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173 CAPITOLO LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN CAMPO ECONOMICO-FINANZIARIO

LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN CAMPO … · Nella realtà, l’integrazione economica tra Paesi industrialmente avanzati, ad economia di mercato, come gli Stati dell’Europa occidentale,

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3° CAPITOLO

LA COOPERAZIONE

INTERNAZIONALE IN CAMPO

ECONOMICO-FINANZIARIO

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“La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria

contro l’oblio, Milan Kundera1

“Non andare fuori, ritorna in te stesso. La verità abita nell’uomo

interiore. E se avrai trovato mutevole la tua natura, trascendi

anche te stesso. Ma ricorda, quando ti trascendi, che stai

trascendendo un’anima che ragiona. Tendi dunque là donde si

accende il lume stesso della ragione”, Agostino

d’Ippona2

“Per me è importante stimolare la riflessione nei

giovani. Qualche anno fa si discuteva sull’opportunità di

mandare l’esercito a Napoli. Un sacerdote mi disse che

avrebbe voluto un plotone di insegnanti. Sono di

quell’idea”, Gherardo Colombo3

1 Milan Kundera (1929 – vivente), poeta, saggista e romanziere ceco. Il passo è tratto da “Il libro del riso e dell’oblio”, Bompiani, 1980

2 Agostino d'Ippona (Tagaste, 354 – Ippona, 430) è stato un filosofo, vescovo e teologo romano. Padre, Dottore e santo della Chiesa cattolica, è conosciuto semplicemente come sant'Agostino. Secondo Antonio Livi, filosofo, editore e saggista italiano di orientamento cattolico, è stato «il massimo pensatore cristiano del primo millennio e certamente anche uno dei più grandi geni dell'umanità in assoluto». Fonte: Wikipedia

3 Gherardo Colombo (1946-vivente) è un magistrato italiano, attualmente ritiratosi dal servizio, divenuto famoso per aver condotto o contribuito a inchieste celebri quali la scoperta della Loggia P2, il delitto Giorgio Ambrosoli, Mani pulite, i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Fonte: Wikipedia. Il passo è tratto da un’intervista a Repubblica del 19.6.10

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1. Organizzazioni mondiali e regionali

Dopo il 1915, il “nazionalismo economico” si affacciò sulla scena

internazionale dettando leggi che prevedevano l’eliminazione delle libertà di

commercio e di negoziazione delle valute. Successivamente, la “grande crisi del

1929-’30 che investì l’intero mondo economico a partire dallo storico crollo dei

valori azionari della Borsa di New York”45 anziché invertire la tendenza

protezionistica instauratasi dopo il primo conflitto mondiale, non fece che

enfatizzarla. “Tale regime vincolistico non poteva certamente venir meno visto lo

scoppio del secondo conflitto mondiale e il successivo periodo post-bellico, dove

ogni sforzo venne indirizzato alla ricostruzione e alla rinascita economica”6.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, “L’ordine economico internazionale

che si creò, venne organizzato puntando su scelte e meccanismi di stampo

neoliberista, e cioè su un assetto complessivo tendente a favorire

istituzionalmente la libera circolazione internazionale delle merci, dei capitali e

della forza lavoro”2.

I cardini del nuovo sistema creatosi, furono un complesso intreccio di funzioni di

“direzione politica internazionale” affidate alle potenze egemoni (soprattutto agli

Stati Uniti) e ad alcune organizzazioni economiche e finanziarie internazionali

create ad hoc (vedi FMI, GATT, Banca Mondiale e altri).

Con queste ultime, nacque quindi il “fenomeno dell’istituzionalizzazione delle

relazioni economiche”, che si accentuò con la creazione di accordi di

cooperazione regionale.

Il liberalismo economico che ispirava queste iniziative aveva come finalità ultima

quella di promuovere il benessere mondiale, essendo il libero commercio

generalmente inteso come strumento per improntare l’economia al principio della

specializzazione internazionale che, favorendo un’organizzazione più razionale

della produzione, avrebbe reso possibile il raggiungimento di più elevati livelli

produttivi. La liberalizzazione commerciale può essere realizzata, infatti, con

4 P. Grammatica, Gli scambi commerciali con l’estero, Vita e Pensiero, Milano, 1984, pag.10. 5 Si consiglia la lettura di J.K. Galbraith, Il Grande Crollo, Bollati Boringhieri, 1991 6 P. Picone – G. Sacerdoti, Diritto internazionale dell’economia, Franco Angeli, Milano, 1983, pag.155.

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maggiore facilità attraverso la dimensione organizzativa regionale, dove più

intensa è l’interdipendenza tra gli Stati, in quanto essi, oltre ad appartenere alla

medesima area geografica, presentano frequentemente tradizioni storiche,

politico-istituzionali e strutture economiche simili, nonché analoghi livelli di

sviluppo. La dottrina ha definito come “regionalismo economico” questo

fenomeno di collaborazione tra Stati di una stessa area geografica.

Nel quadro dell’organizzazione internazionale, si ritiene comunemente che il

regionalismo economico possa procedere su base di “cooperazione” ovvero di

“integrazione”. Non è facile tracciare una linea di demarcazione tra

l’“integrazione” e la “cooperazione”, poiché nella realtà gran parte delle

organizzazioni economiche regionali si trova in una fase intermedia di

realizzazione, la quale non consente di far riferimento a rigorose tipologie. Anche

la posizione quasi unanime della dottrina nel considerare l’“integrazione” come

“processo” o come “situazione”, non chiarisce se la “situazione” sia da intendersi

come “punto finale” o come “qualsiasi punto intermedio del processo”.

L’integrazione, come “processo”, comprende varie misure volte all’abolizione

delle discriminazioni tra le unità economiche dei diversi Paesi; mentre come

“situazione”, è rappresentata dall’assenza di forme discriminatorie. La

cooperazione è caratterizzata invece dalla semplice riduzione delle

discriminazioni. Essendo il processo integrativo diluito in azioni che presentano

aspetti cooperativi, nella maggioranza dei casi le forme di cooperazione

rappresentano la prima fase del processo integrativo (v. Oece/Ocse) e hanno

quindi finalità limitate: “sviluppo e liberalizzazione degli scambi” e, nell’ambito

dei Paesi in via di sviluppo, “inizio della specializzazione dei compiti sulla base

della divisione internazionale del lavoro”. Nel suo aspetto dinamico,

l’integrazione può essere identificata in forme progressivamente più avanzate

connesse ai programmi economici (zona di libero scambio, unione doganale,

mercato comune, unione economica, unione monetaria) e ai caratteri formali

(attribuzioni sovranazionali) delle organizzazioni economiche regionali.

I primi due stadi del processo di integrazione possono essere identificati

rispettivamente nella zona di libero scambio, dove ciascuno dei Paesi partecipanti

è libero di determinare la propria politica commerciale e le proprie tariffe

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doganali nei confronti dei Paesi terzi, e nell’unione doganale, che rappresenta

una fase più evoluta dell’integrazione in cui, oltre a sopprimersi le barriere

doganali fra i Paesi membri come nella zona di libero scambio, si adottano nel

contempo tariffe comuni nel commercio con i Paesi terzi.

Un passo ulteriore verso l’integrazione è l’instaurazione di un mercato comune,

che ha il proprio fondamento nell’unione doganale, ma è accompagnato

dall’abolizione delle restrizioni ai movimenti dei fattori produttivi. Lo stadio

immediata-mente precedente l’integrazione totale è dato dall’unione economica

che, al fine di eliminare le discriminazioni che possono derivare dai diversi

sistemi politici, si propone di armonizzare le politiche economiche nazionali.

Presupposto dell’integra-zione economica totale è la vera e propria unificazione

delle politiche economiche che richiede la centralizzazione, a livello

sovranazionale, di un certo numero di strumenti utili al raggiungimento dello

scopo, sino ad arrivare nelle forme più evolute alla costituzione di autorità

sovranazionali, le cui decisioni vincolino gli Stati membri.

L’indagine sul fenomeno integrativo non può essere limitata agli aspetti

istituzionali, senza alcun riferimento a quelli reali. L’integrazione, infatti, il cui

fine ultimo è di elevare il benessere sociale attraverso il raggiungimento di

maggiori livelli di produzione, deve rispondere, nelle soluzioni strumentali

adottate, al sistema economico-sociale degli Stati interessati. Così, a seconda del

sistema politico-sociale e delle condizioni di sviluppo economico di un

determinato raggruppamento di Stati, uguali soluzioni istituzionali possono

raggiungere risultati differenti, come soluzioni differenti possono consentire di

giungere agli stessi effetti pratici.

Nella realtà, l’integrazione economica tra Paesi industrialmente avanzati, ad

economia di mercato, come gli Stati dell’Europa occidentale, si è concretizzata

nell’abolizione tra gli Stati membri delle discriminazioni derivanti da ostacoli e

barriere tariffarie e non tariffarie e dalla diversità di trattamento dei prodotti

stranieri, e nella progressiva attuazione di una strategia tendente ad unificare i

mercati tramite norme uniformi e politiche economiche comuni.

I processi d‘integrazione che hanno luogo nei Paesi arretrati hanno lo scopo

invece di accelerare l'industrializzazione. Essi mirano a proteggere le industrie

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dei Paesi membri dalla concorrenza dei Paesi pù sviluppati, mentre consentono la

competizione e la libertà degli scambi all'interno dell'area integrata. Ne deriva

quindi che questi accordi determinano una specializzazione produttiva per settori

tra industrie dei Paesi membri, che è facilitata dallo stadio iniziale

dell’industrializzazione in queste aree.

Dopo questa breve introduzione al concetto di cooperazione internazionale in

termini generali, si può ora passare ad analizzare e classificare in dettaglio le

diverse organizzazioni internazionali che operano nel mondo.

Innanzi tutto, si possono individuare sostanzialmente tre settori nei quali si può

realizzare la cooperazione internazionale in campo economico-finanziario: il

settore economico in senso stretto, che può definirsi come settore commerciale; il

settore finanziario; il settore monetario. Conseguentemente, gli organismi

internaziona-li potranno essere o di tipo economico, o finanziario ovvero

monetario.

L’altra distinzione fondamentale è tra organizzazioni internazionali di carattere

mondiale e organizzazioni internazionali di carattere regionale, o continentale.

Organizzazioni internazionali economico-

commerciali

Organizzazioni di carattere mondiale

Le organizzazioni economico-commerciali mondiali di assoluta preminenza sono

due: l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e

l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC). Di quest’ultima si parlerà

nel paragrafo successivo appositamente dedicato.

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L’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE; OCDE

in inglese; OECD in francese), è un organismo internazionale istituito con la

Convenzione sull'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico,

firmata il 14 dicembre 1960, sostituendo l'OECE, creata nel 1948 per

amministrare il cosiddetto "Piano Marshall"7 per la ricostruzione postbellica

dell'economia europea.

Nella pratica l’OCSE è un'organizzazione internazionale di studi economici per i

paesi membri, paesi sviluppati aventi in comune un sistema di governo di tipo

democratico ed un'economia di mercato. L'organizzazione svolge

prevalentemente un ruolo di assemblea consultativa che consente un'occasione di

confronto delle esperienze politiche, per la risoluzione dei problemi comuni,

l'identificazione di pratiche commerciali ed il coordinamento delle politiche

locali ed internazionali dei paesi membri.

Gli obiettivi dell'OCSE, che tendono alla realizzazione di più alti livelli di

crescita economica alla luce del concetto di sviluppo sostenibile, di occupazione,

di tenore di vita, favorendo gli investimenti e la competitività e mantenendo la

7 Denominato ufficialmente, a seguito della sua attuazione, Piano per la ripresa europea (inglese: European recovery program), il Piano Marshall fu uno dei piani politici-economici statunitensi per la ricostruzione dell'Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Il discorso con cui l'allora segretario di Stato statunitense George Marshall annunciò al mondo, il 5 giugno 1947 dall'Università di Harvard, la decisione degli Stati Uniti di avviare l'elaborazione e l'attuazione di un piano di aiuti economico-finanziari per l'Europa che poi, per convenzione storiografica, sarebbe stato noto come "Piano Marshall", fu senza dubbio uno dei momenti più alti della storia della politica internazionale nell'immediato secondo dopoguerra. Marshall affermò, in quell'occasione, che l'Europa avrebbe avuto bisogno, almeno per altri 3-4 anni, di ingenti aiuti da parte statunitense e che, senza di essi, la gran parte del Continente avrebbe conosciuto un gravissimo deterioramento delle condizioni politiche, economiche e sociali. Fonte: wikipedia

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stabilità finanziaria, sono altresì orientati contribuire allo sviluppo dei Paesi non

membri.

I suoi obiettivi, secondo l’articolo 1, sono “la promozione di politiche miranti a:

a) realizzare la massima espansione possibile dell’economia e dell’occupazione ed

un innalzamento del tenore di vita nei Paesi membri, mantenendo la stabilità

finanziaria e contribuire così allo sviluppo dell’economia mondiale;

b) contribuire ad una sana espansione economica nei Paesi membri e non membri,

in via di sviluppo economico;

c) contribuire all’espansione del commercio mondiale su base multilaterale e non

discriminatoria, conformemente agli obblighi internazionali”.8

Questi obiettivi vengono perseguiti attraverso varie attività tra cui:

• Predisposizione di intese con valore vincolante e di Convenzioni;

• Raccolta e armonizzazione di dati;

• Elaborazione di studi nazionali e comparativi;

• Esami-Paese secondo il metodo della "peer review", o "giudizio dei pari";

• Attività preparatoria e seguiti di incontri internazionali ad alto livello

• Definizione di linee guida e coordinamento delle politiche di cooperazione

L’OCSE ha sede presso il Château de la Muette, a Parigi . Organo principale

dell’OCSE è il Consiglio, composto da tutti i membri; lo stesso Consiglio è

assistito da un Comitato esecutivo composto da 14 membri e da un Segretario

Generale. La maggior parte dell’attività dell’Organizzazione è svolta da gruppi di

lavoro specializzati. I Paesi che ne fanno attualmente parte sono 33: Australia,

Austria, Belgio, Canada, Corea del Sud, Danimarca, Finlandia, Francia,

Germania, Giappone, Regno Unito, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo,

Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Repubblica

Ceca, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria, Slovacchia,

Cile, Slovenia, Israele.

8 P. Picone – G. Sacerdoti, op. cit., pag.302 e segg.

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L'OCSE mantiene stretti contatti con oltre 70 Paesi non membri, economie in via

di sviluppo e in transizione (che possono partecipare come osservatori ai lavori

dei Comitati o a determinati programmi dell'Organizzazione) e con le altre

Organizzazioni Internazionali.

L’OCSE nei fatti si dimostra essere una sorta di grande centro studi che cerca di

normalizzare i parametri di riferimento in materia economico-commerciale che

ritiene appartengano alla categoria dei Paesi industrializzati. Sotto questo aspetto,

si potrebbe quindi dire che l’OCSE non è propriamente un’organizzazione

mondiale, in quanto rappresenta nel mondo solo i Paesi industrializzati; tuttavia,

l’Organizzazione è aperta anche a tutti quei Paesi non ancora ivi rappresentati

che, avendo raggiunto un certo grado di industrializzazione, desiderino prendervi

parte, ottenendo in tal modo l’ambita qualifica di “Paese OCSE”. Per uno Stato,

essere un Paese OCSE significa possedere un prestigioso marchio di “garanzia

internazionale” di affidabilità e serietà, da giocarsi su diversi fronti; non esserlo,

comporta il più delle volte una scarsa credibilità in campo economico,

finanziario, monetario, statistico.

Un’altra importante organizzazione economico-commerciale a livello mondiale

che va menzionata è la Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo

Sviluppo (UNCTAD, United Nations Conference on Trade and Development),

istituita dall’ONU il 30 dicembre 1964, con una risoluzione dell’Assemblea

generale, come organo permanente e sussidiario dell’Assemblea stessa.

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Secondo l’articolo 1, “i membri della conferenza delle Nazioni Unite sul

commercio e lo sviluppo saranno quegli Stati che sono membri delle Nazioni

Unite o membri di agenzie specializzate o dell’Agenzia internazionale per

l’energia atomica9. Le principali funzioni dell’UNCTAD sono secondo l’articolo

3:

a) promuovere il commercio internazionale, in particolare al fine di accelerare lo

sviluppo economico, specificatamente il commercio tra Paesi a differenti stadi di

sviluppo, tra Paesi in via di sviluppo e Paesi con differenti sistemi di

organizzazione economica e sociale, tenendo presenti le funzioni esercitate dalle

esistenti organizzazioni internazionali;

b) formulare i principi e le politiche sul commercio internazionale e i connessi

problemi di sviluppo economico;

c) avanzare proposte per realizzare detti principi e politiche e prendere le altre

misure utili a tal fine nell’ambito della sua competenza, tenendo presenti le

differenze dei sistemi economici e degli stadi di sviluppo;

d) in generale, esaminare e facilitare il coordinamento delle attività delle altre

istituzioni all’interno del sistema delle Nazioni Unite nel campo del commercio

internazionale e dei connessi problemi di sviluppo economico, ed a questo

proposito cooperare con l’Assemblea Generale10 e con il Consiglio Economico e

Sociale11 all’adempimento delle loro responsabilità secondo la Carta delle

Nazioni Unite;

e) intraprendere azioni, quando necessario, in cooperazione con competenti organi

delle Nazioni Unite, per il negoziato e l’adozione di strumenti giuridici

multilaterali nel campo del commercio, con il dovuto rispetto alla adeguatezza

degli organi di negoziato esistenti e senza duplicare le loro attività;

9 L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), ha sede a Vienna e si occupa delle attività internazionali relative all’utilizzazione dell’energia atomica per fini pacifici. 10 L’Assemblea Generale dell’ONU è composta dai rappresentanti di tutti gli Stati membri. Si riunisce in sessione ordinaria una volta all’anno e prende le sue deliberazioni a maggioranza semplice o, per le questioni più importanti quali, ad esempio, l’ammissione di nuovi membri o le raccomandazioni sul mantenimento della pace, a maggioranza di due terzi e svolge il suo lavoro in seduta plenaria o attra-verso le Commissioni. 11 Il Consiglio Economico e Sociale dell’ONU, composto da 54 membri eletti dall’Assemblea Generale e rinnovati per un terzo ogni tre anni, promuove e coordina le iniziative economiche e sociali del-l’ONU, dei suoi istituti specializzati e degli altri organismi che ad essa fanno capo.

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f) essere disponibile come centro per l’armonizzazione delle politiche relative al

commercio e allo sviluppo di governi e raggruppamenti economici regionali

secondo l’articolo 1 della Carta;

g) occuparsi di ogni altro problema rientrante nel campo di sua competenza”.12

La composizione dell’UNCTAD è invece indicata negli articoli 4 e seguenti. In

particolare, l’articolo 4 stabilisce che “un Organo permanente della Conferenza,

il Consiglio del Commercio e dello Sviluppo, sarà istituito come parte del

meccanismo delle Nazioni Unite in campo economico”.7 Infine, dall’articolo 14

all’articolo 23 si indicano le funzioni del sopraddetto Consiglio.

Per concludere sulle organizzazioni economico-commerciali a livello mondiale,

vale la pena ricordare anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo

industriale (UNIDO), che promuove l’industrializzazione dei Paesi emer-genti,

facilitando i trasferimenti di tecnologie e gli investimenti, e il Programma di

Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), organo ausiliare delle Nazioni Unite per

mezzo del quale le varie agenzie del sistema ONU trasmettono aiuti e consulenza

ai Paesi in via di sviluppo.

Organizzazioni di carattere regionale

Gli accordi e le organizzazioni economico-commerciali a livello regionale

interessano ormai la quasi totalità dei Paesi nel mondo. Queste tipologie di

cooperazione si differenziano fra di loro soprattutto per i diversi stadi

d’integrazione che le caratterizzano o a cui tendono, come può essere ad esempio

fra un semplice accordo di libero scambio e un’unione economica e monetaria.

L’Unione Europea rappresenta senza dubbio l’esempio d'integrazione economica

più avanzata che oggi si conosca; a stadi inferiori si collocano altri accordi, molti

dei quali con tradizioni consolidate e ottimi livelli di cooperazione.

Oltre all’Unione Europea, fra gli altri si possono citare: NAFTA, EFTA,

ASEAN, APEC, MERCOSUR, OPEC, OAS, SELA, PC. Di queste e di altre

organizzazioni si tratterà diffusamente nel quarto ed ultimo paragrafo del

12 P. Picone – G. Sacerdoti, op. cit., pag.405.

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presente capitolo dedicato alle aree d'integrazione economica, mentre all’Unione

Europea è riservata l’intera Parte Seconda, alla quale si fa rinvio.

Organizzazioni internazionali

finanziarie

Organizzazioni di carattere mondiale

Passando ora a parlare di cooperazione in campo finanziario, si può notare che le

Organizzazioni internazionali sia mondiali che regionali, effettuano interventi

talvolta angolati nell’ottica del finanziamento dello squilibrio connesso con

circostanze di breve periodo, tal altra seguendo criteri di più lungo periodo,

connessi cioè con l’esigenza di rimuovere situazioni di sottosviluppo economico

per poter ottenere un durevole miglioramento della bilancia dei pagamenti.

Di fatto, a livello mondiale esiste un solo organismo finanziario: la Banca

Mondiale (World Bank). A dispetto del nome, non si tratta di una Banca Centrale

Internazionale con struttura monolitica, bensì di un insieme di quattro entità: la

Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS/BIRD), l’Agenzia

internazionale per la finanza (IFC, International Financial Corporation),

l’Agenzia internazionale per lo sviluppo (IDA, International Development

Agency) e l’Agenzia di assicurazione per i progetti (MEGA). Per questo si parla

più opportunamente di Gruppo della Banca Mondiale.

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Di questo importante organismo finanziario internazionale si tratterà

approfonditamente nel successivo paragrafo, a cui si fa rinvio.

Organizzazioni di carattere regionale

Prima di passare ad indicare alcune delle organizzazioni finanziarie che operano

a livello regionale, è necessario evidenziare come la cooperazione finanziaria

regionale che si instaura essenzialmente tra i Paesi industrializzati (intendendo

con essa quella relativa ad organismi quali la Banca dei Regolamenti

Internazionali, la Banca Europea per gli Investimenti, ecc., di cui in seguito si

vedranno le principali caratteristiche operative), debba essere distinta

dall’assistenza finanziaria prestata in genere dai Paesi “ricchi” a quelli “poveri”

al fine di favorire il loro processo di sviluppo. In particolare, ci si soffermerà

maggiormente su questa seconda forma di cooperazione, con l’obiettivo di

fornire delle indicazioni sugli organismi interessati, oltre che sugli strumenti

utilizzati.

Per citare alcune di queste organizzazioni, si possono ricordare la Banca Europea

per gli Investimenti (BEI), la Banca Interamericana di Sviluppo (BID/IDB), la

Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD), la Banca Africana di

Sviluppo (ADB), la Banca Asiatica di Sviluppo.

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La BEI è stata istituita con il trattato di Roma del 1957. E’ un istituto finanziario

dotato di personalità autonoma, non a scopo di lucro, che concede o si fa garante

di prestiti per progetti di investimento in campo industriale, energetico,

infrastrutturale, per favorire un equilibrato sviluppo regionale oltre che

l’ammodernamento del settore industriale nei Paesi membri dell’Unione Europea.

Il suo capitale sociale è sottoscritto dai Paesi membri. Attualmente ha sede in

Lussemburgo. La BEI è retta dal Consiglio dei Governatori (uno per Stato

membro), responsabile degli indirizzi creditizi dell’istituto, dal Consiglio di

Amministrazione, che cura l’at-tuazione della politica creditizia e approva i

finanziamenti, e dal Consiglio Direttivo, che presiede all’attività operativa.

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La BID è stata istituita a Washington l’8 aprile 1959 ed opera prevalentemente

nei Paesi latino-americani. Conta 47 membri, di cui 26 dall'America latina e

Caraibi. È la principale fonte di finanziamento di progetti di sviluppo in questa

regione. Svolge inoltre un importante ruolo nel promuovere l'integrazione

regionale. L'obiettivo supremo della Banca interamericana di sviluppo (IDB) è di

ridurre la povertà e promuovere una crescita sostenibile e compatibile con le

esigenze dell'ambiente in America latina e nei Caraibi. La Banca finanzia progetti

e programmi nei seguenti quattro settori:

• sviluppo sociale (educazione, sistemi di microcrediti,

approvvigionamento di acqua potabile, agricoltura ecc.);

• ammodernamento delle istituzioni statali e buongoverno;

• promovimento della concorrenza;

• integrazione economica.

La Banca Africana di Sviluppo è stata istituita a Karthoum il 4 agosto 1963. La

Banca Africana di Sviluppo, Agenzia Multilaterale di Sviluppo con competenze

geografiche su tutti i Paesi dell’Africa, ha incominciato la sua attività a favore dei

Paesi dell’Africa a partire dal 1966 con la finalità istituzionale di promuovere lo

sviluppo economico ed il progresso sociale dei Paesi membri regionali (che

appartengono tutti al continente africano). Le funzioni principali della Banca

Africana di Sviluppo sono:

• erogare prestiti e capitali per gli investimenti che possano promuovere lo

sviluppo sociale ed economico dei Paesi dell’Africa;

• fornire assistenza tecnica per la preparazione e/o per l’esecuzione di

programmi e/o di progetti di sviluppo;

• promuovere gli investimenti del settore pubblico e privato che abbiano

un impatto sui processi di sviluppo sociale ed economico dei Paesi

regionali membri dell’Africa;

• assistere i Paesi regionali membri per implementare e/o coordinare delle

politiche di sviluppo sociale ed economico.

