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ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI Convegno La Costituzione ieri e oggi (Roma, 9 - 10 gennaio 2008) Comitato ordinatore: Enzo CHELI, Angelo FALZEA, Alessandro PIZZORUSSO (Coordinatore), Pietro RESCIGNO, Gustavo ZAGREBELSKY Programma Mercoledì 9 gennaio Ore 15,30 Saluto dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Giovanni CONSO Saluto dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Giuseppe DE VERGOTTINI Alessandro PIZZORUSSO: Introduzione Presiede: Enzo CHELI Maurizio FIORAVANTI - Valerio ONIDA: La Costituzione del 1948, ieri e oggi Intervallo Stefano RODOTÀ - Maurizio VIROLI: Il radicamento sociale della Carta costituzionale Ignazio MUSU - Alberto QUADRIO CURZIO: Costituzione e sistema economico Giovedì 10 gennaio Presiede: Alessandro PIZZORUSSO Ore 9,45 Leopoldo ELIA - Tania GROPPI: Costituzione e assetto costituzionale Lorenza CARLASSARE - Giovanni SARTORI: Costituzione e sistema politico Intervallo Sergio BARTOLE - Marta CARTABIA: Costituzione e costituzionalismo Gustavo ZAGREBELSKY: Conclusioni Il convegno è organizzato con il contributo della Compagnia di San Paolo ROMA - PALAZZO CORSINI - VIA DELLA LUNGARA, 10 Accademia dei Lincei "La Costituzione ieri e oggi" 1

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ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI

Convegno

La Costituzione ieri e oggi (Roma, 9 - 10 gennaio 2008)

Comitato ordinatore: Enzo CHELI, Angelo FALZEA, Alessandro PIZZORUSSO (Coordinatore), Pietro RESCIGNO,

Gustavo ZAGREBELSKY

Programma Mercoledì 9 gennaio

Ore 15,30 Saluto dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Giovanni CONSO

Saluto dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, Giuseppe DE VERGOTTINI

Alessandro PIZZORUSSO: Introduzione

Presiede: Enzo CHELI

Maurizio FIORAVANTI - Valerio ONIDA: La Costituzione del 1948, ieri e oggi

Intervallo

Stefano RODOTÀ - Maurizio VIROLI: Il radicamento sociale della Carta costituzionale

Ignazio MUSU - Alberto QUADRIO CURZIO: Costituzione e sistema economico

Giovedì 10 gennaio

Presiede: Alessandro PIZZORUSSO

Ore 9,45 Leopoldo ELIA - Tania GROPPI: Costituzione e assetto costituzionale

Lorenza CARLASSARE - Giovanni SARTORI: Costituzione e sistema politico

Intervallo

Sergio BARTOLE - Marta CARTABIA : Costituzione e costituzionalismo

Gustavo ZAGREBELSKY: Conclusioni

Il convegno è organizzato con il contributo della Compagnia di San Paolo

ROMA - PALAZZO CORSINI - VIA DELLA LUNGARA, 10

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ALESSANDRO PIZZORUSSO

Introduzione

Il comitato ordinatore di questo convegno ha previsto che le relazioni fossero precedute da un’introduzione. Ciò non è stato stabilito per influire in qualunque modo su quanto i relatori diranno. Ad essi sono stati soltanto indicati i limiti di tempo che abbiamo potuto mettere a loro disposizione ed una sommaria ripartizione di temi. Questo intervento tende perciò soltanto a offrire una scheda nella quale siano forniti i dati più significativi, a parere di chi vi parla, della storia costituzionale d’Italia unita.

Questa storia è relativamente breve, soprattutto se confrontata con quelle degli altri paesi che raggiunsero molto prima un assetto organizzativo riconducibile alla nozione di “Stato moderno”. Nel 2011, infatti, lo Stato italiano raggiungerà il traguardo dei 150 anni di esistenza, laddove molti stati europei possono contare in secoli la loro età. La relativa giovinezza dell’Italia comporta che la lotta per l’unificazione nazionale si sia interamente sviluppata all’interno di quel periodo storico nel quale, in molti paesi occidentali, si è venuto attuando, più o meno compiutamente, il movimento di pensiero che sosteneva l’opportunità della “costituzionalizzazione” degli ordinamenti giuridici statali, combattendo così, in nome di essa - cioè in nome della democrazia - l’assetto precedente, per lo più caratterizzato dalla presenza di un monarca assoluto.

Come si legge in un articolo della dichiarazione dei diritti dell’uomo adottata in Francia nel 1789, con la parola costituzionalizzazione si intende la realizzazione di un regime politico nell’ambito del quale sia assicurata la “garanzia dei diritti” e la “separazione dei poteri” e ciò comporta l’adozione di un documento dotato di elevato valore politico, ma anche giuridico, che assume il nome di “costituzione” in un senso diverso da quello in cui questa parola era stata prevalentemente impiegata nei secoli precedenti. Cosicchè la costituzione può presentarsi in varia forma, scritta o eventualmente anche non scritta, ma è comunque osservata e fatta osservare come legge fondamentale dell’ordinamento giuridico dello Stato.

Il Risorgimento italiano vide svilupparsi insieme la rivendicazione dell’unità, fondata sull’affermazione dell’esistenza di una Nazione italiana, e la rivendicazione del costituzionalismo, propria del movimento liberale. Le due rivendicazioni furono avanzate parallelamente, anche se in certi momenti la seconda dovette essere parzialmente sacrificata alle esigenze della prima. Sta di fatto che, nel 1861, l’unità fu raggiunta e non fu più rimessa in discussione (restando soltanto da completare con alcuni ulteriori acquisti territoriali i risultati raggiunti fino a questo momento). Invece, per circa un secolo, l’Italia non poté dotarsi di una costituzione pienamente conforme ai principi del costituzionalismo.

Lo Statuto albertino, graziosamente “concesso” dal Re ai suoi sudditi sardi, liguri e piemontesi, e successivamente divenuto la costituzione del Regno d’Italia, adottava una forma di governo qualificabile come “costituzionale pura” e solo in virtù delle “modificazioni tacite” questa forma di governo si era trasformata in un regime “parlamentare dualista”, grosso modo simile alla monarchia orleanista operante in Francia dal 1830 al 1848. Ma l’esigenza di non compromettere l’unificazione nazionale impedì di realizzare una costituzione “votata”, come una parte importante della cultura risorgimentale richiedeva. Ciò nonostante, la ristretta élite che governò l’Italia per i suoi primi cinquant’anni poté realizzare un assetto istituzionale non troppo lontano da quelli che erano propri a quel tempo dei paesi europei più avanzati culturalmente e politicamente e poté altresì resistere alle prime reazioni che si manifestarono contro lo Stato liberale, come quando, in un celebre articolo, fu invocato il “ritorno allo Statuto”, ossia al governo costituzionale puro che faceva del monarca il titolare del potere esecutivo e limitava le possibilità della Camera elettiva di condizionarne le decisioni alle ipotesi di imposizione di tributi.

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Eguale resistenza non poté essere invece opposta all’attacco che alle istituzioni liberali fu mosso da un complesso movimento d’opinione, a base irrazionalista e populista, il quale portò, dapprima, alle “radiose giornate” del maggio 1915 e, successivamente, all’avvento del fascismo. Conseguentemente, il regime liberale fu sostituito da un ordinamento che si contrapponeva frontalmente ai valori del costituzionalismo e che condusse il paese ad affrontare una serie di guerre insensate che causarono all’Italia gravissimi danni morali e materiali. Quando questo regime finì, gli italiani che si erano opposti ad esso, nell’esilio o nella Resistenza sviluppatasi nell’ultima fase della guerra, poterono salvare la sovranità dello Stato e recuperare ad esso dignità di paese libero. A conclusione di una lunga transizione (1943-1948), l’Italia poté così avere finalmente una Costituzione, approvata a grandissima maggioranza da un’assemblea costituente eletta democraticamente dai suoi cittadini e finalmente ispirata, senza remore, ai principi del costituzionalismo. Questo obiettivo fu raggiunto in due momenti, il primo rappresentato dal referendum del 2 giugno 1946, quando la maggioranza degli elettori optarono per la forma di governo repubblicana, con una votazione nella quale non era in questione tanto il modo in cui designare il titolare dell’organo Capo dello Stato, quanto la scelta fra il costituzionalismo ed il suo contrario, e, il secondo, dal voto espresso il 22 dicembre 1947, con una maggioranza di 453 a 62, dall’Assemblea costituente che era stata anch’essa eletta in concomitanza col referendum istituzionale.

Ma la lotta per il costituzionalismo non era ancora finita. Lo scoppio della “guerra fredda” sul piano internazionale trasformò le elezioni svoltesi il 18 aprile 1948, sulla base di leggi che finalmente attuavano pienamente il suffragio universale e le altre garanzie costituzionali, in uno scontro fra i sostenitori dei due schieramenti che si erano formati in corrispondenza dei due blocchi, e, negli anni che seguirono, determinò il “congelamento” della Costituzione, ossia la mancata applicazione di gran parte dei suoi principi e delle sue norme, spesso definite “meramente programmatiche”. Le difficoltà che ne derivarono, tuttavia, furono in gran parte superate alcuni anni dopo, quando si ebbe il così detto “disgelo costituzionale”; furono così realizzati gradualmente molti istituti previsti dalla Costituzione, nonché gran parte delle garanzie dei diritti dei quali essa assicurava la protezione. I partiti che avevano combattuto il fascismo tornarono così a collaborare nell’ambito di un raggruppamento, denominato ”arco costituzionale”, il quale impegnò tutte le forze politiche italiane, esclusi soltanto i piccoli gruppi neo-fascisti o monarchici, ad attuare la Costituzione e questo obiettivo fu accettato come proprio della grande maggioranza delle forze politiche, che lo perseguirono, seppur con grande lentezza e non senza difficoltà. Fin verso gli anni ’80 del XX secolo, le esigenze di modificare il testo della Costituzione che si vennero talora manifestando portarono soltanto ad una serie di aggiustamenti minori, sui quali non vi furono veri e propri contrasti. Si ebbero così un certo numero di leggi costituzionali o di revisione costituzionale, approvate a norma dell’art.138 della Costituzione stessa. Negli ultimi decenni del secolo, però, cominciarono ad emergere opinioni le quali attribuivano alle soluzioni adottate nella Costituzione, soprattutto in tema di forma di governo, la responsabilità delle difficoltà di funzionamento del sistema politico italiano ed in particolare dell’instabilità ministeriale e della scarsa efficacia dell’azione governativa. In un primo momento queste iniziative si presentarono animate da spirito costruttivo, tendendo cioè a migliorare il funzionamento degli organi costituzionali senza mettere in discussione il sistema dei valori cui la Costituzione si era ispirata. Ciò può dirsi dei progetti elaborati da una prima commissione bicamerale che lavorò fra 1983 ed il 1985, con funzioni peraltro soltanto consultive. Altre iniziative cercarono invece di sfruttare l’idea di una “Grande Riforma costituzionale” per conseguire risultati più specificamente attinenti ai rapporti di forza esistenti fra i partiti. Negli anni ’90 si determinò poi una più vasta crisi costituzionale, determinata soprattutto dalla scoperta di gravi fenomeni di corruzione che inquinavano il mondo politico e imprenditoriale,

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la quale portò ad un rimescolamento degli schieramenti ed al sorgere di nuovi partiti dai quali vennero mossi attacchi alla Costituzione, non escluse le parti di essa concernenti valori fondamentali. Sconsideratamente, fu avanzata, non senza successo, la tesi, confutata dalla maggior parte dei costituzionalisti, secondo cui la Costituzione del 1947 era ormai caduta e ci si trovava già in una “Seconda Repubblica”. Seguirono confuse vicende, nel corso delle quali furono compiuti vari tentativi di riformare la Costituzione sulla base di intese fra tutte le forze politiche. A questo scopo furono convocate, nel 1993 e nel 1997, altre due commissioni bicamerali, i cui sforzi rimasero tuttavia senza esito. Sulla linea della Grande Riforma, nel corso della XIV legislatura (2001-2006), lo schieramento di centro-destra, che disponeva allora di una amplissima maggioranza in entrambe le Camere, approvò un progetto di revisione dell’intera parte seconda della Costituzione, destinato a realizzare un radicale rafforzamento dei poteri del primo ministro, eletto direttamente dal popolo e dotato di poteri simili a quelli previsti dalle forme di governo del tipo di quelle che vanno sotto il nome di bonapartismo. Per soddisfare le rivendicazioni della Lega Nord, che faceva parte di questa alleanza e conduceva una propaganda di tipo ultra-populista (giungendo a mettere in discussione la stessa unità nazionale), il progetto realizzava altresì, almeno in apparenza, un rafforzamento dei poteri delle regioni, con conseguente trasformazione dell’Italia in uno stato federale. Una volta approvato dalle Camere, il progetto fu sottoposto al referendum confermativo richiesto dalle opposizioni (che in Parlamento erano state praticamente ridotte al silenzio per effetto dell’uso spregiudicato dei regolamenti) e il 25 e 26 giugno 2006 gli elettori lo seppellirono sotto una netta maggioranza di voti negativi (pari a circa il 60%). Questo risultato (e il contemporaneo successo delle opposizioni nelle elezioni politiche dell’aprile 2006) determinarono un rovesciamento della situazione e ciò che fu soprattutto sconfitto dal voto popolare fu proprio l’uso demagogico dello slogan della Grande Riforma costituzionale. Nessuno contestava, infatti, che revisioni della Costituzione fossero proponibili, a condizione che si trattasse di proposte di precise correzioni, le quali non intaccassero i principi fondamentali del costituzionalismo (cioè, come già abbiamo visto, la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri).

Per quanto riguarda la separazione dei poteri, come mostra il modello di presidenzialismo attuato negli Stati Uniti, un rafforzamento dell’esecutivo non è di per sé incompatibile col costituzionalismo, ma a condizione che esso sia equilibrato dalla salvaguardia di potenziali contropoteri quali sono, nel modello italiano, soprattutto il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, il Potere giudiziario e la stessa Opposizione parlamentare.

I termini della questione della revisione della Costituzione, quali si presentano oggi in Italia, richiamano alla memoria la proposta di abrogazione dell’art.5 dello Statuto albertino che Giovanni Giolitti avanzò senza successo nel 1920, all’epoca della formazione del suo ultimo Governo. Avvalendosi dei poteri configurati da tale articolo, nel 1915 tre persone, cioè il Re Vittorio Emanuele III, il presidente del consiglio Salandra ed il ministro degli esteri Sonnino avevano firmato il Patto di Londra, cioè il trattato segreto che determinò l’entrata in guerra dell’Italia e, indirettamente, gli orrori che ne seguirono nei trent’anni successivi. Allora si trattava di introdurre cautele che lo Statuto non prevedeva; oggi di rimuovere o attenuare quelle che la Costituzione invece assicura. Ma la questione di fondo sollevata allora da Giolitti presenta forse ancor oggi qualche attualità.

Quelli che ho elencato sono i dati che mi sembrano più rilevanti che offre alla nostra meditazione la storia costituzionale d’Italia, la quale ha conosciuto, in sostanza, una sola vera Costituzione la quale, in un momento che si presentava particolarmente favorevole per molte ragioni forse irripetibili, ha accolto senza riserve i principi del costituzionalismo, ma che ha visto, prima e dopo tale momento, molteplici attacchi portati contro tali principi. Dire quale sia lo stato della Costituzione nell’attuale momento della vita del nostro paese è pertanto tutt’altro che semplice. Ai relatori il compito di chiarirci i vari aspetti in cui il problema complessivo si articola e quali ne siano le soluzioni ipotizzabili.

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MAURIZIO FIORAVANTI

Le due trasformazioni costituzionali dell'Italia repubblicana

Nel tema che ci è stato assegnato è implicita la necessità di un confronto1. Bisogna quindi prima di tutto intendersi sui termini del confronto. Io lo imposterei così : da una parte quella che chiamerei la Costituzione dei costituenti, ovvero la Costituzione come era intesa da coloro che la votarono, ed anche dalla cultura politica e giuridica di quel tempo storico, dall’altra la Costituzione di oggi, ovvero la Costituzione come risulta dai processi di trasformazione che sono intercorsi in questi sessant’anni. Ne abbiamo individuati due, che passeremo tra poco ad esaminare, e che consideriamo assai rilevanti, tali da aver segnato nel profondo la storia costituzionale della Repubblica. Dunque, per avviare il nostro discorso, la categoria di cui dobbiamo impadronirci è quella di ‘ trasformazione costituzionale’, che ben si adatta alla nostra storia costituzionale2.

È bene subito chiarire per altro che la nostra Repubblica ha avuto una sola Costituzione, da cui è scaturita una sola ed unica Repubblica, quella che abbiamo. Le trasformazioni cui stiamo alludendo, per quanto rilevanti siano state, si sono dunque sviluppate dentro la Costituzione del 1948. Ma ciò significa, a sua volta, una sola cosa : che la Costituzione del 1948 è nata dotata della formidabile virtù della elasticità, che consiste nella capacità della Costituzione, attraverso un mutamento della sua interpretazione, di mantenersi dotata di significato di fronte a realtà nuove, a sviluppi che non erano stati previsti dai suoi autori, dai costituenti3. Si potrebbero fare numerosi esempi in questa direzione : dal diritto all’ambiente alle norme che siamo soliti racchiudere sotto l’etichetta della ‘costituzione economica’, fino alle norme sulla forma di governo, oggetto di molteplici tentativi, anche attuali, di revisione, ma che proprio grazie alla qualità della elasticità hanno saputo attraversare fasi diversissime della nostra storia costituzionale repubblicana4.

Si apre qui, proprio sul piano storico, la necessità di una certa riflessione, anche nuova, sui nostri costituenti. Essi vollero certamente emanare una Costituzione nel segno della discontinuità, non solo ovviamente verso il regime fascista, ma anche verso il precedente regime liberale. E vollero in questo senso una costituzione rigida. Ma nello stesso tempo furono anche dei costituenti prudenti, che si sforzarono sempre di scrivere una Costituzione non ideologica, non dogmatica, adatta ad essere recepita in una pluralità di direzioni, ed anche a recepire essa medesima realtà nuove, che gli stessi Costituenti, nel loro tempo, solo in parte potevano prevedere. Ciò vale in particolare per le norme di principio, che come sappiamo caratterizzano nel profondo, sul piano storico, le Costituzioni del Novecento, come la nostra italiana. Quelle norme rappresentavano

1 Si è deciso di mantenere il più possibile nella forma scritta il carattere di immediatezza proprio della relazione orale, tenuta il 9 gennaio 2008 presso l’Accademia dei Lincei , in occasione del Convegno su “La Costituzione ieri ed oggi“. Per questo motivo, i riferimenti bibliografici sono contenuti ed adeguati al carattere del testo. 2 La useremo con un significato vicino a quello ad essa attribuito da S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna, 2004. 3 Le più recenti discussioni in materia d’interpretazione costituzionale sono documentate in G. Azzariti ( a cura di ), Interpretazione costituzionale,, Torino, 2007. 4 L’elasticità così intesa presuppone inoltre un motore sottostante alla Costituzione che guida nel tempo le trasformazioni costituzionali. Per ragioni storiche profonde, che non possono essere qui esaminate, questo motore era in Italia dato dall’insieme dei partiti di massa autori materiali della Costituzione repubblicana. E questo spiega la crisi successiva degli anni Ottanta e Novanta, quando quell’insieme si è disciolto per dar luogo a nuove forme di particolarismo sociale e territoriale. Nella nuova situazione, non a caso ritorna l’esigenza di una razionalizzazione di livello costituzionale della forma di governo, promessa alla Costituente e mai attuata. Se ne è occupato con esemplare chiarezza in questo stesso Convegno L. Elia, La “stabilizzazione” del governo dalla Costituente ad oggi, ora in “ Rassegna Astrid “, giovedì 10 gennaio 2008, n.63 . Si vedano in proposito anche le recenti considerazioni di G. Amato, Per i sessanta anni della Costituzione, in “ Rassegna Astrid “ , mercoledì 19 dicembre 2007, n. 62 ; e sia infine consentito di rinviare a M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano. La Costituzione italiana nella storia del costituzionalismo moderno, Bologna, 2004, pp. 7 e ss, e pp. 108 e ss..

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certamente nel loro insieme una scelta decisa - secondo la classica lettura mortatiana - per un sistema democratico e sociale, voluto dal potere costituente, e che segnava nel profondo la nuova forma di Stato. Ma nello stesso tempo, quelle medesime norme di principio erano in realtà costruite e formulate all’insegna della prudenza e della elasticità, in modo che lo schieramento costituzionale, assai ampio ed articolato, si potesse riconoscere in esse partendo da concezioni in quel momento convergenti, ma delle quali nessuno sapeva come avrebbero potuto reincontrarsi nella concreta vita della istituenda Repubblica5.

Vi erano quindi molti motivi per volere una Costituzione elastica, all’insegna della prudenza. Sopra abbiamo definito l’elasticità una ‘virtù’, quindi una qualità positiva di una Costituzione. E noi crediamo che ciò sia valso, e valga, a conti fatti, anche per la storia costituzionale della nostra Repubblica. Ma c’è un punto debole in tutto questo. Infatti, le costituzioni, in genere, possono permettersi il lusso della elasticità se sono alla base ben fondate, ovvero riconosciute senza incertezze come norme fondamentali e primarie dalle rispettive comunità politiche. Altrimenti, può accadere che determinate caratteristiche di quelle costituzioni, come l’indeterminatezza, per lo meno apparente, di certe disposizioni, una certa costruzione delle stesse norme di principio, la tendenza a lasciare spazi bianchi da riempire con la prassi costituzionale, vengano assunte come prova della loro natura di ‘leggi politiche’, in quanto tali inadatte a disciplinare i rapporti tra i consociati, e dunque a porsi in concreto come vere e proprie norme giuridiche, dotate di qualcosa di analogo alla forza di legge.

Non bisogna mai dimenticare del resto che nell’Europa continentale, sul modello della rivoluzione francese, la costituzione nasce proprio come loi politique, che proclama certamente i diritti, ma che non è chiamata all’inizio affatto a disciplinare i rapporti in concreto, sociali ed economici, che vengono lasciati alla disciplina di sempre, quella della legge, ora divenuta, con la rivoluzione, espressione della sovranità nazionale o popolare. La storia conosceva da sempre la forza di legge, prima del sovrano e poi della assemblea. Non conosceva invece la forza della costituzione. Le Dichiarazioni dei diritti avevano un posto rilevante, per lo meno in epoca rivoluzionaria, ma non erano forse quei diritti destinati a divenire vero e proprio patrimonio giuridico degli individui solo, ancora una volta, per il tramite della legge ? E per quanto riguardava la forma di governo non era forse vero che in fondo tutti si attendevano che le norme della costituzione dovessero esser riempite in concreto dai comportamenti effettivi delle forze politiche ? C’è qui evidentemente un punto oltre il quale l’elasticità non è più una virtù, e rischia di essere invece l’anticamera della emarginazione della costituzione come norma giuridica.

Ebbene, questo è proprio quello che si è rischiato in Italia nei primi anni di vigenza della Carta costituzionale. Nel tempo della inattuazione costituzionale. Quella inattuazione ebbe certamente cause specificamente politiche, come tutti sappiamo, ma non solo. Prende ora campo l’idea che le cause fossero anche più estese e profonde, di ordine che potremmo definire culturale. In altre parole, premeva sui nostri costituenti, e poi anche negli anni immediatamente successivi, proprio la tradizione rivoluzionaria della loi politique sopra ricordata, certo voluta da un sovrano potere costituente, ma proprio per questo ‘ legge politica’, quasi per sua natura posta in alto, troppo lontano dal campo della disciplina dei rapporti sociali ed economici, cui continuava a provvedere la fonte di sempre, ovvero la legge. Certo, la fonte primaria era ora dichiaratamente la costituzione, ma la legge, in quanto non fosse in contrasto con la costituzione, continuava a stare al centro

5 Dovremo tornare su questa ‘doppia faccia’ delle norme di principio. Dal primo punto di vista, è fatale che prevalga una concezione tutta politica della attuazione costituzionale. Ma il secondo punto di vista, che valorizza di più la pluralità e le differenze, è la premessa per quel ruolo attivo della giurisdizione nella concretizzazione dei principi costituzionale, di cui ci occuperemo in seguito. Deve però essere chiaro che i due aspetti non possono reciprocamente elidersi, e sono dunque destinati a convivere necessariamente nelle norme di principio delle Costituzioni democratiche del Novecento, che in tal modo esprimono da una parte il principio di unità politica insito nel potere costituente, ma dall’altra parte, e nello stesso tempo, si pongono obbiettivamente come punti di equilibrio rispetto ad una società mai come in questo tempo storico caratterizzata da un ampio pluralismo politico, culturale e sociale. Sulle norme di principio si vedano ora i chiarimenti concettuali di G. Zagrebelsky, Diritto per : valori, principi o regole ?, in Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 31 ( 2002 ), pp. 865 e ss..

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dell’ordinamento. Rispetto al classico modello liberale del secolo precedente, la legge era maggiormente condizionata dalla costituzione, ma non aveva affatto ceduto a questa, nel sistema delle fonti di diritto, la sua posizione di centralità. Ovviamente, nella Costituzione vi era, rispetto al passato, una vera e propria riscrittura globale dei principi fondanti, e degli stessi diritti, dotati ora della qualità della inviolabilità, sorretti da riserve di legge di qualità nuova, aperti alla materia sociale del lavoro, della salute, della istruzione, della assistenza. Ma era anche diffusissima la convinzione che tutto questo, specialmente e proprio nella materia sociale, sarebbe rimasto lettera morta senza la decisiva opera di attuazione da parte del parlamento, con lo strumento di sempre della legge. Invocare l’intervento del legislatore per l’attuazione della Costituzione aveva dunque in molti casi questa doppia faccia : da una parte significava sottolineare la necessità di rendere concreto il primato dei nuovi principi costituzionali, ma dall’altra significava quasi ammettere l’incapacità della costituzione di stare in piedi come norma giuridica con le sue proprie gambe.

Ed in effetti, nella cultura giuridica e politica prevalente in quegli anni questo era il punto cruciale. Spesso, anche tra i sostenitori della normatività della nuova Costituzione era infatti diffusa l’opinione che nulla di decisivo si sarebbe potuto fare per affermare quella normatività senza il legislatore. E dunque, che avere una Costituzione normativamente forte significasse quasi esclusivamente avere una Costituzione capace d’imporsi al legislatore, inteso come unico vero destinatario delle norme costituzionali. Ebbene, questa è la prima grande trasformazione che abbiamo individuato, che prende le mosse dalla prima sentenza della Corte costituzionale del 1956, e che giunge fino a noi. La sintetizzerei così : dalla Costituzione come loi politique alla Costituzione come norma giuridica6.

Non voglio ora ripercorrere vicende fin troppo note. Voglio solo ancor più esplicitare il punto di avvio di questa trasformazione, che abbiamo collocato nella sentenza del 1956. Di quella sentenza non interessa tanto, nella nostra ricostruzione, la nota affermazione del carattere pienamente normativo delle norme c.d. ‘programmatiche’, quanto il ragionamento implicito nella estensione del sindacato della Corte alla valutazione della costituzionalità delle norme anteriori. Se questo si rivelava possibile, significava che era evidentemente caduta la barriera principale che si ergeva contro la normatività della Costituzione, ovvero ritenere che questa si indirizzasse in sostanza al legislatore, sanzionandolo quindi per il mancato rispetto della Costituzione, quando questi avesse emanato norme ad essa contrarie, naturalmente dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Ora, era chiaro che il giudizio di costituzionalità si svincolava dallo schema della sanzione contro il legislatore, dal momento che operava anche verso i legislatori del passato, ovviamente ignari della norma costituzionale quando avevano emanato le loro leggi. Diveniva così chiaro che in realtà il controllo di costituzionalità operava non sui legislatori, ma sulle norme, rispetto alle quali la norma costituzionale rivendicava finalmente la sua supremazia, indipendentemente dalla loro data di emanazione, perché contava ormai, in questa logica, solo il fatto che esse fossero vigenti, e che pretendessero di esserlo nonostante la loro contrarietà a costituzione. La costituzione doveva colpire quelle norme, non solo per tutelare i diritti in esse coinvolti, ma anche perché ora su di essa si era trasferita la responsabilità della unità e della coerenza dell’ordinamento.

Si apriva così una nuova vicenda. Nuova rispetto alla tradizione legicentrica propria del modello costituzionale europeo-continentale, ma nuova anche rispetto all’intento originario dei nostri costituenti, che erano fermi nel volere una correzione, anche rilevante, di quel modello, ma che non avrebbero mai pensato che con l’introduzione della Corte avrebbero di fatto avviato una trasformazione di questa portata, tale da mutare – come cercheremo progressivamente di mostrare

6 Rinviamo in proposito, per una ricostruzione più dettagliata, a M. Fioravanti, Costituzione e legge fondamentale, in Diritto Pubblico, 2006, 2, pp. 467 e ss.. Si veda ora anche M. Gregorio, Quale Costituzione? Le interpretazioni della giuspubblicistica nell’immediato dopoguerra, in Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2006, 35, pp. 849 e ss.. Il senso della trasformazione intervenuta è testimoniato con efficacia da N. Lipari, Giurisprudenza costituzionale e fonti del diritto, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, LX, 2006.4, pp. 1047 e ss. .

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– l’assetto delle fonti di diritto, ed in particolare il ruolo tradizionale della legge e della stessa giurisdizione. Seguiamo ora questo filo conduttore7.

Torniamo al 1956. Quasi subito si mostrò quanto fosse problematica, nella materia della giustizia costituzionale, quella distinzione tra legittimità e merito, che era stata introdotta per la giustizia amministrativa, e che non pochi alla Costituente avevano preso come base per i loro ragionamenti sulla Corte, soprattutto per tranquillizzare coloro che in essa vedevano un potenziale ‘super-sovrano’, a danno della legge e del principio democratico. Quello che noi chiamiamo controllo di ragionevolezza della legge iniziò infatti quasi subito ad affacciarsi nella giurisprudenza della Corte, avviando un cammino che nel tempo avrebbe condotto a costruire un vero e proprio sindacato attorno al rispetto del principio di uguaglianza, e dunque alla ragionevolezza, o al suo contrario, ovvero alla arbitrarietà, del trattamento uguale di situazioni diverse, o del trattamento diverso di situazioni uguali, da parte del legislatore, con sviluppi poi ulteriori che hanno sempre più arricchito il campo della valutazione della ragionevolezza della legge, anche al di là della originaria problematica della eguaglianza, del divieto di discriminazione. E per quanto la Corte potesse ripetere fin dall’inizio che alla base del suo ragionamento vi erano le valutazioni compiute dallo stesso legislatore, in realtà si vedeva bene che per quella via la Corte intraprendeva un cammino che finiva per attraversare il campo della discrezionalità legislativa, ed inoltre – cosa certo non secondaria – che essa era condotta dal suo medesimo ruolo ad indagare sulle realtà di fatto sottostanti alla questione di costituzionalità, in dialogo con i giudici stessi8.

Quello che molti avevano immaginato, ovvero una Corte nell’empireo costituzionale, confinata in questioni di mera legittimità, era smentito in entrambe le direzioni : verso il legislatore, con il quale si apriva un dialogo sui contenuti della legge, e verso i giudici, con i quali si apriva un dialogo sulla interpretazione della legge, a partire dai casi concreti. Il legame che si stabiliva con i fatti della vita portava fatalmente in primo piano la tutela delle posizioni soggettive che vi erano coinvolte e trasformava quella che era stata concepita come una giurisdizione oggettiva, di legittimità delle leggi, in una giurisdizionale costituzionale, dei diritti . Per questa via la funzione della Corte si incastonava sempre più nel cuore del sistema costituzionale , in qualche modo mutandone la struttura. Chi aveva accettato la novità della Corte, ma a condizione che rimanesse nei confini di una mera aggiunta, o correttivo, dei tradizionali assetti, ed in particolare del ruolo tradizionale della legislazione e della giurisdizione, era smentito. Nel futuro non vi sarebbe stato tanto la normale e fisiologica validità della legge, e per converso la sua eccezionale e patologica incostituzionalità, quanto un’opera costante di riconduzione della legge alla costituzione, attraverso la sua interpretazione secondo costituzione, a partire dai casi concreti, per opera dei giudici, in buona misura guidati dalla Corte medesima9.

Sono assolutamente convinto che alla Costituente nessuno pensava ad una prospettiva di questo genere. Certo, la Corte fu accolta nella Carta senza che le pur rilevanti perplessità di alcuni dei costituenti, anche di primo piano, minacciassero davvero la sua eliminazione. Ma quasi tutti erano significativamente incerti sulla sua natura, politica o giurisdizionale. Senza che si possedessero gli strumenti, a causa della lunga dominanza del paradigma giuspositivistico, per inquadrare una funzione che era fatalmente in sé sia ‘giurisdizionale’ che ‘politica’, come poi in

7 Precisando che la vicenda italiana è parte della più ampia vicenda delle democrazie europee, tutte investite dal medesimo processo di trasformazione. Significativamente la discussione è aperta anche in Francia, paese per eccellenza, sul piano storico, della tradizione legicentrica. Nella letteratura più recente, e nella direzione da noi indicata, si vedano P. Blachèr, Contrôle de constitutionnalité et volonté générale : la loi votée n’exprime la volonté générale que dans le respect de la Constitution, Parigi, 2001 ; F. Monera, L’Idée de République et la Jurisprudence du Conseil Constitutionnel, Parigi, 2004 ; ed i saggi contenuti in Pouvoirs. Revue francaise d’ Etudes constitutionnelles et politiques, n. 114 ( 2005 ). 8 Utile in questo senso 1956-2006. Corte Costituzionale italiana. Giurisprudenza Costituzionale. Cinquant’anni di Diritto Costituzionale, con prefazione di S. Bartole, Milano, 2006. 9 Sullo sfondo, ciò che va cadendo è la concezione tradizionale della legge come espressione della ‘volontà generale’. E dunque la trasformazione riguarda l’intero assetto delle fonti di diritto. Una prospettiva di grande interesse si trova in M. Cartabia, Legislazione e funzione di governo, in Rivista di diritto costituzionale, 2006, pp. 50 e ss. .

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effetti è stato. Ma soprattutto si pensava che in nessun caso si sarebbe stabilito un nesso così forte tra normatività della costituzione ed esercizio della funzione giurisdizionale, ordinaria e costituzionale. E che comunque sarebbe stato assolutamente prevalente il ruolo del legislatore nel dare attuazione alla Costituzione medesima, com’era del resto nella tradizione della loi politique di rivoluzionaria memoria10.

Le cose sono dunque andate diversamente, rispetto a ciò che gli stessi costituenti potevano immaginare. Non bisogna però pensare ad una sorta di ‘colpo di mano’ della giurisdizione, ed in particolare della Corte, ai danni del legislatore. C’è da considerare, in proposito, prima di tutto, il meccanismo di accesso alla Corte, da parte di un giudice a quo. La Corte cioè non ha iniziativa, non sceglie, costruisce nel tempo la propria giurisprudenza, ma non ha un indirizzo, che è cosa ben diversa. E dunque la sua opera, per quanto ampliatasi rispetto alle previsioni dei costituenti, non può comunque, in nessun caso, essere valutata alla stregua dell’esercizio di un potere legislativo o di un potere politico d’indirizzo. La Corte non ha mai potuto scegliere, di sua iniziativa, quali aspetti della Costituzione valorizzare in particolare, e si è sempre occupata di ciò che la pratica, attraverso la giurisdizione, le proponeva. La Corte ha sempre avuto una mente pratica, e solo entro quei confini, che le sono istituzionalmente dati, ha sempre avuto, ed ancora ha, anche una dimensione politica. Infine, bisogna considerare il fatto che la Corte aveva di fronte a sé un parlamento nuovo, espressione di un suffragio universale, animato dai grandi partiti di massa protagonisti della Costituente. Nei suoi confronti, la Corte, organo nuovo a dalla incerta natura, aveva una naturale deferenza, che nei termini di un fisiologico self-restraint ha per altro sempre mantenuto. Non si tratta di un formale omaggio al principio democratico. Si tratta anche di altro, ovvero di un più elementare principio di autoconservazione. La Corte percepì infatti fin dall’inizio che un suo troppo marcato ingresso nel campo della discrezionalità politica avrebbe compromesso la sua identità, ancora fragile ed incerta, politicizzandola oltre misura. In altre parole, si comprese che solo stando un passo indietro si poteva fare qualche passo in avanti, che è poi ciò che la Corte fece11. Nessun ‘colpo di mano’, dunque. A nostro avviso, l’obbiettiva estensione del ruolo e dei compiti della funzione giurisdizionale, compresa la Corte, ha una spiegazione più ampia, più risalente nel tempo, meno legata alla contingenza del momento. Noi riteniamo che in effetti, con le Costituzioni dell’ultimo dopoguerra, all’incirca alla metà del secolo scorso, trascorsi i regimi totalitari, si sia storicamente aperta la fase ultima di declino del precedente modello costituzionale, dello Stato di diritto dell’età liberale. I nostri costituenti erano proprio sul confine, e guardavano così fatalmente qualche volta indietro, e qualche altra in avanti, intuendo il futuro. Così, per quanto in forme diversissime, cercavano di salvare l’essenza del vecchio modello, ovvero la tradizionale supremazia della legge, ma nello stesso tempo intuivano la necessità di limitarla, in un modo in sostanza inedito per la tradizione europeo-continentale. Sulla stessa falsariga, consideravano per altro verso la Corte indispensabile, ma non ne capivano ancora completamente la natura e le potenzialità. E vedremo successivamente che lo stesso vale anche per la seconda grande trasformazione, che è certamente quella della creazione di un ordine giuridico sovranazionale, anch’essa intuita, nella stessa misura, dai nostri costituenti.

Oggi queste trasformazioni, allora solo avviate, si sono distese, e dominano il nostro presente. Tanto che non pochi ormai, in diversi paesi europei, parlano del costituirsi di una forma di Stato diversa da quella ricevuta dai nostri costituenti sul filo della tradizione legicentrica europeo-continentale. E si parla così di uno Stato costituzionale di diritto, o semplicemente di uno Stato

10 Per la discussione sulla Corte alla Costituente rinviamo alle nostre osservazioni in M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, cit., pp. 100 e ss. , ed alla letteratura ivi citata . Sul punto, e sulle problematiche che affrontiamo nel testo, rimane indispensabile la ricostruzione di E. Cheli, Il giudice delle leggi. La Corte costituzionale nella dinamica dei poteri, Bologna, 1996. 11 Sulla istituzione della Corte, si vedano ora G. Bisogni, Le leggi istitutive della Corte costituzionale, in La prima legislatura repubblicana. Continuità e discontinuità delle istituzioni, a cura di U. De Siervo, S. Guerrieri, A. Varsori, Roma, 2004, pp. 71 e ss. ; ed A. Simoncini, L’istituzione della Corte costituzionale e la sua affermazione, in Giornale di storia costituzionale. Storia, giustizia, costituzione. Per i cinquant’anni della Corte costituzionale, 2006.I, n.11, pp. 295 e ss..

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costituzionale, appunto per indicare una forma di Stato diversa ed ulteriore, caratteristica del nostro tempo storico, ovvero del tempo che si aprì con le nuove Costituzioni democratiche e sociali del Novecento12. Per ciò che riguarda il problema fin qui in prevalenza esaminato, ovvero il rapporto tra costituzione, legge e giurisdizione, la differenza è evidente. Da una parte, abbiamo una centralità storica della legge, solo limitata verso l’alto dalla costituzione, e verso il basso univocamente applicata dalla giurisdizione. Un modello in cui la giurisdizione, coperta ed allineata dietro la legge, non vede la costituzione, non ha con essa un rapporto diretto. La trasformazione intervenuta nel corso del Novecento consiste proprio in questo, nel ricrearsi di un rapporto diretto tra costituzione e giurisdizione. E così, dall’altra parte, abbiamo un modello assai diverso, che ha al proprio centro la costituzione stessa, e che considera legislazione e giurisdizione come funzioni previste dalla costituzione, parimenti in essa fondate, e dunque costituzionalmente pariordinate.

Questo è per noi il carattere più rilevante di quello Stato costituzionale di cui sopra si discorreva come forma di Stato nuova, caratteristica del nostro tempo storico. È per l’appunto il carattere di pariordinazione di legislazione e giurisdizione di fronte alla Costituzione. Ciò non significa sminuire il ruolo della legge, che avrà comunque margini di libertà assai più ampi di quelli della giurisdizione nel lavoro di concretizzazione dei precetti costituzionali, e che potrà anzi muoversi liberamente nei confini della Costituzione, seguendo gli indirizzi che vengono democraticamente fissati di volta in volta nella competizione per la determinazione dell’indirizzo politico. Il nostro Stato costituzionale non tende affatto a rendere meno rilevante lo spazio che la Costituzione assegna alla libera volontà dei cittadini, al mutevole combinarsi, di volta in volta, delle forze politiche e sociali.

La nostra pariordinazione significa altro. Significa riconoscere che è tramontato il tempo storico in cui la costituzione poteva vivere in concreto nei rapporti sociali ed economici solo per interposta mediazione, ovvero per il tramite della legge. Oggi, la Costituzione ha trovato ormai una seconda via per affermare la propria normatività, che è quella giurisdizionale. Anzi, questa seconda via si sta sempre più ampliando, per la necessità di dare risposte concrete ad una società sempre più complessa ed articolata, che propone spesso questioni non risolvibili secondo alternative secche. La nostra Corte è al centro di questo processo. E per questo motivo, in buona misura del tutto oggettivo, ha costruito strumenti flessibili, come le sentenze interpretative di rigetto o le cosiddette additive di principio, che consentono di governare determinate situazioni complesse, facendosi carico del costo che avrebbe un certo vuoto legislativo, ma anche la permanenza di una certa legge con un certo significato contrario alla Costituzione, e dunque attivando soluzioni che sono commisurate alla concretezza delle cose, e che presuppongono un dialogo, sempre aperto, con i giudici, e con le stesso legislatore. Si forma così, in questo modo, un altro diritto, diverso da quello legislativo, ma che è anch’esso, come quello legislativo, un diritto positivo, per quanto non posto dal legislatore.

Viene così a conclusione il tempo storico del positivismo giuridico, o più precisamente di quelle teorie ed ideologie di stampo positivistico che storicamente sono collegate in modo oggettivo a soluzioni costituzionali di tipo monistico, a partire dal grande modello hobbesiano, attraverso la volontà generale della rivoluzione francese, fino alla sovranità nazionale e statale del diciannovesimo secolo e della prima metà del ventesimo. Quello che è accaduto successivamente, con le nuove Costituzioni democratiche e sociali, è molto di più dell’affermarsi di un nuovo livello superiore di legalità, come se l’edificio fosse rimasto il medesimo, solo sopraelevato di un piano. Né si è trattato semplicemente di mettere la Costituzione al posto della legge al centro del sistema,

12 Due recenti sintesi, esemplari per chiarezza, sono quelle di E. Cheli, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive ; e di P. Costa, Democrazia politica e Stato costituzionale : entrambe Napoli, 2006 ( Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Facoltà di Giurisprudenza, Lezioni Magistrali, nn. 9 e 11 ). Esse testimoniano la consapevolezza, che inizia ad essere diffusa, della portata storica delle trasformazioni in corso. A loro volta, quelle trasformazioni si inseriscono in una vicenda ancora più ampia e risalente, che è quella dello Stato moderno in Europa. Sul punto, sia consentito rinviare a M. Fioravanti, Stato e Costituzione, in Id. ( a cura di ), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari, 2002, pp. 3 e ss..

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mantenendo fermo tutto il resto. La trasformazione in atto è più profonda perché implica lo sgretolarsi della logica stessa del centro, per lo meno nella sua versione tradizionale di punto da cui tutto deriva, ed il ricostruirsi di un ordine non più comprensibile nella sua interezza in una sola dimensione, e che tende invece ad apparire in forme plurime e diverse, ora prevalentemente legislative, ora prevalentemente giurisdizionali, che solo sotto l’ombrello della Costituzione possono ritrovare un significato coerente, di misure che insieme concorrono a costruire, o perfezionare, o mantenere, il comune ordine giuridico e politico. Insomma, in una parola, un altro ordine, collocato al di là della esperienza storica, ormai conclusa, del modello monistico.

Questo è quanto vediamo oggi, come frutto di quella prima grande trasformazione che si è prodotta a partire dalla metà del secolo scorso, che le Costituzioni vigenti hanno per lo meno in parte innestato, o comunque favorito, ma che nella sua dimensione attuale è andata comunque oltre le intenzioni dei costituenti di allora. Lo stesso deve dirsi per la seconda grande trasformazione, che ha a che fare con le limitazioni della sovranità dello Stato, con la costruzione europea sullo sfondo. Anche in questo caso i costituenti hanno intuito i tempi nuovi, lasciandoci l’articolo 11 della Costituzione, un articolo che certamente non sarebbe stato possibile nella fase storica precedente, nell’età della piena sovranità degli Stati nazionali, tra Otto e Novecento. Ma come nel caso precedente, i costituenti medesimi non potevano certo prevedere quanto si sarebbe andati oltre in questa direzione, e come sarebbe stato interpretato, in questa linea, il già citato articolo 11. L’articolo 11, nato per consentire quelle limitazioni di sovranità che nel tempo si fossero rilevate necessarie per il perseguimento delle finalità classicamente internazionalistiche della pace e della giustizia tra le nazioni, è stato progressivamente interpretato con crescente larghezza, al fine di dare copertura costituzionale alla sempre più evidente rilevanza del diritto comunitario sul piano interno. Così, facendo perno proprio sull’articolo 11, si è prima ritenuta legittima l’efficacia diretta delle fonti comunitarie nel nostro ordinamento, si è poi ammesso che tali fonti dovessero prevalere su quelle interne, ed infine che ogni giudice potesse disapplicare, o non applicare, queste seconde, quando fossero contrastanti con le fonti comunitarie13.

È vero che non pochi si affannano a mostrare come in realtà tutto questo dipenda, alla radice, dalla obbligazione liberamente assunta dagli Stati sovrani con i Trattati europei, e dunque come, in ultima analisi, quegli Stati, compreso il nostro, rimangano signori dei Trattati. E la stessa Corte costituzionale italiana, decisiva per altro nell’interpretare in modo ampio e nel senso sopra indicato l’articolo 11, rimane in fondo ferma, per lo meno a parole, alla dottrina dei due ordinamenti, proprio al fine di lasciare intatto quello interno nel suo fondamento primo di validità. Insomma, il significato di quel medesimo articolo 11 è stato certamente nel tempo esteso, ma non fino al punto di farne addirittura una sorta di ‘clausola di supremazia’ del diritto comunitario, sul modello degli Stati federali. Anzi, al contrario, com’è ben noto, si è voluto indicare un limite comunque non valicabile dallo stesso diritto comunitario, la cui penetrazione nel diritto interno non può giungere fino al suo nucleo fondamentale, fino ad alterare i principi fondamentali dell’ordinamento nazionale, o ad intaccare i diritti inalienabili che quello stesso ordinamento garantisce. Può darsi che questo limite, così formulato, abbia un valore più che altro simbolico. Ma è certo significativo il fatto che si sia sentito il bisogno di fissarlo, per segnare evidentemente una linea ideale, al di là della quale la sovranità rimane integra. Come se essa, mutata anche in modo consistente nelle sue modalità di esercizio, rimanesse però integra nella sua essenza, nel suo fondamento primo14.

13 L’evoluzione è documentata in S. Bartole, Interpretazioni e trasformazioni, cit., pp. 288 e ss.. 14 Il punto cui siamo giunti in proposito, nel rapporto tra costituzione europea e costituzioni nazionali, è bene illustrato da M. Cartabia, “Unità nella diversità” : il rapporto tra la costituzione europea e le costituzioni nazionali, in Una Costituzione per l’Unione Europea, a cura di G. Morbidelli e F. Donati, Torino, 2006, pp. 185 e ss.. Sulla questione della sovranità, l’impostazione più condivisibile è quella espressa in modo nitido da A. Jakab, Neutralizing the Sovereignty Question. Compromise Strategies in Constitututional Argumentations about the Concept of Sovereignty before the European Integration and since, in European Constitutional Law Review, 2006 , pp. 375 e ss. . In questo ambito, si vedano inoltre : J.H.H. Weiler and M.Wind ( a cura di ), European constitutionalism beyond the state, Cambridge, 2003 ; N. Walker ( a cura di ), Sovereignty in transition, Oxford, 2003 ; P. Costa ( a cura di ), L’ordine

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In ogni caso, questo è il punto al quale si è giunti. Non si sono stravolte le Costituzioni nazionali fino al punto di far nascere uno Stato federale. Ci si è fermati qualche passo prima. Ma i passi compiuti sono stati comunque molti, e comunque molti di più di quelli che i nostri costituenti immaginavano quando sottoscrissero l’articolo 11. Questa è per l’appunto la seconda grande trasformazione costituzionale intercorsa nei sessant’anni di vigenza della nostra Costituzione. Consiste nella sempre maggiore rilevanza della dimensione della sovranazionalità. Nel nostro tempo storico non abbiamo più solo diritto interno, degli Stati sovrani, e diritto internazionale, dagli stessi Stati sovrani generato con lo strumento del Trattato. Abbiamo anche, e sempre più, diritto sovranazionale, che non è né interno, né internazionale, e che è strutturato, come nel caso europeo, nella forma di un vero e proprio ordinamento dotato di propri principi generali e fondamentali ed anche di una propria capacità cogente, seppure per mezzo delle giurisdizioni nazionali, e dunque attraverso gli Stati.

Le due trasformazioni costituzionali che abbiamo indicato hanno molti punti in comune. Lo si vede emblematicamente nella figura del giudice, per il quale la Costituzione italiana è ormai molto di più della norma che lo riguarda solo nel caso di un ‘incidente’ nel corso del processo, da valutare ai soli fini della rilevanza e della non manifesta infondatezza. La Costituzione lo riguarda invece nella ordinarietà dello svolgimento delle sue funzioni, o per lo meno in tutti i casi in cui solo interpretando in un certo modo, conforme a Costituzione, una certa norma si può consentire che essa continui a vigere, evitando anche il controllo di costituzionalità. Com’è noto, è stata del resto la Corte stessa a indurre questa soluzione. Ma questo giudice è lo stesso che altrettanto nello svolgimento ordinario delle sue funzioni consente al diritto comunitario di vigere in modo effettivo sul territorio nazionale interpretando le norme nazionali in una direzione ad esso conforme. Quel giudice nel precedente modello costituzionale aveva da applicare solo la legge. Ora, negli Stati costituzionali di oggi, ha bisogno di un tavolo più grande, in cui trovino posto, insieme alla legge, la stessa Costituzione, la giurisprudenza costituzionale, e le fonti comunitarie15.

Ma c’è di più. Se si scava appena un po’ di più in profondità, ci si accorge che quelle due trasformazioni si riducono forse ad una sola, o si riconducono comunque ad una sola matrice. Ciò che storicamente si sta consumando è la rappresentabilità dell’ordine politico e giuridico in un solo luogo e con un solo strumento, com’era nello Stato liberale di diritto tra Otto e Novecento, nell’età degli Stati nazionali, in cui si riteneva possibile esaurire quella rappresentazione nella legge dello Stato sovrano. È ciò che sopra abbiamo chiamato il carattere monistico del modello costituzionale. Questo è ciò che sta cadendo, in una parola. Oggi, per rispondere a quella domanda di fondo sulla rappresentazione dell’ordine politico e giuridico, dobbiamo certo partire dalla Costituzione, che è il nuovo punto di partenza obbligatorio e vincolante, ma dobbiamo poi seguire piste diverse, quella legislativa, quella giurisprudenziale, quella della relazione stabilitasi tra ordinamento interno e ordinamento comunitario. Insomma, la vita del diritto si è fatta più complessa, rispetto al tempo dei nostri costituenti. Essi intuirono e videro le grandi novità, ma confidavano ancora sulle virtù della legge, nel senso proprio del tradizionale modello legicentrico, allora ancora ben vivo, e per converso mantenevano in buona misura una concezione tradizionale del ruolo della giurisprudenza. Oggi, le trasformazioni indicate sono state così incisive da portare questa seconda, la giurisprudenza, in primo piano. Non certo per sminuire - come abbiamo visto - il ruolo del legislatore, il principio democratico, l’esercizio dei diritti politici, la competizione per la determinazione dell’indirizzo politico. Ma perché la nostra società, a sua volta fattasi infinitamente più complessa, ha bisogno di risposte che spesso sono possibili solo attraverso un ruolo attivo della giurisprudenza. Ha bisogno di risposte che partano dai casi concreti, che si fondino sul principio del

giuridico europeo: radici e prospettive, Milano, 2003 ( Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 31, 2002 ) ; e S. Chignola e G. Duso ( a cura di ), Sui concetti giuridici e politici della Costituzione dell’Europa, Milano, 2005. 15 Coglie con precisione questo medesimo aspetto R. Romboli, Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 16, Seminario 2005, Torino, 2006, pp. 63 e ss..

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mutuo riconoscimento tra fonti ed ordinamenti diversi, con il metodo del dialogo, della comparazione, della commisurazione. Il ruolo della giurisprudenza è dunque quello di un indispensabile strumento di concretizzazione dei principi costituzionali, ha insomma un significato essenzialmente costruttivo di ordine, nel contesto complessivo di un ordinamento di tipo policentrico, in cui la legge mantiene un ruolo essenziale, ma non ha più il monopolio nella rappresentazione e nella costruzione dell’ordine giuridico e politico.

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VALERIO ONIDA

La Costituzione del 1948, ieri e oggi SOMMARIO: 1. Il senso di un anniversario: per una “sprovincializzazione” del dibattito sulla Costituzione. – 2. La “internazionalizzazione” del diritto costituzionale. – 3. La Costituzione e le ideologie del Novecento. – 4. Ciò che oggi è a rischio del patrimonio costituzionale. 1. Il senso di un anniversario: per una “sprovincializazione” del dibattito sulla Costituzione.

Gli anniversari sono occasioni per bilanci e prospettive di sintesi. Vorrei cercare di dire che cosa c’è, in questo sessantesimo anniversario della Costituzione, di nuovo e di diverso rispetto ai precedenti anniversari.

Nei primi decenni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il tema dominante era quello dell’attuazione o dell’inattuazione, del “congelamento” della Costituzione e del “disgelo” costituzionale (tutti ricordiamo, per esempio, i “saggi sulla vita democratica italiana” pubblicati nel 1955 nel volume “Dieci anni dopo” edito da Laterza, o gli Studi per il decennale della Costituzione curati nel 1958 dall’apposito comitato celebrativo).

Successivamente, soprattutto a partire dagli anni Settanta, abbiamo visto fiorire l’interesse per studi storici sul periodo della Costituente (si ricordano ad esempio i numerosi volumi curati dal Consiglio regionale della Toscana nel trentennale della Repubblica e della Costituzione, ed editi dal “Mulino”), e il dibattito si è aperto soprattutto sul tema della continuità e della discontinuità dello Stato nel passaggio dai regimi precedenti a quello della Costituzione repubblicana, sulla “Resistenza tradita” o la “rivoluzione tradita”.

