il secondo può contribuire a rispondere alle domande sul grado di esperienza democratica dei fondatori del nuovo regime e sulPincidenza della memoria della passata democrazia con le sue fratture e i suoi schieramenti sul comportamento politico nella nuova situazione.
Per quanto riguarda il primo punto, e limitando l’analisi al livello parlamentare, la classe politica del nuovo regime democratico
mostra un livello molto basso di continuità con la classe politica non democratica. Di tutti i membri dell’Assemblea costituente e della Camera dei deputati eletti tra il 1946 e il 1976 solo quindici avevano fatto parte delle legislature ‘elette’ sotto il regime fascista. Naturalmente ciò non significa che soltanto così pochi tra i nuovi politici fossero stati in qualche modo coinvolti nel regime fascista: è indubbio che un numero maggiore di essi erano stati politicamente legati al passato regime, ma ad un livello inferiore, in sede locale e non in qualità di membri della classe di governo nazionale. Sotto questo aspetto è considerevole la differenza con il recente caso spagnolo45.1 dati riguardanti la continuità delle élites politiche sono coerenti con il diverso modello di transizione alla democrazia verificatosi nei due paesi: evolutivo in Spagna, discontinuo in Italia46. Il fatto che in Italia la nuova classe politica abbia scarsi legami personali con il passato regime auori- tario (eccezion fatta per alcuni membri del Msi) significa che l’opposizione al regime fascista, l’antifascismo, può essere condiviso da tutte le forze politiche, diventando un potente strumento di azione simbolica e di legittimazione. Non se ne deve quindi sottovalutare il ruolo nel ricomporre le spaccature politiche.
Il punto successivo riguarda la continuità con il vecchio regime democratico. Quale è stato il ruolo esercitato dai superstiti della democrazia prefascista nella formazione della nuova classe politica democratica? Possiamo iniziare con un dato complessivo. Nel primo Parlamento liberamente eletto dopo la
44 Cfr. M. Cotta, Classe politica e Parlamento in Italia, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 152. Nei paesi dove non si sono sviluppati partiti fortemente organizzati il ruolo dei legami familiari può essere ancora più esteso; si veda ad esempio l’analisi del caso greco in K. Legg, Restoration Elites: Regime Change in Greece, in M. Czudnowski (a cura di), Does Who Governs Matter?, rit., pp. 188-213.45 I politici con un passato franchista rappresentano un gruppo piuttosto consistente nella assemblea costituente spagnola eletta nel 1977; la loro presenza é concentrata in due partiti: Alianza Popular e UCD (cfr. S. del Campo. J.F. Tezanos e W. Santin. The Spanish Elite: Permanency and Change, M. Czudnowski, op. cit., pp. 125-53).46 Sui diversi modelli di transizione alla democrazia cfr. L. Moriino, Come cambiano i regimi politici, Milano, Angeli, 1980, pp. 86 sgg.
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caduta del fascismo, cioè nell’Assemblea costituente del 1946, i legislatori con una esperienza nel vecchio Parlamento democratico sono 88, cioè il 15 per cento del totale. È una minoranza alquanto ridotta che diminuirà ancora (3 per cento) nella Camera eletta nel 194847. Spiegare il numero limitato dei superstiti della vecchia classe politica democratica è facile. Un primo elemento è dato ovviamente, dal trascorrere del tempo; vent’anni non possono non operare ‘naturalmente’ una forte selezione. Un altro fattore che può avere influito è il fatto che, come abbiamo visto, la maggior parte della vecchia classe politica non aveva ancora avuto il tempo di consolidare le proprie posizioni prima dell’avvento del fascismo, e fu quindi facilmente eliminata dal regime dittatoriale.
In termini comparati tuttavia, il gruppo di legislatori prefascisti che riesce a tornare in Parlamento alle prime elezioni della ricostituita democrazia non è poi così ristretto. Nella Germania occidentale, nonostante una interruzione più breve nel governo democratico, i superstiti del vecchio Reichstag eletti al primo Bundestag del 1949 sono soltanto 28 (7 per cento)48. E in Francia, dopo solo cinque anni del governo di Vichy, la percentuale dei legislatori della terza repubblica eletti nel 1945 alla prima assemblea parlamentare della quarta repubblica è inferiore a quella italiana: il 15 per cento49. Probabilmente la radicalità dell’esperienza non democratica in Germania, il profondo riallineamento del sistema partitico avvenuto in Francia dopo la seconda guerra mondiale, sono i fattori che spiegano la maggiore discontinuità della classe politica in questi due casi. Altri paesi, come la Spagna e la Grecia,
mostrano invece una relazione più lineare tra il fattore tempo e la sopravvivenza delle vecchie élites democratiche50.