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La banca presta una particolare attenzione ai programmi e progetti a carattere

nazionale o multinazionale che contribuiscono a promuovere l’integrazione tra i

Paesi regionali membri dell’Africa.

La Banca Asiatica di Sviluppo è stata istituita a Manila il 4 dicembre 1965. La

Banca ha contribuito con successo ad avviare l'impressionante crescita

economica in Asia. Ciononostante le sfide sono ancora numerose: il 70 per cento

della popolazione povera vive in Asia. La lotta alla povertà è pertanto l'obiettivo

primario della AsDB. Il mandato della AsDB consiste nel mobilizzare i mezzi

finanziari e il know-how necessari per lo sviluppo economico e sociale in Asia.

Nel 1999 la AsDB ha innalzato la lotta alla povertà a obiettivo strategico

supremo, conformemente agli Obiettivi del Millennio definiti dall'ONU. In

particolare, la Banca si prefigge tre obiettivi: promovimento di una crescita

economica sostenibile, aiuto agli strati più poveri della popolazione, con riguardo

allo sviluppo sociale, e buon governo. Fra gli strumenti più importanti della

AsDB vi sono la concessione di crediti a condizioni vicine a quelle del mercato,

l'assistenza tecnica, il dialogo politico, le garanzie e gli investimenti diretti (fra 6

e 4 mia. USD all'anno). Molto importante è il Fondo asiatico di sviluppo (Asian

Development Fund ADF), che concede crediti a condizioni vantaggiose e

sovvenzioni ai Paesi membri della AsDB più poveri (ca. 1,5 mia USD all'anno).

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Infine, la EBRD, fondata nel 1990 e con sede a Londra, opera principalmente per

finanziare i Paesi continentali in via di trasformazione, ovvero opera nei paesi

dell'Europa centrale ed orientale e dell'Asia centrale. La BERS (EBRD

nell’acronimo inglese) presenta una forte accentuazione politica del proprio

mandato: secondo lo statuto della banca questa può, infatti, operare

esclusivamente in quei paesi dell'Europa centrale ed orientale e dell'Asia centrale

che stiano attuando la transizione da un sistema monopartitico ed un'economia

centralizzata ad un sistema basato sull'economia di mercato, la democrazia

pluripartitica ed il pluralismo, favorendo a tal fine il necessario sviluppo del

settore privato. Il fine istituzionale della BERS si distingue quindi marcatamente

da quello delle altre banche internazionali regionali, cui compete, genericamente,

di favorire il progresso e la ricostruzione economica nella rispettiva area di

intervento. Più in particolare, la Banca ha il compito di aiutare i paesi beneficiari

nella messa in opera delle riforme economiche e strutturali, comprese quelle

miranti allo smantellamento dei monopoli, alla decentralizzazione ed alla

privatizzazione, riforme tali da aiutare le loro economie a divenire pienamente

integrate nell'economia internazionale. Un'ulteriore peculiarità della banca è, poi,

quella di annoverare, tra i propri membri, due soggetti internazionali: fra i 42

fondatori della Banca vi sono, infatti, la Comunità Europea (ora Unione Europea)

e la Banca Europea degli Investimenti e ciò a ragione della forte caratterizzazione

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comunitaria della banca e dei legami tra questa e le istituzioni comunitarie: a

norma dello statuto della banca, infatti, l'assetto azionario delle partecipazioni

alla stessa può mutare, ma è stabilito un limite per il quale il complesso delle

azioni detenute dai membri dell'Unione, dalla Unione Europea stessa e dalla BEI

non può essere inferiore al 51% del capitale sociale della Banca.

Fatto cenno a quali sono gli organismi finanziari che operano a livello regionale,

si possono a questo punto spendere alcune parole sulla cosiddetta “assistenza

finanziaria allo sviluppo”.

I meccanismi economici che alimentano, nei Paesi in via di sviluppo, il c.d.

“circolo vizioso della povertà”, e soprattutto le condizioni che limitano

gravemente sia l’offerta, sia la domanda di capitali, impediscono che in tali Paesi

si formino, in seguito all’operare per così dire automatico delle “leggi”

dell’accumulazione, le risorse finanziarie e monetarie indispensabili per far

“decollare” il processo di sviluppo. E’ necessario pertanto che i Paesi detentori di

capitali garantiscano dei massicci trasferimenti di risorse addizionali dall’estero,

sotto forma di “aiuti” allo sviluppo.

Nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni

sessanta, e cioè durante la fase storica in cui il sistema capitalistico internazionale

è rimasto governato da principi di stampo strettamente liberistico (libero

scambio, reciprocità, non discriminazione, ecc.), l’aiuto allo sviluppo costituiva

in definitiva la forma principale e anzi addirittura tipica di assistenza (quasi una

sorta di generosa liberalità) prestata dai Paesi industrializzati a quelli in via di

sviluppo. Nella fase successiva, invece, in seguito alle modifiche verificatesi nel

sistema con il sorgere di istanze “programmatorie” a favore dello sviluppo in

quasi tutti i settori del diritto internazionale dell’economia (rapporti commerciali

“preferenziali”, ecc.), la richiesta di aiuto costituisce solo un capitolo autonomo

nella complessiva strategia dei Paesi in via di sviluppo, e viene avanzata da

questi ultimi alla stregua di un “diritto” vero e proprio.

Nella dottrina internazionalistica, si è discusso sul punto se i Paesi in via di

sviluppo avessero o meno un vero e proprio diritto all’aiuto e quindi, in

definitiva, sulla questione se esistessero norme internazionali generali che

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imponessero ai Paesi ricchi di garantire un determinato trasferimento di risorse,

nella forma soprattutto di un aiuto pubblico allo sviluppo.

Di fatto, non esistono ancora “norme internazionali generali” di questo tipo: è

chiaro che particolare rilievo acquista, per la determinazione delle linee di

tendenza almeno indirettamente accolte in materia di aiuto allo sviluppo della

Comunità internazionale, il modo di operare di quelle organizzazioni

internazionali a vocazione universale, che gestiscono i canali principali di

assistenza multilaterale allo sviluppo.

Le carenze dei meccanismi multilaterali di aiuto allo sviluppo basati o

sull’operatività di presunte norme generali di diritto internazionale, o sul

finanziamento di Organizzazioni internazionali a vocazione universale, come il

Gruppo della Banca Mondiale, hanno indotto vari gruppi di Stati ad istituire delle

banche regionali e sub-regionali di sviluppo. Fra le altre, particolarmente note

sono le già citate Banca Interamericana di Sviluppo, Banca Africana di Sviluppo

e Banca Asiatica di Svilup-po. Queste istituzioni si ispirano, al pari della Banca

Europea per gli Investimenti, al modello della Banca Mondiale. Anch’esse

posseggono infatti un capitale fisso, costituito dalle quote sottoscritte dagli Stati

membri, ed il potere di ricorrere ai mercati dei capitali per reperire fondi ulteriori;

si limitano per lo più al finanziamento di progetti specifici, e non di programmi

generali di sviluppo; accompagnano generalmente l’attività di finanziamento con

lo svolgimento di attività direttamente operative, fornendo l’assistenza tecnica

necessaria per la realizzazione di progetti e programmi; ed effettuano i previsti

interventi al fine di favorire solo lo sviluppo economico, e non quello sociale, o

di tutti gli Stati membri, o solo di alcuni di essi.

In questa sede non è possibile approfondire le caratteristiche specifiche di tali

istituzioni, o le differenze tra esse intercorrenti. Importante è solo sottolineare

come il principale elemento di differenziazione sia costituito probabilmente dal

modo in cui il potere di voto risulti distribuito tra i vari Stati membri: e cioè dal

fatto se tale distribuzione avvenga rispettando maggiormente il principio di

eguaglianza degli Stati, o quello tendente a proporzionare il potere di voto alla

differente entità dei contributi finanziari da essi sottoscritti. Sembra infatti che

tale elemento, insieme a quello costituito dal ruolo svolto da tali banche, in via

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istituzionale o in via di fatto, nell’ambito di un determinato processo regionale di

integrazione o cooperazione economica, sia decisivo per comprendere quale di

esse operi in definitiva come vera e propria istituzione di credito, o invece come

strumento sia pure indiretto di redistribuzione delle risorse tra i singoli Stati

membri.

Il fatto che il diritto internazionale generale non sembri andare oltre le previsioni

di impegni meramente programmatici, per quanto concerne la regolazione dei

trasferimenti di risorse, a titolo di aiuto allo sviluppo, dai Paesi industrializzati a

quelli appunto in via di sviluppo, fa sì che i primi Paesi conservano una notevole

autonomia nel determinare l’ammontare e le modalità dei trasferimenti in

questione. Sono pertanto proprio i comportamenti dei singoli Stati, e quindi le

ipotesi di aiuto “bilaterale” allo sviluppo, ad acquistare molto spesso il rilievo

principale, quando ci si proponga di ricostruire in generale i meccanismi e le

caratteristiche dell’assistenza finanziaria allo sviluppo.

E’ di tutta evidenza, comunque, come negli ultimi anni questi organismi

finanziari abbiano perso molte delle loro ragioni d’essere: con l’affermazione a

livello mondiale di un mercato dei capitali globalizzato e sostanzialmente

accessibile a tutti, il loro ruolo è andato via via svuotandosi. Qualche lustro fa, le

disponibilità di capitali sulla piazza erano certamente ridotte, per cui chi

necessitava di cospicui finanziamenti non poteva che rivolgersi alle fonti

pubbliche; oggi il mercato dei capitali è di proporzioni vastissime, senza frontiere

ed offre il prodotto a prezzi il più delle volte molto convenienti, data la notevole

disponibilità di risorse.

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Organizzazioni internazionali monetarie

Organizzazioni mondiali

A livello mondiale, la più importante istituzione che opera in campo monetario è

il Fondo Monetario Internazionale, istituito a Bretton Woods il 22 luglio 1944 e

con sede a Washington.

Nel terzo paragrafo che segue si parlerà diffusamente di questo organismo,

pertanto si rinvia la dissertazione in oggetto allo stesso paragrafo.

Organizzazioni regionali

La più conosciuta fra le organizzazioni internazionali su scala regionale che

operano in campo monetario è la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI).

La BRI è un istituto finanziario internazionale, creato con l’accordo dell’Aia del

20 gennaio 1930 e avente lo scopo di promuovere la cooperazione tra Banche

centrali e di fornire loro assistenza finanziaria.

Ha la sua sede a Basilea ed è sottoposta alla giurisdizione svizzera. Gode di

personalità giuridica autonoma.

Le Banche centrali dei Paesi partecipanti (una decina) sottoscrivono il suo

capitale sociale (si tratta in sostanza delle Banche centrali maggiori, più

importanti).

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E’ dotata di un Consiglio di amministrazione composto da consiglieri in parte

membri d’ufficio, in parte eletti, che si occupano di problemi monetari

internazionali ed interni ai vari Paesi. Accanto ad esso opera l’Assemblea dei

partecipanti che, convocata annualmente, ha il compito di approvare il bilancio

dell’Istituto e la relazione curata dal servizio studi della Banca. La relazione è un

importante punto di riferimento per l’analisi dei problemi monetari internazionali

ed in particolare di quelli connessi al mercato delle eurovalute.

La BRI opera attivamente sul mercato finanziario internazionale, soprattutto in

qualità di agente e di fiduciario delle banche centrali, sia per i depositi, sia per i

prestiti; opera inoltre sul mercato dell’oro.

La BRI svolge anche l’importante compito di raccogliere dati e informazioni

statistiche sull’attività internazionale delle cosiddette banche dichiaranti (gruppo

di Paesi che forniscono alla BRI informazioni e dati sull’attività bancaria

internazionale, comprendente anche alcune banche che operano in centri

offshore).

Come si è detto, la BRI fu istituita nel 1930. In origine, ebbe lo scopo di dare una

forma economicamente accettabile ai trasferimenti relativi al piano di riparazioni

imposto dalle potenze vincitrici alla Germania dopo la sconfitta della prima

guerra mondiale. Per cui, con il danaro derivante dalle riparazioni belliche si

costituì il capitale della BRI.

Un dato curioso (e per certi versi significativo) è che la BRI è l’unica Istitu-zione

internazionale che prevede fra le proprie lingue ufficiali anche l’italiano.

Nell’ambito della cooperazione tra le diverse Banche centrali (partecipanti e

non), una funzione fondamentale della BRI è inoltre quella del miglioramento

della vigilanza internazionale, che negli anni ’70 e soprattutto dopo la crisi

finanziaria dei Paesi dell’America Latina è divenuto uno dei problemi scottanti

dell’economia mondiale. Le riunioni dei comitati appositi e soprattutto quelle del

Comitato dei Governatori, hanno portato alla creazione del Comitato si

Supervisione Bancaria, il cosiddetto Comitato di Basilea – che ha visto anche un

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membro italiano Chairman, Tommaso Padoa-Schioppa dal

1993 al 1997.

QUADRO DI APPROFONDIMENTO

Omaggio a Padoa-Schioppa, padre dell'euro tratto dal Blog Faust e il

Governatore, 20.12.10

Sabato scorso, mentre salutava al ristorante i suoi amici economisti e i suoi ex

colleghi di Bankitalia, Tommaso Padoa-Schioppa (per i giornalisti TPS) si è

accasciato e non ha più ripreso conoscenza. A soli 70 anni TPS ci lascia.

Un ricordo personale prima di descriverne la figura di splendido civil servant.

Era il 1993, all’ultimo anno di Bocconi, al termine di un convegno in Via Romagnosi

all’allora Centro Congressi Cariplo, avvicino sgomitando TPS mentre sta

assaggiando il risotto del buffet e chiedo: “Io vorrei fare una tesi sulle nuove

disposizioni del Comitato di Basilea, cosa può suggerirmi?”. TPS mi sorrise e disse:

“Scriva a Basilea alla Banca dei Regolamenti Internazionali, facendo il mio nome”.

E così feci, indeciso se scrivere in tedesco o in inglese. Dopo pochi giorni il portinaio

mi citofonò - io allibito abituato al muro di gomma delle istituzioni italiane - per

dirmi che era appena arrivato un pacco proritaire da Basilea. Erano i working paper

per la revisione di Basilea I di cui si stava discutendo nei consessi internazionali. E

così scrissi la mia tesi “Strumenti derivati e autorità di vigilanza: rischi e requisiti

patrimoniali”.

Nato a Belluno nel 1940, TPS si laurea alla Bocconi ed entra in Banca d’Italia. Disse:

“Appartengo a una generazione nella quale era molto diffuso il richiamo di un

impegno pubblico”.

Fece carriera velocemente scalando i gradini della rigida piramide gerarchica di Via

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Nazionale, entrando nel Direttorio fino a diventare vice-direttore generale.

Dal 1979 al 1983 TPS è Direttore Generale per gli Affari economici e finanziari della

Commissione Europea a Bruxelles e inizia il lungo e fertilissimo ruolo svolto nella

costruzione europea.

Carlo Azeglio Ciampi

Alla fine degli anni ’80, Ciampi affidò a TPS – suo amico personale - l’incarico di

seguire i lavori preparatori del Trattato di Maastricht, in qualità di membro

autorevole del Comitato guidato da Jacques Delors.

Lucido elaboratore di pensiero raffinato, fu colui che teorizzò il Quartetto

Inconciliabile. All’interno di un’area economica (allora la Comunità Economica

Europea), non possono coesistere quattro fenomeni, che erano anche gli obbiettivi

della CEE:

1) Libertà di circolazione di merci e di servizi;

2) Libertà di movimento dei capitali;

3) Tassi di cambio fissi;

4) Politiche monetarie - dei singoli stati - autonome

A quell'epoca, i vari Paesi della Comunità Economica Europea (ora Unione Europea)

mantenevano alcune limitazioni agli scambi e, soprattutto, alla circolazione dei

capitali. Queste vennero via via eliminate tramite il programma del Mercato Unico e

la liberalizzazione dei movimenti di capitali. Alla fine degli anni '80 i primi due

obiettivi erano stati raggiunti; bisognava scegliere tra gli ultimi due. Nel 1982 Padoa-

Schioppa propose di eliminare il terzo fine (politiche monetarie indipendenti) e di

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creare una moneta unica per tutti gli stati appartenenti all'Unione, gestita da un'unica

Banca Centrale Europea. TPS: “Se vogliamo insistere nell’avere politiche monetarie

autonome, prima o poi salteranno i cambi fissi o si comincerà a ridurre la libertà di

movimento di capitali”. Il Rapporto Delors dell'aprile 1989 appoggiò questo punto di

vista proponendo un'Unione Monetaria Europea con un'unica moneta. Padoa-

Schioppa si occupò allora della creazione della nuova Banca Centrale Europea.

Quando Ciampi venne chiamato alla presidenza del consiglio nel 1993, TPS era il

candidato naturale alla successione di Governatore di Banca d’Italia. Gli si

contrappose Lamberto Dini e tra i due litiganti vinse l’orrido Antonio Fazio, le cui

telefonate notturne con il banchiere Fiorani (in cui gli comunica l’appoggio pancia a

terra per il blocco della scalata degli olandesi di ABN ad Antonveneta) – “Tonino, ti

bacio sulla fronte”, disse al Governatore poco dopo la mezzanotte il cattolicissimo

Legionario di Cristo Gianpi Fiorani - leggeremo disgustati in seguito.

Lorenzo Bini Smaghi

Verrà chiamato successivamente alla presidenza della Consob e nominato nel 1998

quale membro italiano nel Comitato Esecutivo della neonata Banca Centrale

Europea. Rimase fino al 2005 per cedere il posto a Lorenzo Bini Smaghi, che così lo

ricorda: “Aveva la grande capacità di far lavorare le persone e motivarle. E a questo

aggiungeva un talento innato nel destrutturare i problemi; li decomponeva in vari

singoli aspetti per risolverli e trovare una risposta al problema da cui era partito. In

questo senso più che uno dei padri è stato uno dei “costruttori” della moneta unica.

Un idealista ma anche un uomo molto concreto”.

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Nel 2006 Prodi lo chiamò come Ministro dell’Economia del suo governo. Fu in tale

occasione che uscì pubblicamente con due dichiarazioni che fecero molto discutere:

1. “Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima. E’ un

modo civile di contribuire a beni indispensabili”. Fu massacrato ma aveva ragione

lui. In un Paese dove evadere è lo sport nazionale – ogni anno leggiamo con

nonchalance che i gioiellieri dichiarano in media 13mila euro di imponibile, molto

meno di un operaio – dire una cosa del genere è uscire dall’ipocrisia;

2. “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa. Incentiviamo a uscire di casa i giovani

che restano con i genitori, non si sposano e non diventano autonomi “ (4 ottobre

2007). Tutte le analisi disponibili, dal Censis all’ISTAT a Italia Futura ci illustrano

come i giovani restino legati alle famiglie di origine coccolati e viziati. Ma con troppi

agi e senza fatica – vedi il post la fatica è bella – non si va da nessuna parte. “Il

sacrificio non è mai sterile”, diceva Giuseppe Mazzini.

“Solo l’Europa può spingere il mondo sulla via aurea; ma per poterlo fare deve

percorrere la propria via aurea sino in fondo. Ciò significa procedere dall’unione

economica e monetaria, compiutasi con l’euro, all’unione politica. E unione politica

vuol dire un’unica capacità di decisione e di azione in materia di immigrazione,

sicurezza, difesa, lotta alla criminalità; un’unica presenza nelle sedi della

cooperazione e nei negoziati internazionali in campo commerciale, finanziario,

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ambientale, scientifico” (TPS, Dodici settembre, Rizzoli, 2002, p. 122). E la zoppìa

di cui parla Carlo Azeglio Ciampi, vedi post.

Learn, earn, serve – studiare, guadagnare, servire – sono le tre distinte fasi della vita

attiva di una persona completa secondo la saggezza della società americana di un

tempo. Crediamo che Tommaso Padoa-Schioppa abbia servito l’Italia con

eccezionale talento.

Caro Padoa-Schioppa, se l’Italia si è salvata con l’ingresso nell’euro e la politica

delle mani legate (copyright Giavazzi, Favero), lo si deve anche a te. Ti sia lieve la

terra.

P.S.: per approfondimenti si consiglia:

Mario Pirani, Il futuro dell’economia, Cap XIII, Le virtù salvifiche di Maastricht,

Mondadori, 1993

Tommaso Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile, Il Mulino, 2001

Tommaso Padoa-Schioppa, Dodici Settembre. Il mondo non è al punto zero, Rizzoli,

2002

Tommaso Padoa Schioppa, La veduta corta, Il Mulino, 2009

E’ dal Comitato di Basilea che sono partite le diverse regolamentazioni a partire

dal 1988 – BASILEA I, BASILEA II e la prossima BASILEA III

(definita congiuntamente con il Financial Stability Board13 diretto da Mario

Draghi (Governatore della Banca d’Italia) – che fissano i

13 www.financialstabilityboard.org

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200

principi fondamentali da seguire nella vigilanza sulle banche internazionali

(Accordi di Basilea).

2. World Trade Organization

L’Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC), o World Trade Organization

(WTO), è succeduta in epoca recente, a seguito dell’Uruguay Round conclusosi nella

prima metà degli anni Novanta, al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade).

Questo accordo generale sulle tariffe e il commercio venne stipulato a Ginevra il 30

ottobre 1947: si tratta di un accordo multilaterale, sottoscritto da oltre un centinaio di

governi14, oggetto di molte modificazioni successive (c.d. rounds negoziali), con

l’obiettivo di base di liberalizzare il commercio mondiale e collocarlo su basi solide,

contribuendo quindi alla crescita economica, allo sviluppo e al benes-sere della

popolazione mondiale. Infatti, il GATT, dal 1948, ha funzionato come principale

organismo internazionale riguardante le negoziazioni per la riduzione delle barriere

commerciali e di altre misure discorsive della concorrenza e delle relazioni 14 I sottoscrittori del Trattato rappresentano insieme più dei quattro quinti del commercio mondiale.

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commerciali internazionali. Pertanto, l’accordo è sia un codice di condotta, che un

momento d’incontro per i Paesi i quali possono discutere e superare i loro problemi

di natura commerciale e negoziare l’allargamento delle opportunità commerciali.

Dalla nascita ad oggi, si sono succeduti diversi rounds negoziali che hanno

apportato modifiche anche molto profonde al trattato originario del ’47.

Più precisamente, gli incontri di contrattazione e aggiornamento del GATT

sono stati finora otto:

- Ginevra, 1947, con 23 Paesi sottoscrittori e un risultato di circa 45.000 riduzioni

tariffarie;

- Annecy, 1949, con 33 parti contraenti e riduzioni tariffarie di scarsa entità;

- Torquay, 1950, con 34 parti contraenti e riduzioni delle tariffe del 25% rispetto ai

livelli del 1948;

- Ginevra, 1956, con 22 parti contraenti e riduzioni tariffarie di entità trascurabile;

- Dillon, 1961/’62, con 45 parti contraenti e riduzioni tariffarie di poca importanza;

- Kennedy, 1962/’67, con 48 parti contraenti e riduzioni tariffarie per i prodotti

industriali mediamente del 35%, mentre per i prodotti agricoli riduzioni di scarsa

entità;

- Tokyo, 1973/’79, con 99 parti contraenti e riduzioni tariffarie del 34% per i

prodotti industriali. Questo round ha inoltre emanato una serie di regole per le

barriere non tariffarie;

Uruguay, 1986/’93, con 117 parti contraenti; I negoziati hanno mirato

principalmente: ad imprimere una decisa accelerazione al processo di

liberalizzazione del commercio internazionale di merci per tutte le nazioni, con

particolare attenzione a quelle in via di sviluppo, attraverso l’abbattimento delle

barriere tariffarie e non tariffarie; a migliorare ed espandere il sistema

commerciale multilaterale.

-

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Doha Round The Doha Development Round or Doha Development

Agenda (DDA) is the current trade-negotiation round of the World Trade

Organization (WTO) which commenced in November 2001. Its objective is to lower

trade barriers around the world, which allows countries to increase trade globally.

As of 2008, talks have stalled over a divide on major issues, such as agriculture,

industrial tariffs and non-tariff barriers, services, and trade remedies.[1] The most

significant differences are between developed nations led by the European Union

(EU), the United States (USA), and Japan and the major developing countries led

and represented mainly by Brazil, China, India, South Korea, and South Africa.

There is also considerable contention against and between the EU and the USA over

their maintenance of agricultural subsidies—seen to operate effectively as trade

barriers.[2]

The Doha Round began with a ministerial-level meeting in Doha, Qatar in 2001.

Subsequent ministerial meetings took place in Cancún, Mexico (2003), and Hong

Kong (2005). Related negotiations took place in Geneva, Switzerland (2004, 2006,

2008); Paris, France (2005); and Potsdam, Germany (2007).

Va sottolineato che dagli anni della nascita del GATT, nei quali i dazi doganali si

attestavano mediamente attorno al 40%, grazie ai suddetti rounds si è passati in

questi cinquant’anni ad una riduzione ai minimi termini degli stessi dazi, toccando

nel 1997 un esiguo 4%.

