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Tv, società e costume La Rai come rappresentazione e traino della realtà culturale, civile ed etica del Paese 2° Seminario Roma, 19 gennaio 2010 Senato della Repubblica Camera dei deputati Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi

La Rai come rappresentazione e traino della realtà ... · relazione ideale, emotiva e sentimentale, non a caso ascritta all’Ottocento, cioè il secolo che fu giudicato da Wittgenstein

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Tv, società e costumeLa Rai come rappresentazione e traino della realtà culturale, civile ed etica del Paese

2° Seminario Roma, 19 gennaio 2010

Senatodella Repubblica

Camera dei deputati

Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi

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Il presente volume raccoglie gli atti del Seminario promosso dalla Commissione per l’indirizzo generale e lavigilanza dei servizi radiotelevisivi.

La raccolta degli atti è stata curatadall’Ufficio di segreteria della Commissione.

Gli aspetti editoriali sono stati curati dall’Ufficiodelle informazioni parlamentari, dell’archivioe delle pubblicazioni del Senato.

© 2010 Senato della Repubblica

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Secondo Seminario

TV, società e costume.La RAI come rappresentazione e traino

della realtà culturale, civile ed etica del paese.

ROMA, 19 GENNAIO 2010

SALA CAPITOLARE

CHIOSTRO DEL CONVENTO DI SANTA MARIA SOPRA MINERVA

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IntroduzioneSERGIO ZAVOLI

PARTECIPANTI

RENZO ARBORE

JOLE BALDARO VERDEPediatra e psicologa dell’Età evolutiva

ALESSANDRO BARICCOScrittore

PIPPO BAUDO

MASSIMO BORDINDirettore di Radio Radicale

CORRADO CALABRÒPresidente dell’Agenzia per le garanzie nella comunicazione

VINCENZO CERAMIScrittore

MAURIZIO COSTANZO

PAOLO CREPETPsichiatra e scrittore

CARLO FRECCEROPresidente di RAISAT

MIHAELA GAVRILAUniversità La Sapienza

Facoltà di Scienze della comunicazione

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ALDO GRASSOOrdinario di Storia della Radio e della Televisione

Università Cattolica di MilanoCritico televisivo del Corriere della Sera

GIANCARLO LEONEVicedirettore generale della RAI

GIULIO MALGARAPresidente di Auditel

MONS. VINCENZO PAGLIAVescovo di Terni

MARCELLO VENEZIANIScrittore e saggista

Ex consigliere di amministrazione della RAI

E i componenti della Commissione parlamentareper l’indirizzo generale e la vigilanza

dei servizi radiotelevisivi:

GIORGIO LAINATI, Deputato

GIOVANNA MELANDRI, Deputato

GIORGIO MERLO, Deputato

FABRIZIO MORRI, Senatore

FRANCESCO PARDI, Senatore

LUIGI VIMERCATI, Senatore

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IL DIBATTITO

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SERGIO ZAVOLI. Buongiorno e benvenuti. Dopol’indirizzo di saluto del Presidente Schifani, la voltascorsa, oggi riceviamo il messaggio del Presidente del-la Camera, Gianfranco Fini. Ve lo leggo: «In occasionedello svolgimento del secondo dei seminari organizzatidalla Commissione parlamentare per l’indirizzo gene-rale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, desiderofar pervenire a lei, gentile Presidente, e agli illustriospiti che partecipano al dibattito il mio cordiale salu-to. L’incontro, che oggi avrà per argomento TV, societàe costume. La RAI come rappresentazione e traino del-la realtà culturale, civile ed etica del Paese, affrontatemi di fondamentale interesse per una riflessione sulruolo della televisione in Italia. Negli ultimi decenni,l’uso dei media nella realtà quotidiana, a cominciareproprio dal mezzo televisivo, ha conosciuto un decisivoincremento, contribuendo in maniera progressiva al-l’emancipazione culturale dei cittadini, alla loro auto-nomia critica e alla loro formazione etica e civile.Certo che il vostro dibattito fornirà autorevolmenteelementi in merito all’individuazione di modalità ido-nee a rendere sempre più matura e avanzata la funzio-ne formativa e informativa del mezzo televisivo, invio

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a lei, egregio Presidente, e a tutti i presenti, un cordia-le augurio di buon lavoro».

Siamo qui per misurarci sul tema della qualitàtelevisiva, una questione divenuta fondamentale daquando il medium per eccellenza, esaurita l’enfasidell’esordio, si è trovato di fronte al suo obiettivo pri-mario, quello degli scopi, dei linguaggi e dello stile ri-chiesti per definire maturo, socialmente utile, civil-mente e culturalmente significativo, il suo appeal me-diatico.