Nei decenni più recenti l’attenzione si è spostata piuttosto sulle prospettive e le proposte di riforma della Costituzione, anche sulla spinta derivante dalle ripetute e per lo più fallite iniziative parlamentari dirette ad avviare processi di revisione non puntuali ma “organici”, fino al referendum del giugno 2006 che ha respinto (fortunatamente, aggiungo io) il progetto, accolto in Parlamento, di modifica della parte seconda.

Oggi il dibattito sulle riforme è ancora largamente aperto nelle sedi istituzionali e politiche. Ma forse questo sessantesimo anniversario può essere l’occasione per vedere la Costituzione in un’ottica meno immediata e meno, per così dire, interessata ai problemi di breve periodo del nostro paese. Finora, in altri termini, la Costituzione è apparsa ed è stata trattata come espressione di un patto politico fra determinate forze, come oggetto e strumento di garanzia o di ostacolo a determinati disegni politici, o come terreno di trattativa o moneta di scambio per futuri patti: in ogni caso con una lettura tutta “italiana” e per così dire autarchica o casalinga, e in qualche modo contingente, delle vicende costituzionali.

Forse è giunto il momento di una visione più distaccata, in cui il valore e la portata della carta possano essere apprezzati al di fuori e in un certo senso indipendentemente dalle caratteristiche del nostro sistema politico e dei suoi cambiamenti, e dagli specifici indirizzi che esso esprime.

La mia breve esposizione sarà divisa in due parti, corrispondenti a due aspetti di questo che indicherei come un processo di definitiva “sprovincializzazione” del modo di guardare alla Costituzione repubblicana. Il primo aspetto riguarda la “internazionalizzazione” dei principi costituzionali; il secondo il rapporto fra la Costituzione e le grandi ideologie del Novecento. Concluderò, infine, con un cenno a quelli che mi paiono oggi i rischi maggiori per la Costituzione e il costituzionalismo. 2. La “internazionalizzazione” del diritto costituzionale.

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Il costituzionalismo contemporaneo nasce, come si sa, con una impronta e una vocazione “universalistica”, e in questo sta anche la sua radice che potremmo dire “religiosa” o “umanistica”, cioè legata alle grandi visioni spirituali, che non si dovrebbe temere di qualificare appunto religiose, del mondo e dell’umanità. Le sue affermazioni fondanti sono collocate su questo terreno: tutti gli esseri umani, dovunque viventi e comunque organizzati in società, sono egualmente dotati di dignità e di diritti “inalienabili”, cioè indisponibili, oltre che gravati di doveri sociali; il fondamento e la giustificazione dell’esercizio dell’autorità nella società politica stanno al di fuori di essa e degli interessi di coloro che la esercitano, e precisamente nella protezione di questo “ordine”, e le scelte che essa può compiere nel rispetto di tale ordine si basano sul consenso collettivo.

Vero è, però, che storicamente i principi del costituzionalismo si sono sviluppati a lungo in ambienti e in ordinamenti giuridici a carattere prevalentemente nazionale (non senza che su ciò influisse, a sua volta, l’idea che ogni nazione, ogni popolo, goda di un diritto di autodeterminazione e di auto-organizzazione), in un contesto in cui i principi fondanti dei rapporti internazionali si radicavano piuttosto nelle premesse della indipendenza di ciascuno Stato verso gli altri (la sovranità-originarietà), del carattere contrattuale delle relazioni fra essi (pacta sunt servanda) e in definitiva della prevalenza dei rispettivi rapporti di forza (la guerra come strumento ultimo di risoluzione delle controversie). Si sono sviluppati quindi in una chiave prevalente di storie nazionali, nelle quali le varie guerre di indipendenza e le rispettive vittorie (o sconfitte) militari costituivano tappe determinanti.

Da questo punto di vista la seconda guerra mondiale costituisce un tornante storico fondamentale. Essa infatti segna l’affermazione a livello planetario dei principi del costituzionalismo come principi non propri di questo o quel popolo o di questa o quella area geopolitica, ma tendenzialmente universali. Quella affermazione che si realizza con la istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e soprattutto con l’approvazione da parte dell’Assemblea dell’ONU della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, cioè del documento di cui celebreremo il sessantesimo anniversario il 10 dicembre di quest’anno appena iniziato. Quelli che fino ad allora erano apparsi storicamente solo come principi propri della cultura politica di alcuni popoli dell’Occidente, alcuni dei quali per di più direttamente implicati, negli altri continenti, nella politica coloniale, si sono tramutati ed estesi fino a rappresentare un patrimonio comune dell’umanità. Il lento, e quanto si vuole contraddittorio, cammino della dottrina e della prassi dei diritti umani universali segna da allora il vero terreno di sviluppo del costituzionalismo e ne esprime praticamente la dimensione universale.

Non possiamo dimenticare come nasce questa storica affermazione. Se la prima guerra mondiale rappresentò l’ultimo e più tragico episodio del confronto europeo fra potenze intorno all’assetto fondato sulle nazionalità e sui rispettivi interessi, la seconda guerra mondiale segna il confronto finale fra le democrazie e quei regimi che, al di là degli specifici interessi nazionali (i quali si collocavano sullo stesso piano, o almeno con pari legittimità, degli interessi nazionali degli Stati democratici) si proponevano di creare un “nuovo ordine di tirannia”, e rifiutavano esplicitamente i fondamenti teorici e quelli pratici del costituzionalismo. A questo tentativo venne opposta con successo quella che il Presidente Roosevelt, nel suo celebre discorso al Congresso detto delle “quattro libertà” (anteriore, come si sa, all’entrata in guerra degli Stati Uniti), chiamò “the greater conception – the moral order”: esso esprimeva, in antitesi al “so called new order of tyranny”, una visione - quella, appunto, delle quattro libertà - che costituisse “a definite basis for a kind of world attainable in our own time and generation”.

E’ interessante ricordare come il celebre discorso del 7 gennaio 1941, noto per il suo breve passo sulle “quattro libertà”, fosse per la maggior parte dedicato a sostenere la necessità per gli Stati Uniti di opporsi “ad ogni tentativo di chiudersi dietro una muraglia cinese mentre il processo di civilizzazione andava avanti”, cioè alle tentazioni isolazioniste; la consapevolezza che “una pace durevole non può essere comprata al prezzo della libertà di un altro popolo”; la necessità dunque di rafforzare il mondo libero in guerra contro le dittature; la necessità, in quel contesto, di aumentare la produzione di armi da fornire ai paesi amici, ma anche, poiché “gli uomini non combattono solo con

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le armi”, di rafforzare “la fede incrollabile nel modo di vita che stiamo difendendo”, perché l’azione cui si era chiamati “non può essere basata su un disprezzo (disregard) per tutte le cose per le quali vale la pena di combattere”: senza, inoltre, smettere di pensare ai “problemi sociali ed economici che sono alla radice della rivoluzione sociale la quale è oggi un supremo fattore mondiale”, e chiamando i cittadini a “mettere il patriottismo davanti ai portafogli”.

Ho citato questo storico documento, che merita ancora di essere conosciuto e ricordato nella sua integralità, perché esso esprimeva tutt’altro che una posizione di rassegnazione o di appeasement verso l’avversario di allora, ma la piena consapevolezza che al di là della guerra da vincere vi fosse la fede in un mondo da rendere sicuro fondandolo sulle quattro libertà – di espressione, di religione, dal bisogno e dalla paura - “everywhere in the world”.

È qui l’atto di nascita del nuovo costituzionalismo “internazionale”. La Costituzione italiana di cui celebriamo il sessantesimo anniversario nasce in quel clima

storico, ed esprime pienamente quello spirito. Aveva e ha ragione Giuseppe Dossetti quando, parlando nel 1995, sosteneva la necessità di andare oltre la tesi della Costituzione “nata dalla Resistenza”, perché essa è frutto del “grande fatto globale” costituito dalla seconda guerra mondiale, nasce da quel “crogiolo ardente e universale” e perciò “porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo transtemporale” (Le radici della Costituzione, in G. DOSSETTI, I valori della Costituzione, Reggio Emilia, Ed. San Lorenzo, s.d. ma 1995, p. 68).

L’articolo 11, col ripudio della guerra e la accettazione delle limitazioni di sovranità necessarie per dare vita ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, insieme alla clausola internazionalistica dell’articolo 10, ha rappresentato e rappresenta l’affermazione più consapevole di questo connotato della Costituzione.

Su di esso si fonda il lungo cammino compiuto dall’Italia con la creazione e lo sviluppo delle istituzioni dell’Europa comunitaria e poi dell’Unione europea. Noi non abbiamo avuto bisogno, a differenza di altri Stati, di inserire nella Costituzione una apposita “clausola europea” per giustificare costituzionalmente l’accettazione della efficacia anche interna dell’ordinamento comunitario, perché la nostra “clausola europea” (e non solo) c’è già ed è l’articolo 11, come la Corte costituzionale ha riconosciuto fin dal 1965, per poi giungere nel 1984 alla piena accettazione non solo del primato del diritto comunitario ma anche della sua immediata efficacia sostanzialmente superlegislativa e costituzionale, col solo limite dei principi supremi. Questa giurisprudenza esprime ben più che una semplice sistemazione dei rapporti fra i due ordinamenti, ma fa sostanzialmente operare i meccanismi di integrazione giuridica dell’Europa sullo stesso livello della Costituzione, dunque dando spazio alla integrazione di questa attraverso i principi comunitari, i quali a loro volta incorporano i principi comuni del diritto costituzionale degli Stati membri, in un sistema circolare nel quale i sistemi costituzionali come il nostro “respirano” attraverso i nessi con diritto costituzionale prodotto ad altri livelli nazionali e sovranazionali.

Da molte parti si è parlato di un “superamento” della Costituzione attraverso il diritto europeo, in particolare a proposito della cosiddetta Costituzione economica. In realtà non vi è nessun superamento: vi è solo l’apertura del tessuto costituzionale a questi apporti sopranazionali, che non contraddicono, ma integrano la Costituzione, nella logica che si è detta di internazionalizzazione del costituzionalismo.

Parimenti, nelle clausole internazionalistiche della Costituzione trova oggi pieno fondamento l’altra e per certi versi ancora più significativa integrazione del tessuto costituzionale rappresentata dagli effetti prodotti dalla Convenzione europea dei diritti, che traduce e garantisce nel contesto dell’Europa allargata, anche e soprattutto attraverso l’apposita giurisdizione della Corte di Strasburgo, i diritti enunciati nella Dichiarazione universale, nonché dai Patti internazionali sui diritti civili e politici e sui diritti economici e sociali, anch’essi derivati dalla Dichiarazione universale, e dalle altre grandi convenzioni multilaterali, ad esempio sul genocidio, sui crimini contro l’umanità e sul divieto della tortura.

Consentitemi, a questo proposito, una breve digressione.

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La Convenzione europea è entrata nel nostro ordinamento nel 1955, con la legge di ratifica e di esecuzione, e per molti anni è parso che la sua portata fosse relativamente secondaria: in tema di diritti fondamentali apparivano dominanti le garanzie derivanti dalla Costituzione, applicata dalla Corte costituzionale attraverso il giudizio sulle leggi promosso in via incidentale dai giudici nel corso dei giudizi comuni. Per molto tempo la stessa Corte costituzionale ha negato alle norme della Convenzione un “rango” diverso da quello della legge ordinaria che vi ha dato esecuzione (la sentenza n. 10 del 1993, che accennava ad una diversa impostazione, è rimasta isolata). E tuttavia essa non ha mancato di far riferimento alla Convenzione, anche in risposta alle sollecitazioni di alcuni giudici, per convalidare ulteriormente i risultati che traeva dalle norme costituzionali in materia di diritti, in genere argomentando la convergenza dei due ordini di garanzie.

Recentemente però le cose sono cambiate. Non mi riferisco tanto alla riforma costituzionale dell’articolo 111, approvata con la legge costituzionale n. 2 del 1999, che per dare forza ad una interpretazione più garantista del testo costituzionale in materia di processo penale ha riprodotto quasi alla lettera disposizioni della Convenzione, dando ad esse così formale efficacia costituzionale; quanto, in primo luogo, al formidabile sviluppo della giurisprudenza della Corte europea, a partire da quando il Protocollo n. 11 ha introdotto il ricorso individuale davanti ad essa per violazione dei diritti fondamentali. L’anno è il 1998 (significativamente lo stesso in cui alla Convenzione veniva data formale efficacia legislativa e per certi versi superlegislativa in Gran Bretagna, con lo Human Rights Act , dando così al primogenito fra gli Stati “costituzionali”, pur privo di una Costituzione scritta, un catalogo espresso dei diritti). Da allora la Convenzione ha conosciuto innumerevoli nuove applicazioni pratiche, ad opera di una giurisprudenza, quella di Strasburgo, sempre più abbondante (con una crescita dei ricorsi tale da metterne perfino a rischio la stessa efficienza) e sempre più incisiva non solo nel censurare singoli casi concreti di violazioni di diritti, ma anche nell’indicarne, quando è il caso, le cause “strutturali”, dipendenti dalle caratteristiche dell’ordinamento interno dello Stato membro, che ne determinano il ripetersi, e nell’indicare con crescente dettaglio le misure legislative o di altro genere che lo Stato stesso è tenuto ad adottare in esecuzione delle pronunce: influendo così non solo sulle prassi interne, ma sulla stessa legislazione interna, che deve adeguarsi all’esigenza di evitare violazioni e di apprestare rimedi effettivi idonei a correggerle o a ripararle, e sulla relativa giurisprudenza interna applicativa delle leggi.

In secondo luogo mi riferisco alla riforma costituzionale del 2001, che inserendo nel nuovo articolo 117 il vincolo per le leggi a rispettare gli obblighi internazionali, ha offerto una nuova base per conferire alle norme della Convenzione carattere di vero e proprio parametro di giudizio ai fini del giudizio sulle leggi demandato alla Corte costituzionale. Da tempo gli studiosi segnalavano l’opportunità di ricondurre alla sfera del diritto costituzionale oggettivo, nella linea già segnalata della “internazionalizzazione” del diritto costituzionale, le norme delle convenzioni, come quella europea e le altre, che incarnano a livello sovranazionale le istanze universalistiche in tema di diritti fondamentali. Le strade potevano essere molte: con le recentissime sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 la Corte costituzionale ha infine sancito questo risultato, scegliendo la via per certi versi più semplice (anche se foriera di ulteriori problemi per via del riferimento a tutti gli obblighi internazionali) dell’applicazione del nuovo articolo 117 della Costituzione; in ogni caso quello che conta è il risultato. Oggi dunque i diritti fondamentali e il loro contenuto minimo trovano espressamente ed univocamente, accanto al presidio delle norme costituzionali, quello della Convenzione europea e della giurisprudenza della Corte europea. La Costituzione del 1948, caratterizzata dalla sua apertura internazionalistica, ne risulta non solo non contraddetta, ma anzi potenziata e integrata, tenendo conto che alla garanzia degli standard minimi europei si aggiunge sempre, ove è il caso, quella di eventuali standard superiori, non però contrastanti, della stessa Costituzione e della giurisprudenza nazionale.

Non mancano critici irriducibili della nostra Costituzione che leggono questa vicenda, ma a torto, in chiave di contrasto fra ordinamenti: così Piero Ostellino, commentando la sentenza n. 348 (Corriere della Sera, 22 dicembre 2007), ha preteso di leggervi affermazioni in contrasto con quelle

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della Corte europea in tema di tutela della proprietà, sostenendo addirittura che la nostra Corte avrebbe solo “apparentemente” recepito gli standard europei di garanzia: dimenticando, ad un tempo, che la pronuncia in questione annulla (non “sembra annullare”) la legge interna denunciata, e che la giurisprudenza della Corte europea, a sua volta, non afferma affatto che in ogni caso di esproprio l’indennizzo debba essere pari al valore venale del bene espropriato, ma ammette temperamenti che sono proprio espressione di quella “funzione sociale” della proprietà, che la Costituzione afferma e che invece scandalizza il nostro autore iperliberista.

So bene che i giuristi si interrogano e discutono sulle prospettive e i rischi di conflitti fra giurisprudenze in questo sistema di tutela dei diritti, come si usa dire, multilivello. Ma, al di là di singoli possibili problemi, il punto fondamentale che emerge, a mio giudizio, è proprio l’internazionalizzazione degli standard, e perciò la integrazione dei tessuti costituzionali nazionali e di quello internazionale, almeno in materia di diritti, secondo l’originaria vocazione universalistica di questi: ove la voce delle Costituzioni e delle giurisprudenze nazionali non scompare, perché chiamata a partecipare al coro.

Nel mondo globalizzato di oggi questo è un passo avanti fondamentale. Gli interpreti delle Costituzioni non possono restare legati a sterili criteri “originalisti” nell’interpretazione delle Costituzioni nazionali. Il linguaggio dei diritti è sempre più un linguaggio comune. Il Bill of Rights, fra quelli in vigore, testualmente più dettagliato e articolato è forse quello della Costituzione sudafricana del 1996, che non a caso prevede che i giudici, nell’interpretarlo, debbano fare riferimento anche al diritto internazionale e possano farlo al diritto di altri Stati.

Da noi non credo potrebbe trovare spazio la posizione vivacemente sostenuta da una parte dei giuristi in America, secondo cui nell’interpretare la Costituzione americana non sarebbe legittimo riferirsi a leggi e giurisprudenza di altri paesi: dimenticando che, se i diritti garantiti sono quelli spettanti a tutti gli esseri umani, che proprio i costituenti americani affermavano come verità “incontestabile e di per sé evidente” essere stati creati uguali e dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili, non si può immaginare alcun nazionalismo giuridico in tema di diritti fondamentali.

Anche le Corti, quando sono chiamate a difendere i diritti umani, sono indotte in genere ad avere meno riguardi per le esigenze contingenti della politica, e anche della politica internazionale, cui pure esse non sono e non possono essere insensibili. Si pensi, per fare solo due esempi, riferiti alla nostra Corte costituzionale, alla fermezza con la quale essa ha applicato in tutta la sua portata l’articolo 27 della Costituzione là dove bandisce la pena di morte in tempo di pace, dichiarando l’illegittimità costituzionale di norme, pur applicative di obblighi internazionalmente assunti, che consentivano l’estradizione verso paesi che ancora prevedevano, per il reato ascritto all’estradando, la pena capitale (già con la sentenza n. 54 del 1979, e più di recente con la sentenza n. 223 del 1996, relativa al caso Venezia, quest’ultima resa in un giudizio in cui lo stesso Governo degli Stati Uniti si era costituito sostenendo l’infondatezza della questione); o con cui ha chiarito che nel caso di trasferimento in Italia di condannati a pene detentive questi godono degli stessi diritti dei detenuti italiani quanto a modalità dell’esecuzione penale (con la sentenza n. 73 del 2001, sul caso Baraldini). 3. La Costituzione e le ideologie del Novecento.

Vengo al secondo punto della riflessione cui mi sono proposto di accennare: il rapporto fra la Costituzione e le grandi ideologie del Novecento.

Anche le Costituzioni sono prodotti largamente “ideologici”, nel senso che rispondono a visioni generali del mondo e in specie dell’organizzazione politico-sociale: e in questo senso è certo possibile individuare le ideologie che hanno nutrito la storia del costituzionalismo. Per altro verso il Novecento ha visto il temporaneo affermarsi in determinate realtà politiche di ideologie “anticostituzionali”, nel senso cioè che i relativi regimi autoritari muovevano da premesse teoriche e non solo pratiche di rifiuto dei postulati essenziali del costituzionalismo (e infatti in genere essi

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hanno rifiutato lo stesso uso dello strumento “Costituzione”, preferendo affidare il loro sviluppo a volontà libere di perseguire i fini affermati, senza impacci giuridici): e proprio la definitiva sconfitta di tali regimi, con la fine della seconda guerra mondale, ha segnato, come si è ricordato, l’affermazione del costituzionalismo a livello internazionale.

Ma ciò che voglio qui mettere in rilievo è il fatto che il costituzionalismo di oggi, specie dopo il venir meno di regimi apertamente “anticostituzionali” sopravvissuti alla guerra - in Portogallo (1974), in Spagna (1978) e nel Sudafrica (1993) - e dopo la dissoluzione del blocco sovietico e la transizione degli Stati ex comunisti dell’Europa verso assetti democratici, può considerarsi come una sorta di “residuo buono” delle ideologie da cui esso è nato, depurate delle contraddizioni, deviazioni ed eccessi, che la storia ha prodotto, e quindi un “residuo” in qualche modo anche “deideologizzato”.

La Costituzione degli Stati Uniti ha convissuto per cento anni con la pratica, in alcuni Stati, della schiavitù; alla rivoluzione liberale e alla proclamazione dei diritti dell’uomo nella Francia del 1789 ha fatto seguito dopo pochi anni il terrore (la rivoluzione che divorava se stessa); le stesse esperienze più avanzate del costituzionalismo europeo dell’Ottocento e fra le due guerre convissero con politiche nazionalistiche e con l’espansione della dominazione coloniale in Africa e in Asia; nell’esperienza dei regimi comunisti la pretesa di realizzare l’eguaglianza sociale ed economica - pur essa parte del patrimonio ideologico del costituzionalismo - a prezzo delle libertà civili e del pluralismo politico, ha condotto all’affermazione di regimi illiberali e non democratici.

Alla Costituente italiana, come è noto, si confrontarono e dialogarono fra loro posizioni fortemente preoccupate di affermare le premesse teoriche di un costituzionalismo democratico e pluralista, e posizioni più preoccupate di affermare esigenze storico-pratiche. Si pensi, per le prime, al discorso di Giorgio La Pira, con la sua critica alla costituzione statalista di tipo hegeliano cui avevano dato vita i regimi autoritari (tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato), come a quella che egli chiamava la Costituzione del 1789, ispirata all’individualismo proto-liberale, che egli giudicava un inveramento della teorica roussoviana del contratto sociale; e di conseguenza con l’affermazione di una concezione personalistica e pluralista (con il riconoscimento non solo dei diritti individuali, ma anche delle comunità intermedie e dei relativi diritti) come base teoretica del nuovo ordine costituzionale. Per le seconde posizioni, si pensi al coevo intervento di Palmiro Togliatti, con la denuncia dei limiti e delle colpe della classe politica pre-fascista, e la affermazione secondo cui ciò che il suo gruppo desiderava era “una Costituzione che mettesse da parte le ideologie”, e perciò non una “impostazione ideologica” ma una “impostazione politica concreta”; ma anche con la constatazione che vi fosse stata nell’Assemblea la confluenza del “solidarismo umano e sociale” della sinistra e del “solidarismo di ispirazione ideologica e di origine diversa, il quale però arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui [arrivava] la sua parte”: convergenza alla quale, aggiungeva Togliatti, non poteva fare ostacolo la concezione, rivendicata da La Pira, “della dignità della persona umana come fondamento dei diritti dell’uomo e del cittadino”, che costituiva anzi “un altro punto di confluenza” della sinistra con la “corrente solidaristica cristiana”.

In realtà il punto di incontro, il terreno comune in cui si realizzò l’accordo che diede vita alla Costituzione, in antitesi alla passata esperienza autoritaria, altro non è se non l’accettazione di quell’impostazione ideale che, accogliendo, le premesse e i postulati essenziali delle ideologie liberaldemocratiche e sociali, insieme ne scartava talune conseguenze o sviluppi estremi e per questo più “ideologici”, collocando l’Italia repubblicana nell’alveo della grande corrente del costituzionalismo contemporaneo. Si pensi ad esempio, oltre che ai termini del dialogo sopra citato fra La Pira e Togliatti, agli indirizzi espressi nei documenti sui temi costituzionali della Democrazia cristiana, dalle “Idee ricostruttive” del 1942 in poi, in cui si guardava con favore alle posizioni, pur storicamente sconfitte, del Zentrum tedesco dopo la prima guerra e alle soluzioni di “moderazione”, fra cui, significativamente, l’importanza attribuita alla creazione di istituti di giustizia costituzionale: cioè a quello che è forse, insieme all’apertura internazionalistica, il più grande e incisivo sviluppo del costituzionalismo dopo la seconda guerra mondiale, la cui odierna diffusione

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fa vivace contrasto con la diffidenza verso di esso espressa anche alla Costituente, in nome dell’attaccamento al mito estremo di una sovranità del popolo priva di limiti giuridici.

Può essere interessante, fra parentesi, notare che l’impostazione togliattiana, pur così nutrita di senso storico, risultasse meno antiveggente o meno “presbite” di quella di costituenti democristiani come La Pira, quando giungeva alla valutazione di aspetti dell’organizzazione costituzionale, come appunto il ruolo della Corte costituzionale, o l’organizzazione del potere giudiziario, o le nuove regole sul rapporto fiduciario fra Parlamento e Governo.

In questo senso, forse, al luogo comune (pur non lontano dalla verità) della Costituzione come incontro delle tre ideologie, liberale, cattolico-democratica e marxista, che fa leva sull’arco delle forze politiche dominanti in Assemblea e alle loro ascendenze ideali, si dovrebbe sostituire piuttosto la considerazione della coincidenza del “nucleo forte” delle idee poste a base della Costituzione con il “residuo buono” delle grandi ideologie sette-novecentesche, di cui ho parlato. Anche da questo punto di vista la Costituzione della Repubblica ha un’”anima” non “provinciale”, e si colloca in un contesto che va molto al di là dell’esperienza del nostro paese.

Non è difficile sintetizzare i contenuti di quel “nucleo forte” di idee che costituisce il “patrimonio” comune del costituzionalismo: la dignità da riconoscere e salvaguardare in ogni essere umano; la concezione per cui l’organizzazione politica (lo Stato) è per la persona, e non viceversa; l’idea dello Stato di diritto, o in termini anglosassoni il rispetto della rule of law; l’esistenza di un nucleo intangibile (indisponibile non solo dallo Stato ma anche dal mercato) di diritti di libertà dell’individuo, e di diritti collettivi (delle formazioni sociali) che li integrano; il principio di eguaglianza inteso sia come divieto di discriminazione sia come canone fondamentale di adeguatezza dei trattamenti giuridici alle situazioni; il compito non solo passivo ma attivo dei poteri pubblici nel promuovere libertà ed eguaglianza, e dunque un nucleo garantito di diritti sociali; un potere politico fondato sul consenso e sulla partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà collettiva, nel rispetto dei limiti costituzionali; un’organizzazione “diffusa” dei poteri che assicuri equilibrio e controllo reciproco; un sistema di garanzie che assicuri la giustiziabilità dei diritti di tutti e il rispetto effettivo delle regole legali; la proiezione internazionale e sovranazionale di questi principi al fine di assicurare un ordine internazionale fondato non sulla forza ma sul rispetto dei diritti.

È ben vero che formulare queste enunciazioni non vuole dire ancora essere concordi sulla loro portata pratica, potendosi ovviamente discutere su cosa sia la dignità umana o quali siano i diritti inviolabili o il rapporto fra di essi. E tuttavia queste non sono enunciazioni vuote, soprattutto dopo che su di esse e in base ad esse si sono andati sviluppando indirizzi giurisprudenziali tendenzialmente convergenti di Corti nazionali e sopranazionali, che danno storica concretezza a quei contenuti.

Giuristi e filosofi continueranno a discutere e magari a polemizzare (penso da ultimo allo scritto di Riccardo Guastini in polemica con Baldassarre) sulla natura e il fondamento di questi principi: se essi debbano considerarsi espressione di una sorta di nuovo “diritto naturale”, o se valgano solo in quanto diritto positivo, e su quali basi. Ma ciò che conta, a mio giudizio, è riconoscere l’esistenza di questo “diritto costituzionale comune” o di questa “common law” costituzionale; collocare in questo ambito anche la Costituzione di cui celebriamo il sessantennale; e interrogarsi sui modi per salvaguardarne e rafforzarne l’efficacia, per renderlo sempre più effettivo, per superare limiti e contraddizioni, nel contesto complesso, spesso incoerente e non di rado drammatico delle vicende nazionali e mondiali. 4. Ciò che oggi è a rischio del patrimonio costituzionale.

Da questo punto di vista dovremmo domandarci dove sono oggi i rischi maggiori che minacciano la sopravvivenza e lo sviluppo del costituzionalismo. Non parlo tanto delle sfide provenienti da organizzazioni e da azioni che attentano alla sicurezza materiale delle nostre società,

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quanto dei rischi di appannamento, nelle nostre società e in particolare in quella italiana, della fiducia nella permanente validità del patrimonio di principi e valori di cui il costituzionalismo è espressione.

Vedrei, in particolare, due rischi. Il primo è quello che può emergere dall’affiorare, per quanto per ora minoritario, e nel

dibattito intellettuale più che nella giurisprudenza, di posizioni che, andando oltre misura nella polemica con le ideologie del Novecento e con le forze politiche che hanno portato l’Italia nell’alveo del costituzionalismo europeo, mettono in dubbio alcuni elementi essenziali del patrimonio di questo costituzionalismo, e quasi mostrano di aspirare a tornare ad una interpretazione primitiva e fondamentalista dei postulati liberali: così non preoccupandosi dell’approfondirsi delle disuguaglianze economiche, disconoscendo il rango costituzionale dei diritti sociali e rivendicando uno Stato “minimo”, che cioè lasci libero campo alle forze spontanee, essenzialmente dell’economia e cioè del mercato, e quindi postulando per la politica un ruolo di semplice difesa delle condizioni materiali minime della convivenza, non di promozione della libertà, dell’eguaglianza e della giustizia.

Certe accuse alla nostra Costituzione di essere troppo “sociale” e poco liberale sono in realtà viziate dall’ottica “provinciale” di cui ho parlato, e trascurano che i principi costituzionali contro cui questi critici si battono non sono certo una caratteristica peculiare della Costituzione italiana, ma sono intrinseci e coessenziali al costituzionalismo contemporaneo sotto ogni cielo. La tesi secondo cui la nostra, s’intende a differenza di altre, sarebbe una Costituzione tendenzialmente illiberale, che darebbe troppo spazio alla “socialità”, dimentica semplicemente la storia e la realtà del costituzionalismo.

Così, a porre sullo stesso piano delle “libertà liberali” di espressione e di religione la “libertà dal bisogno” era già nel 1941 il Presidente degli Stati Uniti, nel già ricordato discorso delle “quattro libertà”, che non solo declinava tale terza libertà, tradotta in termini mondiali, come la necessità di “intese economiche che assicurino ad ogni nazione una vita sana e pacifica per i suoi abitanti- dovunque nel mondo”, ma poneva fra i fondamenti di una “sana e forte democrazia” ”eguaglianza di opportunità per i giovani e per gli altri”, “occupazione per coloro che possono lavorare”, “sicurezza per coloro che ne hanno bisogno”, “la fine di speciali privilegi per i pochi”, “la salvaguardia delle libertà civili per tutti”, “il godimento dei frutti del progresso scientifico e tecnico in un più ampio e costantemente crescente tenore di vita”: aggiungendo che ne discendeva, nel suo paese, l’esigenza di misure relative a coperture pensionistiche, assicurazione contro la disoccupazione, possibilità di cure mediche adeguate, migliori sistemi per consentire di trovare lavoro.

Di qua dell’Atlantico, per fare solo due esempi, sono le Costituzioni tedesca e francese a qualificare espressamente le rispettive Repubbliche come “sociali” (e la nostra qualificazione di Repubblica “fondata sul lavoro” non ha significato diverso); i diritti al lavoro e del lavoro e alla sicurezza sociale sono espressamente e largamente richiamati, ad esempio, in quel preambolo della Costituzione francese del 1946 che “conferma e integra” la dichiarazione del 1789, e al quale secondo il preambolo della Costituzione del 1958 “il popolo francese proclama solennemente la sua fedeltà” (né vale rilevare che trattasi solo di un preambolo, posto che, come si sa, esso da tempo è riconosciuto e utilizzato dalla giurisprudenza del Conseil constitutionnel come parte del “bloc de constitutionnalité” sulla cui base si giudica la legittimità costituzionale delle leggi); le proposizioni secondo cui “la proprietà impone degli obblighi”, “il suo uso deve al tempo stesso servire al bene comune”, l’indennizzo in caso di esproprio “deve essere stabilito mediante un giusto contemperamento fra gli interessi della collettività e gli interessi delle parti” non sono proposizioni della nostra carta, bensì del Grundgesetz della Repubblica federale tedesca (art. 14).

Più in generale, dobbiamo tornare a ricordare che il diritto di ogni individuo alla sicurezza sociale, alla realizzazione dei “diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità”, il diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego e a “giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”, nonché “ad

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una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”, a “un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”, all’istruzione, a “partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”, sono proclamati non in una qualche carta sociale o socialista, ma nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (articoli 22, 23, 25, 26, 27) e nel Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966.

Anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti, che pur opera sulla base di una Convenzione in cui non vi è ancora un esplicito catalogo di diritti sociali, è tutt’altro che insensibile alle istanze di protezione di tali diritti. La “società democratica” – alla cui necessità, con espressione sintetica, fa riferimento costante la Convenzione europea indicandola come parametro di commisurazione delle sole ammissibili “ingerenze” statali nella sfera dei diritti individuali - non è dunque solo una organizzazione politica caratterizzata da meccanismi elettivi per la formazione della volontà collettiva, ma una società che garantisce i diritti civili e sociali e l’eguaglianza fondamentale fra gli individui nel godimento degli stessi.

Il secondo rischio che vedo attiene proprio ai meccanismi del consenso e dell’esercizio del potere. Di fronte alla crescente complessità dei problemi che le moderne società devono affrontare, e alle difficoltà del decidere e del governare, torna ad affiorare da tante parti, e particolarmente nel nostro paese, la sfiducia nei meccanismi della democrazia partecipativa e deliberativa, la sfiducia o l’avversione nei confronti della politica tout court, la aspirazione a ricorrere, secondo l’espressione di recente richiamata da Michele Salvati (sul “Corriere della sera” del 22 dicembre scorso), ad un benevolent dictator o dittatore illuminato, o ad un qualche suo “equivalente democratico”. Per “decidere”, per “governare”, si è disposti a ipersemplificare i meccanismi di formazione e trasmissione del consenso e di formazione delle volontà politiche.

Non è qui il luogo per entrare nel dettaglio, ma è questa, a mio giudizio, la tentazione ricorrente e più forte che si aggira fra molti di coloro che pensano a riforme costituzionali dell’ordinamento dello Stato come ad un rimedio ai mali e alle difficoltà del paese. Ciò che significherebbe, però, non già adottare correttivi (oltre quelli già previsti, poiché non è vero che la Costituzione abbia ignorato le esigenze di correggere le “degenerazioni del parlamentarismo”, secondo l’indirizzo dell’ordine del giorno Perassi) e miglioramenti nelle regole della forma di governo, ma rinunciare al rispetto di quell’equilibrio di poteri, in un contesto di partecipazione democratica rafforzata e non asfittica, che la Costituzione repubblicana postula e di cui pone le basi. Sono in gioco, anche qui, i principi di fondo del costituzionalismo. Salvaguardare la società da questi rischi fa parte essenziale del “patriottismo costituzionale” che ci è richiesto.

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MAURIZIO VIROLI

Il contenuto repubblicano della Costituzione

Se vi è un punto sul quale esiste un consenso pressoché unanime fra gli studiosi e nell’opinione pubblica colta, è che “le tre maggiori ideologie che hanno contribuito in maggiore o minore misura a formare l’impasto ideologico della nostra Costituzione sono, cito Norberto Bobbio, il liberalismo democratico, il socialismo e il cristianesimo sociale”. Queste tre tradizioni intellettuali hanno una lunga presenza nella nostra storia nazionale, ed è fuori di dubbio che una delle ragioni del forte radicamento della nostra Costituzione nel comune sentire degli italiani è che essa è figlia di queste culture politiche.

Altrettanto importante per il radicamento della Costituzione è stato l’antifascismo che ispira la nostra Carta dal primo all’ultimo articolo. Antifascista è l’art. 1 che riafferma la sovranità popolare devastata dal fascismo in nome di un potere autocratico; antifascista è l’affermazione solenne dei diritti inviolabili della persona che il fascismo aveva deriso in nome della subordinazione dell’individuo allo stato; antifascista è la dichiarazione ferma dell’uguale dignità sociale e dell’eguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione contro il razzismo proclamato e praticato dal fascismo; antifascista è il puntiglioso elenco delle libertà individuali che il fascismo calpestava: la libertà personale l’inviolabilità del domicilio, la libertà e segretezza della corrispondenza, il diritto dei cittadini di riunirsi pacificamente e senz’armi e di associarsi liberamente, senza autorizzazione. Non s’intende, anzi, si fraintende la nostra Costituzione se non si parte dal presupposto che i Costituenti vollero scrivere una Costituzione non afascista ma antifascista per proteggere l’Italia da una tragedia simile a quella che essi avevavo vissuto. Qualora susistessero ancora dubbi non resta che leggere la norma finale, non transitoria, che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista.

Come ho osservato, l’antifascismo che ispira la Costituzione è stato un elemento importante di radicamento in quanto corrispondeva ad un diffuso sentimento degli Italiani dopo la fine del regime. Si discuta pure su quanti furono gli Italiani che militarono, armi alla mano o in altro modo, nella Resistenza, ma è un dato fermo che tutti i partiti che si riconoscevano nella Costituzione erano antifascisti. Ma è del pari vero che l’antifascismo, per responsabilità primaria dell’élite politica e intellettuale, ha perso molta della forza di attrazione ideale che aveva in passato. Abbiamo così una Costituzione antifascista in un paese che non è più antifascista, o lo è in modo assai tiepido, con l’ovvia conseguenza che gli Italiani potrebbero sentire, e forse sentono la Costituzione lontana dal loro modo di pensare e vivere. Da questa diagnosi alcuni commentatori traggono la prescrizione di purificare la Costituzione dall’antifascismo. Personalmente sostengo esattamente il contrario: invece di cambiare la Costituzione per renderla più aderente ad un paese non più antifascista, o meno antifascista, fare rinascere l’antifascismo per rendere il paese aderente alla Costituzione antifascista.

Vi è tuttavia un’altra tradizione di pensiero politico che ha a mio giudizio ispirato e guidato l’opera dei Costituenti e ha lasciato tracce profonde nel testo della Costituzione. Mi riferisco alla tradizione repubblicana, ovvero a quella lunga e variegata tradizione di pensiero politico che ha quali principi fondamentali il bene comune e il governo della legge e la convinzione che essere cittadini vuol dire non solo godere dei diritti civili, politici e sociali, ma accettare e sapere assolvere i doveri verso la Repubblica. Il repubblicanesimo è un tratto distintivo dell’identità italiana, accanto e contro altri tratti, ed è sicuramente quello che vanta la più lunga tradizione storica. Nasce infatti

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nel XIII secolo, con le prime forme di autogoverno comunale e continua, dopo aver attraversato fasi di ascesa e fasi di declino, fino ai giorni nostri.

Probabilmente, suggerisco con molta cautela, sta proprio nel suo contenuto repubblicano una delle ragioni della forza e della fragilità della nostra Costituzione. Proprio perché è repubblicana essa presuppone, o aspira a formare dei cittadini ed un’élite politica ed amministrativa sostenuta da un forte senso del doveri civili. Se siffatti cittadini e siffatta élite non ci sono, la nostra Costituzione è destinata a diventare espressione di nobili speranze, e la Repubblica si trasforma in una repubblica corrotta.

1. I doveri e la Patria

Osservo subito che affermare, come ho appena fatto, che la Costituzione repubblicana è repubblicana, e trae ispirazione anche dalla tradizione del pensiero politico repubblicano, non è una grande scoperta. I Costituenti ne erano perfettamente consapevoli. Ricordo soltanto i riferimenti a Mazzini nelle parole che pronunciò Meuccio Ruini, Presidente della Commissione incaricata di redigere il testo provvisorio, nella seduta pomeridiana del 22 dicembre 1947 prima della votazione finale, a scrutinio segreto: “Questa è un’ora nella quale chi è adusato alle prove parlamentari, chi è stato in trincea, chi ha conosciuto il carcere politico, è preso da una nuova e profonda emozione. È la prima volta, nel corso millenario della storia d’Italia, che l’Italia unita si dà una libera Costituzione. Un bagliore soltanto vi fu, cento anni fa, nella Roma repubblicana di Mazzini. Mai tanta ala di storia è passata sopra di noi”.

La Costituente ha affermato il principio repubblicano della sovranità popolare nell’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ma il contenuto repubblicano della Costituzione non si esaurisce nel principio della sovranità popolare. Emerge con tutta evidenza nel rapporto fra diritti e doveri, e soprattutto nell’indicazione dei doveri del cittadino, dei rappresentanti e dei pubblici impiegati. La nostra Costituzione afferma a chiare lettere che la cittadinanza repubblicana comporta doveri civili: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Altrettanto chiaro è il contenuto repubblicano dell’articolo 67: “Ogni membro del parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato”, dove torna il principio fondamentale del repubblicanesimo sancito da Cicerone nei De Officiis I.124: “Est igitur proprium munus magistratus intellegere se gerere personam civitatis debereque eius dignitatem et decus sustinere, servare leges, iura discribere, ea fidei suae commissa meminisse.”.

Particolare rilievo ha l’art. 48, secondo comma, “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”. Nel ‘Progetto di Costituzione’, all’art.45, secondo comma, si legge che l’esercizio del voto è “dovere civico e morale”. Per illustrare il contenuto repubblicano dell’articolo basti riferire le parole di Umberto Merlin, di Rovigo, democristiano, relatore su questi articoli, nella seduta pomeridiana del 21 maggio 1947. Rispondendo a Condorelli, Rodi e Sullo che avevano obbiettato che affermare che il voto è un dovere civico e morale è un’eresia giuridica, Merlin sottolineò che questa Costituzione non deve essere “un trattato di pedagogia, ma deve indubbiamente insegnare anche dei doveri, deve essere anche il codice dei dritti e dei doveri dei cittadini. Meglio se sarà, come voleva Mazzini, prima il codice dei doveri e poi il codice dei diritti. Ora che c’è di male se la Commissione ha ottenuto l’unanimità dei consensi su questa formula?...Abbiamo affermato in forma solenne il dovere di andare a votare, il dovere del cittadino, che gode dei benefici di questo regime democratico, che gode della libertà, che gode della

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sicurezza personale, che insomma è ritornato ad essere, in questo nuovo clima che la democrazia ha creato un essere libero, questo cittadino abbia il disturbo di andare a votare”.

Più lungo discorso merita l’art. 52 “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino”, che esprime un principio fondamentale del repubblicanesimo. Anche in questo caso il possiamo partire dal commento di Merlin: “Ora, queste parole sono da fondersi nel marmo, parole che noi vorremmo penetrate così nella coscienza del nostro popolo da non doversi mai più discutere su di esse, ed è con soddisfazione che io ricordo all’Assemblea che la commissione fu unanime nel votare questa formula […] sul concetto della Patria e sull’amore verso di essa, una unanimità che deve essere e sarà cresimata indubbiamente dal voto dell’Assemblea”. Perché la Patria, sottolinea l’oratore, “non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi)”

Attiro l’attenzione sulle parole di Merlin: “la patria non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma la madre generosa”, perché ci fanno capire che la Costituente recepì e diede veste giuridica alla percezione che con la caduta del fascismo non era morta la patria, ma era iniziato il percorso di costruzione di una nuova patria. Basti citare le parole che Piero Calamandrei annota il 1 agosto 1943, pochi giorni dopo la caduta del fascismo: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria: la patria come senso di cordialità e di comprensione umana esistente tra nati nello stesso paese, che si intendono con uno sguardo, con un sorriso, con un’allusione: la patria, questo senso di vicinanza e di intimità che permette in certi momenti la confidenza e il tono di amicizia tra persone che non si conoscono, di educazione e di professione diverse, e che pur si riconoscono per qualcosa di comune e di solidale che è più dentro. Ah, che respiro! Ci si può parlare, si può dire il nostro pensiero chiaro, per la strada, in ferrovia, al contadino che lavora sul campo, all’operaio che passa in bicicletta: si può esprimere, senza timore della delazione il nostro sdegno, il nostro biasimo, la facezia che avvince spesso più di un’invettiva. Tutti ci si può ripetere queste frasi banali, che avvicinano e accomunano come una parola d’ordine, come un segno di riconoscimento tra fedeli di una stessa religione: ‘Finalmente! questi assassini! questo vigliacco! questo buffone!’”.1

La radice culturale dell’idea di patria come madre comune che non ammette privilegi o discriminazioni viene da Mazzini: “La patria è una comunione di liberi e d’eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. […] La patria non è un aggregato, è una associazione. Non v’è dunque veramente patria senza un diritto uniforme. Non v’è patria dove l’uniformità di quel diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze”. 2 Una vera patria non può avere stranieri entro i propri confini. Deve garantire a tutti e a ciascuno la dignità che viene dai diritti di cittadinanza e il rispetto e l'autorispetto che solo il lavoro e l'educazione assicurano: “La patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale – finché un solo vegeta ineducato fra gli educati – finché un solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro, nella miseria – voi non avrete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti. Il voto, l’educazione, il lavoro sono le tre colonne fondamentali della nazione; non abbiate posa finché non siano per opera vostra solidamente innalzate”. 3

Se poi camminiamo un po’ più a ritroso nella storia del pensiero politico repubblicano troviamo in Rousseau l’espressione ‘madre comune’. Per ottenere l'amore dei cittadini, osserva Rousseau, la patria deve amare tutti i cittadini egualmente e il suo amore si deve esprimere nella protezione premurosa dei diritti e della libertà di tutti. Se avvertono che i loro diritti civili sono tutelati, i cittadini si sentono sicuri; e se possono liberamente esercitare i diritti politici, sentono la patria come qualcosa di loro."Que la patrie se montre donc la mere commune des citoyens, que les

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avantages dont ils jouissent dans leur pays le leur rend chere, que le gouvernement leur laisse assez de part à l'administration publique pur sentir qu'il sont chez eux et que les lois ne soient a leur yeux que les garants de la commune liberté".4

2. Il preambolo non approvato

Di schietto contenuto repubblicano è pure l’art. 54: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Com’è noto, nel ‘Progetto di Costituzione’ l’articolo corrispondente, (art. 50) recava un secondo comma che recitava: “Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”. L’ assemblea plenaria non approvò questo comma. Le obiezioni che determinarono il voto contrario, nella seduta antimeridiana del 5 dicembre 1947, vennero sia da costituenti di destra che da costituenti di sinistra. Francesco Colitto, del Fronte Liberale Democratico dell’Uomo Qualunque, sostenne che i pubblici poteri indicati dal comma potevano essere non soltanto il potere esecutivo ma anche quello giudiziario e quello legislativo, e quindi secondo la norma il cittadino “avrebbe non solo il diritto, ma addirittura il dovere di opporsi ad una violazione di diritti garantiti dalla Costituzione”. Ma contro la legge, spiegò l’oratore, “non so concepire resistenze di nessun genere. Per la legge non c’è a mio modo di vedere, che l’obbedienza”.

Ugo della Seta, romano, repubblicano, riconosce che il comma sul diritto e il dovere di resistenza nasce da un nobile sentimento di “fierezza civile”, quasi “una reazione alla mortificazione che tutti subimmo sotto il regime dittatoriale, quando ci dibattemmo nel tormento di resistere ai poteri costituiti, come avremmo voluto, dovuto e forse anche potuto se – tranne una minoranza eroica – minori fossero state le coscienze pavide e servili, minori le schiene curve sotto la verga del dittatore”. È tuttavia contrario ad approvare il comma perché, “come Victor Hugo ha insegnato”, per rientrare nel diritto “bisogna uscire dalla legge”, e invece i difensori del comma vogliono “legalizzare la illegalità”. “Appello al Cielo chiamarono i trattatisti medievali questo diritto del popolo alla resistenza; e il poeta soldato cantò: ‘Quando il popolo si desta, Dio si mette alla sua testa e la folgore gli dà’. Voi volete costituzionalizzare la folgore”! Simile nel contenuto, ma più dura nel tono fu l’obiezione di Paolo Rossi, di Bordighera, iscritto al Partito Socialista Italiano fino al febbraio del 1947 poi al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Accettare il comma voleva dire sminuire la serietà della Carta costituzionale, con la pretesa di “disciplinare legalmente l’insurrezione”, una pretesa del tutto infantile in quanto “la rivolta contro i pubblici poteri è giudicata, giustificata o condannata volta a volta dal successo o dall’insuccesso”.

A difesa del comma, contro il suo compagno di partito, parlò Tito Oro Nobili, nato a Magliano Sabina. “La resistenza, sostenne, non è un’aggressione e tanto meno una rivoluzione; essa è una difesa. Perché astenersi dall’insegnare al popolo che questa difesa, in situazioni eccezionali, sarebbe non soltanto legittima, ma doverosa? Io sono convinto che esso, se fosse stato posto a tempo avanti a questo insegnamento, se lo avesse inteso e assorbito, avrebbe saputo impedire, pur senza fare la rivoluzione, i primi successi del fascismo. La resistenza è un fatto episodico, non può confondersi né con la rivoluzione né con una insurrezione; per lo più è anzi un episodio locale, del quale l’importanza non può tuttavia essere disconosciuta per la ripercussione inevitabile che è destinata ad avere sui pubblici poteri; i quali dal vigile senso di difesa dei propri diritti da parte del popolo, dovranno trarre la persuasione che la sedizione dei poteri contro la legge non sarà più tollerata”.

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Gli argomenti di Nobili furono ripresi dal comunista Fausto Gullo, di Catanzaro, poi ministro nel governo de Gasperi: “non è detto che quest’atto del cittadino debba assumere la forma estrema dell’atto rivoluzionario. Ci sono tante maniere di ribellarsi. Affermare questo principio non significa altro che dare concreta attuazione a quegli altri diritti che noi abbiamo affermato nella parte generale della Costituzione, i diritti del cittadino, i diritti dell’uomo. Se questi diritti sono violati o offesi dall’autorità costituita, i cittadini offesi, e come collettività e come singoli hanno il diritto di ribellarsi”. Chiuse la discussione, annunciando il voto contrario del gruppo della Democrazia Cristina, Costantino Mortati: “siamo condotti con questa disposizione sul terreno del fatto, e pertanto su un campo estraneo alla regolamentazione giuridica. Si è detto che questo articolo potrebbe avere un valore educativo. Questo è vero, ma bisogna allora stabilire se la Costituzione debba essere un testo di legge positiva, oppure un trattato pedagogico”.

L’articolo 50 del Progetto di Costituzione, con il secondo comma sul diritto e il dovere di resistenza, avrebbe insegnato un principio fondamentale dell’ethos repubblicano. L’ethos repubblicano si fonda su due principi: il dovere di essere fedele alla Repubblica, alla Costituzione e alle leggi, e il dovere di resistere contro l’esercizio arbitrario del potere. Il primo dovere è un freno alla licenza e all’anarchia; il secondo è un incoraggiamento alla resistenza contro i poteri arbitrari, contro la tirannide, nel linguaggio del repubblicanesimo classico. L’uno e l’altro insieme educano alla mentalità propria di cittadini liberi; da soli sono entrambi inadeguati. Il dovere di resistenza senza il dovere di lealtà distrugge la legalità, che è il fondamento della libertà repubblicana; il dovere di lealtà senza il diritto e il dovere di resistenza dissolve la fierezza civile che è sostegno altrettanto necessario della libertà repubblicana. A questa considerazione se ne aggiunge un’altra che nasce dalla riflessione sulla storia d’Italia. Dei due mali possibili, l’eccesso di fierezza civile che trascende nell’anarchia, che il comma sul diritto e il dovere di resistenza avrebbe potuto incoraggiare, e il difetto di fierezza civile che nutre l’abito servile, che l’articolo senza il diritto e il dovere di resistenza può incoraggiare, mi pare difficile negare che in Italia il vero problema è sempre stato la carenza, più che l’eccesso di fierezza civile.

L’articolo 54 della Costituzione ha, al posto del comma sul diritto e il dovere di resistenza, un comma sui doveri dei pubblici funzionari: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Questo comma, insieme all’articolo 98: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, esprime con chiarezza la concezione repubblicana del servizio pubblico, sia nel caso del rappresentante, sia nel caso del funzionario, come servizio reso ad un’istituzione pubblica e come tale servizio che ha particolare dignità, e deve essere svolto con la convinzione dell’eccellenza del proprio operare. Ma questo sentimento della particolare eccellenza della propria opera e funzione è appunto il senso dell’onore che la Costituzione, proprio perché repubblicana, richiede al funzionario pubblico. Nella storia del pensiero politico, la Repubblica è stata sempre considerata un alto valore morale e politico, e il servizio pubblico la più nobile delle attività umane, anzi, parte indispensabile dell’ideale della vita dell’individuo che vuole eccellere per virtù.

3. La dimensione religiosa della Costituzione

Accanto alla consapevolezza dell’alto valore della Repubblica e della Patria, la Costituente aveva coscienza della dimensione sacra dell’opera di redigere la Costituzione. Ne avvertiamo l’eco nella relazione che Meuccio Ruini presentò all’Assemblea Costituente. Ruini non solo ricorda che il liberalismo è un orientamento che “invoca la ‘religione della libertà’”, ma osserva che “uno spirito lucido, Stendhal, diceva che nell’avvicinarsi ad una costituzione si prova quasi un senso religioso”, e chiude parlando di “comune devozione alla Patria ed agli ideali di libertà e di giustizia che ci

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devono ispirare”. Benedetto Croce, al termine del suo intervento dell’11 marzo 1947, nel quale ricordò il suo celebre discorso del 24 maggio 1929 contro i Patti lateranensi, seppe trovare accenti di commossa evocazione della religione della libertà: “Ciascuno di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso. Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime:

Veni, creator spiritus,

Mentes tuorum visita;

Accende lumen sensi bus,

Infunde amorem cordibus

Lo stesso Ruini, laico, parlò di carattere sacro della Costituzione nell’intervento alla seduta antimeridiana del 22 dicembre presentando il risultato del lavoro di coordinamento degli articoli approvati del Progetto di Costituzione: “Finora, qui dentro, ci siamo divisi, urtati, lacerati nella stessa discussione del testo costituzionale. Ma vi era uno sforzo per raggiungere l’accordo e l’unità. Ed ora io sono sicuro che nell’approvazione finale il consenso sarà comune ed unanime, e dirò che al di sotto di una superficie di contrasto vi è una sola anima italiana. L’Italia avrà una Carta costituzionale, che sarà sacra per tutti gli italiani, uniti nell’evviva alla Repubblica ed alla Costituzione” [corsivo mio].