Ritornando al caso italiano è interessante osservare come nell’Assemblea costituente il peso numerico dei vecchi legislatori non sia uguale in tutti i settori: esso va infatti da un minimo di sei tra i legislatori comunisti (nessuno faceva tuttavia parte del gruppo parlamentare comunista prima del fascismo) al 14 per cento dei democristiani, al 24 per cento dei socialisti, a un massimo del 32 per cento per la destra. I partiti che, già prima del fascismo, avevano una antica tradizione politica mostrano continuità maggiore con il passato: abbiamo quindi una prova della validità dell’ipotesi avanzata in precedenza sul rapporto tra la sopravvivenza della vecchia élite democratica e la profondità del suo consolidamento prima dell’avvento del regime autoritario. Possiamo però interpretare questi dati — e non vi è contraddizione tra le due letture — anche come segno di una ridotta capacità delle forze politiche di più antica tradizione nel reclutare elementi nuovi.
Al fine però di comprendere appieno il ruolo esercitato dalla classe politica prefascista nella fase di transizione alla democrazia questi dati non sono sufficienti. In effetti essi ne sottovalutano l’influenza. Per una valutazione più accurata dobbiamo ritornare indietro di qualche anno e prendere in considerazione la politica ‘non-istituzionale’ degli anni1943-46 tra la caduta del fascismo e le prime elezioni. Questi anni di transizione tra i due regimi sono in effetti fondamentali per la prima formazione della nuova classe politica e per le basi del governo democratico. In questi anni si verifica la prima fusione di vec-
47 La continuità con il passato è maggiore nel Senato durante la prima legislatura dato che molti parlamentari prefascisti vi vengono nominati de iure.48 Deutscher Bundestag, Die Mitglieder des deutschen Bundestages: I.-VI. Wahlperiode, Bonn, 1971, pp. 154 sgg.49 P. Manigand, Les Députés de la IV* République relazione presentata alle Joint Sessions del European Consortium for Political Research, Grenoble, 1978, p. 8.50 Cfr. K. Legg, Restoration Elites: Regime Change in Grece, cit., p. 200.
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chi e nuovi politici, e gli schieramenti politici subiscono una strutturazione iniziale anche se non definitiva. In questo periodo non esiste un vero Parlamento51 e le arene nelle quali la classe politica muove i primi passi sono i partiti in via di ricostituzione, il governo, la Resistenza. Ognuna di queste arene è strutturalmente diversa dalle altre e benché siano connesse tra di loro, all’interno di ciascuna emerge una classe politica alquanto diversa. Nella Resistenza i vecchi politici hanno un ruolo molto limitato; il ruolo preminente è quello di una leadership giovane, con scarsa esperienza della vecchia democrazia parlamentare e fortemente motivata alle innovazioni. Non c’è quindi da stupirsi che, all’interno di questo gruppo, circolino ipotesi più radicali su una democrazia non parlamentare, basata sui Cln. Nelle altre due arene il ruolo dei politici tradizionali è più significativo52.
Nel primo governo ‘politico’ dopo la caduta di Mussolini, il secondo governo Badoglio, su diciassette ministri nove erano stati deputati o senatori nel periodo prefascista (e tre anche ministri). La percentuale è più o meno la stessa nei successivi governi degli anni quaranta. Il grado di continuità è davvero significativo, né se ne deve sottovalutare il peso, se si pensa al ruolo centale e relativamente incontrollato del governo nella ricostruzione della democrazia durante questi anni in cui non esiste un Parlamento. Quanto ai gruppi fondatori dei partiti53, osserviamo immediatamente differenze significative nella proporzione tra politici vecchi e nuovi. Dei tre partiti di massa la Democrazia cristia
na (che ha preso il posto del vecchio Partito popolare) mostra, durante questo periodo di transizione, la maggiore continuità di leadership con il periodo prefascista. Quasi tutti i fondatori del partito nei primi mesi del 1943 possono vantare un’esperienza politica nel vecchio Partito popolare in qualità di membri del gruppo parlamentare o degli uffici direttivi dell’organizzazione partitica: addirittura l’ultimo leader del vecchio partito prima dello scioglimento (De Gasperi) può guidare il partito appena ricostituito. Questa continuità si manterrà anche negli anni successivi, ma a partire dal primo congresso nazionale regolare del partito, tenuto nel 1946, l’aumento del numero di uomini politici nuovi diviene significativo. Nell’insieme il processo di circolazione generazionale della classe politica si realizza in modo progressivo, dentro una robusta struttura costituita dai vecchi politici.
