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LA PITTURA DI ICONE IN RUSSIA ORIGINE E SVILUPPO 1. Premessa L'icona occupa un posto di rilievo nella spiritualità bizantina insieme alla celebrazione liturgica. Sarebbe impossibile capire la "devozione ortodossa" se si la ignorasse. Sia essa domestica per servire al culto della famiglia o ieratica per fare cornice alla liturgia, l'icona è oggetto di una vera e propria venerazione che la differenzia da una semplice immagine religiosa. Ha assunto, nel corso dei secoli, caratteri diversi: Sontuosa, aulica, arcaizzante nell'epoca bizantina e post-bizantina, l'icona è popolare se non addirittura folcloristica e apparentemente in decadenza nelle epoche tarde o nelle regioni più provinciali. Tuttavia, obbedisce a leggi tecniche, estetiche e mistiche che la rendono non solo un oggetto di culto, ma soprattutto un vero oggetto sacro. Icona (dal greco "eikon") significa, etimologicamente, immagine. A Bisanzio, nell'epoca in cui facevano la loro apparizione le prime immagini a carattere cristiano, la parola "icona" (immagine, ritratto) indicava ogni raffigurazione del Cristo, della Madre di Dio e dei santi, sia che queste immagini erano stati dipinti murali o portatili, a prescindere dalla tecnica di esecuzione. Nella storia dell'arte, quest'appellativo fu riservato alle opere da cavalietto dipinte, scolpite o lavorate a mosaico minuto. Ma il termine indica più precisamente l'immagine sacra mobile della Chiesa bizantina, consistente, il più delle volte, di un pannello in legno, privo di cornice aggiunta, dipinto secondo le tecniche tradizionali. Nell'accezione moderna, quindi, la parola "icona" viene generalmente utilizzata per indicare tavole raffiguranti personaggi o soggetti tratti dal Vecchio e dal Nuovo testamento oppure dell'agiografia. L'origine dell'icona non si confonde sic et simpliciter con il culto delle immagini in generale, per via dello stile che gli è proprio e dell'esecuzione effettuata seguendo una tecnica particolare. Verosimilmente, la regione siro-palestinese, culla del cristianesimo, è il luogo da cui le icone traggono la loro origine. S'ispiravano all'arte antica, alle pitture degli affreschi e delle miniature, dei bassi rilievi dei sarcofagi. Si diffusero in Asia Minore e soprattutto a Bisanzio. La pittura d'icone divenne una delle tradizioni artistiche più importanti dell'Oriente cristiano grazie sia all'area geografica in cui si svilupparono, sia alla loro durevolezza nei secoli. I primi autori cristiani sono, per la maggior parte, molto reticenti se non addirittura ostili, come Eusebio di Cesarea, al

La Pittura Di Icone in Russia

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LA PITTURA DI ICONE IN RUSSIAORIGINE E SVILUPPO 1. PremessaL'icona occupa un posto di rilievo nella spiritualità bizantina insieme alla celebrazione

liturgica. Sarebbe impossibile capire la "devozione ortodossa" se si la ignorasse. Sia essa domestica per servire al culto della famiglia o ieratica per fare cornice alla liturgia, l'icona è oggetto di una vera e propria venerazione che la differenzia da una semplice immagine religiosa. Ha assunto, nel corso dei secoli, caratteri diversi: Sontuosa, aulica, arcaizzante nell'epoca bizantina e post-bizantina, l'icona è popolare se non addirittura folcloristica e apparentemente in decadenza nelle epoche tarde o nelle regioni più provinciali. Tuttavia, obbedisce a leggi tecniche, estetiche e mistiche che la rendono non solo un oggetto di culto, ma soprattutto un vero oggetto sacro.

Icona (dal greco "eikon") significa, etimologicamente, immagine. A Bisanzio, nell'epoca in cui facevano la loro apparizione le prime immagini a carattere cristiano, la parola "icona" (immagine, ritratto) indicava ogni raffigurazione del Cristo, della Madre di Dio e dei santi, sia che queste immagini erano stati dipinti murali o portatili, a prescindere dalla tecnica di esecuzione. Nella storia dell'arte, quest'appellativo fu riservato alle opere da cavalietto dipinte, scolpite o lavorate a mosaico minuto. Ma il termine indica più precisamente l'immagine sacra mobile della Chiesa bizantina, consistente, il più delle volte, di un pannello in legno, privo di cornice aggiunta, dipinto secondo le tecniche tradizionali. Nell'accezione moderna, quindi, la parola "icona" viene generalmente utilizzata per indicare tavole raffiguranti personaggi o soggetti tratti dal Vecchio e dal Nuovo testamento oppure dell'agiografia.

L'origine dell'icona non si confonde sic et simpliciter con il culto delle immagini in generale, per via dello stile che gli è proprio e dell'esecuzione effettuata seguendo una tecnica particolare. Verosimilmente, la regione siro-palestinese, culla del cristianesimo, è il luogo da cui le icone traggono la loro origine. S'ispiravano all'arte antica, alle pitture degli affreschi e delle miniature, dei bassi rilievi dei sarcofagi. Si diffusero in Asia Minore e soprattutto a Bisanzio. La pittura d'icone divenne una delle tradizioni artistiche più importanti dell'Oriente cristiano grazie sia all'area geografica in cui si svilupparono, sia alla loro durevolezza nei secoli.

I primi autori cristiani sono, per la maggior parte, molto reticenti se non addirittura ostili, come Eusebio di Cesarea, al culto delle immagini. In compenso, all'inizio del Vili secolo, san Giovanni Damasceno lo difenderà in tre celebri Omelie. La venerazione delle icone fu un dogma di fede formulato dal II Concilio di Nicea (787), essendo l'icona considerata come una conseguenza dell'Incarnazione. In seguito alla restaurazione del culto delle immagini, queste divennero progressivamente parte integrante della liturgia della Chiesa bizantina. In effetti, il VII Concilio Ecumenico (Nicea II) aveva giustificato ed enunciato la venerazione delle immagini sacre, precisando che questa venerazione non è l'adorazione ma il mezzo per giungervi, poiché l'icona, trasparenza del suo prototipo, permette di conoscere Dio attraverso il "bello". La chiesa intera, con la sua architettura, i suoi affreschi o mosaici, costituisce un'icona gigante che sta allo spazio come lo svolgimento liturgico sta al tempo: "il cielo in terra", la simbolizzazione della divino-umanità, luogo dello Spirito dove la "carne per - la - morte" si trasforma in soma pneumatikon , in corporeità spirituale. La vittoria degli iconofili sull'iconoclastia fu giudicata dalla Chiesa come il Trionfo dell'Ortodossia (843): l'icona intende quindi esprimere una verità rivelata e partecipa alla celebrazione della liturgia.

2. Le origini della pittura d'iconeLe più antiche icone che siano pervenute datano tutte a partire della metà del VI secolo, al

periodo ancora pre-iconoclastico. A una iniziale diffidenza per il culto delle immagini segue, dal IV secolo, per giustificarlo, una precisa ragione teologica: Dio si è incarnato nella figura umana del Cristo^ rendendo così legittima la raffigurazione di Dio in sembianze umane. Dapprima limitate alla raffigurazione dei martiri e santi, furono poi estese alle figure di Cristo, della Vergine Maria e dei principali protagonisti degli eventi biblici ed evangelici. Se inizialmente l'arte delle icone dei santi è, di fatto, inconcepibile senza un preciso riferimento, sia tecnico sia stilistico, alla tradizione della

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ritrattistica funeraria ellenistico-romana tra il I e III secolo dopo Cristo - vede i famosi ritratti ad encausto del Fayum in Egitto - gli onori ufficialmente tributati alle immagini del Salvatore o della Madonna rimandano senz'altro alla pratica allora vigente riguardo alle effigie dell'imperatore che rendevano presente la sua autorità in assenza della sua persona fisica, e a cui era devoluto un omaggio ufficiale.

Nell'Oriente cristiano il gruppo di icone più consistente è quello conservato nel monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, cui sono da aggiungere la Madonna col Bambino, il San Giovanni Battista e i Santi Sergio e Baccoz anch'esse di provenienza sinaitica, che si trovano ora nel Museo di Kiev, dopo essere state potate in Russia nel XIX secolo. Le icone di Kiev e alcune icone della raccolta sinaitica, come il Cristo Pantocrator, il san Pietro, la Madonna col Bambino tra angeli e santi sono databili tra il VI e il VII secolo.

In Occidente, sono ormai conosciute un gruppo d'icone di soggetto mariano, conservate in alcune chiese di Roma e databili anch'esse tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo. Di fattura sia orientale sia occidentale, anzi romana, sono antichissime e preziose testimonianze del culto cristiano delle immagini a Roma. Si tratta, per citare le più note, della Madonna col Bambino detta del Conforto, oggi nella chiesa di S. Maria Nuova al Foro Romano, la Madonna col Bambino del Pantheon (S. Maria ad Martyres), la Madonna Regina col Bambino ed angeli detta della Clemenza nella chiesa di S. Maria in Trastevere, la Madonna "Avvocata" o di San Sisto, venerata oggi nella chiesa delle Domenicane del Rosario a Monte Mario, per non parlare della venerata Madonna "Salus populi romani" di S. Maria Maggiore, di datazione tuttora incerta.

Tutte queste icone - del Sinai o di Roma -, sono dipinte ad encausto o a tempera direttamente su tavola o su tela applicata su un supporto ligneo. Dal punto di visto tecnico, l'interesse straordinario di queste icone paleocristiane, bizantine e romane è dovuto al persistere di una tradizione della tarda pittura ellenistico-romana, che, in un certo qual modo, sopravvivrà ancora nella pittura di icone, lungo i secoli successivi, fino alla lontana Russia.