Per rendere più esplicito la dimensione sacra della Costituzione, Giorgio La Pira, democristiano, propose nella seduta del 9 settembre 1946 un preambolo che recitava: “Il popolo italiano, avendo sperimentato attraverso la dolorosa tirannia dello Stato totalitario fascista, come la dimenticanza e il disprezzo dei diritti naturali dell’uomo e delle fondamentali comunità umane, siano davvero le cause massime delle sventure pubbliche, decide di esporre – come atto preliminare della sua nuova vita democratica e repubblicana – in una Dichiarazione solenne, questi diritti sacri ed inalienabili. Consapevole dei grandi problemi di rinnovamento che si agitano nel tempo presente, esso mira, con questa Dichiarazione e con la Costituzione che l’accompagna, a creare un ordine sociale e politico che sia conforme all’alta dignità della persona ed alla fraterna solidarietà umana e che assicuri, perciò, a ciascuno un posto ed una funzione nella ordinata comunità nazionale. Esso riprende così il posto che gli spetta nel seno della civiltà cristiana – lievito ed essenza della sua storia e della sua cultura – ed in quello della comunità dei popoli amanti della libertà, del lavoro, della giustizia e della pace. Pertanto esso proclama, al cospetto di Dio e della comunità umana, la Dichiarazione seguente dei diritti dell’uomo.”

Come spiegò lo stesso La Pira nella relazione alla prima sottocommissione, la nuova Costituzione doveva essere in totale opposizione allo stato fascista che aveva proclamato e praticato la teoria che fonte esclusiva del diritto è lo Stato e dunque non ha senso rivendicare diritti inalienabili della persona. La Pira, come altri credenti, considerava il fascismo un’ideologia e un regime che offendevano profondamente la coscienza cristiana. Per dare vita ad una vera Costituzione antifascista era dunque indispensabile la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ma per proclamare i diritti inalienabili della persona bisognava in via preliminare affermare solennemente “la radice spirituale e religiosa dell’uomo”. Senza tale affermazione l’edificio dei diritti resta senza base ed è destinato a crollare. Per questo la Costituzione doveva aprirsi con una solenne proclamazione dei diritti “davanti a Dio”.

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La proposta di La Pira non fu accolta, e la nostra Costituzione, a differenza di altre, non ha un preambolo e non ha riferimento a Dio. Molte delle obiezioni che furono sollevate contro la proposta anticipavano quelle che abbiamo letto a proposito dell’idea di inserire una invocazione a Dio, o un riconoscimento delle radici cristiane, nella Costituzione Europea. Da questo punto di vista la posizione di La Pira era assai netta: egli voleva infatti che il preambolo affermasse che, grazie alla nuova Costituzione, l’Italia riprendeva il posto che le spettava nel seno della “civiltà cristiana”, dalla quale il fascismo l’aveva allontanata, e che la civiltà cristiana era “lievito ed essenza della sua storia e della sua cultura”. Le obiezioni più serie vennero da Concetto Marchesi, insigne latinista e comunista, e da Palmiro Togliatti. Marchesi obiettò che la formula di La Pira era o teologica o pagana e riproponeva uno Stato che assorbe in sé “fattori religiosi”, e che non era “conveniente” in un paese in cui la religione cattolica ha un saldo predominio sulle coscienze. E poi, riteneva Marchesi, è “preferibile non nominare il nome di Dio invano”. Togliatti sottolineò che il preambolo soffriva di un “eccesso di ideologia”, e che aveva un carattere religioso tale da comportare il rischio di “creare una scissione nel corpo della nazione”.

La Costituente tornò ancora a dibattere la questione nella seduta plenaria antimeridiana del 22 dicembre 1947, il giorno dell’approvazione del testo definitivo. Fu La Pira a proporre che la Costituzione fosse preceduta da questa brevissima formula di natura spirituale: “In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione”. Seguirono gli interventi, fra gli altri, di Togliatti, Marchesi, Calamandrei e Nitti per persuadere La Pira a ritirare la proposta perché avrebbe inevitabilmente diviso l’Assemblea. Nel suo discorso Calamandrei accolse le considerazioni del Presidente Terracini, e degli altri oratori “sulla necessità, cioè, di non immiserire in una discussione, in cui potrebbe darsi che sui particolari non tutti fossimo d’accordo, questa grande idea di Dio”. Aggiunse però che anch’egli avrebbe desiderato che all’inizio della Costituzione si trovasse qualche parola che volesse significare un richiamo allo Spirito: “ Perché, colleghi, alla fine dei nostri lavori, talvolta difficili e perfino incresciosi, talvolta immiseriti, diciamo, in questioni grettamente politiche, alla fine dei nostri lavori vi è però nella nostra coscienza la sensazione di aver partecipato in questa nostra opera a una ispirazione solenne e sacra. E sarebbe stato opportuno e confortante esprimere anche in una sola frase questa nostra coscienza, che nella nostra Costituzione c’è qualcosa che va al di là delle nostre persone, un’idea che ci ricollega al passato e all’avvenire, un’idea religiosa, perché tutto è religione quello che dimostra la transitorietà dell’uomo ma la perpetuità dei suoi ideali. Io avevo pensato – ve lo dico umilmente perché desidero che questo rimanga agli atti della nostra Assemblea – proporvi che questa invocazione allo Spirito e all’eternità fosse consacrato in un richiamo sul quale credo che tutti ci saremmo trovati concordi; in un richiamo cioè ai nostri Morti, a coloro che si sono sacrificati, affinché la grande idea per la quale hanno dato la vita si potesse praticamente trasfondere in questa nostra Costituzione che assicura la libertà e la Repubblica. Forse, questa nostra Costituzione in pratica, per taluni aspetti, è inferiore alla grandezza della loro idea; ma tuttavia ad essa ha voluto ispirarsi. Per questo io avevo in animo di proporre che la nostra Costituzione incominciasse con queste parole: ’Il popolo italiano consacra alla memoria dei fratelli caduti per restituire all’Italia libertà e onore la presente Costituzione”.

La Pira accettò le esortazioni a ritirare la sua proposta e disse che aveva difeso il preambolo per obbedire ad un dovere di coscienza. Alcide De Gasperi, che parlò nella seduta pomeridiana del 22 dicembre in qualità di Presidente del Consiglio, tornò sul carattere sacro della Costituzione: “A distanza di cento anni, disse, mi giunge all’orecchio come l’eco del programma mazziniano, che suonava: ‘La Costituente nazionale, raccolta a Roma, metropoli e città sacra della Nazione, dirà all’Italia e all’Europa il pensiero del Popolo e Dio benedirà il suo lavoro’. Valga tale auspicio anche per questa Assemblea del nuovo Risorgimento; il soffio dello spirito animatore della nostra storia e della nostra civiltà cristiana passi su questa nostra faticosa opera, debole perché umana, ma grande nelle sue aspirazioni ideali, e consacri nel cuore del popolo questa legge fondamentale di fraternità e di giustizia, sicchè l’Europa e il mondo riconoscano nell’Italia nuova, nella nuova Repubblica,

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assisa sulla libertà e sulla democrazia, la degna erede e continuatrice della sua civiltà millenaria e universale”. Il vecchio liberale Vittorio Emanuele Orlando, dopo aver lodato il dissenso e il contrasto delle idee come il mezzo più idoneo per scoprire la verità o per avvicinarci ad essa il più possibile, osservò: “Ma da questo momento tutto ciò è finito. Ora, la Costituzione ha avuto la sua consacrazione laica. Essa è al di sopra delle sue discussioni. Noi dobbiamo ad essa obbedienza assoluta, perché io non so concepire nessuna democrazia e nessuna libertà se non sotto forma di obbedienza alle leggi, che un popolo libero si è date”.

Non entro nella discussione se sia stato o meno saggio non accogliere il preambolo con l’invocazione a Dio, e avere invece l’articolo 7 con il riconoscimento dei Patti Lateranensi. Rilevo soltanto che l’invocazione a Dio sarebbe stata perfettamente coerente con il repubblicanesimo, come dimostra la ‘Dichiarazione d’Indipendenza‘degli Stati Uniti, unanimemente considerata il preambolo della Costtuzione. L’invocazione avrebbe forse incoraggiato una cultura repubblicana e avrebbe aiutato a risolvere il problema storico della fragilità dell’ethos civile in Italia. Sottolineo ‘forse’. È ragionevole pensare che i credenti di fede cristiana avrebbero sentito e sentirebbero più forte il dovere di essere leali ad una Costituzione che si apre con un’invocazione a Dio: un Dio che non è soltanto il loro ma è anche il loro. Ma sarebbero davvero andate così le cose in un paese come il nostro? Quale che sia la risposta a questa domanda ritengo che dimenticare la dimensione religiosa della nosttra Costituzione, dimenticare la religione della libertà che la pervade, come dimenticare il repubblicanesimo e l’antifascismo che ne ispirano tanta parte, significa essere cattivi storici. Senza ethos repubblicano, lo ricordavo all’inizio, le repubbliche si corrompono. Per ricostruire l’ethos repubblicano la migliore guida è la nostra Costituzione, se sappiamo intenderne il vero significato ideale e politico.

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1 Piero Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di Giorgio Agosti, Tomo secondo, 1942-1945, Firenze, La Nuova Italia, 1982, pp.154-5.

2 Dei doveri dell’uomo, in Scritti politici, a cura di Terenzio Grandi e Augusto Comba, Torino, UTET, 2005, p. 884.

3 Dei doveri dell’uomo, in Scritti politici, cit., p. 885.

4 Jean-Jacques Rousseau, , Economie politique, in Oeuvres Complètes, a cura di Bernard Ganebin e Marcel Raymond, Gallimard, Parigi, 1964, vol. III, p. 258.

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IGNAZIO MUSU

Gli aspetti economici della Costituzione italiana: è superato l’art. 41?

Gli aspetti economici della Costituzione in un contesto storico. L’evoluzione storica contemporanea ha determinato una modificazione negli obiettivi delle

Costituzioni. Per i padri del costituzionalismo liberale l’obiettivo principale della Costituzione doveva essere quello di provvedere garanzie per la libertà individuale di fronte all’eccesso del potere del sovrano (Hayek, 1986). Nel corso dei decenni successivi, e specialmente in Europa, le Costituzioni sono andate al di là di questa visione, e hanno allargato i propri obiettivi includendovi quello di un vero e proprio un disegno sociale, del quale si dichiaravano fondamento.

Questo è avvenuto specialmente nei casi in cui la Costituzione è emersa dopo un più o meno

violento sconvolgimento politico e/o sociale. La stessa Costituzione italiana, che nasce alla fine di un conflitto disastroso e sulla base dell’esperienza della Resistenza, è il frutto di un faticoso lavoro di incontro e mediazione di ideologie diverse con l’ambizione di costruire un nuovo progetto civile.

Questo cambiamento negli obiettivi fondamentali della Costituzione ha posto due problemi.

Il primo problema riguarda il rapporto tra il progetto civile e le libertà individuali. In quale misura gli obiettivi del progetto possono vincolare le libertà individuali? O, all’opposto, in quale misura la garanzia delle libertà individuali limita l’attuazione del progetto sociale?

Il secondo problema nasce dal fatto che ogni progetto civile è fortemente condizionato dal

determinato momento storico in cui viene formulato. C’è in ogni Costituzione una tensione tra l’aspirazione ad essere durevole, perché ispirata a valori e principi fondamentali, e la necessità di confrontare il progetto del quale la Costituzione pretende di essere fondamento con le sfide della dinamica della storia.

Questa tensione a volte si risolve con un adeguamento esplicito della norma costituzionale;

ma sempre può essere affrontata mediante un adeguamento implicito che si basa sulle opportunità offerte dalla interpretazione del documento costituzionale formale, anche se questo rimane immodificato.

Entrambi i problemi appena accennati si manifestano con particolare evidenza quando si

discute degli aspetti economici di una Costituzione. Il primo problema si esprime nel rapporto tra libertà di mercato e intervento pubblico. La libertà di iniziativa economica è una delle manifestazioni essenziali della libertà della persona. Come deve porsi l’intervento pubblico nei confronti della libertà di iniziativa economica per non comprometterla di fatto? Più brutalmente: quanto dirigista o quanto liberista in economia deve essere una Costituzione?

Il secondo problema, quello relativo al possibile conflitto tra curabilità della Costituzione e

cambiamento della storia, si pone con molta evidenza nel campo economico dove il condizionamento imposto dalla evoluzione storica è particolarmente forte. La dinamicità della storia viene infatti esaltata nella dinamicità intrinseca dell’economia. L’economia è per sua natura dinamica e mutevole, lo sono quindi le teorie per la sua interpretazione, i progetti per la sua organizzazione. La discussione su differenti modelli di organizzazione di un sistema economico può

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benissimo essere condotta al livello di teoria economica, ma ciò che in pratica determina dei veri e propri spostamenti di mentalità sono i fallimenti storici di un modello fino ad un certo punto accettato come dominante.

L’articolo della Costituzione italiana che, quasi in modo emblematico, costringe a riflettere

su questi due problemi è l’art. 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, privata e pubblica, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”

Come è noto, e come richiamerò in quanto segue, questo articolo, come del resto gli altri

articoli del Titolo III della Costituzione, è formulato in un contesto storico, politico e culturale nel quale era dominante una visione fortemente interventista dello Stato in economia. La domanda che ci si pone spesso oggi in modo eccessivamente generale e generico: se che la Costituzione è obsoleta, può essere resa più specifica per quanto riguarda gli aspetti economici toccati nell’art. 41 chiedendosi se questo articolo è in grado di rispondere ai nuovi termini nei quali si pone il rapporto tra intervento pubblico e mercato, e se quindi è in grado di accogliere in nuovi termini in cui si può oggi leggere il rapporto tra iniziativa economica privata e utilità sociale.

La concorrenza e il dibattito nell’Assemblea Costituente.

Uno degli aspetti per i quali molti ritengono oggi obsoleto l’art.41 è che in esso non si parla

mai di tutela della concorrenza. E’ vero che la tutela della concorrenza ha trovato posto nella Costituzione nell’art.117 in sede di riforma del Titolo V. Ma, come vedremo meglio più avanti, questo accenno resta staccato dal Titolo III ed in particolare dall’art.41.

E’ vero dunque che nel testo della Costituzione approvato alla fine del 1947 la parola

“concorrenza” non ricorre mai. Ma di concorrenza in realtà si discusse, ed in modo molto interessante ed istruttivo, nel dibattito all’Assemblea Costituente.

Certo, dalla maggioranza degli interventi in questo dibattito emerge una sostanziale sfiducia

nella concorrenza. L’idea emergente dalla stragrande maggioranza degli interventi in sede di Assemblea Costituente è che la libera concorrenza sia un concetto astratto, predicato dagli economisti teorici, destinato a non trovare mai applicazione pratica. La maggioranza dei deputati intervenuti riflettono l’idea che nella realtà si svolge una lotta senza regole, che porta a squilibri di potere economico e alla formazione di monopoli.

Emblematico al riguardo è l’intervento pronunciato in aula dall’onorevole Piero Malvestiti,

deputato della Democrazia Cristiana, nella seduta del 3 maggio 1947. Malvestiti accusa il capitalismo di “aver soltanto garantito la libera sopraffazione gabellata per libera concorrenza” (Atti dell’Assemblea Costituente, p.3502). Egli sostiene che il principio della concorrenza è pura astrazione; che gli Stati Uniti, nonostante il Sherman Anti-trust Act, sono in realtà diventati la patria dei cartelli e dei monopoli; chiama in sostegno delle proprie argomentazioni addirittura l’enciclica Quadragesimo Anno di Pio XI che condanna “quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè spesso i più violenti della lotta e i meno curanti della coscienza”.

Malvestiti, come molti deputati di parte democratica cristiana che condannavano il liberismo

economico, non vuole però andare nella direzione della pianificazione: vuole piuttosto “toglier di mezzo lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo senza sostituirvi l’ancor più atroce sfruttamento dello Stato su l’uomo” (Atti dell’Assemblea Costituente, p.3508). Ma la sua proposta è imbarazzata e un

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po’ contraddittoria: da un lato alla fine ammette che “il sistema della concorrenza è ancora il meno imperfetto di scegliere gli uomini”, dall’altro lato si limita ad auspicare che la soluzione venga dal “deus ex machina” della partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili dell’impresa.

La posizione della sinistra è più scontata, ma anche più chiara: denuncia delle degenerazioni

monopolistiche, e richiesta di un deciso intervento diretto dello Stato con piani e anche con nazionalizzazioni. La preoccupazione degli intereventi dei deputati di sinistra è ovviamente quella di evitare l’accusa di “sovietizzazione” dell’economia. Dichiara ad esempio il comunista onorevole Montagnana: “Noi vogliamo che …l’iniziativa dei privati – purchè venga indirizzata nell’interesse della nazione – sia aiutata e sollecitata. Ma tra queste affermazioni è l’affermazione della necessità di un piano economico, non esiste contraddizione alcuna.” (Atti dell’Assemblea Costituente, p.3631).

L’unico intervento a favore della concorrenza in sede di discussione generale sul Titolo III è

quello dell’onorevole Guido Cortese, di parte liberale. Cortese propone un emendamento a quello che era stato presentato in aula come art.39, e che poi diverrà art.41, con questa formulazione : “La legge regola l’esercizio dell’attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore”.

Nell’intervento con cui illustra l’emendamento l’on.Cortese specifica che il suo significato

era di “vigilare ed intervenire, prevenire e reprimere, attraverso una legislazione antiprotezionistica e antimonopolistica, affinchè la vita economica, fondata sull’iniziativa privata, si svolga nel rispetto della legge della concorrenza e dei principi che sono propri all’economia di mercato.”

“Noi diciamo - afferma Cortese – che non è già per coordinare in un piano le attività

economiche, che lo Stato debba intervenire, ma per assicurare il benessere della collettività, e per difender soprattutto quel tale consumatore che io non vedo ricordato in questo Titolo dei rapporti economici, non vedo nominato in nessun articolo; eppure è lui il protagonista vero, perché tutti siamo consumatori, tutti i cittadini sono consumatori, e difendere i consumatori significa soprattutto difendere gli interessi delle categorie meno abbienti.”

Questa posizione, nella quale riecheggiano orientamenti e temi tipici delle argomentazioni

che si usano oggi a difesa del valore della concorrenza, era però in assoluta minoranza nell’Assemblea Costituente.

Nella seduta antimeridiana del 13 maggio 1947 viene posto in discussione un articolo (allora

con il numero 37) che così recitava: “Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo. La legge determina le norme e i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali”. Esisteva poi un altro articolo (denominato art.39) nel quale si parlava dell’iniziativa economica privata, e si affermava che è libera, ma anche che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

Deputati di parte liberale chiedono la soppressione del primo articolo, ritenuto troppo

vincolante per lo svolgimento dell’attività privata. Molti deputati di parte democratico cristiana sembrano sensibili a questo argomento. Perciò l’onorevole Costantino Mortati, deputato della Democrazia Cristiana, propone la fusione dei due articoli in uno solo che, nella sua proposta, recita: “L’iniziativa economica privata è libera. La legge pone le norme necessarie perché le attività economiche siano coordinate a fini sociali, non rechino danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, né contrastino altrimenti con il bene comune.” (Atti dell’Assemblea Costituente, p.3931).

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Durante il dibattito, i deputati della sinistra cercano di inserire in qualche modo un

riferimento esplicito a “controlli” e “piani” dell’attività economica. Vi è una particolare resistenza nei confronti della parola “piani” che induce alcuni deputati della sinistra a sostituirla con “programmi”. Luigi Einaudi commenterà ironicamente su questa parte del dibattito: “Io credo che fra programmi e piani nel dizionario dei sinonimi del Tommaseo non vi sia alcuna differenza: le due parole esprimono lo stesso concetto” (Atti dell’Assemblea Costituente, p.3938).

Si arriva così alla formulazione dell’attuale art.41: “L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, privata e pubblica, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Prima di votare su questa formulazione dovevano però essere discussi due emendamenti

aggiuntivi. Il primo emendamento era quello presentato dall’on. Cortese: “La legge regola l’esercizio dell’attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore”. Il secondo emendamento era stato presentato dall’onorevole Luigi Einaudi e così recitava: “La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta”.

Il senso di questo emendamento è illustrato nell’appassionato intervento di Einaudi: “Il male

più profondo della società presente … è invece l’esistenza dei monopoli…. Noi, in questa Costituzione, del monopolio non ne parliamo affatto.… Quando i monopoli esistono noi dobbiamo chiedere che siano soppressi o eliminati.” (Atti dell’Assemblea Costituente, p.3939)

Purtroppo nel testo dell’emendamento, Einaudi non chiede che quando i monopoli esistono,

essi siano soppressi o eliminati; chiede che vengano controllati. Ciò fornisce all’onorevole Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituente, l’occasione per intervenire contro l’emendamento, accusando in pratica Einaudi di “dirigismo”. “Il suo atteggiamento contro il monopolio – osserva Ruini rivolto ad Einaudi – non presuppone l’ipotesi di una libera concorrenza che spontaneamente ed automaticamente divide ogni monopolio. …Occorrono – prosegue Ruini – interventi dello Stato per ristabilire e mantenere la libera economia di mercato. … L’emendamento sottopone a pubblico controllo i monopoli a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta. Ed è qui che si dispiega la macchina antiliberista dei controlli. Controlli di squisita essenza interventista, con uffici, organi, burocrazia di vigilanza. …. Il nostro progetto di Costituzione consente già armi sufficienti contro il monopolio. Nell’articolo che … ammette il coordinamento ed i controlli a fini sociali, vi è la facoltà di impedire la formazione dei monopoli.”

Queste ultime parole di Ruini costituiscono una interpretazione dell’art. 41 che molti

deputati non sarebbero stati disposti a sottoscrivere; lette oggi costituiscono una apertura interessante che riprenderò più avanti; ma allora furono una spinta alla bocciatura dell’emendamento Einaudi, che di fatto avviene. L’on. Cortese, per favorire Einuadi, ritirò il suo emendamento e così l’attuale art. 41 venne approvato senza emendamenti e senza ulteriori integrazioni.

Il mezzo privilegiato per attuare la da tutti invocata lotta contro i monopoli non viene

individuato nel ripristino della concorrenza, ma, dal successivo art. 43, nella possibilità di nazionalizzare i monopoli stessi.

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Dall’economia mista al recupero della concorrenza. L’assenza esplicita di un riferimento alla tutela della concorrenza nell’art.41 ha suscitato un

dibattito sulla relazione tra la libertà di iniziativa economica privata, affermata in quell’articolo, e il principio di concorrenza, invece non affermato esplicitamente. L’art. 41 è stato accusato di eccessivo dirigismo. Natalino Irti (2001, pp. 93 e segg.) è, ad esempio, molto duro su questo punto: “L’art. 41 … raccoglieva e consolidava esperienze del passato. … La Carta costituzionale ignora l’economia di mercato….Il mercato non riceve né garanzie né tutele costituzionali…. L’art. 41 rimane isterilito nell’ambiguità ideologica….”

In effetti l’art. 41, come del resto tutto il Titolo III, appare come un compromesso tra le

diverse forze ideologiche in campo, anche se alcuni deputati dell’Assemblea Costituente hanno comprensibilmente negato che fosse così. Le ideologie erano certamente diverse, ma il compromesso, almeno in questo campo, è stato facilitato da una sostanziale convergenza sulla sfiducia nei confronti delle possibilità del meccanismo di mercato di garantire l’efficienza nell’impiego delle risorse a livello dell’intera società.

Dobbiamo tener presente che ci si trovava in una fase storica nella quale, al di là della

contrapposizione ideologica, ma forse proprio per l’esistenza di questa contrapposizione, era dominante, non solo in Italia, ma in tutta Europa, e da ben prima della seconda guerra mondiale, una visione dell’economia a cui corrispondeva una visione fortemente interventista dello Stato in economia alla quale la formulazione dell’art.41, specialmente se letto assieme agli altri articoli del Titolo III, si adattava molto bene.

Questa visione dell’economia come economia mista caratterizzata da una forte presenza

programmatoria dello Stato, oltre che da una sua presenza diretta nella gestione di parti non irrilevanti del sistema economico, costituì una visione egemonica non solo in Italia per un lungo periodo che è andato ben al di là di quello immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale, il periodo nel quale si è elaborata ed approvata la Costituzione. Dominò in Europa almeno fino alla fine degli anni settanta del secolo scorso, quando cominciò ad essere messa in discussione con l’andata al governo in Inghilterra di Margareth Tatcher.

Nel modello dell’economia mista la concorrenza veniva considerata come una condizione

del tutto astratta e praticamente impossibile da realizzare, a causa delle troppo numerose e troppo stringenti condizioni richieste. La realtà del dispiegarsi delle libere forze del mercato produceva mercati con situazioni monopolistiche di vario tipo che rendevano necessario un intervento dello Stato nell’economia, fortemente regolativi e in molti casi sostitutivo della gestione privata delle imprese in condizioni non concorrenziali.

La teoria economica ammette naturalmente la necessita di un intervento regolativo dello

Stato anche in presenza del prevalere di condizioni di concorrenza in due tipiche situazioni. La prima è la presenza di beni pubblici.

Un bene pubblico è un bene che, una volta prodotto, può essere utilizzato in modo non rivale

e non esclusivo da più persone (Mankiw, 2004, pp.158-168). La non esclusività implica che una volta che il bene pubblico è stato prodotto, il fatto che una persona ne goda non esclude che altre persone ne possano godere. La non rivalità implica che quando una persona utilizza un bene pubblico, ciò non riduce la quantità del bene disponibile per essere utilizzato da altre persone. Entrambe queste caratteristiche implicano la non utilizzabilità del meccanismo di mercato per produrre una quantità efficiente del bene pubblico.

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La ragione per la quale il mercato non è in grado di garantire la produzione di un ammontare socialmente efficiente di beni pubblici è che su questi beni non è possibile o è molto difficile stabilire un diritto di proprietà individuale; e stabilire diritti individuali di proprietà è la condizione indispensabile perché un bene possa venire scambiato in un mercato; infatti ciò che in ultima analisi si scambia in un mercato sono non tanto i beni, quanto i diritti di proprietà sui beni.

La non esclusività di un bene pubblico implica che se una persona manifesta la propria

disponibilità a pagare per averne di più, le altre persone sono incentivate a non seguire questo comportamento perché sanno che potranno godere del bene pubblico, una volta prodotto, senza costo. La conseguenza di ciò è che non si manifesta sul mercato una domanda sufficiente del bene pubblico. La non rivalità invece implica che se una persona usa un bene pubblico, e un’altra persona lo vuole usare, non occorre produrne di più: quindi la non rivalità spinge a far sì che sul mercato si manifesti un’offerta insufficiente del bene pubblico.

Il risultato è che il mercato non è in gradi di garantire che un adegauato ammontare di un

bene pubblico venga domandato e prodotto. Quindi un intervento dello Stato per incentivare la produzione dei beni pubblici è necessario. Il mercato, come minimo, non basta. Ma nella visione dell’economia mista si è assistito ad una estensione della qualificazione di bene pubblico anche a beni che non sono intrinsecamente tali. Ad esempio, la qualità dell’ambiente è un bene pubblico, la difesa è un bene pubblico, il sistema giudiziario è un bene pubblico. Ma che dire dell’istruzione o della sanità o dei trasporti? Questi servizi hanno aspetti di bene pubblico (un diffusa istruzione di base beneficia tutti, e così un buon sistema sanitario), ma possono essere acquistati sul mercato. Il modello di economia mista che si è affermato in Europa all’interno del più generale modello di “welfare state” (Barr, 2004) ha automaticamente definito questi servizi come beni pubblici, ma più sulla base di un criterio di giustizia distribuiva che di un criterio di efficienza sociale nell’impiego delle risorse. E’ stato cioè usato un criterio non appropriato per la definzione di bene pubblico, almeno sotto il profilo economico.

Inoltre l’esigenza di incentivare la produzione di beni pubblici si è tradotta, nella visione

dell’economia mista, in una esigenza di gestire direttamente la produzione di tali beni. Insomma, il modello dell’economia mista ha fortemente limitato l’uso degli incentivi di mercato, escludendo ad esempio a priori meccanismi di concorrenza nell’offerta del servizio.

La seconda situazione tipica nella quale la teoria economica ammette la necessita di un

intervento regolativo dello Stato anche in presenza del prevalere di condizioni di concorrenza è costituita dall’esistenza di un monopolio naturale, ossia di una condizione nella quale, a causa di elevati costi fissi, l’aumento della produzione da parte di una impresa comporta costi di produzione per unità di prodotto decrescenti, con il risultato di aumentare l’efficienza. In queste condizioni, spezzare la produzione in più imprese riduce l’efficienza perché aumenta il costo medio di produzione a causa dei costi fissi più elevati che ciascuna impresa si trova a dover coprire (Perloff, 2003, pp. 361-362).

In questo caso per impedire che il monopolista naturale applichi prezzio troppo elevati, si

ammette un intervento regolativo dello Stato. Ma anche qui nel modello dell’economia mista l’ambito e la natura dell’intervento veniva molto esteso. A livello del monopolio naturale si affermava più un intervento gestionale pubblico sostitutivo, quindi un intervento diretto, piuttosto che un intervento regolativi indiretto, di controllo. Ma, soprattutto, l’intervento pubblico non veniva limitato solo nel caso di monopoli naturali; esso si doveva estendere anche ai casi in cui, pur essendo la concorrenza possibile, essa andava nei fatti limitata da considerazioni di natura strategica, quali ad esempio l’interesse nazionale o più genericamente pubblico definito in base ad una valutazione di tipo politico.

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Perchè questa estensione dell’intervento pubblico nell’economia nel modello di economia

mista? Si possono citare molte ragioni, alcune delle quali non molto nobili, sulle quali peraltro la recente riflessione di natura economico-politica ha posto particolare attenzione: ad esempio l’uso della gestione pubblica come sostegno del potere politico, anche attraverso il consenso elettorale. Io credo però che vi sia una ragione più profonda, di natura quasi filosofica; e questa ragione sta, come ha messo ben in evidenza Hayek (Hayek, 1986, 2007), nella convinzione, tipica della visione della economia mista, che l’intervento dello Stato è per definizione sempre e comunque migliorativo rispetto all’iniziativa privata e ai cosiddetti fallimenti del mercato perché l’autorità pubblica è ritenuta per definizione in grado di individuare non solo gli obiettivi di bene comune, ma anche il modo migliore per perseguirli.

Il modello di economia mista è stato applicato nell’Europa continentale fino a quando la

crisi dell’esperienza della pianificazione centralizzata, e del cosiddetto socialismo di mercato, non si è manifestata in modo indiscutibile, e fino a quando l’emergere prepotente in vari paesi di una crisi della finanza pubblica, collegata all’estensione eccessiva dell’intervento pubblico nell’economia, anche per motivi di mediazione e consenso sociale, o più brutalmente elettorale, non ha obbligato i governi ad assumere provvedimenti adeguati che richiedevano una messa in discussione di un ruolo dell’intervento pubblico nell’economia diventato troppo invasivo.

Oggi io credo si possa affermare che il limite principale del modello dell’economia mista è

stato quello di aver messo del tutto in secondo piano un’altra modalità con la quale l’intervento pubblico può manifestarsi in presenza di imperfezioni di mercato, e cioè come intervento che tende a stimolare i mercati perché funzionino meglio. In questa prospettiva, l’intervento pubblico intervento cambia completamente natura: in presenza di forme di mercato non concorrenziali, esso si propone di garantire le condizioni per il massimo avvicinamento possibile alla concorrenza.

Oggi sembra quasi naturale prendere in considerazione una prospettiva di questo tipo, anche

se questo cambiamento di ottica non è certo unanime. Ma si deve con onestà riconoscere che fino al momento in cui il modello dell’economia mista è entrato in crisi, nessuno, o ben pochi, sembravano rendersi conto dei limiti intriseci di questo modello e della esistenza di una prospettiva diversa di visione dell’intervento pubblico, che invece che limitare valorizzasse la concorrenza.

E’ stata l’entrata in crisi del modello dell’economia mista che ha a sua volta messo in crisi la

fiducia nelle automatiche capacità correttive dell’intervento pubblico sostitutivo e ha aperto la via per ridare valore al mercato e alla concorrenza.

Molti ritengono che questo cambiamento di prospettiva sia avvenuto prima in Europa che in

Italia, soprattutto nel corso degli anni ottanta del secolo passato, e abbia trovato un riconoscimento nel trattato di Maastricht del 1992 e nell’accordo sullo Spazio economico europeo dell’anno successivo (ad esempio Cassese, 2004). Certamente l’Europa ha avuto in questo campo, come in altri, un ruolo trainante nel confronti dell’Italia. Ma bisogna riconoscere che nell’Europa continentale il cambiamento è avvenuto con convinzione, intensità e tempi diversi nei vari paesi.

E nella prassi appare tutt’altro che semplice e scontata, anche in Europa, la rimozione di un

modo di affrontare i problemi economici che è ancora tutto sommato molto ben radicato nell’impianto culturale della società, centrato sull’idea di un automatico intervento salvifico dello Stato. In Europa infatti il consenso per sostenere politiche per la concorrenza è ancora difficile da coagulare, e si deve riconoscere che la concorrenza ha ancora un consenso politico molto fragile.

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Certo, la modificazione della sensibilità verso la concorrenza e il passaggio a più efficaci politiche per la concorrenza sono stati molto aiutati dall’ordinamento e dalle istituzioni europee. Il richiamo alla normativa contenuta nel Trattato della Comunità Europea ha aiutato le singole nazioni ad accettare la tutela della concorrenza come un obiettivo sociale e ad introdurre legislazioni più orientate a questo obiettivo.

In Italia, quando, con qualche ritardo si è scoperto che le regole della concorrenza

costituiscono una parte essenziale del mercato unico disegnato nel Trattato, ci si è richiamati esplicitamente alle regole dell’ordinamento comunitario in tema di concorrenza per definire l’ambito di applicazione e le modalità di interpretazione della legge 287/90 sulla tutela della concorrenza.

Tuttavia anche nell’Unione Europea continua a prevalere un eccessivo impulso ad una

regolamentazione che a volte entra in conflitto con una visione che afferma la concorrenza come valore sociale.

La recente riscoperta, anche da parte della teoria economica, del ruolo determinante per la

concorrenza della libera entrata nel mercato e della sua “contendibilità”, in modo da garantire che chi si trova già in un mercato non possa impedire agli altri di entrare e di far meglio di lui, si trova solo in parte riflessa nell’art. 81 del Trattato della Comunità Europea, laddove si ammette la possibilità di accordi tra imprese se contribuiscono a promuovere il progresso tecnico o economico, ma non si lega in modo esplicito questa possibilità alla contendibilità del mercato.

Nella prassi poi i governi nazionali spesso cercano di prendersi una rivincita rispetto ai

progressi che la Commissione Europea, specialmente a partire dal 1999 con il Commissario Mario Monti, ha fatto in tema di lotta ai cartelli (Alesina e Giavazzi, 2006).

L’ evoluzione tecnologica ha di recente aumentato le possibilità della concorrenza mettendo

in discussione l’integrazione verticale tra la rete di infrastrutture e le fasi di produzione e distribuzione dei beni e servizi prodotti che erano alla base di molti casi di monopolio naturale. Ciò ha molto ridotto lo spazio per interventi di gestione pubblica di monopoli naturali, limitandoli eventualmente alla gestione della rete infrastrutturale. , Ma si deve constatare che le opportunità aperte alla concorrenza nella fase della produzione e distribuzione dei servizi sono ancora troppo poco sfruttate non solo nel nostro paese, ma anche in altri paesi dell’Europa continentale.

L’introduzione della tutela della concorrenza nell’art.117, il riconoscimento dell’utilità sociale della concorrenza e un nuovo modo di usare l’art.41.

Anche in Italia alla fine siamo arrivati ad introdurre la tutela della concorrenza nella

Costituzione. Ciò è avvenuto nel 2001 a seguito dalla modifica del Titolo V. Così nell’art. 117 leggiamo che “Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: …e) tutela della concorrenza”.

Si tratta di una formulazione alquanto laconica, collocata nel contesto del Titolo V,

completamente staccata dal Titolo III, o comunque dalla prima parte della Costituzione stessa nella quale, come si è già osservato, la concorrenza non viene mai nominata.

La formulazione sembra solo affermare una attribuzione di competenza legislativa solo allo

Stato in tema di tutela della concorrenza, e come tale potrebbe sembrare del tutto neutra rispetto all’attribuzione di un valore alla concorrenza stessa.

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Si è osservato (Libertini, 2005) che “l’attribuzione di un potere implica anche… la

doverosità del relativo esercizio”: in altri termini se si afferma che lo Stato legifera con competenza esclusiva in tema di tutela della concorrenza, ciò vuol dire che la tutela della concorrenza è un obiettivo che è doveroso cercare di raggiungere.

Il fatto è che nella Costituzione non si trova un esplicito punto di riferimento al quale

agganciarsi per sostenere che la Costituzione stessa attribuisce alla concorrenza un valore. Di questo non si può dubitare. Ma forse proprio l’art.41 potrebbe fornirci un punto di riferimento, certo non esplicito, piuttosto un riferimento implicito.

Perché dovrebbe essere doveroso esercitare da parte dello Stato il potere della tutela della

concorrenza? Perché lo Stato dovrebbe promuovere la concorrenza? La risposta sta, a mio parere, nel riconoscimento che la concorrenza ha un valore sociale. Questo valore sociale si riflette essenzialmente nella capacità di migliorare nel lungo periodo il benessere dei consumatori, intesi non tanto come “classe”, quanto come singole persone. Questo non vuol dire solo ottenere, mediante la concorrenza, prezzi più vicini ai costi medi di produzione e quindi ridurre il profitto a costo opportunità dell’iniziativa innovativa dell’imprenditore: questo è solo il risultato finale. Quello che è importante è soprattutto il processo con cui si organizza un mercato concorrenziale, il che vuol dire realizzazione di condizioni di contendibilità, di trasparenza e chiarezza nei contratti, di riduzione al minimo delle asimmetrie di informazione nel gioco del mercato. La concorrenza, come notava Hayek, aiuta ad utilizzare una conoscenza dispersa tra una miriade di informazioni e stimola ad acquisire nuove conoscenze, quindi stimola lo sviluppo economico.

Vista sotto questo profilo la concorrenza appare chiaramente come un bene pubblico. E non

è difficile rendersi conto che dei beni pubblici presenta anche tutti i problemi perché ne venga garantito un ammontare socialmente efficiente. Un esempio evidente di questi problemi e che tutti invocano la concorrenza per gli altri, ma cercano protezione dalla concorrenza per sé. Il ragionamento è lo stesso che determina comportamenti “free riding” per tutti i beni pubblici: se tutti si comportano secondo il modello concorrenziale, non sarà certo la protezione della particolare rendita di posizione del gruppo sociale a cui appartengo che distruggerà il sistema? Se peraltro è diffusa dovunque la protezione di rendite contro la concorrenza, perché solo io e il gruppo sociale del quale faccio parte dovremmo accettare di limitare le nostre rendite seguendo un comportamento concorrenziale?

Quindi, come per tutti i beni pubblici anche per la concorrenza l’intervento pubblico deve

farsi carico di promuoverla e tutelarla. Garantire la concorrenza è dunque oggi una delle modalità con cui si persegue l’utilità sociale. L’importanza del valore sociale della concorrenza appare ancora più evidente se si osserva che esso è un valore strumentale all’affermazione di altri valori fondamentali, quali la necessità di contribuire al meglio alla vita della società, la responsabilità, la lealtà verso i contraenti, dei quali la Costituzione è nutrita.

Se si riconosce che la concorrenza è un bene pubblico ed ha un valore sociale della

concorrenza, allora appare a me quasi naturale recuperare il messaggio fondamentale contenuto nell’art. 41 che la libera iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Nel caso specifico esso può essere interpretato affermando che la libera iniziativa economica non può svolgersi, tra l’altro, in contrasto con le condizioni di libera concorrenza.

Applicando la già citata lettura dell’art.41 fatta dal presidente della Commissione per la

Costituente Ruini in risposta all’emendamento Einaudi, si potrebbe sostenere che garantire la concorrenza è una delle modalità per garantire che la libera iniziativa economica non si svolga in

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contrasto con l’utilità sociale. Sotto questo profilo, non appare allora priva di fondamento l’affermazione contenuta all’inizio della legge 10 ottobre 1990, n.287 sulla tutela della concorrenza, secondo al quale la legge stessa è emanata in attuazione dell’art.41 della Costituzione a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica (per una opinione diversa si veda Irti, 2001, p.99).

Concorrenza è dunque un bene pubblico che contribuisce all’utilità sociale. La percezione

dell’ importanza di ciò non era certamente presente al tempo in cui fu approvata la Costituzione. Non c’era neppure per tutto il periodo in cui si è accettato come dominante il paradigma dell’economia mista con forte presenza pubblica dello Stato nell’economia. Ma oggi è possibile rileggere il messaggio fondamentale dell’art. 41 recuperando la tutela della concorrenza come uno degli aspetti in cui si manifesta l’utilità sociale.

Questo ci permette da un lato di portare un ulteriore elemento a sostegno della continuità

nella validità del messaggio costituzionale. Ma dall’altro lato aiuta a identificare in che cosa consista il vero problema di fronte ala quale ci si deve misurare quando si voglia riflettere sull’attualità di un articolo come il 41. Questo problema riguarda la capacità di comprendere a identificare le nuova modalità nelle quali si manifesta l’utilità sociale contro la quale non può svolgersi la libera iniziativa economica.

Torniamo allora al punto di partenza di questa riflessione. La Costituzione deve misurarsi

con l’evoluzione storica che si manifesta anche nell’emergere di nuove caratteristiche e nuove modalità di definizione dell’utilità sociale. Sotto questo profilo, il punto importante riguarda il come l’utilità sociale viene riconosciuta e chi ha il compito di identificarla. E’ chiaro che questo è compito del sistema politico e della legislazione. Ma è essenziale che questo compito venga svolto in modo da riflettere una profonda e diffusa adesione nella cultura della società.

Perché l’invocazione della concorrenza come bene pubblico nel quale si manifesta una

utilità sociale non rimanga un richiamo astratto occorre che la concorrenza venga prima di tutto diffusamente riconosciuta come tale (come bene pubblico nel quale si manifesta una utilità sociale) nella cultura della società. I valori dell’utilità sociale si affermeranno nei fatti solo se vengono incorporati come tali nella cultura di una società; questa è la condizione perché si riconosca la necessità che la tutela della concorrenza si traduca in leggi, regolamenti e istituzioni efficaci. Guardandoci attorno, credo che è probabilmente a questo livello che si colloca la sfida delicata e importante che nella società italiana deve ancora essere risolta.

Riferimenti bibliografici.

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Economisti, Il Mulino, Bologna, Supplemento n.1/2005, pp. 105-118.

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G.Mankiw, Principi di Economia, Zanichelli, Bologna, 2004. J. Perloff, Microeconomia, Apogeo, Milano, 2003.

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ALBERTO QUADRIO CURZIO

Spesa, fiscalità e finanza pubblica: le anomalie italiane e la UE

Sintesi della relazione

La Costituzione italiana è ricca di tematiche economiche. Per questo si impongono delle scelte e noi l’abbiamo fatta privilegiando l’analisi della spesa, delle entrate del debito pubblico, alle quali facciamo una premessa di metodo. Un economista può esaminare la Costituzione italiana - andando o meno a riesaminare il processo costituente - con vari metodi, pur sempre nella convinzione che la “scienza costituzionale” veda una netta predominanza delle scienze giuridiche. Nella relazione qui riassunta si adotterà un metodo economico fattuale ed istituzionale che esamina i dati che hanno caratterizzato la dinamica del sistema economico italiano nei 60 anni passati, evidenziandone i successi e gli insuccessi e cercando di correlare gli stessi alle formulazioni della Costituzione anche in un confronto europeo.

Su questa linea di analisi ci siamo intrattenuti negli anni passati con un tentativo difficile e in parte congetturale nel quale l’esame dei dati e dei fatti si intreccia soprattutto nel confronto con i Trattati europei e con quanto essi hanno chiesto all’Italia. Bisogna infatti ricordare che nel 2007 si è celebrato il 50° anniversario del Trattato di Roma e che la Costituzione italiana ha convissuto per 50 anni con i Trattati europei, non sempre in armonia sotto il profilo economico. Ci sentiamo tuttavia di affermare sin d’ora che la principale riforma costituzionale italiana l’ha fatta, sotto il profilo economico-finanziario, il Trattato di Maastricht del 1992 e quanto allo stesso è seguito. In particolare il Patto di Stabilità e di crescita.

Si possono tuttavia formulare dei quesiti ad alcuni dei quali, non certo a tutti, cercheremo di rispondere. E cioè: come avrebbe dovuto essere formulata la Costituzione italiana per evitare la nota e pericolosa dinamica della finanza pubblica? Sarebbe possibile ed utile cambiare oggi la Costituzione per vincolare i Governi, i Parlamenti, gli enti locali ad una gestione più composta delle finanze pubbliche? Se i Trattati europei modificano la Costituzione italiana, qual è stato e qual è il contributo italiano agli stessi nella consapevolezza dei riflessi sulla nostra Carta Fondamentale? Le domande potrebbero continuare. Avendo posto questi quesiti noi ci concentreremo su un tema: quello della spesa pubblica (art. 81) e delle entrate fiscali (art. 53) e, quindi, della finanza pubblica. Lo stesso non è certo esaustivo dei temi economici trattati nella Costituzione ma è certo uno dei principali sia in quanto nucleo di intersezione tra pubblico e privato sia per le conseguenze sulla stessa dei Trattati europei.

L’impostazione che seguiremo potrebbe essere considerata grezza e tale potrebbe anche essere se valutata con i canoni sofisticati sia della dottrina giuridica sia della dottrina economica dove pure vi sono pregevoli opere sulla nostra Costituzione. Ma noi riteniamo che i fatti e i dati abbiano per l’economista un pregio: tentare di misurare la distanza o la vicinanza tra ideali e realtà e ricordare che se i primi non trovano una qualche traduzione razionale nei fatti, allora qualcosa non ha funzionato. Forse anche nelle interpretazioni e nelle applicazioni della nostra Costituzione che tuttavia merita sempre deferenza per aver riscattato l’Italia dalla dittatura e dalla guerra, per aver garantito la democrazia, per aver consentito un grande sviluppo economico.

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LEOPOLDO ELIA

La “stabilizzazione”del governo dalla Costituente ad oggi

1. Più volte nei Convegni dell’Accademia dei Lincei dedicati alla Costituzione repubblicana,

in diversi anniversari e circostanze, è tornata la disamina del funzionamento della forma di

governo. In particolare nella lunga transizione istituzionale cominciata nel biennio 1991-1993

(ma per situazioni negative maturate soprattutto dopo l’assassinio di Aldo Moro), è la criticità

dell’assetto costituzionale di vertice che ha rappresentato il punctum dolens più evidente.

Basta evocare la piattaforma semipresidenzialista durante l’incarico Maccanico, le incertezze

caratterizzanti il progetto di riforma della seconda parte della Costituzione nel progetto varato

dalla Bicamerale D’Alema e da ultimo il conato della revisione Berlusconi, fermata dal

referendum 25-26 giugno 2006, per rendersi conto che il problema era ed è tutt’altro che

chiuso. Intendiamoci: oggi va di moda dimenticare o far dimenticare questo storico evento

ponendo in ombra il rifiuto da parte degli elettori di confermare proprio la nuova forma di

governo votata dalla sola maggioranza di centro destra. E ciò malgrado che Maurizio

Fioravanti abbia scritto di una proposta “che conteneva più di un aspetto di vera e propria

eversione della Costituzione esistente”1 e che Valerio Onida abbia definito il nuovo Primo

ministro delineato in quel testo “eletto in modo sostanzialmente diretto e vero «padrone» della

maggioranza parlamentare”2. Malgrado l’autentico successo del costituzionalismo italiano

conseguito nel giugno del 2006 resta vero quanto rilevato in dottrina prima del referendum da

Dogliani, da Giuseppe Ugo Rescigno e dallo stesso Fioravanti circa la crisi del modello

parlamentare adottato nel 1947; e proprio sul terreno della “materia politica” come dimostra

l’incapacità del Parlamento, nel 1992, di produrre con le sue forze una nuova legge elettorale

o di deliberare, oggi, sulle questioni c.d. eticamente sensibili lasciando che sia la magistratura

o la Corte costituzionale ad affrontare nodi altrove sciolti da tempo.

D’altra parte il mutare di partiti e di forze sociali realizzatosi nell’ultimo periodo del secolo

scorso non può spiegare da solo la crisi che attraversiamo: negli Stati Uniti la scomparsa del

partito federalista all’inizio dell’ottocento non ha certo messo in pericolo gli acquisti del

federalismo già consolidati. Non valgono dunque ragioni di natura “biologica” per spiegare le

difficoltà che dobbiamo superare. Perciò può essere utile riconsiderare alcune vicende

decisive della elaborazione costituente, esaminando questioni rimaste aperte da più di sessanta

1 M. FIORAVANTI ,Costituzionalismo e legge fondamentale in Diritto pubblico, 2006, n.2, p.508. 2 V. ONIDA, La Costituzione 2, Il Mulino, Bologna, 2007, p.127.

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anni fa; dopo questo riesame sommario, sia pure per tratti essenziali, cercherò di tracciare un

bilancio della esperienza dei sei decenni trascorsi e di tentare qualche linea di indirizzo che

renda possibile chiudere positivamente la transizione già troppo lunga.

2. Non si rileggono senza emozione quelle pagine ingiallite e dai caratteri sempre più sbiaditi

in cui sono contenuti i resoconti sommari e stenografici dei lavori della Assemblea

Costituente e prima ancora di quelli della Commissione dei 75, nel caso nostro della Seconda

Sottocommissione che si occupò della seconda parte del progetto della nuova Costituzione

(Ordinamento della Repubblica). La discussione sulla forma di governo inizia il 3 settembre

1946 con la relazione, ampia ed approfondita, di Costantino Mortati, incaricato di riferire sul

potere legislativo; ma il Presidente Terracini avverte che, in una loro riunione, “i Relatori

hanno riconosciuto l’opportunità che l’onorevole Mortati faccia una premessa sulla questione

della forma del Governo e di rapporti tra i poteri, come introduzione della trattazione specifica

dei tre poteri”3. Nella seduta del 4 settembre l’on. Perassi propone la seguente decisione: “La

Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenendo che

né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle

condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da

disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di

Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Questo testo risale al disegno

programmatico elaborato da esponenti del Partito repubblicano, durante l’occupazione tedesca

di Roma: dopo l’affermazione che i ministri debbano godere la fiducia delle Camere, si

precisava: “La Costituzione, stabilendo questo principio, deve adottare alcune cautele per

assicurare una conveniente continuità del governo ed evitare che l’applicazione pratica di quel

principio porti a fenomeni di degenerazione parlamentaristica”4.

Questo ordine del giorno, divenuto poi tanto famoso quanto disatteso, fu approvato con 22

voti favorevoli e 6 astensioni al termine della seduta del 5 settembre. E’ anche da ricordare

che il presentatore on. Perassi impedì il tentativo dell’on. Grieco di votare solo la prima parte

dell’ordine del giorno (senza il riferimento alla disciplina dei dispositivi) con l’invito ai

colleghi volto a respingere la proposta Grieco dichiarando che “nel suo pensiero l’ordine del

giorno è un blocco indivisibile”.

E’ importante sottolineare che per i costituenti professori di diritto pubblico la scelta non era

semplicemente tra sistema presidenziale e sistema parlamentare, ma tra sistema parlamentare

3 Dal resoconto sommario della seduta del 3 settembre della Seconda Sottocommissione, p. 81. 4 Lineamenti costituzionali della Repubblica italiana ora in La Costituente, ed. Pri, 1946, pp. 105-106.

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presidiato da idonei dispositivi e gli altri sistemi. Su questo punto, anzi, il consenso si

estendeva ad altri commissari (ricordo l’on. Vanoni): e, stimolati dalla incisiva polemica

dell’on. Calamandrei favorevole al sistema presidenziale statunitense, l’on. Tosato e l’on.

Bulloni minacciavano che senza i famosi presidi stabilizzatori avrebbero optato per la forma

presidenziale. Né si può dire che i professori si accontentassero della “razionalizzazione del

rapporto fiduciario” fallita nelle costituzioni democratiche del primo dopoguerra: essi

cercavano qualcosa di molto più impegnativo e rassicurante. Però dall’on. Perassi non

vennero indicazioni circa i famosi dispositivi: furono l’on. Mortati e soprattutto, con davvero

lungimirante originalità, l’on. Tosato a indicare nuove “vie e mezzi” per rafforzare veramente

il governo e in particolare il suo capo.

Non desta meraviglia che i due costituenti democristiani prendessero l’iniziativa. Mortati, ed

anche Tosato, appartenevano a quel gruppo dei costituzionalisti degli anni trenta che Togliatti

non apprezzava, preferendo quelli cresciuti nel culto dello Statuto albertino, pur non esenti da

qualche responsabilità nell’avvento del fascismo. Negli anni trenta si prendeva

consapevolezza dell’indirizzo politico, del ruolo crescente e necessario del potere di governo

specie nella politica economica nonché del fallimento della forma di governo weimariana e di

ogni compromesso con gli eredi dell’ancien régime. Così Mortati propose senza successo una

contaminazione col sistema direttoriale elvetico, dilatando a due anni di stabilità l’efficacia

del conferimento della fiducia parlamentare all’esecutivo: contro la giusta obbiezione di

Calamandrei secondo cui né questa proposta né quelle per la disciplina della sfiducia

proteggevano dalle crisi extraparlamentari e dalle dimissioni di ministri, Tosato rispondeva

concentrando sul premier il rapporto fiduciario e inventando, letteralmente, la sfiducia

costruttiva, che, se accolta nella Costituzione, gli avrebbe assicurato il premio Nobel

dell’ingegneria costituzionale. La valorizzazione del vertice di governo (principio del

Cancelliere) e la sfiducia con sostituzione automatica del premier sfiduciato anticipavano di

tre anni due istituti che il costituente tedesco avrebbe introdotto nella Legge Fondamentale del

1949.

Durante quella discussione del settembre ’46 gli “stabilizzatori”, come vengono chiamati da

Giuliano Amato e Fernanda Bruno5, sembrano vincenti: ma già nella elaborazione informale

in comitato ristretto, e perciò non verbalizzata (e poi nella prima sezione della seconda

Commissione riunita dal 19 dicembre 1946 al 16 gennaio 1947) la posizione assembleare dei

comunisti che appariva del tutto minoritaria nell’autunno diventa maggioritaria nell’inverno:

5 La forma di governo italiana. Dalle idee dei partiti all’Assemblea Costituente in Quaderni costituzionali, 1981, pp.33 ss.

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tra sottocommissione e discussione in Assemblea Tosato non riesce neppure a riservare

all’Assemblea nazionale (il futuro Parlamento in seduta comune) la messa in gioco del

rapporto fiduciario (mozione di sfiducia semplice). Non si salva nemmeno la garanzia

contenuta nell’art. 3, u.c., del D.Lgs.Lgt. 16 marzo 1946, n. 98, secondo cui la fiducia al

governo conferita dall’Assemblea costituente a maggioranza semplice poteva venir meno con

l’adozione di una mozione di sfiducia approvata a maggioranza assoluta dai membri

dell’Assemblea. Anzi, nel progetto la situazione si rovescia: è prevista la maggioranza

assoluta per conferire la fiducia mentre basta quella semplice per approvare la mozione di

sfiducia; ma questa stortura sarà eliminata in aula.