Diverso è il caso del Partito comunista italiano. Nessuno dei membri del piccolo gruppo parlamentare del periodo prefascista ha un ruolo significativo nella ricostruzione del partito; la continuità si verifica qui soprattutto con una classe politica più giovane, formatasi nella clandestinità dell’opposizione al regime fascista. Solo il leader del partito, Togliatti, rappresenta una più lunga continuità, che consente di risalire al vecchio gruppo fondatore del partito all’inizio degli anni venti. Questo elemento, insieme al ruolo esercitato all’interno del movimento comunista internazionale e all’investitura sovietica di cui Togliatti può farsi forte, gli conferisce una indiscussa autorità di leader del partito.
51 Con l’istituzione della Consulta nel settembre 1945 viene introdotto un organo paraparlamentare; ma essendo esso di nomina e non elettivo il suo peso politico resta limitato. È interessante notare che al suo interno i politici prefascisti hanno un peso ancora piuttosto consistente: circa il 27% (cfr. L. Lotti, Il Parlamento italiano, cit., p. 147).52 Per un esame più dettagliato di questa fase nell’ottica della ricostituzione della classe politica cfr. M. Cotta, Classe politica e Parlamento in Italia, cit., pp. 66 sgg.53 Con questa espressione intendo fare riferimento ai membri degli organi dirigenti nazionali dei partiti costituitisi in questi anni e non ancora eletti da regolari congressi. Come è noto i primi congressi regolari dei partiti avverranno agli inizi del 1946.
La classe politica italiana nel ventesimo secolo 61
La struttura gerarchicamente ben definita della classe politica del Pei rende possibile l’assimilazione di un gran numero di politici giovani tramite un processo di cooptazione, che causa ridotti conflitti intergenerazionali.
Dei tre grandi partiti, il partito socialista è quello che invece ha il gruppo fondatore meno omogeneo. Nel suo primo nucleo dirigente il divario generazionale è elevato (un’arco di età di trentacinque anni, a confronto dei dodici del Pei). Accanto a un certo numero di superstiti molto anziani del gruppo parlamentare prefascista e del nucleo dirigente del partito, ci sono i politici attivi durante gli anni della transizione dalla democrazia al fascismo, e infine un nucleo di giovani emersi durante la crisi del regime fascista e privi di conoscenza diretta del vecchio partito, ma che hanno un ruolo importante nella ricostruzione del nuovo partito socialista. A questa eterogeneità generazionale va aggiunto il fatto che non è sopravvissuto nessuno dei leader riconosciuti del partito prefascista. La mancanza di dirigenti dotati di un’autorità indiscussa rende molto più complesse che negli altri due partiti sia l’assimilazione della generazione più giovane che la mediazione tra politici vecchi e giovani. Le molteplici scissioni alle quali il partito andrà incontro nei primi anni della democrazia postfascista sono probabilmente dovute, insieme ad altre ragioni, anche alla incerta struttura dirigenziale all’interno della sua classe politica.
Per quanto riguarda i partiti della destra tradizionale, la sopravvivenza dei vecchi politici è notevole, e il ruolo che essi esercitano nel frenare (insieme ai democristiani) le spinte della sinistra verso modelli di democrazia più radicali non deve essere sottovalutato. Ciò che appare subito evidente è che essi sono alquanto ‘fuori fase’ rispetto alla nuova politica del periodo postfascista, caratterizzata da un livello di mobilitazione popolare
molto più elevato di quello degli anni in cui essi avevano iniziato la loro attività politica (basti pensare al fatto che il livello medio di partecipazione elettorale prima del fascismo era intorno al 60 per cento e dopo il fascismo raggiunge il 90 per cento)54. Le conseguenze si fanno sentire molto chiaramente con le prime elezioni del 1946 e ancor più nel 1948. I partiti della destra liberale e conservatrice non sono in grado di competere efficacemente contro gli altri partiti e conquistano un settore molto ristretto dell’elettorato (il 15 per cento nel 1946 e P8 per cento nel 1948, mentre alle elezioni del 1921 avevano ancora oltre il 30 per cento). Ciò che la teoria classica delle élites affermava sulla inevitabile scomparsa di una élite politica sopravvissuta alle condizioni sociali che ne avevano favorito l’ascesa, si applica perfettamente a questo caso.