Uniformandosi al criterio dei grandi numeri,quasi tutto si è votato alle lusinghe della spettacolari-tà, tanto più ingegnosa e ammiccante quanto più siconceda a modelli suggestivi, fino a trasformare la re-altà in un’infrenabile trasposizione più vera del vero.Da quel momento la televisione, risolutamente, ha in-debolito la sua mediazione civile e culturale, piegandoalla logica dello spettacolo gli archetipi del sentire edell’agire umano, violando non di rado persino la na-tura più coinvolgente delle nostre pulsioni, l’amore,che pareva dover restare la parola insuperabile dellarelazione ideale, emotiva e sentimentale, non a casoascritta all’Ottocento, cioè il secolo che fu giudicato daWittgenstein il più congeniale, e non solo letteraria-mente, alle contaminazioni espressive, e proprio conl’amore al centro di inedite e non sempre esemplariletture.

Sarebbe nata, di lì a poco, la televisione.

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L’irrompere del criterio quantitativo avrebbe coinvol-to, e talvolta sconvolto, ogni altra modalità di giudi-zio, giustificato dalla sempre più obbligante presenzadi fattori economici e sociali, culturali e religiosi, iquali spingevano verso un fenomeno che – attraversodue pronomi, io e noi – annunciava l’aprirsi della ric-chezza individuale alla irruente comparsa della co-scienza di massa.

Complice la TV, apparirà anche quello cheGiorgio Manganelli chiamò l’orrore collettivo, le cuiimmagini permettono di essere presenti laddove non èlecito guardare in volto la disperazione, mitigata inve-ce dal linguaggio della radio, la sorella cieca, che nonha accesso allo spettacolo dello spavento. Quella ri-nuncia agli occhi, chiesta nientemeno alla televisione,fu per certi versi bellissima; mentre la parola ascoltataalla radio divenne subito, accanto alle sue risorse evo-cative ed espressive, un naturale, continuo tentativo difar vedere. Niente più della radio è infatti capace ditrasmettere ciò che non si vede, lasciandolo immagi-nare al di là del reale. Bertolt Brecht diceva che qua-lunque parola o ha il potere di mostrare o è soltantosuono. Enzensberger, più esplicito, l’ha definito bru-talmente «rumore». Era nato uno dei più resistenti nodisemantici e psicologici prodotti dalla civiltà comuni-cativa, e la televisione ne sarebbe stata esemplarmenteal centro.

Esente, non fosse che per l’età, da qualunque

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sospetto di opportunismo, e semmai temendo di di-spiacergli, credo di poter citare Aldo Grasso quandoscrisse: «Ci sono immagini che non solo paralizzano lospettatore, anestetizzando la sua capacità di commuo-versi, ma a furia di essere viste si consumano, perdonodi efficacia simbolica, azzerano il loro carattere etico.»Non cambierei una virgola. Risalgono agli occhi la fe-rocia del terrorismo, i massacri etnici, le stragi dellecarestie, il dramma delle imigrazioni, la crudeltà delletorture e delle pene capitali, tutto confuso con iGrandi fratelli, le Isole dei famosi, i pacchi pieni disoldi, la cascata di quiz nelle ore cruciali per propizia-re gli ascolti del TG o della prima serata, oppure il vol-teggiare di padelle a ogni ora del mattino in tempi dimoderazione anche in cucina, ma anche di estenuantikermesse delle fanciulle che aspirano a qualche coro-na, alle interviste dolorose che inducono alla commo-zione non solo il pubblico a pagamento negli studi,ma anche quello ben altrimenti coinvolto nelle case.

Non vorrei apparire estraneo alla necessità difare audience e, in diretta proporzione, di raccogliereentrate pubblicitarie, né voglio piangere sulla scom-parsa delle lucciole! Sono consapevole, per esempio,che i meccanismi per il funzionamento del sistemaradiotelevisivo sono strettamente coordinati con lerisorse economiche in un rapporto di stretta dipen-denza dal successo delle innovazioni tecnologiche,cioè dell’irrompere di un gran numero di nuove stra-

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tegie comunicative. Con questi vincoli, possiamo me ra vi gliar ci se il sistema comunicativo non è incli-ne a farsi educare dalla questione della qualità? È ra-gionevole, d’altronde, pretendere una TV migliore del-la società che la esprime? Mi sembra, comunque, iltentativo di uscire da una scontentezza che a voltesfiora la rassegnazione.

Ma come si manifesta oggi questo fenomeno,come riferirlo a una società intera, a quale sensibilitàcomune, se l’idea stessa di complessità è così lontanaanche solo dall’essere percepita? Perché, infine, l’ego-logia, la scienza – per dir così – dell’individualismo,rivendica i suoi diritti, quando occorrerebbe comporreil conflitto proprio tra i due pronomi, l’io e il noi? Nonsi tratta di chiedere a una TV, e in particolare a quelladel Servizio pubblico, di stendere sul Paese un velo dibigottismo civile, bonario, tollerante, fiducioso, ma dicoinvolgere i doveri anzitutto etici di chi – dicevaBenedetto Croce – «sa e può», quindi impegnando leenergie culturali e politiche, intellettuali e spirituali,sociali e individuali, professionali e artistiche della co-munità a dare il proprio contributo per la rifondazionedi una qualità televisiva finora sempre declamata e poisempre nascosta, come fanno con le carte gli illusioni-sti.