3. L'arte di Bisanzio dal VI al XI secolo e la Rus1 di KievL'arte bizantina trovò definitivamente la sua propria tipologia figurativa all'inizio del VI

secolo/ quando appaiono con chiarezza i tratti di quel fenomeno peculiare rappresentato dal bizantinismo. Le sue prime e nello stesso tempo più splendide esperienze sono i mosaici di Ravenna. Già qui, come sempre in seguito, l'arte bizantina si presenta quieta e solenne, piena di luce. Al suo interno non vengono ammessi elementi eccessivamente dinamici, eccessivamente emotivi, tanto meno tenebrosi e negativi, per non offuscare l'ideale di quiete contemplativa delle sue figure. Sulle pareti della basilica di sant'Apollinare Nuovo, ad esempio, lo stile artistico diventa convenzionale, denso di simboli, tendente a rifiutare le forme naturali e le associazioni vitali consuete.

Nelle composizioni non esiste uno spazio concreto, che limita sempre il luogo dell'azione. Intorno alle raffigurazioni si snoda un ininterrotto fondo dorato, che immerge ogni singola creatura nell'infinito. Tutte le figure - in pose frontali o rigidamente fissate in un movimento di tre quarti - partecipano dell'azione sacra. Le composizioni sono precise e solenni, collocate in un'atmosfera di pace in cui si ammette alcun elemento insignificante o vacuo.

Sia le raffigurazioni in quanto tali, sia l'atmosfera astratta dal tempo e dello spazio in cui esse esistono, appaiono come prive della forza di gravita terrena e illuminate dalla luce divina. Tutti gli elementi individuali - si trattino dello stato d'animo, del gesto o della posa - sono sostituiti da elementi tipologici. Il simbolismo e la premeditata irrazionalità dei mezzi artistici inducono inevitabilmente a pensare che la vita autentica di ogni forma, scorra al di là del mondo visibile. Il linguaggio artistico perde in immediatezza e guadagna in profondità. Dietro ogni suo tratto, dietro ogni forma individuale e singola figura si cela un concetto. Il sistema dei mezzi artistici è chiamato ora a creare l'immagine del mondo trascendente.

La massima pienezza simbolica è raggiunta da questo tipo d'immagine nei mosaici di ravennati di S. Vitale e di S. Apollinare in Classe. I volti sono simili tra loro. La loro differenziazione tipologica, così come la resa dello stato d'animo, scompare quasi del tutto.

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Un'eguale pienezza spirituale, corrispondente all'eguale riflesso del principio divino nell'uomo, conferisce loro un'espressività uniforme.

La mancanza di profondità prospettica, l'accentuata piattezza delle raffigurazioni toglie la percezione del dinamismo e predispone alla concentrazione. Le silenziose figure immobili, vivono in uno spazio infinitamente profondo, dorato, saturo di luce. Si rifugge deliberatamente dalla percezione reale di tutti gli oggetti: la terra, le montagne, gli alberi, i tessuti, gli edifici sembrano composti di un'unica materia reincarnata, quasi immateriale.

Il fulgore dei mosaici, lo sguardo intenso dell'imperatore Giustiniano che rende omaggio alla Divinità, la dignità rituale della scena dimostrano che l'immagine ha recuperato qualcosa del prestigio che aveva un tempo. Essa, però, deve la sua forza a questo diretto contatto con l'osservatore. Non attende più di essere da lui corteggiata e interpretata ma cerca di soggiogarlo. L'arte è tornata ad essere uno strumento, e un mutamento di funzione da luogo ad un mutamento di forma. In altre parole, si tratta dell'adattamento delle formule esistenti alle nuove esigenze di solennità imperiale e di rivelazione divina. In questo mondi forme lievi e incorporee che emergono sull'oro del fondo, un oro che simboleggia la luce celeste, non v'è posto per niente di sensibile, di casuale, di transitorio. E' un mondo trasfigurato di immagini elevate, spiritualmente assorte, e di un linguaggio artistico purificato da ogni associazione terrena. Questo mondo corrispondeva all'essenza della spiritualità bizantina assai più di tutti i tentativi di variazione dei mezzi stilistici classici, impegnati dagli artisti del periodo paleocristiano del IV-V secolo. Nel corso di questo processo d'adattamento, le conquiste dell'illusionismo dell'antica Grecia furono progressivamente accantonate e tutti i mezzi artistici utilizzati si distaccano nettamente dall'illusionismo della pittura ellenistica, romana e paleocristiana.

L'immagine bizantina non era concepita come una libera "invenzione"; in certo modo partecipa della natura della verità platonica. Anche i cicli narrativi della Chiesa bizantina non sono più da intendersi come il racconto immaginato di un evento trascorso. Segnano il ciclo annuale delle feste e il ripetersi all'infinito del mistero della vita salvifica di Cristo nella liturgia della Chiesa. Non sorprende che ciò ha portato ad un'attenzione esclusiva per quegli elementi che erano considerati distintivi e a limitare, in un certo qual senso, il libero gioco dell'immaginazione tanto dell'artista come dell'osservatore. Tuttavia, l'arte bizantina non ha mai abbandonato del tutto le scoperte dell'arte greca antica, le modificazioni dello schema attraverso lo scorcio e il modellato ottenuto con la luce e l'ombra.

In tale modo, nell'arte di Ravenna, prima che in ogni altro luogo, si formarono con chiarezza tutti i tratti fondamentali dello stile che può essere chiamato autenticamente bizantino. Tra tutti quelli creati nelle diverse epoche da artisti bizantini, sembra che sia proprio questo lo stile che corrisponde con maggior profondità e rigore alle peculiarità spirituali della Chiesa di Bisanzio. Tuttavia, non era l'unico, ma coesisteva accanto a stili più morbidi, classici, ellenizzanti (mosaici di Dami in Grecia). Di più, non fu neppure lo stile dominante nella pittura bizantina lungo quasi tutto l'arco della sua esistenza. Probabilmente era troppo ascetico e severo per assumere questo posto. Più diffusi erano altri stili artistici, orientati in qualche modo verso le tradizioni classiche. Talvolta si trattava di una vera e propria discendenza diretta rispetto al classicismo come avvenne dopo l'iconoclasmo, alla metà dell'XI secolo: si trattava di veri e propri prestiti, una sorta di citazioni letterali dell'arte antica. Così avvenne alla fine del IX - prima metà del X secolo, all'epoca del cosiddetto "Rinascimento Macedone", in cui le rare opere databili avevano ancora un carattere severo e dei colori smorzati (mosaici dell'abside di S. Sofia a Costantinopoli).

Benché un grafismo accentuato ed un gusto del linearismo caratterizzano alcune opere dell'epoca del regno degli imperatori Comneni, nel XI e XII secolo già si nota nell'icona bizantina un ritorno alla tradizione della pittura classica antica che dedica una maggior attenzione alle forme dei volumi, agli atteggiamenti, agli abiti. Talvolta, nei periodi più maturi dell'arte bizantina, soprattutto nella seconda metà dell'XI secolo, come pure in diversa misura nel XII-XIV secolo, ci si rivolse nuovamente ai classici, ma_su un'altra via: sulla via di una forte spiritualizzazione della forma classica, cioè della spiritualizzazione di oggetti sensibili per natura come la carne o li tessuto. Questo ritorno alla tradizione antica, ellenistica soprattutto, appare chiaramente nelle opere

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contemporanee della dinastia degli imperatori Paleoioghi (1261-1453), e, tra le altre, nelle pregevoli icone del XIV secolo dipinte a Costantinopoli, periodo in cui la pittura conosce un nuovo sviluppo e i temi iconografici, allora trattati, sono molteplici.

E' interessante notare come la grande arte ieratica di Ravenna della prima metà del VI secolo (e successivamente della prima metà del VI-VII secolo, l'arte di Salonicco, del Sinai, di Cipro) fosse, in realtà, molto meno diffusa a Bisanzio. E' vero però che quest'arte non cadde mai in dimenticanza. Ne vediamo delle variazioni nel IX-X secolo nei mosaici di S. Sofia di Salonicco e di S. Sofia di Costantinopoli. Tuttavia l'autentica rinascita di questo tipo d'arte, o addirittura una sua nuova eccelsa fioritura, avviene nei grandi complessi bizantini della prima metà dell'XI secolo: i mosaici di Hosios Lucas in Focide, gli affreschi di S. Sofia ad Ochrida e, soprattutto, i mosaici di S. Sofia a Kiev (dopo il 1037). Infatti, quest'antica tipologia bizantina di arte risorge nuovamente in un'epoca di forte incremento della spiritualità bizantina, nel periodo della fioritura dei monasteri dell'Athos. Ed ecco che nella prima metà dell'XI secolo divampa una potente fiammata di quest'arte, tesa ad una spiritualità drammatica ed esclusiva, senza cedimenti di sorta. L'inizio di quest'arte è situato nell'antica Ravenna: la sua conclusione sembra essere nelle terre slave, in S. Sofia di Kiev con un'intensità maggiore e quasi inverosimile.

Fin dall'inizio a Bisanzio esistè l'Impero" e la sua corte ma anche il "Deserto" e il suo corteo di monaci, vale a dire gli uomini più spirituali, gli asceti e i contemplativi che dimoravano in eremi solitari e nei deserti della Siria, Palestina ed Egitto. Se all'atmosfera culturale del primo corrispondeva sempre un'arte fedele alle tradizioni e ai gusti classici, all'atmosfera di vita spirituale del secondo faceva eco la corrente più radicale e spiritualizzata della pittura bizantina, sul tipo dei mosaici ravennati del VI secolo e dei mosaici kieviani dell'XI secolo.

Non ha significato che i committenti sarebbero imperatori o principi, perché quest'arte era determinata da una ben precisa concezione del mondo, con una figuratività e uno stile corrispondenti. Nell'arte di Bisanzio si poteva temporaneamente "deviare", ma per poi rinascere nuovamente al momento giusto e opportuno com'è stato il caso nella prima metà dell'XI secolo. Si verificò allora un incremento spirituale generale dell'arte bizantina, e soprattutto rinacque la corrente forse più radicalmente ascetica, quale si osserva nei: mosaici greci di Hosios Lucas e della Nea Moni di Chios. Su questa strada, per volontà della sorte, s'incamminò anche l'arte di Kiev dell'epoca di Jaroslavo il Saggio, riunendosi così alla gran tradizione iniziata dai mosaici di Ravenna del VI secolo.