In sintesi, tutti i partiti mostrano in questo periodo nella classe politica un insieme di vecchio e di nuovo. Ma se prendiamo in considerazione i due partiti — la De e il Pei — che in questo periodo ottengono i successi maggiori, il primo guadagnando terreno a spese della vecchia destra e il secondo della sinistra socialista, un elemento importante che essi hanno in comune è la maggiore omogeneità iniziale e la certezza, all’interno della classe politica, del vertice della leadership. Da questa analisi risulta chiaramente come, in una fase di transizione, il processo di rinnovamento e di ricostituzione della classe politica sia fortemente influenzato dalla struttura dei nuclei formativi originari della classe politica stessa.
Dal punto di vista delle conseguenze per il regime appena costituito non è affatto privo di significato il fatto che la Democrazia cristiana conquisti, già dai primi anni della transizione una posizione centrale nel sistema politico tra la sinistra e la destra e, di
54 Cfr. G. Schepis, Le consultazioni popolari in Italia dal 1948 al 1957, Empoli, Caparrini, 1958, p. 98.
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conseguenza, un ruolo dominante nelle coalizioni governative (ruolo che le elezioni del 1946 e del 1948 sanzioneranno ulteriormente dando alla De lo status del partito di maggioranza relativa). Ciò significa che il nuovo regime democratico inizia la sua esistenza con un equilibrio tra continuità e innovazione (rispetto alla esperienza parlamentare prefascista), ai livelli più alti della classe politica, maggiore che se il successo fosse andato alla sinistra comunista o alla destra tradizionale. Nel primo caso avrebbe prevalso la discontinuità, nel secondo il peso del passato sarebbe stato soverchiante. Simbolo evidente di questa coesistenza tra vecchio e nuovo è il fatto che l’uomo che guida il partito della Democrazia cristiana ed allo stesso tempo il governo fino alla sua morte nel 1954 è lo stesso leader che aveva guidato il vecchio partito cattolico negli ultimi anni del periodo prefascista: una chiara personificazione quindi della continuità ma anche una persona pronta a riconoscere, sia nel partito che nel governo, il ruolo dei politici della generazione più giovane ed a basare la propria posizione di leadership su di una coalizione intergenerazionale.
Ben presto, con l’inizio della vita istituzionale regolare del nuovo regime, che comporta un considerevole aumento del numero delle posizioni istituzionali da occupare, e quindi il passaggio a una politica assai meno di élite che negli anni della transizione, la nuova classe politica, priva dell’esperienza della democrazia prefascista, emerge con forza. All’inizio diviene quantitativamente dominante nei livelli più bassi e più ampi della classe politica. Abbiamo verificato ciò sul piano parlamentare, ma la stessa situazione si verifica nelle assemblee nazionali delle organizzazioni partitiche. Il passo successivo è l’accesso alle posizioni di vertice. Tra i grandi partiti, la Democrazia cristiana è quella che sostituisce più lentamente nelle posizioni più elevate i vecchi politici con i nuovi. Anche per essa, tuttavia, alla fine degli anni cin
quanta, questa sostituzione è ormai avvenuta nel governo, nella dirigenza dei gruppi parlamentari e nell’esecutivo del partito.
Per concludere su questo punto, possiamo quindi affermare che, da un esame più dettagliato del periodo di transizione, gli elementi di continuità con l’esperienza democratica prefascista si rivelano qualitativamente anche se non quantitativamente significativi. Una valutazione di ciò che questo ha significato per il nuovo regime democratico nato in questi anni può essere argomento di discussione. È comunque plausibile affermare che la presenza di un gruppo di politici che avevano sperimentato di persona le conseguenze, disastrose per la sopravvivenza della democrazia, degli aspri dissensi tra i partiti democratici negli anni che precedettero il fascismo, abbia in un certo senso contribuito alla costruzione di un consenso costituzionale negli anni che seguirono il fascismo.
Il punto successivo che dobbiamo discutere riguarda la stabilizzazione della classe politica affermatasi con il nuovo regime. Le domande alle quali si deve rispondere sono almeno tre:
1. si verifica realmente un processo di stabilizzazione della classe politica dopo il profondo rinnovamento prodotto dal passaggio di regime?
2. quanto tempo occorre perché questo processo si compia e quanto dureranno le sue conseguenze?
3. questo processo coinvolge in modo omogeneo tutti i settori della classe politica?