Cito due esempi. Un compito del Servizio pub-blico è, per esempio, quello di rappresentare alla co-munità non solo i problemi della solidarietà, che pro-

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mana dalle leggi, ma anche quella del solidarismo,dettato dalla sensibilità popolare, che per effetto diun’antropologia sempre più segnata dagli egoismi per-sonali, frutto di competitività e solitudini nuove, vedecrescere le distanze e le separazioni, le diffidenze e leintolleranze. Sta maturando intorno a noi una genera-zione di avvezzi al sentimento del proprio, più che delcomune, e ciò condiziona il clima civile di una società.Basterebbe leggere le ricerche dei socio-analisti perdoverci allarmare sui condizionamenti che i giovaniricevono dal qualunquismo psicologico, cioè da un in-soddisfatto bisogno di orientamento e di fiducia, maanche di realismo e quindi di regole. De Rita, peresempio, parla esplicitamente di un complesso di su-periorità. Siamo afflitti – dice – da un ego che inducea sentirci superiori a chiunque. Non aggiunge, per ca-rità di patria, che molti nostri giovani ritengono di po-ter fare a meno del vocabolario e lo confermano addi-rittura in TV, con un entusiasmo che induce persino aqualche applauso di prammatica.

Il secondo esempio appartiene a qualcosa di ap-parentemente più fragile, addirittura etereo per i gusti ele contentature degli uomini di «voce dura», come lichiamava Garcia Lorca, ed è il declinare della bellezzae dell’armonia, cui la Tv ci richiama come se si trattas-se di lenire ogni tanto un bisogno elitario, privilegiato,anziché di andare in soccorso di una sommessa e comeintimidita richiesta di cibo anche per la mente e per

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l’anima. Penso alla letteratura, al teatro, alla poesia e,soprattutto, alla musica: a Riccardo Muti, a Uto Ughi, aSalvatore Accardo, con i loro appelli, alla bellissimaserata di Fazio con Abbado, Pollini e Barenboim, maanche a quel popolo di giovani artisti che affollano disogni i loro studi e i loro progetti.

Lenimento, balsamo, dirà qualcuno, ma riman-go dell’idea di Mario Luzi, quando afferma che un’oradi bellezza può accorciare di un’ora la fine di unaguerra. Certo, non la faremmo franca se negassimo al-la RAI di essere il più grande laboratorio culturale e ci-vile del Paese, ma ho qualche resistenza a credere cheoggi ciò si esprima pienamente secondo lo spirito e lemodalità di un Servizio pubblico. Parrebbe dunque le-cito domandarsi perché la politica non lascia aun’azienda di tanta rilevanza un’autonomia che, fattesalve le premesse istituzionali e statutarie, sia libera digestire la sua sfera imprenditoriale e pienamente re-sponsabile del problema non solo di tutelare, ma an-che di produrre, cultura e civismo. Non penso affatto auna TV virtuosa, che ci prenda per mano, ma mi do-mando come agire perché siano salvaguardate le ric-chezze di cui si imprime un patrimonio identitario checoinvolge l’intera comunità.

Senza dar troppo peso agli slogan ( neppure aquello che vorrebbe «l’audience come ambizione e noncome ossessione»), avanza il progetto del digitale ter-restre della RAI, il quale, ricomponendo l’offerta prece-

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dente, frammentata su piattaforme diverse, permetteche l’utente del Servizio pubblico disponga di un uni-co telecomando per tredici canali, tra generalisti e te-matici, rispondenti anche a un ordine, per così dire,“democratico”. Un canale di nicchia dovrebbe cioè va-lere quanto uno di grande ascolto; purché – va ag-giunto – alla cultura si assegni un apposito canale;che non rappresenterebbe né un salasso, né una con-cessione

Forse si creeranno le condizioni per abolire ladittatura dell’audience nella prima serata: alle 21 cia-scuno potrà scegliere, in un triplicato genere di pro-grammi, quello che più gli garba. Sta alla RAI, e quin-di al Servizio pubblico, cogliere questa opportunitàper dare finalmente diritto di cittadinanza anche aquel patrimonio di prodotti culturali lasciati per anninegli archivi o ai confini del palinsesto. Le duemilainterviste ai più autorevoli uomini di cultura della se-conda metà del Novecento, realizzate in 34 Paesi delmondo e raccolte nell’Enciclopedia multimediale dellescienze filosofiche, realizzata dalla RAI in collabora-zione con la Treccani e l’Istituto per gli studi filosofi-ci, sono in gran parte inedite o trasmesse in condizio-ni pressoché vicine all’ascolto zero. Dovrebbero poterentrare di diritto in un canale tematico che abbia nel-la cultura il suo carattere distintivo, inteso non comegenere per gli addetti ai lavori, ma come avventuradell’intelletto, che comporta agilità e sollievo menta-

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le, facoltà critiche di giudizio, buon gusto, ironia, evia così.

