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La classe politica italiana nel ventesimo secolo: continuità e mutamento di Maurizio Cotta Le ricerche empiriche sul personale politico e la teoria classica delle élites Dopo le prime formulazioni, all’inizio del se- colo, della teoria della classe dirigente negli scritti di Mosca, Pareto e Michels, si è verifi- cato un considerevole sviluppo degli studi che riguardano coloro “che governano”. Al- la rivoluzione comportamentistica degli anni cinquanta va senza dubbio attribuito il meri- to della mole, in continuo aumento, prodot- ta negli ultimi vent’anni di dati empirici ri- guardanti i backgrounds sociali, le carriere, gli atteggiamenti dei politici in generale e dei membri delle assemblee legislative in partico- lare. Una valutazione imparziale di questi svi- luppi non riesce tuttavia a dissipare l’impres- sione che la crescita della ricerca sulle élites sia stata spesso più quantitativa che qualita- tiva. Di fronte alla ricchezza dei dati raccolti (di per sé certamente un fatto positivo), l’ela- borazione degli schemi teorici che consenta- no di interpretarli è stata relativamente tra- scurata. Un raffronto tra la situazione attuale degli studi sulle élites e la teoria classica di inizio secolo rivela un netto rovesciamento del- l’equilibrio tra formulazioni teoriche e anali- si empirica. L’arditezza e la portata delle ge- neralizzazioni di Mosca e di Pareto, spesso basate su una documentazione empirica limi- tata e non molto accurata dal punto di vista metodologico, offrono uno stridente contra- sto con la scarsa attenzione dedicata da molti studiosi contemporanei delle élites politiche al significato teorico dei loro sofisticati studi empirici. In questo contesto, non c’è da stu- pirsi che sia stata periodicamente posta la questione stessa della rilevanza degli studi sulle élites'. Ma dobbiamo davvero giungere alla con- clusione che non valga la pena studiare le éli- tes? In effetti, più che porre in discussione, la legittimità degli studi sulle élites nel loro complesso queste critiche sono dirette contro un quadro di riferimento teorico troppo ru- dimentale, accettato più o meno implicita- mente e in modo acritico da molte ricerche empiriche. È quindi a questo quadro di rife- Questo saggio già apparso col titolo The Italian Politica! Class in the Twentieth Century: Continuities and Disconti- nuities nel volume a cura di M.M. Czudnowski, Does Who Governs Matter? Elite Circulation in Contemporary So- cieties, De Kalb, Northern Illinois University Press, 1982, è stato presentato quale contributo al seminario sulle “Eli- tes in Francia e in Italia negli anni quaranta”. “Italia contemporanea” ritiene utile la sua pubblicazione a completa- mento degli Atti pubblicati sul fascicolo 153 del dicembre 1983. 1 Cfr., L. J. Edinger e D.D. Searing, Social Background in Elite Analysis: A Methodological Inquiry, in “American Politicai Science Review” , 1968, voi. 57; U. Schleth, Once Again: Does It Pay to Study Social Background in Elite Analysis? in “Sozialwissenchaftliches Jahrbuch fiir Politile”, 1971, vol. 1; e K. von Beyme, Elite Input and Policy Out- put: The Case o f Germany, in M. Czudnowski (a cura di), Does Who Governs Matter? Studies in Elite Circulation, cit. “Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155

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Page 1: La classe politica italiana nel ventesimo secolo: …...funzionamento e le disfunzioni dei sistemi politici. Per quanto diversi Mosca e Pareto possano essere, per formazione culturale,

La classe politica italiana nel ventesimo secolo: continuità e mutamento

di Maurizio Cotta

Le ricerche empiriche sul personale politico e la teoria classica delle élites

Dopo le prime formulazioni, all’inizio del se­colo, della teoria della classe dirigente negli scritti di Mosca, Pareto e Michels, si è verifi­cato un considerevole sviluppo degli studi che riguardano coloro “che governano” . Al­la rivoluzione comportamentistica degli anni cinquanta va senza dubbio attribuito il meri­to della mole, in continuo aumento, prodot­ta negli ultimi vent’anni di dati empirici ri­guardanti i backgrounds sociali, le carriere, gli atteggiamenti dei politici in generale e dei membri delle assemblee legislative in partico­lare.

Una valutazione imparziale di questi svi­luppi non riesce tuttavia a dissipare l’impres­sione che la crescita della ricerca sulle élites sia stata spesso più quantitativa che qualita­tiva. Di fronte alla ricchezza dei dati raccolti (di per sé certamente un fatto positivo), l’ela­borazione degli schemi teorici che consenta­no di interpretarli è stata relativamente tra­scurata.

Un raffronto tra la situazione attuale degli studi sulle élites e la teoria classica di inizio secolo rivela un netto rovesciamento del­l’equilibrio tra formulazioni teoriche e anali­si empirica. L’arditezza e la portata delle ge­neralizzazioni di Mosca e di Pareto, spesso basate su una documentazione empirica limi­tata e non molto accurata dal punto di vista metodologico, offrono uno stridente contra­sto con la scarsa attenzione dedicata da molti studiosi contemporanei delle élites politiche al significato teorico dei loro sofisticati studi empirici. In questo contesto, non c’è da stu­pirsi che sia stata periodicamente posta la questione stessa della rilevanza degli studi sulle élites'.

Ma dobbiamo davvero giungere alla con­clusione che non valga la pena studiare le éli­tes? In effetti, più che porre in discussione, la legittimità degli studi sulle élites nel loro complesso queste critiche sono dirette contro un quadro di riferimento teorico troppo ru­dimentale, accettato più o meno implicita­mente e in modo acritico da molte ricerche empiriche. È quindi a questo quadro di rife-

Questo saggio già apparso col titolo The Italian Politica! Class in the Twentieth Century: Continuities and Disconti­nuities nel volume a cura di M.M. Czudnowski, Does Who Governs Matter? Elite Circulation in Contemporary So­cieties, De Kalb, Northern Illinois University Press, 1982, è stato presentato quale contributo al seminario sulle “Eli­tes in Francia e in Italia negli anni quaranta”. “Italia contemporanea” ritiene utile la sua pubblicazione a completa­mento degli Atti pubblicati sul fascicolo 153 del dicembre 1983.1 C fr., L. J. Edinger e D.D. Searing, Social Background in Elite Analysis: A Methodological Inquiry, in “American Politicai Science Review” , 1968, voi. 57; U. Schleth, Once Again: Does It Pay to Study Social Background in Elite Analysis? in “Sozialwissenchaftliches Jahrbuch fiir Politile” , 1971, vol. 1; e K. von Beyme, Elite Input and Policy Out­put: The Case o f Germany, in M. Czudnowski (a cura di), Does Who Governs Matter? Studies in Elite Circulation, cit.

“Italia contemporanea”, giugno 1984, n. 155

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rimento che dobbiamo rivolgere preliminar­mente la nostra attenzione. La natura di que­sta impostazione si può così sintetizzare: il ruolo delle élites nel sistema politico viene in­terpretato senza la mediazione di ulteriori variabili intervenienti. I rapporti tra la socie­tà e le élites politiche da un lato, tra queste e gli outputs decisionali dall’altro, vengono, interpretati come legami diretti.

Ne consegue che per il primo versante il principale criterio di analisi e valutazione sa­rà quello della rappresentatività sociologica; da ciò l’enorme attenzione dedicata dalle ri­cerche empiriche alle caratteristiche sociali delle élites. Per quanto riguarda il secondo versante, le caratteristiche sociologiche indi­viduali dei componenti delle élites vengono identificate come la principale variabile esplicativa degli outputs decisionali. Para­dossalmente questi assunti teorici implicita­mente accettati da molte ricerche empiriche sulle élites, sono spesso condivisi dagli stessi critici di queste ricerche. Dopo aver consta­tato la debolezza della correlazione tra gli outputs decisionali e i profili sociologici dei membri delle élites, essi mettono in discus­sione l’intero significato degli studi sulle éli­tes anziché l’insufficienza del quadro di rife­rimento teorico.

Nel corso degli ultimi anni si è tuttavia ve­nuta manifestando l’esigenza di uno schema più articolato per interpretare il ruolo delle élites in politica tanto sul versante àsYL'input che su quello dell’output.

Per quanto riguarda l’input, la ricerca di uno schema interpretativo meno rudimentale

induce a spostare l’attenzione sul ruolo di mediazione tra la società e le élites politiche esercitato da altre variabili, tra le quali parti­colarmente importanti sono quelle relative alle organizzazioni partitiche. Anziché un rapporto diretto tra la società e le élites poli­tiche, che deve necessariamente essere inter­pretato in termini di rappresentatività socio­logica, dobbiamo ricercare un rapporto indi­retto all’interno del quale i partiti esercitano un ruolo di ‘traduzione’. L’attenzione verrà quindi concentrata sulle caratteristiche poli­tiche dei politici, più che su quelle sociali; o comunque su queste ultime solo in quanto possono essere utilizzate come indicatori del­le prime. I concetti di professionalizzazione politica e di carriera politica acquistano in questa prospettiva un ruolo fondamentale2.

Per quanto concerne l’altro versante del problema, cioè quello dell’output, il passo da fare consiste nello spostarsi, da un ap­proccio che si serve dell’analisi delle élites politiche per spiegare in modo diretto i con­tenuti degli outputs decisionali e del compor­tamento politico, a un approccio più indiret­to che applichi questa analisi alla compren­sione della struttura e del funzionamento del quadro istituzionale all’interno del quale vengono prodotti gli outputs decisionali e i comportamenti politici. È questa la via se­guita, ad esempio, da diversi studiosi delle élites parlamentari che hanno cercato di ap­plicarne i risultati alla valutazione del conso­lidamento istituzionale del Parlamento3.

Questa prospettiva ci suggerisce tuttavia la necessità di studiare le élites non soltanto co-

2 Si veda G. Sartori, Dove va il Parlamento in Aa.Vv., Il Parlamento Italiano, Napoli, ESI, 1963; M. Dogan, Les f i ­lières de la carrière politique en France, in “Revue Française de Sociologie” , 1967, vol. 8; K. A. Eliassen e M.N. Pe­dersen, Professionalization o f Legislatures: Long-term Change in Political Recruitment in Denmark and Norway, in “Comparative Studies in Society and History” , 1978, voi. 20; e M.N. Pedersen, Political Development and Elite Transformation in Denmark, Berkeley, Sage, 1976.3 Cfr. N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, in “American Political Science Re­view”, 1968, voi. 58; M.N. Pedersen, The Personal Circulation o f a Legislature: The Danish Folketing, Università di Aarhus, Istituto di Scienza della Politica, 1972; e G. Loewenberg, The Institutionalization o f Parliament and Public Orientation to the Political System, in A. Kornberg (a cura di), Legislatures in Comparative Perspective, New York, McKay, 1973.

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me semplici aggregati di individui ma come entità strutturate. La semplice somma delle caratteristiche individuali non è sufficiente a far comprendere il comportamento delle élites.

È poi necessario citare un’ulteriore svi­luppo nel campo degli studi sulle élites, che anch’esso si muove nella direzione della ri­cerca di una prospettiva teorica più signifi­cativa. Intendo riferirmi al passaggio da analisi statiche o di breve termine ad analisi diacroniche e di lungo termine. La prospet­tiva comune alla base di sforzi di questo tipo4, è che lo studio della continuità e del mutamento, della stabilità e del rinnova­mento delle élites politiche relativamente a un’arco temporale di una certa ampiezza fornisce un buon punto di osservazione per comprendere gli sviluppi dell’intero sistema politico. In un certo senso potremmo quindi concludere che le nuove tendenze emergenti nel campo degli studi sulle élites politiche sono indice di un rinnovato interesse per i temi più ampi tipici della teoria classica, senza naturalmente rinunciare alla eredità del rigore empirico lasciata dalla rivoluzio­ne comportamentistica.

Questo saggio rappresenta un modesto tentativo di ripensamento di alcune delle in­tuizioni teoriche della teoria classica della classe dirigente da utilizzare, per così dire, come un trampolino per la ricerca di una in­terpretazione, significativa dal punto di vista teorico, di alcuni fenomeni relativi alle élites

politiche nella storia d’Italia del ventesimo secolo.

