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guerra civile italiana. Un manifesto della Repubblica sociale itali

La guerra civile italiana. Un manifesto della Repubblica sociale italiana

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La Resistenza in Italia

Nell'autunno-inverno del 1943, le "prime bande" partigiane raccoglievano circa 10mila persone, che già nella primavera dell'anno successivo diventavano 30mila per essere, all'inizio dell'estate, 70-80mila e raggiungere poi, nei primi mesi del 1945, la cifra di 120-130mila persone. Secondo i calcoli il 40-50% dei partigiani apparteneva alle formazioni comuniste (Brigate Garibaldi), un altro 30% era legato al partito d'azione (Brigate di Giustizia e Libertà) ed il resto era diviso tra socialisti e cattolici. C'erano infine le formazioni monarchiche che si dichiaravano apolitiche e facevano riferimento al maresciallo Badoglio. Nella lotta di liberazione caddero oltre 30mila partigiani e 10mila civili inermi. 40mila persone vennero d eportate nei campi di sterminio tedeschi, oltre ai 700mila militari italiani internati dopo l'8 settembre perché si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò.

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La Liberazione

Il 25 aprile 1945 i partigiani liberano Milano dall’occupazione dei nazisti e dai fascisti. Anche la popolazione civile insorge e vaste zone dell’Italia settentrionale - e molte città - vengono liberate prima dell’arrivo delle truppe anglo-americane che, dopo aver superato l’ultimo ostacolo della Linea Gotica in Toscana, incalzano le truppe tedesche in ritirata nella pianura Padana. In Europa, intanto, l’Armata Rossa sovietica dilaga in territorio tedesco e giunge alle porte di Berlino mentre gli anglo-americani, dopo lo sbarco in Normandia, avanzano attraverso il Belgio; Hitler, di fronte alla disfatta, si suicida nel suo bunker. Più di cinque anni dopo l’invasione tedesca della Polonia, dunque, la guerra mondiale giunge al suo epilogo (il Giappone invece si arrenderà solo in settembre, dopo lo sgancio di due bombe atomiche da parte degli americani).

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L’Italia che usciva dalla Seconda guerra mondiale era un Paese dove ai mali di una antica miseria si aggiungevano le distruzioni e i traumi di un conflitto che aveva attraversato la penisola. Anche se – come ha scritto Arturo Carlo Jemolo (1965, p. 298) – “il dopoguerra italiano era per sacrifici, per miseria, per turbolenze, assai meno tetro di quello che i chiaroveggenti credevano di dover prevedere nel 1944”, è pur vero che il disagio sociale rimase a livelli di guardia per tutto il periodo della ricostruzione. Nel 1948 gli iscritti agli elenchi comunali dei poveri erano quasi 3 milioni e 700 mila, di cui il 57 per cento risiedeva al Sud e nelle Isole[1]. Mentre i prefetti nei loro rapporti manifestavano il timore di rivolte dettate dalla disperazione (Colarizi 1996), intraprendenti giornalisti percorrevano le zone più depresse del Paese descrivendo le condizioni dei contadini del Fucino e dei pastori dell’Aspromonte (Garofalo1956).

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Ladri di biciclette

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È consuetudine suddividere la storia delle migrazioni internazionali nell'Europa del dopoguerra in tre fasi:

la prima fase (1950-1967) della ricostruzione post-bellica.

la seconda fase (1967-1982) della crisi strutturale e della nuova divisione internazionale del lavoro

la terza fase (dal 1982) ed attuale della crisi dei Paesi in via di sviluppo e della ripresa delle economie capitaliste.

Nella prima fase (1950-1967) le migrazioni internazionali rispondono ad una reale domanda di lavoro delle aree d'immigrazione, costituite quasi esclusivamente da paesi industrializzati dell'Europa centro-settentrionale già in precedenza importatori di manodopera e provengono per lo più dalle aree europee meno sviluppate. E' l'epoca della ricostruzione post-bellica e della manodopera necessaria al suo compimento e sono proprio gli immigrati, provenienti per lo più dal bacino del Mediterraneo, che costruiscono il miracolo economico di molti di questi Paesi (Germania, Svizzera, Regno Unito, Belgio, Francia). L'Italia partecipa in questi processi solo come Paese d'emigrazione ma bisogna tenere presente che al suo interno sono presenti forti migrazioni dalle regioni del Sud verso il Nord industrializzato che risponde alle stesse logiche.

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Una popolazione poco istruita

• Dati istat 1951 (valori percentuali)• Laureati 1• Diplomati 3.3• Licenza Media 5.9• Licenza elementare 59.0• Alfabeti senza titolo di studio 17.9• Analfabeti 12.9

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Le donne ai margini della vita sociale

• Su 100 laureati nel 1951 l’80.7% sono maschi.• Oggi su 100 laureati il 51.3% sono donne.