Secondo Amato la sconfitta di ogni tentativo di dare seguito all’ordine del giorno Perassi è

dovuta alla pretesa dei partiti di monopolizzare la vita politica, mantenendo deboli o inermi le

istituzioni: questo atteggiamento emerge soprattutto in interventi di esponenti comunisti che

sottolineano la vanità di ogni disciplina giuridica a favore della stabilità governativa. Tuttavia

questa intenzione poteva esser propria dei comunisti e di qualche fautore di un vetero

assemblearismo tipo terza repubblica. Ma tale non poteva essere la finalità perseguita dai

democraticocristiani. Il vero è (come risulta soprattutto dalla testimonianza di Dossetti)6 che

De Gasperi non voleva nessun rafforzamento dell’esecutivo nella incertezza circa l’esito della

prima elezione delle Camere repubblicane, con l’addensarsi delle nubi gravide di guerra

fredda: e per motivi simmetricamente difensivi Togliatti diffidava di ogni presidio che desse

più stabilità e forza a governi in cui non fossero presenti i comunisti. Naturalmente, da questo

vuoto dei dispositivi previsti da Perassi uscì accresciuta la possibilità di intervento dei partiti a

tutti i livelli, diventata progressivamente quella partitocrazia descritta così crudamente da

Amato in una anticipazione autobiografica7. Insomma, la debolezza istituzionale del potere

governativo fu voluta, nello schieramento di maggioranza, dallo stesso De Gasperi, che

dissuase Tosato dall’insistere sulle sue proposte e fu accolta con sollievo dai comunisti.

Invece questa scelta fu sentita dai democristiani come dettata da uno stato di necessità

accettato da De Gasperi, con il rammarico di Dossetti che sognava governi forti, in grado,

come quello laburista del 1945, di fare vere riforme.

Da quel momento la storia costituzionale italiana può essere letta, per ciò che riguarda la

forma di governo, come un vano tentativo di conseguire in altri modi gli stessi effetti di

stabilità e di efficienza governativa promessi nell’ordine del giorno degli stabilizzatori, ridotto

6 A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 64 e 65. 7 Vedi G. Amato Un governo nella transizione. La mia esperienza di Presidente del Consiglio in Quaderni costituzionali, 1994, p. 335 e ss.

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in pratica solo alla scelta di un sistema parlamentare con minimi presidi istituzionali. Come

vedremo, il tentativo di recuperare l’occasione mancata in sede di Costituente assomiglia a

quell’oasi nel deserto che si crede raggiunta ma poi svanisce nel nulla.

Comunque, da allora i partiti ebbero mano libera nella manovra extraparlamentare e in quella

parlamentare; era un parlamento di partiti quello che entrava in azione dopo le elezioni

politiche del 1948; e ciò comportava un rapporto diretto tra l’agire partitico e l’attività delle

istituzioni. Si tenga anche conto del carattere “difficile” della democrazia italiana che non

consentiva per qualche decennio vera alternanza di governo e si constaterà che le tentazioni di

abusare di questa situazione di rendita erano molto forti. Tuttavia la mancata attuazione

dell’ordine del giorno Perassi venne avvertita se non come un peccato originale, almeno come

un difetto mal tollerato dagli uomini politici più responsabili. Si tentò di colmare quella

autentica lacuna seguendo tre strade ma tutte e tre, fino ad oggi, senza esito positivo. La prima

via intrapresa fu quella della riforma elettorale con la legge del 1953 che era eccessiva nel

premio ma non trasformava la maggioranza relativa della coalizione vittoriosa in maggioranza

assoluta, richiedendo che il premio si potesse ottenere soltanto con la metà più uno dei voti

validi. L’insuccesso del tentativo di De Gasperi convinse ancora di più i leaders dei partiti che

la vita e la evoluzione delle istituzioni si risolveva puramente e semplicemente nella azione

partitica, volta ad ampliare la base di consensi su cui si reggeva la legittimazione a governare.

Così si procedette dal centrismo al centro-sinistra e poi da questo alla solidarietà nazionale.

Fallita la via elettorale si intraprese la strada della strutturazione partitica con particolare

riguardo alla Democrazia Cristiana, partito di maggioranza relativa: si trattava di garantire una

preziosa eredità degasperiana, consistente nell’unione dei ruoli di leader del partito e di

Presidente del Consiglio (più prosaicamente si parlerà poi di doppio incarico). Si doveva, in

altre parole, consolidare la fondamentale convention britannica (ma non solo) secondo cui

coincidono nella stessa persona la leadership del partito vincitore e la premiership del governo

del paese. Si trattava di istituzionalizzare una prassi continuata anche quando De Gasperi non

era più segretario del partito. Secondo il linguaggio già usato a proposito della unione di stati

si voleva passare da una unione personale e occasionale delle due cariche ad una unione reale

e dunque istituzionalizzata. Ma il tentativo di Fanfani fallì nel 1959 e non ebbe miglior sorte

quello più tardo di De Mita nel 1988; Moro, che conosceva bene gli “amici” più forti nel suo

partito, non effettuò in questo senso alcun tentativo sebbene comprendesse l’importanza della

regola. Così l’unione personale si realizzò solo su scala minore per Spadolini e per Craxi.

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In una sua recente intervista8 Giuliano Amato ha detto che questa dissociazione tra leadership

di partito e premiership di governo costituiva una intelligente scelta della oligarchia

democristiana per consolidare l’egemonia del partito distribuendo il potere annesso alle due

cariche. Io credo invece che sia stata una scelta miope che ha compromesso la stabilità di

governo, moltiplicato le crisi extraparlamentari e danneggiato in definitiva la stessa

Democrazia Cristiana, dimostratasi incapace, a differenza della CDU tedesca, di esprimere

una guida forte e riconoscibile.

Così si è andati avanti fino ai primi anni ottanta quando si è cominciato ad additare la terza

strada da percorrere per uscire dall’impasse creata dalla decadenza dei partiti cui era stata

commessa, in esclusiva, la vitalità delle istituzioni: si giunge dunque al tentativo più difficile,

quello della revisione costituzionale, che presuppone l’esaurimento della rendita elettorale

anticomunista, così male usata nel periodo precedente; mentre prima ci si poteva permettere il

lusso delle crisi extraparlamentari con la polizza di assicurazione, rappresentata appunto dalla

impossibilità dell’alternanza. Fin qui il bilancio a proposito della forma di governo era stato

positivo per il tempo in cui i partiti e soprattutto la Democrazia Cristiana erano stati, dopo la

prima legislatura, all’altezza di una rilevante attuazione costituzionale, di una rapida

ricostruzione postbellica e di una trasformazione dell’economia italiana, nel quadro di scelte

di politica estera rivelatesi sagge e di lunga tenuta (pur con il costo molto alto di una estrema

proporzionalizzazione di tutte le normative elettorali, salvo le eccezioni dei piccoli comuni);

ma il bilancio diventava negativo mano a mano che i partiti, senza che molti leader se ne

accorgessero, diventavano politicamente inefficaci e moralmente delegittimati. A questa crisi

si tentò di porre rimedio con le Commissioni bicamerali, impegnate nella revisione della

seconda parte della Costituzione per rafforzare l’esecutivo e rendere più “europeo” l’assetto di

vertice del nostro Paese. In questo accidentato cammino il progetto che più si avvicinò allo

spirito dell’ordine del giorno Perassi fu certamente quello della Commissione De Mita-Jotti

(cfr. la relazione Bassanini), che non poté essere discusso dalle Camere per il loro

scioglimento sopravvenuto all’inizio del 1994.

Ora si tenta di rimediare alla troppo lunga durata della transizione con il ricorso a tutte le

strade, prima messe alla prova separatamente: modifiche della legge elettorale,

ristrutturazione dei partiti, revisione costituzionale. Ma è necessario che la revisione (già

perseguita meritoriamente durante la XV legislatura nella Commissione Affari costituzionali e

nella Assemblea della Camera dei deputati) avvenga nello spirito che animò i costituenti della

8 Corriere della Sera, 29 dicembre 2007.

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seconda Sottocommissione e nei limiti confermati dai risultati del referendum del giugno

2006. Torniamo dunque a Perassi, per essere sicuri che le modifiche proposte al testo

costituzionale siano adottate in armonia con i principi del costituzionalismo incorporati nelle

scelte di fondo del costituente di sessanta anni fa. E’ questo il modo migliore per onorare la

Costituzione nel suo sessantennio: realizzare una revisione che è insieme l’adempimento di un

voto lungimirante espresso da alcuni tra i nostri più pensosi costituenti. A questo fine non

confondiamo il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, da considerare molto valido,

con la forma di governo semipresidenziale francese. Quest’ultima è l’eccezione in Europa,

mentre la regola sono le democrazie parlamentari di Gran Bretagna, Germania e Spagna per

limitarci ai paesi maggiori. Anche il Portogallo e i paesi dell’Est, che sembravano orientati in

un primo tempo ad accogliere una struttura del tipo V Repubblica, sono progressivamente

ritornati a formule più equilibrate. Bisogna convincersi che a tutt’oggi la forma di governo

gollista è veramente un unicum basato sulla esperienza straordinaria del Generale Presidente

che riuscì, dopo il referendum favorevole all’elezione diretta del Presidente della Repubblica,

a compiere una torsione costituzionale – o se più piace, incostituzionale – davvero senza

precedenti: malgrado che la Costituzione del 1958 contenga un art. 20 che al primo comma

prescrive: “Le gouvernement détermine et conduit la politique de la Nation”, De Gaulle si

autoafffermò come capo effettivo del governo, con potere di revoca (meglio: richiesta di

dimissioni) del Primo ministro e degli altri ministri. Tuttavia il Generale Presidente temperò il

suo solitario potere ponendo la questione di fiducia al popolo francese, con il ricorso a ripetuti

referendum e dimettendosi dalla carica quando questa fiducia gli mancò nel 1969. Purtroppo

tutti i suoi successori conservarono e utilizzarono a fondo gli immensi poteri lasciati loro in

eredità dal Generale, senza peraltro azzardarsi mai a mettere a rischio la loro carica ponendo

la questione di fiducia agli elettori votanti nelle prove referendarie (basti pensare alle ratifiche

dei Trattati di Maastricht e poi di quello costituzionale europeo). Il sistema francese soffre di

squilibri strutturali profondi, perché accoppia alla stabilità del Presidente statunitense i poteri

del premier inglese che può far ricorso alla questione di fiducia e proporre lo scioglimento

della Camera. Inoltre il Presidente francese è politicamente irresponsabile, mentre

paradossalmente responsabile davanti all’Assemblea Nazionale rimane il Primo ministro che

ha poteri molto minori. Chi afferma di voler insieme la vitalità del Parlamento e il

semipresidenzialismo francese nega l’evidenza: o scambia l’Assemblea di Palazzo Borbone

con il Congresso statunitense. Non è certo un caso che il Comitato Balladur si sia fermato

appena sulla soglia del sistema presidenziale vigente negli Stati Uniti, considerato come

l’unico sistema veramente alternativo a quello parlamentare: e comunque le proposte di

Accademia dei Lincei "La Costituzione ieri e oggi"

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modifiche toccherebbero ben 25 articoli del testo costituzionale che verrebbero assoggettati a

revisione. In realtà il fascino del sistema gollista consiste oggi nel risolvere con l’investitura

popolare il problema di un potere esercitato per un quinquennio senza effettivi controlli: una

prospettiva che potrebbe attrarre qualche imitatore italiano. Restiamo dunque coerenti con i

principi della democrazia a forma di governo parlamentare come praticata in Gran Bretagna,

Germania e Spagna sforzandoci umilmente ma fermamente di raggiungere tra qualche anno i

loro livelli di efficienza e di etica pubblica.

Per ciò che attiene alla via della riforma elettorale è certo meritevole di rammarico

l’abbandono realizzato nel 2005 della legge che aveva incorporato i risultati del referendum

del 1993: in fondo la legge Mattarella tendeva a raggiungere, con metodi e misure meno

criticabili, gli obbiettivi della legge degasperiana del 1953. Inoltre la deliberazione

referendaria aveva contribuito a superare remore e resistenze che altrimenti si sarebbero fatte

vive in sede parlamentare. Ma ora bisogna operare modifiche di una legge di impianto

proporzionale. E dunque gli sforzi per non tornare alla situazione precedente il referendum del

’93 sono sicuramente meritori, ma incontrano anche dei limiti “naturali”. I voti vanno

utilizzati con regole che siano eque e funzionali. Non dimentichiamo che il Tribunale

costituzionale tedesco ha ritenuto illegittima costituzionalmente la legge elettorale di un Land

che aveva legiferato elevando ben oltre il 5% la clausola di sbarramento; e che il Tribunale

costituzionale spagnolo ha ammesso, in relazione a particolari circostanze, la clausola di

sbarramento portata al 6% nelle isole Canarie.

Voglio concludere queste considerazioni (che hanno necessariamente trascurato il ruolo,

peraltro essenziale, delle istituzioni di garanzia) con l’augurio che le carenze di disciplina

stabilizzatrice, simboleggiate dall’ordine del giorno 5 settembre 1946, siano finalmente

colmate con una revisione integrativa che comprenda la sfiducia costruttiva e le proposte della

Commissione Affari costituzionali, attualmente in discussione nella Camera dei deputati.

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TANIA GROPPI

L’evoluzione della forma di Stato in Italia: uno Stato regionale senz’anima?

SOMMARIO: 1. Le ragioni e le fasi del decentramento nell’Italia unita. – 2. Nell’Italia repubblicana: lo Stato regionale secondo la Costituzione del 1948 e la sua inattuazione (1948-1970). – 3. L’istituzione delle regioni ordinarie, tra spinte autonomistiche e nuovo centralismo (1970-1990) – 4. Tra riforme legislative e costituzionali (1990-2001): l’Italia verso il federalismo? – 5. Dopo la riforma costituzionale del 2001: lo Stato centrale come garante del principio unitario e lo svuotamento della potestà legislativa regionale. – 6. Uno Stato regionale alla ricerca di identità e di senso. 1. Le ragioni e le fasi del decentramento nell’Italia unita

Dalla proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861, fino ad oggi, l’evoluzione della forma di Stato (quanto al rapporto tra sovranità e territorio) si è sviluppata secondo un processo “centrifugo”, ovvero attraverso un decentramento di competenze dallo Stato centrale ad enti esponenziali di comunità locali.

Nata come Stato unitario accentrato, attraverso la conquista della penisola, per tappe successive, da parte di uno piccolo regno insediato in una zona di frontiera e fortemente influenzato dalla tradizione giuridica e amministrativa francese, l’Italia è oggi una Repubblica che “riconosce e promuove le autonomie locali” (art.5), è “costituita dai Comuni, dalle Province,dalle Citta metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” (art.114.1 Cost.), nella quale “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni” (art.117.1 Cost.): essa può essere a pieno titolo annoverata tra gli stati decentrati, sia pure non di tipo federale, come la Corte costituzionale ci ha recentemente ricordato1.

Al centro di tale trasformazione si colloca la Costituzione del 1948: il paradigma della “rottura” rispetto all’ordinamento prefascista si attaglia pienamente alla scelta della forma di Stato e si esplica attraverso il riconoscimento costituzionale del principio di autonomia locale e lo scardinamento della unicità della funzione legislativa.

Tale processo non rappresenta un unicum nel panorama comparato. Uno dei caratteri principali nell’evoluzione degli Stati democratici, tanto di antica tradizione che di recente consolidamento, è la ricerca di un sempre più marcato riconoscimento dell’autonomia delle collettività locali. Questa tendenza appare pienamente comprensibile quando si consideri, da un lato, lo stretto nesso che lega l’autonomia delle comunità locali al principio democratico (nel duplice senso della natura strumentale della prima per la realizzazione della seconda e di requisito indispensabile della seconda per la stessa sopravvivenza della prima). Dall’altro lato, la sempre più chiara difficoltà del principio monistico del potere pubblico a sorreggere l’evoluzione in senso pluralistico della forma di Stato. Sotto questo secondo profilo, la fine del monopolio statale del diritto consente l’emergere, accanto allo Stato apparato, di una molteplicità di istituzioni distinte, espressive di variegate realtà sottostanti, tra le quali vengono a collocarsi anche le comunità locali: il pluralismo istituzionale, in

1 Così la sentenza n. 365 del 2007, secondo la quale “è ben noto che il dibattito costituente, che pure introdusse per

la prima volta l’autonomia regionale nel nostro ordinamento dopo lunghi e vivaci confronti, fu assolutamente fermo nell’escludere concezioni che potessero anche solo apparire latamente riconducibili a modelli di tipo federalistico o addirittura di tipo confederale. Questa scelta riguardò la stessa speciale autonomia delle Regioni a regime differenziato, malgrado i particolari contesti sociali, economici e anche internazionali allora esistenti almeno in alcuni territori regionali…Né tra le pur rilevanti modifiche introdotte dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) può essere individuata una innovazione tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali”.

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altri termini, si configura quale una delle manifestazioni, articolata sulla base dell’elemento territoriale, di quel pluralismo sociale che connota lo Stato democratico contemporaneo2.

Tuttavia, in Italia l’opzione in favore di una forma di Stato decentrato non è stata guidata – se si escludono alcune esperienze, in zone periferiche del paese – dall’esigenza di far convivere, in un’unica struttura statuale, comunità caratterizzate da elementi di tipo identitario, in qualche modo riconducibili all’idea di “nazione-etnos”; esigenza che, invece caratterizza la maggior parte dei federalizing process che si mettono in atto in Stati unitari accentrati3. Anzi, si è verificato in qualche misura il fenomeno opposto, per cui, a quasi 150 anni dalla unificazione, l’affermazione propria di uno dei padri del risorgimento italiano, Massimo D’Azeglio (“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”) sembra aver perso la sua attualità: almeno dal punto di vista di D’Azeglio (anche se assai meno da altri!), oggi potremmo dire che “gli italiani sono fatti” e che l’Italia è uno Stato-nazione rispondente al modello ottocentesco (nonostante le prime timide sfide che vengono dai recenti fenomeni migratori).

La scelta in favore del decentramento è legata in Italia soprattutto a due elementi che sono riconducibili alle parole-chiave dell’efficienza e della democrazia (quest’ultima intesa nelle diverse accezioni di responsabilità, partecipazione e separazione dei poteri), che mi sembrano guidare aver guidato le fasi attraverso le quali può essere narrata l’evoluzione della forma di Stato italiana.

Una prima, prodromica e “di fatto”, può essere individuata già in epoca statutaria, nella fioritura della vita locale cui si assiste nell’ultimo scorcio dello Stato liberale di diritto, sotto l’impulso del municipalismo socialista e cattolico, 4 ed è interrotta dall’avvento del regime fascista5.

Le ulteriori tre fasi coprono invece il cinquantennio repubblicano e sono scandite dall’adozione di apposite norme giuridiche: la Costituzione repubblicana, le leggi ordinarie di attuazione relative alle regioni ordinarie, le riforme costituzionali del 1999 e del 2001. Alla descrizione dei caratteri di queste fasi di decentramento, ciascuna delle quali è stata seguita da un periodo di “riflusso”, è dedicata l’esposizione che segue. 2. Nell’Italia repubblicana: lo Stato regionale secondo la Costituzione del 1948 e la sua inattuazione (1948-1970)

Nell’Italia repubblicana, la prima tappa del processo di decentramento coincide con la Costituzione del 1948. L’Assemblea costituente, negli anni 1946-47, fece una scelta in favore dello Stato decentrato, che si concretizza in due tipi di previsioni costituzionali: innanzitutto l’art.5, che inserisce autonomia e decentramento tra i principi fondamentali della Costituzione; inoltre, il titolo V della parte II, che istituisce per la prima volta le regioni, come enti dotati di potestà legislativa e

2 Sulla nozione di autonomia costituzionale delle comunità locali, in un’ottica volta a evidenziare la connessione con il principio pluralistico, v. in particolare G. Rolla, L’autonomia costituzionale delle comunità territoriali. Tendenze e problemi, in T. Groppi (a cura di), Principio di autonomia e forma dello Stato, Torino, Giappichelli, 1998, 15 ss. Con riferimento alla Costituzione italiana, riconduce l’autonomia delle comunità locali nell’ambito del più vasto quadro delle formazioni sociali A. Barbera, Commento all’art. 2, in Commentario della Costituzione, diretto da G.Branca, Bologna-Roma, Zanichelli, 1975, 109 ss. 3 La scelta di assetti organizzativi fondati sul principio di autonomia (indipendentemente dal carattere federale o regionale che vengano ad assumere) appare sempre più, nella nostra epoca, come una soluzione istituzionale attraverso la quale rispondere a spinte centrifughe esistenti nell’ambito di Stati unitari, al fine di valorizzare le identità culturali di gruppi di area vasta. Si tratta, in altri termini, di tendenza a “decentrare per unire”, come testimoniano – ad esempio – la federalizzazione del Belgio e del Sudafrica, la devolution di poteri a Scozia, Galles e Irlanda del Nord in Gran Bretagna, l’ampliamento dell’autonomia della Corsica in Francia, la stessa regionalizzazione spagnola (v. T.Groppi, Il federalismo, Bari, Laterza, 2004, passim). 4 V. M.S.GIANNINI , Il Comune, in ID., a cura di, I Comuni, Neri Pozza, Venezia, 1967, 20; F.PUGLIESE, La normazione comunale, ivi, 201. 5 V. A.AQUARONE, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1965; E. ROTELLI, Le trasformazioni dell'ordinamento comunale e provinciale durante il regime fascista, in Storia contemporanea, 1973 57 ss.

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riconosce l’autonomia dei comuni e delle province. Si tratta non solo di una novità nella storia d’Italia, ma anche di un interessante esperimento a livello di diritto comparato, trovando il suo antecedente soltanto nella breve esperienza della repubblica spagnola del 1931.

Il modello costituzionale di Stato decentrato si fondava su un regionalismo differenziato, obbligatorio, esteso all’intero territorio. La Costituzione prevedeva due tipi di regioni, quelle a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia) e quelle a statuto ordinario, occupandosi direttamente soltanto delle competenze di queste ultime. Per le regioni speciali – il cui trattamento differenziato trovava spiegazione in peculiarità di ordine geografico (insularità) o etnico-linguistico – la definizione delle competenze era affidata ad apposite leggi costituzionali. Per le regioni ordinarie – 15, direttamente individuate dalla Costituzione nell’art. 131, con riferimento a preesistenti suddivisioni previste a fini statistici – le condizioni di autonomia erano definite direttamente dalle norme contenute nel titolo V della parte II della Costituzione. Questa disciplina è stata letta dai commentatori come “deludente” rispetto alla solenne affermazione dell’art.56. Il riparto di competenze era definito nell’art. 117 attraverso una lista alquanto circoscritta di materie affidate alla potestà legislativa regionale. Tale potestà era comunque unicamente di tipo concorrente, nel senso che la legge statale era chiamata a dettare norme di principio, vincolanti per la legislazione regionale. Le funzioni amministrative, sulla base del principio del parallelismo, seguivano quelle legislative, mentre alle regioni erano precluse le funzioni giurisdizionali. Erano previsti controlli preventivi di legittimità e di merito tanto sugli atti legislativi che amministrativi delle regioni. La risoluzione dei conflitti di competenza era affidata al giudice costituzionale. Le regioni erano dotate di autonomia statutaria, ma lo statuto, pur deliberato dall’assemblea regionale, doveva essere approvato poi dal parlamento nazionale. Gli enti locali godevano anch’essi di autonomia costituzionalmente garantita, che doveva esplicarsi nell’ambito dei principi definiti dalle leggi dello Stato, venendosi a creare una sorta di separazione rispetto alle regioni e un rapporto privilegiato con il centro. Infine, assai limitati erano i raccordi degli enti territoriali con lo Stato e le forme di partecipazione delle regioni alle funzioni statali: in particolare, la legislazione ordinaria fin all’inizio non si preoccupò della previsione secondo la quale “il senato è eletto su base regionale” (art.57 cost.), circoscrivendone la portata alla definizione delle circoscrizioni elettorali.

Le ragioni della scelta in favore dello Stato regionale si rintracciano nella volontà, che guidò, in tutti i campi, i costituenti, di creare uno Stato nuovo, non solo rispetto a quello fascista, ma anche a quello liberale prefascista, cui l’ascesa del fascismo era imputata7.

La Costituzione italiana non è una costituzione negoziata tra vincitori e vinti, come accade nelle più recenti transizioni costituzionali, ma una costituzione dei vincitori (e quindi negoziata tra questi), che rompe con il passato e anche le previsioni sugli enti territoriali rispecchiano tale volontà.

Quasi tutti i programmi con i quali i partiti antifascisti si presentarono alle elezioni del 1946 per l’Assemblea costituente facevano riferimento alla necessità di dar vita ad uno Stato decentrato, al fine di avvicinare il potere ai cittadini e di rendere più salde le istituzioni democratiche, e la stessa impostazione emerge in Assemblea costituente. Le obiezioni, che pure continuarono ad essere presenti, specie nei partiti della sinistra, comunista e socialista, riguardano il principio di uguaglianza ed esprimono il timore che una frammentazione del potere in molteplici centri decisionali renda impossibili le riforme economico-sociali ritenute necessarie per porre rimedio alle disuguaglianze economiche, anche di tipo territoriale: esse, come è noto, vennero abbandonate nella fase finale dei lavori della Costituente, come scelta tattica, a fronte di una situazione politica che

6 Segnalano la discrasia già i primi commentatori dell’art. 5: C.ESPOSITO, Autonomia locale e decentramento amministrativo nell'art.5 della Costituzione, ora in La Costituzione italiana, Padova, 1954, 67 ss. A livello bibliografico, sulle posizioni assunte dai primi commentatori in tema di autonomie locali, si veda E.ROTELLI, a cura di, Dal regionalismo alla Regione, Milano, 1973, 343 ss. 7 V. E. ROTELLI, L’avvento della regione in Italia. Dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana (1943-1947), prefazione di F. Benvenuti, Milano, Giuffrè,1967.

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faceva prevedere una sconfitta elettorale della sinistra nelle prime, e ormai prossime, elezioni legislative (ciò che effettivamente avvenne il 18 aprile del 1948). Se vogliamo sintetizzare le ragioni della scelta in favore dello Stato regionale, ci pare di poter dire che si trattò, allora, soprattutto di una scelta “per la democrazia”, nel doppio senso della partecipazione e della separazione dei poteri di madisoniana memoria8.

La fase di riflusso è pesante: nel clima della guerra fredda, come in molti campi della vita costituzionale, anche riguardo alle autonomie territoriali prevalse la continuità con il passato9. Qualsiasi istituto che potesse contribuire a limitare il potere politico del centro era guardato con sospetto (come accadde per la corte costituzionale, il consiglio superiore della magistratura o il referendum) e ciò vale ancor più per le istituzioni locali, tenuto conto che in vaste aree del paese erano prevalenti forze politiche chiaramente ostili all’alleanza occidentale e vicine al blocco sovietico (si tratta soprattutto della questione del radicamento del Partito comunista nell’Italia centrale). Riguardo alle regioni, se si escludono quelle speciali, che godevano di regimi di “preautonomia” (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta) e delle quali già l’Assemblea costituente approvò statuti speciali che prevedevano ampie competenze legislative e una accentuata autonomia finanziaria (ad esse si affiancherà in un momento successivo la regione Friuli-Venezia Giulia, prevista dalla Costituzione ma istituita nel 1963), le altre per decenni rimasero sulla carta. Peraltro, l’unica legge di attuazione della Costituzione adottata in tale periodo, la legge n. 62 del 1953 (“Costituzione e funzionamento degli organi regionali”), mostra la tendenza a leggere la regione quale grande “ente locale”, circoscrivendone l’autonomia entro la sfera amministrativa. Per parte loro, gli enti locali continuarono a funzionare, se si esclude il ripristino della elettività degli organi, in un quadro normativo rimasto pressoché immutato rispetto a quello dello Stato liberale e fascista (e questo stato di cose si protrarrà addirittura fino al 1990). L’inattuazione del dettato costituzionale nel periodo 1948-1970 ha conseguenze rilevanti che si proiettano fino ai nostri giorni. Si determina infatti il radicamento di un assetto istituzionale e di un sistema politico-partitico di stampo accentrato che si rivelerà assai arduo da smantellare anche quando il mutato clima internazionale consentirà infine l’attuazione del disegno regionale. 3. L’istituzione delle regioni ordinarie, tra spinte autonomistiche e nuovo centralismo (1970-1990)

La seconda tappa si mette in moto alla fine degli anni sessanta (legge n. 108 del 1968 per l’elezione dei consigli regionali) e ha il suo nucleo centrale nella istituzione delle 15 regioni ancora mancanti, resa possibile dall’approvazione di una serie di leggi statali (già previste, a suo tempo, dalla VIII e IX delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione) per il trasferimento delle funzioni amministrative e delle risorse finanziarie e umane necessarie per il funzionamento. Le ragioni che consentono, sul piano politico, la creazione delle regioni è la attenuazione dei profili interni della guerra fredda, e quindi la progressiva incorporazione entro il sistema del partito socialista e comunista (partiti destinati a governare alcune delle nuove regioni, in virtù della loro predominanza in tutta la parte centrale del paese)10. La spinta diretta è però l’esigenza di riforma amministrativa: lo slogan che guida questa fase, che dura per tutti gli anni Settanta, è “le regioni per la riforma dello Stato”11: il trasferimento di funzioni alle regioni e agli enti locali avrebbe dovuto essere la via per una riforma, in termini di efficienza, dell’amministrazione pubblica. Inoltre, le

8 V. Federalist, n. 73: la divisione dei poteri tra due diversi sistemi costituzionali, nella repubblica federale, rappresenta, secondo Madison, una “doppia garanzia di libertà”. 9 V. P.CALAMANDREI , La Costituzione e le leggi per attuarla, in AA.VV., Dieci anni dopo (1945-1955), Bari, 1955, 227 ss. 10

L.PALADIN , Diritto regionale, Padova, Cedam, 1992. 11 AA.VV., Le regioni per la riforma dello Stato, Il Mulino, Bologna, 1976. Su questa fase v. anche A.BARBERA, F.BASSANINI, a cura di, I nuovi poteri delle regioni e degli enti locali: commentario al decreto n.616 di attuazione della legge 382, Il Mulino, Bologna, 1979.

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esigenze di partecipazione che, a seguito dei movimenti culturali della fine degli anni sessanta erano forti anche in Italia, avrebbero potuto trovare uno sbocco nel livello regionale e nella rinnovata valorizzazione degli enti locali.

Molto ci sarebbe da dire sulla fase di istituzione delle regioni, sulla redazione degli statuti da parte dei consigli regionali neoeletti, sull’avvio dell’esercizio della potestà legislativa regionale, sui rapporti che si instaurano tra i nuovi enti territoriali e quelli già esistenti, i comuni e le province. Tuttavia, ci pare che la fase dell’attuazione della Costituzione si intrecci strettamente con quella che possiamo qualificare, ancora una volta, come “fase di riflusso”.

In effetti, l’azione congiunta del legislatore statale e della giurisprudenza costituzionale ha contribuito a dar vita a uno Stato regionale caratterizzato da una autonomia legislativa regionale alquanto circoscritta, mentre si affermava la tendenza delle regioni a caratterizzarsi prevalentemente come enti di amministrazione. L’attuazione della Costituzione, negli anni Settanta e Ottanta, ha mostrato l’impossibilità di realizzare il modello “euclideo” di ripartizione delle competenze previsto dai costituenti. La debolezza delle regioni e la mancanza di meccanismi di partecipazione alle funzioni statali hanno però impedito la nascita di un compiuto modello cooperativo, dando luogo invece a un sistema a netta prevalenza dello Stato centrale.

Vari sono stati gli strumenti utilizzati12: la definizione delle materie è avvenuta sulla base delle funzioni amministrative trasferite alle regioni, secondo un “parallelismo all’inverso” che ne ha comportato la sostanziale decostituzionalizzazione; l’interesse nazionale, previsto nella costituzione come limite esterno alle competenze regionali, è stato utilizzato come titolo giustificativo di interventi statali di dettaglio nelle materie regionali, che hanno portato alla espropriazione di interi settori di competenza; il sistema leggi statali di principio-leggi regionali di dettaglio è stato superato nella prassi, riconoscendo la possibilità di rintracciare i principi fondamentali anche nel complesso delle leggi statali già in vigore e consentendo al legislatore statale di dettare una disciplina di dettaglio cedevole nelle materie regionali. Il sistema preventivo di impugnativa delle leggi regionali da parte dello Stato, sommandosi con i ritardi accumulati dalla Corte costituzionale, ha paralizzato per anni le leggi regionali oggetto di ricorso governativo, dando luogo ad una anomala contrattazione legislativa previa, finalizzata, da parte delle regioni, a evitare ricorsi che si sarebbero tradotti in un “congelamento” dell’attività legislativa, nelle more della decisione della Corte. La finanza regionale si è configurata come essenzialmente derivata, potendo disporre le regioni di limitate risorse proprie. A fini di riequilibrio, anche sotto l’impulso della giurisprudenza costituzionale13, si sono sviluppati meccanismi di collaborazione tra lo Stato e le regioni, culminati nella creazione di un organo misto, la Conferenza Stato-regioni, che riunisce i rappresentanti del governo centrale e di quelli regionali. Tuttavia, l’assenza di previsioni costituzionali al riguardo ha impedito alla Conferenza, e in generale al principio di leale collaborazione, di estendere i propri effetti alla funzione legislativa.

In definitiva, la fase di riflusso che segue alla istituzione delle regioni ordinarie rivela due principali aspetti. Da un lato, il fallimento della riforma amministrativa: non soltanto le regioni non sono un veicolo per la riforma dello stato, ma contribuiscono a creare un terzo livello di burocrazia, che si sovrappone ai due (statale e locale) già esistenti. Dall’altro, il fallimento del regionalismo politico: le regioni non si dimostrano in grado di perseguire proprie politiche, anche per una serie di cause: a) le limitate competenze legislative loro riconosciute dalla costituzione; b) l’invadenza dello stato centrale, che pretende di intervenire in ogni campo in nome dell’interesse nazionale; c) la giurisprudenza costituzionale che giustifica la legislazione statale appoggiandosi proprio sulla clausola costituzionale dell’interesse nazionale. Nel complesso, in tutta questa decisiva fase, è il

12 E.CHELI, Lo “Stato regionale” nella giurispridenza costituzionale, in ID., Il giudice delle leggi. La corte costituzionale nella dinamica dei poteri, Bologna, Il Mulino, 1996, 83 ss. 13 Su questa giurisprudenza v. ad es. S.BARTOLE, La Corte costituzionale e la ricerca di un contemperamento tra supremazia e collaborazione nei rapporti tra Stato e regioni, in Le regioni, 1988, 563 ss.; P. CARROZZA, Principio di collabroazione e sistema delle garanzie procedurali (la via italiana al regionalismo cooperativo), in Le regioni, 1989, 116 ss.

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sistema politico che non riesce a riarticolarsi su base regionale e dà una lettura del regionalismo strumentale alle esigenze tattiche del momento, secondo una prassi che affonda le sue radici già nell’epoca costituente. 4. Tra riforme legislative e costituzionali: l’Italia verso il federalismo?

La terza tappa del decentramento copre tutti gli anni Novanta: potremmo idealmente farla iniziare nel 1990, con l’approvazione della nuova legislazione statale sui comuni e le province (la prima di epoca repubblicana) e terminare con la riforma costituzionale del 2001 (la più ampia e profonda che abbia investito la costituzione italiana).

La spinta viene soprattutto dall’efficienza: la necessità di fornirsi di apparati istituzionali che consentano all’Italia di acquistare competitività nel contesto internazionale ed europeo14. In questa prospettiva sono trasferite a regioni ed enti locali, con leggi, molteplici funzioni amministrative in precedenza svolte dallo Stato centrale (secondo il principio di sussidiarietà, di derivazione comunitaria) e viene modificata la forma di governo locale, con l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle province. L’elemento democratico è inteso soprattutto nel senso della “responsabilità” (e quindi funzionale rispetto all’efficienza), collegandosi all’elezione diretta dei vertici degli esecutivi, mentre perde rilievo l’aspetto della partecipazione (con una progressiva emarginazione delle assemblee regionali e locali e della democrazia diretta).

In questa fase, peraltro, per la prima volta nella storia italiana, sembra emergere anche una diversa spinta alla riforma: quella della richiesta di autogoverno da parte di comunità locali, testimoniata dal successo elettorale, nel corso degli anni Novanta, della Lega Nord, una formazione, radicata nel Nord-est del paese, che faceva del federalismo e della secessione le sue parole d’ordine. Non è stato possibile misurare la “spinta federalista” effettivamente presente nella società attraverso modalità diverse da quelle delle elezioni politiche, ad esempio per mezzo di referendum, benché a un certo punto tale via sia stata tentata: la Corte costituzionale ha infatti bloccato i tentativi portati avanti negli anni dalle “regioni del nord” (Lombardia e Veneto) di sottoporre a referendum regionale consultivo disegni di legge costituzionale di iniziativa regionale volti a modificare in senso federalista la Carta costituzionale15. La questione regionale è stata comunque sottoposta all’attenzione dell’opinione pubblica ed è entrata stabilmente a far parte dei programmi politici dei partiti e dei governi. L’elemento di “pluralismo” territoriale che chiede una risposta giuridico-istituzionale è quindi l’irrisolto dualismo economico italiano, nord-sud. A questa spinta possono imputarsi alcuni degli aspetti qualificanti la riforma costituzionale del 2001, di matrice più tipicamente federale, in primis la valorizzazione della potestà legislativa regionale.

Molte importanti riforme sono state realizzate attraverso la legislazione ordinaria, come il trasferimento di nuove funzioni amministrative, la riduzione dei controlli sugli atti amministrativi, la individuazione di un ruolo comunitario delle regioni, la riforma dell’ordinamento locale, l’introduzione di un nuovo sistema elettorale per i consigli regionali, la eliminazione di tutti i finanziamenti vincolati e la loro trasformazione in compartecipazioni ai tributi erariali.

Soltanto alla fine degli anni Novanta si è posto mano alla riforma costituzionale, non senza difficoltà ed in mezzo ad uno scontro politico che ha assunto toni sempre più aspri, al punto che, nel 2001, la riforma più importante è stata approvata dalla sola maggioranza di governo (di centro-sinistra), con il voto contrario dell’opposizione di centro-destra, ivi comprese le sue componenti più esplicitamente autonomiste (la Lega Nord), benché i suoi contenuti fossero il prodotto di una negoziazione portata avanti per anni, fin dalla Commissione parlamentare per le riforme istituzionali istituita con la legge cost. n.1 del 1997 (la c.d. “Commissione D’Alema).

14 Una sintesi di questa fase è in F. PIZZETTI, a cura di, Federalismo, regionalismo e riforma dello stato, Giappichelli, Torino, 1998. 15 Si vedano le sentenze 470/1992, 496/2000.

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La revisione del Titolo V della Parte II è avvenuta in due tappe, con la legge cost.n. 1 del 1999 e n. 3 del 200116.

Nella prima tappa si è riconosciuto alle regioni piena autonomia statutaria, anche per quanto attiene la forma di governo, attraverso la sottrazione degli statuti all’approvazione parlamentare. In via transitoria, e in assenza di contraria decisione regionale, è stata introdotta l’elezione diretta del presidente della regione.

Nella seconda tappa sono state oggetto di modifica tutte le rimanenti norme, a partire dal riparto delle competenze legislative, anche se è stata tenuta ferma l’impostazione garantistica fondata sulla elencazione delle materie. Il criterio risulta ribaltato rispetto al passato: è stato introdotto un elenco di materie di competenza esclusiva dello stato mentre sono state affidate alle regioni le competenze residue. È scomparso altresì qualsiasi riferimento all’interesse nazionale, che si era rivelato il principale veicolo di flessibilizzazione del riparto delle competenze. L’elenco di materie statali, peraltro, è molto ampio, comprendendo il diritto penale, il diritto civile, la tutela dell’ambiente, la tutela della concorrenza, la garanzia dei livelli essenziali dei diritti civili e sociali. Tra le materie di competenza residuale delle regioni, nondimeno, possono essere annoverate agricoltura, industria, commercio, turismo, urbanistica, assistenza sociale…Esiste poi un elenco di materie di competenza concorrente, nelle quali lo Stato detta i principi e le regioni la disciplina di dettaglio. Il controllo preventivo sulle leggi regionali è scomparso, e contro esse è possibile solo ricorso successivo alla Corte costituzionale. Le funzioni amministrative, sulla base del principio di sussidiarietà, sono attribuite in primo luogo ai comuni, che continuano ad avere un ruolo importante nello stato decentrato italiano. L’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali risulta potenziata, ma dipende completamente dalla concreta attuazione legislativa. Continuano invece a mancare i raccordi tra lo Stato e le regioni, essendo naufragata ogni previsione di riforma della seconda camera e non essendo stata costituzionalizzata la conferenza Stato-regioni, che peraltro mostra di giocare un ruolo crescente nel concreto sviluppo del processo di federalizzazione italiano. Volendo dare un giudizio, sulla carta, della riforma del 2001, si potrebbe dire che le regioni hanno acquisito maggiori competenze (soprattutto legislative) e una forte presenza istituzionale, anche in conseguenza delle elezione diretta dei presidenti. Restano comunque presenti alcuni tratti caratteristici del modello italiano, e in primo luogo l’importante posizione costituzionale degli enti locali (valorizzata soprattutto dagli artt.114 e 118 Cost.), che contribuisce a dar vita, piuttosto che al sistema a due livelli caratteristico degli stati federali classici, a un sistema policentrico fondato, quanto alla distribuzione delle funzioni amministrative, sul principio di sussidiarietà. 5. Dopo la riforma costituzionale del 2001: lo Stato centrale come garante del principio unitario e lo svuotamento della potestà legislativa regionale

L’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001 (che fu sottoposta, per la prima volta nella storia repubblicana, a un referendum costituzionale ai sensi dell’art.138 Cost.)17 è stata seguita da una ulteriore fase di riflusso. Sei anni dopo, la costituzione vivente, che risulta, oltre che dalle norme costituzionali scritte, anche dalla legislazione, statale e regionale, e dalla giurisprudenza costituzionale, è profondamente diversa dal testo del 200118.

La potestà legislativa non è ripartita sulla base degli elenchi dell’art.117; le funzioni amministrative non sono state conferite secondo il principio dell’art.118; le risorse finanziarie non

16 T. GROPPI, M. OLIVETTI , a cura di, La repubblica delle autonomie, Giappichelli, Torino, 2003; S.BARTOLE, R.BIN, G.FALCON, R.TOSI, Diritto regionale, Il Mulino, Bologna, 2005. 17 Nel referendum costituzionale del 7 ottobre 2001 ha partecipato al voto il 34,1% degli aventi diritto, ed il sì si è affermato con il 64,2% dei voti. 18 Così ad es. F.MERLONI, Il paradosso italiano: “federalismo” ostentato e centralismo rafforzato, in Le regioni, 2005, 469 ss.; S.MANGIAMELI , I processi di riforma in itinere. Considerazioni sul riflusso della riforma federale in Italia, in www.forumcostituzionale.it, 5 ottobre 2006.

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sono distribuite sulla base dell’art.119; lo statuto non può scegliere la forma di governo, a differenza di quanto stabilito dall’art.123.

Ha prevalso la continuità con l’assetto del regionalismo italiano precedente la riforma del 2001: in particolare è stata riaffermata una concezione del principio unitario incentrata sul ruolo di garanzia dello Stato, che gli rende lecito intervenire in ogni materia, indipendentemente dagli elenchi dell’art.11719.

In parte ciò può trovare una spiegazione in termini politici: l’attuazione della riforma del 2001, approvata allo scadere della XIII legislatura, è stata gestita, nella XIV, da una maggioranza politica diversa da quella che l’aveva sostenuta e che ha portato avanti un suo progetto di riforma, noto con il nome, di sicura presa mediatica ma privo di qualsiasi collegamento con il suo contenuto, di “devolution”20, che, dopo essere stato approvato dalle Camere a maggioranza assoluta nel 2005 è stato bocciato nel referendum popolare del 25 e 26 giugno 200621. Tuttavia le modalità attraverso le quali è avvenuto lo svuotamento delle novità principali del testo del 2001 non sono nuove. Esse ricordano molto quelle che erano state poste in essere già negli anni Settanta e Ottanta, nei confronti del dettato originario della Costituzione, la cui portata autonomistica era stata notevolmente ridotta in fase di attuazione: si tratta infatti, ancora una volta, dell’azione congiunta del legislatore statale e della Corte costituzionale.

Il legislatore statale ha agito attraverso tre principali modalità: a) continuando a legiferare a tutto tondo, quasi che la riforma non esistesse, nonostante la introduzione di una apposita sede procedimentale – la commissione affari costituzionali di ogni Camera – nella quale deve essere espresso un parere sulla riconducibilità dei disegni di legge statale alle materie di competenza dello Stato22; b) attraverso l’approvazione di una legge generale di attuazione delle riforma costituzionale (c.d. “legge La Loggia”, dal nome dell’allora ministro degli affari regionali, legge n. 131 del 2003) che, oltre ad apparire di dubbio fondamento costituzionale, ha contribuito ad una lettura riduttiva della riforma (specie riguardo alla potestà legislativa concorrente)23; c) omettendo di approvare norme necessarie per l’attuazione della riforma, soprattutto in tema di autonomia finanziaria e di riordino delle funzioni amministrative in coerenza con il principio di sussidiarietà. A ciò si aggiungano le impugnative, da parte del governo, delle leggi regionali ritenute esorbitare dalle competenze delle regioni, che sono state in numero assai superiore al passato24.

Per parte sua, la Corte costituzionale, come ha detto nella conferenza stampa annuale per il 2003 il suo presidente, “è stata chiamata a una funzione di supplenza non richiesta e non gradita”,

19 Per una possibile, diversa configurazione del principio unitario, costruito dal basso, nel rapporto tra istituzioni e società, v. V.ANTONELLI, Amministrazione pubblica e unità della Repubblica, in A.PIOGGIA, L.VANDELLI , a cura di, La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2007, 49 ss. e autori ivi richiamati. 20 L. VANDELLI , Devolution e altre storie, Il Mulino, Bologna, 2002. 21 Il referendum, che ha visto partecipare al voto il 52,3% degli aventi diritto, ha determinato l’affermazione del no, con il 61,3%. Per una sintesi sui caratteri della riforma bocciata nel referendum, relativamente alle autonomie territoriali, si rinvia a T. Groppi, La devolution e il nuovo Titolo V, in T.GROPPI, P.PETRILLO, a cura di, Cittadini, governo, autonomie. Quali riforme per la Costituzione, Milano, Giuffré, 2005, 43 ss. 22 Su tale giurisprudenza, v. C.DI ANDREA, L'attuazione del nuovo titolo V in Parlamento. La verifica della "competenza legislativa" nel procedimento di approvazione delle leggi statali, in Le regioni, 2002, 249 ss. In linea generale, ci pare di poter dire che, in parlamento, un titolo competenziale “non si nega a nessuno”. Basti pensare alla adozione di una legge statale sull’agriturismo, legge 20 febbraio 2006, n.96: quando sia agricoltura che turismo sono materie di competenza residuale delle regioni, legge che è stata in molte sue parti dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 339 del 2007. La Corte ha peraltro ribadito, in tale occasione, che “la legge impugnata prescrive una disciplina generale per l’attività agrituristica, attività che, seppure in via immediata, rientra nelle materie agricoltura e turismo, di competenza residuale delle regioni, interferisce tuttavia con altre materie, attribuite alla competenza, o esclusiva o concorrente, dello Stato”. 23 V. ad es. P.CAVALERI , E.LAMARQUE, a cura di, L’attuazione del nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione, Giappichelli, Torino, 2004. In parte ha posto rimedio a tale impostazione la Corte costituzionale, con la sentenza 280/2004. 24 Sul contenzioso di fronte alla Corte costituzionale v. A.PIOGGIA, L.VANDELLI , a cura di, La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, cit.

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trovandosi ad affrontare un numero senza precedenti di ricorsi in via principale25. Volendo tentare di sintetizzare i principali strumenti utilizzati dalla Corte per giustificare gli interventi statali, riconducendoli alla tutela del principio unitario, essi potrebbero essere schematizzati come segue26.

a) In primo luogo, il principio di sussidiarietà verticale, cui la Corte costituzionale ha fatto ricorso per introdurre un meccanismo, assente nel testo costituzionale, finalizzato a rendere flessibile il riparto delle competenze legislative, secondo un modello non dissimile dalla konkurrierende Gesetzgebung dell’art. 72 del Grundgestez. La Corte, con una decisione che, a detta di molti commentatori, ha “riscritto il titolo V”, ha affermato che, qualora in nome del principio di sussidiarietà (espressamente codificato nell’art.118 Cost. riguardo alle funzioni amministrative) lo Stato conservi alcune funzioni amministrative, perché ritenute di interesse unitario, ciò avrà anche conseguenze sulla competenza legislativa, che resterà statale (sentenza 303/2003)27.

b) Un aspetto altamente problematico è rimasto quello della definizione delle materie28. Qui, nonostante il ribaltamento della enumerazione delle competenze, la Corte si è attestata su posizioni particolarmente penalizzanti per l’autonomia regionale, sotto vari punti di vista.

Innanzitutto, ha circoscritto le competenze regionali residuali dell’art.117, comma 4, riportandole a ambiti “interstiziali”. Essa ha affermato “l'impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all'ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni ai sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell'art. 117 della Costituzione” (sentenza 370/2003) 29.

25 Nel 2003, l’anno nel quale la Corte ha affrontato appieno le nuove questioni, ben il 15% delle decisioni è stato emesso nel giudizio in via principale (contro il 2% del 2002) e delle 136 sentenze il 36% risolve questioni sollevate nel giudizio principale (a fronte del 40% di sentenze pronunciate nel giudizio incidentale). Nel 2004, quasi il 22% delle decisioni è emesso nel giudizio principale, mentre delle 167 sentenze, il 37,72% risolve questioni incidentali (63 in totale) e ben il 48,5% (81 in valore assoluto) ricorsi promossi in via principale. Per la prima volta nella cinquantennale storia della Corte costituzionale italiana, il numero delle sentenze rese nel giudizio principale supera quello delle sentenze emesse nel giudizio incidentale. Dati analoghi si riscontrano anche nel 2005: nel giudizio principale è stato emesso il 20,95% delle decisioni, mentre ben 85 sentenze sono state rese in tale tipo di giudizio (42,93%), a fronte delle 80 del giudizio incidentale (40,40%). La tendenza continua (e si rafforza) anche nel 2006: il 24,41% delle decisioni è emesso nel giudizio principale, al quale vanno ascritte 82 sentenze, pari al 43,85% (contro le 70 del giudizio incidentale, pari al 37,43%). 26 V. amplius T. GROPPI, Giustizia costituzionale e Stati decentrati: la Corte italiana dopo la revisione del 2001, in Amministrare, 2005, 5 ss. e in Revista d’Estudis Autonómics i Federals, 2005, 9 ss.; una lettura problematica di questa giurisprudenza è data anche da A.RUGGERI, Riforma del Titolo V ed esperienze di normazione, attraverso il prisma della giurisprudenza costituzionale: profili processuali e sostanziali, tra continuo e discontinuo, in www.federalismi.it, 6 ottobre 2005 e da S.MANGIAMELI , cit., che parla di “disarticolazione” del riparto di competenze. 27 La possibilità, per lo Stato, di disciplinare, in nome delle esigenze unitarie, aspetti di dettaglio delle materie di competenza concorrente (o di intervenire nelle materie di competenza residuale: sentenza 6/2004) è tuttavia temperata già nella sentenza 303/2003 dall’affermazione che “i principî di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante all'assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata”. 28 V. al riguardo F. BENELLI, La “smaterializzazione” delle materie, Milano, Giuffré, 2006. 29 Ad esempio, i lavori pubblici, di cui pure l’art. 117 non parla, costituiscono “ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell'oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti” (sentenza 303/2003). Materie innominate, come l’edilizia e l’urbanistica, sono a loro volta ricondotte dalla Corte entro la competenza concorrente del “governo del territorio” (sentenza 362/2003); l’edilizia residenziale pubblica è ricostruita addirittura su tre livelli. Il primo riguarda la determinazione dell’offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti. In tale determinazione – che, qualora esercitata, rientra nella competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. – si inserisce la fissazione di principi che valgano a garantire l’uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale, secondo quanto prescritto dalla sentenza n. 486 del 1995. Il secondo livello normativo riguarda la programmazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica, che ricade nella materia «governo del territorio», ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost., come precisato di recente dalla Corte con la sentenza n. 451 del 2006. Il terzo livello normativo, rientrante nel quarto comma dell’art.

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Inoltre, la Corte ha continuato a utilizzare, al fine di ricondurre un determinato oggetto entro una materia, il criterio legislativo-evolutivo. Con la conseguenza che un cambiamento nella legislazione ordinaria di settore può comportare lo spostamento della collocazione di un oggetto nel riparto materiale delle competenze legislative dell’art. 117 Cost. 30 Gli atti statali di trasferimento delle funzioni amministrative, benché precedenti alla riforma costituzionale del 2001, hanno continuato a mantenere la medesima valenza interpretativa del passato ai fini della definizione delle materie31. In sostanza, questa impostazione comporta un permanere della decostituzionalizzazione del riparto delle competenze, in favore di una definizione offerta, in via unilaterale, dal legislatore statale.

In terzo luogo, molte delle materie di competenza statale dell’art. 117, comma 2, sono state lette dalla Corte non come materie, ma come “clausole trasversali”, che legittimano un intervento della potestà legislativa statale, anche con norme di dettaglio, e finanche della potestà regolamentare del governo (sentenza 401/2007), capace di intersecare tutte le materie di competenza regionale, con il solo limite della proporzionalità e dell’adeguatezza rispetto all’obbiettivo perseguito32.