Al fine di dare una risposta a queste domande partirò dalle misure quantitative del rinnovamento già utilizzate per il periodo prefascista. Esaminando la percentuale di nuovi eletti tra i membri della Camera dei deputati, si può vedere come la stabilizzazione della classe politica (per lo meno nella sua componente parlamentare) sia compiuta quasi per intero con le elezioni del 1953 (le seconde elezioni per il Parlamento regolare, o le terze se contiamo, come farò, anche le
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elezioni per l’Assemblea costituente). Cominciando dal 1953 e nelle quattro elezioni successive, il turnover oscilla tra il 37 per cento e il 32 per cento, con una certa tendenza a diminuire (Figura 1). Se esaminiamo questi dati in un’ottica comparata vediamo, come del resto ci si poteva aspettare, che in Italia il rinnovamento parlamentare è mediamente più alto che in sistemi politici democratici con una tradizione lunga e continua, come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna55. Per un confronto più significativo bisognerà invece prendere in esame paesi che abbiano subito una discontinuità di regime paragonabile a quella dell’Italia. Tra questi casi la quarta repubblica francese, nel corso della sua breve vita, offre un esempio di più bassi livelli di stabilizzazione della élite parlamentare56. Invece la Germania occidentale e il Giappone mostrano, dopo le prime elezioni, un grado di continuità tra i membri del Parlamento notevolmente più elevato che non nel caso italiano57. In questi tre casi il grado di stabilizzazione della classe politica corrisponde dunque piuttosto bene con il grado di stabilizzazione del regime stesso. E si potrebbe aggiungere che l’Italia si colloca a metà strada su entrambe le dimensioni tra la Francia da una parte e il Giappone e la Germania dall’altra.
Per quanto concerne la struttura di anzianità della classe politica prodotta da questi tassi di circolazione, la proporzione tra giovani e anziani, definiti secondo i criteri pre
cedentemente stabiliti è, tra la terza e l’ottava legislatura del periodo postfascista, estremamente stabile (Figura 2). Questa struttura di anzianità (che vede i parlamentari anziani, cioè con più di due legislature, attestati in media sul 40 per cento del totale) presenta un equilibrio molto maggiore di quello degli anni immediatamente precedenti l’avvento del fascismo; tuttavia, paragonata all’esperienza tedesca postnazista, rivela una presenza più debole della componente parlamentare anziana (Figura 4).
Nonostante il fatto che il grado di stabilizzazione raggiunto dalla classe politica italiana durante questo periodo sia (contrariamente a quanto spesso si crede) più basso che in molte altre democrazie, questo processo ha ultimamente subito una battuta d’arresto. Con le elezioni generali del 1976 il tasso di rinnovamento raggiunge un nuovo massimo: circa il 42 per cento.
Questo fatto deve essere interpretato come un momento critico nella stabilizzazione della classe politica o è soltanto un fenomeno temporaneo? È ancora presto per dirlo: alle elezioni del 1979 il turnover scende ad un nuovo minimo (27 per cento). Ma con le elezioni del 1983 il rinnovamento è di nuovo rilevante (38 per cento). Per una valutazione approfondita delle dinamiche della classe politica e della sua stabilizzazione istituzionale i dati complessivi dei quali ci siamo serviti non sono però del tutto adeguati, dal momento che possono nascondere differenze significa-
55 Per la Camera dei Rappresentanti statunitense Polsby calcola per il periodo 1945-65 una media del 17 per cento di nuovi eletti ad ogni rinnovo (The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., p. 146). Quanto alia Camera dei Comuni britannica Loewenberg riporta dei livelli di rinnovamento dopo la guerra, fatta eccezione per le elezioni del 1945, non molto diversi da quelli americani (cfr. Parliament in the German Politicai System, cit., p. 88).56 P. Manigand, Les députés de la IV* République, cit., p. 10.57 Nel Bundestag tedesco le percentuali di deputati di nuova elezione sono le seguenti: 46% (1953); 34% (1957); 25% (1961); 25% (1965); 30% (1969); 29% (1972); 23% (1976) (cfr. Deutscher Bundestag, Mitglieder Struktur des deut- schen Bundestages: I.-VII. Wahlperiode, Bonn, 1975, p. 3 e Kürschners Volkshandbuch, Deutscher Bundestag, V ili Wahlperiode, Darmstadt, Neue Darmstadter Verlagsanstalt, 1977). In Giappone dopo le prime elezioni caratterizzate da alti tassi di rinnovamento (47% nel 1947 e 41% nel 1949), si affermava un elevato grado di stabilità (23% nel 1952, 10% nel 1953, 12% nel 1955, 14% nel 1957, 13% nel 1960; 15% nel 1963; 21% nel 1967; cfr. H. Baerwald, Japan’s Parliament, London, Cambridge University Press, pp. 276-77).
