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La mia stele di Rosetta

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Il mio primo ricordo di lingue straniere si è formato sui treni, ancheperché sui treni ci sono praticamente nato (mio padre era macchini-

sta), e quei fischi e quei ta-tan-ta-tà  delle rotaie e la litania ipnotica dei venditori abusivi di cibi e bevande mi sono stati lingua materna qua-si quanto l’italiano e il dialetto napoletano.

 Viaggiavo regolarmente da Salerno a Napoli, dove mia madreaveva lasciato tutta la sua famiglia; tre o quattro volte all’anno si an-dava a Latina, dai nonni paterni, e una volta ogni anno o due, in ot-tobre, a Genova, per il Salone Nautico (le barche sono l’altro luogo  

dove sono nato, e da lì è scaturita un’altra lingua materna, presto

rinnegata).Il viaggio a Genova era temutissimo, per via della fatica e della

scomodità di andare e tornare in trentasei ore. Si viaggiava di notte,nei vagoni cuccette, si arrivava all’alba, e si trascorreva l’intera gior-nata, da carcerati, al salone; la sera si mangiavano le trofie al pesto intrattoria e si prendeva l’ultimo treno per tornare a casa, evitandol’insostenibile costo di un albergo.

Per sfuggire al chiasso o al fetore dello scompartimento, percombattere la noia con la continua, quasi dolorosa mutevolezza delpaesaggio; per seguire oziosamente, all’arrivo nelle stazioni, le figuredei passeggeri e inventarmi le loro storie; per farmi schiaffeggiaredal vento nelle giornate calde, e in quelle fredde scrivere o disegnaresul vetro, costruendo con l’alito bianchissimi fogli evanescenti; pertutto questo mi avvicinavo appena possibile a un finestrino del cor-ridoio, e lì davanti la mia attenzione veniva spesso attratta dalle due

placchette di alluminio fissate al telaio centrale, sulle quali si potevaleggere la nota frase: “NON GETTATE ALCUN OGGETTO DAL FINE-

STRINO” in italiano, francese, tedesco e inglese.Le più complesse istruzioni multilingue degli elettrodomestici

finirono in casa mia, e nelle mie mani, soltanto alcuni anni dopo, ri- velandomi l’esistenza di lingue ancora più esotiche. Alcune di esseerano assolutamente indecifrabili; ne dedussi, con grande stupore,che i popoli che le parlavano non si erano mai mischiati né coi Gre-

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ci né coi Romani. Le placchette sui treni furono però il mio primotesoro linguistico, la mia prima stele di Rosetta. Quelle sei parole ita-

liane furono la chiave per risolvere, nella mia ingenuità di bambinosapientone, l’enigma di tutti gli altri segni che una mano ignota viaveva inciso.

Solo l’inglese, a un anglofilo precoce come me, sembrava nonopporre una speciale resistenza. Quanto al francese, ben presto micongratulai con me stesso per aver riconosciuto la perfetta corri-spondenza, la dipendenza da radici comuni di “NON” e “NE”,“GETTATE” e “ JETER ”, “FINESTRINO” e “FENÊTRE”. Molto più o-

stico il tedesco, eppure mi appigliavo a quel chiarissimo “FENSTER ”,intuivo che “ AUS DEM” doveva essere una specie di preposizione ar-ticolata, e me lo facevo bastare.

Questa mia ostinazione, oltre a farmi illudere di essere diventa-to con poco sforzo un poliglotta, mi ha permesso di ottenere alme-no un risultato concreto: ancora oggi, oltrepassate di slancio la fan-ciullezza, l’adolescenza e la giovinezza, dopo essermi trasformato

nel corpo e nella mente e aver subito gli inevitabili scossoni della vi-ta, saprei ripetere, su due piedi, senza preavviso, le frasi di quellaplacchetta in tutte le sue lingue. Infima abilità, certo, difficilmentespendibile sul mercato del lavoro, eppure a me carissima, perché milega indissolubilmente a quel bambino che altrimenti farei fatica ariconoscere.

 Al tedesco mi accostai di nuovo soltanto dieci anni dopo, du-rante un viaggio-premio in Germania e Olanda per la Maturità. Ac-

cadde di nuovo su un treno, quello della metropolitana di Monaco.Una voce registrata annunciava le stazioni e forniva altre informa-zioni che ovviamente non capivo. Era una voce di donna. Il timbrolimpido, la combinazione di dolcezza e asperità, l’andamento placi-do di una dea che tutto vede e tutto governa, mi provocarono unpiccolo sconquasso interiore. Privi di significato, privi di un corpo,quei suoni sembravano nascondere, a me che non avevo ancora co- 

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nosciuto una donna, segreti e promesse molto più attraenti e spaven-tosi delle povere parole di dieci anni prima.

 Tornato a casa, mi procurai una grammatica tedesca, e in pochigiorni la divorai da cima a fondo, incamerando quel poco che anco-ra conservo della lingua. Ma non valse, il mio studio accanito, a sve-larmi il mistero di quella voce, né quello della Donna (al quale, a miainsaputa, desideravo attingere). E così, sapere oggi che “nächsterHalt” vuol dire “la prossima fermata”, non suscita in me alcun bri-

 vido di piacere.Ma sto divagando, sarà meglio tornare al tema principale...

 All’analisi linguistica della mia stele seguì una riflessione più fi-losofica: perché proprio quelle lingue e non altre? Presto mi accorsiche il tedesco e il francese erano le lingue che si parlavano oltre iconfini che il treno attraversava, in Francia, Germania, Svizzera e

 Austria. Se la mia intuizione era esatta, però, l’inglese non aveva di-ritto di esserci. Quella presenza incongrua, pensai, era dovuta sol-tanto al suo prestigio, che attribuivo alle antiche glorie del Regno

Unito, e non al moderno strapotere degli Stati Uniti. Mi sentii oscu-ramente offeso: non tolleravo i privilegi, e di certo non potevo tolle-rare lo stravolgimento della geografia e la brutalità della Storia. Ecosì, facendo tesoro di una recente lettura, associai immediatamentequell’abuso al linguaggio ottuso e violento del lupo, quando accusal’agnello di inquinare l’acqua a monte, con sommo disprezzo dellalogica e della giustizia.

Soltanto di una cosa non mi accorsi, e ancora per lungo tempo:

che l’Italia aveva un altro confine, quasi nascosto, nell’estremoNord-Est, oltre il quale si parlava una lingua di cui quelle placchettenon davano conto. Una lingua slava, nemica, povera. Tuttora nonsaprei dire se la sua esclusione fosse stata sancita per motivi politici,per una ritorsione o una spocchia tutta occidentale; o forse quelconvoglio, arrivato chissà come a Trieste, finiva su un invalicabilebinario morto, guardato a vista da due grossi e minacciosi respin-genti, ed era destinato a tornare subito indietro, diritto diritto verso

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