Infine, in caso di interferenze tra norme rientranti in materie di competenza esclusiva, spettanti alcune allo Stato ed altre alle Regioni, (ipotesi che la Corte, a partire dalla sentenza 50/2005, definisce “concorrenza di competenze” e non “competenza ripartita o concorrente”)33, la Corte ritiene di poter far ricorso, “qualora appaia evidente l’appartenenza del nucleo essenziale di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad altre”, al non meglio specificato “criterio della prevalenza”, che ha giocato, nei casi in cui è venuto in rilievo, in favore della competenza statale34.

c) Altro aspetto controverso è quello della definizione dei principi fondamentali. Anche qui, in molte occasioni, si è assistito a uno svuotamento delle competenze regionali, attraverso decisioni che hanno, a vario titolo, ritenuti legittimi interventi statali che esauriscono l’intera disciplina della materia. Basti pensare al caso in cui la Corte individua nella legislazione statale un principio fondamentale che impone la riserva allo Stato della disciplina di una parte della materia35. In altri

117 Cost., riguarda la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale (sentenza 94/2007). Lo stesso si può dire dello “sviluppo economico”, che, secondo la Corte, “costituisce una espressione di sintesi, meramente descrittiva, che comprende e rinvia ad una pluralità di materie” (sentenze 430/ 2007 e 165/ 2007). 30 Così, ad esempio, a seguito della evoluzione legislativa, la disciplina degli asili nido viene ricondotta entro la materia dell’istruzione e, per alcuni profili, entro quella della “tutela del lavoro” (sentenza 370/2003); la disciplina delle fondazioni di origine bancaria è ritenuta estranea, a seguito degli sviluppi legislativi, alla materia concorrente “casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale”, per essere ricondotta invece a quella, statale, dell’ordinamento civile (sentenza 300/2003). 31 Vedi sentenze 9 e 26/2004, sui beni culturali, oppure 287/2004, sui servizi sociali. 32 In particolare, si è fatto ricorso a tale tecnica interpretativa per le materie statali più strettamente legate ai diritti fondamentali: la tutela dell’ambiente (sentenze 407/2002 e 536/2002), l’ordinamento civile (sentenza 359/2003), i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti in ogni parte del territorio nazionale (sentenze 282/2002 e 88/2003). Le esigenze unitarie sottese a tali competenze statali sono a più riprese esplicitate dalla Corte. Come clausola trasversale è stata letta anche la tutela della concorrenza (sentenze 430 e 401/2007 e sentenza 14/2004). 33 Di “concorrenza di competenze” si inizia a parlare a partire dalla sentenza 50/2005 (v. anche sentenze 51 e 62/2005). La Corte afferma espressamente che “per le ipotesi in cui ricorra una “concorrenza di competenze”, la Costituzione non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze. In tal caso – ove, come nella specie, non possa ravvisarsi la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri, che renda dominante la relativa competenza legislativa – si deve ricorrere al canone della “leale collaborazione”, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze” (così sentenza 219/2005). 34 Oltre alla sentenza 50/2005, si può richiamare la sentenza 234/2005: entrambe fanno “prevalere” la competenza statale in materia di “ordinamento civile” su competenze regionali residuali. Nella sentenza 430/2007 si fa ritenere prevalente la competenza concorrente sulla tutela della salute rispetto a quella residuale in materia di commercio quanto alla attività economica di rivendita dei farmaci. 35 Ad esempio, essa ha qualificato come principio fondamentale quello “secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti didattici, debba essere riservata allo Stato” (sentenza 353/2003).

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casi, essa ha definito come principio fondamentale l’intera disciplina statale di una materia, in quanto essa realizza un corretto equilibrio tra valori costituzionali36. Tale avocazione di competenza allo Stato, attraverso la qualificazione come principi fondamentali di disposizioni statali che espropriano del tutto la regione della materia, in alcuni casi è stata ricondotta alla esigenza di garantire l’uguaglianza dei diritti. Ciò è evidente laddove la Corte definisce principi fondamentali previsioni contenute in una legge statale che debbono essere “necessariamente uniformi” su tutto il territorio nazionale37.

d) Il ruolo centrale del principio unitario emerge anche nella interpretazione che la Corte ha dato dei poteri statali repressivi e sostitutivi previsti dagli art. 127 e 120, comma 2, Cost. Circa l’art.127, la Corte ha affermato che lo Stato può impugnare le leggi regionali per qualsiasi tipo di vizio proprio perché “allo Stato è pur sempre riservata, nell'ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all'art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un'istanza unitaria” (sentenza 274/2003). Quanto all’art 120, comma 2, e al potere sostitutivo là previsto, la Corte ne ha sottolineato il carattere di rimedio straordinario, a garanzia del principio unitario38. L’intervento del governo finalizzato a garantire gli interessi essenziali indicati nel medesimo comma prescinde dal riparto delle competenze amministrative, come attuato dalle leggi statali e regionali nelle diverse materie (e, dovremo aggiungere, da quello delle competenze legislative, in quanto, benché le clausole dell’art.120, comma 2, siano riconducibili alle riserve statali dell’art.117, comma 2, esse non si riferiscono a “materie”, ma a quelle che la stessa Corte ha definito “competenze idonee ad investire tutte le materie”: sentenza 282/2002).

Il giudizio che si dà di questa giurisprudenza è controverso: mi pare di poter dire che è dalla maggior parte dei commentatori salutata con favore, come un gravoso compito cui la giurisprudenza costituzionale non si è sottratta allo scopo di ricondurre a coerenza un testo che ne era privo, pur riconoscendo l’anomalia insita nel fatto che un organo giurisdizionale abbia “riscritto la costituzione”39. In tal modo, si sarebbe da un lato sopperito all’assenza nel nuovo titolo V di

36 In tal modo, la legislazione statale in materia di vivisezione ha acquisito “in blocco” lo status del principio fondamentale, poiché esprime “il punto di equilibrio della sperimentazione”, bilanciando il rispetto verso gli animali con l’interesse collettivo alla sperimentazione (sentenza 166/2004). 37 La sentenza 361/2003, sul c.d. “fumo passivo”, afferma la natura di principi fondamentali delle disposizioni statali che prevedono varie fattispecie di illecito amministrativo al fine della tutela della salute. Il carattere di principi fondamentali, necessariamente uniformi, si ricava dalla “loro finalità di protezione di un bene, quale la salute della persona, ugualmente pregiudicato dall'esposizione al fumo passivo su tutto il territorio della Repubblica: bene che per sua natura non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali. La natura di principi fondamentali delle norme in questione si comprende non appena si consideri l'impossibilità di concepire ragioni per le quali, una volta assunta la nocività per la salute dell'esposizione al fumo passivo, la rilevanza come illecito dell'attività del fumatore attivo possa variare da un luogo a un altro del territorio nazionale”. 38 Essa ha precisato (sentenza 43/2004) che “la nuova norma deriva palesemente dalla preoccupazione di assicurare comunque, in un sistema di più largo decentramento di funzioni quale quello delineato dalla riforma, la possibilità di tutelare, anche al di là degli specifici ambiti delle materie coinvolte e del riparto costituzionale delle attribuzioni amministrative, taluni interessi essenziali – il rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, la salvaguardia dell’incolumità e della sicurezza pubblica, la tutela in tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali – che il sistema costituzionale attribuisce alla responsabilità dello Stato ”. Essa ha aggiunto che “quanto all’ ‘unità giuridica’ e all’ ‘unità economica’, quale che ne sia il significato… si tratta all’evidenza del richiamo ad interessi ‘naturalmente’ facenti capo allo Stato, come ultimo responsabile del mantenimento della unità e indivisibilità della Repubblica garantita dall’art. 5 della Costituzione”. 39 In questo senso v. gli scritti raccolti in E.BETTINELLI, F.RIGANO, a cura di, La riforma del titolo V della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, Torino, 2004, e in Le regioni, 2-3/2004. Tra questi in particolare G.

FALCON, Le Regioni e l'unità nelle politiche pubbliche, 305 ss.; M.LUCIANI, L’autonomia legislativa, 355 ss.; P.

CARETTI, La Corte e la tutela delle esigenze unitarie: dall'interesse nazionale al principio di sussidiarietà, 381 ss. Su queste posizioni è anche A.D’ATENA, Giustizia costituzionale e autonomie regionali. In tema di applicazione del nuovo titolo V, in www.issirfa.it, 24 maggio 2006, nonché L.VANDELLI , La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, in A.PIOGGIA, L.VANDELLI , a cura di, La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, cit., 47, secondo il quale la Corte si è fatta carico della tenuta complessiva del sistema.

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sufficienti strumenti unificanti nelle mani dello Stato, assenza enfatizzata dalla scomparsa nel testo costituzionale di ogni riferimento all’interesse nazionale40. Dall’altro, il modello di regionalismo duale disegnato in modo ingenuo dal legislatore costituzionale del 2001 sarebbe stato ricondotto dalla Corte entro l’alveo delle esperienze più evolute degli Stati regionali e federali, improntate al modello collaborativo41.

Le difficoltà in cui la Corte si è mossa sono bene testimoniate dal presidente Onida, che parlando nel 2005 ha detto: “ci siamo trovati e ci troviamo di fronte ad una contraddizione, fra un disegno costituzionale innovativo e ambizioso, e una realtà effettiva, di metodi e contenuti della legislazione governativa e parlamentare, e talora anche regionale, di organizzazione, di capacità di gestione delle rispettive competenze e delle forme di collaborazione, restata largamente ferma ai caratteri del passato. Si sono individuati degli obiettivi, più o meno condivisibili che siano, ma non si sono individuati con sufficiente precisione e realismo i percorsi necessari e possibili per passare dall’assetto preesistente a quello nuovo prefigurato. Questa contraddizione ha posto e pone la Corte di fronte al difficile compito di risolvere le controversie cercando di dare soluzioni che non contraddicano la lettera e lo spirito del nuovo titolo V, ma che tengano conto della realtà di un ordinamento che non può conoscere interruzioni e vuoti, anzitutto nella tutela dei diritti delle persone e nella stessa continuità degli apparati e dell’azione amministrativa”.

Tuttavia, va aggiunto che, pur essendo “saltato” l’impianto costituzionale, ciò non è avvenuto senza lasciare tracce.

Le conseguenze si apprezzano soprattutto sul terreno della forma di governo: infatti gli interventi statali in nome del principio unitario sono legittimi, secondo la giurisprudenza costituzionale, in tanto in quanto rispettano il principio di “leale collaborazione”42.

La Corte agisce tentando un qualche riequilibrio attraverso decisioni additive, che inseriscono il momento procedimentale dell’intesa, da trovarsi nella Conferenza Stato-regioni, quindi a livello di esecutivi. Una volta correttamente realizzatasi l’intesa, la via del contenzioso dovrebbe essere preclusa, venendo a difettare l’interesse a ricorrere43.

Da ciò discende: a) una ulteriore valorizzazione degli esecutivi, tanto a livello centrale che regionale, a scapito delle assemblee rappresentative; b) una sorta di “associazione permanente” delle regioni alle decisioni del centro, che incide sui processi decisionali dello Stato centrale, accrescendone la complessità.

Le procedure di collaborazione, peraltro, nell’attuale assetto italiano presentano limiti significativi.

Innanzitutto, è una collaborazione “zoppa”. Essa dovrebbe esplicarsi su due piani, come la Corte ha precisato riguardo alla attrazione delle funzioni in sussidiarietà: a) la legge attributiva delle funzioni dovrebbe essere adottata attraverso procedure che assicurino la partecipazione al procedimento legislativo di tutti i livelli di governo coinvolti; b) la legge stessa deve introdurre

40 Tale scomparsa è stata confermata a più riprese dalla Corte costituzionale, che ha respinto l’ipotesi, affacciata da parte della dottrina, di ricondurre l’interesse nazionale entro i “limiti impliciti” alla legislazione regionale. La Corte ha affermato che, a sostegno della competenza sttale, non “è invocabile – come pure sostiene l'Avvocatura dello Stato - la sussistenza di un "interesse nazionale", che sarebbe "sotteso alla disciplina del Titolo quinto della Costituzione, come limite, implicito ma imprescindibile, di cui tener conto al fine di disciplinare settori essenziali per garantire i diritti primari dei cittadini". Una categoria giuridica del genere è infatti estranea al disegno costituzionale vigente, come questa Corte ha rilevato, affermando che "l'interesse nazionale non costituisce più un limite di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale" (sentenza n. 303 del 2003)” (così sentenza 370/2003). 41 Che si tratti di un modello duale è affermato, ad esempio, da A.ANZON, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale, Torino, Giappichelli, 2002, 209, mentre rileva che è venuto meno ogni potere unificante della legge statale F.PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico “esploso”, in Le regioni, 2001, 1171. Parla di “dimenticanza” del legislatore costituzionale F.BENELLI, La smaterializzazione delle materie, cit., 23. 42 Oltre alle ipotesi di “chiamata in sussidiarietà” e di “concorrenza di competenze”, la Corte ritiene costituzionalmente necessaria la leale collaborazione anche qualora la legge statale disponga interventi finanziari dello Stato in materie regionali: tali interventi, ammissibili in via transitoria fino alla piena attuazione dell’art.119 Cost., debbono però sempre prevedere momenti di collaborazione con le regioni, titolari delle competenze (ad esempio, sentenze 222 e 231/2005). 43 Come la Corte ha espressamente affermato nella sentenza 235/2006.

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adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni allocate in capo agli organi centrali (sentenza 6/2004).

In assenza di una norma costituzionale che preveda la partecipazione regionale al procedimento legislativo44, il primo aspetto è privo di tutela costituzionale e potrebbe essere reso vincolante soltanto attraverso una revisione costituzionale delle norme relative al procedimento legislativo.

La partecipazione regionale è obbligatoria unicamente a livello sublegislativo e soltanto l’assenza di tale contenuto necessario può portare alla dichiarazione di incostituzionalità della legge che effettua la “chiamata in sussidiarietà”45. Quando la legge individua direttamente il livello unitario dell’interesse, il meccanismo partecipativo (relativo in ogni caso alle modalità attuative) appare del tutto inidoneo a contribuire a determinare adeguatamente il livello dell’interesse; esso può servire soltanto a evitare una completa espropriazione della competenza regionale coinvolta (è questo il caso della sentenza 62/2005).

In secondo luogo, restano aperte le incertezze sul carattere, forte o debole, delle intese, derivante dal fatto stesso che “non vi è alcuna prescrizione costituzionale dalla quale possa desumersi che il livello di collaborazione regionale debba consistere in una vera e propria intesa” (sentenza 6/2004)46. Qualora non sia la legge stessa a determinare il carattere forte della partecipazione regionale, la precisazione è rimessa alla Corte, che opera con esiti alterni e secondo orientamenti non sempre decifrabili, lasciando in molti casi impregiudicata la questione quando è chiamata a pronunciarsi sulla legge in sede di giudizio principale47.

Lo strumento per garantire che la collaborazione, prevista dalla legge, si svolga con lealtà diventa allora il conflitto di attribuzione Stato-regioni (o, per meglio dire, regioni-Stato)48: via di accesso al giudizio della Corte fino ad oggi marginale, ma che potrebbe invece in futuro assumere sviluppi del tutto imprevisti49.

44 Assenza evocata anche dopo la riforma del Titolo V, dalla sentenza 196/2004, secondo la quale “non è individuabile un fondamento costituzionale dell’obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e regioni (né risulta sufficiente il sommario riferimento all’art.11 della legge costituzionale n. 3 del 2001)”. Nello stesso senso le sentenze 387/2007, 98/2007, 133/2006, 31/2005. V. già la sentenza 437/2001. 45 V. la sentenza 233/2004 con nota di I. RUGGIU, Trasporti a Bologna e leale collaborazione: metro pesante, per una Metro leggera, in Le regioni, 2004, 1392 ss. 46 Per intesa “forte” si intende che l’intesa deve necessariamente essere raggiunta affinché sia possibile adottare un atto, mentre per intesa “debole” si intende che l’intesa deve essere perseguita e ricercata lealmente, ma qualora non sia possibile addivenirvi, lo Stato può comunque adottare l’atto. 47 Ma si veda la citata sentenza 62/2005, ove l’intesa è chiaramente configurata come “debole”. Al contrario, la sentenza 383/2005 si riferisce alla intesa necessaria per l’attrazione di competenze in sussidiarietà (si trattava del caso della costruzione di elettrodotti) come “intesa forte”. La Corte precisa che “nella perdurante assenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni nell’ambito dei procedimenti legislativi dello Stato”, tali intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la “chiamata in sussidiarietà” di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale, con la conseguenza che deve trattarsi di vere e proprie intese “in senso forte”, ossia di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti. In questi casi, pertanto, deve escludersi che, ai fini del perfezionamento dell’intesa, la volontà della Regione interessata possa essere sostituita da una determinazione dello Stato, il quale diverrebbe in tal modo l’unico attore di una fattispecie che, viceversa, non può strutturalmente ridursi all’esercizio di un potere unilaterale”. 48 Nella specie, il conflitto si potrebbe produrre in conseguenza dell’adozione da parte dello Stato, espletato senza esito il tentativo di trovare un’intesa, di un atto rispetto al quale la legge (o una sentenza della Corte) prevedeva la necessità di intesa, lasciandone impregiudicata la natura. Rispetto alla garanzia del principio di leale collaborazione il conflitto svolge anche altre funzioni: ad esempio, può servire a censurare un atto statale adottato unilateralmente in contrasto con una intesa già raggiunta: «le intese in sede di Conferenza Stato-Regioni rappresentano la via maestra per conciliare esigenze unitarie e governo autonomo del territorio. Ne deriva che il principio di leale collaborazione che si realizza mediante tali accordi, anche in una accezione minimale, impone alle parti che sottoscrivono un accordo ufficiale in una sede istituzionale di tener fede ad un impegno assunto» (sentenza 31/2006; 58/2007). 49 Si veda al riguardo la già citata sentenza 383/2005 che, una volta proclamato, come si è ricordato, il carattere “forte” dell’intesa, continua affermando che “ l’esigenza che il conseguimento di queste intese sia non solo ricercato in termini effettivamente ispirati alla reciproca leale collaborazione, ma anche agevolato per evitare situazioni di stallo, potrà certamente ispirare l’opportuna individuazione, sul piano legislativo, di procedure parzialmente innovative volte a

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7. Uno Stato regionale alla ricerca di identità e di senso

Mi pare di poter concludere dicendo che siamo di fronte ad un caso macroscopico di scostamento tra costituzione scritta e costituzione vigente.

Ciò pone cruciali interrogativi sulle ragioni di questa situazione e, sulla base delle cause che si individuino, sulle misure da assumere per fronteggiarla.

La premessa è, ovviamente, la considerazione che, perché la costituzione scritta abbia un senso, deve tendere alla effettività. Quando lo scostamento tra costituzione scritta e costituzione vigente supera un certo livello, si è di fronte ad una patologia del sistema, alla quale occorre rimediare, nel senso di ridurre lo scostamento. Ciò che può essere conseguito o attraverso una modifica delle norme costituzionali che le adegui alla effettività dei rapporti o attraverso una modifica del quadro dei rapporti, che lo riconduca entro il disegno delle norme costituzionali.

Le cause della ineffettività del titolo V della Costituzione italiana mi pare che possano essere ricercate seguendo due vie, una che si appoggia su cause definibili, a vario titolo, contingenti e una che invece riflette sulle cause “di sistema”.

Tra le cause di tipo contingente dello scostamento tra previsioni costituzionali ed effettività dei rapporti spicca la spiegazione in termini politici della inattuazione della riforma del Titolo V: se si ritiene che l’ostilità del centro-destra alla riforma costituzionale del 2001 è stata la principale ragione della sua inattuazione, oggi, venuta meno quella maggioranza, non resta che procedere all’attuazione Ma inserirei in questa categoria anche quelle cause che si incentrano sulla presenza di alcune lacune nella riforma del 2001, anch’esse dovute a ragioni a loro modo “contingenti”, come l’assenza di norme transitorie o la mancata costituzionalizzazione di meccanismi di raccordo e collaborazione (dei quali esisteva un embrione, mai attuato, rappresentato dalla integrazione con rappresentanti regionali e degli enti locali della commissione parlamentare per le questioni regionali). Da questo punto di vista, sarebbe sufficiente completare la riforma del 2001 con la riforma della seconda camera o con la costituzionalizzazione di idonei meccanismi di raccordo e collaborazione per poter avviare la costruzione di uno Stato delle autonomie funzionante ed effettivo: compito arduo, ma non tale da rimettere in discussione il complesso della forma di Stato disegnata nel 200150.

Qualora invece si ritenga trattarsi di cause di sistema, il problema si fa più complesso. Parlando di “cause di sistema” intendo riferirmi al fatto che il testo costituzionale, che contiene

previsioni, specie in materia di potestà legislativa, assai vicine a quelle caratteristiche degli Stati federali51, non sia adeguato alle esigenze che emergono dal corpo sociale e sia pertanto sprovvisto di legittimazione.

Occorre allora interrogarsi sulle ragioni che stanno a fondamento di una differenziazione su base territoriale52. E, in primis, sulle ragioni che giustificano l’attribuzione di scelte politiche di rango legislativo (ovvero immediatamente infracostuzionale) ad assemblee esponenziali di collettività locali: è il problema della potestà legislativa, come disegnata dall’art.117, quello che sembra oggi in Italia configurare il più grave scostamento tra testo ed effettività costituzionale.

Prima di tutto, ciò può essere giustificato da motivi forti di tipo “nazionale” o storico: fatto questo che deve essere escluso in Italia, ove mancano pulsioni regionali a sfondo nazionalistico (se

favorire l’adozione dell’atto finale nei casi in cui siano insorte difficoltà a conseguire l’intesa, ma tali procedure non potranno in ogni caso prescindere dalla permanente garanzia della posizione paritaria delle parti coinvolte. E nei casi limite di mancato raggiungimento dell’intesa, potrebbe essere utilizzato, in ipotesi, lo strumento del ricorso a questa Corte in sede di conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni” (corsivo nostro). 50 Così, ad esempio, L.VANDELLI , Dopo il referendum del giugno 2006: quali riforme? in www.astridonline.it , 2006. 51 Così, ad esempio, M.OLIVETTI , Le funzioni legislative regionali, in T.GROPPI, M.OLIVETTI , La Repubblica delle autonomie, cit., 85 ss. 52 Su questa linea si colloca A.BARBERA, Il Titolo V tra attuazione e riforma, in www.forumcostituzionale.it, 11 dicembre 2006; S.MANGIAMELI , cit.

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si escludono i territori su cui insistono alcune delle regioni speciali) e dove non esiste neppure una richiesta di autonomia su base storica, in virtù della mancata corrispondenza tra le regioni individuate dalla costituzione e gli stati preunitari.

Il senso di uguaglianza e di una comune cittadinanza è profondo, il tasso di differenziazione tollerato dal sistema è minimo, specie quando vengono in discussione le scelte politiche di fondo, ad esempio quelle che attengono al godimento dei diritti53.

Ciò non toglie che esistano ormai, anche in virtù di più di trent’anni di regionalismo, identità regionali caratterizzate da diversificate esigenze economiche e sociali, che si possano rispecchiare nel corrispondente livello istituzionale: con l’avvertenza che non può essere parificato a identità regionale quello che è bieco egoismo delle regioni più ricche. Le competenze delle regioni dovranno essere in ogni caso adeguate alla domanda di autonomia che proviene dalla comunità regionale: tenendo presente la opportunità di introdurre o attivare congegni volti a una differenziazione dei livelli di competenza, in risposta a tali diverse esigenze (nel 2001, in nome di tale necessità, è stato introdotto il meccanismo previsto dall’art. 116, comma 3, Cost., che consente alle regioni che ne facciano richiesta di ottenere, con il consenso dello Stato, maggiori competenze in una serie di materie).

Se in Italia la scelta “federale” non risponde alla volontà delle comunità regionali di compiere scelte politiche fortemente divergenti, al contrario, pare ormai, in un momento in cui la complessità delle relazioni, interne ed esterne allo Stato, si moltiplica, di non poter prescindere da una scelta in favore del decentramento (regionale e locale) a scopo di efficienza, intesa quale adeguatezza: è ben possibile che, dato un quadro comune di scelte politiche di fondo, certi territori possano gestire alcune funzioni in modo migliore, perché più adeguato alle loro specifiche caratteristiche di quanto potrebbe fare lo Stato centrale con una politica uniforme. Accanto all’efficienza, il decentramento può favorire la responsabilità, quale punto di snodo tra efficienza e democrazia. Mi pare che riacquisti attualità, in favore di uno Stato decentrato, anche l’elemento partecipativo, in un momento in cui il sistema politico nazionale appare in seria difficoltà nel rapportarsi con la società civile.

Efficienza e partecipazione: quello che resta da chiedersi è se l’assetto istituzionale delineato dalla riforma del 2001 risponde a queste primarie esigenze.

Lo scostamento da cui si è partiti, tra constitution in the books e constitution in action, pare mostrare che non è così, almeno riguardo alla distribuzione delle competenze legislative: la soluzione adottata non è risultata consona alle esigenze della società italiana. Il senso della riforma del 2001, infatti, era quello di circoscrivere l’intervento dello Stato a materie elencate (esclusive o concorrenti), lasciando alle regioni le scelte politiche primarie (ovvero con il solo limite delle norme costituzionali) in tutte le altre materie, dalle quali lo Stato avrebbe dovuto essere escluso: una scelta idonea unicamente se l’esigenza da soddisfare fosse stata l’espressione di volontà politiche fortemente differenziate da parte dei diversi territori, quale risposta a forti identità regionali.

Se si riconosce che in Italia non esistono pulsioni di tal fatta non resta (a meno di non voler procedere sulla strada della costruzione di identità regionali artificiali, basate su “tradizioni” inventate54) che prenderne atto e procedere, a ritroso, in modo pragmatico e deideologizzato, in favore dell’assetto che sia più adeguato a queste finalità: un assetto che non può essere centrato sulla potestà legislativa “esclusiva” delle regioni, ma che lasci lo spazio aperto, in ogni materia, per una possibile concorrenza statale; che riconduca allo Stato tutte quelle materie sulle quali la differenziazione non risponda ad esigenze di efficienza; che valorizzi i margini di autonomia delle regioni laddove si tratti di scelte più specificamente legate al territorio; che lasci aperta la via, per le

53 Sul carattere fondamentalmente unitario dell’ordinamento italiano, che risponderebbe ad elementi profondi del modo di essere delle istituzioni, anche regionali, della società civile, e perfino della psicologia delle singole persone, v. G.FALCON, La riforma costituzionale e la legislazione regionale, in Le regioni, 2005, 707 ss., a commento di un’analisi che ha mostrato, in molti settori materiali, la omogeneità della legislazione regionale. 54 Alla stregua dei casi esaminati in E.J.HOBSBAWM, T.RANGER, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino, 2002.

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regioni che chiedono maggiori spazi di autonomia, ad un regionalismo differenziato; che attui appieno il principio di sussidiarietà quanto alle funzioni amministrative, dando un senso al dettato dell’art.114 Cost.

Ovvero, non resta che far coincidere la Costituzione formale – non con l’attuale assetto dei rapporti materiali, ma – con quelli che sono i bisogni della società italiana, che soli possono fornirle una base di legittimazione.

Più facile a dirsi che a farsi: alle difficoltà presenti in qualsiasi processo riformatore volto a (ri)assegnare competenze al centro55 si somma il carattere strumentale al gioco politico nazionale che sempre ha connotato le riforme delle autonomie territoriali in Italia. Ciò è testimoniato dalla stessa riforma del 2001, nonché da quella, soltanto tentata, del 2006, la cui vicenda è emblematica: anche se finalizzata a realizzare un accentramento, essa è stata propagandata come volta ad attribuire maggiori competenze alle regioni, al punto che, pur bocciata su base nazionale, ha avuto invece il sostegno dell’elettorato in Veneto e Lombardia56, ovvero proprio nelle due regioni che chiedono più autonomia e i cui esecutivi hanno avviato il procedimento previsto dall’art.116, comma 3, Cost., per attingere un più elevato livello di competenze57.

È pertanto altamente probabile che l’evoluzione prosegua, come nei passati sei anni, in un intreccio di negoziato politico e interventi normativi di rango non costituzionale, attraverso continui aggiustamenti legislativi e giurisprudenziali, al di fuori di qualsiasi disegno prestabilito. Con conseguenze non secondarie non solo sulla certezza del diritto e su quella efficienza che rappresenta una delle principali ragioni d’essere di uno Stato decentrato, ma sul significato stesso del principio di rigidità costituzionale e sulla fiducia nella capacità della Costituzione di determinare gli assetti istituzionali e di orientare la convivenza sociale. In altre parole, sulla sua capacità di definire la forma di Stato.

55 Si veda, come raro esempio, la riforma del federalismo tedesco realizzata nel 2006, con legge di revisione costituzionale. 56 Nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006 i sì sono stati il 54,6 % in Lombardia e 55,3 % in Veneto, e, benché il testo sottoposto al voto contenesse molte altre riforme, è ragionevole sostenere, anche alla luce della campagna elettorale, che l’attenzione degli elettori in queste due regioni si sia soffermata sulle norme relative alle autonomie territoriali. 57 Sull’avvio di tale procedimento v. M.BORDIGNON, Federalismo? A velocità variabile, in Il Sole 24 ore, 2 settembre 2006.

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LORENZA CARLASSARE

Principi costituzionali, sistema sociale, sistema politico SOMMARIO . 1 . Il quadro costituzionale : la forma di stato e di governo. 2.- Segue: le condizioni per la stabilizzazione del sistema politico. 3- Costituzione e partiti politici. 4 – La caduta dei partiti tradizionali e la fine della ‘coalizione monopolistica’. 5.- La trasformazione dei partiti. 6- Quali prospettive nel vacillare delle certezze? 1.- Il quadro costituzionale : la forma di stato e di governo. Parlare di legge elettorale, oggi, è più che giustificato: sostituire quella del governo Berlusconi, pericolosamente destabilizzante, è indispensabile. Ma era altrettanto giustificato negli anni passati ? La ricerca continua di meccanismi in grado di incidere utilmente sul sistema politico, oscillando fra quelli pensati per sistemi politici diversi, denuncia la mancanza di chiarezza sugli obiettivi. Dove si vuole arrivare? A quale fine deve servire lo strumento che si sceglie per far funzionare la rappresentanza? Non basta pensare, genericamente alla ‘governabilità’, per quanto auspicabile, senza riflettere sulle condizioni che la rendono possibile. Cadute le illusioni sulle virtù taumaturgiche di un bipolarismo comunque configurato (1) e sulla possibilità della legge elettorale (certamente rilevante) di modificare da sola il sistema politico (2), abbandonati i tecnicismi di superficie, è il momento d’impostare un discorso più ampio che guardi alla società di cui il sistema politico è espressione. Con occhio attento alla Costituzione repubblicana dov’è ben tracciato il percorso per ridurre la disomogeneità del sistema sociale che si riflette sul sistema politico, influenzandolo ben più profondamente di qualsiasi legge elettorale. Le indicazioni sono molteplici: da quelle relative ai partiti ( strumenti dei cittadini per concorrere a determinare la politica nazionale),alla forme di governo, al pluralismo, a quelle relative alle premesse indispensabili della democrazia: dalla libertà di pensiero al diritto all’informazione , all’istruzione, e ad una retribuzione “sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa”. Condizioni necessarie a costruire una cittadinanza responsabile, in grado di esprimere giudizi e preferenze politiche ragionate e di resistere a demagogiche sollecitazioni. L’incessante ricerca di meccanismi in grado di incidere sul sistema politico, sembra invece chiudersi in un orizzonte strettissimo limitato alla legislazione elettorale. Nel confuso succedersi delle proposte , l’obiettivo è una ‘governabilità’ pensata in modo astratto e generico, come prodotto automatico dell’uno o dell’altro meccanismo cui ci si affida in modo esclusivo, senza riflettere sulle condizioni che ne rendono possibile il funzionamento, quasi che il sistema politico possa pensarsi indipendentemente dal sistema sociale . Illusione pericolosa perché il secondo reagisce alterando gli effetti di meccanismi elettorali che gli sono estranei : la legislazione 1 )Significativa è la lettura dei quotidiani: cito per tutti, I.DIAMANTI, Seconda Repubblica. Il lungo tramonto, in la Repubblica, del 9 dicembre 2007. Come scrive E. BERSELLI, Qualcosa è accaduto, in la R epubblica del 3 dicembre, 2007, “la dichiarazione di morte presunta del bipolarismo è largamente condivisa dall’arco delle forze politiche”. E P. BATTISTA, Addio Seconda Repubblica ( Corriere della sera, 9 gennaio 2008 ) parla di de profundis della Seconda Repubblica, dietro la quale , il nulla: “Solo la fine del personalismo plebiscitario surrogato di leadership autentiche, le bandiere ormai stinte del ‘sindaco d’Italia’, la stanchezza per un bipolarismo astioso, inconcludente e intontito dai propri annunci”. In particolare si critica - F. BASSANINI, Sul progetto di riforma elettorale del Partito democratico, in Astrid Rassegna, n. 19 del 2007 - la priorità assoluta assegnata, nella definizione degli obiettivi della legge elettorale “alla costruzione di un sistema suscettibile di imporre la confluenza di tutti i partiti e movimenti politici in due coalizioni predeterminate, chiuse e blindate; dunque di un sistema capace di incapsulare un sistema politico multipolare in una gabbia bipolare rigida”, trascurando “altre finalità e altri obiettivi, non meno cruciali”. Per un panorama delle opinioni, ASTRID, La riforma elettorale, Firenze (Passigli) 2007 ; Quale legge elettorale serve al Paese ( Seminario di Astrid, 28 maggio 2007) in www.astrid-online .it 2 )Infra e nota 20.

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elettorale sta dentro un discorso più ampio, interno alla società di cui il sistema politico è espressione e, innanzitutto, interno alla prospettiva tracciata dalla Costituzione. Sono d’accordo con Alberto Capotosti che la stretta connessione tra profilo elettorale, istituzionale e sociale non sembra sufficientemente avvertita, e perciò si rischia di introdurre un sistema elettorale inadeguato alla società civile e incoerente rispetto al sistema politico-costituzionale ( 3). Dalla Costituzione dobbiamo partire, innanzitutto dalla forma di stato ‘democratico di diritto’ : è già un quadro di riferimento preciso che lascia margini ma ha sicuri confini che non possono essere valicati. La partecipazione del popolo non dev’essere discontinua ma sempre attiva: l’art.1, insieme ad altre disposizioni costituzionali, in particolare l’art.49, prefigurano un esercizio costante della sovranità - che appartiene al popolo, non emana da esso- che non tollera gli intervalli di una democrazia ‘delegata’. Il costituzionalismo limita il potere, anche della maggioranza, cui non spetta il dominio assoluto in una democrazia pluralista. Il pluralismo pervade tutto il sistema - è politico, territoriale , religioso, linguistico, culturale – e le differenze non sono solo da difendere contro offese e discriminazioni, sono anche da tutelare e valorizzare. In particolare, la Costituzione tutta implica una pluralità di partiti. Fino a non molto tempo fa era un dato pacifico che oggi si cerca di minimizzare. Si insiste nel dire che pluralità può significare anche due: leggendo le disposizioni costituzionali non si direbbe. Se nell’art. 72 il plurale ‘gruppi parlamentari’ (in proporzione dei quali devono essere composte le commissioni legislative), con notevole sforzo potrebbe anche significare ‘due’, una simile lettura non è consentita dall’art. 82 che vuole la commissione d’inchiesta “formata in modo da rispecchiare la proporzione fra i vari gruppi” , né dall’art.83 in base al quale i tre delegati regionali all’elezione del Presidente della Repubblica vanno “eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze”. Ma non è il dato testuale quello che conta. Il pluripartitismo emerge da tutto il sistema Ciò dovrebbe far riflettere sulla coerenza costituzionale di una legge elettorale che induca un’eccessiva semplificazione soffocando le differenze, anziché esaltare “il momento del pluralismo in Parlamento” oltre al “ pluralismo prima del Parlamento” ( 4). Indicazioni precise e vincolanti derivano , infine, dalla forma di governo, di tipo parlamentare, disegnata in Costituzione : il governo promana dal Parlamento, lì si costruiscono le maggioranze in base agli orientamenti espresse dagli elettori. Indicazioni, anche queste, tranquillamente ignorate dai nostri vivaci riformatori , ai quali inutilmente viene ricordato che, per percorrere diversi sentieri, è necessario procedere ad una riforma costituzionale. Diversa cosa, del tutto conforme non solo alla Carta ma agli intenti stessi dei Costituenti - qui richiamati da Leopoldo Elia nella sua approfondita Relazione-, prospettare l’introduzione di elementi idonei a rendere più efficace l’azione di governo. 2.- Segue: le condizioni per la stabilizzazione del sistema politico. La Costituzione è un punto di partenza ricco di spunti anche sulle condizioni che rendono possibile il funzionamento del sistema democratico. Sono cose note, ma a sessant’anni dalla sua nascita, è bene ricordarle anche per ricordare la gravità dell’inattuazione della nostra Carta. Soprattutto perché riguardano elementi stabilizzanti, destinati a ridurre le fratture sociali che generano le disomogeneità che si ripercuotono sul sistema politico e su quello istituzionale. Possiamo dire che la Repubblica ha assolto il “compito” assegnatole dall’art.3 comma 2 di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese? Che si è realizzato l’ordine sociale della Costituzione? Che la pari dignità di cui al comma 1 del medesimo articolo, è assicurata?

3 ) P.A. CAPOTOSTI, Regole elettorali e sistema costituzionale italiano, in www.astrid-online.it 4 )Questa considerazione di M. LUCIANI, Democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, in L. CARLASSARE

( a cura di), La sovranità popolare, cit. ,190, a commento del pensiero di Esposito, mi sembra davvero importante e da sottolineare.

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Non si tratta di questioni leggere, ininfluenti nel discorso sul sistema politico, ma temi di fondo, che riguardano le basi stesse dell’ordine sociale della Costituzione. Pilastri della costruzione intera ,in una prospettiva che poneva nella realizzazione di quegli obiettivi i presupposti per il funzionamento della democrazia nascente, principi profondamente radicati nelle forze che si accingevano ad esercitare la funzione costituente, ben prima che l’Assemblea nascesse. Gli scritti di quegli anni ben lo testimoniano: il primo dei presupposti di un regime democratico moderno, “del complessivo assetto sociale e politico nel quale la forma di governo venga ad inquadrarsi nel modo più armonico”, scriveva Mortati nel 1945 “ si riferisce all’omogerneità della struttura sociale” ( 5 ).La necessità di realizzare, oltre alle riforme politiche, riforme “nella struttura economica sociale” (6 )corrispondeva ad un convincimento forte e diffuso. La rimozione anche mentale del lavoro subordinato dalla sfera effettiva della tutela, è divenuta in questi giorni troppo evidente per poterla negare manifestando in forme pesanti una questione sociale di cui si vorrebbe ignorare l’esistenza . In particolare la questione operaia, è balzata ai nostri occhi con la strage operaia di Torino, rivelando la ferocia dello sfruttamento. L’Osservatore romano dell’11 dicembre parla di “salute mercificata” : si contratta la salute per il posto di lavoro. Gli orari disumani con turni interminabili di cui non si sospettava nemmeno più l’esistenza, (aggravati da straordinari pesanti imposti dalla ‘produttività’ e dall’esiguità dei compensi ) legati all’assenza di salari sufficienti a mantenere la famiglia in modo dignitoso, testimoniano l’abbandono in cui si è lasciata una parte produttiva e importante della società, il disinteresse per la perdita di speranza in un futuro migliore ( o semplicemente in un futuro) per sé e per i figli. E’ la dignità del lavoratore di cui non si tiene alcun conto, in spregio assoluto alla Costituzione che mette il lavoro al centro del sistema , sottolineandone, fin dall’art. 1, il preminente valore. Quanto siamo lontani dall’orizzonte dei costituenti, dall’esaltazione del “principio nuovo, che considera il lavoro umano non più come merce, che si scambia e subisce le oscillazioni della richiesta e dell’offerta, ma come il più alto dei valori della scala sociale” ( 7). Trascurato è un altro importante fattore d’integrazione e di sviluppo della persona che la Costituzione impone di perseguire: la cultura è messa in gioco dal disinteresse per l’istruzione, reso palese dall’inadeguatezza delle risorse, degli edifici scolastici, della retribuzione degli insegnanti ( che ne abbassa il prestigio in una società dove l’apparenza è tutto), oltre che dall’uso del mezzo televisivo, fattore potenzialmente aggregante, ora purtroppo solo nel senso di un livellamento verso il basso. Come dice, ad altri fini, l’on. Berlusconi “si guardi blob” : ognuno di noi avrà così un sintetico saggio del peggio. I mezzi di comunicazione entrano nel discorso anche, e soprattutto, per la loro rilevanza politica non solo nel momento della competizione elettorale, ma ai fini del diritto all’informazione che la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato. Ma i chiari principi affermati dalla Corte stessa, stentano ( è un gentile eufemismo) a tradursi nella realtà : senza riandare al passato, ricordo solo la sent. 466/2002, di cui la l. 112 /2004 non ha tenuto alcun conto. La distorsione del sistema informativo si ripercuote pesantemente sul sistema politico, manipola e distorce le opinioni stesse del cittadino, non consente la formazione di una coscienza informata, presupposto della democrazia. Si è indebolita la televisione pubblica , indispensabile in un sistema complesso in cui i troppi messaggi confondono, e se ne è resa possibile una gestione influenzata non solo dal potere politico (in grado di allontanare giornalisti di livello, spegnendo libere voci) ma addirittura da soggetti portatori di interessi economici concorrenti. Certamente i giornali possono indurre a maggiore riflessione, alimentando un dibattito meno superficiale; ma, la linea politica della testata è del proprietario editore, cui il direttore è necessariamente legato, sicché lo

5 )C. MORTATI, Perché siamo repubblicani, ripubblicato in I cattolici democratici e la Costituzione ( a cura di ANTONETTI, DE SIERVO, MALGERI), II°, Bologna 19998, 646. 6 )G. DOSSETTI, La democrazia cristiana ai lavoratori, volantino diffuso clandestinamente verso la fine del 1944, pubblicato in I cattolici democtratici, cit., I°, 355. 7 ) Così l’on. Mancini nella seduta pomeridiana del 17/3/1947, in Materiali della Repubblica,vol.II°, tomo II°, Reggio Emilia (Notor ed.), 1992, 151; per i diversi interventi, in sede di Assemblea, in particolare,20,77,142-145, 198-204,225-227,287-289.

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spazio per i giornalisti alla fine è abbastanza ridotto. Come dimostra l’esperienza di due importanti giornalisti del nostro tempo, Biagi e Montanelli, l’indipendenza costa. Non potendo fermarmi su questo - troppi sono i temi implicati in un discorso su Costituzione e sistema politico – rinvio al bel volume sull’art. 21 di Alessandro Pace e Michela Manetti ( 8). 3.- Costituzione e partiti politici. Il discorso sui partiti si colloca in una dimensione più ampia, in un modo preciso di concepire la democrazia. Un modo, oggi, particolarmente sentito dalla società civile che dimostra in tutte le occasioni di voler partecipare. Mi richiamo a cose dette dai grandi Maestri, a cominciare da Esposito. che sottolineano il carattere strumentale dei partiti e delle stesse istituzioni (9): l’attribuzione ai partiti della “ positiva funzione di strumento perché i cittadini concorrano a determinare la politica nazionale trae origine dalla constatazione che in un regime ‘meramente‘ rappresentativo nel quale fosse concesso ai cittadini il solo potere di votare, tali cittadini sarebbero schiavi per lunghi anni e… liberi e sovrani nel solo giorno della libera scelta dei loro rappresentanti”. Infatti ,“il contenuto della democrazia non è che il popolo costituisca la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere…. E che non abbia la nuda sovranità ( che praticamente non è niente) ma l’esercizio della sovranità (che praticamente è tutto)” ( 10). L’art. 49 ben esprime il carattere strumentale dei partiti: il soggetto della proposizione sono i cittadini che “hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Già per questo ( e non solo per un’interpretazione del ‘metodo democratico) i partiti-vertice dovrebbero essere esclusi: non adempiendo allo scopo per il quale sono stati previsti , allo stesso modo dei partirti personali . E, ancor più, dovremmo considerare inammissibili partiti che non si sono sottoposti al vaglio degli elettori, ma hanno vita solo in Parlamento. Dubito inoltre che la Costituzione pensasse ai partiti come protagonisti esclusivi della politica: attori principali, di certo, ma non esclusivi . Il pluralismo, l’insistenza sui corpi intermedie, le associazioni di varia natura, disegnano uno scenario variegato in cui agiscono molteplici entità e aggregazioni. Dominante appare l’idea che il pluralismo dovesse entrare nella formazione dell’indirizzo politico. Una parola- sottolinea Gianni Ferrara- praticamente sparita ( 11), e non a caso. I partiti, viceversa, hanno monopolizzato la politica, si sono fatti tutt’uno con le istituzioni.

E’ dunque ai partiti come sono oggi che la Costituzione pensava? 4. La caduta dei partiti tradizionali e la fine della ‘coalizione monopolistica’. Dopo la guerra i partiti hanno svolto una funzione determinante assicurando la base per la ricostituzione del sistema, dando sostegno a una struttura istituzionale quasi inesistente. La scelta proporzionalistica era naturale e coerente in una situazione che vedeva l’elettorato traversato da fortissime fratture e già operanti diversi gruppi politici ( 12). Gradualmente i partiti si sono trasformati, si è assistito ad una omogeneizzazione delle dirigenze delle quali, fra l’altro, i partiti non riuscivano più ad assicurare la preparazione. All’inizio degli anni novanta, la corruzione, ormai del tutto palese, getta un discredito totale e generalizzato travolgendo le formazioni politiche , peraltro già messe in crisi dagli eventi internazionali del 1989. La caduta del “muro” indebolisce i partiti di maggioranza che non avevano

8 ) A. PACE e M. MANETTI, Art. 21,La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Commentario della Costituzione fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna, 2006. 9 ) Per il secondo profilo, in particolare CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana,in Studi in memoria di V.E. Orlando, Padova,1955, 439, 454 ,”lo Stato-soggetto si configura come strumento, non esclusivo, mediante il quale il popolo esecita, per una parted più o meno estesa, la sovranità di cui è e rimane titolare" e L. PALADIN , Diritto costituzionale, Padova, 1998, 271. 10 ) C. ESPOSITO, La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 10-11. 11 ) G. FERRARA, L’indirizzo politico dalla nazionalità all’apolidia, in L. CARLASSARE ( a cura di), La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, Padova, 2004, 105 ss. 12 )Per una efficace visione del ruolo dei partiti nella storia repubblicana, P. SCOPPOLA, Parlamento e Governo da De Gasperi a Moro, e G. PASQUINO, Partiti, gruppi sociali, lobby e singoli parlamentari nella vita di Camera e Senato in Storia d’Italia, Annali 17, Il Parlamento, a cura di L. VIOLANTE, Torino,2001, 357ss; 659ss.

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più la possibilità di reggersi sulla contrapposizione a un sistema imploso: ma il fallimento di quel sistema, mettendo in crisi il modello, costringe anche la sinistra a trovare una diversa identità. Insomma, ‘mani pulite’ interviene a dare il colpo di grazia a partiti che erano già in crisi per conto loro. Sicuramente, tuttavia, per i cittadini determinante fu la corruzione : il successo dei referendum- dalla preferenza unica a quello del’93 che portò al maggioritario- non è dovuto all’entusiasmo dei cittadini per il sistema maggioritario di cui nulla sapevano e di cui poco capivano, ma era un voto contro la corruzione partitocratica. I partiti, dopo, non sono più gli stessi: i nomi sono altri, il PCI si trasforma e si divide, la DC si fraziona, MSI diventa AN, nasce la Lega come partito antisistema che, proprio per questo ha una fortuna inizialmente estesa; e nasce poi Forza Italia , più che un partito un’organizzazione di tipo personale , basata su una struttura aziendale. Eppure, mi pare, non si può parlare veramente di un sistema politico nuovo. Sicuramente la struttura pluripartitica persiste nonostante la sostituzione del maggioritario al proporzionale ; il che ben dimostra come il mutamento dei meccanismi di trasformazione dei voti in seggi non riesca , da solo, a trasformare un sistema politico, non basti a farlo divenire bipolare. Qualcosa tuttavia in quel momento è cambiato , ma non se n’è tenuto conto mentre forse proprio quel cambiamento andava sfruttato ai fini di un’evoluzione virtuosa . A quale mutamento mi riferisco? Era venuta meno la “coalizione monopolistica” che ha caratterizzato il nostro sistema fin dalla caduta della destra (1876). Si parla sempre di bipartitismo e pluripartitismo , pur sottolineando (13) le peculiarità indotte nel multipartitismo italiano dalla presenza al centro di un partito egemone perno di ogni governo. La chiarezza è tuttavia maggior usando un nome diverso per significare la diversità della cosa: accanto al bipartitismo e al pluripartitismo , Paolo Farneti (14) pone la “coalizione monopolistica , i cui tratti tipici sono la coesistenza “con un’opposizione parlamentare rilevante che tuttavia non è strutturalmente in grado di agire quale possibile alternativa di governo”. Non era dunque il multipartitismo il nostro problema, ma il fatto che, fino alla crisi degli anni novanta , la coalizione monopolistica, per sua natura conservatrice e poco o nulla dinamica, ha caratterizzato il sistema. Non possiamo dunque imputare nulla al pluripartitismo , presente in tutte le pieghe della nostra Costituzione, perché in realtà non lo abbiamo mai sperimentato, se non ,forse, per un periodo assai breve, finito nel 1947 dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti. Nella crisi dell’inizio ’90, ridotte le dimensioni della DC, esistevano condizioni nuove (rispetto alla coalizione monopolistica) che avrebbero , forse, consentito il funzionamento normale del governo parlamentare in un sistema pluripartitico. Invece di sfruttare quel cambiamento lo si è soffocato con la non graduale sovrapposizione del maggioritario chiudendolo nelle maglie di un bipolarismo artificiale e coatto che non ha funzionato , non è servito a semplificare, anzi ha creato frammentazione : il sistema sottostante a reagito. A parte i 14 gruppi parlamentari alla Camera ( più i quattro in cui si divide il gruppo misto), basta guardare alle divergenze interne ai due poli per dover ammettere che la disomogeneità di fondo trova comunque il modo di manifestarsi. Come prima, del resto : all’interno della DC , partito interclassista, per le diverse parti del suo blocco sociale nascono le correnti, e tra queste- e dunque tra i diversi gruppi di interessi di cui le correnti sono espressione- il partito deve mediare. Oggi la maggioranza è in continua difficoltà : finita la finanziaria, il governo incontra ostacoli persino a causa di una norma antidiscriminatoria modulata su norme europee che essa, esplicitamente, richiama. Ostacoli incomprensibili trattandosi di una norma di minima civiltà,

13 ) Come, da tempo , L. ELIA, Governo ( forma di), in Enc. dir., vol. XIX, Milano, 1970, che ha rinnovato radicalmente l’Approccio dei costituZionalisti al tema. 14 ) P. FARNETI, La classe politica italiana dal liberalismo alla democrazia, Genova, 1979, 9ss., 122- 126, conclude che la coalizione monopolistica è stata una formula di governo in grado di assicurare la stabilità in un contesto politico in cui sia impossibile- al governo e all’opposizione- il predominio di un solo partito” ed ha funzionato essenzialmente come “struttura di conservazione”.

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conforme alla Costituzione che non consente di discriminare le persone a causa delle loro tendenze sessuali, così come non lo consente (anzi, ancor meno lo consente) la coscienza cristiana. Eppure contrario era lo stesso ministro della giustizia che aveva presentato da poco - luglio 2007 – un disegno di legge in cui quella medesima norma era contenuta! Evidentemente non si ricordava del suo stesso progetto. Un fatto davvero singolare, al quale non mi pare sia stato dato, neppure dai mezzi d’informazione, adeguato rilievo. 5.- La trasformazione dei partiti . Sono scomparsi i grandi partiti di massa, sostituiti da organizzazioni leggere, difficili da definire. Per valutare l’importanza dei partirti per la vita democratica basta pensare che di fatto hanno il monopolio delle elezioni : negli Stati moderni (democratico-pluralisti) i soggetti politici principali non sono gli organi costituzionali ufficialmente previsti dalle Costituzioni, ma i partiti politici i quali però non sono organi dello Stato ma organizzazioni private , sottolinea G.U. Rescigno, anche se i luoghi della decisione politica non sono più individuabili negli organi dirigenti dei partiti: ”al loro posto vi sono continue riunioni, pranzi, cene, interviste, smentite, accordi e rotture tra personaggi politici, ciascuno forte dei gruppi di pressione che temporaneamente rappresenta e sostenuto mezzi di comunicazione che gli sono amici” ( 15). Sono questi i partiti cui la Costituzione pensava? Mortati definisce il partito “parte totale” che “esprime una concezione parziale degli interessi della collettività caratterizzata dal perseguimento di certe finalità specifiche che differenziano ogni partito dall’altro”, ma ‘politico’ perché le “inquadra in una visione generale dei bisogni della vita associata” , ricordando che è per il “perseguimento o di principi superindividuali” che i partiti si differenziano dalle fazioni “ rivolte a sostenere determinate persone” . Possiamo dire che siano le caratteristiche di tutti i partiti attuali? L’ indistinzione programmatica, caratteristica dei partiti di centro, si è generalizzata. Ma nell’art.49 sono prefigurati partiti nei quali si esprimono gli orientamenti dei cittadini canalizzandone istanze e bisogni per trasmettendoli alle istituzioni; portatori di progetti, idee, ideologie( 16). La deologizzazione dei partiti è forse un tratto inevitabile del loro istituzionalizzarsi, farsi tutt’uno con le istituzioni, che li induce a una lotta politica per il potere che diventa il motivo ispiratore della loro azione e dei loro comportamenti e, alla fine, l’unico motivo. Così, nel contrasto , si produce un’omologazione che rende giustificato parlare di “classe politica” dotata di regole comuni che Guarino ( 17) definisce essa stessa un’istituzione, ricordando che, se il legame con gli elettori delle istituzioni sottostanti ai partiti e dei gruppi che le sorreggono è di tipo clientelare, il buon governo è un’illusione. Il sostegno di quei gruppi è dato in cambio di “favori” che i sostenitori attendono, che si traducono in favoritismi, corruzione, mal governo, espansione dei posti da occupare per estendere la sfera d’influenza e allargare sempre più la sfera dei beneficiati, quindi dei sostenitori. Se invece il legame, almeno in parte, è con organizzazioni della società portatrici di interessi collettivi - l’ambiente, la salute, la cultura - la pressione dei gruppi di sostegno sul personale politico può essere positiva: finché, almeno, non si istituzionalizzino completamente . L’immedesimazione con le istituzioni favorisce infatti l’idea che il loro interesse coincida con quello delle istituzioni di cui si appropriano.

15 )G. U. RESCIGNO, Corso di diritto pubblico, XI ed., Bologna,207, 305, 319 , il quale ritiene che, in definitiva, il significato più profondo delle riforme elettorali sia proprio “il tentativo di distruggere i tradizionali partiti di massa, come erano nati dopo la Resistenza e come si erano affermati da allora per alcuni decenni, e di sostituirli con altri tipi di partito”. 16 ) Secondo C. ESPOSITO, I partiti politici nello Stato democratico( 1959), ora in Scritti Giuridici scelti, vol. III°, Napoli 1999, 205, dall’art. 49 Cost. si deduce che “un partito che invece di rappresentare un’ideologia e tendere al bene comune rappresentasse le esigenze di un gruppo di pressione economico, e cioè un partito che fosse un gruppo di pressione mascherato, sarebbe da combattere, da espellere dal Parlamento”. 17 ) G. GUARINO, La classe politica come istituzione, in Nuove dimensioni dei diritti di libertà (Studi in onore di Paolo Barile), Padova 1990, 357ss.