Per una felice sorte, il giovane stato kieviano fin dall'inizio della sua vita cristiana ricevette per la propria arte da Bisanzio tutta la ricchezza spirituale che questa poteva offrire. Naturalmente il principe Jaroslavo il Saggio aveva invitato da Costantinopoli gli artisti migliori. Ci si riferisce, però, all'orientamento spirituale prescelto, volto ai valori spirituali massimi, e non a quelli mediani. Nei mosaici di S. Sofia di Kiev incontriamo nuovamente i tratti ben noti. Essi si ritrovano poi nella famosa icona di San Giorgio del Cremlino di Mosca, eseguita nello stesso periodo, e forse da uno degli stessi maestri che hanno lavorato in S. Sofia. Committente dell'icona potrebbe essere stato lo stesso laroslavo il Saggio che con il battesimo aveva preso il nome di Giorgio.

Le figure appaiono maestose, enigmatiche, lontane dalle vanità del mondo. Esse sembrano elevarsi al di sopra del quotidiano, nella sfera di una realtà ideale ed inaccessibile. La loro immobilità interiore testimonia la loro gran concentrazione sullo spirituale. I volti, marcati e tondeggianti, con enormi occhi, massicce sopracciglia simmetriche, simili ad archi architettonici, e con un'espressione elevata e immota, non possiedono una plasticità viva ed elastica, ma, al contrario, assumono una solidità ideale che richiama l'idea d'eternità, riecheggiando i mosaici ravennati del VI secolo.

4. La pittura sacra nella Rus' dei X - XIII secoliConviene rilevare che questo straordinario capolavoro d'inculturazione che è l'arte sacra - in

particolare delle icone - dei popoli slavi dell'antica Rus' è la conseguenza dello sposalizio, nella fede cristiana di Bisanzio e degli slavi orientali. Infatti, Kiev era posta all'incrocio di varie correnti economiche e culturali, di vari scambi ed era soggetta ad assorbire le diverse influenze provenienti

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da Bisanzio o convergenti in essaz dalla Scandinavia, dall'Oriente arabo e persiano, e dai Balcani, seguendo le vie che costeggiano il Mar Nero ed attraversano il Caucaso. L'arte e le tradizioni culturali dell'Oriente cristiano penetrarono nella Rus' non solo attraverso la Geòrgia e l'Armenia da un lato e la Bulgaria dall'altro, ma anche tramite contatti diretti con Costantinopoli, attraverso la Crimea.

Infine, oltre alle influenze che esercitarono sull'arte kieviana le correnti culturali ed artistiche generate dalle civiltà vicine, non si può dimenticare il ruolo che ebbero le condizioni e le tradizioni locali le quali finirono con il dare la loro impronta anche alla nuova arte "aristocratica" rilevante dalla tradizione bizantina, e che non smisero mai di affermarsi in seguito. Alla fine del X secolo, Vladimir, principe di Kiev, scelse definitivamente per il cristianesimo greco e ne fece la religione di stato, del suo stato nato dalla graduale unificazione di varie tribù slave. Lo stato kieviano ereditò - in un senso "in blocco" - da una civiltà che aveva raggiunto un alto livello di sviluppo, il più alto nell'Europa di allora. Kiev e gli altri principati della Rus' assimilarono rapidamente ciò che avevano ricevuto da Bisanzio, sviluppandolo in seguito e dandogli i loro caratteri specifici, la loro impronta particolare, soprattutto nel campo della pittura e dell'architettura.

Nel periodo che va dal IX al XII secolo, furono innalzate costruzioni in ogni parte della città di Kiev al punto che questa avrà avuto all'epoca circa una cinquantina di chiese senza contare numerose cappelle e monasteri. La più importante tra queste chiese era senz'altro la cattedrale di Santa Sofia, chiesa monumentale, la cui costruzione fu iniziata intorno al 1037 e conclusa intorno al 106L E' sopravvissuta fino ai nostri giorni anche se molto alterata nella forma esterna. Oggi possiamo ammirare la parte meglio conservata e restaurata della decorazione interna di Santa Sofia di Kiev. Mosaici ed affreschi impreziosiscono la chiesa. Un grande insieme omogeneo di mosaici dalle sfumature ben definiti è opera d'artisti bizantini; sono espressioni dei nuovi programmi iconografici, apparsi a Bisanzio già alla fine del IX secolo, al termine della crisi iconoclasta ed in seguito alle affermazioni del VII Concilio Ecumenico, legati al significato simbolico delle diverse parti della chiesa che rappresenta e sintetizza l'universo creato.

Al centro della cupola raffigurante il cielo invisibile appare nella gloria il Pantocrator attorniato dagli arcangeli e dagli apostoli: un'immagine sobria e severa, allo stesso tempo, del Padre e del Figlio, Dio Onnipotente e Maestro del mondo, un solo e stesso volto della Trinità consustanziale indivisibile. Con la scena dell'Annunciazione in cui l'Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria attualizzano la volontà salvifica delle tre Persone Divine a favore della salvezza dell'umanità, il presbiterio o "bema", divenuto la rappresentazione della Chiesa terrestre, pone nella conca dell'abside una bellissima Vergine orante, immagine della Chiesa in preghiera ed icona per eccellenza della realtà dell'incarnazione del Verbo. Questa figura grandiosa della Theotokos, sede e abitacolo della Sapienza eterna, invocata nel corso dei secoli come "baluardo indistruttibile" illustra il ruolo insostituibile esercitato, nell'economia della Salvezza, da Maria che genera il Signore e lo dona agli uomini. Oltre alla raffigurazione clipeata del "Cristo-Sacerdote" e a quella della Deesis, Supplica in favore dell'umanità, della Madre di Dio e del Precursore presso il Cristo, tema escatologico e messaggio di speranza lungo il camino dei fedeli fino al giorno del Signore, le altre scene del "bema" si riferiscono all'Eucaristia con la Comunione degli Apostoli e la serie dei santi Vescovi e diaconi, raffigurati - come già a S. Apollinare in Classe di Ravenna - nel luogo stesso in cui la Chiesa continua a far l'anamnesi del Mistero salvifico nella celebrazione della Divina Liturgia.

Per quanto riguarda la pittura portatile, non ci sono pervenute icone anteriori alla fine o all'inizio del XII secolo. Tuttavia, è possibile ammirare alcuni affreschi relativi a quell'epoca come ad esempio quelli della chiesa della Natività della Vergine nel monastero di S. Antonio a Novogorod (1125), dallo stile severo e prossimo al romanico occidentale, o come i tanti altri insiemi di affreschi che questa città ha conservato e che, ancora al giorno d'oggi, appare come un museo a cielo aperto dell'architettura e della pittura della Rus' antica. Particolarmente belli sono gli affreschi della chiesa di S. Giorgio in Staraja Ladoga (1167-1180), e quelli distrutti dall'ultima guerra della chiesa del Salvatore sulla collina Neredica (1198-1199), in cui ritroviamo temi iconografici già incontrati a Kiev, come il Cristo-Sacerdote, ed il segno d'influenze siriane e

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caucasiche.Tra le immagini sacre di questo periodo, ricordiamo tuttavia quel capolavoro, oggi

mondialmente conosciuto e venerato, che è la celebre Madonna detta di Vladimir, icona bizantina databile intorno al 1120, la cui storia è strettamente legata a quella dei popoli dell'antica Rus' e della loro arte, alla qual è servita come fonte d'ispirazione nel corso dei secoli successivi. Portata da Costantinopoli a Kiev verso il 1130 e considerata come un vero palladium, quest'icona, una delle più importanti immagini sacre del mondo, è sempre stata oggetto di una venerazione particolare. Il volto di Maria, vera trasfigurazione dell'ideale di bellezza classica frutto della tradizione antica greco-romana, raggiunge un grado di spiritualità intcriore raramente eguagliato, degno delle migliori opere bizantine. L'espressione della Madonna testimonia una compassione profonda ed universale che suscita la contemplazione delle sofferenze ineluttabili del Figlio, espressa tuttavia con una sobrietà ed un'intensità altrimenti inenarrabili. Quest'icona, ricca d'espressioni contenute e raffinate, che appartiene al tipo delYUmilenje, vale a dire della "Tenerezza", corrisponde aìYEleusa dei Greci, ha sostenuto in un certo modo i primi passi nella fede cristiana dei poli dell'antica Rus'.

L'icona russa è organicamente legata da una linea di continuità all'arte bizantina, divenendo non solo oggetto di culto, ma anche esempio da imitare. Nella Rus' di Kiev, già dalla fine del X secolo, furono portate sicuramente molte icone greche, che servirono da modelli per gli iconografi. Purtroppo si è conservata solo un'opera di fattura costantinopolitana proveniente da Kiev: la famosa icona già ricordata della Madre di Dio di Vladimir, trasferita in seguito nella città di Vladimir poi a Mosca e oggi conservata alla Galleria Tretjakov. Tuttavia, ciò non vuoi dire ancora che la pittura d'icone russa sia una semplice derivazione di quella bizantina. Già dal XII secolo iniziò un processo d'emancipazione. Lo sviluppo più intenso si ebbe nel Nord, in città come Pskov e Novgorod

Le icone della Rus' antica erano eseguite su tele incollate a delle tavole di tiglio, di betulla, più raramente di pino, d'abete o d'altri legni; un preparato di levkas (dal greco leukos = bianco) a base di polvere di gesso mescolato a colla formava un fondo bianco sul quale si dipingeva a tempera usando colori sciolti nel tuorlo d'uovo. Sull'icona veniva poi passata una mano di vernice all'olio di lino e all'ambra, detta olifa, per darle una brillantezza che poi scuriva nel giro di qualche decina d'anni. E' quest'ima delle ragioni per cui tante icone ritrovate ai nostri giorni risultano spente, annebbiate o sbiadite finché una buona pulizia non porta alla luce colori vivaci e un disegno dal tratto sicuro. Rimane beninteso che tutte le icone antiche non sono necessariamente opere di gran talento; come in ogni produzione artistica, accanto ad autentici capolavori troviamo opere di minor pregio, belle tuttavia, oppure semplicemente interessanti, in certi casi addirittura ingenue o maldestre. Il criterio della qualità è fondamentale per capire l'arte delle icone e non si deve limitare ad una sola analisi iconografica.