Un tale canale, oltre a rispondere a una do-manda ormai inespressa per mera rassegnazione, masicuramente viva in milioni di telespettatori, racco-glierebbe il favore di tutta l’industria culturale, a co-minciare dall’editoria e dalla pubblicità, oggi quasi deltutto assenti, l’una e l’altra, nella programmazionedella TV generalista, tranne qualche, del resto buona,eccezione.

La nostra Commissione, dunque, ha il diritto el’obbligo di istruire un indirizzo mirante alla costitu-zione di una scelta corrispondente alla dignità di chiverrà chiamato a interpretare il carattere e gli scopi diuna nuova e complessa questione comunicativa. Nonsarebbe monco un Contratto di servizio che non inclu-desse, tra le voci più forti, anche questo aspetto delServizio pubblico? Non andranno coinvolte le specifi-che culture di volta in volta chiamate in causa per af-frontare i grandi nodi nell’esistenza sociale in funzio-ne del sempre più necessario «conoscere per capire ecapire per provvedere», una saggezza ormai logoratadal marketing intellettuale?

Un secondo esempio ci viene dalla scuola.Perché, mi chiedo, di norma si sollevano le questionidi giornata, suggerite dalle cronache dell’indisciplina,della ribalderia o del bullismo, lasciando le famiglie ela società sprovvedute e inerti rispetto a problemi co-

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me la deriva pedagogica dell’infanzia, la temperiedell’adolescenza, la precarietà del suo futuro, la suafuga nella delusione e nella paura di una sconfitta?Perché la TV non si riappropria dei grandi cicli infor-mativi? Penso a Piovene, a Soldati, a Rossellini, aSabel, a Comencini, a Zatterin, le cui inchieste di -venta rono un patrimonio di documenti e di riflessioniutili alle famiglie, alla società, alla politica stessa.L’ultima inchiesta televisiva sulla scuola, del 1999,realizzata nel ciclo Diario di un cronista per iniziativadi Renato Parascandolo, è stata trasmessa all’una dinotte, con il beneficio che se ne può trarre a quell’ora,notoriamente fervida di interessi di carattere sociale!

Penso a quando, invece, si mantengono a bol-lore gli argomenti più adescanti della vita privata nel-le trasmissioni «di intrattenimento», soprattutto pome-ridiane, senza dire delle volte in cui, se l’argomento siè rivelato sufficientemente pruriginoso, e quindi corri-vo, lo si tiene in vita ricorrendo a continui rilanci. Nonsiamo tanto ingenui, tutti quanti, da non renderciconto del perché di queste scelte: vi si vede la stradaper la visibilità, da una parte, e per le entrate pubblici-tarie, dall’altra.

Il terzo esempio. Anche gli ospiti della politica– che non hanno, tutti, l’obbligo di dar prova di grandirisorse sceniche – possono assicurasi la loro porzionedi successo rendendo qualche servigio: si può sempreannuire o disapprovare, sorridere o persino ridere,

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quando si sia inquadrati dalla telecamera, per disto-gliere l’attenzione dall’avversario, oppure frantumarnegli argomenti con il montare di continuo sulle parolealtrui. Che cosa caverà lo spettatore da quella sorta dieretismo psichico portato fino al calor bianco che nondi rado si sprigiona negli studi della TV?

Il quarto esempio è francamente tirato per lagiacca, anzi per la tonaca. Mi riferisco a quel corag-gioso e benemerito segretario della CEI, monsignorMariano Crociata, che si è espresso criticamente sullinguaggio di un gran numero di omelie. Mitigherò,nella citazione, il linguaggio di questo monsignore, te-nendomi a una interpretazione rispettosa, in ogni ca-so, della verità. Ne ho preso nota perché, avendo scrit-to molti anni fa la prefazione di un dizionario di omi-letica – come si vede, non c’è limite agli azzardi – eavendovi ritrovato l’uso spesso improprio di argomen-ti delicati, pensavo di essere in odore di zolfo per gliamanti della predica, qualunque forma assuma, cano-nica o laica. L’autorevole prelato si riferiva alle re-sponsabilità del pulpito quando, rinunciando a essereuna cattedra, trasforma l’omelia in qualcosa che sem-bra avere in sé la forma e la funzione (altro azzardo) diun prodotto televisivo, con la pretesa di esprimere adlibitum il punto più alto della parola e delle immagini.Non oso spingere l’esempio, e ancor meno l’accosta-mento, al di là del lecito, ma nella riflessione del pre-lato si può cogliere la ragione dell’inquietudine per il