Il GATT (ora WTO) è regolato da alcuni importanti principi, trascritti in 38

articoli dell’accordo. Fra di essi, si possono ricordare:

il principio della nazione più favorita, secondo il quale ciascun Paese ha

l’obbligo di estendere a tutti gli altri Stati partecipanti le migliori condizioni che

lo stesso concede ad uno di essi. Questo significa che una qualsiasi concessione

di riduzione tariffaria offerta sulla base di un accordo bilaterale diviene, in

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ragione di questo principio, automaticamente multilaterale. L’unica deroga a

questo principio riguarda le intese che mirano a creare a livello regionale aree di

integrazione economica (l’Unione Europea ne è un esempio). L’eccezione vale,

inoltre, se sussistono le seguenti condizioni: accordo regionale di durata

temporale ragio-nevolmente lunga; accordo in ogni settore del commercio;

applicazione a tassi uniformi della tariffa esterna comune; intenzione di ridurre

progressivamente i tassi della tariffa esterna comune;

il principio del trattamento nazionale, secondo il quale al produttore straniero che

abbia pagato le tariffe doganali non può essere richiesto altro onere che non sia

applicato anche ai produttori nazionali. Questo principio vuole impedire

l’instaurazione di eventuali barriere non tariffarie;

il principio delle negoziazioni multilaterali, in base al quale gli obiettivi del WTO

debbono essere perseguiti attraverso negoziazioni multilaterali anziché tramite

intese bilaterali;

la proibizione del contingentamento delle importazioni, secondo cui sono vietate

le imposizioni di tetti quantitativi. Il divieto non opera solo in alcuni casi

specifici: per i prodotti agricoli; in presenza di gravi difficoltà nella bilancia dei

pagamenti; per le industrie di nuovo insediamento nei Paesi in via di sviluppo,

quando vi sia una evidente necessità di proteggerne la produzione; qualora si

applichi la c.d. clausola di salvaguardia;15

i limiti ai dazi anti-dumping e ai dazi compensativi. Per fronteggiare pratiche di

dumping, i governi nazionali possono imporre dazi sui prodotti deprezzati, nel

limite però della differenza tra il prezzo di esportazione ed il prezzo medio del

bene applicato nel mercato del Paese di provenienza. Nel caso in cui, invece, si

ritiene che l’esportatore abbia ricevuto contributi statali a sostegno del proprio

prodotto, è possibile istituire appositi dazi compensativi (c.d. countervailing

duties), che siano comunque di misura eguale all’incidenza del contributo fruito

dall’esportatore.

15 L’articolo XIX del GATT stabilisce che misure protezionistiche possano essere applicate nel mo-mento in cui un’improvvisa ondata di importazioni di uno o più prodotti possa arrecare gravi pregiu-dizi ai produttori nazionali. In questo caso, però, le nazioni colpite dall’applicazione della clausola di salvaguardia devono essere consultate e compensate opportunamente in altri settori produttivi.

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Si è già accennato, in apertura di paragrafo, all’avvenuto passaggio, a seguito

dell’Uruguay round, dal GATT al nuovo organismo denominato World Trade

Organization (WTO), o Organizzazione Mondiale per il Commercio (OMC).

L’accordo formale che ha istituito il WTO è stato siglato a Marrakech il 15 aprile

1994. L’inizio dell’operatività della nuova Istituzione internazionale, che ha

rimpiazzato il Segretariato del GATT, si è avuto il 1° gennaio 1995. Il WTO, è

stato creato con il principale intento di fornire una più forte e coerente struttura

per accelerare il processo di liberalizzazione del commercio internazionale.

L’obiettivo dell’organizzazione è la progressiva liberalizzazione del commercio

mondiale, da perseguire con lo strumento della negoziazione di accordi commerciali

tra i governi dei paesi membri.

I principi ispiratori generali sono:

• non discriminazione nel trattamento concesso ai beni provenienti dai diversi

paesi membri;

• uguale trattamento riservato ai beni importati rispetto ai beni nazionali;

• determinazione di regole commerciali prevedibili e stabili.

L’WTO è inoltre il foro per la risoluzione delle dispute commerciali tra i paesi

membri. Comprende infatti al suo interno un meccanismo di risoluzione delle

controversie dovute a differenti interpretazioni degli accordi.

Il WTO si fonda su diversi accordi (agreements) negoziati e firmati dalla

maggior parte delle nazioni. Sono contratti firmati dai governi per mantenere le

rispettive politiche commerciali dentro limiti concordati.

L’accordo sul WTO (WTO agreement) comprende ed incorpora i seguenti

trattati:

- il GATT 1994, accordo sui beni, incluso l’accordo TRIM ed i codici del Tokyo

round (allegato 1A del WTO agreement);

- il GATS (General Agreement on Trade in Services, allegato 1B), accordo sui

servizi;

- l’accordo TRIPS, sulla proprietà intellettuale (allegato 1C);

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- Accordi aggiuntivi e annessi: problemi speciali di settori specifici:

- Liste di impegni di singoli paesi relativi a specifici prodotti;

- Regole per la risoluzione dei conflitti commerciali;

- Analisi periodiche della politica commerciale dei singoli paesi membri.

Per cui, alla tradizionale competenza nel settore industriale, il WTO aggiunge

nuove attribuzioni nel commercio dei prodotti agricoli, nei servizi, nel comparto

tessile, nelle questioni riguardanti la proprietà intellettuale e negli investimenti

relativi al commercio.

Organizzativamente il WTO è strutturato come un Organismo Internazionale:

• L’organo decisionale è la Conferenza Ministeriale. Alla conferenza

partecipano tutti i paesi membri tramite il loro ministri commerciali ed è

l’unica istanza che può ratificare nuovi accordi.

• L’organo di secondo livello è il Consiglio Generale. Esso si riunisce varie

volte all’anno ed è costituito dai rappresentanti a Ginevra dei paesi membri

nonchè da Ambasciatori e funzionari appositamente inviati.

• Il Consiglio Generale si riunisce a volte anche come Dispute Settlement Body

(organo per la risoluzione delle dispute commerciali tra gli stati membri) e

come Trade Policy Review Body (organo per le revisione delle politiche

commerciali degli stati membri).

• Sotto al Consiglio Generale si organizzano i Consigli specifici sui beni

materiali, sulla proprietà intellettuale e sui servizi, nonché numerosi altri

comitati.

La Conferenza dei Ministri è l’organo decisionale supremo del WTO e si

riunisce almeno ogni due anni. Il Consiglio Generale è organo che svolge funzioni di

carattere più operativo e, rispetto alla Conferenza, agisce in maniera più continua.

Sono inoltre istituite dalla Conferenza commissioni che si occupano di questioni

rilevanti concernenti lo sviluppo, l’ambiente, la finanza, ecc. Rispetto al GATT, il

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206

WTO è un’organizzazione dotata di personalità giuridica e di un proprio

Segretariato.

Il Segretariato del WTO è a Ginevra e dispone di uno staff di circa 600 persone a cui

capo è il Direttore Generale. Il Segretariato del WTO non ha poteri decisionali e la

sua attività principale è la seguente:

• fornire il supporto tecnico-logistico ai vari consigli, comitati e alla conferenza

ministeriale;

• dare assistenza tecnica ai paesi i via di sviluppo per favorire la loro

integrazione nel sistema commerciale internazionale;

• analizzare e fornire statistiche sui flussi commerciali mondiali;

• interagire con i media per informare sui negoziati in ambito WTO;

• provvedere assistenza legale nelle dispute commerciali;

• fornire suggerimenti ai paesi che vogliono aderire al WTO.

La Conferenza dei Ministri nomina il Direttore Generale. Il Direttore Generale

dell'OMC detiene il più importante ufficio permanente in ambito OMC: è, infatti,

responsabile della supervisione delle funzioni amministrative in seno

all'organizzazione; dal momento che le decisioni politiche sono però prese dai

rappresentanti degli stati membri (tramite le Conferenze ministeriali o il Consiglio

Generale dell'organizzazione). Il potere del segretario generale dell'OMC dipende

molto dal suo profilo. In effetti, se dispone di un importante capitale politico (come

per esempio Pascal Lamy) può giocare un ruolo molto proattivo. Può in effetti

cercare di spingere gli stati membri verso un accordo attraverso più mezzi : a) la

diplomazia informale; b) aumentando la pressione sui negoziatori attraverso, per

esempio, l'utilizzo dei media et c) attraverso la proposizione di un progetto di

accordo. Attraverso l'organizzazione delle conferenze ministeriali e delle

negoziazioni a Ginevra può anche influenzare fortemente le negoziazioni (per

esempio, fissando dei termini per produrre degli accordi può influenzare il loro

successo oppure decidendone il formato può influenzare il livello di partecipazione

dei vari membri).

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Attualmente la carica è coperta dal francese Pascal Lamy16 che ha

preso il posto del tailandese Supachai Panitchpakdi il 1 settembre 2005. La carica è

stata formalmente istituita (in ambito GATT) nel 1965, sebbene possa essere vista

come la continuazione del precedente ufficio di Segretario Esecutivo; l'elenco dei

detentori dell'incarico è il seguente:

• Eric Wyndham White (Gran Bretagna): 23 marzo 1965 - 6 maggio 1968

• Olivier Long (Svizzera): 6 maggio 1968 - 1 ottobre 1980

• Arthur Dunkel (Svizzera): 1 ottobre 1980 - 1 luglio 1993

• Peter Sutherland (Irlanda): 1 luglio 1993 - 1 maggio 1995

• Renato Ruggiero (Italia) : 1 maggio 1995 - 1 settembre 1999

• Mike Moore (Nuova Zelanda): 1 settembre 1999 - 1 settembre 2002

• Supachai Panitchpakdi (Thailandia): 1 settembre 2002 - 1 settembre 2005

• Pascal Lamy (Francia): 1 settembre 2005 – oggi

16 Pascal Lamy (born 8 April 1947) is the Director-General of the World Trade Organization, a French political advisor, a businessman, and a former European Commissioner for Trade. Lamy is Honorary President of Paris-based think tank Notre Europe.

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Le principali funzioni del WTO si possono così riassumere:

Le principali funzioni del WTO si possono così riassumere:

o facilitare l’implementazione degli accordi multilaterali sul commercio;

o rendere disponibile un forum permanente per le negoziazioni multilaterali;

o gestire il meccanismo di risoluzione delle controversie;

o gestire le procedure di esame delle politiche commerciali;

o sviluppare la cooperazione con le organizzazioni internazionali per fronteggiare

questioni quali la moneta e la finanza.

Numerose e rilevanti sono le sfide che il WTO si trova a dover affrontare e per le

quali lo stesso è stato appositamente creato. Fra queste:

nell’ambito delle nuove competenze sul commercio dei servizi, l’apertura dei

mercati bancari e assicurativi nell’Asia orientale e nell’America latina, fenomeno

questo che preoccupa Stati Uniti ed Unione Europea;

la gestione di aree nuove legate al commercio, tra cui la salvaguardia ambientale,

i TRIM, lo sviluppo, le forniture dello Stato (commesse);

QUADRO DI APPROFONDIMENTO La presidenza di Renato Ruggiero (tratto da Corriere della Sera, 22 marzo 1995, Marco Cecchini) “Da segretario generale della Farnesina prima, ministro del Commercio e "ambasciatore" della Fiat poi, Renato Ruggiero si e' sempre mosso con grande scioltezza sullo scacchiere internazionale. Un napoletano "atipico", e' stato detto di lui. Stavolta pero' questo tessere pazientemente la tela diplomatica ha prodotto un risultato d' eccezione. Perche' la vittoria di Ruggiero nella corsa alla direzione dell' Organizzazione mondiale del commercio (Wto, World Trade Organization, in inglese), sanzionata ieri dall' appoggio americano alla sua candidatura, non e' solo un successo personale, e' un successo per il Paese. Dagli anni in cui Manlio Brosio era segretario generale della Nato, mai un italiano aveva ricoperto un incarico internazionale di cosi' grande prestigio”.

Nel 1995 l’Ambasciatore Ruggiero è stato eletto dai Governi di 130 Paesi Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Ginevra, ruolo che ha ricoperto fino al 1999. Durante questo periodo ha messo in opera il sistema di soluzione delle controversie relative agli scambi commerciali mondiali basato sul Diritto e non sui rapporti di forza. Ha inoltre perseguito l’obiettivo di una piu’ ampia inclusione dei Paesi in via di sviluppo negli scambi mondiali e della liberalizzazione commerciale a favore dei 48 Paesi piu’ poveri del mondo. Il suo mandato ha visto anche l’avvio di un dialogo istituzionale con le Organizzazioni non governative, mentre tre grandi negoziati mondiali, sviluppatisi durante la sua direzione dell’O.M.C. hanno trovato positiva conclusione: la liberalizzazione a livello globale delle telecomunicazioni, dell’informatica e

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il controllo del progressivo smantellamento delle barriere commerciali presenti

nei settori dell’agricoltura e del tessile;

l’obiettivo di raggiungere un accordo nel settore dell’acciaio;

ispirare l’operato dell’Organizzazione sempre alla massima trasparenza ed

imparzialità, liberandola il più possibile dalle pressioni esercitate dai numerosi

centri di potere (economico/finanziario/politico) nel mondo;

l’assistenza nel coordinamento delle politiche economiche globali attraverso una

stretta collaborazione con altre istituzioni internazionali, quali il Fondo

Monetario Internazionale e la Banca Mondiale;

l’integrazione dei Paesi in via di sviluppo nel processo di globalizzazione in atto

in tutti i mercati;

limitare le azioni compensatorie unilaterali degli Stati Uniti, attraverso la

dimostrazione di una forte capacità di agire efficacemente dell’Organizzazione

nell’impedire le pratiche commerciali illecite messe in atto da alcuni Paesi.

3. L’evoluzione della strategia

d’intervento del Fondo Monetario

Internazionale (FMI) e della Banca

Mondiale

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Si è anticipato in apertura di capitolo, in sede di rinvio alla presente

trattazione, che la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI)

rappresentano rispettivamente l’Organizzazione internazionale finanziaria e quella

monetaria di carattere mondiale di assoluta preminenza.

In base all’articolo 1 del suo statuto originario, i compiti della BM, istituita il

22 luglio 1944 con gli accordi di Bretton Woods e con sede a Washington, erano:

- aiutare la ricostruzione e lo sviluppo nei territori dei membri facilitando

l’investimento di capitali per scopi produttivi, ivi compresi la restaurazione delle

economie distrutte o sconvolte dalla guerra, il ritorno delle attività produttive ai

bisogni di pace e l’incoraggiamento dello sviluppo delle capacità produttive e

delle risorse dei Paesi meno sviluppati;

- promuovere gli investimenti esteri privati mediante garanzie o partecipazioni a

prestiti od altri investimenti fatti da capitalisti privati; e quando il capitale privato

non sia disponibile a condizioni ragionevoli, integrare gli investimenti privati,

con il concedere, a condizioni eque, finanziamenti a scopi produttivi, a valere sul

capitale proprio, sui fondi raccolti e sugli altri suoi mezzi;

- promuovere, in un lungo periodo, l’equilibrata espansione del commercio

internazionale, ed il mantenimento dell’equilibrio nelle bilance dei pagamenti,

incoraggiando gli investimenti internazionali destinati allo sviluppo delle risorse

produttive dei membri prestando con ciò aiuto nell’aumentare la produttività, il

tenore di vita e le condizioni di lavoro nei loro territori;

- coordinare i prestiti da essa fatti o garantiti, con prestiti internazionali effettuati

per altra via, in modo tale che i progetti più utili ed urgenti, sia grandi che piccoli,

abbiano la precedenza;

- condurre le sue operazioni tenendo in debita considerazione l’effetto degli

investimenti internazionali sullo stato degli affari nei territori dei membri e,

nell’immediato dopoguerra, aiutare affinché la transizione dalla economia di

guerra a quella di pace avvenga senza attriti.

Il FMI, istituito anch’esso il 22 luglio 1944 con gli accordi di Bretton Woods

e con sede a Washington, fu creato al fine di regolare il quadro dei pagamenti

internazionali, specie i tassi dei cambi, in modo tale da consentire agli Stati di

rinunziare all’esercizio non coordinato delle loro prerogative in materia ed a

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conseguenti restrizioni dei pagamenti. In contropartita, gli Stati membri avrebbero

beneficiato dei vantaggi connessi alla stabilità dei cambi e alla garanzia di ottenere

una assistenza finanziaria ed una consulenza tecnica in caso di difficoltà di bilancia

dei pagamenti. In particolare, i compiti del FMI, enunciati nell’articolo 1

dell’accordo istitutivo, erano:

- promuovere la cooperazione monetaria internazionale mediante un istituto

permanente che offra lo strumento tecnico per la consultazione e la

collaborazione in materia di problemi monetari internazionali;

- facilitare l’espansione e l’armonico sviluppo del commercio internazionale e

contribuire così a promuovere e mantenere alti i livelli dell’occupazione e del

reddito reale, e a sviluppare le risorse produttive di tutti i Paesi membri, come

obiettivi principali di politica economica;

- promuovere la stabilità dei cambi, intraprendere ordinati rapporti di cambio tra i

Paesi membri ed evitare svalutazioni competitive;

- dare il proprio appoggio all’istituzione di un sistema multilaterale di pagamenti

per le transazioni correnti fra Paesi membri, e all’eliminazione di restrizioni

valutarie che ostacolino lo sviluppo del commercio mondiale;

- assicurare ai Paesi membri, prendendo le opportune cautele, la disponibilità

temporanea delle risorse generali del Fondo, fornendo loro in tal modo la

possibilità di correggere squilibri nelle loro bilance dei pagamenti senza dover

ricorrere a misure che rischierebbero di compromettere la prosperità nazionale o

internazionale;

- in armonia con quanto sopra, abbreviare la durata e ridurre l’intensità degli

squilibri delle bilance internazionali dei pagamenti dei Paesi membri.

I due Organismi furono concepiti come i due pilastri dell’ordine economico che

doveva emergere dalla seconda guerra mondiale e che doveva creare le

condizioni di cooperazione finanziaria e monetaria affinché il mondo godesse di

un indefinito periodo di pace e di sviluppo. Queste condizioni erano mancate

negli anni Trenta e l’autarchia in campo commerciale e monetario di quegli anni

era certamente da ritenere come una delle cause dello scoppio del conflitto. Era

necessario ripartire dall’inizio e progettare un nuovo ordine.

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212

La Conferenza di Bretton Woods che si tenne in un villaggio del New

Hampshire recante questo nome, nel luglio 1944, mirava appunto a stendere questo

progetto. Si trattava di promuovere il commercio mondiale, (che si era contratto da

circa 40 miliardi di dollari all’inizio del decennio precedente a meno di 10 miliardi

negli anni successivi).

A tale scopo, si sarebbe dovuta creare una istituzione che promuovesse e

favorisse gli scambi internazionali basati sui principi del liberoscambismo.

Abbassamenti dei dazi doganali, estensione generalizzata della clausola della nazione

più favorita, lotta senza quartiere contro i contingentamenti e contro le

discriminazioni, abolizione delle barriere non tariffarie, avrebbero dovuto essere i

suoi compiti precipui.

Purtroppo, questa organizzazione internazionale del commercio non vide

allora la luce. Il Congresso americano bocciò il progetto e l’idea fu abbandonata nel

1950. Qualcosa di molto meno impegnativo venne creato al posto

dell’organizzazione e cioè il GATT, che essendo di fatto un trattato con annessa una

piccola struttura organizzativa aveva poteri assai più deboli. Occorrerà attendere

cinquanta anni perché l’idea venisse rilanciata e la WTO fosse realizzata.

Di fatto, quindi, il nuovo ordine economico internazionale di Bretton Woods

trovò il suo centro nella creazione dei presupposti finanziari e monetari affinché il

commercio si potesse espandere. E ad essi dovevano sovraintendere la Banca

Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.

La BM è un intermediario finanziario appartenente ai Governi dei Paesi

membri della Banca. Non è una banca commerciale poiché non crea depositi

attraverso la concessione di prestiti. Essa finanzia a termine non breve, importanti

investimenti nei Paesi in via di sviluppo, utilizzando i mezzi propri e vendendo

obbligazioni.

Il FMI è anch’esso un intermediario finanziario pubblico cui possono

accedere i Paesi che accettano di adottare un codice di condotta economica,

finanziaria e monetaria mutualmente vantaggiosa, pagando per far parte del Fondo

una somma che corrisponde al numero di azioni del Fondo che viene loro dato in

cambio. Da questo pool di mezzi finanziari, i membri del Fondo possono ottenere dei

prestiti, ma in linea di principio solo per breve tempo e a certe condizioni.

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213

Attualmente, gli Stati Uniti rappresentano l’azionista di maggioranza relativa del

FMI, con circa il 20% dei voti, quindi viene il Giappone con l’8% dei voti così come

la Germania, la Francia il 6%, il Regno Unito il 6%, l’Italia il 4% e il Canada il

3,5%. Il rimanente 45% dei voti è suddiviso tra un elevato numero di Paesi, circa

200. Fra questi ultimi, vi sono Paesi molto importanti politicamente e

geograficamente che hanno però quote di voto molto limitate (ad esempio, la

Russia). Le quote azionarie vengono distribuite fra i vari Paesi sulla base di diversi

parametri, fra cui l’eredità storica (inizialmente nel Fondo c’erano solo i Paesi

vincitori della Seconda Guerra Mondiale), il PIL, il commercio internazionale del

Paese rispetto al commercio internazionale mondiale, le riserve del Paese. I Paesi che

superano una certa soglia di voti posseduti nel FMI rientrano nel c.d. gruppo dei

Paesi maggiormente industrializzati (inizialmente G5, poi con l’aggiunta di Italia e

Canada G7).

Come si vede, quindi, la BM ha come compito quello di assicurare

finanziamenti anche al di là di quelli che il sistema finanziario e bancario

internazionale accorda nella logica di un’economia di mercato (e che nell’ultima

parte degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta erano minimi).

Il FMI mira per sua natura a mantenere l’ordine nel sistema monetario

internazionale (SMI), basato su un sistema di cambi fissi, eventualmente aggiustabili,

sia pure non unilateralmente, con il consenso della comunità internazionale.

Si ipotizzi che alcuni Paesi, ad un certo momento, si trovassero ad avere dei

deficit nella loro bilancia dei pagamenti. Il SMI, nato dopo Bretton Woods, era

congegnato in modo da non richiedere un aggiustamento immediato e brusco che

avrebbe reso l’economia di ogni Paese prigioniera del segno della bilancia dei

pagamenti, ridotto il grado di indipendenza della politica economica nazionale,

accentuata l’ampiezza del ciclo economico.

Il SMI consentiva che questi deficit fossero finanziati in tutta tranquillità: i

Paesi dovevano essere messi in condizione di prendere a prestito quando erano in

deficit e di prestare quando erano in surplus, seguendo l’onda ciclica della loro

attività produttiva. Ma se ad un certo momento ci si accorgeva che il deficit era

cronico o strutturale, il finanziamento del Fondo non poteva bastare. Era necessario

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“aggiustare”. Sotto il profilo teorico, l’aggiustamento poteva avvenire mediante l’uso

combinato di tre strumenti:

1. adozione di una politica monetaria e fiscale restrittiva (riduzione della

liquidità del sistema bancario e dell’economia, aumento dei tassi di interesse,

riduzione della spesa pubblica, aumento delle tasse);

2. svalutazione della moneta;

3. ricorso a barriere commerciali o ad altre restrizioni.

Il nuovo ordine di Bretton Woods prevedeva che: il primo strumento fosse da

adottare in via preliminare ed era auspicabile che ogni Paese lo usasse al primo

sintomo di squilibrio; il secondo fosse anche applicabile, ma solo nel quadro

delle condizioni che la comunità internazionale stabiliva per dare il suo consenso;

il terzo fosse da evitare ad ogni costo, per scongiurare il pericolo di ricadere nella

spirale perversa di misure e ritorsioni degli anni Trenta.

Il FMI doveva dunque dare il permesso e quindi tenere sotto controllo la

situazione economica dei suoi membri per essere in grado di valutare, se in caso di

squilibrio, veniva correttamente adottato lo strumento 1. e se occorresse aderire alle

eventuali richieste di cambiamento della parità monetaria.

La funzione di sorveglianza è quindi intrinseca al carattere del FMI. Ad ogni

cambiamento di parità, poi, il Fondo doveva esprimere il suo parere in merito alla

richiesta, che generalmente si accompagnava alla svalutazione stessa, di utilizzare il

danaro che il Paese aveva presso il Fondo o una somma multipla di quella posizione

presso il Fondo. La concessione di tali prestiti è sottoposta all’accettazione di precise

condizioni. La seconda caratteristica del Fondo è la condizionalità dei suoi prestiti.

I compiti delle due Istituzioni e la loro distinzione rimasero chiarissimi fino

all’inizio degli anni Settanta. Ma intanto stavano avvenendo alcuni fatti che

minavano alcuni pilastri della costruzione di Bretton Woods.