5. Lo stile "greco-russo" e l'arte di NovgorodLe icone esistenti più antiche datano della fine del XII secolo e sono il frutto delle scuole

locali di Novgorod e di Vladimir-Suzdal. Degli atelier che producevano icone esistevano tuttavia anche a Kiev poiché il "paterikorì'o raccolta della vita dei santi, del monastero delle Grotte (Kievo-Pecerskaja Lavra), ci ha tramandato il nome del monaco Alimpij, pittore d'icone allora famose.

Queste prime icone appartengono ancora ad uno stile che potremmo definire "greco-russo", tanto vicino ai modelli bizantini, che risulta difficile stabilire l'origine d'alcune opere. Possiamo quindi parlare di stile greco-russo o, meglio ancora, di stile "greco-kieviano" a proposito di splendide icone quali il suddetto san Giorgio del Cremlino di Mosca (XII secolo), dall'aspetto ancora molto costantinopolitano, o il bellissimo Arcangelo dai capelli d'oro, opera più tipicamente russa proveniente sicuramente da una Deisis di Novgorod (fine del XII secolo), attualmente al Museo Russo di San Pietroburgo. L'Arcangelo è particolarmente degno di nota per l'espressione dolce ed un poco malinconica che gli conferiscono i grandi occhi a mandorla e l'inclinazione del capo. Il Volto santo del Cristo "nerukotvorenif (non realizzato da mano umana) o "acheroropita" è anch'esso da annoverare tra le opere più belle del XII secolo. Per la finezza del tratto che tuttavia non esclude un certo vigore, quest'icona risente sensibilmente dell'arte aristocratica di Bisanzio. Forse è opera di un artista venuto dalla capitale dell'Impero o di un pittore russo formatosi alla

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scuola di un maestro greco. Altre icone sono realizzate con uno stile simile e il loro livello aristocratico è equivalente.

Ricordiamo ad esempio l'Annunciazione detta di Ustiug, oggi esposta alla Gallerie Tretjakov di Mosca; anche quest'opera è talmente vicina alla grand'arte di Costantinopoli da essere stata talvolta attribuita ad un artista bizantino residente a Novgorod.

Le antiche icone di Novgorod danno l'idea più completa dello sviluppo della pittura russa dall'XI al XIII secolo. Sul loro esempio si può seguire distintamente il processo di graduale distacco dalla tradizione bizantina e le sue trasformazioni. Ma purtroppo le icone più antiche d'altri centri artistici non permettono di ricostruire un quadro altrettanto organico. Si tratta la maggior parte delle volte di singoli capolavori, sopravvissuti per caso, che non formano una linea continua di sviluppi e che è molto difficile raggruppare in gruppi stilistici ben precisi. Probabilmente il punto di partenza per la formazione di uno stile iconografico in questi centri artistici fu l'eredità kieviana, che nella storia dell'arte russa ebbe circa la stessa importanza dell'epoca carolingia nel medioevo occidentale.

Tra le numerose icone che il XIII secolo ci ha tramandato, non possiamo dimenticare la bellissima Dormizione della Vergine, conservata anch'essa presso la Galleria Tretjakov di Mosca, che polarizza l'attenzione per la complessità della composizione, la gran qualità e l'eleganza dell'esecuzione così come per l'emozione contenuta ma reale espressa dal volto di S. Giovanni nell'atto di chinarsi sulla Vergine.

Sarà nella città sfuggita all'invasione tartara, Novgorod, che si manterrà una tradizione artistica continua, originaria della Bisanzio degli imperatori "Macedoni" e dei "Comnenni" ma nella quale si stabiliranno la tradizione popolare ed i gusti locali, trovando fin da allora il loro carattere nella vivacità dei colori, e lasciando poco spazio alle sfumature e al modellato, diversamente dall'arte dei Greci, più "incarnata". Tra le icone che meglio esprimono l'arte novgorodiana, dobbiamo citare per prima un san Giovanni Climaco, della fine del XIII secolo, notevole per la sua semplicità tutta popolare e per i toni vivaci e ben definiti.

Nello stesso periodo, una scuola autonoma, pur conservando molte affinità, nasce anche a Pskov e conosciamo inoltre diverse icone molto belle che testimoniano degli inizi della pittura di Vladimir-Suzdal (XII-XIII secolo). Un'opera di gran qualità proveniente probabilmente dalla scuola di Suzdal raffigura i santi russi Boris e Gleb; queste due figure viste di prospetto l'una accanto all'altra e armata di spada corrispondono in pieno allo stile epico caratteristico dell'arte e della cultura della Rus' di quel periodo.

Se, come è vero, a Novogorod non è esistita frattura tra il XII ed il XIV secolo, è soprattutto dal XIII al XV secolo che questo centro produce un gran numero d'icone di gran valore artistico, caratterizzate sempre da quel gusto spiccato per il linearismo ed il sintetismo, di ammirevole vivacità nei colori che spesso rinunciano alle sfumature: il Profeta Elia (Galleria Tretjakov) e il magnifico san Giorgio a cavallo (Museo Russo di San Pietroburgo) ne sono esempi lampanti.

Le numerosissime icone in stile nordico, spesso popolare, talvolta "naif", si collocano nella scia dell'arte di Novgorod. Quanto alle icone di Tver, sono ancora poco conosciute sebbene costituiscono l'oggetto di studio dei ricercatori.

6. Scuola di Jaroslavl1Alcune icone del XIII secolo di eccellente qualità provengono da Taroslavl' e ci permettono di

raggruppare attorno ad esse altre opere stilisticamente affini. Caratteristiche di questo gruppo sono una maniera pittorica più libera e disinvolta e un colore più schietto. I tratti russi emergono più chiaramente; queste icone sono più sgargianti e gioiose di quelle del XII secolo. Gli artisti che le crearono rivelano un particolare amore per le decorazioni, di cui talvolta rischiano di abusare (cf. La Madre di Dio del Segno o Grande Pana ghia). In quest'amore per la decorazione ornamentale s'intravede una tendenza continua all'"arabesco" tanto amato dai russi. I colori sgargianti e allegri, insieme a molte licenze iconografiche, non si trovano comunemente nella tavolozza bizantina (cf. Salvatore dai capelli d'oro). L'ampio uso d'elementi ornamentali è una caratteristica tipica dello stile di Jaroslavl'. Analogie con una serie d'opere del Duecento italiano si spiegano con il fatto che sia i maestri italiani che quelli russi attingevano alla stessa fonte, e in altre parole la pittura bizantina del

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tardo XII e del XIII secolo. Il numero d'icone russe antiche conservate fino ad oggi è così esiguo, e il loro assortimento è tanto casuale che sarebbe del tutto azzardato cercare di ricostruire altre scuole iconografiche.

Quasi nulla ci è rimasto della pittura su tavola kieviana, non sappiamo quasi niente dell'iconografia antica a Rostov e a Mosca, né esistono esempi antichi delle "maniere del nord". A Kiev tuttavia è legata l'icona della Madre di Dio di Sven', che la tradizione vuole proveniente dal monastero delle Grotte di Kiev. Il volto della Vergine conserva ancora molto del canone greco tradizionale mentre i santi Feodosij e Antoni) denotano una concezione dell'immagine assai più agile e realistica, insieme ad una composizione molto arcaica di esecuzione quasi frettolosa.

Ancora più oscura è la nostra conoscenza delle icone antiche moscovite anche se Mosca fu tra le prime a riprendersi dal tremendo colpo inferto dai tartari, prendendo il posto della città di Vladimir. Fu tuttavia eseguita probabilmente a Mosca l'icona raffigurante l'arcangelo Michele in posizione rigorosamente frontale con Giosuè inginocchiato. E' rilevante il colorito denso, scuro, che imita chiaramente lo smalto prezioso, gli ornamenti dorati che donano una particolare eleganza a quest'icona in cui la solennità trionfale si combina con la profonda spiritualità del volto severo, ispirato alla tradizione del XII secolo.

L'icona della Sinassi degli arcangeli ci aiuta a far luce sull'arte delle regioni settentrionali della Rus' nel XIII secolo, di quello stesso Nord che successivamente diventerà l'ultimo custode dell'eredità artistica della Rus' contadina. Con colori del tutto particolare la Madre di Dio di Kuben, del tipo della "Tenerezza" e di stile piuttosto primitivo, rivela un peggioramento qualitativo della tecnica iconografica bizantina matura, giunta nella Rus' nell'XI secolo. Si manifesta, nello stesso tempo, una caratteristica nuova: l'esecuzione si fa più libera e meno canonica, una tradizione pittorica che troverà una continuazione nelle icone di Pskov e nelle maniere del Nord.

In questa prima fase di sviluppo, in cui lo stile iconografico era ancora assai monolitico, incominciano a delinearsi i primi contorni delle singole scuole, a Novgorod, Vladimir, Jaroslavl1. Certamente anche Kiev aveva la propria scuola iconografica, ma le sue opere purtroppo non si sono pervenute. I principali centri di produzione artistica nel periodo più antico erano le botteghe preso le corti principesche e i palazzi arcivescovili, che avevano saputo assimilare nella maniera più organica l'estetica bizantina, in un periodo in cui l'influenza di Bisanzio era ancora molto forte e il processo di cristallizzazione dei tratti nazionali era solo agli inizi.