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tive tra i gruppi partitici dei quali la classe politica non è che la somma. E in effetti, osservando i tre partiti maggiori (De, Pei e Psi) possiamo facilmente osservare come la circolazione del loro personale parlamentare, segua modelli alquanto diversi (Tabella 1). Almeno da un punto di vista quantitativo possiamo parlare di stabilizzazione soltanto per i settori democristiano e (anche se con un certo ritardo) socialista della classe politica. In entrambi i casi i tassi di rinnovamento mostrano una tendenza alla diminuzione, fino a stabilizzarsi su livelli inferiori alla media del Parlamento. Soltanto le elezioni del 1976 per la De e del 1979 per il Psi determineranno un livello insolitamente alto di circolazione, probabilmente come conseguenza di mutati equilibri nella leadership dei due partiti. Il gruppo parlamentare comunista è invece caratterizzato, a partire dalle elezioni del 1963, da livelli di rinnovamento notevolmente più alti della media. Non si delinea cioè una tendenza alla stabilizzazione del suo personale parlamentare. È vero che le elezioni del 1979 producono un cambiamento radicale di questo andamento ma resta il dubbio se questo cambiamento sia di natura eccezionale dovuto più che altro all’appello anticipato alle urne che ha praticamente dimezzato la settima legislatura o se inauguri una nuova fase nella politica di reclutamento del Pei.
I risultati del 1983, con un turnover di nuovo assai alto (48 per cento), fanno propendere per la prima interpretazione. Le conseguenze di modelli così diversi di circolazione delle élites si possono meglio valutare se si prende in esame la struttura di anzianità dei tre gruppi parlamentari (Figura 3). Mentre nei primi due partiti il turnover più ridotto produce una classe parlamentare in cui i legislatori anziani tendono a bilanciare i membri più giovani, nel Pei la componente istituzionalmente più giovane resta di gran
lunga dominante in termini quantitativi ed anzi aumenta in percentuale con il trascorrere del tempo. Questa eterogeneità tra i partiti colpisce particolarmente se si fa il paragone con un caso come quello tedesco che ha importanti affinità storiche con quello italiano. Come la Figura 4 dimostra, tra i due partiti tedeschi maggiori si è affermata una notevole somiglianza nella struttura di anzianità parlamentare. Possiamo concludere che nell’esperienza italiana un ampio e per di più crescente settore della classe politica sfugge a quella tendenza a stabilizzarsi e a perpetuarsi che, secondo Mosca, sarebbe una legge generale della vita politica?
Se i dati quantitativi sembrano convalidare questa affermazione una analisi più qualitativa fa subito sorgere alcuni dubbi. Ove si prenda in esame il profilo sociologico (cioè il reclutamento e la carriera) della classe politica si può notare una maggiore continuità qualitativa proprio nella classe politica comunista, nonostante la considerevole circolazione quantitativa, che non tra i politici democristiani58. Dobbiamo quindi supporre che la riproduzione della classe politica venga, nel caso specifico del Pei, garantita da in meccanismo diverso da un lento tasso di rinnovamento tra i membri del gruppo parlamentare.
La risposta più plausibile alla domanda sulla stabilizzazione della classe politica comunista è che, in realtà, più che alla sua componente parlamentare occorre guardare a quella ‘partitica’, cioè a quei politici che detengono le cariche più importanti dell’apparato organizzativo del partito. E infatti lì la stabilità è maggiore e per di più cresce quanto più elevato è lo ‘strato’ della classe politica che si esamina. Per esempio al livello del comitato centrale la percentuale media dei nuovi eletti ad ogni congresso è di circa il 30 per
58 M. Cotta, Classe politica e Parlamento in Italia, cit., pp. 143 sgg. e 154 sgg.
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cento59. Ma, se guardiamo più in alto, in un organo più ristretto ma più potente, come la direzione, la percentuale media dei nuovi eletti scende al 21 per cento. E al vertice, per la carica di segretario di partito, la stabilità raggiunge il massimo. Dalla caduta del fascismo (ma si potrebbe risalire anche agli anni trenta) fino ad oggi il Pei ha avuto solo tre segretari — Togliatti, Longo e Berlinguer —, mentre la De nello stesso periodo ne ha avuti undici, e il partito socialista sette.