Non ci si riferisce con ciò ai buoni risultati raggiunti negli anni Cinquanta e

Sessanta in campo economico. Gli scambi di merci e in parte di servizi si erano

sviluppati al ritmo dell’8% all’anno in termini reali (di fronte ad una crescita media

della produzione interna del 4%). Il grado di apertura dei vari Paesi si era accresciuto

rapidamente, dando luogo ad un processo di specializzazione produttiva da cui tutti i

partecipanti sembravano trarre grande beneficio. Gli squilibri nella bilancia dei

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pagamenti venivano in genere finanziati o aggiustati opportunamente. Le maggiori

economie riuscivano a realizzare il triangolo magico di un rapido sviluppo, di un

elevato livello di occupazione, di una bassa inflazione. Purtroppo, però, negli anni

Sessanta il meccanismo della convertibilità a tasso fisso delle altre principali monete

in dollari e della convertibilità del dollaro in oro al prezzo fisso di 35 dollari l’oncia,

si cominciò a scontrare con una sua intrinseca contraddizione.

Se gli Stati Uniti avessero registrato notevoli avanzi di bilancia dei pagamenti

e cioè avessero speso poco negli altri Paesi in beni, servizi e investimenti diretti, il

dollaro sarebbe stato uno strumento di liquidità internazionale qualitativamente

pregevole, ma quantitativamente insufficiente a finanziare la crescita economica del

mondo. Se invece gli Stati Uniti avessero rivestito la funzione di un grande

spenditore, mentre Germania, Svizzera, Olanda e Giappone avessero rivestito quella

di centri di formazione del risparmio a livello internazionale, il dollaro sarebbe stato

uno strumento di liquidità internazionale adeguato dal punto di vista quantitativo, ma

qualitativamente scadente, per cui prima o poi le banche centrali dei maggiori Paesi

creditori si sarebbero rifiutati di acquistarlo a tasso fisso (importando inflazione

dall’estero) e ne avrebbero richiesto la conversione in oro.

Questa contraddizione rimase latente negli anni Sessanta, ma esplose

all’inizio degli anni Settanta.

Essendo impossibile e dannosa per gli Stati Uniti la conversione esterna del

dollaro (quella interna non era più possibile da alcuni decenni) in oro a prezzo fisso

(e ciò fu decretato ufficialmente il 15 agosto 1971), diventava a sua volta inutile e

dannosa per i Paesi creditori la conversione delle loro monete in dollari a cambio

fisso. In altri termini, così come la banca centrale degli Stati Uniti si rifiutava di

riacquistare i dollari detenuti dalle altre banche centrali o da non residenti vendendo

oro a 35 dollari l’oncia, le banche centrali degli altri Paesi, di fatto quelli creditori, si

rifiutavano di acquistare dollari vendendo in contropartita a prezzo fisso marchi,

franchi svizzeri e yen. L’acquisto sarebbe avvenuto in un caso o nell’altro, ma ad

effettuarlo non sarebbero più state necessariamente le banche centrali, ma il mercato

e ad un prezzo di mercato. Dopo alcuni tentativi di ricucire un regime di cambi fissi o

almeno di non riconoscere ufficialmente che queste nuove condizioni

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corrispondevano all’adozione di un regime di tassi di cambio flessibili, quest’ultimo

regime si impose.

L’oro usciva di scena e non era più parte del sistema monetario internazionale

in senso stretto.

Il dollaro rimaneva liquidità internazionale in quanto detenuto nelle riserve delle

banche centrali, ma con un cambio fluttuante e senza più vincoli di convertibilità

aurea. Accanto al dollaro cominciavano ad affermarsi anche il marco tedesco e lo

yen come liquidità internazionale, in quanto monete di grandi Paesi creditori. La

struttura finanziaria dell’economia mondiale si scindeva in tre parti: la prima era

costituita da un ristretto gruppo di Paesi creditori (Giappone, Germania, Svizzera,

Olanda e alcuni Paesi dell’OPEC), la seconda dal settore di intermediazione

finanziaria svolta dalle grandi banche internazionali, dal FMI, dalla BM e da

alcune banche di sviluppo regionali (BID, Banca Africana di Sviluppo, Banca

Asiatica di Sviluppo, etc.) e la terza era rappresentata dagli altri Paesi

industrializzati (Gran Bretagna, Francia e Italia), dai Paesi in via di sviluppo, dai

Paesi dell’ex blocco socialista e da alcuni Paesi dell’OPEC indebitati (come ad

esempio la Nigeria).

I grandi cambiamenti intervenuti all’inizio degli anni Settanta nei sistemi

monetario e finanziario internazionale spiazzarono le due grandi organizzazioni

create con la Conferenza di Bretton Woods.

La fluttuazione generalizzata delle monete e l’espansione dei mercati privati dei

capitali e dell’attività bancaria internazionale hanno reso incerto il codice di

condotta della BM e per il FMI venivano messi in forse sia il codice di condotta,

sia addirittura le ragioni della sua esistenza.

Ma come spesso avviene con le burocrazie, esse una volta in essere tendono a

perpetuarsi ritagliandosi delle nuove competenze. E così è avvenuto che il FMI

negli anni Settanta si è occupato del traghettamento del mercato da un regime di

cambi fissi ad un regime di cambi flessibili, e che la BM e il FMI si sono

fortemente interessate negli anni Ottanta al problema del debito dei Paesi in via

di sviluppo. Negli anni Novanta entrambe manifestano un grande interesse per il

difficile problema del ritorno all’economia di mercato dei Paesi dell’Est europeo.

Sennonché, a questo punto la linea di demarcazione delle competenze delle due

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Istituzioni è diventata meno netta. Per la verità, questo parziale rimescolamento

di carte era già avvenuto da qualche tempo.

A partire dagli anni Ottanta, ad esempio, il Fondo ha cominciato ad interessarsi

non solo di equilibrio nella bilancia dei pagamenti dei Paesi avanzati e di regolare

il funzionamento del mercato dei cambi, ma anche di sviluppo economico a

lungo termine dei Paesi poveri, mentre la Banca si è sempre più interessata al

contesto macroeconomico in cui avvenivano i suoi interventi. Non passa giorno o

almeno settimana che il FMI o la BM non inviino i loro specialisti a offrire

finanziamenti e ad aprire la porta ad altri finanziamenti dei Governi dei Paesi

ricchi o delle banche private, in cambio di contropartite quali la svalutazione di

una moneta dal cambio irrealistico, la riduzione dei sussidi all’agricoltura,

l’adozione di un programma di privatizzazioni e dismissioni di aziende

pubbliche, l’apertura del Paese agli investi-menti stranieri, cioè in cambio

dell’adozione di una economia maggiormente di mercato. Ma se è vero che tutto

ciò va al di là dei compiti per i quali il FMI e la BM sono stati creati, è opportuno

ora cercare di riprendere il filo della strategia di inter-vento di queste Istituzioni

per valutare quali funzioni il FMI e la BM hanno esercita-to effettivamente negli

anni trascorsi e quale dovrebbe essere la direzione del loro intervento negli anni

che verranno e, infine, se tali funzioni ancora presuppongono una separazione

delle due Istituzioni o eventualmente conducono all’esigenza di creare un’unica

superagenzia economica nell’ambito delle Nazioni Unite.

Un esame approfondito delle finalità e dei metodi del FMI e della BM sembra

necessario per diversi motivi.

Il primo è che, attualmente nei Paesi in via di sviluppo le due Istituzioni si

trovano di fronte ad un clima che è molto cambiato. Fino a pochi anni fa, il

problema era convincere in merito alla necessità di adottare quelle politiche di

maggiore aderenza alle leggi del mercato che si poteva chiamare l’insieme degli

“insegnamenti ortodossi del Fondo e della Banca”.

Oggi, quest’ortodossia è abbracciata un po’ da tutti così radicalmente che Fondo

e Banca si trovano spesso scavalcati dai responsabili della politica economica dei

Paesi a cui inviano le loro missioni.

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Il secondo motivo è che i problemi dell’Europa orientale non sono solo quelli

classici delle medicine e dei rimedi allo squilibrio economico e al sottosviluppo,

ma sono quelli di smantellare un sistema di economia centralizzata e fare

funzionare un sistema di economia di mercato con alla base la proprietà privata e

una legislazione contrattuale oggi inesistente.

La terza ragione è che in molti casi, in questi ultimi anni, il FMI e la BM sono

stati spesso accusati di avere fatto più danni che altro. Non vi è il rischio che

nuovi errori, negli anni a venire, possano generare un risentimento nei confronti

delle due sorelle di Bretton Woods tale da riflettersi negativamente sulla loro

immagine per molti anni?

Si è visto che il Fondo, nel tempo, ha trovato un controbilanciamento alla

declinante importanza della sorveglianza e della condizionalità in una crescente

attività di prestiti.

Nel 1963 esso ha aperto lo sportello della compensatory financing facility.

Concede cioè ai suoi membri di compensare eventuali cadute nei ricavi di vendita

delle loro esportazioni di materie prime con prestiti da ripagare utilizzando i

proventi derivanti dai più elevati prezzi delle medesime nel periodo successivo.

Alla fine degli anni Settanta ha creato un buffer-stock financing facility.

Nel 1974 una special oil facility e una extended fund facility da ripagare in 5 anni

invece di 3 come le precedenti.

Nel 1976 ha costituito un trust fund utilizzando i proventi di 50 milioni di once

del suo oro, da destinare ai Paesi più poveri a condizioni facilitate (in questo

modo il Fondo entrava nel terreno tipico della BM). Ma è solo negli anni Ottanta,

con la crisi debitoria dei Paesi in via di sviluppo che questo ingresso diventa una

vera e propria intromissione.

Anche gli interventi della BM subivano ampie modificazioni nel corso degli

ultimi cinquant’anni. Nata alla fine degli anni Quaranta come Banca

internazionale di ricostruzione e sviluppo (BIRS), originariamente fu la

ricostruzione dell’Europa a rivestire un carattere di priorità, ma in questo compito

il suo ruolo fu offuscato dal Piano Marshall. Già negli anni Cinquanta essa

rivolgeva la sua attenzione ai problemi di sviluppo del terzo mondo e i primi

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interventi furono diretti al finanziamento delle infrastrutture quali strade, le vie

ferrate, le centrali elettriche, i porti e gli aeroporti.

E’ solo negli anni Sessanta che ci si rende conto della necessità di un piano

organico di interventi nel campo dell’irrigazione dei suoli agricoli,

dell’istruzione, dello sviluppo dei centri urbani, della sanità.

Per evitare di confondere i finanziamenti fatti a condizioni di mercato con quelli

che necessariamente dovevano essere fatti a condizioni facilitate, fu creata la

International Development Agency (IDA). La BIRS e l’IDA non sono due entità

in alcun modo separate, ma sono due etichette che la Banca attribuisce a due tipi

diversi di finanziamento.

Il danaro che viene prestato dalla BIRS viene raccolto mediante la vendita di

obbligazioni sul mercato internazionale e frutta un interesse di mercato ai

sottoscrittori di tali titoli. I prestiti dell’IDA sono invece facilitati. Infatti, in

questo caso il danaro viene raccolto non attraverso accensione di prestiti, ma

mediante delle vere e proprie sottoscrizioni ottenute dai Paesi più ricchi. I prestiti

dell’IDA vengono concessi ai Paesi più poveri – e cioè a quelli con reddito pro-

capite di meno di 600 dollari all’anno – al tasso dell’1% e sono rimborsabili in

cinquant’anni. Per avere una idea delle somme in parola, si ricorda che i prestiti

in essere della BIRS all’inizio degli anni Novanta erano pari a 91 miliardi di

dollari e quelli dell’IDA a poco meno della metà.

Durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta la Banca ha concesso prestiti

finalizzati al finanziamento di progetti e destinati soltanto a governi, agenzie

governative o imprese pubbliche e sempre con la garanzia del governo. Così, nel

1956 per effettuare finanziamenti ad imprese private e senza la garanzia

governativa fu deciso di creare una nuova affiliata della Banca, la International

Financial Corporation (IFC).

Nel corso del tempo la Banca ha sviluppato delle procedure per tenere sotto

continua osservazione l’evoluzione dei finanziamenti concessi. Essa valuta

periodicamente la validità tecnologica dei progetti e stima il rendimento

economico, la fornitura dei materiali e la qualità della manodopera.

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Piano piano, però, nel corso del tempo la BM si è resa conto che gran parte del

beneficio dei suoi progetti nel campo dell’energia, dell’industria e dei trasporti

dipendeva dal quadro macroeconomico nel quale il suo intervento si collocava.

In particolare, il saggio medio di rendimento dei vari progetti spesso poteva

variare dall’8% al 20% a seconda che vi fossero:

1. elevate tariffe doganali o contingentamenti o stringenti barriere non tariffarie;

2. un tasso di cambio irrealistico come testimoniato da differenze elevate fra il tasso

ufficiale e quello praticato sul mercato nero;

3. tassi di interesse tenuti artificialmente bassi e negativi in termini reali;

4. un deficit di bilancio superiore all’8% del PIL.

La situazione era migliore allorché i quattro punti indicati fossero caratterizzati

da maggiore ortodossia nella gestione della politica commerciale, valutaria,

monetaria e fiscale. In altre parole, un buon progetto in una cattiva economia

probabilmente si trasformava in un cattivo progetto: se ciò era vero, le condizioni

del prestito dovevano guardare all’economia nel suo complesso. E non soltanto,

come avveniva prima con riferimento alla situazione economica dello specifico

settore interessato dal progetto e dal prestito. Si trattava di andare ad influire sul

contesto economico generale. Così, a partire dal 1970 e con più sistematicità

negli anni Ottanta, la Banca ha concesso prestiti di aggiustamento strutturale

(SALS) o prestiti di aggiustamento settoriale (FECALS). Questi ultimi miravano

a dare un contributo alle riforme economiche nel quadro di un certo settore. Ad

esempio, si concedeva un prestito al fine di vedere liberalizzato il commercio, o

deregolamentata la finanza, o riformati i prezzi agricoli. I SALS e i FECALS nel

loro complesso furono la caratteristica degli anni Ottanta. Ma a questo punto è

chiaro che la Banca di fatto ha cominciato ad adottare un’ottica sempre più

macroeconomica e simile quindi a quella del Fondo.

Questa strategia divenne ancora più chiara allorché si delineò nell’estate del 1982

la crisi debitoria di molti Paesi del terzo mondo e specialmente del Messico e di

altri Stati situati nell’area latino-americana.

Questa crisi aveva radici assai profonde che andavano ricercate nelle politiche di

stretta creditizia e di alti tassi di interesse esercitate dagli Stati Uniti in quel

periodo. Il FMI si trovò quindi a fronteggiare una grave emergenza ed agire con

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prontezza. Il primo passo fu quello di determinare quanto i Paesi in via di

sviluppo potevano realisticamente pagare ai loro creditori e di confrontare tale

somma con il servizio del debito da fronteggiare anno per anno. Il secondo, fu di

convincere le banche commerciali a concedere nuovi finanziamenti per colmare

la differenza con l’aiuto delle risorse messe a disposizione del Fondo e della

Banca.

E’ certo che a partire dal 1982 il Fondo aveva trovato di nuovo un ruolo

conforme allo scopo originale che si era appannato negli anni Settanta:

contribuire a proteggere l’integrità del sistema monetario internazionale.

Come si è visto, però, il successo della strategia dipendeva dal fatto che la

capacità dei Paesi in via di sviluppo di ripagare i debiti crescesse più rapidamente

della crescita dei debiti stessi che si associava a tale strategia.

Verso la metà degli anni Ottanta ci si rese conto che, nonostante la debolezza del

dollaro e la discesa dei tassi di interesse, la capacità di rimborso cresceva meno

del debito e quindi la forbice si stava allargando in un senso opposto a quanto

auspicato: e ciò nonostante le cure di aggiustamento draconiane che in molti

Paesi erano state intraprese. Il fatto è che l’aggiustamento dei conti con l’estero

di 51 miliardi di dollari dal 1982 al 1985 effettuato dall’America Latina era

avvenuto non dal lato delle esportazioni, ma dalle sole importazioni. Nel

complesso la capacità di credito era diminuita e non certamente aumentata.

E’ in questo background che si colloca il “Piano Backer” presentato a Seoul nel

settembre del 1985. Il piano si limitava a mettere a contribuzione il Fondo e la

Banca (per 9 miliardi di dollari) e le banche commerciali (per 20 miliardi

destinati ai 25 Paesi maggiormente indebitati): si trattava di fatto di “prolungare”

la strategia esistente senza introdurre nessun cambiamento rilevante. Ma le

banche erano contrarie a continuare in una politica di concessione di nuovi crediti

che non sembrava portare da nessuna parte, e i Paesi in via di sviluppo non erano

ormai in grado di stringere ulteriormente la cinghia.

Era ormai evidente che non si trattava di un problema di natura congiunturale, ma

strutturale. Così si giunse nell’aprile 1989 all’adozione del “Piano Brady”,

avallato dell’Interim Committee del Fondo. Con il Piano Brady si prende atto che

la ristrutturazione dei debiti non basta, occorre anche la riduzione degli

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ammontari e il Fondo e la Banca Mondiale dovranno apprestarsi ad effettuare il

necessario finanziamento con l’aiuto dei Governi (quello giapponese contribuì

con 10 miliardi di dollari). Naturalmente, per beneficiare di questi “sconti” le

nazioni in debito dovevano sottoporsi ad alcune condizioni: il progetto pilota fu

quello del Messico, il processo di riduzione del debito messicano nel 1989

rappresenta un esempio successivamente seguito da molti Paesi indebitati. Vi è

da dire che il “deal” con il Messico non ha certo contribuito a chiarire i rapporti

fra il Fondo e la Banca. Il primo, che dovrebbe essere specializzato nell’adozione

di una prospettiva macroeconomica di breve termine, ha di fatto svolto una

funzione più importante della Banca, nonostante l’accordo fosse incentrato

tipicamente su problemi di sviluppo economico, campo di azione più tipico della

Banca stessa. Nel complesso, comunque sia, il Piano Brady si presenta come non

molto convincente: manca la precisazione dell’organismo da cui dovrebbe venire

il potere di iniziativa nella richiesta della riduzione del debito: nel caso del

Messico esso è stato il governo statunitense (si è trattato sotto questo profilo di

una circostanza molto particolare).

Un altro gruppo di Paesi molto indebitato è quello dell’area sub-sahariana. Ivi il

rapporto fra il debito e le esportazioni ha toccato addirittura il livello del 500%

(contro quello del 300% in America Latina). Una notevole parte del debito si è

generato negli anni Settanta con la extended fund facility (EFF) a cinque anni del

FMI. Nel 1986 il Fondo ha creato la structured adjustment facility (SAF) e nel

1988 la enhanced structural adjustment facility (ESAF) che si basa su criteri di

condizionalità molto più rigidi. In ogni caso, si è assistito alla continua tendenza

del Fondo di allungare la scadenza dei suoi prestiti fino ad invadere sempre di più

il campo della Banca Mondiale. Un altro motivo di imbarazzo per il Fondo è

rappresentato dal fatto che molti Paesi sono indietro nei pagamenti e questo fatto

è ancora più in contraddi-zione con la logica operativa del Fondo.

Come si vede, quindi, talvolta con piena intenzione, talvolta in modo esitante, il

Fondo Monetario ha assunto il ruolo dell’agenzia per lo sviluppo. Prima

dell’ultimo decennio, il concetto di sviluppo non veniva menzionato quando il

Fondo descriveva gli obiettivi della sua attività. Era l’aggiustamento l’elemento

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caratterizzante del suo intervento: ora invece ci si riferisce spesso al concetto

invero un po’ spurio di “aggiustamento con sviluppo”.

D’altra parte la Banca Mondiale, con i SALS e i FECALS, ha seguito una via che

l’ha spinta ad incontrare il Fondo. Sempre più spesso, come si è visto, nella

istruttoria per concedere credito non si limita ad esaminare le caratteristiche

tecniche e finanziarie dei progetti, ma pone condizioni che rientrano nella politica

fiscale e monetaria, nella politica commerciale e del cambio.

La sovrapposizione delle competenze è quasi totale. Molti governi si lamentano

di quella che appare loro una condizionalità incrociata, una unica forza di

pressione (una lobby) e spesso reagiscono dirigendo i loro sforzi nel mettere le

due Istituzioni in competizione l’una con l’altra. Ne risulta che viene sprecata una

enorme quantità di tempo, definendo anche dettagli secondari, che potrebbe

essere impiegata ad esercitare meglio la politica economica.

La distinzione originale in base alla quale il Fondo si dovrebbe occupare di

stabilizzare a breve e la Banca di riforme strutturali a medio e a lungo termine,

non sembra funzionare più. Abbassando le tariffe doganali, come richiesto dalla

Banca, si incide negativamente sulle entrate fiscali e si incrementa il deficit

pubblico contraria-mente alle indicazioni del Fondo.

Anche il tentativo di individuare nell’adesione di un Paese ad un programma del

Fondo un prerequisito per un finanziamento della Banca non ha funzionato. Ad

esempio, l’Argentina non aveva un programma del Fondo quando la Banca

decise di concedere un finanziamento di oltre un miliardo di dollari a questo

Paese, anche perché si temevano movimenti di piazza che gli Stati Uniti e gli altri

principali Paesi cercavano di evitare. E’ così che nel marzo 1989 si è giunti ad

una sorta di concordato fra le due Agenzie in merito ai criteri della loro

cooperazione: essi avrebbero dovuto consistere comunque nell’elaborazione

preventiva di uno studio di inquadramento della politica (policy framework

papers o PFP) stabilito a tre, e cioè dalla Banca, dal Fondo e dal governo

interessato, prima di procedere a qualsiasi forma di intervento. Nel complesso

questi PFP hanno funzionato in modo soddisfacente, met-tendo in luce in

anticipo problemi e difficoltà a procedere, anche se la loro applica-zione non è

stata generale: nei confronti dei Paesi dell’America Latina si sono fatte ancora

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alcune eccezioni che hanno poi comportato conseguenze negative: tentativi di

giocare una Istituzione contro l’altra da parte dei governi.

Un altro problema che le due Istituzioni hanno dovuto affrontare riguarda i

rapporti fra il valore facciale del debito e il valore di mercato del debito

medesimo dei vari Paesi.

Nel tentativo di assicurare, comunque sia, alle banche il valore da iscrivere a

bilancio del proprio debito, si è tollerato che, sotto l’egida delle due Istituzioni, si

stabilissero programmi di rescheduling che di fatto aumentavano il valore

nominale del debito anche a costo di ridurre quello di mercato. Solo con il 1989,

e quindi con il passaggio dal Piano Backer al Piano Brady, ci si è resi conto di

questo problema: si trattava di sostituire almeno in parte il concetto di debt

rescheduling con quello di debt reduction. Una riduzione del valore nominale del

debito poteva di fatto accrescere il valore di mercato delle obbligazioni al punto

da essere vantaggioso per gli stessi Paesi creditori. Si tratta in un certo senso di

una trasposizione in campo creditizio della famosa curva di Laffer, ossia è

nell’interesse delle banche stesse condonare una parte dei loro crediti, almeno

con riferimento ai Paesi più pesantemente indebitati. Il problema è che, mentre

questo è valido con riferimento all’insieme delle banche creditrici, ogni banca

che accetta una riduzione di fatto favorisce tutte le altre. Ecco quindi l’esigenza

che i sacrifici dei creditori siano coordinati da un’Istituzione centrale, ed ecco

nuovamente un compito che il Fondo o la Banca possono svolgere utilmente così

come è stato il caso nel 1989 con il piano di ristrutturazione del debito del

Messico. Alle banche è stato offerto un pacchetto di opzioni che comprendevano

danaro fresco e due tipi di exit bonds.

La garanzia sul pagamento degli interessi e del capitale veniva fornita ed era

basata su 1,3 miliardi di dollari della BM, 1,7 del FMI e 2 miliardi della

ExportImport Bank of Japan. Il negoziato fu un successo e il debito del Messico

(di 107 miliardi di dollari) fu ridotto di 15 miliardi. Il valore di mercato delle

obbligazioni messicane aumentò nettamente sul mercato secondario.

Come si vede, quindi, organizzazioni indipendenti come la BM e il FMI possono

fare molto per disinnescare la bomba dei debiti del terzo mondo sui mercati

creditizi dei Paesi economicamente avanzati.

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Ma il fatto rimane che il vero problema dello sviluppo è sempre nelle mani dei

Paesi che devono trovare nel loro interno risorse ed energie per svilupparsi.

La Banca e il Fondo, comunque sia, non riscuotono soltanto consensi, ma

alimentano anche molte critiche. C’è chi dice che si tratta delle solite agenzie che

prima di servire gli altri servono se stesse e la loro burocrazia che poco ha a che

fare con i problemi della povertà. Altri criticano invece, il fatto che si tratti di due

bracci armati dei Paesi ricchi che prescrivono cure inutili e spesso dannose ai

Paesi poveri.

Si ritorna così ad affrontare il problema della condizionalità dei prestiti che può

essere scomposto in due quesiti.

Il primo riguarda il fatto se i prestiti basati su condizioni macroeconomiche sono

effettivamente in grado di modificare la politica economica del Paese. Il secondo

è se queste eventuali modifiche danno un contributo positivo o no. In uno studio

della Banca si rileva che di fatto le condizioni che richiedevano una riforma

economica, come una maggiore aderenza del cambio alla struttura dei prezzi,

sono state soddisfatte in moltissimi casi, mentre altri tipi di raccomandazioni (per

esempio, riforme fiscali, politiche commerciali) non sono stati seguiti dalla

generalità dei Paesi. Le condizioni “imposte” dal Fondo sono state rispettate in

un numero di casi ancora minore. In un recente studio pubblicato, Jacques Polak

ha dimostrato che nel periodo più recente si è avuto un netto declino del grado di

aderenza alle condizioni fissate dal Fondo, sia in campo fiscale che in quello del

limite massimo di espansione del credito. Ciò è probabilmente dovuto alle

difficoltà generali nelle quali i Paesi in via di sviluppo si stanno dibattendo.