7. La Scuola di MoscaMentre alcune brillanti scuole di pittura di icone si erano sviluppate fin dal XIII secolo a

Novgorod ed in alcuni altri centri regionali, Mosca all'epoca non era altro che una piccola cittadina rurale sottomessa al potere dei principi tartari dell'Orda d'Oro. Tuttavia, nel corso del XIV secolo, si allentò il rapporto di subordinazione che legava il vassallo al signore. La città si trasformò e la sua attività artistica ebbe un rapido sviluppo. Divenuta nel 1326 residenza dei metropoliti di Kiev, Mosca, nell'attesa di dominare il paese intero, ricostruisce le sue chiese, impreziosendole ben presto con grandiose iconostasi. Nello stesso tempo, i principi moscoviti conducono una vera guerra d'indipendenza nazionale contro i Mongoli, sconfitti a Kulikovo nel 1380. Infine, le relazioni con Costantinopoli - che, sotto l'egida degli imperatori Paleologhi, vive in quell'epoca un brillante rinascimento culturale ed artistico, - vengono ben presto ristabilite.

Durante il cosiddetto "Rinascimento paleologo" l'irradiazione della dottrina teologica di uno dei protagonisti della vita spirituale e culturale di allora, Gregorio Palamas, arcivescovo di Tessalonico (+1359), ebbe profonde ripercussioni sull'arte pittorica di Bisanzio che diventò una finestra aperta sul mistero della maestà divina, attraverso l'elemento della "luce increata", l'energia divina che percorre, trasfigurandola, tutta la matiera del reale creato. La pittura d'icone diventa il luogo della trasfigurazione permanente della realtà così come sarà visibile all'umanità nel giorno della Seconda Venuta del Signore. Tale periodo tardopaleologo è quello del trionfo del palamismo o dell'esicasma, in cui l'attenzione si incentra sui problemi della fede, della preghiera, della comunione con Dio e della vita interiore dell'uomo, l'ideale ortodosso di spiritualità avvicinandosi alla forma di vita monastica.

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In questo periodo si riattivano quindi i rapporti dell'antica Rus', in primo luogo della fiorente Mosca, con Bisanzio. Alla Rus' di Kiev, caduta nel XIII secolo in seguito alle invasioni tartare, fa seguito un periodo di torbidi e di lotte intestine fra i principati russi, incapaci di trovare un accordo nel segno della lotta contro il comune nemico. La ripresa avviene solo alla fine del XIV secolo, nel segno della nuova unità promossa intorno al giovane stato moscovita guidato da Dimitri Donskoj. Mosca s'impone quindi come nuovo centro politico ed ecclesiastico delle terre russe che riunisce. Parallelamente, la scuola di Mosca prende il sopravvento nell'arte della pittura di icone. Ad iniziare dal 1380 circa la pittura moscovita conoscerà il suo periodo di grande splendore. Le icone più antiche oggi conosciute risalgono alla prima metà del XIV secolo e testimoniano dell'intervento di artisti già noti unitamente alla presenza di influenze diverse, spesso difficili da determinare. Pittori provinciali, provenienti dal principato di Vladimir-Suzdal e da Novgorod in special modo, vanno a lavorare a Mosca dove portano il loro stile ed il loro modo di concepire l'icona. In quella città trovano molte opere importate da Costantinopoli, incontrano dei seguaci del pensiero e dell'arte propri alla capitale bizantina e, talvolta, degli artisti di nazionalità greca, attirati dallo sviluppo crescente della città. Alcune icone bizantine di epoca paleologa erano già giunte in Russia e alcune di esse, come la Deesis "Vysoch//'"della Galleria Trerjakov, l'Annunciazione, la Madre di Dio del Don e la Madre di Dio con scene dell'Acathistos, tutte conservate nel Cremlino, esprimono una maestria e una profondità spirituale senz'uguale in tutta la pittura tardobizantina. La figuratività e lo stile classici su cui si basano le tendenze artistiche del tempo sono qui estremamente ispirati e, trasfigurati. Da tutti questi influssi nascerà a Mosca, nel XV e nel XVI secolo, quella che sarà considerata l'icona russa classica.

Tra gli artisti di Costantinopoli che lavorarono in Russia, il più celebre è senz'altro Teofane il Greco che avendo lasciata Bisanzio si reca a Novgorod e a Mosca. Nel 1378 adorna d'affreschi la chiesa della Trasfigurazione di Novgorod, poi arriva a Mosca nel 1395. Patetiche e severe, le sue opere evocano la tradizione bizantina ma nella gamma dei loro colori dai toni spesso densi e spenti, compaiono macchie vivaci e contrastante più specificatamente russe.

Nei primi anni del XV secolo, Teofane lavora nella chiesa dell'Annunciazione al Cremlino di Mosca. Vi dipinge la parte mediana dell'iconostasi, sola opera che gli sia stata attribuita con certezza. Tra i vari artisti locali che partecipano con lui a questa grande impresa figura un giovane monaco che diventerà in seguito il più famoso pittore di icone di tutti i tempi: Andrej Rublev.

Morto tra il 1405 e il 1409, Teofane il Greco aveva portato con se, da Bisanzio, la conoscenza di nuove correnti. Unendo un profondo senso del monumentale ad una grand'abilità, quest'artista seppe dare un modellato sapiente ed un'intensità drammatica ai suoi personaggi. Tra queste sue tecniche pittoriche, particolare espressività ha la luce di un'intensità e subitaneità senza pari negli altri stili dell'epoca: essa ricade in larghe macchie che abbracciano letteralmente tutta la forma.

8.1 grandi maestri dell'icona russa o la metamorfosi del classicismoCreatore, insieme a Teofane il Greco, dell'icona russa classica, Andrej Rublev (1360/70-1430

circa) è giustamente considerato all'altezza dei più grandi artisti occidentali dell'epoca. La sua influenza sulla pittura d'icone russe sarà notevole, tanto da vivo quanto da morto. Alcune icone monumentali che rimangono della sua produzione sono oggi conservate nelle chiese e nei musei della Russia. Fanno parte dell'iconostasi della chiesa dell'Annunciazione del Cremlino ed alcuni pannelli superano i due metri d'altezza. Rublev ha dipinto inoltre alcuni affreschi nella cattedrale della Dormizione della città di Vladimir nel 1408 (il Giudizio Universale). Fu il prosecutore russo dell'opera di Teofane il Greco benché il suo stile sia completamente diverso. Famose per la loro perfette armonia, le sue opere danno prova di una spiritualità, di una ricchezza di sentimenti, di una poesia poco comuni e mai espresse fino ad allora con tale intensità. I suoi personaggi sono agili, eleganti, disegnati con mano comunque ferma e precisa. Il loro volto raggiante d'intelligenza è al contempo carico di umanità. I colori scelti da Rublev sono chiari, luminosi, e per solito, le ombre vengono ignorate.

La grande icona della Trinità del Vecchio Testamento, oggi conservata presso la Galleria Tretjakov, rimane l'opera più ammirata e conosciuta di Rublev. Fu definita "icona delle icone" dal

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Concilio di Mosca che la additerà a modello per tutta l'iconografia successiva. Si suppone che venne dipinta verso il 1411 a Serguiev Posad (Zagorsk), e destinata all'iconostasi della chiesa della Dormizione del monastero della Trinità di San Sergio. Eseguita su toni delicati e luminosi, simbolo di armonia e di perfezione, di una grazia assoluta e di una purezza tutta classica, l'icona della Trinità è senza dubbio il capolavoro del monaco Andrej Rublev che raggiunge in quest'opera una profondità spirituale e una contemplatività mistica finora ineguagliata.

La splendida fioritura artistica della Rus' tra il XIV e il XV secolo, culminante nelle icone di Rublev, trova, infatti, la sua radice nella santità di san Sergio, l'umile eremita di Radonez che determinerà le sorti spirituali e sociali del suo popolo, e darà origine all'irradiarsi del monachesimo fin nell'estremo Nord della Russia. Artefice quindi dell'unità e della rinascita culturale, spirituale e politica che ne deriva, san Sergio aveva per l'appunto dedicato il suo eremo alla santissima Trinità, additando il mistero della comunione trinitario come "specchio" per la sua comunità monastica e per l'intero paese. Tutte le opere pittoriche dell'epoca di san Sergio di Radonez riflettono la particolare atmosfera spirituale della Rus' di allora, e che si riversò dal suo monastero nei pressi di Mosca in tutti i vasti territori del paese. Questo slancio spirituale è evidenziarle in molte icone russe dipinte tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo, in cui, nonostante delle diversificazioni individuali, si riscontra una profonda e sostanziale comunanza. Tale elemento comune costituisce il significato più prezioso dell'apporto russo alla pittura del mondo bizantino dell'epoca tardopaleologa - l'epoca dell'esicasmo palamitico -, ovvero il significato del peculiare accento russo all'interno della spiritualità ortodossa. In questo Andrej Rublev seppe unire tutte le potenzialità esistenti, l'ideale russo delle icone del XIV secolo e la radice classica bizantina, e riuscì a creare in tal modo una nuova sintesi dell'arte bizantina.

Questa massima espressione della pittura di Rublev fu avvicinata quasi un secolo più tardi da Dionisij (1440-1508) , degno anche lui di un posto di rilievo nella storia della pittura di icone. Fu attivo a Mosca sotto il regno del Gran Duca Ivan III che portò a termine l'unificazione della Russia e fece ricostruire ancora una volta le chiese del Cremlino di Mosca. Benché si collochino nella tradizione inaugurata da Rublev, queste opere - un gran numero di icone e di affreschi dipinti da Dionisij tre il 1480, ed, il 1502 circa, notevoli per la loro grazia e raffinatezza - segnano un'evidente evoluzione verso una concezione più profana dei temi religiosi, preannunciando quell'arte più convenzionale che si svilupperà nel corso del XVI secolo. Alla compattezza del disegno e dei colori di Rublev il maestro Dionisij oppone l'eleganza delle proporzioni, la dolce armonia dei colori, una delicatezza da miniatura. I suoi personaggi, con le loro figure allungate smisuratamente e le loro teste molto piccole, acquistano un'apparenza un poco irreale accentuata dalla loro posizione in punta dei piedi. Qualcuno sembra essere addirittura sospeso al di sopra del pavimento. In queste immagini si possono dunque scoprire i segni precursori di una tendenza che poco più tardi sarà fatale all'arte delle icone russe: la minuzia, l'effetto decorativo preconizzando al manierismo. Molte icone vengono attribuite alla sua "bottega" o a pittori della sua cerchia tra i quali i suoi stessi figli ed un artista anonimo conosciuto con il nome di Maestro del Cremlino .