Concludendo si può effettivamente dire che la classe politica nata in Italia con il nuovo regime democratico ha maturato un processo di stabilizzazione; un processo che, pur consentendo un certo livello di circolazione e di rinnovamento, ha nel complesso visto prevalere la continuità. Un fatto questo che è tutt’altro che eccezionale se prendiamo come termine di riferimento realtà politiche democratiche consolidate; può anzi essere considerato un segno che le conseguenze del crollo della democrazia prefascista e dell’interregno autoritario sono state almeno in parte superate. Carattere peculiare della politica italiana del periodo in esame è però che la stabilizzazione della classe politica si è realizzata seguendo due modelli diversi. Nel primo modello, che è tipico della De e del Psi questo processo è stato fortemente orientato in senso parlamentare. Ciò ha significato un rapporto stretto e di lunga durata tra élites e istituzioni parlamentari che, senza escludere il ruolo degli apparati di partito, ne ha in qualche modo controbilanciato il peso, determinando un orientamento ‘dualistico’ della classe politica. L’altro modello, tipico del Pei, si è affidato più decisamente all’organizzazione partitica esterna per garantire la continuità della classe politica. Tra i politici comunisti, salvo che per una minoranza, l’e
sperienza parlamentare ha significato, in genere, un impegno politico di breve portata temporale. Spiegare i motivi di queste differenze richiederebbe una discussione, che qui non ci è consentita, da un lato della peculiarità del modello organizzativo del Pei, dall’altro del ruolo di opposizione permanente che esso ha avuto nel periodo postfa- scista. Quanto alle conseguenze di questa situazione, non è del tutto immotivato supporre che le differenze che abbiamo messo in rilievo, e che toccano il cuore della struttura della classe politica, abbiano avuto una loro parte (insieme ad altre variabili come la frammentazione del sistema partitico, la polarizzazione ideologica ecc.), nel determinare il basso livello di capacità decisionale del sistema politico italiano, ormai ben documentato da molti studi empirici60. Ciò non dovrebbe sorprendere. Una classe politica strutturata secondo modelli fortemente eterogenei, che rivelano modi diversi di porsi di fronte alle articolazioni istituzionali fonda- mentali del regime politico vigente, andrà necessariamente incontro a maggiori difficoltà nel cooperare all’interno di questa struttura istituzionale e nel farla funzionare.
Osservazioni conclusive
Dopo questa panoramica, necessariamente schematica, di due importanti periodi della storia politica italiana è giunto il momento di tentare di trarre qualche conclusione. Ero partito da una serie di spunti offerti dalla teoria classica delle élites politiche e in particolare da Mosca e Pareto. Anche se le formulazioni di questi autori possono non convincerci del tutto sulla loro validità come generalizzazioni empiriche rigorose, abbiamo
59 Cfr. F. Lanchester, PCI: dirigenti e modelli di partito, in “Città e Regione” , 1981, p. 86.60 Cfr. per esempio F. Cazzola, Governo e opposizione nel Parlamento italiano, Milano, Giuffrè, 1974; F. Cantelli, V. Mortara e G. Movia, Come lavora il Parlamento, Milano, Giuffrè, 1974; G. Di Palma, Sopravvivere senza governare, Bologna, il Mulino, 1978.
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visto che possono ancora fornire un’utile sollecitazione ad una più ampia prospettiva analitica che ponga lo studio delle élites in relazione con i grossi problemi del cambiamento e della sopravvivenza di un regime. L’analisi qui sviluppata ha toccato due periodi della storia italiana — uno che termina con la crisi e la caduta della democrazia, l’altro che inizia con l’avvento di un nuovo regime democratico — nei quali i problemi “di regime” sono stati particolarmente gravi ed hanno avuto un peso molto più esteso sulla vita politica corrente che in altri paesi più stabili. Gli elementi che abbiamo vagliato suggeriscono che, in effetti, lo studio dei processi dinamici della circolazione delle élites può offrire un utile punto di vista per gettare ulteriore luce su questi momenti critici nella vita di un sistema politico. In particolare la nostra attenzione si è concentrata sui tassi di rinnovamento delle élites politiche e sui mutamenti a cui queste sono sottoposte durante le fasi di transizione, nonché sulle conseguenze che questi fattori hanno sulla struttura interna di una classe politica e sull’equilibrio tra continuità e mutamento, tra vecchio e nuovo. Questi aspetti della classe politica appaiono criticamente correlati con la capacità delle articolazioni istituzionali di un regime democratico (soprattutto il Parlamento e il governo) di consolidarsi e di funzionare secondo il loro ruolo costituzionale. Certamente un’analisi basata soltanto sul caso italiano non può pretendere di stabilire generalizzazioni sufficientemente fondate: ciò che ne possiamo ricavare ha piuttosto il carattere di ipotesi e di suggerimenti per ulteriori ricerche. Tre temi in particolare meriterebbero una discussione più approfondita ed una verifica comparata. Il primo tema riguarda il rapporto tra la circolazione delle élites e la stabilità di un regime democratico. L’esperienza italiana che abbiamo esaminato dimostra che un rinnovamento profondo e subitaneo della classe parlamentare può rivelarsi un fattore di crisi della democrazia per i suoi
effetti disgreganti sul delicato tessuto istituzionale. I quesiti che richiederebbero un ulteriore vaglio empirico riguardano da un lato le soglie oltre le quali gli effetti negativi di un vasto rinnovamento delle élites politiche si manifestano, e dall’altro le condizioni contestuali che possono aggravare o controbilanciare questi effetti. La nostra attenzione dovrebbe andare anche ai nessi tra cambiamento quantitativo e qualitativo nelle élites politiche: è probabilmente lì che si possono rinvenire elementi essenziali per determinare il maggiore o minore impatto destabilizzante dei processi di circolazione delle élites.