Rimane poi da vedere se i programmi stabiliti dalle due Istituzioni siano efficaci

o meno, specie quando essi sono impostati nel quadro di concedere crediti

miranti a finanziare l’aggiustamento. Il rischio è infatti quello che, con tali

programmi, l’aggiustamento venga ottenuto a spese dello sviluppo. Secondo

taluni, lo sviluppo economico dei Paesi che si sono impegnati in questi

programmi, non è significativamente diverso da quello delle nazioni che non

hanno fatto sforzi in proposito. Anzi, con riferimento agli investimenti, si è

potuto rilevare un certo calo. Comunque sia, i cinque Paesi che hanno ottenuto

risultati migliori sul piano dei quattro para-metri classici (PIL, risparmio,

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esportazioni ed investimenti) sono stati in ordine la Corea del Sud, le isole

Mauritius, il Marocco, il Ghana e la Tailandia e sono Paesi che hanno seguito le

indicazioni dei programmi del Fondo. Più controversa è la questione dell’impatto

dei programmi in parola sulla povertà. La svalutazione della moneta, la riforma

dei prezzi agricoli e i tagli alla spesa pubblica dovrebbero colpire il segmento più

povero del Paese, specie se vive nelle città, mentre dovrebbe favorire, almeno in

una certa misura, i poveri che vivono in campagna.

Nel complesso, comunque sia, il clima è cambiato: qualche anno fa il problema

era quello di convincere i governi a fare le riforme, ora invece in molti casi sono i

governanti che vogliono attuare riforme che vanno al di là di quelle proposte dal

Fondo o dalla Banca.

Vi è oggi un nuovo consenso intorno al problema dello sviluppo che si nutre di

quattro elementi interrelati:

1. necessità di politiche macroeconomiche sane e cioè basate su una moderazione

della spesa pubblica, su uno stringente controllo dell’indebitamento pubblico e

della creazione di moneta e sul mantenimento di un tasso di cambio realistico;

2. misure volte a promuovere l'efficienza a livello dei singoli settori industriali e

delle singole aziende. I governi sono impegnati in programmi di liberalizzazione

dei prezzi, di deregulation dei mercati, di misure protettive della concorrenza, di

smantellamento del sistema delle licenze. I governi hanno compreso che il loro

compito è solo quello di investire nelle infrastrutture e nel loro mantenimento e

devono creare un contesto nel cui ambito l’attività produttiva fiorisca. In questo

quadro, la definizione e la protezione dei diritti di proprietà sono diventati un

potere cruciale;

3. liberoscambio. La liberalizzazione deve spazzare via anche le misure

protezionistiche nei rapporti di ogni genere con l’estero. Investimenti esteri e

importazioni non devono essere scoraggiati;

4. investimenti sociali. Occorre effettuarli in un’ottica di grande consapevolezza dei

rapporti fra mezzi disponibili e utilizzo di quei mezzi. Per attrarre risorse in

questi settori occorre che gli investimenti possano godere di tassi di rendimento

assai elevati.

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I contenuti dei programmi della Banca e del Fondo riflettono queste nuove

condizioni; tuttavia molti economisti sono convinti che quest’ottica di mercato si

adatta bene ai Paesi industrializzati, ma non è opportuna in modo indiscriminato

nei Paesi in via di sviluppo.

E’ però certo che non si vuole più che i governi facciano cose come: la gestione

diretta delle industrie, il sussidio dell’attività impiegatizia pubblica attraverso le

tasse imposte all’agricoltura e la gestione del monopolio delle attività

commerciali e finanziarie con l’estero.

Queste nuove ricette vengono applicate ad un contesto che non è mai stato così

complesso.

Una ventina di Paesi dell’Europa Orientale e dell’Asia Occidentale sono

impegnati in una riforma economica che non ha precedenti e che viene fatta in

modo molto deciso.

Il Fondo e la Banca dovrebbero svolgere una funzione di guida nei confronti di

economie che potrebbero subire un collasso di grandi proporzioni. I criteri in

base ai quali Banca e Fondo prestavano risorse fino al recente passato

probabilmente dovranno essere abbandonati: la qualità dei loro prestiti in

portafoglio ne risulterà peggiorata.

Del resto la Banca ha già impegnato somme importanti nell’Europa Orientale ed

è inevitabile che ammontari molto più importanti saranno investiti nel prossimo

futuro. Anche sul piano dell’assistenza tecnica viene fatto uno sforzo su larga

scala. Numerosi esperti in sistemi di compensazione dei pagamenti, in operazioni

sui cambi e in riforma del sistema bancario sono già presenti in tutti i Paesi

dell’Europa Orientale, escludendo però i Paesi dell’ex Unione Sovietica. La

ragione è che la ex-Unione Sovietica o anche la Russia sono di dimensioni tali da

costituire un boccone assi difficile da digerire. Si pensi, ad esempio, al problema

dei diritti di voto nelle due Istituzioni da attribuire al Paese in parola. Gli

interventi delle due Istituzioni di Bretton Woods in Europa Orientale sono

complicati poi dal fatto che una terza Istituzione, la EBRD (Banca Europea per la

Ricostruzione e lo Sviluppo) è stata creata per occuparsi di questi problemi. Che

cosa debba fare la EBRD non è ancora del tutto chiaro, anche dopo alcuni anni

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dalla sua creazione. Infatti essa dovrebbe essere nel contempo banca di sviluppo

e banca di investimento.

Come banca di sviluppo deve impostare e finanziare dei progetti. Come banca di

investimento dovrebbe ristrutturare imprese, privatizzare aziende pubbliche,

creare mercati azionari, raccogliere capitali privati e attrarre investimenti esteri

da convogliare in quei Paesi.

Vi è il rischio che l’attività di una terza Istituzione, che sotto molti profili duplica

le funzioni della BM e del FMI, aumenti i problemi di coordinamento.

Il problema da definire è poi nella sostanza quello di stabilire che tipo di

finanziamento e a quali condizioni esso può essere concesso. La distinzione

tradizionale fra micro (Banca) e macro (Fondo), come si è visto, si è un po’

appannata, ma nella sostanza tiene. Certo essa dovrà essere ancora una volta

ridefinita con riferi-mento ai problemi dell’Europa Orientale che non sono di

bilancia dei pagamenti, ma sono tutti di natura strutturale.

L’approccio macroeconomico e quello microeconomico sono strettamente

connessi ovunque, ma lo sono ancora di più in Europa Orientale. Ivi il problema

è quello di rendere più stringenti i vincoli di bilancio delle imprese che erano

indeboliti a causa dei sussidi, delle esenzioni fiscali ad hoc e dei prestiti

governativi a tassi agevolati: tutto ciò contribuiva a disallocare le risorse facendo

sopravvivere e spesso prosperare imprese disastrate.

Questa situazione di assenza o quasi di vincoli di bilancio si accompagnava ad

una espansione della moneta fuori controllo, con le perdite delle imprese che si

ripercotevano indietro attraverso il sistema fiscale e il sistema bancario, fino a

riverberarsi sull’offerta di moneta.

La maggiore stringenza dei vincoli di bilancio è una riforma che deve avere

aspetti macroeconomici (come, ad esempio, l’abolizione dei sussidi, un

trattamento fiscale opportuno, una safety net per i lavoratori delle imprese che

vengono chiuse) e aspetti microeconomici (riforma bancaria, abolizione dei

monopoli, privatizzazione, legge fallimentare): in questo senso, in nessun’altra

area geografica la collaborazione fra la Banca e il Fondo può essere più

necessaria.

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Vi è peraltro da dire che mentre in altri Paesi il Fondo e la Banca hanno ben

chiara la loro linea di interventi, nell’Est Europeo ci si trova di fronte ad un

territorio inesplorato e non vi è chiara idea di quali sono i precetti economici da

adottare, nemmeno in un settore dei più importanti nel quale il Fondo dovrebbe

disporre di un ampio bagaglio teorico e pratico, quello dei tassi di cambio. La

Polonia e la Repubblica Ceca hanno così adottato un regime di cambi fissi,

l’Ungheria un regime di cambi fissi ma aggiustabili, la Romania un sistema di

cambio doppio per transazioni commerciali e finanziarie e la Bulgaria un sistema

di fluttuazione.

In conclusione può dirsi che è corretto affermare che le due Istituzioni, così come

qualunque tipo di burocrazia, hanno avuto soprattutto il compito di sopravvivere

e di svilupparsi. Ma può anche dirsi che esse sono riuscite ad adattarsi

duttilmente alle esigenze di un mondo che cambia.

Hanno reagito con rapidità ai problemi del sistema monetario internazionale degli

anni Sessanta inizio anni Settanta, alle crisi petrolifere degli anni Settanta, alla

crisi debitoria dei Paesi in via di sviluppo della prima parte degli anni Ottanta e ai

problemi connessi con il collasso del comunismo degli anni Novanta. Si può dire

che se esse non fossero esistite non sarebbe stato possibile formulare rapidamente

soluzioni a questi problemi e il mondo non sarebbe stato quello che è stato. E’ un

errore ritenere che i loro compiti dovessero limitarsi a quelli determinati nel

1944. Alla sorveglianza di un sistema monetario internazionale basato sui

principi che non esistono più (per il Fondo) e alla realizzazione e finanziamento

di grandi progetti (per la Banca) si sono succeduti compiti diversi, ma non poi

molto diversi nello spirito da quelli previsti dai Paesi fondatori. Si tratta sempre

di promuovere la cooperazione economica internazionale e la multilateralità

dell’uso dei mezzi di pagamento.

Negli anni Quaranta e Cinquanta il mercato internazionale dei capitali non

esisteva quasi per nulla, mentre oggi esso incanala enormi quantità di danaro che

possono finanziare qualsiasi progetto in qualsiasi Paese, purché valido sotto il

profilo competitivo. Il mercato deve decidere quali Paesi sono affidabili e quali

non lo sono. E allora quale è la ragione logica per concedere finanziamenti al

settore pubblico al di fuori di criteri strettamente di mercato? Si potrebbe dire che

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questa logica è quella di favorire l’afflusso di capitali a condizioni facilitate per

finanziare investimenti che non sarebbero trovati attraenti dai mercati, ma che

sono indispensabili, influendo nel contempo sulla politica economica generale

dei vari Paesi al primo sintomo di difficoltà e catalizzando investitori che

altrimenti non si avventurerebbero in Paesi non industrializzati. La concessione

effettiva di un prestito ad un certo Paese è certamente più incisiva, come segnale,

che la fissazione di una valutazione del debitore da parte di agenzie specializzate.

Come si vede, il problema non è quello di fare tornare Fondo e Banca alle loro

funzioni originarie determinate a Bretton Woods. Il problema è quello di rendere

le due Istituzioni sempre più adatte ad affrontare le nuove sfide degli anni futuri e

soprattutto quelle connesse con il processo di ricostruzione e di sviluppo dell’Est

europeo.

La specializzazione fra le due Istituzioni, fra macro e micro, potrà sembrare

superflua in molti casi, e lo è stata spesso negli ultimi anni, ma in definitiva sarà

più benefica che dannosa. L’esigenza di approcci diversificati, anche se

integrabili, non è destinata a scomparire del tutto e anzi è probabile che in futuro

sarà di nuovo utile o addirittura indispensabile per affrontare con successo i

problemi dell’economia, della finanza, della moneta internazionali.

4. Aree di integrazione economica

(Unione Europea, Nafta, Efta, Asean,

Apec, Mercosur, …)

L’integrazione economica a livello regionale (o regionalismo), può definirsi

come il processo attraverso il quale si assiste alla riduzione del significato

economico dei confini politici nazionali entro una determinata area geografica. In

altre parole, Stati per lo più contigui stringono legami fra loro per dare vita a

forme più o meno complete e complesse di integrazione.

Si possono individuare alcune tra le motivazioni principali che stanno alla base

della crescita del fenomeno del regionalismo negli ultimi anni:

la continua espansione geografica dell’Unione Europea, nonché il continuo suo

perfezionamento e rafforzamento su molti fronti (mercato unico, moneta unica,

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ecc.). Questo ha comportato una sempre più crescente chiusura dei Paesi membri

dell’UE nei confronti degli altri Paesi, i quali per reagire a questa sorta di

“emarginazione” hanno cercato anch’essi di legarsi in forme simili di

integrazione regionale;

la dissoluzione delle organizzazioni economiche di cooperazione dell’Europa

dell’est avutasi in seguito al crollo del regime comunista;

l’affermazione anche nell’America del Nord di una realtà di cooperazione

regionale, il NAFTA, che ha prodotto per i Paesi non membri effetti simili a

quelli più sopra citati per l’UE;

i notevoli vantaggi che genera un accordo regionale in termini di possibilità di

instaurare rapporti commerciali privilegiati fra i Paesi partecipanti;

la maggiore “forza contrattuale” che possiede un gruppo di nazioni unite a

formare un grande mercato, nel momento in cui si negoziano con il resto del

mondo le regole del commercio internazionale.

Il successo delle intese a livello regionale dipende da diversi fattori, fra cui: un

ampio numero di nazioni partecipanti; strutture industriali simili e il più possibile

competitive; l’esistenza di strette relazioni prima della conclusione dell’accordo

regionale; la presenza fra i membri di potenze economiche di primo piano.

Inoltre, l’intesa avrà tanto più successo quanto più si riusciranno a combinare i

punti di forza e di debolezza di ciascuno degli aderenti all’accordo.

Si è già detto in precedenza che esistono diversi gradi di integrazione a livello

regionale:

area di libero scambio (free trade area, FTA), in base alla quale gli Stati

partecipanti si impegnano a rimuovere le tariffe doganali ed i tetti quantitativi

alle importazioni nei confronti degli altri firmatari. Nella FTA ciascun membro

mantiene l’autonomia decisionale riguardo alla propria politica commerciale nei

confronti dei Paesi non aderenti. Il difetto di questo tipo di accordo è che le

politiche protezionistiche messe in atto da un membro nei confronti dei Paesi

terzi possono essere facilmente eluse: un Paese esterno, infatti, potrebbe

intrattenere rapporti commerciali con lo Stato membro che pratica le tariffe più

basse, in modo che i suoi prodotti, una volta entrati nella FTA, possano arrivare

liberamente anche ai Paesi membri che hanno invece applicato verso l’esterno,

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politiche protezionistiche. Per evitare tali inconvenienti, le FTA più avanzate

prevedono meccanismi che rendono possibile determinare l’origine di ciascuna

merce scambiata fra i Paesi membri;

unione doganale, che si basa sui medesimi principi della FTA con in più

l’adozione di una comune politica di tariffe verso l’esterno dell’area. Questo

elimina il difetto sopraccitato tipico della zona di libero scambio;

mercato comune, con il quale si eliminano interamente tutte le barriere che

impediscono il libero scambio dei Paesi partecipanti. Inoltre, è prevista la libertà

di stabilimento delle imprese originarie di uno Stato membro all’interno

dell’area. I benefici del mercato unico riguardano in definitiva le merci (inclusi i

fattori della produzione), i servizi, le persone e i capitali;

unione economica e monetaria, caratterizzata dall’adozione di una moneta unica

e comune a tutti gli Stati membri. In questo caso, è necessaria la costituzione di

organismi sovranazionali, quale ad esempio una banca centrale, con il compito di

coordinare i vari campi d’azione della politica economica dei Paesi aderenti;

unione politica ed economica, la quale rappresenta il passo finale

dell’integrazione regionale. Si tratta in sostanza di un’unione federale dei Paesi

membri, con organismi comuni che gestiscono gli aspetti che riguardano l’intera

federazione. Ne deriva una limitazione della sovranità dei singoli Stati agli affari

esclusivamente locali. Inoltre, le persone appartenenti ai Paesi membri

acquisiscono tutte la medesima cittadinanza.

La tabella che segue riassume schematicamente quanto appena detto sui diversi

livelli di integrazione regionale.

In conclusione, vengono analizzati, in breve, i principali accordi regionali

effettivamente realizzati nel mondo, con l’esclusione dell’Unione Europea, alla

quale è stata dedicata l’intera Parte Seconda.

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233

LIVELLI DI INTEGRAZIONE REGIONALE.

(Tipologia di accordo)

Soppressione delle tariffe interne

Tariffa esterna comune

Libera circolazione dei fattori di produzione e delle persone

Armonizzazione delle politiche economiche

Gestione accentrata delle politiche monetarie ed economiche

Organismi comuni sovranazionali di gestione federale

Area di libero scambio

SI NO NO NO NO NO

Unione doganale

SI SI NO NO NO NO

Mercato comune

SI SI NO SI NO NO

Mercato interno

SI SI SI SI NO NO

Unione economica e monetaria

SI SI SI SI SI NO

Unione politica ed economica

SI SI SI SI SI SI

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234

4.1. Accordi regionali di carattere

economico

• NAFTA (North American Free Trade Agreement): è un accordo di libero scambio

con controlli dell’origine dei prodotti, sottoscritto da Stati Uniti, Canada e Messico il

17 dicembre 1992 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994. L’accordo (che in origine

non includeva il Messico ed era noto sotto l’acronimo CUSFTA, Canada and United

States Free Trade Area) interessa quasi 400 milioni di abitanti e punta alla

progressiva eliminazione (in 15 anni) delle barriere doganali tra i Paesi firmatari. Per

definire determinate questioni, l’intesa consente anche la stipulazione di accordi

bilaterali fra i sui membri. Gli scopi principali dell’Accordo sono:

1. eliminare le barriere alle importazioni e facilitare il movimento intra-area

di beni e servizi tra i territori delle parti;

2. promuovere le condizioni di leale concorrenza nell’area di libero scambio;

3. incrementare le opportunità di investimento nei territori delle parti;

4. fornire protezione adeguata ed effettiva e rinforzare i diritti di proprietà

intellettuale nel territorio di ogni parte;

5. creare procedure efficaci per l’implementazione e l’applicazione di questo

accordo, per le sue amministrazioni congiunte e per la risoluzione delle

controversie;

6. stabilire un quadro per una ulteriore cooperazione trilaterale, regionale e

multilaterale, al fine di espandere e accrescere i benefici di questo accordo.

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235

• EFTA (European Free Trade Area): fu istituita nel 1960 su iniziativa della Gran

Bretagna con la finalità di liberalizzare il commercio dei prodotti industriali, in

contrapposizione alla Comunità Europea. Attualmente vi aderiscono la Norvegia, la

Svizzera, l’Islanda e il Liechtenstein. Gran Bretagna, Portogallo, Austria, Finlandia,

Danimarca e Svezia sono usciti dall’accordo per aderire all’Unione Europea. Dal 1°

gennaio 1994 è in vigore lo Spazio Economico Europeo (SEE), che riunisce i

quindici Paesi dell’UE e tre Paesi dell’EFTA (Islanda, Liechtenstein e Norvegia).

• ASEAN (Association of South-East Asian Nations): è stata istituita a Bangkok l’8

agosto 1967 e comprende Thailandia, Malesia, Indonesia, Filippine, Singapore

(mmbri fondatori), Brunei dal 1984, dal 1995 Vietnam e dal 1997 Cambogia, Laos e

Birmania. A questi Paesi si aggiunge Papua Nuova Guinea con lo status di

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236

osservatore. Gli obiettivi dell’Associazione sono indicati nel punto secondo della

dichiarazione e possono ricondursi a quelli della cooperazione in campo politico,

economico e sociale. Per il raggiungimento di tali obiettivi il punto terzo prevede

l’istituzione di una Riunione ministeriale dell’ASEAN (riunione annuale dei ministri

degli esteri), un Comitato permanente, Comitati ad hoc e Comitati permanenti di

specialisti su argomenti specifici e, infine, un Segretariato nazionale in ogni Paese

membro.

• APEC (Cooperazione Economica Asia-Pacifico): fanno parte di questa intesa

venti Paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Cina, Corea del Sud, Filippine,

Giappone, Indonesia, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Perù,

Russia, Singapore, Taiwan, Tailandia, Stati Uniti e Vietnam. Siglata nel 1989,

l’intesa si propone di fare dell’area Asia-Pacifico un polo di promozione del libero

scambio.

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• Mercosur (Mercato Comune del Cono Sud): è nato con il Trattato di Asuncion

del 26 marzo 1991 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 1995. Riunisce Brasile,

Argentina, Paraguay e Uruguay nella prima zona di libero scambio dell’America

Meridionale. Bolivia e Cile sono Paesi associati. Si tratta di un’unione doganale con

un sistema di tariffe esterne unico ed un coordinamento delle politiche

macroeconomiche. I ministri degli esteri e dell’economia dei Paesi membri

compongono il Consiglio del Mercato Comune. Il Segretariato del Mercosur ha sede

a Montevideo.

• CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo): istituito ad Abu Dhabi il 26 maggio

1981 per un coordinamento economico, politico, culturale, militare e sociale degli

Stati del Golfo Persico, riunisce Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti,

Kuwait, Oman e Qatar. Il Segretariato permanente ha sede a Riyadh, capitale

dell’Arabia Saudita.

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• CEDEAO/ECOWAS (Comunità Economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest): ne

fanno parte sedici Paesi: Benin, Burkina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia,

Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal,

Sierra Leone, Togo. Fu istituita nel 1975 col Trattato di Lagos, modificato nel 1993,

per promuovere la cooperazione e l’integrazione degli Stati membri in vista di una

completa unione economica della regione. Organi principali sono la Conferenza dei

Capi di Stato e di Governo, le Commissioni specializzate e il Segretariato esecutivo,

con sede ad Abuja, capitale della Nigeria.

4.2. Accordi regionali di carattere non

prettamente economico

Fra le organizzazioni internazionali economico-commerciali di carattere

regionale che non hanno come principale obiettivo unicamente la costituzione di

aree di integrazione economica si possono infine ricordare:

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• Consiglio d’Europa, istituito il 5 maggio 1949 con l’intento di salvaguardare il

patrimonio comune di ideali degli Stati membri e garantire il rispetto dei diritti umani

e delle libertà fondamentali. Ne fecero parte in origine: Belgio, Danimarca, Francia,

Regno Unito, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi e Svezia. A questi

Paesi si sono aggiunti: Grecia, Turchia, Islanda e Repubblica Federale di Germania

nel 1950; Austria nel 1956; Cipro nel 1961; Svizzera nel 1963; Malta nel 1965;

Portogallo nel 1976; Spagna nel 1977; Liechtenstein nel 1978; San Marino nel 1988;

Finlandia nel 1989; Ungheria nel 1990; Polonia nel 1991; Bulgaria nel 1992; Estonia,

Lituania, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania nel 1993; Andorra nel

1994; Lettonia, Albania, Moldova, Macedonia e Ucraina nel 1995; Russia e Croazia

nel 1996; Georgia nel 1999. Gli organi del Consiglio d’Europa sono: il Comitato dei

Ministri (ministri degli esteri dei Paesi membri); l’Assemblea parlamentare (i cui

membri sono eletti dai Parlamenti nazionali in proporzione alla popolazione dei

rispettivi Paesi); il Segretariato, con sede a Strasburgo.

• Consiglio Nordico, composto da 87 delegati con diritto di voto eletti dai

Parlamenti nazionali e da circa 80 rappresentanti dei Governi (senza diritto di voto),

è un Organismo consultivo interparlamentare, istituito il 16 marzo 1952 per favorire

la cooperazione economico-sociale fra Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia e

Finlandia. Il Segretariato ha sede a Stoccolma.

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• CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), istituita il 21 dicembre 1991 ad

Alma-Ata dalla maggior parte delle Repubbliche federative che formavano l’ex

URSS: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia,

Russia, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan. Nel 1993 si è aggiunta la

Georgia, mentre le tre Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) ne sono

rimaste definitivamente fuori. La CSI riunisce le dodici Repubbliche in un’unione “a

maglie larghe”, priva di proprie strutture parlamentari ed esecutive. Il Segretariato ha

sede a Minsk. Organi supremi sono il Consiglio dei Capi di Stato e il Consiglio dei

Capi di Governo, che si riuniscono di regola due volte l’anno. Sono previsti anche

Comitati ministeriali per il coordinamento dei vari settori.

• Lega Araba, istituita col Trattato del Cairo del 22 marzo 1945, essa consiste in

un’alleanza di carattere politico-economico-militare che si propone di coordinare

l’attività degli Stati arabi. Ne fanno parte: Algeria, Arabia Saudita, Bahrein, Comore,

Egitto, Emirati Arabi Uniti, Gibuti, Giordania, Iraq, Kuwait, Libano, Libia, Marocco,

Mauritania, Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Oman, Qatar,

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241

Siria, Somalia, Sudan, Tunisia, Yemen. Organo principale della Lega è il Consiglio,

che si riunisce due volte all’anno (normalmente a livello di ministri degli esteri); le

sue decisioni vincolano soltanto i membri che hanno votato a favore. Il Consiglio è

assistito da numerosi Comitati e dal Segretariato. Nel 1950 sono stati creati tre nuovi

organismi: il Consiglio di difesa comune, la Commissione permanente militare e il

Consiglio economico. La Lega ha sede al Cairo.