La teoria classica e il problema del rinnova­mento delle élites

Leggendo le opere di Mosca e Pareto vi è un tema che occupa con tutta evidenza un posto centrale: la dinamica delle élites5. In netto contrasto con la maggior parte della ricerca orientata empiricamente dei tempi più recenti, la quale ha rivolto gran parte dell’attenzione a una analisi statica delle ca­ratteristiche individuali dei membri delle éli­tes, i classici assegnavano nella loro teoria un ruolo preminente ai processi di riprodu­zione, mutamento, rinnovamento e disgre­gazione delle élites, intese come complessi strutturati.

Ciò che essi definiscono con l’espressione “circolazione delle élites”6 o simili viene in­terpretato come una variabile fondamentale per spiegare la continuità e il mutamento, il funzionamento e le disfunzioni dei sistemi politici. Per quanto diversi Mosca e Pareto possano essere, per formazione culturale, sti­le e prospettive scientifiche, se si guarda alla sostanza delle loro formulazioni teoriche su questo argomento, risultano evidenti forti somiglianze.

Cominciamo da Mosca. La prima e molto generale osservazione empirica che egli fa è che nella dinamica della classe politica si pos-

4 Tra le opere che si sono mosse in questa direzione meritano una menzione almeno le seguenti: M. Dogan, La stabi­lité du personnel parlementaire sous la Troisième République, in “Revue Française de Science Politique”, 1953 vol. 3; J. J. Linz, Continuidady discontinuidad en la elite espanola de la Restauración al régimen actual, in Libro Home- naje al Professor Carlos Olierò: Estudios de ciencia politica y sociologia, Guadalajara, Grafica Carlavilla, 1972; V. Zapf, Wandlungen der deutschen Elite, München, Piper, 1966 e P. Farneti, Sistema politico e società civile, Torino, Giappichelli, 1971.5 La prima formulazione della teoria della classe politica di Gaetano Mosca si trova, come è noto, nell’opera Teorica dei governi e governo parlamentare pubblicata per la prima volta nel 1884. Il pieno sviluppio della teoria si trova in­vece negli Elementi di scienza politica del 1896. Le citazioni qui di seguito si riferiscono alla quinta edizione (Bari, Laterza, 1953). Quanto a Pareto il grosso della discussione della teoria delle élites si trova nel secondo volume del Trattato di sociologia generale, pubblicato nel 1916. Qui è stata usata la terza edizione (Milano, Comunità, 1964).6 V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., voi. 2, p. 534.

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sono distinguere periodi di grande stabilità (e scarso rinnovamento sia quantitativo che qualitativo) seguiti da altri periodi di mag­giori mutamenti7. Il secondo passo compiuto da Mosca consiste nel cercare una spiegazio­ne per questo due diverse situazioni. Egli sta­bilisce innanzi tutto un principio che, secon­do lui, si può applicare a tutte le élites politi­che. Una specie di ‘legge di inerzia’ agisce all’interno delle élites politiche, determinan­done la tendenza a perpetuare se stesse. Di qui un carattere comune delle élites consoli­date: un basso rinnovamento e la presenza di meccanismi di tipo ereditario8.

Come Mosca stesso è però disposto ad am­mettere, questo principio è tutt’altro che as­soluto, anche perché, se lo fosse, “la storia dell’umanità sarebbe molto più semplice”9 e non potremmo spiegarci perché le vecchie classi dominanti perdono il potere e vengono sostituite da nuove. I fattori che provocano la caduta di una classe dominante vecchia possono essere, secondo Mosca, sia esterni che interni. I primi sono connessi all’ambien­te sociale: ad esempio cambiamenti nella na­tura della società e di conseguenza delle qua­lità richieste alla classe dirigente10. I secondi hanno a che fare con la organizzazione della classe politica stessa: quando una classe poli­tica è diventata troppo chiusa e vi è insuffi­ciente rinnovamento, si verificherà un suo decadimento11. In sostanza quando il princi­pio di continuità si spinge al di là di un certo limite, può diventare la molla che provoca il suo stesso capovolgimento.

Il terzo passo compiuto dall’analisi di Mo­sca consiste nel valutare il significato, per il sistema politico, del processo di rinnovamen­

to e delle variazioni dei suoi ritmi. Come abbiamo già osservato, mutamenti troppo piccoli e un eccesso di continuità nella clas­se politica hanno, secondo Mosca, effetti negativi sul funzionamento del sistema poli­tico, dal momento che producono un decli­no qualitativo della classe dirigente. La con­seguenza sarà quindi l’emergere, prima o poi, di una classe politica antagonistica, dal momento che la vecchia classe non è stata in grado di neutralizzare, cooptandoli al proprio interno, gli elementi di punta delle classi dominate. Ne conseguirà molto pro­babilmente una crisi di regime e una im­provvisa sostituzione della vecchia classe politica. D’altro canto una eccessiva apertu­ra della classe politica, pur introducendo nel gioco politico elementi innovatori (e nuove forze), potrebbe a sua volta danneg­giare la struttura del sistema politico preesi­stente e provocarne la dissoluzione12. È chiaro che per Mosca, che su questo punto segue la tradizione classica del governo mo­derato, un equilibrio dei due principi (prin­cipio democratico = rinnovamento; princi­pio aristocratico = continuità) determinerà, unendo i vantaggi di entrambi, le condizioni più favorevoli per la stabilità e il buon fun­zionamento di un sistema politico.

Quanto a Pareto, le sue argomentazioni partono da una divisione di massima delle élites in due categorie generali, definite sulla base delle motivazioni e dei principi che le guidano e delle capacità e qualità di cui esse dispongono. Si tratta della ben nota distin­zione tra “volpi” e “leoni” , “speculatori” e “rentiers”13. La discussione del profilo qua­litativo delle élites è però soltanto il primo

7 G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., vol. 1, pp. 102 sgg. e voi. 2, p. 97.8 Ivi, vol. 1, pp. 95 sgg.9 Ivi, p. 100.10 Ivi, pp. 101 sgg.11 Ivi, p. 155.12 Ivi, voi. 2, p. 125.13 V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., voi. 2, p. 623 e 667.

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passo dell’analisi di Pareto. Il problema al quale egli volge subito la sua attenzione è quello della persistenza nel tempo delle éli­tes di governo. A quali condizioni esse mantengono il proprio controllo sul potere politico, e a quali altre invece vengono so­stituite? La spiegazione di carattere generale offerta da Pareto per la circolazione delle élites è una situazione di squilibrio tra la classe dominante e le classi dominate. La natura di questo squilibrio trova origine nella distribuzione delle motivazioni e delle capacità tra le due classi. Pareto pensa che ogni élite al governo sia destinata a subire un processo di omogeneizzazione qualitati­va e di decadimento14. A meno che non rie­sca a ricostituire il proprio equilibrio quali­tativo incorporando elementi nuovi prove­nienti dalla classe dominata, sarà costretta a fronteggiare una crisi e a sottostare ad un mutamento di tipo rivoluzionario. Tali mu­tamenti improvvisi avvengono in genere quando si verificano due condizioni. Primo, l’élite al governo è ormai composta preva­lentemente da “volpi”, cioè da politici che governano con mezzi negoziali, clientelari e spesso corrotti. Tali politici esercitano un li­mitato richiamo simbolico sulla popolazio­ne in generale, e si astengono dal ricorrere alla coercizione in nome di quello che Pare­to definisce in maniera alquanto sprezzante “umanitarismo”. Secondo, dalle classi do­minate è emersa una nuova élite in grado di controllare un vasto consenso popolare con l’aiuto di forti ideali politici e pronta a fare ricorso nel gioco politico a mezzi coercitivi. Come risultato di questa disparità la nuova élite è destinata a sostituire la vecchia; avrà così inizio un nuovo ciclo di élites15.

Possiamo fermarci a questo punto e ten­tare una sommaria valutazione del significa­to che le analisi di Mosca e di Pareto posso­

no avere per i fini che ci proponiamo. Le loro debolezze sono subito evidenti. La pri­ma è ovviamente l’altissimo livello di astra­zione delle loro generalizzazioni sulla dina­mica delle élites. A causa del loro alto livel­lo di astrazione è molto difficile poter falsi­ficare queste proposizioni; allo stesso tempo il loro potenziale produttivo di eventi empi­rici specifici risulta limitato. Inoltre si nota spesso un eccessivo stiramento dei concetti (e soprattutto del concetto stesso di élite e di classe dominante). Un’altra critica che può essere rivolta ai due autori riguarda più la sostanza che la metodologia delle loro analisi. La loro teoria delle élites politiche dedica troppa poca attenzione all’aspetto istituzionale della politica. Per Mosca e Pa­reto le élites politiche costituiscono la varia­bile chiave per comprendere il processo del­la politica. Ma la scarsa attenzione prestata all’ambiente istituzionale, all’interno del quale le élites sono costrette a muoversi fa sì che la variabile chiave rischi una specie di disincarnamento. Diventa allora difficile identificare in termini meno generali e più specifici i rapporti, sia attivi che passivi, delle élites con la società e con il sistema politico. Un approccio soddisfacente deve essere meno riduttivo: né le élites né le isti­tuzioni possono essere ridotte completamen­te le une alle altre. Esse forniscono invece due punti di vista complementari per com­prendere la politica, che traggono vantaggio dal fatto di essere posti in relazione tra lo­ro. Fatte queste critiche, dobbiamo tuttavia riconoscere che le analisi di Mosca e Pareto hanno mantenuto, nonostante il tempo tra­scorso una notevole forza di suggestione, proprio perché si appuntano sui processi fondamentali di ogni sistema politico: come cioè coloro che detengono il potere cerchino di mantenere la propria posizione e come

14 Ivi, pp. 539 sgg., 623 e 894 sgg.15 Ivi, pp. 623-626.

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vengano rimpiazzati. È quindi necessario non tanto respingere le loro generalizzazio­ni, quanto sviluppare gli stimoli che forni­scono, avvicinandole semmai ad un livello di empiricità maggiore.

Cercherò ora di muovere un primo passo in questa direzione, e per farlo applicherò al­la storia del sistema politico italiano nel ven­tesimo secolo una prospettiva analitica cen­trata sui processi dinamici delle élites poli­tiche.

Il sistema politico italiano attraversa in questo periodo tre fasi ben distinte: 1) quella del regime liberale avviato verso una comple­ta democratizzazione (dall’inizio del secolo al 1922-24); 2) quella del regime autoritario fascista dal 1924-26 al 1943; 3) quella della ridemocratizzazione e del consolidamento dell’attuale regime democratico a partire da­gli anni 1943-45. La mia analisi sarà centrata sulla prima e sulla terza fase (cioè sulle fasi protodemocratica e democratica); l’attenzio­ne alla fase intermedia sarà solo incidentale, limitata ai rapporti di questa fase con le al­tre.

Il problema che intendo discutere è il rap­porto tra il processo di riproduzione e rinno­vamento della classe politica e la discontinui­tà del regime democratico. Ciò comporta un’analisi dei rapporti che intercorrono tra le élites e le articolazioni istituzionali fonda- mentali di questo regime, allo scopo di inda­gare sul ruolo che esercitano e sui cambia­menti nei quali incorrono durante queste fasi di transizione. All’interno di questa proble­matica di carattere generale tre interrogativi meritano particolare attenzione:

1. Si può in qualche modo collegare il processo di rinnovamento delle élites alla cri­si e caduta del regime democratico (o proto­democratico) che determinano l’avvento del fascismo?

2. Di quale entità è la distruzione della vecchia classe politica democratica prodotta dalla fase autoritaria? Alla fine di quest’ulti- ma il numero dei sopravvissuti della prece­

dente esperienza democratica è tale da garan­tire un certo grado di continuità con il passa­to nella ricostruzione del nuovo regime de­mocratico e della sua classe politica, oppure questo processo deve ripartire da zero? E an­cora ciò deve essere considerato un fatto po­sitivo o negativo?

3. La stabilizzazione della classe politica democratica postautoritaria ha esito positi­vo? E qual è il suo ruolo nel garantire il con­solidamento del nuovo regime democratico?

La classe politica e la crisi della democrazia prefascista: i rischi del rinnovamento

Ai fini dell’accertamento del ruolo della va­riabile classe politica nella caduta della de­mocrazia prefascista è possibile avvalersi di due indicazioni, diverse e a prima vista con­tradditorie fornite dalla teoria classica. Pri­mo, che una classe politica troppo chiusa va incontro al rischio di un declino qualitativo e può essere rimpiazzata da una classe politica nuova e antagonista. Secondo, che una aper­tura e un rinnovamento eccessivi possono altresì produrre una crisi nel regime esisten­te. Ci dobbiamo chiedere allora quale di que­ste due teorie eventualmente serva a spiegare la caduta del regime democratico nel caso italiano.