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potere esercitato dalla TV quando trasmette modellinei quali il destinatario finisce per identificarsi.Monsignor Crociata, insomma, ha invitato i sacerdotia rivedere il loro impegno, compresi i rispettivi lin-guaggi; e monsignor Vincenzo Paglia, guida spiritualedella comunità di Sant’Egidio, che stamattina è quicon noi, ha avuto l’arguzia di ricordare, a questo pro-posito, le parole di Carlo Bo: «La predica, tormento deifedeli». Al di là dei paragoni, siamo certi che una ri-dondanza comunicativa e un suo uso strumentale ap-partengono alla qualità che si esige dalla TV? Sulla ba-se di quale scuola mediatica, non dico di quale tecnicapropagandistica, la politica ha assunto in TV una cosìmarcata attitudine alla perentorietà in luogo del dialo-go? Perché tanto spazio al pregiudizio, potendo di-sporre del giudizio? Non è possibile raffreddare le pa-role e i toni, cioè sfebbrare la TV, quando esca dallamisura che le raccomanda la sua informativa e, insie-me, formativa?

Non si tratta di inscenare lo scontro dei foderiinvece che delle spade, ma sperare che, magari conuna visione un po’ più netta del pluralismo e più so-bria del confronto, ciascuno faccia la sua parte nellosfoderare e, ove occorra, nel rinfoderare. Non è neppu-re il problema di chiedere alla ragione di essere ragio-nevole, perché la ragione non viene mai prima del suofondamento. È certo, in ogni caso, che la qualità, laquale non è in assoluto un principio estetico, né in

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senso stretto morale, è il modo di applicare nel miglio-re dei modi la già citata sintesi di Croce «ciò che si sae si può».

Il Servizio pubblico, va da sé, ha molte bene-merenze di cui può compiacersi. Sono nomi e siglemolto noti e molto apprezzati, ma la cultura di unPaese passa per la sua sistematicità e non per i suoieventi; per le regole e non solo per i buoni esempi e,figuriamoci, per gli empiti! Credo che avesse qualcheragione Aragon quando scrisse che «solo il normale èpoetico».

Veniamo all’informazione. Chissà, con i tempiche corrono, se essa è più croce o delizia. Nel momen-to in cui tra i cittadini cresce il bisogno di una letturaselettiva, cioè ragionata, di quanto va saputo e occor-re capire, la questione comunicativa è destinata a toc-care il suo apice scoprendo che la colpa più grave èl’omissione e che l’unico rimedio sta nella molteplicitàdelle fonti, per cui ciò che non è detto dall’uno può es-sere detto dall’altro, o ciò che è detto può essere debi-tamente contraddetto.

Nel frattempo, però, l’affievolirsi dello spiritocritico sta consegnando alla televisione il luogo pri-mario e la nuova forma della realtà, con l’alea di rap-presentarla attraverso qualche clausola del linguaggioe dello stile, magari venendo meno, per dirne una, alleregole del pluralismo, che non può configurarsi comeuna somma di tante faziosità: lo dicevamo già nel

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mezzo degli anni cinquanta, quando facevamo ancoral’apprendistato teledemocratico. Non si contesta, nel-l’ambito del Servizio pubblico, il diritto di esprimereopinioni, ma la pretesa di fare del proprio il pensierodi tutti. Bisognerebbe battersi perché sia garantita lavoce di ogni soggetto chiamato in causa, rispettando,così, contestualità e trasparenza.

Mi avvio a concludere. Si è indotti, non di ra-do, a vivere con la testa e l’anima voltate indietro,scordandoci che la velocità ci costringe a rivedere inostri propositi nello stesso momento in cui li conce-piamo. Occorre guardare allo sforzo generoso di chi sache la televisione ci spinge, ineluttabilmente, a viveredi continuo nel dopo. Si tratta, allora, di concepirlacome annuncio e segno di ciò che ci aspetta, non diciò che ci attarderebbe se ci ostinassimo a guardarlacon il cannocchiale rovesciato. «Si percepisce soloquello che si sa», sosteneva un grande filosofo, ma ilfamoso Approdo televisivo, per dirne una, oggi sareb-be una vetrina elitaria, prestigiosa e tuttavia sperdutain una galassia colma di astri ormai spenti.

Quanto alla scienza e alla tecnologia, alla filo-sofia e alla teologia, all’etica e all’estetica, al cinismo ealla morale, in tempi che interpellano ogni giornoqueste categorie e discipline, non è semplice chiederea una TV avvezza a difendere un criterio quantitativo,prevalentemente commerciale, di dedicarsi con pariefficacia al problema della conoscenza; specie mentre

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si fa largo una legittima richiesta di ottimismo sociale,alla quale la dimensione comunicativa del Serviziopubblico non può restare estranea.