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6.- Quali prospettive, nel vacillare delle certezze? Il fallimento pratico del bipolarismo rigido e coatto che si è voluto predicare è sotto gli occhi di tutti. A parte il frazionamento prodotto contro l’attesa semplificazione, a dimostrarne l’impraticabilità basterebbe il comportamento dell’opposizione, o meglio, del personale politico dei gruppi oggi all’opposizione che non accetta di restare fuori dal governo dove vuole, ad ogni costo, tornare . Anziché porre in essere quei comportamenti virtuosi insegnati dai manuali come tipici dei sistemi dell’alternanza - segnalare con serietà e argomenti gli errori degli avversari , fare proposte alternative responsabili che , tornando a vincere, si dovranno realizzare- i parlamentari del centro-destra hanno esercitato il ruolo di opposizione in un modo solo: con la continua , ossessiva ripetizione di un’unica, medesima frase “Prodi deve andarsene”. Impossibile resistere di fronte ai telegiornali dove per mesi hanno sfilato esponenti dei gruppi di opposizione ripetendo monotonamente le stesse parole. Ciò non facilita la realizzazione di una politica nell’interesse del paese , in una la situazione già delicata della coalizione, ostacolata da poteri personali frutto avvelenato della legge elettorale , del premio di maggioranza, delle alleanze pre-elettorali fatte al buio, senza conoscere la forza elettorale dei partner, consentendo il sorgere in Parlamento di partiti ’personali’ dotati di una forza fittizia ma disgregatrice( 18). La realtà italiana ha travolto anche affermazioni di illustri voci , in particolare che lo scrutinio maggioritario a turno unico, con il pluripartitismo, generi “alleanze fortissime” perchè la necessità “di spartirsi le circoscrizioni prima delle elezioni” presuppone un accordo per un’alleanza difficile da realizzare, ma che “una volta conclusa implica una collaborazione più profonda.( 19 ) : basta pensare alla ‘collaborazione’ del senatore Dini ,eletto nella maggioranza che ‘sostiene’ il governo Prodi, per rendersene conto! Il dibattito politico è traversato da luoghi comuni, confezionati come slogan di facile presa, spesso incostituzionali. Da più parti si sentono affermazioni in aperto contrasto non genericamente con la Costituzione, ma con disposizioni precise che configurano la forma parlamentare dove il luogo in cui il governo nasce e muore è il Parlamento, nel quale il governo si può anche modificare mediante una crisi o senza ( a seconda della natura della variazione). Così consentendo a partiti minori che abbiano conservato l’idea di un programma da perseguire ( e non di un semplice cartello elettorale), la possibilità di uscire da un governo che non realizzi gli obiettivi concordati senza il timore di farlo cadere e senza esserne continuamente colpevolizzati. Possibilità tutte fissate in Costituzione, ma guardate con aperto orrore e dispregio! Eppure, la duttilità che ne deriva potrebbe essere l’unica via, nella situazione concreta del nostro effettivo pluripartitismo, per facilitare la stessa governabilità; dopo aver trovato una strada seria per semplificare, senza mortificare, il sistema politico. Negli ultimi tempi alcuni luoghi comuni fissi e ossessivi sembrano vacillare: si insinua il dubbio sulle virtù taumaturgiche del sistema elettorale maggioritario, sulla sua capacità di modificare da solo il sistema politico ( 20) e produrre governabilità. Si sta manifestando un consenso diffuso sulla

18 ) Spesso ‘rilevanti’, nonostante le ridotte dimensioni, in quanto in grado di esercitare un potenziale di coalizione o di ricatto ( secondo la nota teoria di G. SARTORI, Teoria dei partiti e caso italiano, Milano, 1982, 66). 19 ) M. DUVERGER, I partiti politici , Milano, 1970, 400. 20 ) I dubbi vengono da più parti e sono espressi nei quotidiani come in saggi approfonditi: “Da tenere sempre a mente è che le leggi elettorali non possono supplire ai deficit di natura politica” scrive E. GALLI DELLA LOGGIA , Se tornano i due forni, sul Corriere della sera del 22 novembre 2007; G. BUSIA, I due difetti della proposta Veltroni, in Il Sole 24 Ore del 15 novembre 2007, nota con favore un cambio di rotta, la riscoperta di un ‘riformismo dolce’ “che abbandoni l’idea di onnipotenza delle leggi elettorali nel foggiare il sistema politico”, di un approccio “consapevole del fatto che quando una legge pretende di incedere troppo bruscamente sul quadro politico, questo si ribella e la scavalca”; per G. PASQUINO ( intervista in Il Velino Sera, 12 novembre 2007)la situazione italiana, la transizione incompiuta, è un problema che non a a che fare solo con le regole del voto: “Sembra che tutto dipenda dalla legge elettorale, mentre con ogni probabilità non è affatto così”; S. STAMMATI, nel suo approfondito studio Sul sistema elettorale tedesco e sulla sua applicazione in Italia, (Seminario di Astrid, 20 novembre 2007), riferendosi a due momenti di quel sistema , osserva che “appariva, e tanto più ora appare, essere il sistema politico fonte della legge elettorale, piuttosto che essere quest'ultima la fonte ( la causa) del primo” ; ”è difficile ritenere che un sistema elettorale possa significativamente condizionare il sistema politico-partitico – scrive P.A. CAPOTOSTI, Regole elettorali, cit. - semmai è quest’ultimo che

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necessità di togliere i premi di maggioranza ( 21) che inquinano la compagine governativa rendendone difficile l’azione coerente ed efficace . Pare anche tramontata, ma non in tutti, l’idea delle alleanza preventive che egualmente inquina, distorce i rapporti , altera il peso politico rispettivo, fornendone fittiziamente a chi non ne avrebbe alcuno: singole persone, partiti ‘personali’ ( 22). Ci si chiede finalmente se il bipolarismo coatto debba proprio essere conservato. Resiste tuttavia il mito della democrazia ‘delegata’, gabellata da anni come democrazia immediata , la sola che consentirebbe al popolo di scegliere . Oltre che contrario alla Costituzione – che affida al Parlamento la vita del Governo- quel mito è contrario allo stesso art. 1: in apparenza si esalta il popolo ,sacralizzando il mandato degli elettori dichiarato assolutamente intoccabile, nella sostanza si privano i cittadini di ogni scelta confinandoli in una posizione passiva di approvazione plebiscitaria vuota di opzioni effettive. Cos’ha a vedere una delega quinquennale ( praticamente in bianco) con l’art. 49 che vuole la partecipazione attiva e continua ( 23) dei ‘cittadini’ nella determinazione, attraverso i partiti, della politica nazionale? In nome della governabilità si tende a verticalizzare e centralizzare sempre più il potere, lasciando al popolo poteri formali senza sostanza. E spunta tra gli scienziati della politica- ci dice Michele Salvati e ci ricorda qui oggi Valerio Onida- il discorso sul ‘dittatore illuminato’. Cavalchiamo i secoli, all’indietro?

spesso riesce ad indurre comportamenti elettorali capaci di determinare forme di adattamento del metodo elettorale adottato”. 21 ) Che “spinge ( o costringe) a maggioranze eterogenee,,,, e fa prevalere la necessità di vincere su ogni altra preoccupazione di buon governo”( L. ELIA, Le riforme per cambiare il sistema, in Il Mattino, 24 novembre 2007) e risulta giustamente abbandonato dalle proposte in discussione. 22 )Lo stesso Veltroni , cui si deve il serio tentativo di costruire accordi e consensi per modificare l’attuale legge elettorale, puntando sull’omogeneità del programma condiviso e non su ‘cartelli’ eterogenei, in proposito sembra oscillare: su la Repubblica del 24 agosto 2007 ( Un partito maggioritario) parla di alleanze di governo che “si fanno e si disfano davanti agli elettori prima del voto”, più tardi abbandona invece l’idea -e lo stesso autore del progetto più accreditato ( Vassallo) parla del “vizio delle coalizioni pre-elettorali raccattatutto, troppo eterogenee per governare”- da ultimo, tuttavia, quell’idea ritorna. 23 )Supra, §3.

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SERGIO BARTOLE

Costituzione e costituzionalismo (problemi e prospettive del costituzionalismo contemporaneo nello spazio europeo e mondiale)

1. Obiettivo di questa relazione è quello di dare conto di una serie di esperienze in atto, sia a livello dottrinale che giurisprudenziale, evitando le suggestioni celebrative e sfuggendo alla tentazione di presentare una personale dottrina al riguardo come pure l’ampiezza del titolo consentirebbe di fare.

Costituzione e costituzionalismo sono espressioni che contrassegnano concetti le cui storie sono, in passato, procedute congiunte, se non sovrapposte, per un lungo tratto di strada. Ciò è particolarmente vero, se si ha riguardo alle costituzioni scritte, il cui avvento ha rappresentato uno dei momenti centrali della realizzazione delle dottrine del costituzionalismo nell’Europa occidentale e nell’America settentrionale fra il ‘700 e l’800. Nella prima parte del secolo scorso vi è stata, però, con il positivismo ed il formalismo giuridico, una svolta nella scienza del diritto costituzionale, per cui quelle due storie si sono separate ed hanno percorso vie diverse e distinte nella misura in cui si era arrivati ( probabilmente inevitabilmente ) ad ammettere che poteva aversi costituzione anche in assenza dell’accoglimento dei principi che si vogliono propri delle dottrine storiche del costituzionalismo. Ed anche chi nel formalismo giuridico non si riconosceva era distante da esse: basti pensare – ad esempio – a Schmitt con le sue preoccupazioni per l’elemento politico nelle costituzioni moderne, o a Heller con la sua attenzione per il potere statale come unità di decisione politica, o, ancora, a Smend con la sua dottrina dell’integrazione1 Pur risultando esso lontano dai rischi propri di questa separazione - sottolineati fra gli altri, ad esempio, da Jemolo2 - nello stesso dibattito alla nostra Assemblea costituente il riferimento esplicito alle tradizionali dottrine del costituzionalismo è, ad esempio, meno frequente di quanto non avvenga per altre dottrine politiche. Uno studioso attento alle ragioni di quelle tradizionali dottrine come Nicola Matteucci3 ricollega, ad esempio, il coinvolgimento dei nostri costituenti nella storia del costituzionalismo alla conoscenza che essi hanno avuto delle esperienze francesi e tedesche degli anni Trenta dello scorso secolo, pur ammettendo che in concreto molti degli obiettivi perseguiti e dei risultati conseguiti in sede di redazione del testo della Costituzione repubblicana concordano con alcuni dei tratti fondamentali degli assetti ideali degli ordinamenti statali quali il costituzionalismo, nei suoi secolari sviluppi, ha configurato e disegnato.

Ai nostri costituenti non era, del resto, estranea l’opinione che il costituzionalismo nella sua versione tradizionale rappresentasse una dottrina politica e giuridica incapace di fare fronte ai nuovi fenomeni sociali collettivi e ormai superata4, seppure recepita e, per così dire, introitata da altre e diverse

1 Per un esame di queste posizioni DOGLIANI, Introduzione al diritto costituzionale, Bologna 1994, 286 ss..

2 JEMOLO, La crisi dello Stato moderno, in A.A.V.V., La crisi del diritto, Padova 1953, 93 ss., il quale opportunamente

ricorda il contributo di CAPOGRASSI, Il diritto dopo la catastrofe, in Scritti giuridici in onore di Francesco Carnelutti, I,

Padova 1950, 1 ss.. 3 MATTEUCCI, La cultura politica nel periodo costituente, in A.A.V.V., L’Italia negli ultimi treant’anni, Bologna 1978, 251

ss.. 4 Ad esempio Mortati sosteneva che la stessa struttura dei poteri si dovesse “ concepire ed attuare in funzione di ordini

dei rapporti sociali…che si vuole instaurare “, come ricorda DE SIERVO, Introduzione, in Scelte della Costituente e

cultura giuridica, a cura di De Siervo, Bologna 1980, 13 ss., 19. Si pensi al rilievo dato al contributo di Mortati e della sua

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dottrine, meglio attrezzate per corrispondere alle esigenze dei tempi nuovi. Premevano allora preoccupazioni diverse, alle esigenze della democrazia partecipativa affiancandosi quelle dello Stato sociale, ai tentativi di trovare una conciliazione fra tutela dei diritti individuali e salvaguardia giuridica delle collettività, in cui il singolo svolge la sua personalità, sovrapponendosi la difficile ricerca di un equilibrio fra politica e società. Chi cerca gli antecedenti storici della Costituzione repubblicana difficilmente guarda agli esempi classici del costituzionalismo occidentale, ed anzi volge la sua attenzione a documenti, quali quelli del parlamentarismo francese razionalizzato e la Costituzione di Weimar, che alle attenzioni per la tutela dell’individuo sembrano anteporre quelle per la stabilità e continuità delle istituzioni governanti e per l’unità del corpo sociale. La stessa introduzione dell’istituto della giustizia costituzionale stenta ad essere letta come un recupero della garanzia dei diritti dei singoli per fare posto alle esigenze di una oggettiva tutela della coerenza e conformità a costituzione dell’ordinamento complessivo5. Non è un caso che un intelligente commentatore abbia segnalato il pericolo che di conseguenza nella giurisprudenza costituzionale venga privilegiata l’utilizzazione di quella che egli chiama la “ costituzione dei poteri “ rispetto alla “ costituzione dei diritti “: in effetti, vi è da chiedersi se questa preferenza costituisca realmente una rottura della unità della Costituzione ovvero non discenda da alcune delle scelte di fondo della Costituzione6.

Di costituzionalismo si è, però, ripreso a parlare esplicitamente in tempi più recenti allorché si è iniziato a discutere di Stato costituzionale non solo in sede di elaborazione scientifica della peculiare forma di Stato che così viene definita7, ma anche in una prospettiva più immediatamente operazionale, sia quando si è avviato il monitoraggio internazionale sull’adozione delle nuove costituzioni nei Paesi già appartenenti al Patto di Varsavia ovvero alla stessa Unione sovietica8 che in occasione del processo che ha portato all’adozione del Trattato istitutivo di una Costituzione per l’Europa, poi di fatto naufragato a causa dell’esito sfavorevole dei referendum di Francia ed Olanda9. Quest’ultima vicenda ha in particolare interessato anche il nostro Paese, in cui ci si è spesso interrogati sul rapporto fra costituzione repubblicana e costituzione europea alla luce dei principi del costituzionalismo, nonché sulle eventuali ricadute dell’avvento dell’ordinamento europeo sull’ordinamento nazionale repubblicano. Ed è, appunto, entro questi termini che ritengo di collocare lo svolgimento della relazione che mi è stata affidata, dapprima guardando al rapporto presente fra costituzione repubblicana e costituzionalismo e, poi, passando ad esaminare il rapporto fra ordinamento nazionale e costituzionalismo contemporaneo nello spazio sovranazionale ed europeo in particolare.

dottrina della costituzione materiale nel saggio di POMBENI, La costituente, Bologna 1955, 63 ss., con la particolare

sottolineatura dell’esigenza “ che la forza del potere pubblico costruisse una società come dovrebbe essere “ ( 66 ). 5 Anche se MATTEUCCI, op. cit., vi vede la traccia dell’influenza delle antiche dottrine anglosassoni della legge superiore

e della sua garanzia giurisdizionale. 6 LUCIANI, La “ costituzione dei diritti “ e la “ costituzione dei poteri “. Noterelle brevi su un modello interpretativo

ricorrente, in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, II, Padova 1985, 497 ss.. 7 Vedi CHELI, Lo stato costituzionale, Napoli 2006.

8 Sui primi monitoraggi LESAGE, Transition vers la démocratie et l’Etat de droit et changement constitutionnel, in

Constitutions d’Europe centrale, ientale et balte, a cura di Lesage, Parigi 1995; sulle scelte del costituzionalismo

democratico SOKOLEWICZ, The new role of the Constitution in the Postsocialist States of Central and Southeastern

Europe, in Ten yeras of the democratic constitutionalism, a cura di Dzialocha, Mojak e Wojtowicz, Lublino 2001, 17 ss.. 9 Cfr. MANCINI,Democrazia e costituzionalismo nell’Unione europea, Bologna 2004.

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2. Cinque sono - secondo Nicola Matteucci10, e vi si sente il peso della tradizione - i nuclei forti della dottrina del costituzionalismo: la costituzione scritta, il potere costituente, la dichiarazione dei diritti, la separazione dei poteri, il controllo di costituzionalità delle leggi11. A prima vista, tutti questi elementi sembrano essere rintracciabili nell’ordinamento repubblicano. E’, però, noto che anche in assenza di revisioni costituzionali più estese di quelle che pur si sono avute, il nostro ordinamento è stato assoggettato a trasformazioni di grande importanza12, in parte addebitabili ad un’evoluzione dell’interpretazione del testo della costituzione recepita ed implementata dalle fonti sub costituzionali, ed in parte ascrivibili – pur in assenza del principio dello stare decisis - alla giurisprudenza della Corte costituzionale o di altri giudici ed alla loro partecipazione ad attività di volta in volta qualificate come manifestazione di law finding ovvero, addirittura, di law making. L’esame che ci accingiamo a fare avrà dunque ad oggetto non soltanto il testo della costituzione, ma quella che viene definita, con espressione ormai abituale, la costituzione vivente, concetto – questo – il cui utilizzo comporta non già, come molti temono, il ripudio o accantonamento della costituzione scritta, ma la consapevolezza che la costituzione ha in atto assunto determinati significati che, sorretti dall’autorità degli organi che se ne sono fatti assertori, s’impongono all’osservanza dei consociati almeno sino al momento di una possibile inversione di rotta in ragione di diversa scelta politica del legislatore ovvero a seguito di un overruling di loro precedenti ad opera della Corte costituzionale o di altre autorità giudiziali. La conoscenza della nostra costituzione positiva passa necessariamente per la conoscenza della costituzione vivente, senza che ciò comporti la rinuncia all’impegno per una modifica di questa da parte di chi ritiene che l’esperienza abbia battuto strade non consentite dalla costituzione scritta.

a) In questo contesto si collocano le discussioni che si sono avute quando si è incominciato ad affermare che “ il potere costituente è esaurito “. E’ bene rammentare che questa affermazione prende le mosse dalla constatazione dei tentativi fatti, nel quadro del costituzionalismo del Novecento, di costruire, partendo dall’ordinamento internazionale, “ una sorta di nuova lex terrae, un diritto costituzionale comune, incentrato sui diritti fondamentali dell’uomo “13. Di fronte ad una innovazione di questa portata il potere costituente è apparso ridimensionato, se non altro come massima espressione manifesta del potere politico, al quale vengono sottratte scelte una volta ritenute fondamentali proprio perché principale manifestazione del potere costituente era – si diceva - l’affermazione e la salvaguardia dei diritti fondamentali: uno Stato che risultasse privo della garanzia dei diritti – statuiva l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 – non ha una costituzione e, quindi, non conosce esercizio di potere costituente. Il nostro ordinamento è sul piede di percorrere la strada di un progressivo distacco dal potere costituente, o forse – si dice - ne ha già percorso un tratto, se è vero che specialmente nella prassi giudiziaria, ma non solo in questa sede, e comunque anche aldilà di eventuali ricadute comunitarie, si avverte spesso la tendenza a trovare la garanzia dei diritti umani e delle libertà fondamentali in fonti sovranazionali, e pertanto in sedi

10

MATTEUCCI, Lo stato moderno, Bologna 1993, 128 11

Va aldilà di questa tipizzazione BALDASSARRE, Una risposta a Guastini, in

www.associazionedeicostituzionalisti.it/dottrina/teoria generale, con una evidente torsione verso il versante più

strettamente politico del costituzionalismo considerato come concezione che attiene al rapporto fra potere e diritto,

per cui questo deriva dal riconoscimento di se stessi come moltitudine unita e identificata da valori comuni. 12

Sia concesso rinviare a BARTOLE, Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana, Bologna 2004. 13

DOGLIANI, Potere costituente e revisione costituzionale nella lotta per la costituzione, in ZAGREBELSKY – PORTINARO

– LUTHER, Il futuro della Costituzione, Torino 1996, 252 ss, 274 – 275.

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diverse dalla Costituzione. Cioè, il documento che per ragioni di storia e tradizione dovrebbe costituire la manifestazione più diretta ed immediata del costituzionalismo, non copre più completamente la disciplina di uno degli elementi la cui presenza si deve ritenere necessaria perché si possa avere un costituzionalismo realizzato.

Per vero, sia la dottrina dei c.d. controlimiti che il recente orientamento della Corte costituzionale, per cui il legislatore ordinario è tenuto al rispetto della CEDU solo nella misura in cui le prescrizioni di questa e la giurisprudenza del suo giudice non collidono con la Costituzione, sembrerebbero implicare più che una mera, interna sovraordinazione della Costituzione alle manifestazioni del patrimonio costituzionale europeo, una esplicita preferenza per le tutele da essa apprestate e ritenute, in ipotesi, più complete e soddisfacenti. Ma è anche vero che negli anni la Corte costituzionale non ha mai avuto occasione di far valere i controlimiti, e sempre più frequentemente fa ricorso alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo per individuare l’estensione della garanzia offerta ai singoli dai diritti costituzionalmente sanciti, ovvero per introdurre nel nostro ordinamento garanzie precedentemente sconosciute14.

Gli sviluppi descritti non sono, però, il frutto di una scelta dell’ordinamento italiano puntualmente collocabile nel tempo ad un dato momento storico, sono, invece, il risultato di un lungo processo, che ha visto accumularsi attorno e sopra la Costituzione un plesso di significati normativi per cui – come già si è accennato – la Costituzione che noi oggi usiamo non è più soltanto il documento scritto adottato alla fine del 1947 dall’Assemblea costituente, ma è la risultante delle operazioni interpretative di quel testo che spesso si risolvono in fatti di integrazione di questo non facilmente riconducibili a mere applicazioni di stretta interpretazione delle disposizioni costituzionali. La Costituzione scritta appare così anzitutto come il punto di riferimento di una sequela di interpretazioni/trasformazioni alla cui conoscenza il documento scritto non è sempre bastevole se si vogliono soddisfatte quelle esigenze di chiarezza e certezza che i padri fondatori del moderno costituzionalismo volevano perseguire con la redazione scritta delle costituzioni. Ne viene confermata l’intuizione di Matteucci15, che nella tensione fra fatto e documento, fra rigidità di questo ed elasticità e flessibilità dell’ordine effettivo, il documento formale della Costituzione rivela intera tutta la sua importanza nei momenti di tensione e rottura, quando “ alla realtà esistente viene contrapposto il progetto politico di un novus ordo “, laddove in altri tempi, connotati da più tranquilla vita costituzionale, l’ordine effettivo tende a coincidere con la costituzione così come interpretata, è cioè il momento della costituzione vivente a prevalere in ragione del progressivo accumularsi dei significati normativi ascrivibili alle scelte ed ai comportamenti degli interpreti ed attori costituzionali. Dire che ciò comporta l’abbandono di uno dei nuclei forti del costituzionalismo è forse eccessivo, anche se è vero che questi svolgimenti mettono in dubbio quella contrapposizione fra ordinamenti di diritto continentale ed ordinamenti di common law che ha visto, ad esempio, il Regno Unito sottrarsi alla spinta a seguire l’esempio degli Stati che negli anni si sono venuti dotando di una costituzione scritta. Certo ha il suo merito Pace quando indica nel testo della Costituzione un punto di riferimento necessario, e parla conseguentemente dell’indefettibile “ angolo visuale della

14

Qualche esempio in BARTOLE, op. cit., 322 ss., ma si vedano anche le motivazioni delle sentenze della Corte

costituzionale 22 – 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349. 15

MATTEUCCI, op. cit., 129.

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Costituzione “ facendone una questione di rispetto dei dettami del costituzionalismo16, ma è frequente la condivisione dell’opinione che “ la testualità sembra rappresentare sempre meno il dato rilevante della giurisprudenza costituzionale “17 e non è rara la constatazione di ricorrenti vicende di decostituzionalizzazione, se non addirittura di fenomeni, anche se non sempre traumatici, di discontinuità rintracciabili nel nostro ordinamento18

b) D’altra parte, se è vero che in passato nella dottrina italiana non è mancato chi ha visto nel potere costituente l’esercizio di una funzione che si risolve nella formazione dell’ordinamento dello Stato e della sua fondamentale struttura in quanto creazione di un ordine radicalmente diverso da quello precedente, ed è, perciò, destinata a confondersi con la sovranità intesa come assolutezza del potere19, vi sono elementi che suggeriscono prudenza nell’automatica estensione di quell’insegnamento al caso italiano. Anzitutto l’idea che attraverso l’esercizio del potere costituente l’adozione di una nuova costituzione scritta si configuri come l’atto fondante di un ordinamento integralmente nuovo, è nel caso della Repubblica Italiana messa largamente in discussione dalle vicende della transizione dalla Monarchia sabauda alla nuova Costituzione, che rivelano i segni di una non solo sotterranea continuità, per cui – come è stato autorevolmente sottolineato20 – non vi è stata sostituzione di uno Stato nuovo ad uno Stato vecchio e la presente Repubblica non è che l’epifania contemporanea dell’antico Stato monarchico. Ridimensionato al vertice, il potere costituente appare, quindi, ridimensionato anche alla base, al livello delle radici dell’ordinamento, con un ulteriore riduzione dell’incidenza normativa per tradizione considerata sua propria . Come è ben noto, non ha avuto fortuna la teoria proposta da Costantino Mortati, che ricostruiva la innegabile sopravvivenza del diritto prerepubblicano dopo la caduta del regime fascista, il periodo della costituzione transitoria e l’entrata in vigore della nuova Costituzione, come una vicenda di sua recezione da parte di un ordinamento nuovo21. Proprio Crisafulli ha opportunamente ricordato, anche con richiami al contributo di Carlo Esposito, che è la stessa Costituzione a presupporre la permanenza in vigore dell’ordinamento italiano nel suo complesso22, ed è inoltre bene rammentare che non poco ha pesato sull’affermazione del principio di continuità la giurisprudenza anche di giudici superiori volta a qualificare come programmatiche molte disposizioni costituzionali, incapaci, pertanto, di immediatamente sostituirsi alla legislazione ordinaria già in vigore e, quindi, di abrogarla. La valutazione dell’impatto della Costituzione sulle vicende della complessiva forma associata del popolo italiano richiede, dunque, un approccio più articolato di quanto non consentano le semplificanti geometrie delle dottrine del potere costituente. Anche se di recente non è mancata una riproposizione dell’opinione che l’oggetto della costituzione “ tende…, nel suo complesso, a differenziarsi, come costitutivo dell’esserci e dei fondamenti di un determinato ordine giuridico “23 bisogna avere consapevolezza che l’ordine nuovo introdotto dalla Costituzione ha coperto non la 16

PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo, in Quad. cost. 2001, 35 ss., 42. 17

MODUGNO, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, in www.costituzionalismo.it/articolo. 18

RUGGERI, Teorie e “ usi “ della Costituzione, in Quad. cost. 2007, 519 ss., 520 – 521, e Interpretazione costituzionale e

ragionevolezza, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. 19

LUCIANI, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Rivista di diritto costituzionale, 1996, 124 ss., in particolare 131

ss.. 20

CRISAFULLI, La continuità dello Stato, in Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano 1985, 1 ss.. 21

MORTATI, Abrogazione legislativa e instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale, in Scritti giuridici in

memoria di Piero Calamandrei, V, Padova 1958, 124 ss.. 22

CRISAFULLI, op. cit., 21. 23

MODUGNO, op. cit..

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totalità dell’esperienza giuridica della nostra comunità nazionale associata, ma solo una parte, peraltro estesa e largamente prevalente, di essa. Il che mette in discussione l’idea che sempre l’instaurazione di una costituzione origini da una rivoluzione, cioè da una frattura di continuità, almeno sin quando e nella misura in cui per rivoluzione s’intenda l’estinzione di uno Stato e la nascita di uno Stato nuovo24.

c) E veniamo ad un’ulteriore componente della dottrina del costituzionalismo, la separazione dei poteri. Nella sua elaborazione si è partiti dalla constatazione dell’esistenza nell’ordine statuale di un potere unitario e preminente, la sovranità, la cui appartenenza ad un unico soggetto o ad un unico organo costituisce, per storica esperienza, motivo di altissimo rischio per l’esercizio delle libertà e dei diritti civili e politici. Da qui l’esigenza di dividere la sovranità ripartendo le funzioni derivate fra istituzioni separate e diverse. La concezione che riconduce ad unità nella sovranità l’insieme delle potestà pubbliche può certamente avere un rilievo descrittivo, come è stato detto25, ma costituisce anche la premessa di un discorso precettivo. Individuare all’interno della sovranità più potestà è sempre stata operazione preliminare alla conseguente assegnazione delle potestà medesime ad organi o soggetti distinti, che è parte del nucleo fondamentale della dottrina del costituzionalismo occidentale come teoria della limitazione del potere. Si tratta di insegnamento storicamente destinato da noi in Europa a trovare compiuta realizzazione anzitutto all’interno di un ordinamento statale dato. Solo il costituzionalismo americano ha trasferito quell’insegnamento al livello dei rapporti fra ordinamenti elaborando con il federalismo il modello di una forma di Stato che mette in discussione l’unicità della sovranità all’interno di un ordinamento nazionale con il trasferimento di una frazione di essa ad una struttura comune a tutti gli ordinamenti interessati e ad essi in origine esterna.

Comparare questa vicenda con quella in corso di svolgimento dell’Unione europea può sembrare azzardato, specie dopo i referendum francese ed olandese, che hanno visto due Stati bloccare l’approvazione del Trattato istitutivo di una costituzione per l’Europa. Ma è anzitutto evidente – e lo dimostrano chiaramente alcuni dati di diritto comparato – che l’adesione all’Unione europea non comporta per gli Stati membri, e dunque anche per l’Italia, soltanto una limitazione di sovranità, come vorrebbe l’art. 11 della nostra Costituzione. Siamo, invece, in presenza di un vero e proprio trasferimento di poteri sovrani, come più apertamente ammettono le costituzioni di alcuni Stati membri dell’Unione26. Il che comporta per l’Italia l’inserimento in un ordinamento più vasto con una conseguente vicenda di distribuzione del potere in qualche modo comparabile a quella tipica del federalismo, anche se non necessariamente con esso identificabile e, forse, collocabile a metà strada fra organizzazioni internazionali e Stati federali nella prospettiva – come è stato detto - di una moderna confederazione27. Ed è fenomeno che ha, tuttavia, le sue giustificazioni politiche non lontane da quelle della tradizionale dottrina della separazione dei poteri, nella misura in cui l’avvento dell’Unione europea è visto come uno strumento atto ad assicurare non solo la sicurezza e la pace fra le nazioni, ma anche ad allargare gli spazi di fruizione della libertà dei singoli ben aldilà della sfera

24

Il cenno riguarda il contributo di FERRARA, L’instaurazione delle costituzioni. Profili di storia costituzionale, in Studi in

onore di Leopoldo Elia, I, Milano 1999, 593 ss., in antitesi ( seppure con l’indicazione che l’instaurazione costituzionale

si riconnette con una rivoluzione e/o con una guerra ) a CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, I, Padova 1970, 108

– 109. 25

LUCIANI, op. cit., 155. 26

Cfr., ad esempio, artt. 88 Cost. francese, 24 Cost. tedesca, 93 Cost. spagnola. 27

LA PERGOLA, Sguardo sul federalismo e i suoi dintorni, in Diritto e società 1992, 491 ss..

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economica. Indubbiamente vi è una estensione delle tutele se queste superano la traccia dei confini nazionali e, per la condizione di pace addebitabile all’assenza di conflitti bellici nel nostro continente, quelle tutele sono rese più stabili e certe nella dimensione sovranazionale.

d) Tutto ciò ha concorso all’affermarsi di una ormai radicata convinzione che la protezione della persona vada assicurata con strumenti, appunto, sovranazionali nei confronti degli stessi Stati di cui i singoli sono cittadini. Se, dunque, nel campo della tutela delle minoranze nazionali, religiose o soltanto linguistiche il principio dell’international concern ha ormai sostituito la credenza che si trattasse di materia riservata agli Stati nazionali28, la storia ha più in generale dimostrato l’inadeguatezza dello strumentario giuridico tradizionale che affidava la protezione dell’individuo all’esclusiva prerogativa dello Stato di appartenenza, e se ne è tratta la conseguenza che la salvaguardia dei diritti individuali e dei principi del governo democratico richiedono una garanzia collettiva: “ there are no boundaries to the denial of liberty “29. D’altra parte, la portata universale di quelle garanzie implicava che di necessità gli Stati si impegnassero collettivamente al loro riconoscimento anche nei confronti di individui che, pur non essendo loro cittadini, si trovino sul loro territorio quale che sia la ragione di questa presenza30. E pertanto, anche aldilà di pur ricorrenti e sempre possibili suggestioni naturalistiche, la diffusa convinzione che la protezione dei diritti ha una dimensione universale, fa apparire sempre più giustificato il ricorso a fonti extranazionali, tanto più che ancora una volta solo per il tramite dell’avvento di quelle fonti si può realizzare quel rapporto di causa ed effetto fra la pace e la sicurezza internazionali, da un lato, e la salvaguardia della persona umana, dall’altro lato, che gli autori di tutti gli strumenti internazionali in materia hanno avuto presente.

Non è un caso, quindi, che l’evoluzione dell’Unione, che tanto affida la realizzazione dei suoi obiettivi alla garanzia delle libertà di circolazione e stabilimento delle persone nel suo ambito, abbia seguito – anche in ragione della unitarietà dei sistemi di salvaguardia della persona - percorsi paralleli a quello della crescita del sistema europeo di protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, e che la Convenzione, firmata a Roma nel 1950 ed a tale scopo indirizzata nel contesto regionale europeo, sia entrata a far parte di quel patrimonio costituzionale europeo che la Corte di giustizia del Lussemburgo impone al rispetto delle autorità comunitarie.

e) L’esistenza di un autonomo e speciale sistema di tutela giurisdizionale dei diritti rappresenta una componente essenziale del costituzionalismo. Non è un caso che proprio su questo terreno sia stata giuocata una partita fondamentale del confronto fra poteri sovrani trasferiti all’Unione e sovranità residua degli Stati membri dell’Unione. La dottrina dei controlimiti con la conseguente affermazione della perdurante giurisdizione delle Corti costituzionali nazionali a garanzia del rispetto dei diritti umani e dei principi costituzionali fondamentali è valsa a dare sostanza accettabile – in nome dell’osservanza dei principi del costituzionalismo - ad una rivendicazione di sovranità altrimenti suscettibile di apparire motivata dalla sola riemersione di spinte nazionalistiche e da preoccupazioni di potere. Riservandosi il compito di giudicare in ultima istanza la compatibilità degli impegni comunitari con i singoli ordinamenti nazionali, le Corti dei vari Paesi si sono in definitiva assunte

28

Si vedano i contributi in BARTOLE – OLIVETTI RASON – PEGORARO, La tutela giuridica delle minoranze, Padova 1998. 29

JACOBS – WHITE, The European Convention on human rights, Oxford 1996, 5. 30

CARRILLO – SALCEDO, Article 1, in PETTITI – DECAUX – IMBERT, La Convention Européenne des droits de l’homme,

Paris 1995, 135 ss..

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anche la responsabilità di operare quale ultimo presidio della sovranità dei rispettivi Stati. Non è, forse, un caso che, ad esempio, la Corte costituzionale italiana ( ma non solo essa ) abbia tanto resistito alla prospettiva di giovarsi della c.d. pregiudiziale comunitaria per investire la Corte europea di giustizia di questioni di interpretazione del diritto comunitario, così collocandosi sullo stesso piano di un organo quale il Consiglio costituzionale francese, di cui – proprio a differenza del nostro giudice delle leggi - è generalmente ammessa la difficile riconducibilità nel novero degli organi giurisdizionali31. Proprio l’esigenza che la Corte sente fortemente di rappresentare come giudice un istituto essenziale per una piena implementazione dei principi del costituzionalismo dovrebbe, invece, costituire una remora a qualificare la propria attività in termini che le impediscono un’altrimenti ovvia assimilazione ad organi comunemente definiti come giurisdizionali.

3. Per più aspetti, dunque, la costituzione vivente della Repubblica italiana conosce forme di implementazione delle dottrine del costituzionalismo che si discostano dal modello tradizionale del costituzionalismo europeo continentale. Il potere costituente ha conosciuto un innegabile ridimensionamento. L’istanza universalistica che guida l’attuale salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali ha profili necessariamente sovranazionali e non consente più di far dipendere l’affermazione e l’attuazione di quella salvaguardia dalle sole decisioni sovrane di un popolo identificato con una nazione, con conseguente restrizione delle tutele ai soli componenti di questa. La concorrenza o parziale sostituzione di fonti sovranazionali a fonti di diritto interno in materia di diritti umani è del resto ammessa in qualche modo da quelle costituzioni che – come la spagnola ( art. 10.2, preso ad esempio dall’art. 20 della Costituzione rumena ) – richiedono che le norme costituzionali relative ai diritti fondamentali ed alle libertà riconosciute si interpretino in conformità ai documenti internazionali in materia. Come si è detto, un vicino pronunciamento della Corte costituzionale può indurre a ritenere che essa segua in proposito un diverso orientamento. E’ probabilmente il frutto di una doverosa cautela, ma la pretesa della Corte di sindacare sempre la conformità a Costituzione delle norme convenzionali prima di utilizzarle quale parametro interposto del giudizio di costituzionalità di norme di diritto interno ex art. 117, primo comma, sembra confliggere non solo con l’atteggiamento assunto nel passato dalla Corte quando ha frequentemente fatto rinvio alla giurisprudenza dei giudici di Strasburgo per identificare il contenuto attuale di talune garanzie dei diritti32, ma, forse, addirittura anche con quei passi delle stesse, più recenti decisioni in cui si vincola l’interpretazione della Convenzione all’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo33. Ma aldilà di questo episodio, le cui ricadute sono ancora tutte da verificare, comunque il ricordato allargamento di prospettive comporta che la salvaguardia dei diritti di fatto praticata nel nostro Paese travalica la dimensione nazionale per attingere a significati elaborati in un contesto più ampio. Secondo taluno, anzi, la stessa dimensione della tutela convenzionale europea dei diritti

31

Vedi Corte costituzionale ord. n. 536/1995 32

Cfr. in I costituzionalisti e la tutela dei diritti nelle corti europee, a cura di PANUNZIO, il resoconto della discussione

sul tema La Corte europea dei diritti dell’uomo e i diritti nazionali, introdotta da ZAGREBELSKY, 709 ss., nonché TEGA,

La CEDU e l’ordinamento italiano, in I diritti in azione, a cura di CARTABIA, 67 ss.. 33

La applicazione ed interpretazione delle norme convenzionali compete in prima battuta ai giudici degli Stati membri,

ma – aggiunge la Corte – “ la definitiva uniformità di applicazione è invece garantita dall’interpretazione centralizzata

della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti umani “ ( sent. n. 349/2007 ).

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potrebbe essere trascesa, essendo il nostro giudice costituzionale autorizzato a trarre ispirazione da precedenti giudiziali delle più svariate origini e provenienze34.

Che questa vicenda possa incontrare all’interno del nostro ordinamento qualche difficoltà in vista della conciliazione della nuova estensione o, meglio, dimensione delle tutele, da un lato, e di quelle che si vogliono identificare come le nostre tradizioni giuridiche, dall’altro lato, è fuori discussione. Certamente con una qualche frequenza andiamo accorgendoci, anche aldilà del rapporto fra diritto costituzionale e diritto convenzionale, che un conflitto fra i diritti della prima e quelli della seconda generazione è sempre immaginabile, se questi ultimi vengono interpretati come mere pretese a prestazioni prefigurate in via autoritativa senza attenzione al profilo della libera scelta individuale, come pure – ad esempio – il diritto alla salute esigerebbe. Di recente il Consiglio di Stato ha – addirittura - fatto valere per una volta, seppure in termini discutibili, il limite dei controlimiti, affermando la prevalenza appunto delle ragioni della realizzazione del diritto alla salute sui principi che reggono il mercato comunitario35.E’, però, anche immaginabile ( vista, ad esempio, l’esperienza in materia di fecondazione assistita ) che il nostro ordinamento incontri difficoltà a recepire talune delle punte avanzate delle tutele individuali accordate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di privacy e di preferenze sessuali, di unioni familiari e di fatto, nonché di atti di disposizione del proprio corpo per interruzione della gravidanza o della propria vita in caso di eutanasia. Forse è da escludere che ne possa risultare una preclusione drastica nei confronti di eventuali novità con loro conseguente integrale rifiuto in nome di scelte conformi a quelli che si pretendono essere i principi recepiti dalla nostra tradizione giuridica. Sarà necessario, ancora una volta, un bilanciamento in sede di interpretazione36, ed è forse in questa prospettiva che la Corte costituzionale ha scelto la via della prudenza ed ha formulato le riserve di cui si è detto, riservandosi con il potere di decidere quello di procedere direttamente al bilanciamento.

D’altra parte, sembra difficile immaginare giudizi in cui emerga l’accennato conflitto fra diritto costituzionale interno e diritto convenzionale, i quali siano suscettibili di portare alla proposizione di questione di costituzionalità dinanzi alla Corte. Possibilità vi potranno essere soltanto se e quando l’applicazione del diritto interno comporti tutele inferiori a quelle fornite dal diritto convenzionale e, quindi, quello ( e non questo ) sia incostituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma. Ma proprio le vicende risolte con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 stanno a dimostrare che, almeno in linea di principio, la violazione del paradigma convenzionale si sovrappone a quella della norma costituzionale interna. A meno di non pensare ad un conflitto di diritti diversamente imputabili a soggetti diversi e diversamente regolati dalle due fonti, si tratterebbe, dunque, di vicenda non riconducibile a quella ipotizzabile in base allo spunto offerto dalla Corte, che pare accennare all’evenienza inversa di tutele costituzionali superiori a quelle convenzionali. Ma in tal caso – ove effettivamente ricorra - la doglianza potrebbe anche non interessare in ultima istanza la competenza del giudice delle leggi, ove il conflitto fosse direttamente resolubile con l’applicazione della norma costituzionale in luogo di quella convenzionale, e conseguente eventuale impugnazione della decisione inadempiente nei modi consentiti dalla giurisdizione ordinaria. Si ricordi che rettamente

34

Vedi il discorso di ZAGREBELSKY, Cinquanta anni di attività della Corte costituzionale, in

www.cortecostituzionale.it/ita/attivitàcorte/relazioniannualidei presidenti/2006/relazione zagrebelsky.asp. 35

Consiglio di Stato 8 agosto 2005 n. 4207 in Giur.cost. 2005, 3391, con osservazioni di MORBIDELLI e Di SERI. 36

Cfr. CARTABIA, Commento all’art. 52, in BIFULCO – CARTABIA – CELOTTO, L’Europa dei diritti, Bologna 2001, 360 ss..

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l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prescrive che nessuna delle disposizioni della Carta stessa può essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalle costituzioni degli Stati membri.

4. Il quadro tracciato offre l’occasione per ripensare al rapporto fra ordinamento costituzionale e costituzionalismo. Indubbiamente per più versi l’inserimento della prospettiva sovranazionale sembra avere cambiato modi e forme tradizionali del costituzionalismo, la cui realizzazione non fa più soltanto pernio sullo Stato, pur restando integro il contenuto di principio in cui esso si esprime. Ma si tratta di vicenda che va letta in una prospettiva storica. La stessa giurisprudenza della Corte europea del Lussemburgo ci avverte che, anche ad accogliere la tesi dell’esaurimento del potere costituente, non sarebbe stato possibile parlare di patrimonio costituzionale europea, almeno per quanto ha tratto alla tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, se in precedenza quel potere non fosse stato esercitato. E’ noto che per la definizione dei diritti di libertà da essa riconosciuti quella Corte attinge alle tradizioni comuni degli Stati membri dell’Unione, ovvero da quello che essa stessa definisce come il patrimonio costituzionale europeo37. Tant’è che non mancano casi in cui addirittura il giudice europeo si rifà direttamente, senza ulteriore elaborazione, alle previsioni esplicite delle Costituzioni degli Stati membri,com’è avvenuto nel caso Omega38. Le operazioni ricognitive delle tradizionali garanzie e il riconoscimento dell’esaurimento del potere costituente restano così indissolubilmente legate. Se la giurisprudenza delle Corti costituzionali europee in materia di controlimiti ha voluto essere una difesa della storica sovranità degli Stati, mediata per il tramite della difesa delle loro attribuzioni di controllo di costituzionalità, con la Solange 239 il giudice di Karlsruhe ha doverosamente riconosciuto che almeno in via di principio quella difesa non aveva più ragione di essere.

Certamente la crisi del potere costituente ha risentito delle vicende che hanno inciso sulla identificazione dei contenuti della sovranità. Questa non è più illimitata, in quanto non solo per disposto costituzionale è soggetta a giuridica disciplina ( essa si esercita “ nelle forme e nei limiti della Costituzione “: art. 1 Cost. ), ma si esprime in attribuzioni oggi divise fra Stato ed Unione europea. L’indivisibilità della sovranità, o meglio l’esclusiva appartenenza allo Stato delle funzioni fondamentali che da essa si facevano derivare, sembra essere ormai un retaggio del passato, e ciò che non si era realizzato con l’avvento dell’ordinamento regionale, si è manifestato con la subordinazione dello Stato alle decisioni prese in sede di esercizio collettivo e paritario delle attribuzioni trasferite agli organi dell’Unione ( “ in condizioni di parità con gli altri Stati “, dice l’art. 11 Cost. ). In effetti, ancora di recente la Corte costituzionale, in un giudizio sulla legittimità delle leggi in via principale fra Stato e Regione Sardegna, ha escluso che nel nostro ordinamento Regioni e Stato siano collocati su un piano di parità giuridica, in quanto le prime non possono aspirare ad una condizione giuridica diversa dall’autonomia, spettando la sovranità – dice la Corte con affermazione che può essere discussa sotto altro profilo - esclusivamente e soltanto al secondo40. Si è di conseguenza escluso che, ad esempio, la revisione degli Statuti speciali possa essere il risultato di un accordo fra Stato ed ente autonomo, tanto più – aggiungerei – che la relativa procedura può essere

37

Sul quale vedi PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna 2002, passim. 38

Corte europea di giustizia 10 ottobre 2004, C-36/02, Omega 39

Tribunale costituzionale federale 22 ottobre 1986, n. 10. 40

Corte costituzionale 24 ottobre – 7 novembre 2007 n. 365.

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iniziata anche indipendentemente da un’iniziativa di quest’ultimo. Per converso, nella compiuta elaborazione del suo pensiero in materia di rapporti fra diritto comunitario e diritto nazionale sviluppata dalla Corte nella sentenza n. 170/1984, essa non ha esitato a ragionare di sistemi i quali, proprio perché “ configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati “, meriterebbero una posizione paritaria. Così, andando aldilà della terminologia usata in Costituzione, si è parlato di potere trasferito agli organi comunitari che si manifesta in atti cui sono attributi la forza e il valore propri di quella manifestazione tipica della sovranità statale che è la legge. Un tale assetto sposta, come si è detto, la realizzazione del principio di separazione dei poteri dal piano interno a quello sovranazionale.

In effetti, la distinta ripartizione di questi poteri fra Stato ed Unione non è poi molto chiara, se è vero che, già commentando i principi direttivi enunciati nella Dichiarazione di Laeken per quanto ha tratto al riassetto della ripartizione delle competenze dell’Unione, si è sottolineata la necessità di “ trovare una “ giusta proporzione “ tra una sicura flessibilità e una precisa delimitazione della competenza “41. La scelta, fatta nel Trattato istitutivo di una costituzione per l’Europa, di indicare gli ambiti materiali suscettibili di essere interessati dagli interventi europei sembrerebbe non essere, di per sé, sufficiente, pur se collegata alla individuazione di tre diversi tipi di competenze ed alla operatività del principio di residualità, giacché sia il principio di sussidiarietà ( benché ristretto al solo campo delle competenze concorrenti ) che quello di proporzionalità non sono criteri di attribuzione delle competenze, ma ne regolano l’esercizio, non escludendo, quindi, una possibile coesistenza di competenze europee e nazionali nella stessa materia42. Inoltre, e per altro verso, che la scelta da parte dell’Unione di utilizzare le sue competenze comporti più o meno estesi margini di discrezionalità politica è innegabilmente la prova di quanto ampia sia la disponibilità dei suoi poteri che caratterizza la posizione dell’Unione, dando anche ragionevole conto delle conclusioni raggiunte dalla Corte di giustizia europea nella sua giurisprudenza in ordine alla qualificazione dell’ordinamento comunitario. Come opportunamente ha sottolineato Weiler, da quella giurisprudenza e non solo da essa risulta che con il tempo l’ordinamento giuridico europeo da organizzazione internazionale in senso classico si è trasformato in un ordinamento giuridico costituzionale che la Corte qualifica dapprima come “ << Nuovo ordinamento giuridico >> simpliciter “, e ricostruisce poi come fondato su una costituzione che essa identifica nei Trattati europei di cui così riformula l’originaria natura adottando “ una esplicita retorica costituzionale “43.

Questi sviluppi hanno dato, come si è detto, nuova linfa al dibattito sul costituzionalismo, ma in termini tali che l’ordinamento costituzionale prefigurato all’origine nella Costituzione repubblicana ha subito una rilevante trasformazione. Se vogliamo utilizzare le dottrine del costituzionalismo quale chiave interpretativa dell’assetto contemporaneo della Repubblica bisogna alzare lo sguardo aldilà dei confini statali. L’esperienza dell’Unione europea ha un peso che trascende quello delle politiche che essa persegue, individualmente considerate. E sarebbe ingiusto sostenere che i riferimenti, che al costituzionalismo si sono fatti e si fanno molto frequentemente nell’accennata prospettiva, siano epidermicamente da addebitare al solo fatto che in anni recenti si andava prefigurando la possibilità 41

MANGIAMELI, La competenza europea, il suo esercizio e l’impatto sugli ordinamenti degli Stati membri, in

MANGIAMELI, L’ordinamento europeo, II – L’esercizio delle competenze, Milano 2006, 39, 42

Si vedano i contributi di MOSCARINI, Il principio di sussidiarietà, e SCACCIA, Il principio di proporzionalità, in

MANGIAMELI, L’ordinamento europeo cit., 153 ss. e, rispettivamente, 225 ss.. 43

WEILER, La Costituzione dell’Europa, Bologna 2003, 404 ss..

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dell’adozione di una costituzione scritta per l’Europa, come lo stesso ultimo capitolo dell’edizione italiana di Weiler potrebbe indurre il lettore frettoloso a credere44. Il fatto è che il semplice uso della terminologia costituzionale creava attorno al nuovo auspicato documento aspettative di sviluppi ulteriori, ovvero rendeva possibile la deduzione logica di una catena di conseguenze quale più e quale meno agevolmente riconducibile dalle implicazioni che l’uso dell’espressione “ costituzione “ comportava o si voleva comportasse nella sua accezione tradizionale. Comunque è questo un terreno sul quale qui conviene avventurarsi per portare avanti l’indagine intrapresa.

Esemplare è a tale riguardo la polemica innestata dalle ben note tesi di Dieter Grimm45, di cui vi è traccia da molti ritenuta preoccupante nella nota sentenza del Tribunale costituzionale tedesco relativa al Trattato di Maastricht46. La pretesa che non fosse possibile l’adozione di una costituzione in assenza di un corpo sociale coeso ed unitario, quale solo la nazione in senso storico, culturale e linguistico potrebbe in ipotesi assicurare, ha rimesso al centro del problema il potere costituente, insinuando un dubbio sul suo asserito esaurimento. Ma se del potere costituente si predica l’identificazione con la nazione, si fa una scelta che pare riportare ancora più indietro la discussione: anche da questo riguardo non si può prescindere dalla considerazione della storia politica europea. E’ vero che nel quadro dell’Europa a cavallo fra i due secoli, dalla penisola iberica agli Urali, il concetto di nazione ha ripreso attualità, in quanto vi si è visto un fattore di legittimazione capace di prendere il posto di altri e ormai tramontati fattori di legittimazione, quali le varie ideologie di matrice comunista o fascista. Ma quanto è utilizzabile quel concetto nel quadro di un assetto istituzionale che è sorto per ridimensionare il peso delle identità nazionali che sono state nel passato fra i fattori più rilevanti di destabilizzazione? Nel contesto europeo la fruizione dei diritti è oggi retta dal principio di non discriminazione, e resta preclusa l’utilizzazione in funzione della delimitazione dei destinatari della garanzia e della salvaguardia dei diritti sia della cittadinanza che di alcuni degli elementi identitari sottesi al concetto di nazione, quali lingua ed etnia? Ai popoli ed agli Stati non si chiede di rinunciare alla loro storica e culturale identità, ma questa è oggi un complesso di opportunità e valori che a tutti gli individui deve essere consentito di mettere a profitto per autonoma scelta all’interno degli ordinamenti statali senza pretese di esclusione dell’altro e diverso, ovvero in funzione discriminatrice dell’aggregazione ad unità delle comunità statuali cui quegli ordinamenti fanno riferimento.

Nella nota discussione che ha visto contrapposti Federico Mancini e Joseph Weiler47 l’idea di un’identità etnolinguistica di nazione è risultata ormai inapplicabile, in chiave prescrittiva, nel contesto europeo, non solo dal punto di vista del primo che, ammettendo la difficoltà di trovare al livello europeo elementi unificanti di quella natura, ricercava i fattori di coesione su altro piano ed in altra dimensione, ma anche nella prospettiva del secondo che la ricerca di un’identificazione etno – linguistica superava nella valorizzazione del principio di quella che egli definisce la tolleranza

44

Ivi, 615 ss.. 45

GRIMM, Il significato della stesura di un catalogo europeo dei diritti fondamentali nell’ottica della critica dell’ipotesi

di una Costituzione europea, in ZAGREBELSKY, Diritti e costituzione nell’Unione Europea, Roma – Bari 2003, 5 ss., e Una

costituzione per l’Europa?, in Il futuro della costituzione cit., 339 ss.. 46

Vedila in Giur. Cost. 1994, 677 ss.. 47

I due contributi di Mancini e Weiler si possono legge in WEILER, La Costituzione europea cit., 537 ss., per una più

ampia documentazione del pensiero del primo Autore MANCINI, Democrazia e costituzionalismo nell’Unione Europea,

Bologna 2004.

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costituzionale europea. Ed è da visioni innovative siffatte che, in connessione con il progressivo affermarsi di una cittadinanza europea, si è partiti per porre il problema dell’individuazione di fattori identitari unificanti di natura civica e costituzionale, così precorrendo la convinzione che l’Europa dovesse ricercare la sua unità attorno ad un plesso di garanzie individuali e collettive, ed aprendo, pertanto, la strada all’operazione di utilizzare una Carta dei diritti in funzione della legittimazione dell’identità dell’Unione. Si ricordi che in una decisione presa nel Consiglio europeo di Colonia, nel giugno 1999, si disse espressamente che “ la tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità “, lasciando esplicitamente intravvedere una duplice concezione della Carta dei diritti, da un lato atto politico, destinato ad avere anche un significato simbolico immediato ai fini dell’identificazione dell’identità europea, e dall’altro lato documento formale risultato di un processo decisionale collettivo e destinato a guadagnare piena efficacia giuridica solo in una prospettiva temporale di medio periodo48.