Si pongono immediatamente due proble­mi. Il primo riguarda il significato del con­cetto stesso di apertura (o chiusura) della classe politica. Il concetto può infatti avere aspetti sia quantitativi che qualitativi: signi­fica cioè che si verifica un alto livello di tur­nover tra i membri della classe politica, o che il rinnovamento della classe politica immette politici nuovi con caratteristiche diverse, op­pure entrambe le cose? Il secondo problema è di stabilire quali sono le soglie che consen­tono di definire troppo chiusa o troppo aper­ta una classe dirigente. Bisognerebbe aggiun­gere anche un terzo problema: come rendia­mo operativo il concetto di classe politica che

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sia Mosca che Pareto non definiscono con troppa precisione? Partendo dall’ultimo punto, e dato il contesto storico che sto ana­lizzando, considererò la classe politica com­posta principalmente dai membri del Parla­mento. A questi si dovrebbero aggiungere al­cuni (ma non molti) leaders di partito e mem­bri del governo che non appartengano già al primo gruppo. È possibile che alcuni elemen­ti della classe politica vengano omessi da questa delimitazione. Non si può tuttavia ne­gare che, per capire il funzionamento del re­gime democratico, questi gruppi definiti dal punto di vista istituzionale sono centrali. Un altro aspetto da non dimenticare, e sul quale mi soffermerò in seguito, è che all’interno di questa vasta classe di politici non tutti hanno certamente lo stesso peso: vi sono i capi e i gregari.

Per il momento lascerò da parte i due altri problemi menzionati più sopra per accostar­mi subito ad alcuni dati empirici. Comincia­mo, dunque dalla dimensione quantitativa del rinnovamento delle élites. Al volgere del secolo il turnover tra i membri del Parlamen­to italiano si attestava ad un livello alquanto basso: la media percentuale di nuovi deputati ad ogni elezione era al di sotto del 25 per cen­to (1895 = 19 per cento; 1897 = 24 per cen­to; 1900 = 24 per cento). A questo basso li­vello di rinnovamento corrispondeva una grande continuità di carriera, come dimostra il fatto che in questo periodo in media quasi un terzo dei parlamentari aveva alle spalle cinque o più legislature16.

Ho detto basso livello di rinnovamento; possiamo dire anche troppo basso? Dal mo­mento che non siamo in possesso di genera­lizzazioni sufficientemente collaudate sulla

interpretazione delle soglie quantitative del turnover delle élites, non siamo in grado di dare una risposta precisa a questa domanda. Possiamo tuttavia introdurre alcuni elementi di valutazione, paragonando i dati italiani con quelli disponibili per altri paesi. I dati, raccolti da Mattei Dogan, riguardanti la ter­za repubblica francese mostrano un tasso più elevato di nuovi eletti alle elezioni generali durante lo stesso periodo: tra il 1893 e il 1919 una media del 29 per cento17. E un livello analogo di turnover è documentato da Linz per le elezioni spagnole antecedenti la prima guerra mondiale18.

Se si prende poi in considerazione l’area anglofona si ha un tasso di rinnovamento per la Camera dei rappresentanti statunitense al volgere del secolo che è significativamente più elevato che non nel caso italiano (36 per cento tra il 1891 e il 1903). Ma negli anni suc­cessivi la percentuale media di nuovi eletti scende a livelli ancora più bassi di quelli italiani19. Per quanto riguarda il Regno Uni­to tra il 1918 e il 1951 la media di nuovi eletti è stata del 28 per cento20.

Da questi confronti si può concludere che, mentre il livello di rinnovamento della classe parlamentare italiana alla fine dell’Ottocen­to è certamente alquanto basso, esso non si distacca poi molto da altre esperienze politi­che. In ogni caso se una valutazione assoluta di un determinato livello di rinnovamento solleva problemi di non facile soluzione, si può compiere qualche passo verso una inter­pretazione più significativa in un’ottica dia­cronica. Si verificano nel tempo mutamenti nei ritmi di rinnovamento delle élites? La ri­sposta è positiva: dopo il periodo di bassi tassi di turnover che si è visto si afferma una

16 P. Farneti, Sistema politico e società civile, cit., p. 195.17 M. Dogan, La stabilité du personnel parlementaire sous la Troisième République, cit., p. 322.18 Linz riporta le seguenti percentuali di parlamentari di prima nomina: 31 per cento nelle Cortes del 1907, 34 per cento nel 1910 e 30 per cento nel 1914 (Continuidady discontinuidad en la elite espanola, cit., pp. 396-70).19 N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., p. 146.20 G. Loewenberg, Parliament in the German Political System, Ithaca, Cornell University Press, 1967, p. 146.

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tendenza a un crescente rinnovamento delle élites parlamentari (figura 1). A partire dalle elezioni del 1904, la percentuale di nuovi eletti non scenderà mai al di sotto del livello del 30 per cento. Fino alla prima guerra mondiale l’aumento è tuttavia ancora conte­nuto. Le prime elezioni postbelliche del 1919 comportano invece un livello di rinnovamen­to assolutamente senza precedenti. I parla­mentari eletti per la prima volta sono oltre il 60 per cento del totale. Il rapporto tra i vec­chi e i nuovi membri è capovolto. Mentre in passato la grande maggioranza dei politici sopravviveva da una legislatura all’altra, in questo caso solo una minoranza riesce a far­lo e la grande maggioranza deve abbandona­re il campo21.

In conseguenza di una serie di fattori che non è possibile discutere qui nei particolari (l’introduzione del sistema elettorale propor­zionale, la prima guerra mondiale, la fonda­zione di un partito cattolico) si verifica una rottura nella continuità della élite parlamen­tare. Le elezioni successive (1921) portano una certa stabilizzazione nel processo di rin­novamento; la percentuale dei nuovi eletti scende al 38 per cento. In ogni caso tuttavia il turnover è ancora notevolmente più eleva­to che non all’inizio del periodo del quale ci stiamo occupando. Nelle elezioni successive del 1924, il rinnovamento torna di nuovo ad un livello molto alto (il 54 per cento dei par­lamentari sono eletti per la prima volta)22. In tal modo, almeno dal punto di vista quanti­tativo, gli anni che precedettero la caduta del regime democratico in Italia, anziché una di­minuita apertura della classe politica, mo­

strano al contrario una tendenza ad un mag­giore rinnovamento. Delle due generalizza­zioni di Mosca che riguardano il rapporto tra il rinnovamento delle élites e la stabilità, è semmai la seconda, che ipotizza gli effetti de­stabilizzanti di una troppo rapida circolazio­ne delle élites, a poter essere applicata all’esperienza italiana. O forse potremmo suggerire una formulazione in un certo senso più complessa che prenda in considerazione entrambi gli aspetti. Un periodo di basso (e insufficiente) livello di rinnovamento delle élites politiche, quale quello che abbiamo ri­levato in Italia al volgere del secolo, ha fatto sì che la classe politica ‘restasse indietro’ ri­spetto alle mutate condizioni della società ed ha quindi preparato il terreno per una im­provvisa circolazione delle élites il cui effetto è stato poi il crollo delle fondamenta istitu­zionali del regime liberale. Un forte rinnova­mento della classe politica si realizza non so­lo dopo la transizione a un nuovo regime (co­me ci si potrebbe facilmente aspettare) ma anche negli anni immediatamente preceden­ti. È interessante osservare come in almeno altri due importanti casi il crollo della demo­crazia si sia verificato dopo un periodo di elevato turnover nella classe politica: questo avviene negli ultimi anni della repubblica di Weimar23, e in Spagna durante la seconda repubblica24.

Naturalmente non vi sono elementi suffi­cienti per affermare che un alto livello di tur­nover della classe politica sia da solo la causa della caduta di un regime democratico. Vi sono in effetti altri casi in cui si verifica un consistente rinnovamento senza che la demo-

21 D. Novacco, Storia del Parlamento Italiano, Palermo, Flaccovio, 1967, voi. 12, p. 26 nota che dei 508 membri della legislatura precedente 203 non si ripresentarono neppure e che tra quelli ricandidatisi ben 126 furono sconfitti.22 Le elezioni del 1924 devono essere valutate con una certa cautela date le condizioni di violenza diffusa in cui si svolsero e le rilevanti limitazioni poste alla libertà di competizione politica. Tuttavia, non essendo state manipolate integralmente ed essendosi svolte ancora in presenza di un certo pluralismo politico, non possono essere scartate completamente, tanto più che i risultati di esse aiutano a capire le tappe successive della presa del potere autoritaria.23 G. Loewenberg, The Institutionalization o f Parliament and Public Orientation to the Political System, cit.,p . 146.24 J. Linz, Continuidady discontinuidad en la elite espanola, cit., pp. 394-99.

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crazia corra alcun rischio. Ad esempio nel Regno Unito le prime elezioni sia dopo la prima che dopo la seconda guerra mondiale mostrano un livello di turnover eccezional­mente alto: 48 per cento e 53 per cento25 — ma non comportano in alcun modo la caduta del regime democratico. E anche in Francia durante la terza repubblica le prime elezioni dopo la prima guerra mondiale provocano un turnover più elevato nella élite parlamen­tare (52 per cento di nuovi eletti), senza pro­durre una grossa crisi26. In presenza di esem­pi così contraddittori, una formulazione più prudente potrebbe consistere neH’affermare che mentre questa variabile non è di per sé sufficiente a spiegare il crollo delle democra­zie, potrebbe invece essere significativa come uno degli elementi della complessa sindrome che è all’origine di questa crisi27. Quando non si verificano le altre condizioni di questa sindrome, una rapida circolazione delle élites politiche può venire assorbita senza eccessivo pericolo per il regime (e può anzi esercitare un ruolo positivo di rinnovamento); invece se si somma ad altri elementi può diventare un peso insopportabile. Al fine di rendere più solida questa ipotesi dobbiamo compren­dere meglio quale è l’impatto istituzionale del tasso di rinnovamento della classe politi­ca, e più specificamente di un mutamento in questo tasso. In questa prospettiva è impor­tante osservare come dal tasso di rinnova­mento dipenda la stratificazione di anzianità della classe parlamentare; e quindi un cam­biamento significativo del primo comporta anche un cambiamento della seconda, con tutte le implicazioni che ciò può avere per la struttura della classe parlamentare stessa e

per i suoi rapporti con la istituzione parla­mentare all’interno della quale essa opera. Come è stato sostenuto da alcuni autori, vie­ne qui in gioco il consolidamento istituziona­le del Parlamento28.

Per affrontare questo problema dobbiamo operazionalizzare il concetto di anzianità parlamentare. A questo scopo userò come criterio discriminante la soglia dei due man­dati. Come ogni soglia anche questa presenta un certo grado di arbitrarietà: ma sembra plausibile affermare che ci vogliono almeno due mandati perché un legislatore diventi completamente padrone di una macchina istituzionale così complessa come il Parla­mento. Distinguerò quindi tra legislatori gio­vani (cioè quelli al primo o al secondo man­dato) e legislatori anziani (quelli con tre o più mandati) e credo si possa ragionevolmente avanzare l’ipotesi che la socializzazione isti­tuzionale dei nuovi eletti alle norme, usi e convenzioni, del sistema parlamentare sarà più facile in presenza di un equilibrio tra le due componenti; al contrario, quanto più la componente giovane tende a prevalere su quella anziana, maggiori saranno le possibi­lità di una rottura della continuità istituzio­nale (e ciò può significare consistenti cam­biamenti procedurali o una più vasta ristrut­turazione del Parlamento o addirittura una crisi della sua funzionalità).

Se prendiamo in esame da questo punto di vista la classe parlamentare italiana durante questi anni, si può facilmente rilevare un no­tevole cambiamento. All’inizio del secolo la componente giovane non raggiunge neppure la metà del totale dei parlamentari: 40 per cento nel Parlamento eletto nel 1904. Nelle

25 G. Loewenberg, Parliament in The German Political System, cit., p. 146.26 M. Dogan, La stabilité du personnel parlementaire..., cit., p. 322.27 Per una ricostruzione analiticamente molto acuta dei meccanismi e dei tempi della crisi dei regimi democratici si veda il saggio introduttivo di J. J. Linz nell’opera collettanea a cura dello stesso autore: La caduta dei regimi demo­cratici, Bologna, Il Mulino, 1981.28 Cfr. N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., p. 146 e G. Loewenberg, Par­liament in the German Political System, cit., pp. 145-146.