Il Paese può avere grandi vantaggi da un pro-getto che prendesse il nome dalla sua qualità, e ilContratto di servizio dovrebbe mettere in capo a tutto,come un’epigrafe, questo spirito. Gli italiani voglionocapire vedendo con i propri occhi, cioè in TV, se la po-litica, quando le salta la catena, sa anche mettere ilpiede a terra e risistemarla; per esempio, facendo unpasso indietro rispetto alla cosiddetta occupazionedella RAI, un’espressione un po’ brutale, ma non privadi fondamento. «Il sapere come bene comune, quellolibero e diffuso», scrive Rodotà, «è tutt’uno con la de-mocrazia, ma l’accesso alla conoscenza deve sempreimplicare la possibilità di esporsi alle opinioni più di-verse per poterle confrontare e, quindi, per svilupparei dialoghi e i confronti».

Penso a chi legge, a chi guarda, a chi ascolta, aifedeli destinatari della conoscenza consapevole. Certo,non si fa quel mestiere se ci si consegna al disincantoe alla rassegnazione. Quanto all’ottimismo sociale piùvolte accennato, va inteso non come un’imperturbabi-le attitudine fiduciosa, ma vissuto come lievito critico,cioè nel senso più vicino alla sua interpretazione con-creta ed etica. Il Servizio pubblico, d’altronde, non hasolo obblighi formali verso gli italiani, ma anche prin-cìpi da interpretare.

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Mi torna alla mente un ammonimento.Eravamo nel lebbrosario di Lambaréné; c’era uno diquei tramonti che all’improvviso incendiano l’Africa,e Albert Schweitzer, che negli intervalli del nostro la-voro si era molto interessato al mio mestiere, ne discu-teva con una certa competenza. Quando fummo ai sa-luti, come per concludere un suo pensiero, disse: «Mafino a quando non diremo cose che a qualcuno dispia-ceranno, non diremo mai per intero la verità». Parlavadi un aspetto cruciale della qualità televisiva.

In un passaggio di una intervista a ErmannoOlmi su la Repubblica di qualche tempo fa, il granderegista, richiesto di spiegare il suo rapporto con le im-magini, confidava che per lui la qualità sta nella rego-la e la regola è questa: «La ragione della mia vita è lavita. Ecco perché l’energia che mi resta è ogni giornorivolta all’attesa di qualcosa che possa farmi sentireancora vivo e presente nel mondo.» Una motivazioneda affiggere in qualsiasi redazione o studio televisivo.

Il filosofo Biagio De Giovanni ci esortò anni faa pensare che la cronaca, per effetto della velocità tele-visiva, sta trasformandosi nella nostra storia. Ciò che“sai e puoi”, dunque, dovrebbe essere speso tenendoconto di questa realistica e ineluttabile consapevolez-za, sapendo, secondo un paradosso non solo filosofico,che i fatti, alla fine dei conti, non esisterebbero se nonsi facessero ricordare per le loro interpretazioni. Questoperché non i percorsi della storia, che ci sovrastano,

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ma l’intelletto e l’interiorità, che rimangono quotidia-namente nel nostro dominio, sono lo spazio, questo sì,da colmare ogni giorno. Non poteva toccare, alla tele-visione, un compito e una responsabilità più grandi.

Ora, come si è fatto per il primo seminario,ascolteremo il parere dei presenti sulle questioni cheho appena sollevato, scusandomi di averlo fatto inmodo sommario. Partendo dalla sensazione che sianato una sorta di distacco, di disaffezione, di piccolaturbolenza intellettuale, tra il Servizio pubblico el’opinione pubblica. Oppure è l’ubbìa di un Paese unpo’ nevrotizzato da tante cose che ci circondano inpatria e fuori?

Con le vostre riflessioni avvieremo quello chepoi dovrà essere il senso, e la centralità, del nostro se-minario, cioè l’incontro tra voi e i membri dellaCommissione parlamentare di vigilanza, i quali vi por-ranno delle domande, indirizzandole all’uno o all’al-tro, e lasciandovi liberi di interloquire, interferendo,aggiungendo, precisando, chiedendo la parola, e viaelencando. Non vi è nulla di formale nel dibattito chestiamo per tenere. Anzi, non potrebbe uscirne aricchi-ta la qualità del discorso se qua e là non provocassequalche momento, per così dire, fuori programma.Cominciamo con Alessandro Baricco.

ALESSANDRO BARICCO. Grazie dell’invito. Mi sem-bra una circostanza preziosa. Penso che forse il modo

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migliore di usare questa occasione sia quello di racco-gliere più spunti possibili dalle vostre domande e pro-vare a rispondere. Il legame tra la politica e la realtà èmolto problematico in questo Paese, e non solo inquesto paese. Giudico questa una buona occasioneper ascoltare alcuni testimoni e vedere un po’ più davicino ciò che realmente sta accadendo. Posso aggiun-gere che, naturalmente, il testo letto da Zavoli è diuna civiltà e di un’intelligenza indiscutibili. Mi sor-prenderebbe veramente pensare che in questa sala cisia qualcuno che, dopo aver ascoltato queste parole,ne dissenta del tutto. Mi sembra la testimonianza esat-ta di ciò che in molti pensiamo. Quando giro per ilPaese, incontro tanta gente che la pensa così.