Il secondo tema riguarda il rapporto tra il ripristino del regime democratico dopo un periodo autoritario e la ricostituzione di una classe politica democratica. Durante la delicatissima fase della transizione tra i due regimi il processo attraverso il quale la nuova classe politica si struttura è fondamentale. È infatti questa classe politica che guiderà e sosterrà la transizione stessa. In questa fase caratterizzata da una situazione di incertezza istituzionale, il rapido consolidamento di una struttura di autorità sufficientemente chiara all’interno della classe politica sembra una condizione particolarmente importante per un felice esordio del nuovo regime. Il caso italiano offre un esempio del ruolo strategico che i superstiti della vecchia élite democratica possono avere nel guidare i primi passi del ripristino della democrazia senza pregiudicare poi la cooptazione di un ampio numero di politici nuovi negli anni successivi. Su questo punto sarebbe interessante un confronto con esperienze politiche nelle quali il ripristino della democrazia non ha potuto basarsi su questo elemento di continuità personale con il passato, per verificare se ciò ha reso più difficile l’apprendimento di procedure e comportamenti democratici.
Il terzo tema sul quale il caso italiano attira l’attenzione è quello dei processi a lungo termine di consolidamento della classe politica. L’esperienza italiana postfascista sugge
La classe politica italiana nel ventesimo secolo 67
risce che sia per i tempi che per i modi di questo processo la classe politica di un paese può rivelare differenze consistenti. In particolare abbiamo visto che il ruolo centrale nel processo di consolidamento può essere esercitato da strutture politiche diverse (il Parlamento, gli apparati partitici). Ciò che dovrebbe essere verificato più a fondo per mezzo di una ri
cerca comparata sono i fattori che spiegano questa eterogeneità strutturale nella classe politica, come pure gli effetti che essa ha sul funzionamento delle istituzioni fondamentali della democrazia.
Maurizio Cotta
(Traduzione Annamaria Tasca)
Tabella 1. Percentuale di deputati di nuova elezione
Elezioni DC PSI PCI
1948 46 60 671953 30 47 281958 35 38 371963 22 31 491968 31 36 461972 22 28 471976 42 25 561979 19 45 23
68 Maurizio Cotta
Figura 1. Deputati di prima elezione (%)
L e g i s l a t u r e p r e f a s c i s t e L e g i s l a t u r e p o s t f a s c i s t e
Figura 2. Struttura di anzianità della Camera dei Deputati (%)
i o o % -
XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII1904 1909 1913 1919 1921 1924
Leg is la ture p re fa s c i s t e L e g is la tu re p o s t fa s c i s t e
I 1 • G io van i ( 1 o 2 le g i s l a tu re )
Q : Anz ian i ( 3 o p i ù legis la ture )
v//m
/////////m
La classe politica italiana nel ventesimo secolo 69
Figura 3. Struttura di anzianità parlamentare dei tre partiti italiani maggiori (legislature II- V ili della Camera).
□ : G io v a n i ( 1 o 2 l e g i s l a t u r e )
E 3 ■ A n z i a n i ( 3 o più le g i s la tu re )
70 Maurizio Cotta
Figura 4. Struttura di anzianità a) del Bungestag nel suo complesso, b) dei due partiti maggiori
1957 1961 1965 1969 1972 1976
CD : G io van i ( 1 o 2 l e g i s l a tu re )
E : An z ia n i ( 3 o p iù l e g i s l a tu r e )