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due legislature successive si può notare un aumento della percentuale dei legislatori gio­vani, ma modesto. Con le elezioni del 1919 il quadro cambia completamente. La compo­nente giovane diventa una maggioranza schiacciante (78 per cento nel 1919; 75 per cento nel 1921; 74 per cento nel 1924), men­tre la percentuale di legislatori anziani si ri­duce a circa un quarto di tutti i membri (figu­ra 2). Coloro che potevano meglio garantire la continuità istituzionale sono così diventati una piccola minoranza.

Il rinnovamento e il ringiovanimento non colpisce però soltanto la classe parlamentare in genere ma anche un gruppo di legislatori più selezionati e più significativi dal punto di vista istituzionale: i presidenti e i vicepresi­denti della Camera dei deputati. Se facciamo un paragone tra gli anni prima e dopo la guerra la diminuzione deH’anzianità parla­mentare di questo gruppo di persone istitu­zionalmente rilevanti è notevole. Durante la XXII legislatura (1904-1909) l’anzianità me­dia era di dieci mandati (compreso quello in corso); durante la XXIII (1909-1913) e la XXIV (1913-1919) legislatura di 8,2; dopo la guerra era scesa però a 4,9 durante la XXV legislatura (1919-1921), a 4 nella XXVI (1919-1924), e infine a 2,9 soltanto durante la XXVII (1924-1929). Un ulteriore punto da fare osservare è che nessuno dei legislatori che avevano coperto tale ruolo prima del 1919 ritorna in questa posizione istituzionale dopo il 1919 (anzi la maggior parte di essi non viene neppura rieletta in Parlamento). Come risulta da questi dati, la dimensione quantitativa dei processi di circolazione delle élites durante questo periodo della storia ita­liana segnala di per se stessa 1’esistenza di una situazione caratterizzata da un indeboli­mento dei fattori di continuità istituzionale.

Ma, come suggerirebbe Pareto, per una com­pleta valutazione del significato di un proces­so di mutamento nella classe politica, biso­gna prenderne in considerazione anche la di­mensione qualitativa. La domanda da porsi è allora la seguente: l’alto livello di rinnova­mento dell’élite parlamentare va di pari pas­so con un mutamento significativo nel suo profilo qualitativo? Il turnover elevato signi­fica soltanto una più rapida circolazione di politici dello stesso tipo o anche una più rapi­da sostituzione della vecchia classe politica con una diversa generazione di politici? Nel secondo caso si pongono immediatamente alcuni interrogativi. Quali sono gli atteggia­menti dei nuovi politici nei confronti del re­gime esistente e della sua configurazione isti­tuzionale? La loro coesistenza con i supersti­ti della vecchia élite politica come funzionerà nella fase di transizione? È possibile qualche forma di integrazione tra vecchi e nuovi poli­tici?

Gli anni seguiti alla prima guerra mondiale vedono in effetti cambiamenti anche sul pia­no qualitativo. Il profilo sociologico dei legi­slatori muta: in particolare si ha un declino delle classi superiori e una crescita dei politici di professione29. Ma non in modo fonda- mentale. Gli aspetti qualitativi più significa­tivi che cambiano nel corso di questi anni so­no legati all’appartenenza dei parlamentari ai partiti. Il grande rinnovamento della clas­se parlamentare liberale che ha luogo con le elezioni del 1919 è in stretta relazione con un vero e proprio sconvolgimento del sistema partitico. I due partiti di massa, il partito so­cialista e il partito popolare compiono uno straordinario balzo in avanti mentre, paralle­lamente, l’area parlamentare liberale subisce una brusca riduzione. Un simile cambiamen­to nel sistema partitico si ripercuote diretta­

29 Su questo punto si veda L. Lotti, Il Parlamento italiano, 1909-1963: raffronto storico, in II Parlamento italiano, cit. e P. Farneti, The Italian Parliamentary Elite from Liberalism to Democracy, relazione presentata alle Joint Ses­sions dell’European Consortium for Political Research, Grenoble, 1978.

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mente sulla classe politica. Intanto i due par­titi in ascesa si collocano entrambi al di fuori de\Y establishment politico tradizionale; per­tanto la classe politica che emerge con essi ha ovviamente un atteggiamento nei confronti delle istituzioni esistenti profondamente di­verso da quello dei vecchi politici liberali: non è il ‘loro’ regime politico e non sentono nei suoi confronti forti sentimenti di identi­ficazione30. In, secondo luogo, i nuovi partiti sono organizzazioni politiche profondamen­te diverse da quelle dell’area liberale e demo­cratica, che non potevano essere considerate veri partiti, quanto piuttosto raggruppamen­ti personalistici a base parlamentare. Questo fatto inevitabilmente influenza i moduli or­ganizzativi della classe politica. Il vecchio si­stema personalizzato basato sui rapporti tra leader parlamentare e seguaci lascia il posto ad un sistema più formale e impersonale. Questa trasformazione diviene visibile anche istituzionalmente quando, con la riforma re­golamentare del 1920, l’organizzazione ope­rativa della Camera dei deputati viene a ba­sarsi sui gruppi parlamentari riconosciuti giuridicamente invece che sui singoli deputa­ti. Con ciò viene introdotto nel funziona­mento del Parlamento un nuovo elemento non solo di disciplina ma anche di rigidità. Un’altra importante conseguenza del nuovo tipo di partito è che, a fianco dei gruppi par­lamentari e della leadership da essi espressa, esiste ora una leadership potenzialmente di­

versa, selezionata dalle organizzazioni ester­ne degli stessi partiti. Durante tutto questo periodo per esempio il leader politico ufficia­le e reale del Ppi, Sturzo, non è un parlamen­tare. È una leadership dualista, con leaders parlamentari e leaders di partito quasi sem­pre divisi nelle posizioni politiche e nelle stra­tegie, è evidente anche nel partito sociali­sta31.

Il significato e l’impatto del rinnovamento della classe politica diventano quindi molto più evidenti se prendiamo in considerazione le due dimensioni, quantitativa e qualitativa, insieme. La nuova classe politica è anche una classe politica diversa.

Come abbiamo già osservato, i due partiti ‘nuovi’ sono i maggiori responsabili del rin­novamento della classe politica. Dei 156 de­putati socialisti eletti nel 1919, 128 cioè l’82 per cento sono di nuova elezione, e anche per il Ppi vale una percentuale analoga (81 su 98, cioè l’83 per cento). Il Psi e il Ppi sono quin­di partiti nuovi, sia per quanto concerne la loro posizione politica (al di fuori dell’esta- blishment) che per la loro classe politica, co­me pure nuovo è il loro ruolo nel Parlamento e nel processo politico. Nel passato rappre­sentavano una forza minoritaria32, ora, som­mati, contano il 50 per cento dei legislatori; non è possibile formare un governo contro di essi.

Quanto ai partiti vecchi, essi hanno perso quasi la metà dei seggi; ma anche nelle loro

30 Non ultimo aspetto di questa situazione era lo scarso attaccamento di entrambi i partiti nei confronti dell’istitu­zione monarchica. Anzi nel caso del partito socialista si poteva parlare di netta ostilità, come si rivelò chiaramente quando, all’apertura della Camera, al momento del discorso della Corona i deputati socialisti abbandonarono l’au­la. Non che il loro atteggiamento antimonarchico fosse una novità, solo che finché il Psi era un gruppo di ridotte di­mensioni poteva passare quasi inosservato, ora invece, date le dimensioni raggiunte dal partito, acquistava un signi­ficato delegittimante ben più grave.31 Gli effetti di questa situazione si rivelano particolarmente seri per il processo di formazione delle coalizioni (ne­cessarie per dare una maggioranza ai governi). I rapporti tra i vecchi leaders parlamentari liberali e la leadership dua­listica dei partiti di massa sono difficili proprio per motivi strutturali, in quanto le due élites politiche devono muo­versi nell’ambito di vincoli istituzionali molto diversi.32 II Psi aveva ottenuto nel 1913 solo 52 deputati (circa il 10% della Camera): il Partito popolare non esisteva prima del 1919 e i deputati ‘clericali’ non rappresentavano certo ancora una forza politica nazionale di una cer­ta consistenza.

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fila il rinnovamento è stato elevato (106 nuo­vi eletti su 252, cioè il 42 per cento). Ciò si­gnifica che in quest’area il numero dei non rieletti è stato particolarmente alto, e che quindi, anche all’interno dei partiti che rap­presentano in maniera più significativa la continuità del sistema politico, la classe poli­tica deve affrontare in questi anni tutti i pro­blemi di un riassestamento di grossa portata. Con le elezioni successive (1921) si verifica un netto calo nel tasso di rinnovamento dei due partiti di massa (solo il 37 per cento di nuovi eletti nel Ppi e il 33 per cento nel Psi). Ciò non ha, naturalmente un grosso impatto immediato sul livello di anzianità dei loro gruppi parlamentari, nei quali oltre l’80 per cento dei membri sono ancora deputati gio­vani. Negli altri partiti del centro e della de­stra, considerati nel loro complesso, il turno­ver rimane più elevato (41 per cento), seppu­re non omogeneo. La vecchia componente li­berale e conservatrice ha ormai raggiunto una certa stabilità, unita però, bisogna rico­noscerlo, ad un considerevole indebolimento del suo peso in Parlamento, mentre sono emersi nuovi gruppi politici — fascisti, na­zionalisti — guidati da una leadership giova­ne e priva di esperienza parlamentare33. Per comprendere appieno il ruolo che questi nuovi politici (‘leoni’, se vogliamo caratteriz­zarli in termini paretiani) stanno per avere, non si deve dimenticare che, dato lo stato dei giochi di coalizione in questi anni e il veto re­ciproco tra alcune delle principali forze poli­tiche, il loro peso politico eccede di molto il loro numero relativamente esiguo.

Un segno piccolo ma indicativo del fatto che la classe politica postbellica è una classe politica ‘nuova’ anche nei suoi orientamenti

politici può essere dato dal seguente elemen­to: le richieste presentate al Parlamento di sospensione dell’immunità parlamentare per deputati accusati di avere trasgredito la leg­ge. Dopo la prima guerra mondiale il nume­ro di casi in cui la trasgressione assume anche toni politici e istituzionali (ad esempio: diffa­mazione nei confronti dello Stato o di una delle sue istituzioni, incitamento alla violen­za politica o sedizione, partecipazione a som­mosse politiche ecc.) diviene significativo34. Possiamo leggere in questi dati un segno del deterioramento generale del clima politico, ma anche della parte avuta in questo proces­so dai membri della élite parlamentare. Un fatto da non sottovalutare. E che questa at­mosfera conflittuale lasciasse traccia sulla istituzione parlamentare stessa trova confer­ma nel fatto che durante la XXVI legislatura (1921-24) furono avanzate proposte tese a rafforzare i poteri disciplinari del presidente della Camera dei deputati nonché a creare una apposita giuria che si occupasse delle controversie tra deputati35.

Quando si dibatte la questione degli effetti della variabile classe politica l’attenzione si accentra generalmente sugli effetti in termini di ‘politiche’. Il motivo è comprensibile: le ‘politiche’ concrete sono alla fin fine la ra­gione per cui è rilevante la ‘politica’. Come abbiamo però affermato all’inizio non dob­biamo dimenticare che le politiche sono pro­dotte da istituzioni e dipendono quindi dal funzionamento di queste. Si può trascurare la dimensione istituzionale solo quando le istituzioni possono essere date per scontate, cioè non sono in discussione né la loro esi­stenza né il loro funzionamento. Ma questo non è certamente il caso dell’Italia durante

33 Cfr. P. Fameti, The Italian Parliamentary Elite, cit., p. 16.34 Nella legislatura 1919-21 su 60 richieste prese in considerazione dalla Camera 29 avevano questo carattere; nella legislatura successiva 57 su 106. Nella legislatura 1909-1913 invece il numero era stato soltanto di 3 su 116. Per questi dati cfr. Camera dei deputati, La X X III Legislatura, Roma 1913; idem, La XXVLegislatura, Roma 1921. idem, La X X V I Legislatura, Roma, 1924.35 Vedi Camera dei Deputati, La X X V I Legislatura, cit., p. 106.