Oltre ai contenuti, anche i modi usati da Zavolirappresentano un tipo di civiltà, a cui appartengo nonsolo io ma tutti coloro con i quali ho rapporti, sia per iriferimenti – magari non tutti citerebbero Croce, maZavoli lo cita, come cita Aldo Grasso e, senza nomi-narle, molte tessere della realtà televisiva – sia per ilgalateo della lingua, per l’uso di alcune parole che so-no la testimonianza, la cronaca di una civiltà.

Aggiungo solo una considerazione. Mi accadesempre più spesso di recarmi a discutere in sedi menoistituzionali di questa, ma non per questo meno at-tendibili e autorevoli, di problemi che riguardano lacultura e il sistema radiotelevisivo in Italia. E quasisempre registro che le persone con cui dibatto, benché

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spesso così diverse da me, sono unanimi nel richia-mare la profonda vergogna di ciò che sta accadendoin questo Paese, con parole di solito alte, esatte, belle,perché, come diceva Zavoli, la bellezza ha la sua, no-tevole, importanza. Ci si siede e si è tutti d’accordoche quello che sta accadendo è vergognoso: sembraun Paese in ostaggio di un’entità misteriosa, di unmuro eretto da qualche parte, che non sappiamo ab-battere.

In un Paese come lo immagino io, se il presi-dente di una Commissione parlamentare legge un te-sto del genere non dico che venga giù il Governo, mada domani si aprirebbe un dibattito devastante. Vigeinvece un’abitudine diversa: se avessi tenuto io questodiscorso, non conterebbe nulla, ma qui si tratta di unacarica istituzionale che sta affermando – lo traduco –che la RAI che noi facciamo, radio e televisione, sta de-vastando il Paese, dato che non riesce a tradurre inprodotto radiotelevisivo la civiltà che ci è cara. Se lodico io – ripeto – vale pochissimo ma, se lo sostieneuna carica istituzionale, domani dovremmo essere tut-ti a dibattere, a giustificarci, a spiegare come sia potu-to succedere, e rimediare ai ritardi. Questa immobilità,invece, è inspiegabile.

Lo stesso succede quando partecipo a dibattiti sualtri temi: i soldi per la cultura, la scuola, la rete. Vedosempre lo stesso modello, un Paese profondamente in-soddisfatto di se stesso, ma intelligente, equilibrato,

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civile e colto, incapace di trovare la pietra incidendola quale il muro potrebbe venire giù.

SERGIO ZAVOLI. Non credo di aver parlato di deva-stazione, ma di inquietudine… La parola, adesso, aPippo Baudo, un pezzo di storia della RAI.

PIPPO BAUDO. Innanzitutto, ringrazio la Com -missione per l’invito. È la prima volta che mi capita eringrazio personalmente Sergio Zavoli, a cui mi legauna lunga e vecchia amicizia, poiché è stato maestrodelle mie peregrinazioni televisive.

Si parlava di indice di qualità, un elemento mol-to difficile da definire. Chi è il personaggio che ha ilcompito, l’abilità e la capacità di definire quandoqualcosa è di qualità e quando non lo è? Ho davanti ame Giulio Malgara, che è stato l’inventore dell’Auditel.È stata un’innovazione terribile per quanto riguarda latelevisione, perché ci ha abituati ai numeri, ai risultati,e non a quanto sta dentro a tali risultati. È un fatto sulquale bisogna discutere e su cui bisogna riprendere ildiscorso. E quindi vorrei dire la Commissione parla-mentare di vigilanza non dovrebbe occuparsi soltantodella RAI, ma dovrebbe dare indirizzi, codici di com-portamento, a tutte le televisioni…

SERGIO ZAVOLI. Posso interromperti un attimo?Hai toccato un’incongruenza cui nessuno bada più. La

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vera dizione che descrive il mandato allaCommissione parlamentare di vigilanza è proprioquella di riferirsi a tutti i servizi televisivi, non soltan-to alla RAI, ma è venuta da sé l‘abitudine di chiamarlaCommissione parlamentare di vigilanza sulla RAI.Comunque, magari più avanti, approfondiremo laquestione…

PIPPO BAUDO. Grazie per la corretta precisazione.Nondimeno resta un interrogativo di fondo. Con l’av-vento di milioni di televisioni, i nostri apparecchi sonoinvasi da offerte allucinanti, spesso non distinguibili.Il telecomando consente di passare da un’informazio-ne all’altra; con un effetto dirompente se, da un‘altraparte, c’è un prodotto di qualità. Dovremmo allorarealizzare una specie di indice degli ascoltatori ognisera. Ma ciò non è possibile, perché l’Auditel certificala quantità dei telespettatori. Si dice sempre e soltantoche qualcuno ha vinto. Quando un programma hasuccesso di pubblico, automaticamente è gradito. Unaequazione che, a mio avviso, non funziona.