Nel corso del XV e XVI secolo, intorno ad Andrej Rublev, al Maestro Dionisij e alla loro cerchia, una vasta schiera di pittori meritano alla scuola di Mosca i suoi titoli. Dalle loro "botteghe" escono numerose icone che in larga parte vanno ad arricchire le grandi iconostasi delle chiese. Destinate ad essere osservate da lontano, lo stile in cui sono concepite queste opere è spoglio, sobrio, conciso ed i loro colori sono vivaci ad armoniosi. La prosperità della città di Mosca, l'opulenza della corte principesca e presto imperiale, provocano lo sviluppo della pittura a soggetto religioso che raggiunge così la sua piena maturità. Questa volta non si tratta di un'arte di ispirazione popolare anche se molto spesso vi si trovano tracce di influenze regionali.

Inoltre, sotto l'effetto del sommovimento sociale e religioso, delle contestazioni e delle eresie che si manifestano a partire del XV secolo in Russia^ la natura stessa dell'icona, il suo spirito, il suo significato si presentano sotto una nuova luce. L'icona tende a diventare un oggetto da contemplare più che da venerare, un'oggetto che rivela all'uomo gli eterni misteri della sua esistenza.

9. Laicizzazione e occidentalizzazione

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La parte centrale del XVI secolo segna una svolta nella storia dell'icona russa. La supremazia di Mosca, il despo.tismo dello Zar, signore ormai di tutte le terre russe, l'opulenza della Chiesa ortodossa - il patriarca Nikon e Iosif di Volololamsk - danno vita ad un'arte ufficiale e ad uno stile nazionale. C'è di curioso che questo stile non esita a prendere in prestito alcuni elementi delle icone di Novgorod, di Pskov e di altri centri regionali per soddisfare il suo gusto della storia e dell'aneddoto. Infine, mentre si fa meno evidente l'influenza bizantina, già in declino da un secolo e cioè dalla caduta dell'Impero greco, il realismo occidentale comincia ad essere apprezzato.

L'evoluzione pittorica già annunciata nel XV secolo si accentua. I temi tradizionali ai quali la gerarchia ortodossa rimane saldamente legata vengono conservati ma diventano più complessi, sovraccaricandosi spesso di allegorie, scene marginali, motivi decorativi che cedono volentieri al virtuosismo. L'icona abbandona progressivamente l'evidente chiarezza laconica delle sue origini, la sua lingua compresa da tutti ed in special modo dal popolo. Non ci si limita più a collocarla in un posto ben determinato - nelle chiese o negli "angoli rossi" o krasnij ugol delle case - ma diventa anche un'opera d'arte da regalare, magari recante l'effigie del santo patrono delle persona che si vuole in tal modo obbligare o onorare. Non proviene più unicamente dai monasteri ma da numerosi "ateliers" privati e laici. Tra questi "ateliers" il più famoso fu quello creato all'interno del Cremlino stesso nel XVI secolo dove si lavorò per le Corte la cosiddetta Scuola degli Zar.

Lo stile detto degli Stroganov, al quale si ricollegano numerose splendide icone della fine del XVI e XVII secolo, deve il suo nome ad una grande famiglia di negozianti e di collezionisti, proprietari di un "atelier" privato sorto verso il 1580 nella loro tenuta di campagna, vicino Perm. Pittori di talento vi furono impiegati sotto controllo contratti fino al 1620, per produrre delle icone talvolta recanti una firma o una dedica, e destinate a i signori quanto a loro ospiti. Spesso di piccole dimensioni, queste icone si caratterizzano per le loro scene miniaturizzate, i molti dettagli, i numerosi personaggi dalle figure slanciate, per i toni vivaci e i riflessi dei colori, per le abbondante lumeggiature in oro. La minuzia e l'effetto decorativo porteranno infine al manierismo. Quest'arte, sembra talvolta più profana che sacra ma è ricca di poesia e di vita e si rivela spesso più seducente di quella prodotta dalle icone frutto di commesse della Corte. Abbastanza spesso queste opere vengano ornate con decorazioni in argento sbalzato - chiamate "oklad", "riza" o "basma" secondo il tipo di lavorazione - all'epoca molto in voga. L'arrivo a Mosca, compreso al Cremlino, di molti artisti degli "Stroganov" spiega il diffondersi di uno stile di cui non sembra però abbiano avuto l'esclusiva.

Nel corso del XVII secolo si precisa e si accresce l'attrazione per l'Occidente. Accanto allo stile "Stroganov", l'opera di un pittore moscovita, Simon Ushakov (1620-1686), riassume in qualche modo lo stile ufficiale degli "ateliers" del Cremlino per i quali egli stesso lavorò. Le sue opere personali, come tutte quelle del cosiddetto "stile Ushakov", rivelano una spiccata tendenza al naturalismo, incontestabilmente ispirata dalla pittura occidentale e in special modo dalla pittura italiana.

Questa occidentalizzazione dell'icona provoca in varie occasioni le proteste dei fedeli che non trovano più nell'opera lo spirito della loro fede. I Concili della Chiesa Russa tentano in vanamente di fare ordine. Il Sinodo di Mosca, detto dello "Stoglav" o dei "cento Capitoli", tenutosi nel 1551, si interessò alle icone ed ai pittori di icone, così come il Grande Concilio di Mosca del 1666-1667. In effetti, la tradizione religiosa e la tendenza realistica e profana coesisteranno, secondo le regioni e i periodi, fino all'inizio del XX secolo, in una produzione dove, innegabilmente, l'ispirazione viene poco a poco a mancare, e che diventa, prevalentemente, più un artigianato che un'arte. Così, per la maggior parte degli storici russi, l'inizio del XVIII secolo - con il regno di Pietro il Grande e l'apertura del paese verso l'Europa occidentale - segna praticamente la fine dell'arte dell'icona veramente originale.

Fu allora che le istruzioni tradizionali destinate ai pittori di icone vennero raccolte per formare dei trattati. Basandosi sul modello dell'opera più nota su questo argomento, la raccolta greca del monaco Dionisio da Furnà (XVIII secolo) intitolata "Ermineia tes zografikes technes" del Monte Athos, istruzioni dello stesso genere, chiamate "Podlinnik" vennero messe a punto in Russia: fin dal XVI-XVII secolo la scuola iconografica degli "Stroganov" possedeva una di queste raccolte. La più

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completa però, rimane quella del monaco Nikodim, del monastero di S. Antonio di Sija (Archangelsk) che risale al XVIII secolo. In seguito, furono soprattutto i "Vecchi Credenti" (starov'ertsi) a conservare gelosamente queste istruzioni.

10. Sopravvivenza di alcune Scuole regionaliA dispetto dell'unificazione politica ed artistica voluta dal potere centrale, le provincie

continuarono a conservare tradizioni profondamente radicate nell'animo popolare. In varie regioni ciò permise ai pittori di icone di mantenere una certa originalità. Icone di tutte le qualità continuarono quindi ad essere dipinte nelle varie provincie fino all'inizio del XX secolo, ma spesso è difficile riuscire a riconoscerle. Secondo alcuni, le città dei mercanti della Russia centrale nella valle del Volga, hanno prodotto nel corso del XVI e XVII secolo delle icone che formano uno spazio limitato entro il quale si svolge l'azione. Vi sono raffigurati spesso anche mobili ed oggetti domestici. La gamma di colori prescelta è prevalentemente scura. Nelle regioni della Russia settentrionale, purtroppo assai vagamente identificate, i pittori di icone proseguono la loro attività: nelle loro opere più tarde ritroviamo il carattere rude, le stilizzazioni audaci, l'ispirazione popolare che già distinguevano questi artisti nel XV secolo.

11. Palekh: un'arte popolare di ampia diffusioneGrazie all'abbondanza e alla longevità della sua produzione, il centro regionale di Palekh, ad

est di Mosca, merita una citazione particolare. La pittura di icone si sviluppò a Palekh e nei villaggi dei dintorni a partire dalla fine del XVII secolo e conobbe il suo massimo splendore nel XIX secolo. Si tratta di un'arte popolare e narrativa, dove ritroviamo spesso le scene miniaturizzate ed i personaggi dalle figure snelle e slanciate dello stile "Stroganov". Soggetti molto variati, piccole scene con più personaggi, molti dettagli ed ornamenti, una riproduzione realistica e minuziosa, un poco leziosa, una gamma di colori variati anche se forse un pò7 violenti, gli sfondi frequentemente dorati caratterizzano queste opere che tuttavia non sfuggono alle influenze occidentali. Nel XIX secolo, le icone di Palekh sono prodotte in seria, quasi a catena, da operai specializzati. Alla fine del secolo, gli "ateliers" vengono sovvenzionati dallo Zar. Nel 1902 viene aperta una scuola di pittura destinata a formare gli artigiani che, dopo aver abbandonato la produzione di icone, fabbricano oggi le famose scatole in lacca nera decorate con episodi tratti dalle leggende e dalla storia russa per i turisti.

12. Il linguaggio dell'icona e in specie dell'icona russaSbocciata nell'epoca kieviana, la tradizione artistica dell'icona russa si è affermata

successivamente, fin dalla fine del XIV secolo, come un stile nuovo autoctono, pervaso da una grande semplicità che darà un'ammirevole ricchezza nella colorazione alle icone della scuola di Novgorod. Questa pittura di icone novgorodiane, poggiata alle tradizioni locali, beneficerà dell'esperienza di artisiti bizantini dell'epoca dei Paleologhi come, per esempio, il celebre Teofane il Greco, pittore greco andato a lavorare a Novgorod e a Mosca passando dalla Crimea negli anni 1375-1378.