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gli anni che stiamo esaminando. Dobbiamo quindi prestare attenzione innanzi tutto all’aspetto istituzionale, ed abbiamo visto come i cambiamenti verificatisi nei processi di articolazione della classe politica abbiano un rapporto con questa dimensione. Al fine ora di accorciare in qualche modo la distanza tra il livello istituzionale e quello delle politi­che dobbiamo prestare attenzione ad un pro­cesso che ha un ruolo fondamentale di lega­me tra i due. Intendo riferirmi al processo della formazione dei governi.

Le conseguenze della nuova situazione ve­rificatasi nella classe politica dopo le elezioni del 1919 si fanno sentire molto chiaramente su questo processo che, per un regime parla­mentare, è particolarmente importante e de­licato. Tutti i politici sperimentati, candida­bili alla guida del governo appartengono na­turalmente alla vecchia classe politica espres­sa dai partiti tradizionali. Ma a causa dell’in- debolimento di questi sono diventati ‘genera­li senza soldati’. Nei partiti nuovi si verifica la situazione opposta: essi hanno infatti mol­ti ‘soldati’ ma mancano di generali. C’era certo qualche leader politico più anziano, pe­rò con il fatto che questi partiti erano sempre stati all’opposizione nessuno aveva esperien­za diretta del processo di formazione di coa­lizioni di governo. È probabilmente conse­guenza di questa situazione che il solo politi­co dei nuovi partiti di massa (Meda del Ppi) al quale in quegli anni viene richiesto due volte dal re di cercare di formare un governo abbia rifiutato36. In un certo senso non si sentiva adeguato al compito e riteneva di non godere di sufficiente autorità in Parlamento. Il risultato è che i ‘vecchi generali’ devono formare i loro governi contando soprattutto

sui ‘nuovi soldati’. Ma il compito è diventato molto più difficile che non in passato: i nuo­vi settori della classe politica sono più rigidi dei vecchi in quanto agiscono seguendo stret­tamente linee di partito, e meno facilmente possono quindi venire cooptati per un ap­poggio al governo su basi personali. Non c’è quindi da stupirsi che anche il più significati­vo uomo politico liberale degli anni prece­denti la guerra, cioè Giolitti, che aveva in passato dominato il processo di formazione dei governi, debba ora andare incontro a un fallimento. Il ‘miracolo’, al quale aveva abi­tuato sia gli amici che gli avversari politici (essendo sempre in grado di ritornare dal- 1’ ‘esilio’ autoimpostosi e formare una mag­gioranza parlamentare), questa volta non av­viene, ed egli preferisce ritirarsi e cedere il passo ad altri politici meno in vista.

Una riprova di quanto il processo di for­mazione dei governi sia diventato in questi anni sempre più difficile è fornita dalla dura­ta media dei governi: mentre tra il 1900 e il 1919 era circa di sedici mesi, tra il 1919 e il 1922 scende a soli sei o sette. Questa situazio­ne influisce necessariamente sulla efficacia politica dell’esecutivo. Ne dà una riprova l’indice di successo delle proposte legislative sottoposte al Parlamento dal governo che di­minuisce in maniera drastica nelle legislature del dopoguerra rispetto alle percentuali degli anni precedenti la guerra37. Va detto inoltre che il calo nell’indice di successo delle inizia­tive legislative riguarda anche le proposte avanzate dai parlamentari: la crisi colpisce dunque entrambi gli elementi della coppia governo / Parlamento.

Abbiamo già osservato come i settori nuo­vi della classe politica siano organizzati più

36 G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla repubblica, Milano, Mondadori, 1968, pp. 41 sgg.37 Nella XXI legislatura (1900-1904) la percentuale di successo per i progetti di legge governativi introdotti alla Ca­mera è del 70 per cento (su un totale di 882 progetti): nella XXII dell’88 per cento (su un totale di 933); nella XXIII dell’89 per cento (su un totale di 1111); nella XXIV del 33 per cento (su un totale di 1157); nella XXV del 13 per cento (su un totale di 1078); nella XXVI del 33 per cento (su un totale di 1551) (Camera dei Deputati, Manuale dei Deputati per la X X V II Legislatura, Roma, 1924, pp. 1086-87).

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rigidamente lungo linee di partito formal­mente definite. Ciò non significa necessaria­mente che questi raggruppamenti siano sem­pre coesivi ed unitari. Anzi, durante questo periodo, sia il gruppo parlamentare sociali­sta che quello popolare devono affrontare profonde spaccature all’interno dei loro ran­ghi, soprattutto riguardo alla loro partecipa­zione al governo. Questi dissensi producono dapprima una mancanza di flessibilità politi­ca in entrambi i gruppi, che riduce al massi­mo la loro possibilità di esercitare un ruolo positivo nella soluzione della crisi governati­va, e, in un secondo momento, scissioni for­mali di gruppi di dissidenti. Le spaccature nel Psi sono così serie da dare origine a tre diversi partiti (socialisti unitari, socialisti massimalisti e comunisti) con strategie in netto conflitto in ordine all’atteggiamento nei confronti delle coalizioni di governo. Quanto ai popolari, perdono un gruppo di deputati di una certa consistenza quando questi in un momento cruciale (il voto per la riforma elettorale del 1923) decidono di ap­poggiare la proposta fascista, contro la linea di voto del partito 38. Sembra plausibile argo­mentare che proprio l’enorme crescita dei due partiti e della loro classe politica abbia creato un terreno favorevole al nascere di dissensi interni sui laceranti problemi del pe­riodo postbellico.

Problemi sociali meno gravi di quelli af­frontati dalla democrazia italiana in quegli anni avrebbero forse concesso alla nuova classe politica più tempo per consolidare la propria struttura e per superarne le eteroge­neità. Sarebbe forse accaduto ciò che avven­ne nella Germania di Weimar, dove la classe

politica postbellica resistette dieci anni di più o forse sarebbe stato addirittura possibile evitare la fine della democrazia. Ma per una serie di motivi che non è possibile esaminare in questa sede nei dettagli, il tempo mancò, ed una nuova classe politica riuscì a sfruttare abilmente queste occasioni per impadronirsi del potere ed inaugurare un regime autorita­rio39.

Ritornando alle formulazioni della teoria classica quello che possiamo ricavare dal­l’esperienza italiana è che, se la variabile del­la classe politica ha avuto un ruolo nella ca­duta della democrazia, ciò è stato soprattut­to per effetto di un troppo repentino proces­so di rinnovamento. La somma degli aspetti quantitativi e qualitativi (soprattutto l’au­mentata eterogeneità all’interno della classe politica) di questo fenomeno ha contribuito in maniera significativa ad indebolire la ca­pacità dell’esile governo democratico di af­frontare le difficili prove di quegli anni. Seb­bene questa spiegazione del caso italiano sembri alquanto plausibile, è necessario riba­dire che per trarne una generalizzazione suf­ficientemente solida sarebbe indispensabile un raffronto più sistematico con altri casi. In particolare sarebbe opportuno discutere i ca­si in cui un ampio rinnovamento della classe politica ha costituito soltanto un fattore di rinnovamento, senza effetti destabilizzanti40. In sostanza bisognerebbe analizzare più a fondo le condizioni aH’interno delle quali si sviluppano i processi di circolazione delle éli­tes e indagare su quali fattori possano con­trobilanciare le tensioni che si producono quando una classe politica è sottoposta ad un mutamento repentino.

38 G. Spataro, I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica, cit., pp. 81 sgg.39 Per una interessante messa a fuoco di questa transizione di regime di veda P. Farneti, La crisi della democrazia italiana e l ’avvento del fascismo: 1919-1922, in “Rivista Italiana di Scienza Politica” , voi. 5, 1975.40 Per l’esame di un’esperienza di questo secondo tipo cfr. M.R. King e L.G. Seligman, Criticai Elections, Congres­sional Recruitment and Public Policy, in H. Eulau e M. Czudnowski (a cura di), Elite Recruitment in Democratic Politics, Beverly Hills, Sage, 1976.

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La classe politica della democrazia postbelli­ca: il problema del consolidamento

Se esaminiamo la seconda esperienza demo­cratica della storia d’Italia del ventesimo se­colo — quella che ha inizio con la caduta del fascismo, causata dalla sconfitta militare nella seconda guerra mondiale — la natura dei problemi che dobbiamo affrontare non è molto diversa, tuttavia il quadro di riferi­mento e gli esiti non sono chiaramente gli stessi.

L’elemento in comune con l’esperienza precedente è che ancora una volta la classe politica è in gran parte nuova (quanto poi sia in effetti nuova è una questione sulla quale sarà necessario ritornare). È quindi una clas­se politica che dovrà sottostare a un processo di consolidamento e di apprendistato istitu­zionale. La differenza con la situazione pre­cedente è che il rapporto tra il cambiamento di regime e il rinnovamento della classe poli­tica è ora capovolto. Dopo la prima guerra mondiale un vasto rinnovamento della classe politica si era sviluppato nel quadro del regi­me politico preesistente, e il cambiamento di regime si era verificato dopo e, come abbia­mo visto, poteva in un certo senso ritenersi conseguente a quel processo. Ora invece il rinnovamento della classe politica è una di­retta conseguenza del cambiamento di regi­me — o meglio di due passaggi di regime; dalla democrazia al fascismo, e dal fascismo di nuovo alla democrazia. La differenza è si­gnificativa e facilita ovviamente il compito della classe politica postfascista. I nuovi po­litici del 1919 e del 1921, nella loro lotta con­tro la vecchia classe politica liberale, finiro­

no per combattere anche il regime parlamen­tare esistente, rischiando così, come di fatto avvenne, la propria autodistruzione (aveva­no infatti potuto affermarsi sotto la tutela del vecchio regime e, con il suo disgregarsi, restarono travolti dal nuovo autoritarismo). La classe politica postfascista è riuscita inve­ce a insediarsi lottando sia contro la vecchia classe politica (fascista) che contro il vecchio regime (fascista), conquistando così una doppia legittimità democratica.

In ordine al problema sul quale intendo qui focalizzare l’attenzione, cioè l’installa­zione e il consolidamento di una nuova classe politica (nel nostro caso quella postfascista), in Mosca e Pareto si possono trovare soltan­to osservazioni di carattere generale sulla tendenza comune a tutte le classi politiche una volta raggiunto il potere, a diventare col tempo sempre più chiuse ed a perpetuare se stesse per mezzo di meccanismi di esclusione di diverso tipo e soprattutto traendo vantag­gio da meccanismi ereditari41. Secondo Mo­sca questa tendenza svolge, almeno fino ad un certo punto, una funzione positiva, dal momento che garantisce la trasmissione di valori e qualità indispensabili al funziona­mento del sistema politico42. Un punto di vi­sta che, sebbene espresso in termini diversi, è condiviso dalla teoria dell’istituzionalizza­zione43. È evidente invece che, nel contesto politico contemporaneo, il ruolo attribuito dalla teoria classica al principio ereditario sembra superato. Mentre questo principio può avere avuto in passato un grosso ruolo nel garantire la continuità di una classe poli­tica, oggi hanno preso il suo posto altri fatto­ri politici, in particolare l’organizzazione

41 G. Mosca, Elementi di scienza politica, cit., vol. 1, pp. 94 sgg.; V. Pareto, Trattato di sociologia generale, cit., voi. 2, pp. 899 sgg.42 G. Mosca, op. cit., p. 95.43 Si veda per esempio N. Polsby, The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., passim; G. Loewen berger, The Institutionalization o f Parliament, cit. e R. Sisson, Comparative Legislative Institutionalization: A Theoretical Explanation, in A. Kornberg, Legislatures in Comparative Perspectives, cit.

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partitica. Il principio ereditario è confinato ormai ad un ruolo marginale; il che non si­gnifica tuttavia che i legami di parentela ab­biano perso ogni influenza, se è vero che tra il 1946 e il 1976 circa il 40 per cento dei depu­tati italiani aveva almeno un parente con una esperienza politica di qualche tipo e il 15 per cento un parente appartenente alla classe parlamentare44.