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In passato la donna era un accessorio del capofamiglia (padre o marito). Nel Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello ad essere ammesse ai pubblici uffici. Le donne, se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro, perché ciò spettava al marito. Alle donne veniva ancora chiesta l’"autorizzazione maritale" per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, né potevano transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti. Tale autorizzazione era necessaria anche per ottenere la separazione legale. L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.

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Nel periodo Risorgimentale in Italia il dibattito sui diritti delle donne, la loro educazione ed emancipazione fu assai provinciale. Molti degli "illustri pensatori" del Risorgimento italiano si limitarono a ribadire la soggezione della donna. Secondo Gioberti: "La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé". Per Rosmini: "Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata". ..Simili teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia unita, riformato soltanto nel 1975. Nell’Italia unita le donne vennero quindi escluse dal godimento dei diritti politici. Nel 1966 la contessa di Belgioioso, patriota e letterata, scriveva in proposito: "quelle poche voci femminili che si innalzano chiedendo dagli uomini il riconoscimento formale delle loro uguaglianza formale, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi. [...] Le donne che ambiscono a un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e abnegazione, contentarsi di preparare il suolo, seminarlo, ma non pretendere di raccoglierne le messi". Infatti, la Camera dei Deputati del Regno d’Italia respinse la proposta dell’on. Morelli volta a modificare la legge elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne al pari degli "analfabeti, interdetti, detenuti in espiazione di pena e falliti"

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Nei primi anni del novecento nasceranno associazioni orientate al raggiungimento dei diritti civili e politici - come l’Alleanza Femminile e il Comitato nazionale pro suffragio - e associazioni legate a partiti e ideologie di altro tipo - come l’UDACI, Unione Donne di Azione Cattolica Italiana, che si batteva contro la laicizzazione della scuola - e l’Unione nazionale delle donne socialiste, che svolse interessanti inchieste sul lavoro femminile. I socialisti però si scontrarono spesso con le femministe, accusate di essere portatrici di interessi borghesi. Bissolati affermò che "la proposta femminista ha lo scopo di attribuire maggiori diritti alla donna, entro la cerchia delle forme di proprietà e di famiglia borghese. Dunque il movimento femminista è un movimento conservatore. Quand’anche raggiungesse i suoi fini, non avrebbe ottenuto altro che interessare attivamente un maggior numero di persone alla conservazione degli attuali ordinamento sociali. All’opposto, la lotta di classe porta con sé una vera elevazione sociale della donna ... [Il femminismo] esiste in quanto non vede tale soluzione. Esso non è dunque altro che un fenomeno di incoscienza sociale". Nel 1910 Turati si pronunciò contro il voto alle donne fintanto che "la pigra coscienza politica e di classe delle masse proletarie femminili" finisca con il rafforzare le forze conservatrici.

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Nel maggio del 1912 Giolitti si oppose strenuamente al voto alle donne, definendolo "un salto nel buio". Secondo Giolitti il suffragio alle donne doveva essere concesso gradualmente, a partire dalle elezioni amministrative: le donne avrebbero potuto esercitare i diritti politici solo quando avessero esercitato effettivamente i diritti civili. Nel dopoguerra riprese il dibattito sul voto alle donne. Il neonato Partito Popolare appoggiava il suffragio femminile. Secondo Don Sturzo infatti: "Noi che abbiamo nel nostro programma cristiano l’integrità e lo sviluppo dell’istituto familiare, sentiamo che a questo programma non si oppone, in alcun modo, la riforma del suffragio alla donna, che anzi è conseguente ad esso ogni riforma la quale tenda ad elevare al donna e a conferirle nella vita autorità, dignità e grandezza". Il 6 settembre del 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile, con 174 voti favorevoli e 55 contrari. Le camere però vennero sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla. L’anno successivo di nuovo la legge venne approvata alla Camera, ma non fece in tempo ad essere approvata al Senato perché vennero convocate le elezioni.

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Il fascismo inaugurava una sua politica sul tema dei diritti delle donne. Le donne vennero spinta, per quanto possibile, entro le mura domestiche, secondo lo slogan: "la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo”. Le donne prolifiche venivano insignite di apposite medaglie. Il controllo delle nascite era considerato un "attentato all’integrità della stirpe". Anche la pubblicistica fascista tendeva a dissuadere le donne lavoratrici ridicolizzandole. Nel libro "Politica della Famiglia" del teorico fascista Loffredo, si legge: "La donna deve ritornare sotto la sudditanza assoluta dell’uomo, padre o marito; sudditanza e, quindi, inferiorità spirituale, culturale ed economica" per far questo consiglia agli Stati di vietare l’istruzione professionale delle donne, e di concedere soltanto quell’istruzione che ne faccia "un’eccellente madre di famiglia e padrona di casa". Le donne condannate per antifascismo durante il ventennio sono poche, ma le partigiane furono tutt’altro che poche. Il 1 febbraio del 1945, su proposta di Togliatti e De Gasperi venne infine concesso il voto alle donne. La Costituzione garantiva l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti.

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Il supermarket dei valori