• OAS/OEA (Organizzazione degli Stati Americani), istituita nel 1948 con la Carta

di Bogotà (Colombia) ed in vigore dal 1951 (modificata nel 1965 e nel 1985), si

prefigge il compito di garantire la pace e la sicurezza tra gli Stati americani, di

rafforzarne la collaborazione e di proteggerne l’indipendenza, di promuoverne lo

sviluppo economico, sociale e culturale e di favorire la loro integrazione economica.

L’OAS riunisce attualmente tutti gli Stati del continente americano (dal 1962 Cuba è

sospesa dalla partecipazione alle sue attività). Suo organo principale è l’Assemblea

Generale, la quale si riunisce ogni anno per deliberare sulla politica e sull’attività

dell’Organiz-zazione. L’Assemblea è supportata da numerosi Consigli (economico-

sociale, per l’istruzione e la cultura e, di particolare importanza, il Consiglio

dell’OAS, organo permanente, composto da un rappresentante per ognuno degli Stati

membri, al quale sono attribuiti particolari poteri di carattere politico) e dal

Segretariato, che ha sede a Washington.

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242

• OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries), è stata fondata a

Baghdad nel 1960 come una organizzazione intergovernativa permanente in

conformità alle risoluzioni della Conferenza dei rappresentanti dei Governi

dell’Arabia Saudita, Iraq, Iran, Kuwait, Venezuela, con l’obiettivo di difendere le

rispettive economie dalla flessione del prezzo del petrolio, imposta dalle grandi

compagnie petrolifere internazionali. In particolare, il secondo articolo dello statuto

dell’Organizzazione dice:

a) lo scopo principale dell’Organizzazione sarà il coordinamento e l’unificazione

delle politiche petrolifere dei Paesi membri e la determinazione dei mezzi più

efficaci per la salvaguardia dei loro interessi, individuali e collettivi;

b) l’Organizzazione programmerà metodi e mezzi per assicurare la stabilizzazione

dei prezzi sui mercati internazionali del petrolio allo scopo di eliminare

fluttuazioni dannose e non necessarie;

c) sarà data la dovuta considerazione in ogni momento agli interessi delle nazioni

produttrici e alla necessità di assicurare un reddito stabile ai Paesi produttori; un

rifornimento efficiente, economico e regolare di petrolio ai Paesi consumatori; un

equo profitto sul capitale a quelli che investono nell’industria petrolifera.

Aderiscono all’OPEC quasi tutti i maggiori produttori di greggio del mondo, fra

cui: Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Iran, Iraq, Kuwait,

Libia, Nigeria, Qatar e Venezuela. L’Organizzazione è dotata di tre organi: la

Conferenza (suprema autorità), il Consiglio dei Governatori e il Segretariato, con

sede a Vienna.

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243

• OUA (Organizzazione dell’Unità Africana), istituita nel 1963 con la Conferenza

tenutasi ad Addis Abeba, riunisce attualmente tutti gli Stati del continente ad

eccezione del Marocco (che è uscito per protesta nel 1984). L’OUA si propone di

rafforzare l’unità politica e la cooperazione fra i Paesi membri e di affrancare

definitivamente il continente africano dalla dominazione coloniale. Suoi organi sono:

la Conferenza dei Capi di Stato e di Governo (organo principale); il Consiglio dei

ministri degli esteri; la Commissione di Arbitrato; il Comitato di coordinamento per

la liberazione dell’Africa; il Segretariato permanente, che ha sede ad Addis Abeba.

• PC (Comunità del Pacifico), è un’Organizzazione non politica che fornisce assi-

stenza per lo sviluppo economico-sociale e culturale a tutti i Paesi della regione. Fu

creata il 6 febbraio 1947 su iniziativa di Australia, Francia, Nuova Zelanda, Regno

Unito, Paesi Bassi (che hanno cessato di farne parte nel 1962) e Stati Uniti.

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Attualmente vi aderiscono 27 Paesi. Organi principali della Comunità sono la

Conferenza del Pacifico del Sud, che si riunisce annualmente, il Comitato dei

rappresentanti dei Governi e delle Amministrazioni e il Segretariato, con sede a

Noumea (Nuova Caledonia).

• SADC (Comunità per lo Sviluppo dell’Africa del Sud), è stata fondata nel 1992

per promuovere la cooperazione in vista della creazione di un mercato comune regio-

nale. I Paesi partecipanti sono: Angola, Botswana, Repubblica Democratica del

Congo, Lesotho, Malawi, Maurizio, Mozambico, Namibia, Seychelles, Sudafrica,

Swaziland, Tanzania, Zambia, Zimbawe. I suoi organi più importanti sono: la

Conferenza dei Capi di Stato o di Governo, il Consiglio dei ministri e il Segretariato,

con sede a Gaborone, capitale del Botswana.

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• SELA (Sistema Economico Latino-Americano), trattasi di un sistema permanente

di consultazione interregionale e di cooperazione nel progresso economico e sociale,

costituito a Panama nell’ottobre 1975. E’ composto da tutti i Paesi dell’America

Centrale e Meridionale ed ha come organi di governo il Consiglio Latino-Americano,

vari Comitati e il Segretariato, con sede a Caracas, capitale del Venezuela.

• Unione Europea: rinvio alla dispensa ad hoc

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APPENDICE: L’ITALIA NELLA NUOVA GEO-ECONOMIA DEL G20 di Marco Fortis* (18.1.2010)

1. Introduzione: i nuovi scenari globali La geo-economia sta cambiando sempre più rapidamente con la prepotente ascesa dei

Paesi emergenti, in particolare Cina e India, come indicano le statistiche sul Prodotto

Interno Lordo (PIL).

Già negli ultimi quindici anni i cambiamenti sono stati considerevoli ma nei prossimi

2-3 decenni potrebbero divenire addirittura epocali.

Le più note previsioni elaborate recentemente sull’evoluzione a lungo termine del

PIL mondiale e dei PIL dei principali Paesi sono due: quelle della Goldman Sachs e

quelle dell’economista e storico Angus Maddison pubblicate dall’OECD2. Le prime

sono proiezioni espresse in dollari USA 2003 a cambi correnti; le seconde sono

Invece espresse in dollari “internazionali” 1990 a parità di potere d’acquisto e

raffrontano le dimensioni dei PIL dei diversi Paesi a parità di potere di acquisto.

Secondo queste ultime già oggi i PIL di grandi Paesi emergenti come Cina e India

risultano, in realtà, considerevolmente più elevati di quanto non appaia dai dati

comparati secondo i normali tassi di cambio.

Le proiezioni della Goldman Sachs sono diventate famose perché incentrate sui

“sorpassi”, più o meno imminenti, che i PIL dei cosiddetti BRICs (Brasile, Russia,

India, Cina) effettueranno a discapito dei PIL dei Paesi delle vecchie 6 più grandi

economie avanzate o G-6 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia

e Italia).

Tali proiezioni (tabella 1) indicherebbero che:

• già nel 2016 il PIL della Cina supererà quello del Giappone;

• nel 2023 il PIL della Cina supererà quello aggregato dei 4 maggiori Paesi europei;

• nel 2039 il PIL dell’India supererà quello aggregato dei 4 maggiori Paesi europei;

*Vice presidente Fondazione Edison e docente di Economia industriale e commercio estero presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano. Questo studio è stato svolto in collaborazione con Aspen Institute Italia

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nello stesso anno il PIL aggregato dei 4 BRICs sorpasserà il PIL del G-6;

• nel 2041 la Cina diventerà la maggiore potenza economica mondiale poiché il suo

PIL supererà quello degli Stati Uniti.

Le proiezioni di Maddison (tratte dalla seconda edizione dello studio citato in nota,

pubblicato originariamente nel 1998) avvicinano notevolmente sotto il profilo

temporale il momento dei “sorpassi” delle nuove potenze asiatiche ai danni di USA

ed Europa, perché i valori dei PIL dei diversi Paesi sono espressi in dollari a parità di

potere di acquisto. In tal modo si tiene conto del diverso livello dei prezzi interni dei

Paesi emergenti rispetto ai maggiori Paesi avanzati. I PIL dei Paesi emergenti, così

espressi “in volume” mediante le parità di potere di acquisto, risultano di dimensioni

maggiori di quanto non apparirebbe se fossero semplicemente convertiti a tassi di

cambio correnti dalle rispettive valute nazionali in dollari, cioè nella normale moneta

di raffronto internazionale. Nel 2003, ad esempio, a tassi di cambio correnti il PIL

della Cina sarebbe stato, secondo Maddison, pari a soltanto il 15% di quello

americano, mentre in realtà a parità di potere di acquisto esso risultava già uguale ai

¾ circa di quello USA. E’ interessante analizzare sinteticamente anche le proiezioni

di Maddison confrontando per comodità due grandi blocchi allargati di Paesi:

1) il “vecchio mondo avanzato” post caduta del Muro di Berlino (composto da: USA,

Europa Occidentale, Giappone, le altre “antiche” economie capitalistiche come

Canada e Oceania, più l’URSS e i Paesi dell’ex URSS e quelli dell’Est Europa);

2) l’Asia, escluso il Giappone.

Il raffronto tra il 1952, il 1990 e le proiezioni al 2030 evidenzia, in base alle analisi di

Maddison, quanto segue (tabella 2):

• nel 1952 il “vecchio mondo avanzato” rappresentava poco meno del 73% del PIL

mondiale. L’Europa Occidentale pesava allora per il 26% e gli Stati Uniti per il

27,5% circa.

• nel 1990 il peso del “vecchio mondo avanzato” sul PIL mondiale è sceso, ma non

di molto, al 65% circa, a fronte di una significativa crescita delle 4 “tigri asiatiche”

(Corea, Singapore, Hong Kong e Taiwan) e del Medio Oriente;

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• ma tra il 1990 e il 2030, per effetto della crescita dei nuovi giganti asiatici, Cina e

India, si registrerà un forte calo del peso economico relativo del “vecchio mondo

avanzato”, la cui quota sul PIL mondiale scenderà di oltre 24 punti percentuali,

passando dal 65% al 41%.

• la crescita dell’Asia sarà, infatti, molto forte. Il peso totale dell’Asia (escluso

Giappone) sul PIL mondiale salirà dal 23% del 1990 al 50% del 2030; quello della

Cina, in particolare, crescerà dal 7,8% al 23,8%. Da notare che già nel 2015 il PIL

della Cina supererà quello degli USA (tabella 3).

• anche la quota dell’India sul PIL mondiale salirà notevolmente, passando dal 4% ad oltre il 10% nel periodo esaminato. • il peso nel PIL mondiale del “resto del mondo” (America Latina e Africa) invece

diminuirà leggermente, scendendo sotto il 10%.

Tenendo presenti questi scenari, in questo saggio cercheremo di inquadrare la

posizione dell’Italia nella nuova geo-economia del XXI secolo, con particolare

riguardo alla collocazione del nostro Paese nel nuovo perimetro del G-20.

La crisi finanziaria mondiale scoppiata nell’ottobre del 2008 ha avuto pesantissimi

riflessi sull’economia “reale” dell’intero pianeta, generando la più profonda

recessione dai tempi della crisi del ’29. La maggior parte degli analisti, tuttavia,

ritiene che la crisi non arresterà il processo di crescita a medio-lungo termine

dell’Asia. Anzi, sono in molti, tra cui il Fondo Monetario Internazionale, a prevedere

che l’Asia uscirà per prima dalla recessione e potrà svolgere un ruolo di

“locomotiva” nella ripresa mondiale.

L’Italia ha particolarmente sofferto durante i primi anni della globalizzazione la

concorrenza asimmetrica asiatica, ma a partire dalla metà di questo decennio ha

saputo mostrare chiari segnali di reazione nella competizione internazionale,

spostando il baricentro del suo export su prodotti a più alto valore aggiunto ed

accrescendo il valore medio unitario dei beni esportati, nonché indirizzandosi verso

nuovi importanti mercati emergenti, in particolare quelli dell’Est Europa e del Medio

Oriente.

La concorrenza asiatica appare oggi sempre più minacciosa su prodotti diversi da

quelli in cui è specializzata l’Italia. E’ nell’elettronica, nell’auto e nella chimica che

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la Cina ed altre economie asiatiche probabilmente sferreranno nei prossimi anni il

loro più forte assalto competitivo alle vecchie economie occidentali e al Giappone.

L’Italia, dopo aver perso quote di mercato nelle fasce di più basso valore aggiunto

della moda e dell’arredo-casa, può continuare a presidiare con successo le “nicchie”

di alta qualità e del lusso in questi settori e consolidare la sua posizione di successo

nella meccanica e nell’alimentare. Senza dimenticare che il nostro Paese ha

formidabili punti di forza anche nell’agricoltura e nel turismo.

3. La geo-economia nelle diverse epoche storiche

L’importante peso di nazioni oggi “emergenti” come Cina ed India nella geo-

economia non è un fatto nuovo. Già duemila anni fa le due grandi nazioni asiatiche

occupavano una posizione preminente nell’economia mondiale, che tuttavia non

presentava allora quelle caratteristiche di interconnessione globale che la

caratterizzano oggi sul piano degli scambi di merci e servizi e degli investimenti

finanziari. Soltanto la “rivoluzione industriale” ha permesso prima alle nazioni

europee e poi agli Stati Uniti di sorpassare, per dimensioni assolute del PIL, Cina ed

India.

A sua volta l’Italia, un tempo dominatrice dell’economia “occidentale”, dapprima

durante l’Impero romano e poi ancora durante il Rinascimento e l’epoca delle

repubbliche marinare, ha vissuto un lungo declino relativo per ritrovare finalmente

dopo la seconda guerra mondiale quel nuovo slancio economico che l’ha portata alla

posizione attuale.

La “stilizzazione” della geo-economia nelle diverse epoche storiche proposta da

Angus Maddison in una serie di suoi lavori degli ultimi anni, pur con tutti i limiti

dovuti alla carenza dei dati e alle difficoltà di stima, è molto utile per inquadrare la

posizione relativa dell’economia italiana in una prospettiva “millenaria”. Maddison

ha ricostruito serie storiche del PIL dei principali Paesi del mondo dall’anno 1 dopo

Cristo sino al 2006. Sono serie espresse in dollari “internazionali” 1990 a parità di

potere d’acquisto (PPP). Esaminiamole brevemente con riferimento alle seguenti

date dopo Cristo: 1, 1000, 1500, 1870, 1900, 1938, 1968 e 2006 (tabella 4).

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Secondo i dati sul PIL raccolti da Maddison, nell’anno 1 dopo Cristo erano di gran

lunga le grandi nazioni asiatiche, India e Cina, a possedere le economie di maggiori

dimensioni. L’Italia, però, durante l’Impero romano occupava la terza posizione per

grandezza del proprio PIL. Le principali aree dell’Europa e del Mediterraneo

assoggettate da Roma (dalla Francia alla Spagna, dall’Egitto alla Turchia)

presentavano complessivamente, assieme all’Italia, un PIL molto significativo ma

pur sempre inferiore a quello di India e Cina prese singolarmente.

Nell’anno 1000 l’India è ancora la prima potenza economica del mondo seguita dalla

Cina, mentre l’Italia, dopo la caduta dell’Impero romano, precipita nella classifica

del PIL all’ottavo posto.

Nel 1500 i rapporti di forza nella geo-economia cambiano ancora. La Cina supera,

sia pure di poco, l’India, mentre in Europa è in atto il rinascimento italiano. L’Italia

esce finalmente dai secoli bui del Medio Evo con il prestigio delle sue Università,

l’arte e la cultura, la forza dei banchieri fiorentini e l’intraprendenza delle sue

repubbliche marinare, in special modo Venezia. In definitiva, il nostro Paese, sia

pure privo di un’unità politica nazionale, torna ad essere il punto di riferimento

economico, culturale e della scienza del mondo europeo. Il XV secolo, in particolare,

è quello delle grandi spedizioni esplorative via mare e delle grandi scoperte

geografiche. Significativamente, mentre nell’emisfero occidentale l’italiano

Cristoforo Colombo scopre l’America, in quello orientale il grande comandante della

flotta cinese Zeng He si spinge con le sue avventurose esplorazioni dall’Oceano

Pacifico all’Oceano Indiano, sino al Golfo Persico e al Corno d’Africa.

Nel 1870 la rivoluzione industriale ha ormai interessato molti Paesi d’Europa e gli

Stati Uniti. La Cina e l’India conservano le prime due posizioni nella classifica

mondiale del PIL, ma la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Russia, la Germania e la

Francia si sono avvicinate notevolmente. La Gran Bretagna, Paese pioniere della

rivoluzione industriale, è la prima potenza economica occidentale. Il PIL di Gran

Bretagna e Stati Uniti considerati assieme è ormai superiore a quello cinese. I due

grandi Paesi anglosassoni prevalgono singolarmente per importanza economica

anche su quelli dell’Europa continentale. L’Italia e il Giappone, che rientrano nella

categoria dei cosiddetti “Paesi a sviluppo tardivo”, si collocano, rispettivamente, in

ottava e nona posizione.

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Nel 1900 la leadership dell’economia mondiale è ormai passata saldamente agli Stati

Uniti che hanno superato sia la Cina sia la Gran Bretagna. La Cina è retrocessa al

secondo posto, l’India al quarto. In Europa è sensibilmente cresciuto il peso

economico della Germania che sarà solo temporaneamente frenato dalla sconfitta

nella prima guerra mondiale e dai difficili anni successivi.

L’Italia conserva l’ottava posizione.

La geo-economia del 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale, vede la

Germania all’apice della sua potenza economica e militare in terza posizione, dopo

aver sopravanzato la Gran Bretagna.

Il PIL degli Stati Uniti è ormai in assoluto decisamente il più importante del mondo:

è il doppio di quello dell’URSS, che è ormai una grande economia industriale, e oltre

2 volte e mezza maggiore di quello della Gran Bretagna. La Cina è l’India sono

retrocesse, rispettivamente, al quinto e al sesto posto della classifica del PIL

mondiale, mentre il Giappone è salito in ottava posizione dopo aver superato l’Italia.

Il 1968 fotografa la situazione della geo-economia alla fine della prima fase dello

sviluppo postbellico mondiale, caratterizzato politicamente dalla “guerra fredda” ed

economicamente da due grandi blocchi contrapposti e sostanzialmente separati sul

piano delle relazioni commerciali: il mondo occidentale, l’Oceania e il Giappone, da

un lato e l’URSS e i suoi Paesi satelliti dall’altro.

La Cina è un vero e proprio “continente” a parte, chiuso su se stesso; i Paesi in via di

sviluppo hanno un peso assolutamente marginale. Siamo alla vigilia del collasso del

sistema di Bretton Woods e dello scoppio della crisi petrolifera. Il PIL americano è

oltre il doppio di quello dell’URSS, ma la novità del dopoguerra è stata la rapida

ascesa economica del Giappone, dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale. Il

Paese del Sol Levante è ormai la terza economia del mondo ed ha superato nella

classifica del PIL mondiale la Germania, pur anch’essa risorta sul piano economico

dopo il conflitto al punto da aver nuovamente sopravanzato per dimensione del PIL

la Gran Bretagna, ormai in declino come potenza industriale. L’Italia, dopo il

“boom” economico, ha riguadagnato peso nella geo-economia ed il suo PIL è risalito

in ottava posizione. La Cina tocca invece in questi anni il suo punto più basso nella

classifica mondiale del PIL precipitando in settima posizione, superata anche dalla

Francia.

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L’ultima fotografia della geo-economia aggiornata con i dati sui PIL nazionali a

parità di potere d’acquisto ricostruiti da Maddison è quella del 2006. Il mondo ha

vissuto nuovi cambiamenti epocali per ciò che riguarda i rapporti di forza economici

e conseguentemente anche politici. Dopo la caduta del muro di Berlino l’impero

sovietico si è disintegrato e la Russia è, almeno temporaneamente, uscita dalla

classifica delle maggiori economie del mondo sia per la riduzione del suo perimetro

geografico sia a causa della drammatica caduta dei suoi livelli di attività economica

durante gli anni ‘90. Cina ed India, invece, sono tornate a ricoprire il peso economico

che avevano avuto nell’antichità e lungamente anche nell’era moderna, collocandosi,

rispettivamente, al secondo e terzo posto per dimensioni del PIL nel 2006. Questa

volta, però, rispetto al passato i due grandi Paesi orientali sono inseriti in

un’economia mondiale pienamente globalizzata e caratterizzata da interrelazioni

economico-commerciali ed info-telematiche sempre più fitte tra tutti i Paesi del

pianeta. La Cina, in particolare, è stata protagonista dall’inizio degli anni ’90 di una

crescita tumultuosa. Gli investimenti diretti esteri e lo sviluppo endogeno hanno

trasformato il gigante asiatico nella cosiddetta “fabbrica del mondo”, con un ruolo

sempre più dominante anche nel commercio internazionale. Il PIL cinese a parità di

potere d’acquisto nel 2006 è ormai uguale all’85% di quello americano.

Per quanto riguarda le altre maggiori economie del mondo, nel 2006 il Giappone e la

Germania occupano, rispettivamente, il quarto e il quinto posto nella classifica del

PIL, seguite da Gran Bretagna e Francia. L’Italia conserva l’ottava posizione, anche

se Russia e Brasile potranno nel giro di poco tempo superarci, almeno per ciò che

riguarda il PIL a parità di potere d’acquisto (secondo le prime stime della Banca

Mondiale, nel 2008 già ci precederebbero, mentre a tassi di cambio correnti il nostro

settimo posto potrà ancora resistere per qualche anno).

Dunque, nonostante la forte crescita di Cina ed India e il recente sviluppo di altre

economie emergenti, l’Italia mantiene una posizione piuttosto significativa nella geo-

economia. Ciò pur avendo un’estensione geografica limitata ed una popolazione

relativamente “piccola”. Inoltre, in vari settori produttivi il nostro Paese ha ormai

superato nazioni europee di più antica industrializzazione ma di pari consistenza

sotto il profilo demografico come Francia e Gran Bretagna.

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Peraltro, in un mondo di Paesi già grandi per dimensione della loro popolazione, ma

sempre più grandi e potenti anche sotto il profilo economico, come Cina, India,

Brasile, Russia, Indonesia, ecc., è chiaro che le singole economie nazionali europee

potranno far valere la loro forza soltanto se strettamente unite nel progetto dell’UE,

augurandoci che l’UE stessa sappia trovare finalmente anche efficaci profili di sintesi

politica con una governance condivisa ed un’autorevole strategia comune sullo

scacchiere internazionale.

Sono le cifre a dire che l’unione fa la forza. Secondo l’Eurostat, nel 2008 il PIL

dell’UE-27 è stato di 12,5 trilioni di euro, superiore a quello degli Stati Uniti

considerando quest’ultimo sia a cambi correnti (9,8 trilioni di euro) sia in parità di

potere d’acquisto (11,8 trilioni di PPS). L’UE-27, inoltre, continua ad essere

nettamente la prima potenza del mondo per valore aggiunto in tre settori cardine dell’

“economia reale”: manifattura, agricoltura, turismo. Nel 2008, infatti, in tutti questi

tre settori l’UE-27 ha fatto registrare un valore aggiunto a cambi correnti superiore

sia agli Stati Uniti sia alla Cina. Merito non solo della Germania, che dell’Europa è il

pilastro manifatturiero, ma anche dell’Italia, secondo Paese dell’UE-27 per

manifattura e agricoltura e terzo per entrate turistiche internazionali.

L’export totale dell’UE (verso i Paesi terzi) è stato nel 2008 il più grande del mondo

(1,3 trilioni di euro), davanti a Cina, Stati Uniti e Giappone. In particolare, l’UE

presenta il maggior export mondiale sia di manufatti non alimentari (1,1 trilioni di

euro) sia di alimenti freschi e trasformati (68 miliardi di euro).

Ancor più forte è la posizione dell’Euroarea i cui valori di export complessivo verso i

Paesi terzi sono persino più alti di quelli dell’UE-27: l’Euroarea esporta oltre 500

miliardi di dollari più della Cina, quasi il doppio dell’export degli USA e il triplo di

quello del Giappone (vedi tabella 5).

3. L’Italia nella geo-economia del XXI secolo: declino o “resilienza”? In questo saggio, tuttavia, non affronteremo il tema dell’Europa e delle sue

prospettive nella nuova geo-economia, che ci porterebbe troppo lontano,

privilegiando invece un esame del posizionamento dell’Italia.

Esame assolutamente necessario perché negli ultimi anni il dibattito economico è

stato dominato nel nostro Paese dall’idea del “declino”. L’analisi dei punti di

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debolezza dell’Italia, di cui pure siamo assolutamente consapevoli, è largamente

prevalsa su quella dei punti di forza, al punto da impedire una corretta visione delle

reali condizioni del sistema economico italiano ed in particolare della sua

competitività internazionale.

Lo stereotipo di un’Italia stremata e senza significative prospettive di sviluppo è stato

alimentato anche dalle ripetute prese di posizione di certa stampa straniera,

soprattutto anglosassone. Le cui analisi sull’economia italiana, per quanto spesso

molto superficiali, hanno trovato quasi sempre una straordinaria eco sui media

nazionali a causa del nostro tradizionale complesso di inferiorità verso tutto ciò che è

straniero, comprese le opinioni altrui. In particolare, si è distinto per accanimento

critico nei riguardi del nostro Paese l’ascoltato settimanale britannico “The

Economist”, che è certamente autorevole ma non per questo infallibile. Basti pensare

alla sua ormai celebre copertina che nel 2005 ritrasse l’Italia (a quell’epoca definita

“la vera malata d’Europa”) sorretta da tante piccole stampelle: una copertina che

però, per ironia della sorte, potrebbe oggi essere riadattata molto più opportunamente

alla Gran Bretagna, sprofondata in una crisi economico-finanziaria senza precedenti.