La vicenda ha segnato una fase risolutiva della crescita dell’Unione nella misura in cui sembrava aprire la strada alla transizione da un’Europa, i cui padroni non potevano che essere gli Stati – nazione, ad un’Europa con un’altra identità capace di riunire in un vincolo comune per valori costituzionali e civici nazioni diverse per lingua e cultura. In effetti, se alla Carta si assegnava una funzione ricognitiva di garanzie e salvaguardie già presenti in Europa, la tesi era coerente con la dottrina che predica l’eclisse del potere costituente. La nazione europea, se vogliamo usare questa espressione, non ha bisogno di esprimere con un voto la sua unitaria adesione ai principi della Carta, ma la sua unità e coesione attorno a questi principi in qualche modo preesiste alla Carta e si è formata nella storia proprio con il loro maturare nel tempo sia attraverso la loro formale recezione e consacrazione nelle costituzioni degli Stati–membri che nella loro affermazione nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali e nella successiva loro elaborazione ad opera della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, cioè in quell’insieme di principi che, appunto, costituiscono il c.d. patrimonio costituzionale europeo. Sarebbe per vero assurdo pensare che quasi per un tocco di bacchetta magica l’adozione della Carta crei quell’unità, della cui esistenza la stessa procedura seguita per la sua formazione dà atto esaltandone il valore simbolico, se è vero che si è ritenuto necessario attivare un processo corale con il contributo di una molteplicità di organi costituzionali degli Stati membri. Chi dava avvio ad una vicenda che doveva segnare un passo ulteriore sulla via della realizzazione a livello europeo del costituzionalismo non poteva trascurare il fatto che quel pensiero e quella dottrina appartenevano già alla storia d’Europa grazie al concorso di un plesso di accadimenti storici, dalla sconfitta dei regimi fascisti con la vittoria delle Potenze alleate nella seconda guerra mondiale all’istituzione delle Comunità europee, dal recupero alla democrazia della penisola iberica e della Grecia al crollo dei regimi comunisti passando per la conversione delle Comunità nell’Unione europea. In definitiva, pur senza dimenticare la storia più che cinquantennale dell’affermazione della protezione internazionale dei diritti umani che ha concorso al suo esaurimento, è necessario ricordare che il potere costituente non si sarebbe potuto affievolire e venir meno se prima non fosse stato esercitato con successo a livello nazionale.

48

Cfr. RODOTA’, La Carta come atto politico e documento giuridico, in MANZELLA – MELOGRANI – PACIOTTI –

RODOTA’, Riscrivere i diritti in Europa, Bologna 2001, 57 ss..

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Ma l’affermarsi degli istituti sovranazionali di tutela della persona, proprio per l’universalità che li caratterizza, ci conferma che era ormai fuori luogo ed anacronistico idealizzare il catalogo dei diritti umani e delle libertà fondamentali come manifestazione sovrana ed esclusiva di una nazione in senso tradizionale. Senza voler contestare il peso della tradizione culturale di cui le nazioni europee sono individualmente portatrici, è palese che il patrimonio costituzionale europeo trascende il loro separato apporto e per i contenuti e per la rilevanza che vuole gli sia assegnata. Gli obblighi internazionali impongono agli Stati di rispettare ed assicurare a tutte le persone presenti sul loro territorio e soggette alla loro giurisdizione i diritti riconosciuti dal Patto internazionale sui diritti politici e civili ( art. 2 di quel Patto ) e dalla Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali ( art. 1 della Convenzione ). L’appartenenza ad una comunità etnica o linguistica non costituisce più titolo per pretendere la titolarità di quelle garanzie, ed ormai altri criteri si sono sovrapposti a quelli etnico – linguistici anche in vista della concessione della cittadinanza.

5. Eppure, se guardiamo al filone del costituzionalismo in cui la nostra tradizione costituzionale va ad iscriversi per chi di questa tradizione professa una versione aggiornata, non era nemmeno agevole stare dalla parte di Federico Mancini nel dibattito con Weiler sull’avvento di un ipotetico Stato europeo sino a quando l’unità e la compattezza del corpo sociale di questa nuova entità restavano affidate ai valori espressi dai classici diritti umani e libertà fondamentali. In fin dei conti la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali non va oltre la tutela e garanzia dei diritti della prima generazione e l’affermarsi del costituzionalismo a livello sovranazionale europeo poteva anche apparire come un momento di retrocessione ai tempi dello Stato liberale quando non esistevano ancora le garanzie dei diritti umani della seconda generazione e ancora di Stato sociale non si ragionava. In effetti, alla prima giurisprudenza della Corte in materia di diritti è stato frequentemente imputato di accordare “ una prevalenza assiologica agli obiettivi economici che costituiscono la ragion d’essere dell’integrazione comunitaria “49. Sembrava ritornasse di attualità l’ammonimento di Condorcet ( nello “ Schizzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano “ ) che trovo citato in uno degli ultimi numeri di “ New York Review of Books “ che la libertà non diventi “ – agli occhi di un’avida nazione – nulla più che la condizione necessaria per la sicurezza delle operazioni finanziarie “. Il mercato e le sue istituzioni apparivano come la chiave di volta del sistema comunitario delle garanzie dei diritti, il cui riconoscimento sembrava dunque destinato ad un utilizzo quasi strumentale in funzione delle esigenze proprie di quelle istituzioni. Ed è di questi anni una ricerca il cui Autore, benché superando poi i dubbi iniziali, si interroga sulla storica connessione fra costituzionalismo ed economia capitalistica50: l’originaria vocazione economica dell’Unione potrebbe anche spiegare, se non giustificare, quella retrocessione come necessaria, riproponendo i tempi di una sequenza storica che ha visto l’affermarsi quasi contemporaneo del costituzionalismo e dell’economia di mercato. Recenti sviluppi della giurisprudenza comunitaria mostrano, per vero, che anche questa storica connessione può servire obiettivi di carattere sociale: si pensi alla giurisprudenza della Corte del Lussemburgo in materia di ricongiungimenti famigliari e di fruizione dei servizi speciali da parte dei lavoratori migranti comunitari.

49

CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione comunitaria, Milano 1995, 54 ss.. 50

FERRARA, La costituzione, Milano 2006, 214 ss..

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Il fatto è che ormai da tempo – come viene ricordato più sopra – si ragiona di costituzionalismo e di Stato costituzionale includendo nel discorso - a cagione del carattere eminentemente pluralista degli Stati contemporanei – anche il tema dei diritti sociali51, ed anzi della loro introduzione si discorre come di un completamento delle garanzie di eguaglianza che debbono sorreggere le istituzioni democratiche che dello Stato costituzionale sono considerate componente essenziale52. Se questa è la linea di tendenza, è quasi inevitabile che il processo di progressivo superamento del c.d. deficit democratico conduca anche al riconoscimento a livello europeo dei diritti sociali, almeno nella forma di principi o direttive, la cui elaborazione e sviluppo competa – per ragioni di sussidiarietà – agli Stati, ma la cui attuazione trovi in sede europea una qualche garanzia. E’ il tema delle politiche di solidarietà e coesione economica, che si riconnette all’obiettivo dello sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche indicato all’art. 2 TCE. Con la strategia di Lisbona e l’agenda sociale europea di Nizza la coesione viene inclusa tra i valori essenziali del modello sociale europeo53.

Con il richiamo al principio di sussidiarietà in materia di politiche sociali il cerchio del nostro discorso si chiude. Più volte abbiamo constatato come il costituzionalismo contemporaneo non possa trovare integrale implementazione se non travalicando i tradizionali confini degli Stati. La portata universale della salvaguardia dei diritti umani ottiene completa soddisfazione esclusivamente affiancando alle costituzioni nazionali i ben noti strumenti internazionali di tutela, e, particolarmente, in Europa la Convenzione europea per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali ed i suoi protocolli addizionali: solo così i cittadini degli Stati europei possono trovare difesa anche nell’ordinamento degli Stati diversi dal loro e, per converso, tutte le parti degli strumenti internazionali menzionati sono collettivamente impegnati a tenere determinati comportamenti sul piano interno. Così come gli Stati hanno bisogno dell’Unione europea per vedere assicurata nel tempo la pace e sicurezza del continente, l’Unione ha bisogno degli Stati per una piena attuazione dei principi che rendono possibile il processo di integrazione che essa ha innestato. Le libertà di circolazione e stabilimento non sarebbero completamente realizzate se non fossero di volta in volta affiancate dal riconoscimento di quei diritti la cui tutela la Corte del Lussemburgo ha considerato necessari ai fini di una piena realizzazione delle persone, e nel contempo solo la realizzazione delle prescritte politiche sociali da parte degli Stati pare costituire, e costituirà ancor più in futuro il necessario presupposto per un libero e pieno esercizio dei diritti di democrazia. Non si dimentichi, ad esempio, il ruolo che hanno giuocato nel riconoscimento di aspettative di ordine sociale i principi di eguaglianza e non discriminazione utilizzati dal giudice europeo in funzione della tutela – all’interno di un determinato Stato - di lavoratori migranti e delle loro famiglie provenienti da altri Stati dell’Unione.

51

ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1977, 11 ss.. Si leggano anche le considerazioni di Martines, Diritto

costituzionale e costituzionalismo, presentate da Azzariti in www.costituzionalismo.it, ove si ravvisa nella costituzione

di Weimar una significativa tappa dell’evoluzione del costituzionalismo in ragione dell’ampliamento della tutela della

sfera delle libertà non più alle sole libertà civili e politiche ma anche ad alcuni diritti sociali e le connesse libertà

economiche. 52

LUCIANI, Sui diritti sociali, in Studi in onore di Manlio Mazziotti, II, Padova 1995, 97 ss., in particolare 112 ss.. 53

CREMONINI, Il principio di solidarietà nell’ordinamento europeo, in MANGIAMELI, L’ordinamento europeo cit., 435

ss., specialmente 448 ss..

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Più in generale l’espandersi delle tutele sul piano europeo non ha potuto non prendere le mosse da una tradizione giuridica risalente alle prime epifanie del potere costituente a livello nazionale, se è vero che il patrimonio costituzionale europeo è fatto non solo degli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali ma anche delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. E, d’altra parte, solo trasferendo all’Unione alcune ( per vero in numero sempre crescente ) delle potestà un tempo incluse, secondo l’insegnamento tradizionale, nel plesso della sovranità e, quindi, in chiave di un loro esercizio collettivo gli Stati possono aspirare a governare vicende economiche che travalicano i loro confini, e vedere estesi i loro poteri di intervento nel rispetto del principio di rule of law: l’Unione non ci sarebbe senza l’attribuzione ad essa di potestà degli Stati e questi non vedrebbero rafforzato il loro ruolo collettivo senza l’Unione. Di recente Roberto Bin54 ha rilevato che quanti discorrono ed operano per una revisione costituzionale non si sono mai posti il problema di attrezzare la nostra Costituzione in funzione della tutela della persona e della comunità di cui questa fa parte nei confronti degli effetti dei processi in atto di globalizzazione. La preoccupazione ha fondamento, ma sembra dubbio che una soluzione possa essere ricercata sul piano meramente interno, a meno che non si intendano proporre riforme che meglio consentano alla Repubblica di trarre vantaggio dalle misure che attraverso l’esercizio collettivo delle funzioni trasferite alle autorità europee vengono adottate per salvaguardare il ruolo dell’Europa nell’economia globale.

E’ comunque evidente che il discorso che si è fatto non ci consente di interrompere il discorso costituzionale all’interno del nostro Paese nascondendoci dietro le prospettive sovranazionali del costituzionalismo. La Costituzione repubblicana, di cui quest’anno celebriamo i sessant’anni, non può essere troppo facilmente relegato ad un ruolo sussidiario. Essa è il termine di paragone cui si rapporta la costruzione di quella nostra identità nazionale che i Trattati europei garantiscono e salvaguardano, identità che nella stessa Costituzione si identifica nella Repubblica, anche se – come osserva Paladin55 – pure altri elementi vi concorrono . Certamente gli eventi ai quali si è fatto cenno hanno, come si è detto, riproposto in termini nuovi il tema del costituzionalismo. Ma l’approccio realistico non ci permette di chiudere gli occhi di fronte ai rischi che questi nuovi sviluppi presentano. Ad esempio, si è parlato di rule of law, e volutamente si è utilizzata una terminologia diversa da quella propria dei Paesi di civil law, ove più propriamente si parla di principio di legalità o di Stato di diritto. Si è inteso così dare conto in forma sintetica della contaminazione che gli istituti del costituzionalismo propri dell’Europa continentale hanno subito nel contatto con altri ordinamenti e con le sfide sovranazionali con le quali sono chiamati a confrontarsi. Di quegli sviluppi non sono conseguenza marginale ( anche se non ad essi soltanto addebitabile ) i problemi di ridefinizione dei modi dell’interpretazione costituzionale. Se è giusto riportare un ripensamento in materia ai principi del costituzionalismo, come ha fatto Alessandro Pace56, è però anche necessario ricordare che il costituzionalismo ha trovato realizzazione anche per strade diverse da quelle proprie dei Paesi di civil law e che quelle strade ha anche in parte percorso il processo di integrazione europea di cui anche l’Italia è parte.

54

BIN, Che cos’è la Costituzione?, in Quad.cost. 2007, 11 ss.. 55

PALADIN, Valori nazionali e principio di unità della Repubblica nella Costituzione Italiana, in Scritti in onore di Manlio

Mazziotti di Celso, II, Padova 1995, 369 ss., 376. 56

PACE, Metodi interpretativi e costituzionalismo cit..

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Infine, se tutto quanto si è detto revoca in dubbio non solo la pretesa della costituzione nazionale alla onnicomprensività della disciplina da essa dettata ( e già incrinata sul piano della continuità degli ordinamenti ), ma anche l’esclusività dei tratti identificativi dei nostri ordinamenti statali e con essa l’indipendenza e separazione reciproca degli stessi, in poche parole la loro sovranità, allora si può forse avanzare - in via di sola ipotesi – il dubbio se le vicende di cui si è parlato abbiano messo e mettano in discussione la stessa definizione dello Stato quale l’abbiano sin qui conosciuto. Quello che chiamiamo lo Stato costituzionale, sviluppatosi sull’onda del costituzionalismo contemporaneo, non sarebbe, quindi, soltanto una delle tante forme di Stato, ovvero la più recente fra esse, ma sarebbe già qualche cosa di diverso e di nuovo per il venir meno della sovranità in senso tradizionale, ossia per l’esaurimento, in particolare, di quella connotazione di esclusività un tempo propria degli ordinamenti statali. Il che non significa che all’ipotetica trasfigurazione dello Stato nella sua configurazione tradizionale debba succedere l’emergere dello Stato dell’Unione europea. Ciò che per ora abbiamo di fronte è una entità integrata, le cui componenti hanno un’identità che non si riconosce nella sovranità tradizionale, anche perché si reggono in un rapporto di mutuo sostegno, di reciproca interdipendenza, se è vero che l’una non può fare a meno delle altre e viceversa.

L’art. 11 della nostra Costituzione è stato il chiavistello che è stato utilizzato per arrivare a questi risultati. Se la descrizione fatta corrisponde allo stato presente, e forse ancor meglio ai futuri assetti dell’Europa, non sarebbe la prima volta che un ordinamento, nel caso quello repubblicano italiano, trova in sé stesso i germi della sua metamorfosi.

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MARTA CARTABIA

La Costituzione italiana 60 anni dopo: i diritti fondamentali

Introduzione: dal “patriottismo costituzionale” all’universalità dei diritti umani.

Se c’è una parte della Costituzione italiana volutamente posta al riparo da troppo rapidi cambiamenti ed improvvise trasformazioni è quella dedicata ai diritti fondamentali. In essa sono contenuti i valori fondanti dell’intero ordine sociale, destinati a durare, cosicché nessuno dei vari tentativi di riforma costituzionale, che si sono susseguiti ad ondate ripetute sin dagli anni ottanta, ha mai osato mettere in discussione il perdurante valore della prima parte della Costituzione, dedicata appunto ai diritti e ai doveri dei cittadini.

Dottrine come quella dei limiti impliciti alla revisione costituzionale e, per altri aspetti, quella dei “controlimiti” alle limitazioni di sovranità vorrebbero assicurare una speciale forma di protezione ai diritti e ai valori fondamentali, sottraendoli alla disponibilità di qualsivoglia potere costituito1.

Anche l’interpretazione dell’art. 2 Cost. come clausola chiusa, che non permette il riconoscimento di “nuovi diritti fondamentali” oltre a quelli enumerati nel testo – diffusa nella giurisprudenza costituzionale e nella dottrina fino ad anni assai recenti2 – intendeva proteggere da influenze indirette i valori costituzionali fondamentali: riconoscere nuovi diritti comporta una inevitabile rimodulazione del contenuto di quelli esistenti, perché - questo era ed è l’argomento principale contrapposto alla lettura dell’art. 2 come clausola aperta - i diritti hanno una natura relazionale, cosicché ogni nuova immissione di fattispecie protette altera il quadro assiologico complessivo voluto dalla Costituzione3.

L’idea implicita è, per dirla con una nota espressione di Habermas, quella del “patriottismo costituzionale”.

Fino agli anni ’90 del secolo scorso l’opinione prevalente era che nei diritti fondamentali e nei valori costituzionali si riflettesse l’identità, l’autopercezione e la cultura di un popolo4. Garantire una protezione particolarmente rinforzata ai diritti fondamentali contro ogni tentativo di

1 Corte costituzionale sent. 1146 del 1988. 2 In tale dibattito per molto tempo l’unica voce dissenziente è stata quella di A. BARBERA, Commento all’art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, Zanichelli, 1975; si veda ora del medesimo Autore, “Nuovi diritti”: attenzione ai confini, in L. CALIFANO (a cura di), Corte costituzionale e diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 2004, 19 ss. 3 Sul punto M. C. PONTHOREAU, La reconnaissance des droits non ecrits par les cours constitutionnelles italienne et française, PUF, Paris, 1994, 173 ss. 4 In questo senso può anche leggersi la dottrina della “sovranità dei valori costituzionali” proposta da G. Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Riv. Dir. Cost. 1996, 3 ss.

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modifica proveniente dall’interno o dall’esterno non aveva solo il valore di porre al centro la persona umana e la sua dignità, ma anche quello “culturale”, di preservare l’identità di una intera comunità politica, una identità radicata nella storia e nella tradizione di un popolo ed espressa nel suo atto fondativo: la Costituzione, appunto. Agli albori della globalizzazione, i diritti fondamentali inviolabili e le loro speciali garanzie si presentavano dotati almeno di una triplice valenza: sul piano individuale, garantivano la centralità della persona di fronte ad ogni forma di potere; sul piano ordinamentale interno, valevano a salvaguardare la continuità dell’ordinamento a fronte dell’alternarsi degli orientamenti politici e dei cambiamenti di indirizzo politico delle maggioranze al governo; nei rapporti esterni, europei e internazionali, essi costituivano una zona impenetrabile, deposito dei tratti fondamentali della cultura di un popolo, da preservarsi di fronte alla internazionalizzazione e alla globalizzazione.

Considerando queste dottrine isolatamente e in concorso fra loro, l’aspettativa è che 60 anni dopo la Costituzione dei diritti sia rimasta inalterata, preservando intatto il patrimonio di diritti, principi e valori consegnatoci dal costituente.

In effetti il testo, in questa parte dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini, non ha subito modificazioni significative, né si avverte l’esigenza di un suo ammodernamento. Eppure ad uno sguardo un poco più attento, mentre sul piano teorico seguitano a rimanere saldamente in auge le dottrine sopra richiamate, volte a custodire inviolata la prima parte della Costituzione, alcuni fattori agiscono in modo carsico, trasformando alla radice la portata dei diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalla Costituzione italiana, rimodulando i loro contenuti e influenzando il bilanciamento tra i diversi diritti.

Il riferimento non è tanto al naturale sviluppo giurisprudenziale dei valori costituzionali ad opera del loro interprete privilegiato – la Corte costituzionale – e degli altri giudici. Il riferimento è piuttosto ad alcuni fattori “esterni” tra cui vorrei soffermarmi in particolare sul sistema di tutela dei diritti approntato dall’Unione europea, sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretata e sviluppata dalla Corte di Strasburgo e sull’uso del diritto comparato per la soluzione dei casi giurisdizionali più complessi ed inediti inerenti ai diritti fondamentali.

PARTE I

I fattori del cambiamento 1. La convenzione europea dei diritti dell’Uomo

Fino ad epoca recentissima la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e il sistema di tutela dei diritti da essa sviluppatosi sembravano agire su un piano parallelo e tutto sommato separato rispetto a quello dei diritti costituzionali e della giustizia costituzionale interna. Il rango di semplice legge ordinaria riconosciuto alla Convenzione (rimasto inalterato nonostante il tentativo operato dalla nota sentenza n. 10 del 1993) e il

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valore sussidiario della tutela della Corte di Strasburgo, chiamata ad intervenire solo in seguito all’esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni, sembravano relegare il sistema convenzionale nell’angusto ruolo della garanzia minima dei diritti, valevole sull’intero continente europeo, una garanzia pronta a scattare solo nei casi più gravi, e auspicabilmente sporadici, in cui gli Stati membri scendessero sotto la soglia di decenza.

Oggi, la situazione è radicalmente cambiata e le sentenze n. 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale segnano l’inizio di una nuova epoca nei rapporti con la Cedu. In vero, l’intervento della Corte costituzionale è stato da tempo preparato sotto la spinta di rilevanti evoluzioni, non prive di alcune forzature, della giurisprudenza interna.

Nel corso degli anni 90, la Convenzione europea e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno acquisito un’autorevolezza crescente, sia presso i giudici ordinari, sia presso la Corte costituzionale. Già da molti anni i giudici ordinari, le magistrature supreme e la Corte costituzionale tengono in adeguata considerazione le decisioni della Corte di Strasburgo come elementi guida nell’interpretazione delle leggi interne.

L’interpretazione conforme alla Convenzione europea e alla giurisprudenza di Strasburgo si è diffusa presso molte autorità giurisdizionali. Talvolta, sovraccaricati di richieste di tutela dei diritti, i giudici ordinari si sono spinti anche oltre i limiti dei loro poteri, cercando rimedio persino nella disapplicazione della legge interna per contrasto con la Cedu5. Nel complesso, alla vigilia delle pronunce della Corte costituzionale del 2007, il panorama della giurisprudenza italiana sui rapporti tra fonti interne e Convenzione europea si presentava confuso e assai variegato6, non scevro da rischi per la certezza dei diritti dei cittadini, i quali incontravano risposte giurisdizionali assai diversificate a seconda della diversa sensibilità dei singoli giudici alla dimensione europea dei diritti fondamentali.

Da parte sua, la Corte costituzionale da tempo si riferisce alla Cedu come criterio interpretativo e integrativo del parametro costituzionale,

5 Tra i casi più recenti si vedano Corte di appello di Firenze, sez. I civile, 27 febbraio 2005, n. 570/2005 in materia di occupazione acquisitiva; Corte di appello di Firenze, sez. I civile, 14 luglio 2006, 1402/2006, in materia di indennità di esproprio: entrambe disapplicano i criteri stabiliti dalla legislazione italiana per far spazio a quelli stabiliti dalla Corte di Strasburgo. Si tratta solo di alcuni esempi su molti ormai rinvenibili nella giurisprudenza dei giudici di merito. Sulle possibili forzature insite nella tecnica di interpretazione “conforme a … ” si veda M. Luciani, Le funzioni sistemiche della Corte costituzionale, oggi, e l’interpretazione “conforme a”, in www.federalismi.it 6 Sul punto si vedano gli studi di B. Randazzo, Giudici comuni e Corte europea dei diritti, in Riv. It. Dir. Pub. Com. 2002, 1303 ss. ; Id. Le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo: effetti ed esecuzione nell’ordinamento italiano, in N. Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Esi, Napoli, 2006, 295 ss.; A Guazzarotti, La Cedu e l’ordinamento nazionale: tendenze giurisprudenziali e nuove esigenze teoriche, in Quaderni costituzionali, 2006, 491 ss.; A. Guazzarotti e A. Cossiri, L’efficacia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente, in Rassegna dell’Avvocatura dello stato, n. 3 del 2006.

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considerandola come uno strumento di ricognizione delle tendenze emergenti in materia di nuovi diritti7.

I primi segnali di questo uso integrativo del parametro costituzionale della Cedu e di altri strumenti internazionali di tutela dei diritti umani si possono far risalire sin alla sent. n. 404 del 1988 sul diritto all’abitazione. Ma è nel corso degli anni ’90 che la giurisprudenza costituzionale si arricchisce di esempi che confermano tale tendenza8, fino a che con la sentenza n. 388 del 1999 la Corte costituzionale ha affermato esplicitamente che le garanzie internazionali dei diritti umani e quelle costituzionali “si integrano, completandosi reciprocamente nell’interpretazione”. Da allora, sempre più frequenti sono i richiami alle carte internazionali dei diritti e alla giurisprudenza delle Corti europee nelle sentenze della Corte costituzionale.

Il terreno del cambiamento era dunque stato preparato sia dalla giurisprudenza ordinaria e di legittimità, sia dalla Corte costituzionale stessa.

Con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, la Corte ha segnato però una svolta significativa, che merita di essere sia pur sinteticamente segnalata. Benché diverse per oggetto e non del tutto sovrapponibili nei vari passaggi argomentativi, le due pronunce “gemelle” del 2007 fissano alcuni principi fondamentali che qui può essere utile sottolineare. In particolare vorrei soffermarmi sulla qualificazione della Cedu come fonte ordinaria e però dotata di copertura costituzionale in forza dell’art. 117, primo comma Cost. e sull’attrazione nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale di tutte le questioni di compatibilità tra le leggi interne e la Convenzione europea, che vale ad escludere il potere di disapplicazione da parte dei giudici ordinari.

In effetti, da molto tempo si percepiva l’inadeguatezza della tradizionale impostazione che riconduceva la Cedu al regime dei comuni trattati internazionali, che in base al principio dualistico assumono nell’ordinamento interno lo stesso valore dell’atto di recepimento, e dunque di norma quello di una comune legge ordinaria. In qualche misura, l’oggetto della Convenzione – i diritti fondamentali – o, se si preferisce, il suo valore assiologico risultava sproporzionato rispetto al suo status come fonte del diritto, che la voleva relegata nel rango di una qualunque legge ordinaria. Si avvertiva da più parti la necessità di dotare la Convenzione di un’adeguata copertura costituzionale9, riconoscendo alla stessa il ruolo di parametro interposto nel giudizio di legittimità costituzionale della legge violatrice dei diritti convenzionali. La copertura costituzionale è stata volta a volta individuata dai vari autori, alternativamente o comulativamente, negli artt. 2, 10, 11, o, più recentemente, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, intervenuta nel 2001, nell’art. 117 della Costituzione.

7 D. Tega, La Cedu nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Quaderni costituzionali n. 2 del 2007, p. 431 ss. 8 Si vedano ad. es. sent. n. 62 del 1992, sulla tutela delle minoranze linguistiche; n. 349 del 1998 sul divario di età tra adottante e adottato; n. 399 del 1998 in materia di garanzie processuali. 9 Sul punto riassuntivamente C. Panara, Il diritto internazionale nell’ordinamento interno: quid iuris?, in www.federalismi.it 1/2007, spec. par. 7

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Con le sentenze del 2007 la Corte costituzionale scarta implicitamente o esplicitamente le altre ipotesi, per concentrarsi proprio sull’art. 117, primo comma della Costituzione. Tale scelta permette alla Corte di riconoscere alla Cedu una forza passiva superiore alle leggi ordinarie e dunque il valore di parametro interposto nei giudizi di costituzionalità, senza elevarla al rango delle fonti costituzionali sul lato attivo, con importanti conseguenze in termini di bilanciamento dei valori e di possibilità di utilizzare il margine di apprezzamento che la Cedu concede agli Stati10. A differenza di altre ipotesi, l’art. 117 primo comma non conduce alla completa costituzionalizzazione della Convenzione. L’art. 117, primo comma della Costituzione da un lato permette alla Corte costituzionale di espungere le normative nazionali che violano gli standard di tutela europei, ma dall’altro non la vincola ad importare pedissequamente nell’ordinamento interno qualunque affermazione in materia di diritti proveniente da Strasburgo. Le norme Cedu, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, devono essere sottoposte ad una valutazione di compatibilità con la Costituzione italiana prima di essere ritenute idonee ad integrare il parametro dei giudizi della Corte costituzionale, a quanto emerge dalle sentenze nn. 348 e 349 del 2007.

Strettamente consequenziale alla scelta del parametro è l’individuazione del rimedio giurisdizionale per i contrasti tra leggi interne e Convenzione europea: non la disapplicazione della legge da parte dei giudici ordinari, bensì il giudizio di legittimità costituzionale della Corte costituzionale. Questo principio non intende mortificare l’operato dei giudici ordinari11 né tanto meno emarginarli dal sistema “multilivello” della tutela dei diritti fondamentali. Esso mira, piuttosto, a precisare il loro ruolo, riconducendolo nell’alveo dell’interpretazione adeguatrice, mettendo in evidenza che i giudici non sono né soli né abbandonati a se stessi nello svolgimento del delicato compito della tutela dei diritti. Essi sono piuttosto parte di una complessa rete giurisdizionale di cui fanno parte anche le Corti costituzionali e le Corti europee. Come hanno chiarito di recente alcuni importanti contributi12 , i giudici di merito debbono seguitare a cercare soluzioni che armonizzino il diritto interno con l’ordinamento Cedu e debbono essere caldamente incoraggiati ad operare

10 Questo aspetto, che a me pare particolarmente pregevole, perché consente di salvaguardare lo jus commune europeo dei diritti senza sacrificare le tradizioni costituzionali nazionali è invece criticato ad es. da A. Moscarini, Indennità di espropriazione e valore di mercato del bene: un passo avanti e uno indietro della consulta nella costruzione del patrimonio costituzionale europeo, n www.federalismi.it 11 Sottolinea l’importanza del ruolo dei giudici ordinari come diretti protagonisti dell’attuazione dei diritti nel sistema Cedu A. Bultrini, Le sentenze 348 e 349 (2007) della Corte costituzionale: l’inizio di una svolta?, in corso di pubblicazione in Rivista di diritto comparato ed europeo. 12 A. Ruggeri, Carte internazionali dei diritti, Costituzione europea, Costituzione nazionale: prospettive di ricomposizione delle fonti in sistema, relazione C.S.M, Roma 28 febbraio – 2 marzo 2007, in http://appinter.csm.it/incontri/relaz/14032.pdf; E. Lupo, La vincolatività delle sentenze della Corte europea per il giudice interno e la svolta recente della Cassazione civile e penale, http://.appinter.csm.it/incontri/relaz/14037.pdf

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in questa direzione. Bisogna uscire dalla pura logica delle fonti13 e occorre abbracciare la logica dell’armonizzazione, dell’interpretazione, dei bilanciamenti, fin dove è possibile. Con altrettanta chiarezza e determinazione debbono, però, anche essere ricordati i limiti dell’azione dei giudici comuni. Di fronte ai contrasti tra diritto interno e Convenzione europea, i giudici ordinari debbono e possono agire nei limiti dell’interpretazione adeguatrice, mentre è loro preclusa la strada della disapplicazione del diritto interno.

Questa precisazione è quanto mai opportuna, dal momento che l’evoluzione dei sistemi europei di tutela dei diritti sta seguendo una duplice direzione, perché da un lato, con un movimento accentratore, esalta il ruolo delle Corti europee e dall’altro, per il rapporto privilegiato che queste intessono con i giudici ordinari, valorizza contemporaneamente gli elementi di diffusione nella tutela giurisdizionale dei diritti. Il risultato di questo duplice movimento, accentratore e di diffusione ad un tempo, potrebbe essere l’emarginazione della Corte costituzionale14. La linea seguita dalla Corte costituzionale nei rapporti con la Convenzione europea ad opera delle sentt. nn. 348 e 349 potrebbe contrastare tale deriva, preservando o restituendo almeno in parte alla Corte costituzionale il suo ruolo di “Corte dei diritti”.

Per quanto graduale e prudente, il riordino dei rapporti tra ordinamento italiano e Cedu è senza dubbio rilevante e significativo. Attraverso le sentt. nn. 348 e 349 la Corte costituzionale ha irreversibilmente esposto la prima parte della Costituzione italiana e i diritti fondamentali in essa contenuti alle influenze della Cedu e più ancora alle interpretazioni della Corte di Strasburgo. E’ chiaro infatti che quando la Corte afferma che le norme della Convenzione europea assumono il valore di parametro interposto nel giudizio di legittimità costituzionale, essa non si riferisce soltanto alle disposizioni scritte del testo della Convenzione, ma, appunto, alle norme Cedu nel significato ad esse attribuito dalla interpretazione della Corte di Strasburgo. In definitiva, il ruolo di parametro interposto nei giudizi di costituzionalità sarà assunto dalle decisioni della Corte di Strasburgo.

A questo proposito occorrerebbe riflettere e valutare attentamente quali tra le affermazioni della giurisprudenza della Corte europea sono davvero vincolanti. Oltre alle tradizionali distinzioni tra ratio decidendi e obiter dictum, nel caso della Corte europea occorre distinguere tra le sentenze emesse specificamente nei confronti dell’Italia e quelle pronunciate nei confronti di altri Stati. La Corte europea è un giudice del caso concreto, molto attenta al contesto della vicenda specifica e dell’ordinamento in cui tale vicenda si svolge. Pertanto, è solo con molta

13 In questo senso si vedano anche le osservazioni di A. Ruggeri, La CEDU alla ricerca di una nuova identità, tra prospettiva formale e astratta e prospettiva assiologico-sostanziale d’inquadramento sistematico, in www.forumcostituzionale.it, che critica le sentenze qui in commento perché troppo schiacciate su una impostazione logico formale, tipica delle fonti del diritto. 14 Rischio già segnalato all’epoca della approvazione della Carta di Nizza in riferimento al sistema di tutela dei diritti dell’Unione europea, v. M. Cartabia e A. Celotto, La giustizia costituzionale in Italia dopo la Carta di Nizza, in Giur.Cost. 2002, 4477 ss.

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cautela che si possono trarre dalle sentenze pronunciate nei confronti di altri Stati principi vincolanti anche per il legislatore italiano. Certamente le sentenze della Corte europea servono non solo per decidere i singoli casi sottoposti al suo esame, ma più in generale per chiarire, salvaguardare e sviluppare le regole e i principi contenuti nella Convenzione, contribuendo così a facilitare l’osservanza da parte degli Stati membri degli impegni assunti15. Per questa loro valenza interpretativa, le decisioni della Corte europea hanno sicuramente effetti che superano il confine dello Stato verso cui sono rivolte16. Tuttavia si tratta, come è stato detto, di un’autorevolezza di natura persuasiva, di autorità di cosa interpretata – autorité de chose interpretée - da valutare, a parere di chi scrive, tenendo conto che la Corte europea decide sempre alla luce della dottrina del margine di apprezzamento degli Stati membri. E’ solo con molta cautela che si possono trasporre in un contesto diverso i principi affermati in riferimento ad un caso concreto, situato in un preciso ordinamento giuridico, perché non è affatto detto che lo standard richiesto, per esemplificare, alla Polonia o alla Russia o alla Turchia o a qualunque altro dei 47 Stati membri sia applicabile anche in casi analoghi provenienti dall’ordinamento italiano.

Ad ogni modo, la Corte costituzionale si riserva di valutare, prima di procedere all’applicazione dei principi formulati dalla Corte di Strasburgo, la loro compatibilità con la Costituzione italiana – si noti: l’intero complesso della Costituzione italiana e non solo i suoi principi supremi e fondamentali, tiene la Corte a sottolineare – e nel caso in cui ne emerga un conflitto con le norme costituzionali interne, la Corte si dichiara pronta a pronunciare l’”inidoneità” del principio convenzionale ad integrare il parametro di costituzionalità e ad espungerlo dall’ordinamento italiano. Tuttavia, è chiaro che grazie alle potenzialità dell’interpretazione in riferimento ai testi costituzionali - composti da principi più che da norme, e comunque caratterizzati da un ampio respiro lessicale e scritti secondo una tecnica redazionale “a maglie larghe” – il contenuto dei diritti costituzionali sarà sempre più intensamente rimodulato in base agli orientamenti elaborati a Strasburgo e l’intero disegno complessivo della parte prima della Costituzione si trasfigurerà gradualmente sotto l’influsso della cultura dominante nelle istituzioni europee.

2. L’Unione europea

A partire dalla approvazione della Carta dei diritti fondamentali avvenuta a Nizza nel dicembre 2000 è stata inaugurata una significativa stagione della tutela dei diritti nell’Unione europea, al punto che uno fra i più acuti osservatori dell’integrazione europea ha affermato che sta prendendo forma in Europa una Grundrechtsgemeinshaft17, in cui i diritti

15 Corte europea 18 gennaio 1978, Irlanda contro Regno Unito, par. 154 16 E. Lambert, Les éfféts des arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme, Bruxelles, 1999, p. 176 ss . 17 A. von Bogdandy, The European Union as a Human Rights Organization? European Rights and the Core of the European Union, in Common Market Law Review, 2000, 1307 ss.; ora in lingua italiana Id., Comunità di diritti fondamentali come meta

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fondamentali stanno assumendo il ruolo fino ad ora ricoperto dal mercato interno e dai rapporti economici. In effetti, benché la Carta non costituisca la prima forma di tutela dei diritti fondamentali nell’Unione europea, ma al contrario si inserisca in un percorso avviatosi sin dalla fine degli anni sessanta e consolidatosi nel tempo, essa segna indiscutibilmente uno spartiacque, che ha determinato una profonda differenza nella qualità e nella quantità degli interventi della Corte di giustizia in materia di diritti fondamentali. Inoltre, è certamente da ricollegare all’approvazione della Carta l’istituzione della Agenzia per i diritti fondamentali18, avvenuta all’inizio del 2007, un organismo chiamato a monitorare lo stato di salute dei diritti fondamentali nell’Unione europea e ad operare con strumenti di cd. “soft law”19, quali la produzione di rapporti generali e tematici, l’identificazione delle best practices e altri ancora la cui efficacia, benché non giuridicamente vincolante, non è da sottovalutare. Se ancora è troppo presto per apprezzare l’efficacia della policy dei diritti fondamentali 20 condotta dalla Agenzia di Vienna, non mancano invece sufficienti elementi per valutare l’evoluzione della giurisprudenza comunitaria in materia di diritti fondamentali e per segnalarne le principali linee di tendenza. E’ ampiamente noto che la giurisprudenza comunitaria in tema di diritti fondamentali ha conosciuto diverse fasi e diverse stagioni. Oggi siamo di fronte certamente ad una stagione molto fiorente dei diritti fondamentali nell’Unione europea, con una significativa tendenza espansiva anche negli ambiti di competenza degli Stati membri. I diritti fondamentali nell’Unione europea non avrebbero dovuto rimpiazzare quelli garantiti dalle Costituzioni nazionali, ma piuttosto affiancarsi ad essi, proteggendo i cittadini negli ambiti in cui le Costituzioni nazionali non potevano agire, vale a dire principalmente nei confronti degli atti delle istituzioni comunitarie.

Ben presto, però, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha iniziato a proiettarsi anche all’interno degli ordinamenti costituzionali nazionali, secondo i principi della dottrina della incorporation21.

dell’integrazione? I diritti fondamentali e la natura dell’Unione europea, in Diritto pubblico, 2001, 849 ss. 18 Regolamento del Consiglio 15 febbraio 2007, n. 168/2007. 19 Su questi aspetti e sull’ambito di azione dell’Agenzia dei diritti fondamentali si veda A. Von Bogdandy, The European Union as Situation, Executive, and Promoter of the International Law of Cultural Diversità – Elements of a Beautiful Friendship, Jean Monnet Working Paper 13/07, www.jeanmonnetprogram.org 20 La necessità di una vera e propria policy del diritti fondamentali, condotta da una apposita struttura burocratica, dotata di un proprio bilancio e mezzi di azione preventivi era stata lanciata per la prima volta da P. Alston e J.H.H. Weiler, An ‘Ever Closer Union’ in Need of a Human Rights Policy, in P. Alston (ed), The European Union and Human Rights, Oxford University Press, Oxford, 1999, pp. 3 ss. 21 Su questo punto v. J.H.H. Weiler, The European Court at a Croassroads: Community Human Rights and Member States Action, in F. Capotorti e altri (a cura di), Du droit international au droit de l’integration. Liber amicorum Pierre Pescatore, Baden-Baden, 1987, 821 ss.; J. Temple Lang, The sphere in which member states are obliged to comply with the general principles of law and community fundamental rights principles, in Legal Issues of European Integration, 1991/2, 23ss. e K. Lenaerts, Respect for Fundamental Rights as a Constitutional Principle of the European Union, in Columbia Journal of European Law, 2000, 1 ss.

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Secondo tale dottrina, elaborata e regolarmente applicata a partire dalla fine degli anni ’80, la Corte europea si ritiene investita del potere di valutare la compatibilità anche degli atti nazionali, oltre che di quelli comunitari, con i diritti fondamentali da essa elaborati e protetti in due principali ipotesi: quando gli Stati membri agiscono per dare attuazione a normative comunitarie – la cosiddetta linea Wachauf22 – e quando gli Stati invocano invocano una delle cause di giustificazione previste dai trattati comunitari per limitare una delle libertà economiche fondamentali garantite dai trattati, come ad es. motivi di sanità pubblica o di ordine pubblico per limitare una libertà di circolazione – la cosiddetta linea ERT23. L’unico limite certo per la Corte di giustizia è il divieto di proiettare la sua tutela su atti di autorità statali che riguardino materie del tutto estranee al diritto comunitario, come è stato affermato a suo tempo nel caso Cinéthéque del 198524 e ribadito più recentemente nel caso Viajnaj del 200525. Entrambi i filoni della dottrina dell’incorporation generano inevitabili sovrapposizioni tra la tutela nazionale e la tutela comunitaria dei diritti fondamentali. Tuttavia, fino ad anni recenti si poteva a ragione commentare questo filone giurisprudenziale rilevando un atteggiamento prudente della Corte di giustizia, una sorta di self-restraint 26. Il medesimo giudizio difficilmente potrebbe essere sottoscritto oggi. Dopo la proclamazione della Carta dei diritti qualcosa è cambiato e l’atteggiamento “prudente” della Corte di giustizia si è fatto via via più ardito. Naturalmente non è questa la sede per condurre una disamina approfondita della giurisprudenza europea in materia di diritti fondamentali27. Basti qui segnalare che molti sono i casi in cui si può notare una accresciuta attenzione ai diritti fondamentali, che rende la Corte di giustizia capace di sacrificare ad esempio le libertà economiche del mercato per garantire i diritti civili dei cittadini, come ad esempio la libertà di espressione e di associazione28, o per proteggere la dignità umana29. Significativa è anche la serie di decisioni sul terrorismo30, in cui si può notare una progressiva evoluzione verso un maggior rispetto per i diritti dei presunti terroristi, inizialmente del tutto sacrificati alla luce delle

22 …dal nome di uno dei primi casi in cui questo orientamento giurisprudenziale è stato espresso decisione del 13 luglio 1989 causa 5/88, Wachauf, ma forse questo orientamento si può far risalire anche alla decisione del 25 novembre 1986, cause 201 e 202/85, Klensch. 23 Decisione 18 giugno 1991, causa C-260/89, Elliniki Radiophonia Tileorassi 24 Corte di giustizia, decisione 11 luglio 1985, cause 60 e 61/84, Cinéthéque. 25 Corte di giustizia, ordinanza C-328/04, Attila Vajnai. 26 B. De Witte, The Past and Future Role of the European Court of Justice in the Protection of Human Rights, in P. Alston ed., The EU and Human Rights, cit., p. 873. 27 Mi sia consentito rinviare su questo punto al mio L’ora dei diritti nell’Unione europea, in M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 11 ss. 28 Corte di giustizia, decisione 12 giugno 2003, C-112/00, Schmidberger. 29 Corte di giustizia, decisione 14 ottobre 2004, C-36/02, Omega. 30 Sentenza del Tribunale 21 settembre 2005, causa T-306/01, Yusuf; sentenza del tribunale 21 settembre 2005, causa T-315/01, Kadi.; sentenza del tribunale 12 giugno 2006, T-253/02, Ayadi; sentenza del tribunale 12 giugno 2006, T-49/04, Hassan.; Sentenza del Tribunale 12 dicembre 2006, causa T-228/02, Organisation des Modjahedines du people d’Iran.

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esigenze della sicurezza, a causa dell’emergenza internazionale. Molto attente ai diritti fondamentali sono anche tutte le sentenze sulla cittadinanza europea31 e sul lavoratore migrante32, dirette per vari aspetti ad accrescere il patrimonio dei diritti dei singoli, cumulando quelli garantiti nell’ordinamento di partenza e in quello di residenza. Benché la Carta dei diritti sia stata scritta con l’intenzione di codificare l’esistente, ciò che è accaduto negli anni successivi alla sua proclamazione è stata una importante tendenza espansiva dei diritti fondamentali europei, così come interpretati dalla Corte di giustizia.

Se per molti aspetti questa tendenza non può che recare benefici, per quanto riguarda la definizione dei “confini” della tutela europea e dei rapporti tra la Carta e le Costituzioni nazionali possono, invece, sorgere maggiori problemi. Così, nonostante l’art. 51 della Carta dei diritti imponga limiti chiari al campo di applicazione dei diritti fondamentali comunitari - “Le disposizioni della presente carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” – confermando o addirittura restringendo i limiti dell’incorporation rispetto alla giurisprudenza pregressa, in realtà si è poi assistito ad una progressiva erosione dei confini e ad una sensibile irradiazione dei diritti fondamentali comunitari in molti ambiti degli ordinamenti nazionali.

Particolarmente significativi, a questo proposito sono i casi K.B.33 e Richards34, entrambi relativi ai diritti dei transessuali e originatisi nell’ordinamento britannico. Non serve di certo un’analisi dettagliata per mostrare come tale problematica abbia pochi elementi di contatto con le competenze comunitarie e quindi con l’ambito di applicazione dei diritti fondamentali comunitari. La stessa Corte di giustizia riconosce esplicitamente che la legislazione inglese sull’anagrafe non mette in pericolo direttamente un diritto tutelato dall’ordinamento comunitario, ma – prosegue la Corte – il caso rientra comunque nella sua giurisdizione perché incide su una delle condizioni per il suo godimento.

E’ presto per dire se sia stata inaugurata una nuova diramazione della dottrina dell’incorporation, composta dagli atti nazionali che costituiscono condizioni preliminari per il godimento di un diritto fondamentale comunitario. Se così fosse, l’impatto della giurisprudenza comunitaria sui diritti fondamentali negli ordinamenti interni si amplierebbe a dismisura e si potrebbe arrivare potenzialmente al totale assorbimento della tutela dei diritti fondamentali a livello comunitario, facendo cadere i limiti di competenza così accuratamente sanciti nella Carta dei diritti. Certo è che la scrittura della Carta dei diritti fondamentali sta producendo, come era prevedibile, un effetto centralizzatore, attraendo

31 Si veda emblematicamente Corte di giustizia, sentenza 19 ottobre 2004, C- 200/02, Chen 32 Si veda emblematicamente Corte di giustizia, sentenza 2 ottobre 2003, C-148/02, Garcia Avello 33 Decisione 7 gennaio 2004, C- 117/01, K.B. 34 Decisione 26 aprile 2006, C-423/04, Richards

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gradualmente a livello europeo la tutela dei diritti fondamentali, contemporaneamente svuotando quella garantita dalle Costituzioni nazionali ed erodendo i limiti di competenza in cui l’azione delle istituzioni comunitarie in materia di diritti fondamentali dovrebbe svolgersi35. Come era stato acutamente osservato, mano a mano che crescerà l’importanza attribuita alla Carta dei diritti dell’Unione europea, più difficile sarà spiegare al grande pubblico, e persino ai giuristi e ai giudici che la Carta è stata pensata per avere un campo di applicazione limitato, rivolgendosi essenzialmente alle istituzioni comunitarie e agli Stati nel momento in cui danno applicazione al diritto comunitario36. Non è neppure necessario esplicitare che tanto più tale tendenza all’accentramento della tutela dei diritti a livello europeo si consoliderà erodendo i confini delle competenze dell’Unione tanto minore sarà lo spazio residuo per le Costituzioni nazionali e per le rispettive peculiarità. Vi è un inevitabile effetto uniformante legato alla espansione delle attività della Corte di giustizia che si ripercuote negli ordinamenti costituzionali nazionali. Se è vero, come è stato giustamente rilevato che “pochi altri settori dell’integrazione giuridica europea sono in grado di illustrare meglio [della tutela dei diritti fondamentali] le tensioni tra gli ideali di uniformità e di diversità esistenti nello spazio istituzionale europeo”37, non si può fare a meno di notare che, piaccia o non piaccia, l’equilibrio tra unità e diversità negli anni più recenti si sta progressivamente spostando verso il primo dei due poli. 3. I dialoghi giurisdizionali transnazionali.

Un recente contributo di Gustavo Zagrebelsky,38, ha portato al centro dell’attenzione anche in Italia il dibattito, che già da qualche anno anima la discussione costituzionalistica negli Stati Uniti, sull’uso dei precedenti giudiziari tratti da esperienze estere, da parte dei giudici nazionali e in particolare da parte delle Corti costituzionali e auspica lo sviluppo anche in Italia dell’utilizzo di materiali normativi e giurisprudenziali esterni. A fronte della tendenza alla universalizzazione del diritto, l’attività giurisdizionale non può rimanere insensibile allo sviluppo della dimensione giuridica dai territori alla terra. In particolare, i giudici costituzionali di tutto il mondo incontrano problemi simili soprattutto sul terreno dei diritti fondamentali. E’ in questi ambiti che il

35 A. von Bogdandy, The European Union as a Human Right Organization? cit., 1316-1318. L’effetto standardizzante è bene sottolineato anche da A.C. Pereira-Menaut, A Plea for a compound res publica europea: proposal for increasing constitutionalism without increasing statisim, in Tulane European and Civil Law Forum, 2003, 97-98 36 F. G. Jacobs, European Convention of Human Rights, The EU Charter on fundamental Rughts and the European Court of Justice, in www.ecln.net 37 M. Cartabia e J.H.H. Weiler, L’Italia in Europa, Bologna, 2000, 221. 38 Discorso pronunciato in Campidoglio per la celebrazione dei 50 anni di attività della Corte costituzionale: G. Zagrebelsky, Le Corti costituzionali, le costituzioni democratiche, l’interdipendenza e l’invisibilità dei giudici costituzionali, in www.associazionedeicostituzionalisti.it , p. 1, ora Id.., Corti costituzionali e diritti universali, in Riv. Trim. Dir. Pub, 2006, pp. 297 ss.

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dialogo giurisdizionale transnazionale si è sviluppato al punto che alcune Costituzioni contemporanee, come quella del Sud Africa, consentono esplicitamente alla Corte suprema di prendere in considerazione la “foreign law” nell’interpretazione della Carta dei diritti39. Vi è una naturale dimensione universale dei diritti fondamentali, cosicchè “le norme della Costituzione, per esempio in tema di dignità e uguaglianza di ogni essere umano e di diritti fondamentali, aspirano all’universalità”40. Tale aspirazione all’universalità dei diritti fondamentali spinge naturalmente i giudici, ed i giudici costituzionali in particolare, a guardare fuori dai propri confini, per trarre ispirazione, conferme, conforto, esempio dalle risposte offerte da altri giudici in altre parti del mondo di fronte a problemi analoghi.

In vero, non mi risulta che la Corte costituzionale italiana si sia ancora avventurata in tale sperimentazione. Tanto frequenti e abbondanti sono i riferimenti alla giurisprudenza delle Corti europee, quanto assenti sono i riferimenti alla giurisprudenza di altri paesi.

Diversa si presenta, invece, la giurisprudenza della Corte di cassazione che in più di un’occasione ha fatto riferimento alla giurisprudenza straniera. Vorrei qui ricordare almeno due casi perché hanno uno specifico tono costituzionale e riguardano problemi inerenti ai diritti fondamentali.

Il primo in ordine temporale è un caso del 2004, riguarda il cd. “diritto a non nascere”; il secondo è il notissimo caso Englaro dell’ottobre 2007.

Con la prima sentenza la Corte di cassazione era stata chiamata a decidere su una richiesta di risarcimento del danno esistenziale recato ad una bambina a causa di un errore medico durante la gestazione. Si trattava di danni assai gravi alla salute della bambina provocati dalla talassemia di entrambi i genitori. La madre, portatrice sana e consapevole della propria malattia, aveva avvertito il medico curante, il quale però non aveva proceduto a sottoporre il padre agli accertamenti del caso. Quest’ultimo, senza saperlo, era anch’egli portatore sano della medesima malattia. In questi casi il concepito può subire danni anche gravissimi al proprio stato fisico. Non è il caso qui di dilungarci sull’esame della sentenza, assai complessa in tutti i suoi risvolti, se non per ricordare che la Corte di cassazione nega che si possa riconoscere alla bambina un “diritto a non nascere”41, essenzialmente sulla base della considerazione che la legge n. 194 non contempla l’aborto eugenetico. La Corte di cassazione riconosce, invece, ai genitori il diritto ad una ingente somma di denaro a titolo di risarcimento per il danno che essi hanno subito a causa della colpa del

39 Costituzione Sud Africa (1996) art. 39, par 1, lettera b. Su questa esperienza si veda lo studio di A. Lollini, La circolazione degli argomenti: metodo comparato e parametri interpretativi extra-sistemici nella giurisprudenza costituzionale sudafricana, in Dir. Pub. Comp. Eur. 2007, 479 ss. 40 G. Zagrebelsky, Le Corti costituzionali, le costituzioni democratiche, l’interdipendenza e l’invisibilità dei giudici costituzionali, cit. p. 4. 41 La sentenza della Corte di cass., sez. terza civile, 29 luglio 2004, n. 14488 è poi stata confermata su questo punto da una successiva sentenza della Cass, sez. terza civile, del 14 luglio 2006, n. 16123

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medico. Nella motivazione la Corte di cassazione richiama esplicitamente nei suoi passaggi fondamentali la vicenda Perruche, che aveva visto per anni contrapporsi in Francia il Consiglio di Stato e la Corte di cassazione, il primo contrario e la seconda favorevole a riconoscere in capo al bambino la titolarità del diritto a non nascere e del relativo risarcimento del danno; la disputa era poi stata risolta dal legislatore42 in senso contrario al riconoscimento del “nuovo diritto”.

Ancora più ampi sono i riferimenti alla giurisprudenza di altre corti, costituzionali e supreme, nel caso Englaro43. La vicenda di Eluana Englaro è così nota da non richiedere di essere ricordata qui. Il risvolto giurisdizionale della sua storia è così complesso da non poter essere qui ripercorso. Basti ricordare che il nodo essenziale che la Cassazione doveva affrontare riguardava la richiesta del padre di Eluana di interrompere l’alimentazione artificiale. La Corte di cassazione sviluppa tutta l’argomentazione muovendo dal principio del consenso informato alle cure mediche e dunque si concentra sul problema di come individuare la volontà della malata in stato vegetativo permanente. Il principio cui giunge la Corte è che in casi di stato vegetativo permanente in cui non vi siano possibilità di recupero della coscienza e si possa dedurre da “elementi di prova chiari, univoci e convincenti” che l’idea stessa della dignità della persona del malato lo porterebbe ad interrompere il trattamento, il giudice può autorizzare l’interruzione se richiesta dal tutore.