E' sempre traendo ispirazione dalla cultura bizantina che la pittura sacra dei secoli successivi affermerà le sue peculiarità. Il monaco Andrej Rublev, nella Moscovia del XV secolo, sarà l'espressione più brillante ed ineguagliata, nella luce e nel colore, della trasparenza dell'unione del divino e dell'umano nella vita della Chiesa della Russia dei secoli posteriori. Infatti, è proprio nel campo dell'arte sacra che in Russia l'influenza della tradizione bizantina è stata più evidente. Bisanzio aveva creato dei modelli di mosaici e di pitture che furono assimilati dai russi e fedelmente conservati nei loro principi fondamentali.

L'arte dell'icona russa, così come l'arte bizantina, non è naturalistica ma intensamente escatologica. Non mira affatto a rappresentare il mondo qual è ma quale sarà alla fine dei tempi, nel regno di Dio. Certamente, il Dio vero è radicalmente inaccessibile: il VII Concilio Ecumenico e, successivamente, il Grande Concilio di Mosca vietarono di raffigurare il Padre in quanto tale, fonte della divinità. Questa, però, essendosi resa visibile - "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv. 14, 9) - con l'Incarnazione di Colui il quale non è soltanto il Verbo di Dio - Logos - ma la sua Immagine, il

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principio dell'icona è quindi cristologico: "Poiché l'Invisibile, essendosi rivestito di carne si è reso visibile, si può raffigurare la somiglianzà di Colui che si è fatto Teofania" (San Giovanni Damasceno). In ragione di ciò, l'icona è anche pneumatologica , anticipa la Trasfigurazione ultima: nel corpo di Cristo, luogo di perpetua Pentecoste, l'uomo creato ad immagine di Dio può trovare nello Spirito il suo vero volto. E' questo il volto che suggerisce l'icona illustrando l'insegnamento ascetico e mistico dell'Ortodossia sulla deificazione: la riduzione interiorizzante delle orecchie e della bocca, la fronte ampia e luminosa, il collo gonfiato dall'afflato vivificante, il volto, significato prevalentemente dagli occhi, vale adire pura trasparenza, la raffigurazione costantemente frontale - il profilo significherebbe oggettivazione -, tutto indica un essere divenuto ad un tempo "preghiera" pura e puro accoglimento.

L'icona è quindi un'immagine trasfigurata e non un'immagine realista. E' in questo che si differenzia dal ritratto funebre che non oltrepassa i limiti della vita terrena, cercando di prolungarla indefinitamente mentre l'icona cerca di deificarla. Non essendo consustanziale al suo prototipo e pur utilizzando il simbolismo, l'icona non è stessa un simbolo ma rivela, non senza un certo rigore ritrattistico, una presenza personale: il simbolismo dell'icona indica questa presenza così come tutto l'ambiente cosmico che la circonda, colmo di pace e di luce divina. I corpi e le veste sono stilizzati da sottili striature dorate o lumeggiature bianche; animali, piante e rocce sono stilizzati secondo una sorta di essenzialità paradisiaca; le architetture diventano un gioco surrealista, sfida evangelica alla pesantezza di questo mondo. L'icona non è dunque un ritratto, ma il prototipo dell'umanità celeste che deve venire...la negazione di una vita puramente biologica" (E.N. TRUBECKOJ, Métaphysique des icònes) . A maggior ragione, una fotografia non è un'icona perché non raffigura il santo glorificato o trasfigurato.

Il corpo dell'uomo non tiene conto dei canoni anatomici; l'icona lo allunga, non per renderlo più gracile - come nella pittura manierista - ma per renderlo più disincarnato. Ricorda il procedimento frequentemente utilizzato da El Greco. Il volto è anch'esso deformato e come ricostruito geometricamente, alla maniera di un tempio; la retta nasale sostiene le sopracciglia come un pilastro sostiene gli archi, e il cranio si arrotonda in un'ampia cupola. La fronte è irregolare, le orecchie piccole, la bocca minuscola - non dire nulla, non sentire nulla -, gli occhi invece sono ben aperti, dilatati dalla contemplazione e per la contemplazione. Il volto di Cristo esprime una grande serenità che non è affatto l'impassibilità di Zeus olimpico, ma piuttosto il riflesso della conoscenza infallibile di chi sa "cosa c'è nell'uomo".

12.1. L'icona sfugge alle legge dello spazioInfine, l'icona si differenzia anche dall'ambientazione pompeiane in quanto cerca di dare una

visione trasfigurata e non di creare un'illusione. Nella pittura pompeiana, ricca di "trompe l'oeil", è un'arte magica, illusionista, fiabesca. Nella pittura di icone, invece, la scena si svolge in un ambiente molto convenzionale: sia un insieme architettonico di fantasia (rotonde, duomi, cupole, frontoni), chiamato in russo "palaty" (costruzioni), sia un accumulo di montagne scoscese chiamate "gorky" (rocce). In entrambi i casi però, l'ambiente non vuole determinare il luogo ove costruire la scena e mirare la pittoresco; queste costruzioni o paesaggi sono, in effetti, delle ambientazioni davanti alle quali e non al centro delle quali si svolge l'azione.

Assenza di volume: se l'Oriente cristiano ha accettato l'icona e rifiutato in generale la statuaria è perché il rischio di materializzazione, e quindi il pericolo d'idolatria, è meno grande in un universo a due dimensioni di quanto non lo sia in un universo a tre dimensioni.

Assenza di prospettiva: nell'icona, le leggi della prospettiva sembrano sconosciute, ma non a causo di una scarsa abilità dell'artista poiché capita che egli inverta volontariamente e sapientemente la prospettiva. I pittori occidentali del Quattrocento erano maestri nelle prospettiva. Nell'icona, invece, la prospettiva umanista, antropocentrica , è non solo disconosciuta ma addirittura negata poiché sono il Cristo, la Vergine o i santi a formare il centro intorno al quale tutto gravita; nella pittura del Rinascimento occidentale, invece, è lo spettatore a fare da centro. Sarebbe stato strano, per una cultura che considerava la contemplazione l'attività più pura dell'uomo, ignorare il senso della profondità. Più semplicemente, è Dio, il cui sguardo ci scruta, ci penetra, a scavare in

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noi questa profondità. Verrà espressa pittoricamente e conosciuta con il nome di prospettiva invertita, rovesciata o negativa... Se lo spazio non diminuisce, anzi, si amplia in direzione del fondo, e se queste linee non convergano verso un centro posto in lontananza, ma piuttosto su di noi, non è affatto perché gli artisti sono osservatori distratti o artigiani mediocri, ignoranti delle regole elementari dell'ottica o incapaci di ridurre i piani dell'orizzonte, ma perché invertendo la direzione dell'effigie, devono logicamente invertirne l'architettura. Noi non siamo più l'origine, bensì il punto di arrivo dell'immagine e nella nostra anima questa trova il suo punto di fuga. E se sullo sfondo d'oro l'immagine sembra ingrandire, ciò è dovuto al fatto che, sotto il suo sguardo, noi diventiamo più piccoli.

Con questo procedimento, lo spettatore, o piuttosto il devoto, ha la sensazione di fare parte della scena ma non secondo lo stile occidentale dell'epoca barocca in cui si trova un angelo o un santo che gesticola per introdurre lo spettatore. Le icone riproducono personaggi uniti tra loro dal senso generale dell'immagine, ma uniti soprattutto al fedele che li osserva. Queste figure si rivolgono allo spettatore comunicandogli il loro stato interiore, uno stato di preghiera. Ciò che conta non è tanto l'azione descritta quanto la comunione con lo spettatore. L'icona non propone quasi mai figure di santi posti di profilo, come si è già detto, perché il profilo è come l'inizio di un'assenza. Si eseguono di profilo solo le persone che non hanno ancora raggiunto la santità.

Assenza di movimento o piuttosto una sobrietà di movimenti in cui i gesti appaiono come stilizzati. I personaggi dell'icona sono raffigurati in atteggiamento immobile, generalmente sono ripresi di prospetto. Questo principio delle frontalità, di cui dobbiamo andare a ricercare l'origine nei motivi simmetrici dell'antico Oriente, come nell'arte sassanide, si spiega anche osservando il cerimoniale delle corte bizantina in cui, come a S. Vitale di Ravenna, si poteva osservare il "basileus", in atteggiamento immobile e ieratico, solo frontalmente. Ma anche quando il movimento è assento, rimane a disposizione del pittore lo sguardo del santo, luogo del volto umano dove si osserva la maggior concentrazione di vita spirituale.

Come dipingere Dio - si chiedevano preoccupati i pittori bizantini - come dipingerlo in se e non per noi? Come fare se deve essere completamente visibile per essere adorato ma se questo è impossibile senza rischiare di sminuirlo? Come fare quindi per non essere irriverenti ed oltraggiosi?

La soluzione è tanto semplice quanto sorprendente: invertendo i ruoli, invertendo la relazione che esista tra chi osserva e chi è osservato; imponendo Dio, non più come oggetto da contemplare, ma piuttosto come soggetto dal quale, noi, siamo contemplati. Dal quale siamo contemplati dallo sfondo dorato come da tutto lo spazio celeste, in modo che, sotto qualsiasi angolazione, non possiamo sottrarci ai suoi occhi vigili. E se succede che questi occhi guardano di lato come a Dami oppure oltre di noi come a Monreale, è perché nel raggio della chiesa guardano un angelo che a sua volta ci guarda. Tutto il segreto di Bisanzio è racchiuso in questa scoperta: l'immagine può assumere le qualità di una persona e trattenerci sotto il suo occhio regale. Nasce così lo sguardo sovrumano che sembra essere coscienza dell'immobilità ed il maggiore dei suoi titoli, quello dell'Onniveggente: il Pantocrator.