Resta il fatto, però, che l’idea di un profondo declino dell’Italia nell’odierno scenario

globale è stata condivisa da ampie elite di esperti ed opinionisti, spesso in modo

acritico. Essa si è poggiata sulla diffusa convinzione che il nostro Paese stesse

mostrando una serie di sintomi inequivocabili di decadenza economica. In

particolare, l’Italia, agli occhi dei “declinisti”, appariva afflitta soprattutto da tre

problemi: un cronico più basso tasso di crescita del PIL rispetto a molti altri Paesi

avanzati; un crescente impoverimento delle famiglie; una vistosa perdita di quote di

mercato nell’export mondiale.

Da parte nostra, non abbiamo mai sottovalutato i fattori strutturali che frenano il

potenziale di crescita dell’Italia. L’intero lavoro ormai decennale della Fondazione

Edison, con diversi volumi e quaderni di approfondimento, ha ripetutamente

evidenziato non solo le criticità del debito pubblico, ma anche di altri rilevanti

vincoli allo sviluppo italiano come il divario Nord-Sud, l’eccessiva dipendenza

energetica dall’estero, il limitato slancio delle liberalizzazioni, il peso della

burocrazia e la lentezza dell’amministrazione della giustizia.

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Ma abbiamo sempre tenuto ben distinti questi problemi dall’idea, a nostro avviso

sbagliata, di un’Italia giudicata da molti fondamentalmente incapace di competere

nel nuovo scenario globale.

Analogamente siamo sempre stati dubbiosi nei riguardi dei modelli di sviluppo di

quei Paesi che fino allo scoppio dell’attuale drammatica crisi economica mondiale

sembravano degli autentici “fenomeni” per tassi di crescita del PIL, ma che poi sono

franati sotto il peso di un insostenibile aumento dei debiti privati provocato dalla

“bolla” immobiliare e finanziaria. Più che la ricerca e sviluppo, le liberalizzazioni e

la “meritocrazia”, era stata la corsa a briglie sciolte del debito di famiglie ed imprese

che aveva spinto i tassi di crescita di Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda e Spagna più

velocemente di quelli dell’Italia (ma anche di Germania e Francia). Al punto che per

soccorrere le loro banche sull’orlo del fallimento e contenere gli effetti della crisi, i

governi di alcuni Paesi come gli USA e la Gran Bretagna hanno poi dovuto mettere

in campo risorse finanziarie imponenti e sono ora avviati a raggiungere livelli di

debito pubblico in rapporto al PIL assai vicini, secondo le proiezioni del Fondo

Monetario Internazionale, a quelli che aveva l’Italia alla vigilia della recessione

mondiale.

I fatti hanno altresì dimostrato che la ricchezza netta delle famiglie italiane resta tra

le più elevate al mondo e si presenta inoltre più equamente distribuita tra la

popolazione rispetto agli altri Paesi avanzati. La Banca d’Italia stima che nel 2007 la

ricchezza netta delle famiglie italiane (che fa perno su attività investite per circa ¾ in

beni reali e attività finanziarie sicure come depositi e titoli di stato) sia ammontata a

8,5 trilioni di euro, pari all’8,1% del reddito disponibile delle famiglie e a circa

143.000 euro pro capite a prezzi correnti: un valore che ci pone ai vertici mondiali. A

prezzi costanti la ricchezza netta delle famiglie italiane è aumentata tra il 1995 e il

2007 di ben 2.731 miliardi di euro (+47%): una performance di gran lunga superiore

a quella del PIL (+19%).

L’aspetto più interessante è che la crescita della ricchezza delle famiglie italiane è

stata negli anni recenti molto più solida rispetto a quella di altri Paesi i cui valori

sono stati particolarmente sospinti, specie nel 2006-2007, dalla “bolla” immobiliare e

finanziaria, come è avvenuto ad esempio in Gran Bretagna, Paese che ci aveva

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temporaneamente sopravanzato per ricchezza pro capite. Le famiglie italiane, inoltre,

si sono tendenzialmente indebitate di meno.

Sicché nel 2008, dopo lo scoppio della crisi mondiale e la caduta del prezzo delle

case e dei titoli finanziari, la ricchezza netta delle famiglie inglesi è crollata di ben

892 miliardi di sterline a valori correnti (-11,9% rispetto al 2007) ed il rapporto tra

ricchezza netta e reddito disponibile è precipitato da 8,6 a 7,2. Non conosciamo

ancora i dati definitivi del 2008 per l’Italia (la nostra Banca centrale li diffonderà

verso fine 2009). Ma si può stimare per il 2008 una diminuzione del rapporto

ricchezza netta/reddito disponibile non superiore a 0,6-0,7 punti sino a quota 7,4:

livello che ci permetterà di superare nuovamente, sia pure in discesa, l’Inghilterra

(senza contare l’effetto di svalutazione della sterlina che renderà le famiglie inglesi

ancora più “povere” internazionalmente).

Un’altra clamorosa smentita delle tesi “decliniste” viene dai dati sul commercio

internazionale. Nuovi indicatori, come le serie storiche di lungo periodo dell’ONU, il

Trade Performance Index (TPI) dell’UNCTAD/WTO e l’Indice Fortis-Corradini

della Fondazione Edison, hanno messo in evidenza come la perdita di quote di

mercato nel commercio internazionale durante gli ultimi anni non era un problema

soltanto italiano bensì di tutti i maggiori Paesi industrializzati, a causa della

prepotente ascesa della Cina come potenza manifatturiera esportatrice. Nei manufatti,

in particolare, la Cina, che era il settimo Paese esportatore nel 1999, in soli dieci anni

è diventata il primo Paese esportatore superando nel 2008 la Germania (tabella 6).

Considerato ciò, l’Italia ha dimostrato di essere, assieme alla Germania, l’economia

avanzata la cui quota nell’export mondiale ha “tenuto” di più. In particolare, secondo

il TPI e l’Indice Fortis-Corradini, Germania e Italia sono oggi i Paesi più competitivi

in assoluto nel commercio internazionale.

La realtà è che, sotto l’incalzare della concorrenza asimmetrica asiatica (che si è

nutrita di molti dumping: valutario, sociale, ambientale, ecc.), molti avevano

frettolosamente dedotto che per l’industria italiana stessero suonando le campane a

morto. E la riprova di ciò sarebbe stata la diminuzione della nostra quota di mercato

nell’export mondiale. Questo approccio ha però presentato molti limiti analitici, per

varie ragioni che qui ricordiamo sinteticamente: 1) per l’uso da parte di molti analisti

di serie storiche a valori costanti, quindi di serie in volume, per calcolare la quota

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delle esportazioni italiane (ignorando il fatto che in questi ultimi anni l’Italia si è

spostata verso produzioni a crescente valore aggiunto sacrificando volumi ma

accrescendo il valore dei suoi beni); 2) per l’uso di serie storiche relative alle

esportazioni totali (che incorporando l’energia e le materie prime agricole, i cui

prezzi sono molto cresciuti in questi ultimi anni, hanno alimentato una visione

distorta delle reali dinamiche competitive, essendo aumentata contemporaneamente

la quota nell’export mondiale dei Paesi petroliferi e di quelli esportatori di derrate

alimentari); 3) per il fatto di ignorare, come abbiamo già sottolineato, che la crescita

dei Paesi emergenti (Cina in testa) ha generalmente fatto diminuire le quote

nell’export mondiale non solo dell’Italia ma dell’intero insieme dei Paesi avanzati.

Per ovviare a questi errori metodologici la Fondazione Edison ha recentemente

ultimato uno studio sulla base di nuove serie storiche (recentemente ricostruite

dall’ONU) relative all’export mondiale di prodotti industriali manufatti non

alimentari in dollari correnti, riguardanti un arco temporale che va dal 1900 al 2008.

Da tale analisi appare evidente che la quota dell’Italia nell’export mondiale di

manufatti non alimentari (al netto dunque di energia e materie prime) era già in

chiaro recupero nel 2007, dopo una temporanea flessione nella seconda metà degli

anni ’90 (figura 1). Ma, soprattutto, colpisce la brillante dinamica della quota

dell’Italia nell’export manifatturiero dei principali Paesi industrializzati (figura 2).

Infatti, la quota dell’Italia nell’export totale di manufatti non alimentari dei Paesi del

G-6, non è mai stata tanto elevata quanto oggi negli ultimi 110 anni, toccando un

massimo storico dell’11,4% nel 2008, proprio all’inizio dell’attuale crisi economica

mondiale. In precedenza, gli altri Paesi avanzati avevano raggiunto la loro massima

quota nell’export complessivo del G-6 alle seguenti date: Gran Bretagna (1922);

Francia (1924); Germania (1931); Stati Uniti (1953); Giappone (1984). Tra i Paesi

avanzati solo la Germania, assieme all’Italia, ha mostrato negli anni più recenti una

vigorosa crescita della sua quota nell’export manifatturiero del G-6 (almeno fino al

2007) che ha portato i tedeschi di nuovo vicini alle quote storiche massime che

avevano raggiunto negli anni ’30.

I brillanti risultati dell’Italia, comparativamente agli altri Paesi del G-6, sono

particolarmente significativi perché conseguiti in presenza di una consistente

rivalutazione dell’euro nel corso degli ultimi anni. Infatti, se la forza dell’euro, da un

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lato, ha accresciuto il valore del nostro export espresso in dollari, dall’altro lato essa

avrebbe dovuto indebolire nel tempo la nostra competitività e la nostra capacità di

esportare. Se ciò non è avvenuto è perché i prodotti del sistema industriale italiano

sono diventati sempre più competitivi ed apprezzati dal mercato mondiale per la loro

qualità e il loro contenuto innovativo di design, tecnologia e servizio. L’Italia ha

inoltre delocalizzato attività produttive all’estero in misura inferiore agli Paesi,

trattenendo così valore aggiunto sul proprio territorio.

Anche l’Indice Fortis-Corradini (di cui riferiamo nel saggio successivo) conferma la

buona posizione competitiva dell’Italia, che nel 2007 ha presentato ben 1.022 primi,

secondi e terzi posti nell’export mondiale di 5.517 prodotti. In particolare, per

numero di primi, secondi e terzi posti ogni 100.000 abitanti nell’export di tali

prodotti l’Italia è seconda tra i Paesi del G-20 dopo la Germania.

Le conclusioni delle analisi della Fondazione Edison sono allineate con i riscontri

forniti da un indice di competitività nel commercio internazionale recentemente

elaborato dall’International Trade Centre, un’agenzia dell’UNCTAD e

dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tale “Trade Performance Index”

(TPI) posiziona l’Italia al secondo posto assoluto al mondo dopo la Germania per

numero di migliori piazzamenti nelle diverse classifiche settoriali. Infatti, su 14

macrosettori analizzati sulla base dei dati del 2006, subito dopo la Germania, che

ottiene 7 primi posti e 2 secondi posti per competitività, l’Italia conquista 3 primi e 4

secondi migliori piazzamenti (tabella 7).

In particolare, secondo il TPI l’Italia risulta ai vertici della graduatoria della

competitività in molte categorie di prodotti. E’ prima nei prodotti tessili,

nell’abbigliamento e nei prodotti in cuoio e calzature. E’ seconda nella meccanica

non elettronica (dove compete ormai ad armi pari con la Germania stessa), nella

meccanica elettrica (grazie agli elettrodomestici), nei prodotti miscellanei (grazie agli

occhiali e all’oreficeria) e nei manufatti di base (che includono anche comparti come

i prodotti in metallo, i marmi e le piastrelle ceramiche in cui l’Italia si colloca da

sempre ai massimi livelli mondiali). Inoltre, il nostro Paese risulta sesto anche negli

alimenti trasformati (che includono i vini).

Va ricordato, poi, che a causa delle aggregazioni statistiche risulta particolarmente

penalizzata la leadership dell’Italia nel mobile, comparto incluso dal TPI nel

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macrosettore dei prodotti forestali e dei prodotti da essi derivati. Altrimenti

emergerebbe un’ulteriore posizione di rilievo del nostro Paese, che nei mobili è

leader incontrastato in Europa.

Spesso in passato è stato anche sostenuto che la nostra industria e il nostro export

sarebbero troppo sbilanciati su specializzazioni a basso valore aggiunto. Si tratta di

affermazioni senza fondamento se si considerano gli elevati livelli tecnologici della

meccanica non elettronica italiana e i livelli qualitativi delle nostre produzioni di beni

per la persona e la casa, che ci permettono di competere con i settori hi-tech delle

grandi potenze industriali mondiali per ciò che riguarda i valori esportati.

Basti pensare che, in base alle banche dati dell’Organizzazione Mondiale del

Commercio e dell’ONU, nel 2008 l’Italia ha esportato prodotti di meccanica non

elettronica e mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli per ben 178 miliardi di

dollari, una cifra che, per un confronto, è superiore di 16 miliardi di dollari all’export

cinese di prodotti per le telecomunicazioni (telefonia, tv, radio, suono, ecc. pari a 162

miliardi). Nello stesso anno, nonostante le crescenti sfide competitive che i Paesi

emergenti ci hanno lanciato nei settori manifatturieri cosiddetti “tradizionali”,

l’export italiano di tessile-abbigliamento è stato di 41 miliardi di dollari, cioè

superiore di 7 miliardi all’export giapponese di prodotti per le telecomunicazioni (34

miliardi), mentre l’export italiano degli altri principali beni per la persona e la casa

diversi da quelli del tessile-abbigliamento (cioè cuoiopelletteria-calzature, gioielli,

occhiali, mobili, pietre ornamentali e piastrelle ceramiche) è stato nel 2008 di 51

miliardi di dollari, cifra superiore di 11 miliardi all’export di prodotti per le

telecomunicazioni degli Stati Uniti (pari a 40 miliardi) (si veda la figura 3). Sono dati

assolutamente straordinari, che, comparativamente ad un comparto dell’hi-tech in

grande espansione come quello dei prodotti per le telecomunicazioni e ai suoi tre

principali Paesi esportatori, dimostrano inequivocabilmente la grande competitività

dei settori di specializzazione del manifatturiero italiano (che, non va dimenticato, ha

altri punti di forza nell’alimentare e nei vini). Si tratta di evidenze inoppugnabili che

non sembrano per nulla combaciare con il falso luogo comune di un Paese in declino,

perché tale, in effetti, l’Italia non è.

Ma nel pieno della recessione globale in atto e dei grandi cambiamenti che stanno

interessando la geo-economia, nuove varianti della “sindrome” del declino stanno

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emergendo nel dibattito italiano, talora rischiando di degenerare addirittura nel

“catastrofismo”. La crisi mondiale, sia chiaro, è gravissima e non risparmia

nemmeno l’Italia, colpendo soprattutto le microimprese e il lavoro a tempo

determinato. Ma sinora il nostro Paese, assieme a Francia e Germania, è tra quelli

che hanno retto meglio il contraccolpo dello shock globale.

Eppure, secondo una certa linea di pensiero, l’Italia, proprio perché già

precedentemente in declino, starebbe soffrendo più di altri Paesi l’attuale crisi. Lo

dimostrerebbe la più forte caduta del nostro PIL nel 2009 (almeno in base alle stime

preliminari) rispetto ad altri Paesi avanzati quali gli stessi Stati Uniti (da cui pure la

crisi è originata), la Spagna o la Gran Bretagna. Soltanto il Giappone e la Germania

nel 2009 dovrebbero presentare, tra i Paesi più industrializzati, diminuzioni del PIL

superiori a quella prevista per l’Italia.

A noi però pare che la più forte caduta del PIL di Giappone, Germania e Italia

dipenda principalmente dalla temporanea paralisi del commercio internazionale.

Indubbiamente la frenata delle esportazioni, dovuta alla crisi dei consumi e degli

investimenti a livello mondiale, imporrà a questi Paesi fortemente manifatturieri

aggiustamenti delle loro capacità produttive e dolorose ristrutturazioni ma, quando la

ripresa si manifesterà, siamo convinti che Giappone e Germania ricominceranno a

produrre grandi quantitativi di auto ed elettronica come sanno fare meglio di

chiunque altro al mondo e ad esportare i loro prodotti con successo. E lo stesso farà

l’Italia con la sua meccanica ed i suoi beni per la persona e la casa. E’ più difficile

invece che il settore delle costruzioni possa ricominciare a trascinare il PIL della

Spagna come è avvenuto artificiosamente negli ultimi 10 anni o che la finanza torni

ad essere quel potente motore truccato delle economie americana e britannica che è

stato dal 2002 in poi. Perché il tempo delle “bolle” immobiliari e finanziarie è finito.

Così come quello dei consumi finanziati a debito.

Altri indicatori diversi dal PIL, non alternativi ad esso ma complementari,

dimostrano chiaramente che l’Italia sta sopportando la crisi meglio di altri Paesi

avanzati. Ciò perché il nostro Paese ha banche più sane, famiglie poco indebitate, un

debito “aggregato” (comprendente non solo il debito pubblico, ma anche quello di

famiglie e imprese) molto più basso dei Paesi anglosassoni e della Spagna, un

sistema di “ammortizzatori” sociali magari un po’ vecchio ma efficiente e un solido

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impianto di economia “reale”. Sicché, al di là di ciò che dice il semplice dato del

PIL, l’Italia sta mostrando una tenuta dell’occupazione e dei consumi delle famiglie

molto migliore di Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e Irlanda: dei Paesi, cioè, che

fino a poco tempo fa venivano unanimemente additati come dei modelli a cui il

nostro Paese avrebbe dovuto ispirarsi. Non solo. Nonostante la crisi mondiale, nei 12

mesi compresi tra luglio 2008 e giugno 2009 il surplus italiano con l’estero per i

manufatti non alimentari7, pur diminuito rispetto ai livelli del 2008, quando fu di 61

miliardi di euro, è stato comunque di 56 miliardi contro i pesanti deficit di Francia,

Spagna e Inghilterra pari, rispettivamente, a 24, 32 e 61 miliardi. Né va trascurato il

fatto che gli indici anticipatori dell’OCSE sin dalla primavera del 2009 prevedono

che l’Italia potrebbe essere il Paese del G20 che si riprenderà più rapidamente.

Un’altra linea di pensiero ammette: è vero, finora abbiamo resistito meglio degli altri

Paesi alla crisi. Ma poiché siamo entrati nella recessione mondiale con tassi di

crescita inferiori a quelli delle altre economie, impiegheremo più tempo per tornare

ai livelli produttivi del 2007. Questa linea di pensiero, però, ha un punto debole. E

cioè non aver compreso assolutamente la lezione di fondo di questa crisi. Infatti, non

si può continuare a guardare ai potenziali di crescita di lungo periodo dei vari Paesi

costruiti sui trend del passato senza tener presente che questi ultimi per molti anni

sono stati “gonfiati” artificialmente. In particolare, è lecito dubitare che Paesi come

gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, che precedentemente avevano spinto in modo

insostenibile le loro economie basandosi sui debiti di famiglie e imprese, possano

tornare a crescere ai tassi a cui erano abituati prima del 2007. Dunque i loro problemi

nella ripresa saranno analoghi se non superiori a quelli dell’Italia, le cui maggiori

difficoltà vengono principalmente dagli aggiustamenti richiesti dal lato dell’export.

Con ciò non si intendono sottovalutare le difficoltà a cui anche l’Italia dovrà far

fronte a causa dei tempi lunghi della ripresa mondiale e del suo debole profilo. Tali

difficoltà possono essere individuate soprattutto nel rischio di mortalità di un elevato

numero di piccole e medie imprese, strette tra il calo degli ordini e il credit crunch,

specialmente nell’indotto (sia pure non nei termini delle centinaia di migliaia di

chiusure paventate da alcuni), nonché nell’aumento del numero di disoccupati (sia

pure in misura inferiore agli altri Paesi). Preoccupa, inoltre, l’impatto della crisi sui

lavoratori cosiddetti “precari”.

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Tuttavia, pur tenendo conto di tutti questi elementi negativi, i tempi di recupero dei

nostri settori più colpiti, come la produzione industriale e l’export, non andrebbero

drammatizzati in misura eccessiva. Infatti, è indubbio che nel 2008-2009 i cali dei

livelli di attività siano stati molto forti ma tali cali andrebbero rapportati ai tassi di

crescita assolutamente eccezionali, e probabilmente irripetibili (almeno

nell’immediato), che hanno caratterizzato il quinquennio precedente ed in modo

particolare il biennio 2006-2007.

Un’attenta e razionale lettura degli eventi ci porta ad affermare che proprio nel 2006-

2007, in concomitanza con i massimi livelli della “bolla” immobiliare e finanziaria

dei Paesi anglosassoni e della Spagna e della “bolla” dei prezzi energetici di cui

hanno beneficiato la Russia e i Paesi Arabi, anche l’Italia ha vissuto una sua

particolare “bolla”: quella delle esportazioni, in ciò somigliando molto alla

Germania. Infatti, nel biennio 2006-2007 il nostro export è cresciuto in euro del

19,6%, mentre quello tedesco del 23,5%, contro una media degli altri 5 Paesi del G-7

solo dell’8,6%. Si è trattato, beninteso, di una “bolla” incolpevole perché basata sulla

competitività e non sull’indebitamento, sull’internazionalizzazione delle attività e dei

prodotti anziché su quella dei famigerati sub-prime e dei derivati. Le nostre imprese,

oggi sotto shock per il crollo del commercio mondiale avvenuto tra la fine del 2008 e

il primo semestre del 2009, in precedenza stavano conquistando la Russia, invadendo

la Spagna, difendendo bene le loro quote di mercato negli Stati Uniti, penetrando in

India e in Brasile. Ma, se per ipotesi le esportazioni italiane nel biennio 2006-2007 si

fossero “accontentate” di aumentare come quelle del G-5, esse sarebbero arrivate a

toccare nel 2007 il livello di soli 326 miliardi di euro anziché di 359 miliardi come è

avvenuto realmente, cioè avremmo esportato 33 miliardi in meno. Ritornare in tempi

rapidi ai livelli di export del 2007, quindi, non sarà facile perché tali livelli erano

anch’essi “drogati” dalla febbre dei consumi e degli investimenti dei nostri Paesi

clienti.

Un’ultima variante del vecchio “declinismo” riguarda le presunte limitate capacità

dell’Italia di relazionarsi con la nuova geo-economia che già stava emergendo prima

della crisi globale ma che certamente uscirà rafforzata dalla stessa, come dimostra il

fatto che l’ultimo summit dei grandi del mondo tenutosi nel settembre 2009 a

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263

Pittsburgh ha sanzionato la fine del G8 ed ufficializzato il nuovo ruolo egemone del

G20.

Come è noto, il G20 raggruppa, oltre ai vecchi 7 grandi del mondo (tra cui l’Italia) e

la Russia, diverse nuove economie emergenti: Brasile, India e Cina, in primo luogo,

ma anche Argentina, Australia, Indonesia, Corea del Sud, Messico, Sud Africa,

Arabia Saudita e Turchia. A queste 19 nazioni si aggiunge l’Unione Europea a 27

membri.

Contrariamente a chi prospetta un ruolo marginale dell’Italia nel G20 noi pensiamo

che anche nella nuova geo-economia il nostro Paese possa rivestire un ruolo

significativo, pur con i limiti che gli derivano da tre fattori principali: 1) l’Italia è un

“piccolo” Paese di 60 milioni di abitanti, quindi non solo nei rapporti di forza geo-

politici ma anche in quelli geo-economici non si può non tenere conto, in prospettiva,

del crescente peso relativo di Paesi emergenti che hanno un capitale demografico

gigantesco rispetto all’Italia e ad altri Paesi avanzati a noi simili; 2) alcuni vincoli

strutturali frenano la crescita dell’Italia (in primo luogo il debito pubblico, l’evasione

fiscale e il divario Nord-Sud) e possono rappresentare degli ostacoli oggettivi anche

nel posizionamento del nostro Paese nella nuova geo-economia, per cui un progetto

di riforme è essenziale per poter competere adeguatamente; 3) è altresì essenziale un

rafforzamento del nostro sistema produttivo mediante un processo di aggregazione

delle nostre imprese più piccole che accresca il numero delle imprese medio-grandi e

grandi del cosiddetto “quarto capitalismo”.

4. Il posizionamento dell’Italia nel G20: indicatori economici, sociali,

ambientali La Fondazione Edison ha realizzato per conto di Aspen Institute Italia uno studio per

posizionare l’Italia nella nuova geo-economia del G20. Il PIL resta certamente

l’indicatore di riferimento per qualunque di tipo di analisi comparata dei sistemi

economici, ma la crescente complessità degli stessi sta spingendo gli studiosi a

svolgere riflessioni sempre più ampie sulla misurazione della performance

economica e del progresso sociale, come dimostra anche il recente Rapporto Stiglitz-

Sen-Fitoussi elaborato su incarico del Presidente francese Nicholas Sarkozy. Non

solo il reddito, ma anche la ricchezza delle famiglie, nonché gli aspetti ambientali e

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di qualità della vita, entrano sempre più spesso nelle considerazioni relative alla

misurazione comparata del benessere.