Prima però di affrontare il problema della stabilizzazione di una nuova classe politica, dobbiamo prendere in esame come questa classe si è formata. E in particolare dobbia­mo rispondere alla seguente domanda: quale grado di discontinuità è stato determinato dal periodo non democratico, o, per porre altrimenti la domanda, fino a che punto è nuova la nuova classe politica? Il problema presenta in realtà due aspetti: 1. il grado di discontinuità con la classe politica autorita­ria; 2. il grado di discontinuità con la prece­dente classe politica democratica. Il primo può essere significativo per valutare fino a qual punto un passato non democratico con­tinui a pesare sulla rinata democrazia e in quale misura la transizione sia stata di tipo evolutivo oppure abbia configurato una rot­tura. Il secondo può contribuire a rispondere alle domande sul grado di esperienza demo­cratica dei fondatori del nuovo regime e sulPincidenza della memoria della passata democrazia con le sue fratture e i suoi schie­ramenti sul comportamento politico nella nuova situazione.

Per quanto riguarda il primo punto, e li­mitando l’analisi al livello parlamentare, la classe politica del nuovo regime democratico

mostra un livello molto basso di continuità con la classe politica non democratica. Di tutti i membri dell’Assemblea costituente e della Camera dei deputati eletti tra il 1946 e il 1976 solo quindici avevano fatto parte delle legislature ‘elette’ sotto il regime fascista. Naturalmente ciò non significa che soltanto così pochi tra i nuovi politici fossero stati in qualche modo coinvolti nel regime fascista: è indubbio che un numero maggiore di essi erano stati politicamente legati al passato re­gime, ma ad un livello inferiore, in sede loca­le e non in qualità di membri della classe di governo nazionale. Sotto questo aspetto è considerevole la differenza con il recente ca­so spagnolo45.1 dati riguardanti la continuità delle élites politiche sono coerenti con il di­verso modello di transizione alla democrazia verificatosi nei due paesi: evolutivo in Spa­gna, discontinuo in Italia46. Il fatto che in Italia la nuova classe politica abbia scarsi le­gami personali con il passato regime auori- tario (eccezion fatta per alcuni membri del Msi) significa che l’opposizione al regime fa­scista, l’antifascismo, può essere condiviso da tutte le forze politiche, diventando un po­tente strumento di azione simbolica e di legit­timazione. Non se ne deve quindi sottovalu­tare il ruolo nel ricomporre le spaccature po­litiche.

Il punto successivo riguarda la continuità con il vecchio regime democratico. Quale è stato il ruolo esercitato dai superstiti della democrazia prefascista nella formazione del­la nuova classe politica democratica? Possia­mo iniziare con un dato complessivo. Nel primo Parlamento liberamente eletto dopo la

44 Cfr. M. Cotta, Classe politica e Parlamento in Italia, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 152. Nei paesi dove non si so­no sviluppati partiti fortemente organizzati il ruolo dei legami familiari può essere ancora più esteso; si veda ad esempio l’analisi del caso greco in K. Legg, Restoration Elites: Regime Change in Greece, in M. Czudnowski (a cura di), Does Who Governs Matter?, rit., pp. 188-213.45 I politici con un passato franchista rappresentano un gruppo piuttosto consistente nella assemblea costituente spagnola eletta nel 1977; la loro presenza é concentrata in due partiti: Alianza Popular e UCD (cfr. S. del Campo. J.F. Tezanos e W. Santin. The Spanish Elite: Permanency and Change, M. Czudnowski, op. cit., pp. 125-53).46 Sui diversi modelli di transizione alla democrazia cfr. L. Moriino, Come cambiano i regimi politici, Milano, An­geli, 1980, pp. 86 sgg.

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caduta del fascismo, cioè nell’Assemblea co­stituente del 1946, i legislatori con una espe­rienza nel vecchio Parlamento democratico sono 88, cioè il 15 per cento del totale. È una minoranza alquanto ridotta che diminuirà ancora (3 per cento) nella Camera eletta nel 194847. Spiegare il numero limitato dei super­stiti della vecchia classe politica democratica è facile. Un primo elemento è dato ovvia­mente, dal trascorrere del tempo; vent’anni non possono non operare ‘naturalmente’ una forte selezione. Un altro fattore che può avere influito è il fatto che, come abbiamo visto, la maggior parte della vecchia classe politica non aveva ancora avuto il tempo di consolidare le proprie posizioni prima dell’avvento del fascismo, e fu quindi facil­mente eliminata dal regime dittatoriale.

In termini comparati tuttavia, il gruppo di legislatori prefascisti che riesce a tornare in Parlamento alle prime elezioni della ricosti­tuita democrazia non è poi così ristretto. Nella Germania occidentale, nonostante una interruzione più breve nel governo democra­tico, i superstiti del vecchio Reichstag eletti al primo Bundestag del 1949 sono soltanto 28 (7 per cento)48. E in Francia, dopo solo cinque anni del governo di Vichy, la percen­tuale dei legislatori della terza repubblica eletti nel 1945 alla prima assemblea parla­mentare della quarta repubblica è inferiore a quella italiana: il 15 per cento49. Probabil­mente la radicalità dell’esperienza non de­mocratica in Germania, il profondo rialli­neamento del sistema partitico avvenuto in Francia dopo la seconda guerra mondiale, sono i fattori che spiegano la maggiore di­scontinuità della classe politica in questi due casi. Altri paesi, come la Spagna e la Grecia,

mostrano invece una relazione più lineare tra il fattore tempo e la sopravvivenza delle vec­chie élites democratiche50.

Ritornando al caso italiano è interessante osservare come nell’Assemblea costituente il peso numerico dei vecchi legislatori non sia uguale in tutti i settori: esso va infatti da un minimo di sei tra i legislatori comunisti (nes­suno faceva tuttavia parte del gruppo parla­mentare comunista prima del fascismo) al 14 per cento dei democristiani, al 24 per cento dei socialisti, a un massimo del 32 per cento per la destra. I partiti che, già prima del fa­scismo, avevano una antica tradizione politi­ca mostrano continuità maggiore con il pas­sato: abbiamo quindi una prova della validi­tà dell’ipotesi avanzata in precedenza sul rapporto tra la sopravvivenza della vecchia élite democratica e la profondità del suo con­solidamento prima dell’avvento del regime autoritario. Possiamo però interpretare que­sti dati — e non vi è contraddizione tra le due letture — anche come segno di una ridotta capacità delle forze politiche di più antica tradizione nel reclutare elementi nuovi.

Al fine però di comprendere appieno il ruolo esercitato dalla classe politica prefasci­sta nella fase di transizione alla democrazia questi dati non sono sufficienti. In effetti essi ne sottovalutano l’influenza. Per una valuta­zione più accurata dobbiamo ritornare indie­tro di qualche anno e prendere in considera­zione la politica ‘non-istituzionale’ degli anni1943-46 tra la caduta del fascismo e le prime elezioni. Questi anni di transizione tra i due regimi sono in effetti fondamentali per la prima formazione della nuova classe politica e per le basi del governo democratico. In questi anni si verifica la prima fusione di vec-

47 La continuità con il passato è maggiore nel Senato durante la prima legislatura dato che molti parlamentari prefa­scisti vi vengono nominati de iure.48 Deutscher Bundestag, Die Mitglieder des deutschen Bundestages: I.-VI. Wahlperiode, Bonn, 1971, pp. 154 sgg.49 P. Manigand, Les Députés de la IV* République relazione presentata alle Joint Sessions del European Consor­tium for Political Research, Grenoble, 1978, p. 8.50 Cfr. K. Legg, Restoration Elites: Regime Change in Grece, cit., p. 200.

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chi e nuovi politici, e gli schieramenti politici subiscono una strutturazione iniziale anche se non definitiva. In questo periodo non esi­ste un vero Parlamento51 e le arene nelle qua­li la classe politica muove i primi passi sono i partiti in via di ricostituzione, il governo, la Resistenza. Ognuna di queste arene è struttu­ralmente diversa dalle altre e benché siano connesse tra di loro, all’interno di ciascuna emerge una classe politica alquanto diversa. Nella Resistenza i vecchi politici hanno un ruolo molto limitato; il ruolo preminente è quello di una leadership giovane, con scarsa esperienza della vecchia democrazia parla­mentare e fortemente motivata alle innova­zioni. Non c’è quindi da stupirsi che, all’in­terno di questo gruppo, circolino ipotesi più radicali su una democrazia non parlamenta­re, basata sui Cln. Nelle altre due arene il ruolo dei politici tradizionali è più signi­ficativo52.

Nel primo governo ‘politico’ dopo la ca­duta di Mussolini, il secondo governo Bado­glio, su diciassette ministri nove erano stati deputati o senatori nel periodo prefascista (e tre anche ministri). La percentuale è più o meno la stessa nei successivi governi degli an­ni quaranta. Il grado di continuità è davvero significativo, né se ne deve sottovalutare il peso, se si pensa al ruolo centale e relativa­mente incontrollato del governo nella rico­struzione della democrazia durante questi anni in cui non esiste un Parlamento. Quan­to ai gruppi fondatori dei partiti53, osservia­mo immediatamente differenze significative nella proporzione tra politici vecchi e nuovi. Dei tre partiti di massa la Democrazia cristia­

na (che ha preso il posto del vecchio Partito popolare) mostra, durante questo periodo di transizione, la maggiore continuità di leader­ship con il periodo prefascista. Quasi tutti i fondatori del partito nei primi mesi del 1943 possono vantare un’esperienza politica nel vecchio Partito popolare in qualità di mem­bri del gruppo parlamentare o degli uffici di­rettivi dell’organizzazione partitica: addirit­tura l’ultimo leader del vecchio partito prima dello scioglimento (De Gasperi) può guidare il partito appena ricostituito. Questa conti­nuità si manterrà anche negli anni successivi, ma a partire dal primo congresso nazionale regolare del partito, tenuto nel 1946, l’au­mento del numero di uomini politici nuovi diviene significativo. Nell’insieme il processo di circolazione generazionale della classe po­litica si realizza in modo progressivo, dentro una robusta struttura costituita dai vecchi politici.

Diverso è il caso del Partito comunista ita­liano. Nessuno dei membri del piccolo grup­po parlamentare del periodo prefascista ha un ruolo significativo nella ricostruzione del partito; la continuità si verifica qui soprat­tutto con una classe politica più giovane, for­matasi nella clandestinità dell’opposizione al regime fascista. Solo il leader del partito, To­gliatti, rappresenta una più lunga continuità, che consente di risalire al vecchio gruppo fondatore del partito all’inizio degli anni venti. Questo elemento, insieme al ruolo esercitato all’interno del movimento comuni­sta internazionale e all’investitura sovietica di cui Togliatti può farsi forte, gli conferisce una indiscussa autorità di leader del partito.

51 Con l’istituzione della Consulta nel settembre 1945 viene introdotto un organo paraparlamentare; ma essendo es­so di nomina e non elettivo il suo peso politico resta limitato. È interessante notare che al suo interno i politici prefa­scisti hanno un peso ancora piuttosto consistente: circa il 27% (cfr. L. Lotti, Il Parlamento italiano, cit., p. 147).52 Per un esame più dettagliato di questa fase nell’ottica della ricostituzione della classe politica cfr. M. Cotta, Clas­se politica e Parlamento in Italia, cit., pp. 66 sgg.53 Con questa espressione intendo fare riferimento ai membri degli organi dirigenti nazionali dei partiti costituitisi in questi anni e non ancora eletti da regolari congressi. Come è noto i primi congressi regolari dei partiti avverranno agli inizi del 1946.

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La struttura gerarchicamente ben definita della classe politica del Pei rende possibile l’assimilazione di un gran numero di politici giovani tramite un processo di cooptazione, che causa ridotti conflitti intergenerazionali.

Dei tre grandi partiti, il partito socialista è quello che invece ha il gruppo fondatore me­no omogeneo. Nel suo primo nucleo dirigen­te il divario generazionale è elevato (un’arco di età di trentacinque anni, a confronto dei dodici del Pei). Accanto a un certo numero di superstiti molto anziani del gruppo parla­mentare prefascista e del nucleo dirigente del partito, ci sono i politici attivi durante gli an­ni della transizione dalla democrazia al fasci­smo, e infine un nucleo di giovani emersi du­rante la crisi del regime fascista e privi di co­noscenza diretta del vecchio partito, ma che hanno un ruolo importante nella ricostruzio­ne del nuovo partito socialista. A questa ete­rogeneità generazionale va aggiunto il fatto che non è sopravvissuto nessuno dei leader riconosciuti del partito prefascista. La man­canza di dirigenti dotati di un’autorità indi­scussa rende molto più complesse che negli altri due partiti sia l’assimilazione della gene­razione più giovane che la mediazione tra po­litici vecchi e giovani. Le molteplici scissioni alle quali il partito andrà incontro nei primi anni della democrazia postfascista sono pro­babilmente dovute, insieme ad altre ragioni, anche alla incerta struttura dirigenziale all’interno della sua classe politica.