Per quel che qui rileva, occorre sottolineare gli ampi richiami di diritto comparato che si rinvengono lungo tutto il corso dell’ampia motivazione. Si cita il codice de la santé publique francese, la sentenza Pretty della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte suprema degli stati uniti, sentenza Vacco del 1997, e poi ancora la Convenzione di Oviedo, due decisioni della Corte suprema del New Jersey, rispettivamente del 1976 e del 1987, di nuovo la Corte suprema degli Stati Uniti nel caso Cruzan del 1990, una sentenza del 2003 del Bundesgerichthof, e infine la House of Lords nel caso Bland del 1993.

Investita di problematiche nuove riguardanti i diritti fondamentali della persona prive di una disciplina legislativa chiara sul piano interno, la Corte di cassazione amplia lo sguardo per cercare un orientamento presso altre autorità giurisdizionali che già abbiano dovuto affrontare il medesimo problema o situazioni paragonabili.

Se però guardiamo un poco più in profondità a queste dinamiche, imparando dagli ordinamenti che da più tempo affrontano questo

42 Corte di cass., sez. terza civile, 29 luglio 2004, n. 14488 ricorda che “La Corte di Cassazione francese (assemblea plenaria), nel celebre arret Perruche del 28.11.2001, con un revirement rispetto alla precedente giurisprudenza, dichiarò invece che "quando gli errori commessi da un medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso con una donna incinta impedirono a quest'ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino handicappato, questi può domandare il risarcimento del danno consistente nel proprio handicap, causato dai predetti errori". Successivamente in Francia é intervenuto il legislatore con la legge n. 303/2002, che ha statuito che nulla può essere richiesto dall'handicappato per il solo fatto della nascita ". 43 Corte di cass. Sez. I civile, 16 ottobre 2007, n. 21748.

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dilemma dell’uso della foreign law, ci accorgiamo di qualche insidia nascosta nel metodo comparativo che vale la pena mettere in luce. Il dibattito americano è particolarmente ricco su questo punto ad ha emblematicamente contrapposto due tra i più autorevoli Justices della Corte suprema americana, Antonin Scalia e Stephen Breyer, il primo fautore di un’interpretazione originalista della Costitutione americana e del relativo Bill of Rights – “do not impose foreign law on Americans”44 - , e il secondo decisamente aperto alle influenze esterne, al punto da arrivare a menzionare in una separate opinion una decisione della Corte suprema dello Zimbabwe45. Vale forse la pena richiamare l’oggetto delle decisioni della Corte suprema USA che hanno più delle altre infiammato la discussione sull’uso dei precedenti stranieri e del diritto comparato. Negli ultimi anni sono stati soprattutto il caso Lawrence v. Texas del 200346 avente ad oggetto il problema della compatibilità con la costituzione federale delle leggi statali che sanzionano penalmente il reato di sodomia alla luce del diritto alla privacy e il caso Roper v. Simmons del 200547 riguardante la pena di morte per i minorenni e la sua compatibilità con l’VIII emendamento che vieta i “cruel and unusual punishments”. Entrambe le sentenze sono argomentate in modo assai ricco sotto ogni profilo, secondo lo stile della Corte suprema americana e in entrambi i casi trova spazio il riferimento al contesto più generale, all’evoluzione del diritto e della coscienza morale non solo all’interno degli Stati Uniti, ma anche in Europa e in altre parti del mondo.

Nel caso Roper sulla pena di morte ai minorenni, vi sono due rilevanti dissenting opinions dei Justices Scalia e O’Connor. Scalia, da sempre contrario all’uso della foreign law e del diritto internazionale come supporto per le decisioni della Corte suprema, muove una critica che si basa essenzialmente sui rischi di arbitrarietà insiti in tale prassi, che emergerebbero sotto diversi profili: anzitutto nella scelta se riferirsi o meno al diritto comparato in un caso piuttosto che in un altro. E’ vero che gli Stati uniti costituiscono una anomalia rispetto ad altri paesi di tradizione occidentale in riferimento alla pena di morte, ma è vero anche che la stessa anomalia americana si riscontra nella legislazione sull’aborto, oggetto di una liberalizzazione estrema che non ha equivalenti, fino al punto da consentire la cruenta prassi della partial birth48 fino ad anni recentissimi. O ancora, la medesima anomalia americana si incontra a riguardo della rigidissima separazione tra chiesa e stato, che ha pochi eguali nel resto del mondo e persino in Europa. Perché si avverte la necessità di riferirsi e di allinearsi al diritto straniero in certi casi e non in altri? In secondo luogo, l’ arbitrarietà dei riferimenti al diritto comparato

44 Così A. Scalia in www.taemag.com 45 Il dibattito è ben rappresentanto in Transcription of discussion between U.S. Supreme Court Justices Antonin Scalia and Stephen Breyer, AU Washington College of Law, Jan 13 2005, www.american.edu/media 46 539 U.S. 558 (2003) 47 543 U.S. 551 (2005). Sempre sulla pena di morte e sulla sua compatibilità con l’VIII emendamento si veda anche la sentenza Knight v. Florida del 1999 sulla crudeltà dell’infliggere la pena di morte a molti anni di distanza 48 Si veda la decisione della Corte suprema USA 18 aprile 2007 Gonzales v. Carhart.

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potrebbe insinuarsi nella selezione degli ordinamenti che si reputano meritevoli di osservazione. La scelta di attingere ad un ordinamento piuttosto che a un altro o sono casuali o sono preorientate a confermare un risultato che già si intendeva raggiungere. Infine, le citazioni di giurisprudenza straniera possono essere arbitrarie perché vengono spesso richiamate astraendole dal loro contesto ordinamentale, sociale e politico e non è affatto detto che il principio richiamato abbia davvero il significato che si intende ricavare. Il Justice Scalia conclude con la sua consueta incisività “To invoke alien law when it agrees with one’s own thinking and ignore it otherwise is not reasoned decisionmaking, but sophistry”.

Nella medesima decisione sulla pena di morte anche il Justice O’Connor, non contraria per principio al richiamo al diritto internazionale e comparato, critica fortemente l’opinione della Corte perchè ciò che accade nel diritto internazionale e all’estero non può avere un’autorità decisiva sulla Corte suprema. La O’Connor sottolinea che se le clausole aperte come quelle che definiscono i trattamenti inumani e degradanti devono essere interpretate alla luce della coscienza sociale e delle sue evoluzioni, è l’opinione diffusa nel popolo americano che deve prevalere e non certo quella della comunità internazionale.

Dalla discussione americana mi pare che si possano trarre alcune importanti considerazioni.

Il richiamo alla giurisprudenza straniera e al diritto comparato può nascondere alcune insidie, perché la sua forza persuasiva preminente dipende dal fatto che si presenta come un metodo “oggettivo” per conoscere gli standards internazionali di tutela dei diritti49, mentre per vari aspetti non va esente dal condizionamento delle preferenze soggettive dell’interprete e della sua pre-comprensione del caso.

Inoltre, come suggeriscono le osservazioni della O’Connor, tale metodo rischia di consegnare i diritti fondamentali alla mercè del consenso. Se è vero che le garanzie dei diritti fondamentali sviluppatesi nel XX secolo sono state tutte orientate a sottrarre i diritti alle consuete dinamiche democratiche e alla cruda legge del principio di maggioranza, l’uso del diritto comparato come strumento per la ricerca di uno standard comune rischia di reintrodurre un nuovo principio maggioritario o del consenso, proiettato questa volta su scala internazionale50.

Infine, come vorrei cercare di dimostrare nelle considerazioni finali, l’uso indiscriminato del diritto comparato in materia di diritti fondamentali può appiattire su un presunto universalismo la ricchezza delle diverse tradizioni e delle diverse culture della famiglia umana, che si esprimono anche sul terreno dei diritti fondamentali. La naturale

49 Da notare che questa critica è stata rivolta anche da alcuni osservatori americani all’operato della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Si veda P.G. Carozza, Uses and misues of comparative law in international human rights: some reflections on the jurisprudence of the European Court of Human rights, in Notre Dame Law Review, 1998, 1, p.217 ss. 50 Si tratterebbe di una nuova, e forse assai più rozza, forma di positivismo dei diritti fondamentali, come osserva P.G. Carozza, op. cit., 1228. Una forma assai più rozza, perché – come noto – le virtù della democrazia e del principio di maggioranza si stemperano tanto più ampia è la dimensione del contesto decisionale di riferimento.

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ambivalenza dei diritti – collocati sul crinale tra universalità e particolarità delle diverse espressioni culturali – esige molta prudenza nel determinare gli standards generali e universali dei diritti, che devono rimanere confinati agli elementi basilari imprescindibili per il rispetto della dignità umana, per non incorrere nel rischio di imporre una particolare visione culturale in nome di un distorto universalismo. Chiariti questi gravi rischi di abuso del diritto comparato in cui potrebbero incorrere le Corti, bisogna però concludere che nel complesso tale prassi potrebbe portare a grandi benefici se non venisse ridotta a tecnica di giustificazione di decisioni già prese, ma fosse finalizzata ad arricchire l’argomentazione razionale e giuridica.

PARTE II

Le nuove sfide dei diritti fondamentali

a. Universalità dei diritti umani e multiculturalismo Le trasformazioni nella tutela dei diritti fondamentali, qui

sommariamente e solo parzialmente tratteggiate, denotano una irresistibile attrazione dei diritti fondamentali oltre i confini della singola costituzionale nazionale. Il fenomeno non è nuovo: dopo la seconda guerra mondiale, una intera stagione politica è stata segnata dal moltiplicarsi degli strumenti internazionali dei diritti umani, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu del 1948, alla Convenzione europea dei diritti e delle libertà fondamentali del 1950, ai Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici sociali e culturali degli anni ’6051. Eppure, negli anni più recenti, i diritti fondamentali sono sottoposti a nuove, e in parte contraddittorie, sfide.

Da un lato, vi è una forte accelerazione verso l’universalizzazione dei diritti fondamentali. Dalla seconda guerra mondiale in poi i diritti umani non sono più un affare privato degli Stati, ma costituiscono il patrimonio di tutta l’umanità che va rispettato e difeso. Come ha scritto Norberto Bobbio: “i diritti fondamentali nascono come diritti naturali, si sviluppano come diritti costituzionali e si dirigono verso la meta dei diritti universali”. “Il cammino continuo [...] procede lentamente dal riconoscimento dei diritti del cittadino di un singolo stato al riconoscimento dei diritti del cittadino del mondo, di cui è stata la prima annunciatrice la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo; dal diritto interno dei singoli stati, attraverso il diritto fra gli stati, al diritto cosmopolitico”52. Mai come oggi i diritti umani sono diventati il principale punto di riferimento delle agende politiche internazionali. Sul continente europeo non c’è iniziativa che non si ricolleghi direttamente o indirettamente alle esigenze della tutela dei diritti fondamentali. A livello globale, sotto l’egida dell’Onu si discutono, nel nome dei diritti, questioni

51 A. Cassese, I diritti umani oggi, Bari, Laterza, 2005, 15 ss. 52 N. Bobbio, L’Età dei diritti, Torino, Einaudi, 1992, XII

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come la moratoria sulla pena di morte, i diritti delle generazioni future, fino all’emergenza ambientale.

D’altra parte, paradossalmente, mai come oggi l’idea stessa dei diritti umani è stata posta radicalmente in discussione dalle critiche post-moderniste e relativiste. L’avanzare dei diritti umani è stata accompagnata dal dubbio sulla loro universalità, un dubbio che li colpisce alla radice, mettendo in discussione il fatto che essi possano essere definiti oggettivamente, applicati universalmente e filosoficamente giustificati. Per restare nell’ambito delle riflessioni nostrane, lo stesso Norberto Bobbio che auspica l’avanzare dell’età dei diritti sul piano universale, denuncia contemporaneamente “l’illusione del fondamento assoluto” dei diritti fondamentali53, dal momento che “non si vede come si possa dare un fondamento assoluto di diritti storicamente relativi”, variabili di luogo in luogo e di tempo in tempo. Per gli osservatori del secondo dopoguerra non vi erano dubbi sul fondamento dei diritti umani universali, come emerge dalle parole di Capograssi: i “tentativi di dichiarazione e organizzazione internazionale dei diritti umani trovano il loro fondamento in una concezione generale della vita e del mondo che, di fronte alle molteplici negazioni degli ultimi tempi, mette capo all’idea cristiana ed europea dell’uomo come ragione e libertà, fine imprescindibile – rispetto al quale ogni ordinamento sociale ha natura puramente strumentale – valore inviolabile e principio costitutivo di ogni vita sociale e storica”54.

Tuttavia, lungo il secolo XX mentre le manifestazioni giuridiche più appariscenti segnavano il vittorioso affermarsi dell’universalismo, contemporaneamente il pensiero filosofico moderno e post-moderno, improntato al relativismo culturale, scavava percorsi diversi e antitetici. Sul piano giuridico, questi percorsi alternativi all’universalismo hanno preso la forma delle teorie del multiculturalismo, che non si limitano a registrare sul piano descrittivo la pluralità delle culture che caratterizza la società contemporanea, ma opera sul piano normativo e prescrittivo, esigendo l’eguale valore di tutte le culture da parte di una sfera pubblica chiamata a svolgere una funzione meramente neutrale o procedurale55.

Così la cultura relativistica e multiculturalista non solo ha gettato un’ombra sulla possibilità stessa di riconoscere i diritti umani mettendone in discussione l’universalità, ma ha sferzato un attacco ancor più insidioso quando ha insinuato che i diritti umani costituiscono l’espressione pseudouniversale di ciò che in realtà nasconde una visione culturale parziale, tipicamente occidentale. Il bersaglio del relativismo è in definitiva l’imperialismo occidentale che – per le riflessioni che qui interessano - sotto il seducente abito dei diritti umani mortifica ogni espressione culturale non riconducibile a quella sviluppatasi sulle due sponde dell’Atlantico. In questa chiave si può comprendere il proliferare di

53 Ivi, 6 54 G. Capograssi, Opere, vol V, Milano, Giuffré, 1959, p. 8. La stessa chiarezza che emerge nei lavori preparatori alla Costituzione italiana, quando si discuteva del futuro art. 2 della Costituzione, dell’anteriorità dei diritti umani rispetto allo stato e ad ogni fonte di potere, sola garanzia della inviolabilità degli stessi. 55 Si veda sul punto il dibattito tra J. Habermas,e Ch. Taylor, Multiculturalismo – lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2002.

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dichiarazioni dei diritti alternative a quella universale, quali la Carta africana dei diritti dell’Uomo e dei popoli del 1981, la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo nell’Islam del 1981, la Carta araba dei diritti e altre ancora56.

Un’accusa che, come mostra bene Mary Ann Glendon nei suoi scritti, è alimentata da alcune tendenze che si stanno consolidando presso le più prestigiose istituzioni internazionali di tutela dei diritti umani. A partire dagli anni ’90, nota l’Autrice57, le istituzioni dei diritti fondamentali facenti capo all’ONU hanno tradito lo spirito della Dichiarazione universale58 e sono state occupate da gruppi di pressione che hanno incominciato a promuovere una visione dei diritti umani parziale, espressione di una cultura iper-libertaria, in cui libertà significa assoluta autodeterminazione, una cultura incentrata su un individuo isolato e astratto dalla società, un individuo a sua volta centrato su se stesso e totalmente autodeterminato. La prima vittima di questa tendenza è stata la versione dignitaria dei diritti59, assai più vicina a quella personalistica di cui è intrisa la Costituzione italiana, che si rivolge non all’individuo astratto, ma alla persona che scaturisce da un noi, all’homme situé costituito da un io e dalle sue relazioni sociali. E l’Europa, con le sue Corti e le sue agenzie dei diritti, sembra costituire inspiegabilmente un terreno particolarmente fertile per l’attecchire di questa visione iper-libertaria e iper-individualistica, nonostante la ricchezza e la varietà delle tradizioni costituzionali che storicamente la caratterizzano e ne diventa a sua volta promotrice.

Come è stato recentemente sottolineato, se è vero che il cuore del relativismo culturale è “l’affermazione della inconfrontabilità delle culture”, non si deve dimenticare che “La prospettiva del relativismo culturale si intreccia profondamente con la denuncia dell’euro-etnocentrismo e del logocentrismo – della «pretesa» cioè dell’Occidente di essere la cultura e di incarnare il telos della storia universale –, che ha dominato incontrastata la scena filosofica europea nella seconda metà del secolo appena trascorso.”60

L’epoca contemporanea è segnata, dunque, da spinte contraddittorie, che scaricano una forte tensione sul terreno dei diritti umani: l’universalità dei diritti si presenta al tempo stesso e come una esigenza insopprimibile e come bersaglio di un duro attacco, in nome del relativismo e del multiculturalismo dominante nella cultura contemporanea.

56 Sul punto si veda la raccolta A. Pacini (a cura di), L’Islam e il dibattito sui diritti dell’Uomo, Torino, 1998 e in particolare il saggio introduttivo di A. Pacini, L’islam e il dibattito sui diritti dell’Uomo, p. 1 ss. 57 M. A. Glendon, Human Rights at the Dawn of the Third Millennium, Treviso, 17 gennaio 2006. 58 Sulle origini, il clima culturale e le dinamiche che hanno condotto alla approvazione della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, si veda il bellissimo libro di M. A. Glendon, A World Made New, New York, Random House, 2001. 59 M.A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, a cura di P.G. Carozza e M. Cartabia, Rubbettino, 2007, p. 90 ss. 60 C. Di Martino, La convivenza tra culture, in M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione, cit., p. 491 ss.

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b. I diritti fondamentali tra dignità di ogni persona umana e diversità storico-culturale.

All’origine di queste spinte contraddittorie vi è la natura ambivalente

dei diritti fondamentali, posti al crocevia tra universalità e storia: “Nella considerazione dei diritti dell'uomo possiamo notare una persistente ambiguità e contraddittorietà. Da una parte essi sono percepiti come assoluti, come esigenze imprescindibili, come valori irrinunciabili sotto ogni cielo e in ogni tempo. Ma, dall'altra, non possiamo sottrarci alla constatazione che essi sono storicamente relativi. Hanno una storia, una loro evoluzione e, in un certo senso, mutano” 61. Nei diritti fondamentali c’è un’aspirazione all’universalità, che giustifica il bisogno di superare i confini del singolo ordinamento giuridico; ma in essi c’è anche una dimensione storica, in cui si riflette la tradizione e la coscienza più profonda di ciascun popolo, di cui le Carte costituzionali costituiscono una delle espressioni precipue. Radicata nel valore della dignità umana, l’idea dei diritti fondamentali contiene necessariamente una dimensione universale. Radicata nelle specificità religiose, morali, linguistiche e politiche di ogni popolo, l’applicazione concreta di tali diritti avviene all’insegna della particolarità e del pluralismo62. Come bene ha messo in evidenza Philip Alston63, universalismo non equivale ad omogeneità: l’universalità dei principi e dei valori è ben compatibile con le differenze negli approcci ai vari problemi.

Questa tensione era ben nota agli estensori della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, i quali hanno faticato non poco a trovare il modo di accordare visioni diverse: all’epoca il fronte di maggiore contrapposizione era tra la visione individualista – libertaria di cui erano portatori i paesi occidentali e la cultura collettivistica marxista che intendeva privilegiare la dimensione sociale e collettiva anche a scapito dell’individuo, promossa dai paesi del blocco sovietico che nel frattempo andava costituendosi. L’accordo inaspettatamente raggiunto sul testo della Dichiarazione universale non ha però risolto una volta per tutte il problema. Come aveva avvertito uno dei padri della Dichiarazione, Jacques Maritain, l’accordo è stato raggiunto sulla estensione dei trenta articoli del testo, ma “se la musica che si potrà suonare sulle trenta corde della Dichiarazione sarà in armonia o sarà dannosa per la dignità umana, dipenderà fondamentalmente dalla misura in cui la cultura della dignità umana si svilupperà”64.

Il problema di salvaguardare ad un tempo l’universalità dei diritti della persona senza sacrificare le specificità culturali di ogni popolo e di

61 F. Viola, Diritti dell’uomo, diritto naturale, etica contemporanea, Giappichelli, Torino 1989, p. 157. 62 P. G. Carozza, Uses and misuses of comparative law in international human rights, in Notre Dame Law Review, 1998, 1235. 63 P. Alston, The Universal Declaration at 35: Western and Passé or Alive and Universal, in International Commission f Jurists Review, July, 1983, 60 ss. 64 L’immagine della Dichiarazione universale come uno strumento a trenta corde che potrà suonare molte melodie è di Jacques Maritain. Il brano riportato è tratto da M. A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, cit., p. 73 ss.

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ogni tradizione è un problema che si ripropone continuamente all’interprete, o meglio agli interpreti, di fronte alle esigenze emergenti dalla realtà. 3. Un percorso possibile

Quali possono essere le strade per ricomporre questa tensione tra universalità e storicità dei diritti umani? Di fronte alle sfide delle multiculturalismo contemporaneo, in cui si incontrano per convivere culture basate su valori a volte inconciliabili, dobbiamo arrenderci alla rassegnazione relativista rinunciando al patrimonio dei diritti universali consegnatoci dalla storia della seconda metà del XX secolo? Davvero l’unica alternativa percorribile è la resa di fronte alla inconfrontabilità delle culture giuridiche, e quindi delle intepretazioni dei diritti umani?

Prima ancora che le opzioni culturali di ognuno, è la storia stessa a rispondere con un “no” inequivocabile a questa tentazione: la costruzione di un jus comune europeo dei diritti o di un patrimonio costituzionale europeo, nelle forme che abbiamo sopra ricordato, il potenziamento del ruolo internazionale dei diritti umani, la diffusione di una comunità dei giudici costituzionali e le migrazioni dei concetti costituzionali da un paese all’altro e da un continente all’altro, dicono di una insopprimibile spinta verso il riconoscimento di un patrimonio proprio di ogni persona umana, rintracciabile ovunque, sia pure sotto svariate forme ed espressioni.

Posta questa esigenza, restano ancora del tutto aperte, per il giurista che ha a che fare con la soluzione dei problemi pratici e delle controversie che sorgono dalla vita reale delle persone, questioni quali: quali sono i diritti universali e come tracciare un confine tra questi e le espressioni contingenti e culturalmente connotate di essi? In che modo convivono universalità e particolarismo?

Tutti gli ordinamenti democratici, ad esempio, garantiscono la libertà di espressione. Tuttavia, il rights talk americano su tale libertà differisce da quello europeo in modo assai rilevante, essendo il primo caratterizzato dalla assenza di limiti, mentre il secondo evolve sempre più verso forme “protette” o paternalistiche, introducendo corposi divieti alla libertà di espressione anche nella forma dei reati di opinione, come dimostra il diverso approccio dei due continenti al problema dell’hate speech o al tema, tanto caro alle istituzioni dell’Unione europea, dell’omofobia. In queste diverse versioni della libertà di pensiero, dunque, quali sono le componenti universali e quali quelle culturalmente condizionate dai portati della storia e dei problemi specifici di una determinata società?

Ovviamente queste problematiche sono talmente radicali, che non permettono nemmeno che sorga la tentazione di rispondere in modo esauriente. Si può però accennare a qualche pista di riflessione e a qualche strada che si profila particolarmente premettente.

Vorrei trarre spunto da un passo che mi è parso particolarmente illuminante: “l’affermazione che ogni persona umana è soggetto di diritti inviolabili è una visione «particolare» dell’Occidente oppure porta ad espressione, in un modo e in un linguaggio inevitabilmente determinato e

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singolare, «qualcosa» di universalmente riconoscibile come valido (o più valido) dalla «ragione» umana in ogni cultura? Esiste, cioè, al di là delle diverse umanità storiche, una «soglia», uno «stile», un «nucleo comune», che caratterizza l’umano come tale (come bisognerebbe dire nella nostra lingua filosofica), pur essendo suscettibile di una rivelazione molteplice, indefinita e sempre aperta? Se ci manteniamo in una fedeltà all’esperienza, non dobbiamo forse parlare di un evento dell’umano che, al di là di ogni incomprensibilità, permette l’incontro e la comunicazione tra le differenti umanità storiche e le rispettive totalità di significati? Non è precisamente tale evento ad emergere nell’incontro e nel confronto con l’altro, con la sua differenza, il suo universo di significati?”65

In queste poche righe mi pare si utilizzino alcune idee, o se volete alcune parole, che possono tracciare una possibile pista da percorrere: a. una esperienza universale elementare, b. l’incontro con l’altro come possibilità per l’emergere di un evento dell’umano in una dinamica di riconoscimento.

a. Una esperienza universale elementare.

Quando ci interroghiamo su problemi come la pena di morte, o quanto meno la pena di morte applicata a persone particolarmente deboli, come i minori o i minorati mentali; quando ci interroghiamo su pratiche diffuse in alcune culture passate o presenti, some i sacrifici umani, il cannibalismo, la schiavitù o la segregazione razziale; quando ci interroghiamo sulla persistente discriminazione diretta o indiretta sulla base del sesso, quando – in una parola - si attinge alle questioni basilari, fondamentali, elementari dei diritti umani, il discorso relativista ha una battuta d’arresto e cede il passo all’imperativo di riconoscere e riaffermare un patrimonio comune od ogni uomo. Nessun sostenitore del multiculturalismo sarebbe disposto, credo, a ritenere che le diversità culturali possono giustificare il cannibalismo, i sacrifici umani, le mutilazioni genitali ed altre pratiche evidentemente lesive della dignità umana. Tutto il diritto internazionale dei diritti umani e, sul vecchio continente tutto lo sviluppo dello jus publicum europeaum66 traducono in termini giuridici questa insopprimibile esigenza della ragione.

Persino le correnti più sensibili alle istanze del multiculturalismo e al valore delle diverse culture non esitano a riconoscere il patrimonio comune ad ogni essere umano. Così, emblematicamente, Charles Taylor, afferma che “l’eguale dignità non può non postulare che esistano dei principi universali ciechi alle differenze. Possiamo non essere riusciti a definirli, ma esistono”67.

Sul piano dei diritti umani, dunque, sembra fuori discussione che esista un nucleo indefettibile appartenente ad ogni uomo; del tutto aperto, invece, è il problema di afferrarne i contenuti.

65 C. Di Martino, La convivenza tra culture, cit., p. 495. 66 G. Silvestri, Verso uno jus commune europeaum dei diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali 2006, p. 7 ss. 67 Ch. Taylor, La politica del riconoscimento, in J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, cit. p. 30

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In ogni caso, è bene ribadire che il primo punto da cui muovere è che un patrimonio universale esiste e riguarda una soglia elementare dell’esperienza umana.

Michael Walzer ha usato un’immagine efficace quando ha parlato di minimalismo e massimalismo, di sottile e spesso, thin and thick, alludendo a valori morali universali minimali e a valori densi e massimali in ogni società particolare68. Tornando di nuovo sul piano giuridico europeo, si è spesso alluso ad una sorta di minimo comune denominatore di valori giuridici comuni a tutti gli stati europei, categorizzato giuridicamente nel concetto delle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”.

Questa impostazione concettuale ha il grande pregio di evidenziare che la ricerca di valori universali deve attestarsi ad un livello minimalistico ed essenziale, deve rimanere ancorata ad un nucleo ristretto di contenuti, deve riguardare aspetti elementari dell’esperienza umana. Tanto più ci si discosta da questo livello elementare e minimale, tanto più ci si addentra nelle specificità culturali e ci si allontana dall’universale.

Ed è bene notare che questo problema non riguarda soltanto i rapporti internazionali fra stati sul piano globale, ma riguarda la convivenza dentro ogni società particolare. Il problema della convivenza fra culture diverse è anche, sempre più, un problema interno, non solo internazionale.

Se concordiamo sull’esistenza di una soglia elementare universale appartenente all’esperienza di ogni persona umana ne derivano, inevitabilmente alcune conseguenze sul piano giuridico. Vorrei evidenziarne almeno tre, tra le tante possibili.

a) La prima: occorre guardare sotto una luce diversa l’imponente

espansione dei cataloghi dei diritti umani, scritti nelle carte o più frequentemente elaborati dalle corti e dai tribunali: mai come negli anni più recenti si assiste ad una espansione dei diritti fondamentali senza precedenti. Ogni desiderio, ogni aspirazione umana resa astrattamente realizzabile dall’evoluzione della tecnica e della scienza, ogni esigenza di giustizia viene rivendicata in termini di diritto fondamentale, allungando a dismisura il catalogo. Le carte dei diritti si sono oramai ingigantite fino ad includere i diritti fino alla quarta generazione e la giurisprudenza delle Corti, nazionali ed europee, arricchisce ancor più la lista. Non è infrequente leggere espressioni come “i diritti delle generazioni future”, “il diritto a non nascere”, “i diritti riproduttivi”, “il diritto a morire”, “il diritto ad avere un figlio”, “il diritto ad ammalarsi” e la lista potrebbe continuare. Se nei decenni passati il terreno più fertile per lo sviluppo dei nuovi diritti era di certo quello economico-sociale, oggi i “nuovi diritti fondamentali” sorgono piuttosto sul tronco della privacy, o del diritto al rispetto della vita privata. A sua volta, il diritto al rispetto della vita privata si è trasformato in un pervasivo diritto all’autoderminazione e alla libertà individuale, che poco ha in comune con il significato originario della privacy: se all’origine tale diritto intendeva individuare uno spazio privato entro il quale non

68 M. Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni, universalismo, Dedalo, Bari 1999, p. 20 ss.

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potesse fare irruzione il potere pubblico, oggi invece esso ha un risvolto per così dire “positivo” ed esige perciò che l’autorità assicuri il soddisfacimento di desideri e aspirazioni riguardanti anche la sfera più personale, riservata e intima. L’esito di questa evoluzione è che ogni distinzione tra desideri privati e diritti fondamentali si dissolve.

Se per molti aspetti uno sviluppo tanto raffinato e sofisticato del catalogo dei diritti può apparire un progresso e un arricchimento, per altri esso determina l’ampliamento delle zone di tensione tra la dimensione universale e la dimensione storico-culturale dei diritti che sopra è stata messa in luce. Tanto più ci si allontana da quella soglia di esperienza elementare riconoscibile ad ogni essere umano, tanto più si entra nel campo minato delle opzioni culturali e delle scelte storicamente condizionate.

Se non si vuole svalutare il concetto stesso di diritti umani e la sua valenza giuridica e politica, occorre contrastare questa tendenza all’uso inflazionistico dei diritti, mantenendo nell’ambito dei diritti umani universali solo ciò che appartiene all’esperienza elementare di ogni persona umana.

b) La seconda conseguenza riguarda il rapporto tra potere giudiziario o istituzioni politiche. Uno dei punti da sempre più controversi e oggi particolarmente problematici nell’attuale fase della tutela dei diritti umani è il rapporto tra ruolo del potere giudiziario e ruolo delle istituzioni politiche. Non è qui il caso di aprire una digressione sul punto; basti soltanto richiamare, tra i più recenti contributi della dottrina italiana, l’importante saggio di Massimo Luciani, Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico69, che segnala con argomenti assai convincenti il rischio di una nuova stagione di espansione del ruolo dei giudici a scapito di quella della politica, o se si vuole una stagione di latitanza della politica con conseguente abbandono di questioni delicate e cruciali inerenti ai diritti fondamentali nelle mani dei giudici. Altrove si è parlato, in termini analoghi, di juristocracy70, per sottolineare la tendenza un po’ aristocratica di individuare nelle aule giudiziarie le sedi più appropriate per le decisioni sui diritti fondamentali71.

Questo criterio della soglia elementare potrebbe essere un’utile guida per mantenere una linea di demarcazione tra il ruolo di garanzia operato dai giudici, in relazione alla soglia elementare che non può essere sacrificata, e il ruolo delle istituzioni politiche che ben possono essere chiamate a decidere su questioni relative ai diritti fondamentali, quando queste non hanno a che vedere con quel nucleo incontroverso e onnicondiviso entro una determinata società. In tal modo si manterrebbe intatta l’alterità dei diritti fondamentali rispetto alla decisione politica e al

69 In Giur. Cost, 2006, 1643 ss. 70 R. Hirschl, Towards Juristocracy, The Origins and the Consequences of the New Constitutionalism, Cambdridge (USA), 2004, 12 ss. 71 Su questi temi, sul ruolo delle istituzioni politiche, anche locali, nello sviluppo dei diritti fondamentali si veda P. Carozza, Human Rights, The “Art” of Democracy and the “Taste for Local Freedom”, Milano, 14 Dicembre 2007, Corso di Alta formazione, La sostenibilità della democrazia nel XXI secolo.

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circuito maggioritario, senza però attrarre nella sfera giurisdizionale ogni decisione riguardante i diritti, anche quando il problema non è garantire, ma decidere.

c) Il terzo ambito in cui il criterio della esperienza elementare potrebbe esplicare un ruolo chiarificatore è quello della linea di demarcazione tra intervento delle istituzioni nazionali, sopranazionali e internazionali nella tutela dei diritti fondamentali. La distinzione tra un livello universale elementare e una dimensione storica e culturale dei diritti potrebbe utilmente contribuire a mantenere un sistema equilibrato di rapporti nell’ambito dei sistemi multilivello della tutela dei diritti, quale è ad esempio quello europeo. Tanto più la tutela dei diritti si colloca ad un livello ampio, tanto più ristretto ed essenziale dovrebbe essere il ventaglio dei diritti riconosciuti, mantenendo a livello internazionale e globale l’intervento contenuto solo entro la soglia dell’esperienza elementare, e lasciando poi alle istanze dei livelli inferiori la facoltà di modulare lo spettro dei diritti, in modo da riflettere le particolarità culturali.

Per quanto riguarda specificamente l’Europa, già si è detto della marcata tendenza all’accentramento nella tutela dei diritti fondamentali che si sta verificando dopo l’approvazione della Carta dei diritti dell’UE e dopo l’allargamento. Se si vuole scongiurare il rischio di una mortificante omogeneizzazione culturale, o peggio ancora di una colonizzazione culturale ad opera delle tendenze vincenti in un determinato momento storico nelle istituzioni europee, occorre mantenere il patrimonio costituzionale comune europeo dei diritti entro una soglia minimale.

Un utile ausilio per regolare in tal senso le relazioni tra i diversi livelli istituzionali, come è stato messo in rilievo72, potrebbe essere offerto dal principio di sussidiarietà. Principio ben noto nell’ordinamento comunitario, esso ancora non ha ricevuto un’adeguata applicazione in sede giurisdizionale, né nell’ambito del riparto di competenze, né sul terreno dei diritti fondamentali, nonostante la Carta dei diritti dell’unione europea ne faccia espressa menzione73. Dottrine come il margine di apprezzamento, il principio di proporzionalità, o nell’ambito dell’Unione europea, la dottrina dell’incorporation dovrebbero essere accuratamente preservate nella giurisprudenza delle Corti europee, come mediatori indispensabili tra l’universale e il particolare, l’integrazione e la differenziazione, l’armonizzazione e le diversità.

b. L’incontro con l’altro e la dinamica del riconoscimento. Le considerazioni fin qui svolte, ci hanno permesso di accertare che

i diritti umani, pur salvaguardando la storicità e la varietà dei diversi percorsi culturali, postulano un livello - elementare - dell’esperienza

72 P.G. Carozza, La sussidiarietà come principio strutturale dei diritti umani nel diritto internazionale, in Europa e Costituzione, a cura di P.G. Grasso, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, 129 ss. 73 La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea menziona il principio di sussidiarietà tanto nel Preambolo, quanto nell’art. 51, dedicato alla definizione dell’ambito di applicazione della Carta stessa.

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umana in cui si può riconoscere ogni essere umano, in ogni cultura, in ogni epoca ad ogni latitudine.

Occorre a questo punto fare un passo ulteriore e porci direttamente la domanda: come identificare la soglia elementare universale? Quale metodo seguire?

Un limite e una difficoltà con cui si sono scontrate le varie teorie dei diritti o dei valori assoluti e universali è proprio quella della definizione dei contenuti di quel nucleo intangibile di valori, universale, sottratto al variare del tempo e della storia: se ne afferma l’esistenza, ma non si arriva specificarne il contenuto in modo soddisfacente e duraturo. A mia conoscenza nessun giudice costituzionale che abbia affermato la dottrina dei limiti impliciti alla revisione costituzionale, l’inviolabilità dei diritti fondamentali o la dottrina dei controlimiti si è mai avventurato nell’impresa di fornire una elenco, un catalogo, una identificazione e tanto meno una definizione di tali valori assoluti. E quando in ambito sopranazionale o internazionale si è giunti al momento della scrittura dei diritti, il testo ottenuto è rimasto inevitabilmente vago ed indeterminato, in definitiva una tappa intermedia che rimanda al futuro interprete la determinazione dei contenuti dei singoli diritti. Tanto più ampia è la proiezione geografica del Bill of rights, tanto più indeterminato è il linguaggio utilizzato. Basterebbe uno sguardo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla Convenzione europea dei diritti umani, alla Dichiarazione universale e agli altri documenti internazionali per avvedersi di tale relazione tra ampiezza della proiezione geografica e indeterminazione del linguaggio. Così, neppure la scrittura della tavola dei diritti risolve tutto il problema. Persino quella straordinaria e irripetibile impresa che è stata la scrittura della dichiarazione universale dei diritti umani è in qualche misura in un lavoro incompiuto, an unfinished business74.

La difficoltà ad afferrare il contenuto dell’esperienza elementare

universale dipende forse da un problema di natura metodologica: la si vorrebbe definire una volta per tutte, in linea astratta, ingabbiare in un documento eterno formulato muovendo da un metodo conoscitivo logico-deduttivo, come se data l’idea della natura umana o dall’idea di uomo se ne potessero desumere i diritti universali per via deduttiva. Il metodo è, invece, in qualche misura rovesciato.

Quel patrimonio umano universale, che accomuna tutti gli uomini, più che una tavola di valori è un’esperienza che emerge dall’interno di una storia viva, di una cultura, di un popolo. Il patrimonio umano universale non è afferrabile senza un soggetto che ne sia portatore: esso non esiste senza l’uomo anzi, non esiste senza l’homme situé, come direbbe Burdeau, che vive a una data latitudine, in una certa epoca storica, in un determinato contesto sociale, politico e culturale. E’ osservando l’uomini e popoli in azione e nelle loro interrelazioni che tale patrimonio tipico dell’umano può emergere. Da questo punto di vista, vale forse la pena

74 M.A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, cit., p. 79.

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prestare attenzione anche al linguaggio: più che di valori, si tratta di esperienza elementare universale.

Ancor più, questa esperienza umana elementare si disvela nell’incontro tra le diverse culture, perché essa non appartiene ad un universo astratto che prescinda dalle forme culturali, storicamente e positivamente determinate, in cui gli uomini conducono la loro esistenza. Essa perciò richiede un metodo di conoscenza che potrebbe essere definito di riconoscimento: nell’osservazione delle varie espressioni storicamente determinate dei diritti fondamentali e delle interazioni fra le stesse può avvenire il riconoscimento del significato universale di cui sono portatrici. Le relazioni e gli incontri tra i soggetti che appartengono a diverse culture permettono appunto l’emergere e il riconoscimento dei valori universali. In questa prospettica le odierne società contemporanee, abitate da diversi e assai disomogenei gruppi, divengono il terreno più fertile per l’emergere di ciò che è comune.

La storia ci mostra che esattamente questa è stata la dinamica che ha condotto al risultato più inaspettato del XX secolo, all’epoca della scrittura della Dichiarazione universale, quando, radunati dalla sapiente e calorosa accoglienza di Eleanor Roosevelt, cinque esponenti delle culture più lontane e avversarie in breve tempo seppero superare ogni genere di ostacolo e giunsero a riconoscere un patrimonio di diritti comune a tutta l’umanità. Non è stata la sintesi di testi, ma l’incontro fra uomini che ha portato all’emergere del patrimonio comune di diritti che è stato consegnato alla storia.

Può essere utile, per comprendere questa dinamica, il rapporto tra cittadinanza specifica e cittadinanza cosmopolitica che Martha Nussbaum rielabora prendendo spunto dalla classicità: “gli stoici [...] argomentano che ognuno di noi vive in due diverse comunità: la comunità locale alla quale appartiene dalla nascita e la comunità che aspira ad allargarsi a tutta l’umanità, la sola ad essere importante e veramente comune. E’ quest’ultimo genere di comunità che si rivela la fonte primaria dei nostri obblighi morali e sociali. Rispettando valori universali come la giustizia dovremmo considerare tutti gli esseri umani come concittadini” 75. E ancora, riprendendo alcuni passi di Seneca, la nostra Autrice continua: “ognuno di noi è membro di due comunità una che è realmente grande e realmente comune [...] nella quale non esistono confini tra popolo e popolo, e l’unico limite che si incontra è quello segnato dal sole; l’altra è quella che ci è stata assegnata al momento della nostra nascita”76. L’ideale del cittadino nel mondo permette di cogliere in tutti gli uomini ciò che è meritevole, ciò che è buono e durevole, cioè la loro aspirazione alla giustizia e al bene e alla loro capacità di ragionare sui mezzi corretti per realizzare tali scopi. Questo ideale non implica rinnegare o abbandonare i legami particolari, essere cittadini del mondo non implica rinnegare le fedeltà particolari. Al contrario, si entra nella vita con una cultura, così come si impara a comunicare attraverso una lingua madre. E’ solo

75 M. Nussbaum, Coltivare l’umanità, Carocci, Roma, 1999, p. 67 76 Id., p. 75.

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appartenendo ad una cultura data e particolare che si può aspirare alla cittadinanza cosmopolitica.

Similmente a quanto accade per la cittadinanza cosmopolitica, anche ai diritti umani universali si giunge non prescindendo o facendo astrazione dalle diverse esperienze storiche e culturali positive, ma rimanendo profondamente immanenti ad esse.

Ma in che modo l’incontro e il confronto fra le culture può far emergere “ciò che è veramente importante e veramente comune”, nel nostro linguaggio, i diritti umani imprescindibili? Vorrei qui sottolineare con insistenza un punto che mi pare particolarmente delicato.

Ciò che nel mondo giuridico più somiglia all’incontro con l’altro e alla dinamica del riconoscimento è la comparazione. Ma chiunque abbia dimestichezza con la comparazione conosce bene il rischio che l’accostamento tra le diverse esperienze si risolva in una sterile descrizione, una giustapposizione senza incontro. L’osservazione descrittiva è solo un primo passo, di per se non ancora sufficiente a permettere l’emergere dei valori universali. Essa può preludere alla semplice migrazione delle idee, e facilmente condurre all’import-export dei diritti fondamentali, con l’effetto di allungare a dismisura i cataloghi senza con ciò facilitare il riconoscimento di ciò che è veramente comune. Oppure, la comparazione - ed è questo il punto su cui vorrei qui insistere - può favorire l’esame critico e riflessivo delle tradizioni. In uno splendido passaggio sul valore della comparazione, Mary Ann Glendon riporta una citazione dello storico francese Fernand Braudel: “Vivi a Londra per un anno e non saprai molto degli inglesi. Tuttavia grazie al confronto, capirai subito e con una certa sorpresa alcune delle caratteristiche tipiche della Francia che prima non avresti mai potuto comprendere”77. L’incontro tra le esperienze dovrebbe mirare a favorire la capacità di distinguere ciò che è particolaristico da ciò che potrebbe diventare un valore per tutti, ciò che è arbitrariamente ingiustificato da ciò che potrebbe essere giustificato mediante un’argomentazione ragionata. E’ di nuovo Martha Nussbaum che ci offre uno spunto interessante, quando ripropone l’esame socratico come strada di congiunzione tra le diverse tradizioni e una cittadinanza cosmopolita. L’autoesame socratico è “un appello alla ragione che non ci obbliga a distanziarci dalla cultura nella quale siamo immersi”, ma piuttosto richiama “il dovere della ragione di esaminare criticamente le convenzioni e le opinioni particolari alla luce dei bisogni e delle aspirazioni umane più universali”78 . In definitiva, essere cittadino del mondo non significa smettere di essere critico verso alcune culture o alcuni aspetti delle varie culture, ma implica un sentimento di compassione e immedesimazione verso ogni essere umano in quanto è compartecipe della medesima dignità umana e in questo tentativo il principale alleato è la ragione.

77 M.A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, cit., 137. 78 M. Nussbaum, Coltivare l’umanità, cit. p. 80 e pp. 74 e 75.

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Che strada indicano, nell’universo giuridico e in particolare nella problematica dei diritti fondamentali che qui stiamo esaminando, le considerazioni fin qui svolte, che sinteticamente escludono che si possa giungere ad una definizione dei diritti universali attraverso una logica deduttiva - perché tali valori non sono conoscibili in via astratta, ma si svelano attraverso la concretezza e la particolarità delle diverse espressioni culturali - e che, viceversa, indicano la strada dell’incontro tra le diverse esperienze culturali come luogo dell’emergere di una esperienza elementare, comune a tutta l’umanità, in cui l’incontro non è semplice giustapposizione di tradizioni, ma valutazione critica delle stesse?

Da queste osservazioni potrebbero derivare molte conseguenze sul piano giuridico, ma vorrei qui limitarmi solo a qualche considerazione conclusiva sul terreno del dialogo tra le Corti, perché mi pare che – piaccia o non piaccia – l’enfasi sui diritti fondamentali sta conducendo allo sviluppo di un Richterstaat, ed è in ambito giurisdizionale che si scaricano le più rilevanti tensioni tra diritti umani universali e diritti fondamentali come espressione storico-culturale di una data tradizione. La nostra epoca non è contrassegnata da una penuria di carte dei diritti, le quali svolgono adeguatamente il loro compito di segnare i punti cardinali che permettano agli interpreti di orientarsi. Oggi, guardando a quei punti cardinali, sono soprattutto i giudici, di qualunque livello, a trovarsi in prima linea a dover risolvere problematiche che spesso non trovano risposte chiare nei testi normativi. Ed è naturale che in questi casi si sviluppi un dialogo tra Corti, in forma più o meno diretta: come ha messo in rilievo uno studio recente di Allan Rosas, il dialogo giurisdizionale può avvenire in molte forme, più o meno dirette, che vanno dal dialogo verticale che si determina a causa del valore vincolante dei precedenti pronunciati dalle Corti supreme di un dato ordinamento giuridico, fino al dialogo orizzontale, informale e indiretto che si realizza tra giudici appartenenti a sistemi giuridici diversi, attraverso le citazioni di giurisprudenza straniera79.

Lo sviluppo della attività giurisdizionale e del dialogo tra le Corti in materia di diritti porta con sé una grande potenzialità che potrebbe rimanere inesplorata se il confronto tra esperienze e tradizioni, in definitiva la comparazione, rimanesse al suo livello più superficiale.

Il valore dell’incontro tra diverse esperienze storiche non è quello della circolazione dei modelli culturali la cui meta sia la contaminazione e l’ibridazione tra diverse tradizioni giuridiche, la nascita di nuovi meticciati giuridici, originati, per dirla con una famosa espressione di Gadamer, dalla fusione degli orizzonti culturali. Sul piano dei diritti umani, una tale prospettiva appare impraticabile, perché condurrebbe alla compilazione di lunghi ed ampi cataloghi di diritti, in cui ogni particolarità culturale dovrebbe essere ricompresa, con esiti contraddittori. L’obiettivo di lasciar emergere i diritti universali e comuni sarebbe mancato. L’obiettivo della comparazione e dell’osservazione delle esperienze altre non è neppure la misurazione del consenso. Questo aspetto è particolarmente delicato nella prassi più volte segnalata dell’applicazione

79 A. Rosas, The European Court of Justice in Context: Forms and Patterns of Judicial Dialogue, in European Journal of Legal Studies, n. 2 of 2007.

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di precedenti giurisdizionali stranieri per la soluzione di casi che non hanno risposte chiare in un dato ordinamento giuridico. In molti casi la citazione della giurisprudenza straniera vorrebbe evidenziare un consenso in via di formazione in diverse parti del mondo. Il semplice fatto di evocare un consenso diffuso sembra corroborare la legittimità di una data scelta. Se questo fosse il senso del richiamo alle esperienze straniere occorrerebbe, allora, applicare anche al dialogo giurisdizionale le regole elementari della democrazia che misurano il consenso secondo il principio di maggioranza, sempre ammesso che tale procedure possano essere adeguate per l’attività giurisdizionale, che per sua natura sul terreno dei diritti è caratterizzata da una logica countermajoritarian. La comparazione ha un indubbio valore intrinseco per allargare l’orizzonte conoscitivo e collocare il giudice e l’interprete in una posizione più favorevole ad una adeguata comprensione del problema su cui è chiamato ad esprimersi. Nel campo dei diritti fondamentali, tuttavia, la comparazione perderebbe ogni significato se diventasse il veicolo per una meccanica imitazione o per una cieca importazione dei modelli culturali vincenti. Se così fosse, essa diventerebbe lo strumento più potente e ad un tempo più seducente di quella deriva imperialistica realizzata in nome dei diritti umani, che poco sopra è stata evidenziata e giustamente criticata. Viceversa, se la comparazione delle esperienze giuridiche non si adagia nell’imitazione delle soluzioni, ma si addentra al livello più impegnativo delle rationes decidendi, essa può diventare una risorsa formidabile per un arricchimento delle ragioni che sostengono l’una o l’altra delle soluzioni possibili. In altre parole, come è stato efficacemente suggerito80 altro è la comparazione probatoria, in cui ci si rivolge al diritto comparato solo per avere ulteriori conferme della decisione già presa in base ad altre considerazioni. La comparazione probatoria importa soluzioni acriticamente. E’ qui che si annidano i maggiori rischi di abuso che sopra abbiamo evidenziato, perché non si tratta di vera comparazione, ma di un artificio retorico in cui le esperienze straniere fungono solo da suggello rafforzativo di decisioni non sufficientemente motivate con le consuete tecniche argomentative. Altro è la comparazione conoscitiva: la comparazione, intesa come sede di incontro con altre esperienze, può avere l’indubbia capacità di allargare la ragione, permettendo di approfondire e ampliare la comprensione delle diverse tradizioni, lasciando emergere gli elementi comuni e le eventuali particolarità. Essa non guarda anzitutto alle soluzioni, ma alle argomentazioni. La comparazione non dovrebbe mai diventare una scorciatoia per il ragionamento giuridico, né una canale di importazione pedissequa di soluzioni, ma piuttosto un’opportunità per l’arricchimento delle argomentazioni, delle ragioni, che possono portare ad accogliere, ma anche a confutare, le risposte giurisdizionali sperimentate in altre parti del mondo.

La posta in gioco non è di poco conto. Se il dialogo giurisdizionale globale che si sta sviluppando interno ai diritti umani è inteso come

80 A. Lollini, La circolazione degli argomenti, cit., 485.

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orpello retorico per l’importazione di decisioni assunte altrove esso apre la strada ad una omologazione culturale, in cui le singole tradizioni e gli stessi principi universali sono alla mercè della cultura dominante; viceversa, se il dialogo giurisprudenziale attinge al più profondo livello delle argomentazioni esso può diventare un utile strumento per l’allargamento delle ragioni e delle motivazioni, capace di distinguere le risposte che sono legate e condizionate dal contesto da quelle che possono utilmente essere generalizzate perché contribuiscono alla fioritura della dignità umana.

Conclusione

Torniamo ora, per un momento, al punto di partenza. Che cosa può voler dire oggi preservare l’inviolabilità della Costituzione dei diritti? Nei nuovi scenari del costituzionalismo globale che cosa può significare proteggere e garantire i valori contenuti nella prima parte della Costituzione italiana?

Se fino ad oggi può essere stata efficace e sufficiente una strategia “difensiva” della Costituzione, tutta tesa a creare principi protettivi e protezionistici del patrimonio costituzionale interno, oggi ben diverso è il ruolo che la Costituzione italiana e la cultura costituzionale di cui è intrisa potrebbero essere chiamate a svolgere.

La Costituzione italiana, se paragonata ad altre Carte dei diritti, presenta indiscutibilmente una originalità culturale, che nel linguaggio a noi più familiare viene tradizionalmente definita in termini di personalismo e pluralismo, e nel linguaggio internazionale sarebbe tradotto in termini di interpretazione dignitaria dei diritti, incentrata sulla “persona”, un essere umano concreto, un “io” che scaturisce da un “noi”. E’ una tradizione in cui i diritti sono oltre che inviolabili, anche indivisibili, in cui vi è spazio per i limiti a tali diritti, perché essi formano un tutt’uno, e vanno bilanciati l’uno con l’altro. E’ una tradizione in cui alcuni diritti hanno l’ambivalente natura di “diritti-doveri”, come quelli dei genitori di educare i figli.

Questa tradizione, improntata al personalismo cattolico, non domina oggi né la scena internazionale né quella europea. Vincente nelle istituzioni internazionali è piuttosto l’interpretazione individualistica e libertaria dei diritti, la cui visione antropologica sottostante è un io svincolato da legami sociali, da gruppi, da società intermedie. E’ un io astratto, privo della sua naturale dimensione sociale. E’ una tradizione in cui i diritti sono letti separatamente l’uno dall’altro e tendenzialmente sono tirannici, assoluti.

Vi è una tensione che attraversa l’attuale stagione dei diritti umani, come bene ha evidenziato Chabod, “la cultura contemporanea dei diritti dell’uomo non si alimenta soltanto all’ispirazione cristiana. Essa deriva anche dal progetto di autonomia assoluta del soggetto umano creato dalla modernità e sfociante nell’individualismo edonista. L’attuale convergenza sui diritti fondamentali si alimenta di questo dualismo antagonista. La matrice antropologica cristiana – anche laicizzata – che ha fortemente ispirato i documenti della metà del XX secolo tende a lasciar posto ad

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un’altra lettura, quella che in nome della libertà, erige in assoluto l’ego dell’essere umano, ridotto a capacità di godere dei beni materiali senza altro freno che l’utilità sociale”81.

In questo scenario la Costituzione italiana potrebbe svolgere un ruolo fondamentale, in quanto portatrice di una tradizione, di una cultura originale e complementare rispetto a quella dominante, in cui potrebbero riconoscersi anche molte altre culture e tradizioni, come già è accaduto in altri momenti della storia, quando il personalismo elaborato e portato all’ONU da Jacques Maritain ha permesso l’incontro delle culture arabe e collettivistica con quella occidentale, grazie anche ai decisivi interventi del libanese Charles Malik, decisivi per giungere alla scrittura e alla approvazione della Dichiarazione universale82.

Ma perché questo accada non basta che il testo della Costituzione rimanga invariato. Occorrono soggetti – uomini e donne, politici, giudici, gruppi sociali – consapevoli della ricchezza che il nostro testo costituzionale racchiude e consapevoli che solo in un incontro critico tra identità culturali e costituzionali può emergere ciò che è veramente imprescindibile per ogni persona umana.

81 J.L. Chabod, L’Unione Europea e i diritti dell’Uomo, in La società, n. 2001, p. 40 82 M.A.Glendon, A World Made New, cit.

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