Si ha l'impressione che questo sguardo di Dio scruti in profondità le coscienze. Simeone il Nuovo Teologo (+1022) lo ha descritto insistendo particolarmente sul lato misericordioso: se nessuno può sfuggire allo sguardo corrucciato di Dio, nessuno - in eguale modo - è posto al di fuori della sua zona di influenza benefica: "Nel momento in cui tutti gli sguardi sono rivolti verso di lui, e in lui stesso rivolge il suo a miriadi innumerevoli di esseri umani rimanendo sempre con gli occhi fissi in una posizione immutabile, ognuno ha l'impressione di essere visto da lui, di godere della sua conversazione e di essere abbracciato da lui, in modo che nessuno può lamentarsi di essere trascurato" {Ethique III, SC 122,1966, p. 415).

Assenza di ombre. Come la Gerusalemme celeste, l'icona "può fare a meno della luce del sole e della luna, poiché la gloria di Dio la illumina e l'Agnello ne è la lampada" (Ap. 21, 23). Sulle icone, la luce penetra ovunque ed è per questo che i personaggi e gli oggetti non sono illuminati da una fonte di luce proveniente da uno o dall'altro lato; non proiettano ombre perché non c'è ombra nel Regno di Dio dove tutto è immerso nella luce. Nel linguaggio tecnico degli iconografi, si chiama "luce" lo sfondo dorato dell'icona.

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Di conseguenza, la Gerusalemme celeste , vale a dire l'universo trasfigurato suggerito dall'icona, non ha bisogna né del sole né della luna, è la gloria di Dio ad illuminarla. Nell'icona la luce è ovunque, non ha quindi una fonte precisa e non proietta ombre (è lo sfondo stesso dell'immagine che viene definito "luce" dagli iconografi) cosicché ogni realtà sembra essere illuminata interiormente. In maniera simile, la prospettiva, spesso invertita, come abbiamo visto, apre lo spazio su quella pienezza ove scompare l'esteriorità.

12. 2. L'icona sfugge alle leggi del tempoQuesto non perché l'artista non veste i personaggi del Vecchio e del Nuovo Testamento con

abiti medievali o rinascimentali, come accade nella pittura occidentale. Non esiste anacronismo ed i personaggi biblici sono generalmente vestiti all'antica. L'icona sfugge alle leggi del tempo per un altro motivo e cioè perché è possibile rappresentare più scene contemporaneamente.

Questo arresto non deriva soltanto - come in un film sincronizzato o in cartone animato - dal desiderio di illustrare la storia in tutti i suoi episodi, ma dal desiderio di incontrare i diversi piani storici e di rendere lo spettatore contemporaneo a tutta la vicenda. Nell'icona peraltro, l'architettura così come il paesaggio, precisa il luogo dove si svolge la vicenda: una chiesa, una casa, una città; ma l'edificio (così come la grotta della Natività o quella della Discesa all'Inferno o Resurrezione) non racchiude mai la scena; gli serve soltanto da sfondo, in modo che quest'ultima non si svolga dentro ma davanti all'edificio. Il senso da attribuire agli avvenimenti che le icone raffigurano non si limita al loro luogo storico, così come questi avvenimenti, accaduti nel tempo, trascendono il momento in cui ebbero luogo.

L'icona sfugge alle leggi dello spazio e del tempo in un altro modo ancora: si tratta generalmente di un'opera anonima, molto fedele ad canone preciso, spesso è difficile stabilire la regione di provenienza e l'epoca esatta a cui risale.

Nonostante il rigore dei canoni, elementi politici e sociali hanno tuttora concorso all'affermarsi di un nuovo stile. Quel che troviamo di più umano, di toccante, nelle icone russe rispetto all'arte propriamente bizantina è forse dovuto semplicemente alla differenza di clima politico che esisteva allora tra la Rus' e Bisanzio. L'arte bizantina era un'arte regale mentre l'arte delle icone russe di alta epoca è quella dei contadini che vivevano in uno stato di enorme povertà sotto la dominazione dei Tartari.

Umili immagini contadine o sfarzose immagini principesche, tutte obbediscono alle stesse leggi dell'arte e della fede. L'icona ci introduce in una sfera artistica molto diversa da quella in cui si evolve l'arte occidentale: l'arte accademica, copia falsamente idealizzata della realtà; l'arte naturalista, imitazione servile del modello; l'arte surrealista, creatrice di un universo fittizio e turbante; l'arte astratta, in violenta rottura con la realtà.

L'arte dell'icona supera l'opposizione tra le arti dell'Oriente non cristiano, testimoni di un'eternità impersonale, e quelle dell'Occidente moderno abbandonate ai capricci - e al segreto - dell'individuo. E' nell'inesauribile, se non addirittura nell'inaccessibile di un volto che l'arte delle icone esprime un'eternità che non è fusione ma comunione. Non è un'arte limitata ali' Oriente cristiano dato che la ritroviamo nelle espressioni artistiche carolingie, ottomane, romaniche ed in quelle del Trecento italiano. Non è parte del solo passato come testimoniano le opere contemporanee di Fotis Kontoglou in Grecia, dei russi Grigori Krug o Leonid Uspenskij o anche del Padre Zinon... Senza dubbio, è un'arte che potrebbe avere un ruolo nell'attuale storia dell'arte occidentale.

12. 3.1 caratteri dell'iconaL'icona ha un carattere teofanico. Il suo scopo non è quello di esprimere uno stato d'animo

dell'artista o di provocarlo nello spettatore, ma quello di creare una comunione attraverso la presenza. Mentre in Occidente l'immagine sacra serve a provocare un determinato movimento religioso o a predisporre l'animo alla preghiera attraverso la descrizione pittorica, l'interpretazione e l'evocazione del personaggio riprodotto, l'icona è un mezzo per avvicinarsi alla sostanza trascendente della Divinità. «Un'icona, una croce, non sono solo forme che servono ad orientare la

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nostra immaginazione durante la preghiera; sono centri materiali dove riposa un'energia, una virtù divina che si unisce all'arte umana» (V. LOSSKY, Essai sur la théologie mystique de VEglise d'Orient, Paris 1944, p. 185).

L'icona ha un carattere "sacramentale". L'icona è il segno effettivo di una presenza reale. L'immagine dell'invisibile è spesso dotata di una potenza taumaturgica: mette in fuga i demoni, allontana le malattie; non solo l'icona protegge, ma in suo cospetto si ottengono delle grazie. L'icona ha una vera funzione di anamnesi: come l'Eucaristia, è un memoriale, non di una relazione soggettiva come potrebbe esserlo un ex-voto, ma viva memoria d'un momento privilegiato e salvifico della vita del Verbo incarnato.

L'icona ha un valore non solo pedagogico ma anche "misterico", un valore che suggella una benedizione solenne della Chiesa. Il "nome" (in senso biblico) del personaggio raffigurato è sempre iscritto ai lati del volto. L'icona presenta ogni persona santificata come sacramento della Luce e della Bellezza divine; ogni figura rivela infatti un nuovo volto dell'umanità divinizzata e ben lontano dall'interporsi, spinge i fedeli ad adorarla, li introduce alla comunione dei santi.

L'icona ha un valore apofatico. Si rimane talvolta sorpresi nel costatare che i teorici della contemplazione respingono qualsiasi raffigurazione e tuttavia ammettono e addirittura raccomandano il culto delle immagini. Si osserva infatti che i difensori delle immagini sono allo stesso tempo partigiani della teologia negativa. Queste due posizioni sono forse meno incompatibili di quanto non sembrerebbe. Sia che ammettano la necessità delle immagini per i fedeli più semplici, incapaci di farne a meno, sia che affermino che l'immagine, essendo una necessità psicologica per tutti, deve essere "canonizzata" dalla Chiesa al fine di evitare ogni falsa interpretazione della fantasia.

Ma soprattutto, ogni espressione artistica richiede un superamento profondamente mistico. Più l'immagine è tecnicamente modesta ma profondamente mistica, meno è ostacolo o schermo, più è raccordo e trampolino. Non è malgrado il loro apofatismo che i grandi dottori orientali furono ardenti difensori delle immagini, ma piuttosto perché erano partigiani della teologia negativa. E' proprio perché amavano la creazione opera di Dio, e le immagini dipinte dall'uomo, che potevano esigere con fermezza il loro superamento. Infine, come già detto precedentemente, dopo la riabilitazione del culto delle immagini (843) quest'ultime divennero parte integrante della liturgia della Chiesa bizantina.

ConclusioneA mo1 di conclusione potremmo forse affermare che la tecnica dell'arte russa delle icone,

influenzata, senz'altra, da una spiccata tendenza al misticismo, sembra avere alquanto privilegiato l'elemento escatologico a spese dell'elemento ipostatico, e cioè della corposità delle forme e ed il senso del concreto, conosciuti a Bisanzio all'epoca dei Paleologhi. Infatti, spesso l'opera d'arte bizantina ha una sorta di sfumatura oratoria in cui si percepisce una dimensione didattica e si verifica una sorta di animazione, illuminazione, addirittura una deificazione delle realtà concreta, materiale, classica, come se esprimesse la pienezza dell'inabitazione del divino nell'umano.

Queste caratteristiche possono certamente essere anche attribuite in gran parte alla pittura di Andrej Rublev e alla scuola, ma la perfezione di simili immagini non si comprende attraverso la sola forma, sebbene questa forma sia spesso irreprensibile. Nonostante tutta la loro parvenza classica, esse si distaccano grandemente da ogni elemento materiale, concreto o visivamente usuale. Ci troviamo di fronte al miracolo della visione dell'armonia celeste, della contemplazione mistica della perfezione divina.

Ma le differenze, qualunque esse siano, tra la pittura di icone russe e la pittura di icone bizantine propriamente dette, non distruggono la base comune sulla quale entrambe si fondano. Vogliono semplicemente significare che nell'unità profonda dell'ortodossia bizantina c'è posto per una varietà di forme culturali senza che per questo l'esperienza spirituale e liturgica ne abbia a soffrire. In questo mondo di idee comune agli artisti bizantini e russi esiste dunque una diversità sottilmente percettibile e propriamente di essa dipende il risultato finale.

Prof. Michel Berger