Per quanto riguarda i partiti della destra tradizionale, la sopravvivenza dei vecchi po­litici è notevole, e il ruolo che essi esercitano nel frenare (insieme ai democristiani) le spin­te della sinistra verso modelli di democrazia più radicali non deve essere sottovalutato. Ciò che appare subito evidente è che essi so­no alquanto ‘fuori fase’ rispetto alla nuova politica del periodo postfascista, caratteriz­zata da un livello di mobilitazione popolare

molto più elevato di quello degli anni in cui essi avevano iniziato la loro attività politica (basti pensare al fatto che il livello medio di partecipazione elettorale prima del fascismo era intorno al 60 per cento e dopo il fascismo raggiunge il 90 per cento)54. Le conseguenze si fanno sentire molto chiaramente con le prime elezioni del 1946 e ancor più nel 1948. I partiti della destra liberale e conservatrice non sono in grado di competere efficacemen­te contro gli altri partiti e conquistano un set­tore molto ristretto dell’elettorato (il 15 per cento nel 1946 e P8 per cento nel 1948, men­tre alle elezioni del 1921 avevano ancora ol­tre il 30 per cento). Ciò che la teoria classica delle élites affermava sulla inevitabile scom­parsa di una élite politica sopravvissuta alle condizioni sociali che ne avevano favorito l’ascesa, si applica perfettamente a questo caso.

In sintesi, tutti i partiti mostrano in questo periodo nella classe politica un insieme di vecchio e di nuovo. Ma se prendiamo in con­siderazione i due partiti — la De e il Pei — che in questo periodo ottengono i successi maggiori, il primo guadagnando terreno a spese della vecchia destra e il secondo della sinistra socialista, un elemento importante che essi hanno in comune è la maggiore omo­geneità iniziale e la certezza, all’interno della classe politica, del vertice della leadership. Da questa analisi risulta chiaramente come, in una fase di transizione, il processo di rin­novamento e di ricostituzione della classe po­litica sia fortemente influenzato dalla strut­tura dei nuclei formativi originari della classe politica stessa.

Dal punto di vista delle conseguenze per il regime appena costituito non è affatto privo di significato il fatto che la Democrazia cri­stiana conquisti, già dai primi anni della transizione una posizione centrale nel siste­ma politico tra la sinistra e la destra e, di

54 Cfr. G. Schepis, Le consultazioni popolari in Italia dal 1948 al 1957, Empoli, Caparrini, 1958, p. 98.

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conseguenza, un ruolo dominante nelle coa­lizioni governative (ruolo che le elezioni del 1946 e del 1948 sanzioneranno ulteriormente dando alla De lo status del partito di maggio­ranza relativa). Ciò significa che il nuovo re­gime democratico inizia la sua esistenza con un equilibrio tra continuità e innovazione (ri­spetto alla esperienza parlamentare prefasci­sta), ai livelli più alti della classe politica, maggiore che se il successo fosse andato alla sinistra comunista o alla destra tradizionale. Nel primo caso avrebbe prevalso la disconti­nuità, nel secondo il peso del passato sarebbe stato soverchiante. Simbolo evidente di que­sta coesistenza tra vecchio e nuovo è il fatto che l’uomo che guida il partito della Demo­crazia cristiana ed allo stesso tempo il gover­no fino alla sua morte nel 1954 è lo stesso leader che aveva guidato il vecchio partito cattolico negli ultimi anni del periodo prefa­scista: una chiara personificazione quindi della continuità ma anche una persona pron­ta a riconoscere, sia nel partito che nel gover­no, il ruolo dei politici della generazione più giovane ed a basare la propria posizione di leadership su di una coalizione intergenera­zionale.

Ben presto, con l’inizio della vita istituzio­nale regolare del nuovo regime, che compor­ta un considerevole aumento del numero del­le posizioni istituzionali da occupare, e quin­di il passaggio a una politica assai meno di élite che negli anni della transizione, la nuo­va classe politica, priva dell’esperienza della democrazia prefascista, emerge con forza. All’inizio diviene quantitativamente domi­nante nei livelli più bassi e più ampi della classe politica. Abbiamo verificato ciò sul piano parlamentare, ma la stessa situazione si verifica nelle assemblee nazionali delle or­ganizzazioni partitiche. Il passo successivo è l’accesso alle posizioni di vertice. Tra i gran­di partiti, la Democrazia cristiana è quella che sostituisce più lentamente nelle posizioni più elevate i vecchi politici con i nuovi. An­che per essa, tuttavia, alla fine degli anni cin­

quanta, questa sostituzione è ormai avvenuta nel governo, nella dirigenza dei gruppi parla­mentari e nell’esecutivo del partito.

Per concludere su questo punto, possiamo quindi affermare che, da un esame più detta­gliato del periodo di transizione, gli elementi di continuità con l’esperienza democratica prefascista si rivelano qualitativamente an­che se non quantitativamente significativi. Una valutazione di ciò che questo ha signifi­cato per il nuovo regime democratico nato in questi anni può essere argomento di discus­sione. È comunque plausibile affermare che la presenza di un gruppo di politici che ave­vano sperimentato di persona le conseguen­ze, disastrose per la sopravvivenza della de­mocrazia, degli aspri dissensi tra i partiti de­mocratici negli anni che precedettero il fasci­smo, abbia in un certo senso contribuito alla costruzione di un consenso costituzionale ne­gli anni che seguirono il fascismo.

Il punto successivo che dobbiamo discute­re riguarda la stabilizzazione della classe po­litica affermatasi con il nuovo regime. Le do­mande alle quali si deve rispondere sono al­meno tre:

1. si verifica realmente un processo di sta­bilizzazione della classe politica dopo il pro­fondo rinnovamento prodotto dal passaggio di regime?

2. quanto tempo occorre perché questo processo si compia e quanto dureranno le sue conseguenze?

3. questo processo coinvolge in modo omogeneo tutti i settori della classe politica?

Al fine di dare una risposta a queste do­mande partirò dalle misure quantitative del rinnovamento già utilizzate per il periodo prefascista. Esaminando la percentuale di nuovi eletti tra i membri della Camera dei de­putati, si può vedere come la stabilizzazione della classe politica (per lo meno nella sua componente parlamentare) sia compiuta quasi per intero con le elezioni del 1953 (le seconde elezioni per il Parlamento regolare, o le terze se contiamo, come farò, anche le

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elezioni per l’Assemblea costituente). Co­minciando dal 1953 e nelle quattro elezioni successive, il turnover oscilla tra il 37 per cento e il 32 per cento, con una certa tenden­za a diminuire (Figura 1). Se esaminiamo questi dati in un’ottica comparata vediamo, come del resto ci si poteva aspettare, che in Italia il rinnovamento parlamentare è media­mente più alto che in sistemi politici demo­cratici con una tradizione lunga e continua, come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna55. Per un confronto più significativo bisognerà invece prendere in esame paesi che abbiano subito una discontinuità di regime paragona­bile a quella dell’Italia. Tra questi casi la quarta repubblica francese, nel corso della sua breve vita, offre un esempio di più bassi livelli di stabilizzazione della élite parla­mentare56. Invece la Germania occidentale e il Giappone mostrano, dopo le prime elezio­ni, un grado di continuità tra i membri del Parlamento notevolmente più elevato che non nel caso italiano57. In questi tre casi il grado di stabilizzazione della classe politica corrisponde dunque piuttosto bene con il grado di stabilizzazione del regime stesso. E si potrebbe aggiungere che l’Italia si colloca a metà strada su entrambe le dimensioni tra la Francia da una parte e il Giappone e la Germania dall’altra.

Per quanto concerne la struttura di anzia­nità della classe politica prodotta da questi tassi di circolazione, la proporzione tra gio­vani e anziani, definiti secondo i criteri pre­

cedentemente stabiliti è, tra la terza e l’otta­va legislatura del periodo postfascista, estre­mamente stabile (Figura 2). Questa struttura di anzianità (che vede i parlamentari anziani, cioè con più di due legislature, attestati in media sul 40 per cento del totale) presenta un equilibrio molto maggiore di quello degli an­ni immediatamente precedenti l’avvento del fascismo; tuttavia, paragonata all’esperienza tedesca postnazista, rivela una presenza più debole della componente parlamentare an­ziana (Figura 4).

Nonostante il fatto che il grado di stabiliz­zazione raggiunto dalla classe politica italia­na durante questo periodo sia (contraria­mente a quanto spesso si crede) più basso che in molte altre democrazie, questo processo ha ultimamente subito una battuta d’arresto. Con le elezioni generali del 1976 il tasso di rinnovamento raggiunge un nuovo massimo: circa il 42 per cento.

Questo fatto deve essere interpretato come un momento critico nella stabilizzazione del­la classe politica o è soltanto un fenomeno temporaneo? È ancora presto per dirlo: alle elezioni del 1979 il turnover scende ad un nuovo minimo (27 per cento). Ma con le ele­zioni del 1983 il rinnovamento è di nuovo ri­levante (38 per cento). Per una valutazione approfondita delle dinamiche della classe po­litica e della sua stabilizzazione istituzionale i dati complessivi dei quali ci siamo serviti non sono però del tutto adeguati, dal momento che possono nascondere differenze significa-

55 Per la Camera dei Rappresentanti statunitense Polsby calcola per il periodo 1945-65 una media del 17 per cento di nuovi eletti ad ogni rinnovo (The Institutionalization o f the U.S. House o f Representatives, cit., p. 146). Quanto alia Camera dei Comuni britannica Loewenberg riporta dei livelli di rinnovamento dopo la guerra, fatta eccezione per le elezioni del 1945, non molto diversi da quelli americani (cfr. Parliament in the German Politicai System, cit., p. 88).56 P. Manigand, Les députés de la IV* République, cit., p. 10.57 Nel Bundestag tedesco le percentuali di deputati di nuova elezione sono le seguenti: 46% (1953); 34% (1957); 25% (1961); 25% (1965); 30% (1969); 29% (1972); 23% (1976) (cfr. Deutscher Bundestag, Mitglieder Struktur des deut- schen Bundestages: I.-VII. Wahlperiode, Bonn, 1975, p. 3 e Kürschners Volkshandbuch, Deutscher Bundestag, V ili Wahlperiode, Darmstadt, Neue Darmstadter Verlagsanstalt, 1977). In Giappone dopo le prime elezioni caratterizza­te da alti tassi di rinnovamento (47% nel 1947 e 41% nel 1949), si affermava un elevato grado di stabilità (23% nel 1952, 10% nel 1953, 12% nel 1955, 14% nel 1957, 13% nel 1960; 15% nel 1963; 21% nel 1967; cfr. H. Baerwald, Ja­pan’s Parliament, London, Cambridge University Press, pp. 276-77).

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tive tra i gruppi partitici dei quali la classe politica non è che la somma. E in effetti, os­servando i tre partiti maggiori (De, Pei e Psi) possiamo facilmente osservare come la circo­lazione del loro personale parlamentare, se­gua modelli alquanto diversi (Tabella 1). Al­meno da un punto di vista quantitativo pos­siamo parlare di stabilizzazione soltanto per i settori democristiano e (anche se con un cer­to ritardo) socialista della classe politica. In entrambi i casi i tassi di rinnovamento mo­strano una tendenza alla diminuzione, fino a stabilizzarsi su livelli inferiori alla media del Parlamento. Soltanto le elezioni del 1976 per la De e del 1979 per il Psi determineranno un livello insolitamente alto di circolazione, probabilmente come conseguenza di mutati equilibri nella leadership dei due partiti. Il gruppo parlamentare comunista è invece ca­ratterizzato, a partire dalle elezioni del 1963, da livelli di rinnovamento notevolmente più alti della media. Non si delinea cioè una ten­denza alla stabilizzazione del suo personale parlamentare. È vero che le elezioni del 1979 producono un cambiamento radicale di que­sto andamento ma resta il dubbio se questo cambiamento sia di natura eccezionale dovu­to più che altro all’appello anticipato alle ur­ne che ha praticamente dimezzato la settima legislatura o se inauguri una nuova fase nella politica di reclutamento del Pei.