Per queste ragioni anche noi abbiamo esteso la nostra analisi sul posizionamento

dell’Italia nella nuova geo-economia del G 20 ad una cinquantina di indicatori

suddivisi in 8 categorie:

- indicatori di dimensione: superficie, popolazione, PIL a valori correnti e a parità di

potere d’acquisto, ricchezza netta delle famiglie a valori correnti e a parità di potere

d’acquisto, debito pubblico e indebitamento delle famiglie;

- indicatori di reddito e benessere: reddito nazionale lordo pro capite a valori correnti

e a parità di potere d’acquisto, ricchezza delle famiglie media e mediana pro capite,

qualità della vita, numero di auto e abbonamenti telefonici per abitante;

- indicatori di sviluppo, welfare, della disoccupazione e del funzionamento dello

Stato: indice di sviluppo umano dell’ONU, spesa pubblica per le pensioni,

l’educazione e la salute, tasso di disoccupazione, peso della burocrazia sulle attività

di business, amministrazione della giustizia;

- indicatori di economia reale: valore aggiunto dell’industria manifatturiera, bilancia

commerciale con l’estero per i prodotti manufatti non alimentari nel loro complesso e

per loro principali categorie (1-meccanica non elettronica e mezzi di trasporto diversi

dagli autoveicoli; 2-autoveicoli, elettronica e prodotti per le telecomunicazioni; 3-

chimica e farmaceutica; 4-prodotti per la persona e la casa ed altri manufatti), terra

arabile pro capite, valore aggiunto dell’agricoltura, bilancia commerciale con l’estero

per la frutta fresca, export di prodotti della “dieta mediterranea”, entrate turistiche

internazionali, numero di siti del patrimonio mondiale dell’UNESCO;

- indicatori di produttività, competitività e ricerca: produttività complessiva e del

lavoro a parità di potere d’acquisto, competitività nel commercio internazionale,

spese in ricerca e sviluppo;

- indicatori di dotazione di infrastrutture e indicatori ambientali: livello delle

infrastrutture di base, livello di autosufficienza energetica, numero di utilizzatori di

Internet e di sottoscrittori di abbonamenti Internet di banda larga, emissioni di CO2

totali e pro capite, concentrazione di particolato fine nell’aria dei centri urbani,

scarichi di inquinanti organici nelle acque.

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265

Gli indicatori analizzati sono raccolti nell’Appendice statistica di questo saggio

(tabelle A1-A24).

Lo studio di Aspen Institute Italia-Fondazione Edison fa riferimento ai più recenti

dati disponibili che, per quanto aggiornati, non sono ancora in grado di tenere conto

dell’impatto della grave crisi mondiale cominciata nell’ottobre 2008. Tuttavia, la

recessione non dovrebbe alterare di molto le graduatorie dei diversi indicatori poiché

essi riflettono le posizioni comparate strutturali - di forza e di debolezza - dei vari

Paesi.

L’Italia, come ci si poteva attendere, brilla nel G20 soprattutto nelle graduatorie degli

indicatori di economia reale (manifattura, agricoltura, turismo), ma presenta anche

altri significativi piazzamenti nel settore privato (soprattutto per quanto riguarda la

ricchezza e il basso indebitamento delle famiglie), mentre i punti di maggiore

debolezza del nostro Paese si confermano il debito pubblico, l’elevata dipendenza

energetica dall’estero, la burocrazia e l’inefficienza nell’amministrazione della

giustizia.

Diamo qui di seguito una sintesi dei principali risultati emersi dallo studio.

4.1. Indicatori di dimensione Tra questi indicatori l’Italia è penalizzata nel G20 quanto a superficie del proprio

territorio (siamo al 17° posto) e numero di abitanti (siamo tredicesimi) (tabella A1).

Nel PIL a prezzi e tassi di cambio correnti, che è il parametro di riferimento in questa

categoria di indicatori, in base ai dati del 2008 della Banca Mondiale siamo al

settimo posto, preceduti da Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania, Francia e Gran

Bretagna. A parità di potere d’acquisto scendiamo invece al decimo posto superati

anche da India (quarta, davanti alla Germania), Russia (sesta, davanti alla Gran

Bretagna) e Brasile (nono) (tabella A2).

Rispetto al PIL, siamo meglio posizionati nella graduatoria dello stock di ricchezza

delle famiglie.

Secondo il World Institute for Development Economics Research (WIDER)

dell’Università delle Nazioni Unite di Helsinki, che ha ultimato nel 2008 una ricerca

molto ampia coprendo un gran numero di Paesi avanzati e in via di sviluppo, l’Italia

deterrebbe il 4,5% della ricchezza mondiale a cambi correnti ed il 4,3% se espressa a

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parità di potere d’acquisto. La letteratura sulla ricchezza netta delle famiglie è ancora

in una fase embrionale. I dati relativi ai Paesi in via di sviluppo sono spesso

rappresentati da stime molto approssimative e sono in genere poco aggiornati. Le

statistiche del WIDER, in particolare, si rifanno all’anno 2000. Da quella data,

peraltro, la posizione relativa dell’Italia rispetto ai maggiori Paesi per quanto

riguarda lo stock della ricchezza non dovrebbe essersi modificata sostanzialmente né

a valori correnti né a parità di potere d’acquisto: nella classifica a valori correnti nel

2000 eravamo quinti dopo Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna e Germania; in

quella a parità di potere d’acquisto occupavamo la stessa posizione pur

sopravanzando la Germania poiché in questa graduatoria la Cina già era a

quell’epoca al terzo posto collocandosi davanti alla Gran Bretagna e al nostro Paese.

Per quanto riguarda invece il rapporto debito pubblico/PIL l’Italia, come è noto, è

storicamente mal posizionata nel confronto internazionale. Tra i 19 singoli Paesi del

G20 l’Italia si colloca nel 2009 al 18° posto. Solo il Giappone fa peggio di noi.

All’elevato debito pubblico, ereditato dalla corsa della spesa delle amministrazioni

pubbliche negli anni ’80-’90, si contrappone però in Italia un basso indebitamento

delle famiglie, che è sempre stato un nostro punto di forza e lo è, in particolare, nella

crisi mondiale in corso. Nella graduatoria di questo indicatore (tabella A4) non

figurano diversi Paesi emergenti di cui non si dispongono dati precisi ed aggiornati.

Tuttavia, considerando un gruppo ristretto di 9 Paesi del G20 (quelli più avanzati

aderenti all’OCSE ed a noi più omogenei) nel 2008 l’Italia presentava di gran lunga

il più basso rapporto tra debiti delle famiglie e PIL.

4.2. Indicatori di reddito e benessere L’indicatore di riferimento in questa categoria è rappresentato dal Reddito Nazionale

Lordo (RNL) pro capite. Secondo la Banca Mondiale (metodo Atlas) il RNL pro

capite espresso in dollari nel 2008 vedeva l’Italia in ottava posizione tra i Paesi del

G20 con 35.240 dollari per abitante (e al 32° posto a livello mondiale, in una

graduatoria in cui peraltro siamo preceduti anche da molti piccoli Paesi poco

significativi, dal Liechtenstein alle Bermuda, da San Marino alle Isole Cayman,

ecc.).

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Anche a parità di potere d’acquisto occupavamo la stessa posizione per RNL pro

capite nel G20 (mentre eravamo al 39° posto a livello mondiale) (tabella A5).

Di gran lunga migliore è la nostra collocazione nelle graduatorie relative allo stock di

ricchezza delle famiglie per abitante. In questo caso, secondo il già citato studio del

WIDER, nel 2000 ci trovavamo al 4° posto per ricchezza pro capite tra i Paesi del

G20 sia in dollari a cambi correnti sia a parità di potere d’acquisto (tabella A6).

L’Italia si posizionava addirittura al secondo posto dopo il Giappone nella classifica

della ricchezza mediana per adulto a parità di potere d’acquisto (tabella A7): un

riscontro importante, essendo questo indicatore più significativo delle medie pro

capite secondo gli studiosi del WIDER.

Un altro indicatore di benessere che ci vede ottimamente piazzati è l’Indice di qualità

della vita (“Quality of Life Index-QLI”). Questo indice è stato elaborato per il 2005

dall’Economist Intelligence Unit, braccio operativo di ricerca e di analisi del

settimanale britannico “The Economist”.

Il QLI affianca ad un tradizionale indicatore di reddito (in questo caso il PIL pro

capite) ben altri indici per misurare la qualità della vita di 111 nazioni del mondo.

Tali 8 indicatori complementari sono: la salute (misurata dall’aspettativa di vita alla

nascita); il livello di stabilità politica e sicurezza; il livello di stabilità famigliare

(tasso di divorzi); un indicatore composito di partecipazione alla vita comunitaria

(misurato dai tassi di partecipazione alle funzioni religiose, dal numero di iscrizioni

alle associazioni sindacali, ecc.); le condizioni climatiche; la sicurezza dell’impiego

(misurata dal tasso di disoccupazione); il grado di libertà politica (misurato da un

indice composito delle libertà politiche e civili); e le disparità economiche tra i sessi.

In base ai dati del 2005, l’Italia si collocherebbe all’ottavo posto assoluto nell’indice

di qualità della vita dell’ “Economist” e al secondo posto tra i Paesi del G20

preceduta solo dall’Australia, davanti a Stati Uniti, Canada e Giappone. Più staccate

figurano Francia, Germania e Gran Bretagna (rispettivamente al 25°, 26° e 29° posto

nella classifica mondiale) (tabella A7).

Altri indicatori reali di “benessere” posizionano ottimamente l’Italia tra i Paesi del

G20: infatti, il nostro Paese è primo per numero di autovetture ogni 1000 abitanti

davanti a Germania, Canada ed Australia, ed è anche primo per numero di

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abbonamenti telefonici (fisso più mobile) ogni 100 abitanti davanti a Germania e

Gran Bretagna (tabella A8).

4.3. Indicatori di sviluppo, welfare, mercato del lavoro e

funzionamento dello

Stato Tra gli indici che cercano di coniugare le informazioni fornite dal livello del reddito

con quelle relative ad altri aspetti basilari dello sviluppo (come sanità, scuola, ecc.),

in cui gioca un ruolo importante anche l’intervento dello Stato, vi è certamente

l’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (“Human Development Index-HDI”).

Lo HDI è un indice composito basato su tre indici: uno, per l’appunto, è il reddito

pro capite a parità di potere d’acquisto, mentre gli altri due sono un indice di

aspettativa di vita alla nascita e un indice composito del livello di istruzione. Nel

2007 l’Italia figurava al 18° posto nella classifica mondiale dello HDI, come

combinazione di un 6° posto per aspettativa di vita alla nascita, un 22-23° posto nei

due sottoindici relativi all’istruzione e un 29° posto per PIL pro capite a parità di

potere d’acquisto. A livello dei Paesi del G20 lo HDI posiziona l’Italia al 6° posto

subito dopo gli Stati Uniti davanti a Germania e Gran Bretagna (tabella A9). Tra gli

indicatori di welfare l’Italia occupa la prima posizione nel G20 per incidenza della

spesa pubblica per le pensioni sul PIL, davanti alla Francia (tabella A9). Il nostro

Paese è invece 10° nel G20 per incidenza della spesa pubblica per l’educazione sul

PIL, mentre è 6° nella graduatoria dell’incidenza della spesa pubblica per la salute

sul PIL (tabella A10).

Per quanto riguarda gli indicatori del mercato del lavoro abbiamo qui considerato per

esigenze di sintesi il tasso di disoccupazione, pur consapevoli che questo indice non

offre una rappresentazione esaustiva del fenomeno. Per quanto riguarda l’Italia, ad

esempio, va sottolineato per completezza di informazione che il nostro Paese

presenta un basso tasso di attività e una disoccupazione giovanile elevata, specie nel

Mezzogiorno.

Abbiamo qui considerato il tasso di disoccupazione nei Paesi del G20 sia prima

dell’attuale crisi economica mondiale, prendendo come riferimento i dati del 2007,

sia durante la crisi, con i dati riferiti a giugno 2009. L’Italia nel 2007 presentava

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l’11° tasso di disoccupazione, mentre è risalita a giugno 2009 al 6° posto (in realtà

sarebbe l’8° considerando che mancano i dati di India e Arabia Saudita, che quasi

certamente restano meglio posizionate). Durante la recessione, infatti, il tasso di

disoccupazione italiano è peggiorato meno di quelli di altri Paesi avanzati come gli

Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Canada, che abbiamo sopravanzato in classifica.

Anche il tasso di disoccupazione della Francia, già più elevato di quello italiano nel

2007, è ulteriormente peggiorato a giugno 2009 (tabella A11).

Completano questa categoria di indicatori due indici di efficienza dello Stato: si tratta

di due indici qualitativi elaborati dall’IMD di Losanna per il suo “World

Competitiveness Yearbook 2009”, uno riferito al peso della burocrazia sulle attività

di business e l’altro all’amministrazione della giustizia.

In entrambi i casi l’Italia è molto mal posizionata nel G20, risultando,

rispettivamente, al 16° e al 14° posto (tabella A12).

4.4. Indicatori di economia reale Per contro, negli indicatori di economia reale l’Italia presenta significativi punti di

forza nell’ambito dei Paesi del G20. Ci concentriamo qui su tre macrosettori:

manifattura, agricoltura e turismo.

Osserviamo anzitutto che per valore aggiunto manifatturiero e saldo complessivo

della bilancia commerciale con l’estero per i manufatti non alimentari il nostro Paese

è saldamente quinto nel G20 (e a livello mondiale): occupa dunque due posizioni in

più rispetto alla graduatoria di riferimento del PIL a valori correnti (tabella A13). Nel

valore aggiunto manifatturiero precediamo Francia e Gran Bretagna. Nella bilancia

commerciale per i manufatti non alimentari assieme all’Italia vi sono 16 soli altri 4

Paesi del G20 in attivo con l’estero (Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud),

mentre tutti gli altri sono in deficit.

Se analizziamo la bilancia commerciale per i manufatti distinguendo 4 grandi

categorie di prodotti, possiamo notare come l’Italia occupi una posizione di

eccellenza nella meccanica non elettronica e nei mezzi di trasporto diversi dagli

autoveicoli, in cui, con ben 85 miliardi di dollari nel 2008, presenta il terzo surplus

mondiale dopo Germania e Giappone, precedendo la Cina. L’Italia è invece al

quattordicesimo posto nel G20 nel macrosettore degli autoveicoli, dell’elettronica e

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dei prodotti per le telecomunicazioni, in cui registra un deficit di 30 miliardi di

dollari, peraltro molto inferiore a quelli di Gran Bretagna e Stati Uniti (tabella A14).

Anche nella chimica-farmaceutica, settore in cui notoriamente il nostro Paese ha

perso peso nel corso degli anni con l’uscita di scena di grandi gruppi come

Montedison, l’Italia non è ben posizionata, presentando un deficit con l’estero di

circa 15 miliardi di dollari e collocandosi al 15° posto nel G20. Ma questo modesto

disavanzo è più che compensato dall’ottima performance del nostro Paese negli altri

manufatti (consistenti principalmente in beni per la persona e la casa come

abbigliamento, calzature, mobili, ma anche in prodotti della metallurgia, della

lavorazione delle plastiche e della gomma) in cui l’Italia, con ben 63 miliardi di

dollari di surplus nel 2008, è seconda solo alla Cina, precedendo la Germania (tabella

A15).

In agricoltura il nostro Paese è svantaggiato per disponibilità di terra arabile (ogni

100 abitanti), risultando solo quattordicesimo nel G20. Ma l’Italia è ottava per valore

aggiunto dell’agricoltura, preceduta a livello europeo solo dalla Francia (tabella

A16).

L’Italia presenta però una serie di punti di forza nel campo dell’agricoltura e dei

prodotti alimentari, che abbiamo voluto qui evidenziare. Innanzitutto, vanta il miglior

saldo commerciale per la frutta fresca tra i Paesi del G20 (preceduta a livello

mondiale solo da Spagna e Cile). Inoltre, l’Italia è anche prima assoluta per export

dei prodotti basilari della cosiddetta “dieta mediterranea” (comprendente pasta,

derivati del pomodoro, olio vergine di oliva, vino, caffè tostato), dove precede

la Francia (tabella A17).

Infine, per quanto riguarda il turismo, rileviamo sulla base di alcuni indicatori

sintetici come anche in questo settore l’Italia sia ottimamente posizionata nel G20,

pur necessitando di una politica di rilancio del settore stesso per far fronte alla

crescente competitività dei nuovi Paesi emergenti sia a livello globale (Cina) sia a

livello dell’area del Mediterraneo (ove accanto a Spagna, Grecia, Marocco e Tunisia,

che sono realtà già da tempo affermate, sono cresciuti notevolmente per ricettività

turistica negli ultimi anni anche Paesi come Turchia ed Egitto). Per entrate turistiche

internazionali l’Italia nel 2008 si posizionava al terzo posto nel G20 (ed al quarto a

livello mondiale essendo preceduta anche dalla Spagna). Mentre un significativo

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indicatore dello straordinario patrimonio storico, artistico, archeologico e

paesaggistico dell’Italia è rappresentato dal primato assoluto nel G20 ed a livello

mondiale del nostro Paese per numero di siti dell’UNESCO (tabella A18).

4.5. Indicatori di produttività, competitività e ricerca Su produttività, competitività e ricerca c’è molta confusione nel nostro Paese (ed

anche all’estero) su quale sia il reale posizionamento relativo dell’Italia. E’

innegabile che negli ultimi anni vi sia stata una dinamica piuttosto fiacca della

produttività aggregata del nostro Paese (anche per l’aumento dell’occupazione, la

regolarizzazione di un notevole numero di immigrati, la debole crescita del PIL

rispetto ad altre economie che hanno massicciamente cavalcato la “bolla”

immobiliare e finanziaria, ecc.). Così come è indubbio che in diversi settori

tradizionali del “made in Italy” (moda e mobili) la crescente concorrenza asiatica

abbia eroso quote di mercato al nostro Paese, alimentando un’impressione di perdita

di competitività erroneamente generalizzata a tutto il nostro sistema manifatturiero.

Tale impressione è stata amplificata dall’eco data dai media ad alcuni indicatori

aggregati di competitività come quelli dell’IMD di Losanna o del World Economic

Forum, che hanno posizionato l’Italia addirittura dietro al Botswana o alla Bulgaria

nelle loro classifiche.

Pochi però si sono accorti che in queste stesse classifiche (che anziché di

competitività sarebbe più esatto definire di “attrattività” per gli investitori stranieri),

in realtà l’Italia non figurava affatto mal messa quanto a produttività e a

competitività nel commercio estero.

Ad esempio, secondo l’IMD di Losanna nel 2008 l’Italia si collocava al terzo posto

tra i Paesi del G20 sia per produttività complessiva sia per produttività per ora

lavorata a parità di potere d’acquisto, preceduta soltanto da Francia e Stati Uniti

(tabella A19). Dunque, benché cresciuta poco negli ultimi anni, la produttività

aggregata dell’Italia è tra le più alte.

Quanto alla competitività sui mercati internazionali, abbiamo già ricordato in

precedenza come il Trade Performance Index (TPI) elaborato dall’UNCTAD/WTO

abbia completamente capovolto i luoghi comuni sulla presunta perdita di

competitività dell’Italia, posizionando il nostro Paese al secondo posto al mondo

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dietro soltanto alla Germania per numero di migliori posizionamenti nel commercio

estero di 14 grandi categorie di prodotti. Uno spaccato di tale TPI ancor più

dettagliato di quello offerto in precedenza dalla tabella 7, è offerto dalla tabella 8, in

cui è evidenziato per i maggiori Paesi industrializzati del G20 e per la Cina il

posizionamento nella classifica mondiale di ciascuno dei 14 settori analizzati. Come

si può notare, l’Italia dimostra in modo inequivocabile tutta la forza del suo sistema

manifatturiero sui mercati d’esportazione.

Le indicazioni fornite dal TPI coincidono nella sostanza anche con quelle dell’Indice

Fortis-Corradini delle eccellenze competitive nel commercio mondiale elaborato

dalla Fondazione Edison.

Ci limitiamo qui a sottolineare come in base a tale indice, a cui è dedicato il saggio

successivo a questo, l’Italia figuri nel 2007 seconda tra i Paesi del G20 dopo la

Germania per numero di primi, secondi e terzi posti ogni 100.000 abitanti nell’export

mondiale di ben 5.517 prodotti (tabella A20).

Considerati i prodotti in cui i vari Paesi del G20 sono complessivamente primi,

secondi o terzi nell’export mondiale, l’Italia risulta invece terza per valore pro capite

degli stessi dopo Germania e Canada.

Da ultimo, osserviamo che il nostro Paese occupa il 10° posto nella graduatoria delle

spese in ricerca e sviluppo (R&S) tra i Paesi del G20 (tabella A21). Una posizione

non brillante che evidenzia la necessità di un maggior sforzo in questo campo da

parte dell’Italia, soprattutto per presidiare nuovi settori emergenti come quelli delle

bioscienze e delle energie rinnovabili.

Tuttavia, è del tutto evidente che la spesa in ricerca e sviluppo di per sé non è un

elemento sufficiente per generare una effettiva capacità di innovazione e per

assicurare ad un sistema innovativo nazionale adeguata competitività sui mercati,

come dimostra il fatto che l’Italia possiede un sistema manifatturiero più competitivo

di quello di altri Paesi come la Gran Bretagna o la Francia le cui spese in R&S sono

di gran lunga superiori alle nostre. Nella bilancia commerciale con l’estero per i

prodotti ad alta e medio-alta tecnologia12, ad esempio, l’Italia si è posizionata nel

2008 al 5° posto tra i Paesi del G20: due posizioni in più rispetto a quella che

occupiamo nella graduatoria del PIL.

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4.6. Indicatori di dotazione di infrastrutture e di accesso alle reti Il problema del ritardo dell’Italia nella dotazione di infrastrutture è noto. Solo in

alcuni ambiti specifici come le ferrovie la nostra posizione non presenta particolari

caratteristiche di criticità comparativamente agli altri maggiori Paesi avanzati (ed

anzi lo sviluppo recente dell’alta velocità ci fa guadagnare un po’ di terreno). Per il

resto, la congestione del traffico stradale, le inefficienze della rete idrica e soprattutto

la elevata dipendenza energetica dall’estero sono i principali fattori, tra i molti altri,

che contribuiscono a collocare l’Italia nelle ultime posizioni della graduatoria stilata

dall’IMD di Losanna circa il giudizio generale sul livello delle infrastrutture. In

questa classifica siamo purtroppo al 17° posto su 18 Paesi del G20 analizzati.

In particolare, ricordiamo che l’Italia è il Paese del G20 con la minore percentuale di

produzione nazionale di energia sul fabbisogno totale interno (tabella A21).

Meno drammatica appare la nostra collocazione nelle infrastrutture e nell’uso dei

servizi di rete internet. Per numero di utilizzatori di internet ogni 100 abitanti nel

2007 ci collocavamo all’8° posto nel G20, mentre per numero di sottoscrittori di

abbonamenti internet di banda larga ogni 100 abitanti eravamo al 9° (tabella A22).

4.7. Indicatori ambientali Per minori emissioni totali di CO2 l’Italia si posiziona al 10° posto nel G20, mentre

risale al 9° per quanto riguarda le emissioni pro capite. Dunque in questo indicatore

sintetico relativo all’impatto ambientale l’Italia occupa un posto che è

sostanzialmente equiparabile a quello che è il suo peso nel PIL mondiale a parità di

potere d’acquisto (tabella A23).

Anche per quanto riguarda le minori concentrazioni di particolato fine nell’aria nei

centri urbani, secondo la Banca Mondiale, l’Italia figura al 10° posto nella

graduatoria dei Paesi del G20. Va un po’ meglio negli scarichi di inquinanti organici

nelle acque dove è in settima posizione (tabella A24).

5. Conclusioni Nelle figure A1-A8 riportate in Appendice statistica è tracciato un riepilogo generale

del posizionamento dell’Italia nella nuova geo-economia del G20.

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I maggiori punti di forza dell’Italia, in estrema sintesi, sono costituiti da: un basso

debito delle famiglie e un buon livello assoluto, medio e mediano della ricchezza

delle famiglie stesse; una qualità della vita tra le più alte, un sistema pensionistico e

di welfare che assicura una buona sicurezza sociale, un posizionamento molto

importante nella manifattura, nell’agricoltura e nel turismo a livello mondiale, una

competitività elevata nel commercio internazionale ed un buon livello di produttività

aggregata.

Per contro, l’Italia appare posizionata male quanto a peso della burocrazia sulle

attività di business, lentezza ed inefficienze nell’amministrazione della giustizia,

livello elevato del debito pubblico, situazione generale delle infrastrutture e

dipendenza energetica dall’estero.

Siamo convinti che i punti di forza del nostro Paese siano di gran lunga superiori a

quelli di debolezza. Ma poiché la competizione è destinata ad accrescersi

drammaticamente nello scenario imperniato sulle nuove polarità della geo-economia,

è essenziale che l’Italia avvii un importante programma di riforme che permetta di

stabilizzare i suoi conti pubblici, migliorando al contempo i servizi che lo Stato offre

ai cittadini portandoli ad un livello adeguato all’eccellenza ricoperta a livello

mondiale dai settori dell’economia reale del nostro Paese.

BIBLIOGRAFIA Banca d’Italia (2009), La ricchezza delle famiglie italiane 2008, Supplementi al

Bollettino Statistico, n. 67, 16 dicembre.

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