I risultati del 1983, con un turnover di nuovo assai alto (48 per cento), fanno pro­pendere per la prima interpretazione. Le conseguenze di modelli così diversi di circo­lazione delle élites si possono meglio valutare se si prende in esame la struttura di anzianità dei tre gruppi parlamentari (Figura 3). Men­tre nei primi due partiti il turnover più ridot­to produce una classe parlamentare in cui i legislatori anziani tendono a bilanciare i membri più giovani, nel Pei la componente istituzionalmente più giovane resta di gran

lunga dominante in termini quantitativi ed anzi aumenta in percentuale con il trascorre­re del tempo. Questa eterogeneità tra i partiti colpisce particolarmente se si fa il paragone con un caso come quello tedesco che ha im­portanti affinità storiche con quello italiano. Come la Figura 4 dimostra, tra i due partiti tedeschi maggiori si è affermata una notevo­le somiglianza nella struttura di anzianità parlamentare. Possiamo concludere che nell’esperienza italiana un ampio e per di più crescente settore della classe politica sfugge a quella tendenza a stabilizzarsi e a perpetuarsi che, secondo Mosca, sarebbe una legge gene­rale della vita politica?

Se i dati quantitativi sembrano convalida­re questa affermazione una analisi più quali­tativa fa subito sorgere alcuni dubbi. Ove si prenda in esame il profilo sociologico (cioè il reclutamento e la carriera) della classe politi­ca si può notare una maggiore continuità qualitativa proprio nella classe politica co­munista, nonostante la considerevole circo­lazione quantitativa, che non tra i politici democristiani58. Dobbiamo quindi supporre che la riproduzione della classe politica ven­ga, nel caso specifico del Pei, garantita da in meccanismo diverso da un lento tasso di rin­novamento tra i membri del gruppo parla­mentare.

La risposta più plausibile alla domanda sulla stabilizzazione della classe politica comunista è che, in realtà, più che alla sua componente parlamentare occorre guardare a quella ‘partitica’, cioè a quei politici che detengono le cariche più im­portanti dell’apparato organizzativo del partito. E infatti lì la stabilità è maggiore e per di più cresce quanto più elevato è lo ‘strato’ della classe politica che si esami­na. Per esempio al livello del comitato centrale la percentuale media dei nuovi eletti ad ogni congresso è di circa il 30 per

58 M. Cotta, Classe politica e Parlamento in Italia, cit., pp. 143 sgg. e 154 sgg.

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cento59. Ma, se guardiamo più in alto, in un organo più ristretto ma più potente, come la direzione, la percentuale media dei nuovi eletti scende al 21 per cento. E al vertice, per la carica di segretario di partito, la stabilità raggiunge il massimo. Dalla caduta del fasci­smo (ma si potrebbe risalire anche agli anni trenta) fino ad oggi il Pei ha avuto solo tre segretari — Togliatti, Longo e Berlinguer —, mentre la De nello stesso periodo ne ha avuti undici, e il partito socialista sette.

Concludendo si può effettivamente dire che la classe politica nata in Italia con il nuo­vo regime democratico ha maturato un pro­cesso di stabilizzazione; un processo che, pur consentendo un certo livello di circolazione e di rinnovamento, ha nel complesso visto pre­valere la continuità. Un fatto questo che è tutt’altro che eccezionale se prendiamo come termine di riferimento realtà politiche demo­cratiche consolidate; può anzi essere conside­rato un segno che le conseguenze del crollo della democrazia prefascista e dell’interre­gno autoritario sono state almeno in parte superate. Carattere peculiare della politica italiana del periodo in esame è però che la stabilizzazione della classe politica si è realiz­zata seguendo due modelli diversi. Nel primo modello, che è tipico della De e del Psi que­sto processo è stato fortemente orientato in senso parlamentare. Ciò ha significato un rapporto stretto e di lunga durata tra élites e istituzioni parlamentari che, senza escludere il ruolo degli apparati di partito, ne ha in qualche modo controbilanciato il peso, de­terminando un orientamento ‘dualistico’ del­la classe politica. L’altro modello, tipico del Pei, si è affidato più decisamente all’organiz­zazione partitica esterna per garantire la con­tinuità della classe politica. Tra i politici co­munisti, salvo che per una minoranza, l’e­

sperienza parlamentare ha significato, in ge­nere, un impegno politico di breve portata temporale. Spiegare i motivi di queste diffe­renze richiederebbe una discussione, che qui non ci è consentita, da un lato della peculia­rità del modello organizzativo del Pei, dall’altro del ruolo di opposizione perma­nente che esso ha avuto nel periodo postfa- scista. Quanto alle conseguenze di questa si­tuazione, non è del tutto immotivato suppor­re che le differenze che abbiamo messo in ri­lievo, e che toccano il cuore della struttura della classe politica, abbiano avuto una loro parte (insieme ad altre variabili come la frammentazione del sistema partitico, la po­larizzazione ideologica ecc.), nel determinare il basso livello di capacità decisionale del si­stema politico italiano, ormai ben documen­tato da molti studi empirici60. Ciò non do­vrebbe sorprendere. Una classe politica strutturata secondo modelli fortemente ete­rogenei, che rivelano modi diversi di porsi di fronte alle articolazioni istituzionali fonda- mentali del regime politico vigente, andrà ne­cessariamente incontro a maggiori difficoltà nel cooperare all’interno di questa struttura istituzionale e nel farla funzionare.

Osservazioni conclusive

Dopo questa panoramica, necessariamente schematica, di due importanti periodi della storia politica italiana è giunto il momento di tentare di trarre qualche conclusione. Ero partito da una serie di spunti offerti dalla teoria classica delle élites politiche e in parti­colare da Mosca e Pareto. Anche se le for­mulazioni di questi autori possono non con­vincerci del tutto sulla loro validità come ge­neralizzazioni empiriche rigorose, abbiamo

59 Cfr. F. Lanchester, PCI: dirigenti e modelli di partito, in “Città e Regione” , 1981, p. 86.60 Cfr. per esempio F. Cazzola, Governo e opposizione nel Parlamento italiano, Milano, Giuffrè, 1974; F. Cantelli, V. Mortara e G. Movia, Come lavora il Parlamento, Milano, Giuffrè, 1974; G. Di Palma, Sopravvivere senza gover­nare, Bologna, il Mulino, 1978.

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visto che possono ancora fornire un’utile sol­lecitazione ad una più ampia prospettiva ana­litica che ponga lo studio delle élites in rela­zione con i grossi problemi del cambiamento e della sopravvivenza di un regime. L’analisi qui sviluppata ha toccato due periodi della storia italiana — uno che termina con la crisi e la caduta della democrazia, l’altro che ini­zia con l’avvento di un nuovo regime demo­cratico — nei quali i problemi “di regime” sono stati particolarmente gravi ed hanno avuto un peso molto più esteso sulla vita po­litica corrente che in altri paesi più stabili. Gli elementi che abbiamo vagliato suggeri­scono che, in effetti, lo studio dei processi di­namici della circolazione delle élites può of­frire un utile punto di vista per gettare ulte­riore luce su questi momenti critici nella vita di un sistema politico. In particolare la no­stra attenzione si è concentrata sui tassi di rinnovamento delle élites politiche e sui mu­tamenti a cui queste sono sottoposte durante le fasi di transizione, nonché sulle conse­guenze che questi fattori hanno sulla struttu­ra interna di una classe politica e sull’equili­brio tra continuità e mutamento, tra vecchio e nuovo. Questi aspetti della classe politica appaiono criticamente correlati con la capa­cità delle articolazioni istituzionali di un regi­me democratico (soprattutto il Parlamento e il governo) di consolidarsi e di funzionare se­condo il loro ruolo costituzionale. Certa­mente un’analisi basata soltanto sul caso ita­liano non può pretendere di stabilire genera­lizzazioni sufficientemente fondate: ciò che ne possiamo ricavare ha piuttosto il carattere di ipotesi e di suggerimenti per ulteriori ricer­che. Tre temi in particolare meriterebbero una discussione più approfondita ed una ve­rifica comparata. Il primo tema riguarda il rapporto tra la circolazione delle élites e la stabilità di un regime democratico. L’espe­rienza italiana che abbiamo esaminato dimo­stra che un rinnovamento profondo e subita­neo della classe parlamentare può rivelarsi un fattore di crisi della democrazia per i suoi

effetti disgreganti sul delicato tessuto istitu­zionale. I quesiti che richiederebbero un ulte­riore vaglio empirico riguardano da un lato le soglie oltre le quali gli effetti negativi di un vasto rinnovamento delle élites politiche si manifestano, e dall’altro le condizioni conte­stuali che possono aggravare o controbilan­ciare questi effetti. La nostra attenzione do­vrebbe andare anche ai nessi tra cambiamen­to quantitativo e qualitativo nelle élites poli­tiche: è probabilmente lì che si possono rin­venire elementi essenziali per determinare il maggiore o minore impatto destabilizzante dei processi di circolazione delle élites.

Il secondo tema riguarda il rapporto tra il ripristino del regime democratico dopo un periodo autoritario e la ricostituzione di una classe politica democratica. Durante la deli­catissima fase della transizione tra i due regi­mi il processo attraverso il quale la nuova classe politica si struttura è fondamentale. È infatti questa classe politica che guiderà e so­sterrà la transizione stessa. In questa fase ca­ratterizzata da una situazione di incertezza istituzionale, il rapido consolidamento di una struttura di autorità sufficientemente chiara all’interno della classe politica sembra una condizione particolarmente importante per un felice esordio del nuovo regime. Il ca­so italiano offre un esempio del ruolo strate­gico che i superstiti della vecchia élite demo­cratica possono avere nel guidare i primi pas­si del ripristino della democrazia senza pre­giudicare poi la cooptazione di un ampio nu­mero di politici nuovi negli anni successivi. Su questo punto sarebbe interessante un con­fronto con esperienze politiche nelle quali il ripristino della democrazia non ha potuto basarsi su questo elemento di continuità per­sonale con il passato, per verificare se ciò ha reso più difficile l’apprendimento di proce­dure e comportamenti democratici.

Il terzo tema sul quale il caso italiano atti­ra l’attenzione è quello dei processi a lungo termine di consolidamento della classe politi­ca. L’esperienza italiana postfascista sugge­

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risce che sia per i tempi che per i modi di que­sto processo la classe politica di un paese può rivelare differenze consistenti. In particolare abbiamo visto che il ruolo centrale nel pro­cesso di consolidamento può essere esercitato da strutture politiche diverse (il Parlamento, gli apparati partitici). Ciò che dovrebbe esse­re verificato più a fondo per mezzo di una ri­

cerca comparata sono i fattori che spiegano questa eterogeneità strutturale nella classe politica, come pure gli effetti che essa ha sul funzionamento delle istituzioni fondamentali della democrazia.

Maurizio Cotta

(Traduzione Annamaria Tasca)

Tabella 1. Percentuale di deputati di nuova elezione

Elezioni DC PSI PCI

1948 46 60 671953 30 47 281958 35 38 371963 22 31 491968 31 36 461972 22 28 471976 42 25 561979 19 45 23

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Figura 1. Deputati di prima elezione (%)

L e g i s l a t u r e p r e f a s c i s t e L e g i s l a t u r e p o s t f a s c i s t e

Figura 2. Struttura di anzianità della Camera dei Deputati (%)

i o o % -

XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII1904 1909 1913 1919 1921 1924

Leg is la ture p re fa s c i s t e L e g is la tu re p o s t fa s c i s t e

I 1 • G io van i ( 1 o 2 le g i s l a tu re )

Q : Anz ian i ( 3 o p i ù legis la ture )

v//m

/////////m

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Figura 3. Struttura di anzianità parlamentare dei tre partiti italiani maggiori (legislature II- V ili della Camera).

□ : G io v a n i ( 1 o 2 l e g i s l a t u r e )

E 3 ■ A n z i a n i ( 3 o più le g i s la tu re )

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Figura 4. Struttura di anzianità a) del Bungestag nel suo complesso, b) dei due partiti maggiori

1957 1961 1965 1969 1972 1976

CD : G io van i ( 1 o 2 l e g i s l a tu re )

E : An z ia n i ( 3 o p iù l e g i s l a tu r e )