Limitiamo il problema alla RAI, che attraversa unmomento difficile – sarei sciocco a nasconderlo – per-ché l’avvento della concorrenza è spietato, soprattuttoa fronte delle risorse dell’azienda pubblica. Il proble-ma che si pone è la divisione delle risorse di questoente, cioè il canone integrato dalla pubblicità. Cheprodotto deve realizzare questa azienda? Da un lato il

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prodotto deve rispettare la volontà e l’interesse dellacollettività e di chi paga il canone, ma nello stessotempo deve interessare in maniera vivace gli inserzio-nisti, i quali hanno le loro esigenze e preferisconopuntare, ad esempio, su un genere di intrattenimentoche, magari, non corrisponde ai bisogni di chi paga ilcanone. Se si vuole veramente salvare la RAI bisognaaiutarla, dandole una fisionomia autonoma e autenti-ca, senza per questo abbandonare il concetto di con-correnza, che sta alla base dell’economia. Non si puònon farsi concorrenza sui prodotti e sui progetti, altri-menti andiamo a fare tutti lo stesso spettacolo.

Vi parlo come intrattenitore di varietà, il che avolte mi diminuisce di qualità. Quando giro canale evedo che lo stesso prodotto ha una diversificazioneminima – Zavoli prima parlava del pomeriggio, conquell’insistere su determinati fatti tornandoci il giornodopo, non perché abbiano importanza ma perché han-no stuzzicato in maniera notevole il pubblico – michiedo quale sia la differenza tra Servizio pubblico etelevisione commerciale. Non la vedo. Non si è tenutofinora un seminario sulla consapevolezza dell’impe-gno che un’azienda pubblica deve avere nei confrontidei suoi utenti. Anche se a un certo momento l’asticel-la dell’indice dovesse calare di qualche punto, l’indo-mani non sarebbe una tragedia, se si è reso un servizioal Paese, se si è dialogato con la gente.

Con l’avvento del digitale terrestre tutto poi si

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complica. Si parla di un’Italia piena di canali ogni se-ra, però bisogna riempirli. In televisione, come dicevaZavoli, abbiamo teche straordinarie, che a un certopunto si esauriranno. Tuttavia gran parte della produ-zione che trasmettiamo oggi non merita di andare inteca, ma di essere cancellata. Oppure diventerà robaper vecchi e sarebbe drammatico; perché andrà a ri-fornire una televisione solo per vecchi; perché i ragaz-zi non guarderanno le teche, disinteressati come sonoal recupero del passato. Va bene, quindi, una sezionededicata alla teca, ma se tutto diventa ricordo, memo-ria, autocelebrazione, perdiamo il contatto con il pre-sente, ed è quest’ultimo che deve spingerci a realizzarelo spettacolo e l’intrattenimento.

MAURIZIO COSTANZO. Non capisco perché dobbia-mo dibattere sul discorso di Zavoli. Va benissimoquello che ha detto. Ed anche Baricco e Baudo hannoaggiunto considerazioni interessanti.

Svolgerò quindi solo alcune osservazioni, forseconfuse. La prima è che la politica ha fatto del malealla televisione. Se lo vogliamo dire, diciamolo, losappiamo comunque tutti, ma facciamo finta di nien-te. La televisione e la RAI ricordano l’Alitalia. La poli-tica ha viaggiato in lungo e in largo dentro l’Alitalia enon le ha fatto proprio benissimo. Questa non è la se-de per parlare della politica. Quindi non ne parliamo,però dobbiamo saperlo.

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Il secondo punto, che citava anche Pippo, ri-guarda i giovani e la memoria. Rassegniamoci a dueaspetti: le punte di denatalità e il fatto che i giovani sene “impipano” di vedere la televisione. Vedono altro,alcuni canali digitali, stanno su YouTube, su internet.Non facciamo finta che non esista un mondo di gran-de comunicazione alternativa. I giovani sono un’enti-tà. Una volta il mio amico Peppino Patroni Griffi, alladomanda – parliamo del 1970 – di un ragazzo: «Mavoi cosa fate per noi giovani?», rispose: «Morire, ma civorrà tempo». L’età media – grazie a Dio, Pippo – si èallungata e continua ad allungarsi...

PIPPO BAUDO. Siamo soci…

MAURIZIO COSTANZO …quindi ci dobbiamo soppor-tare e continueremo a sopportarci, telespettatori e noi.Ma andiamo avanti. Freccero realizza, a mio parere,un ottimo canale digitale, anche alternativo. La televi-sione – rassegniamoci – non è più solo quella genera-lista, è costituita da tante altre offerte. Non possiamonemmeno essere prigionieri del sogno.

Vedo e mi specchio in Malgara. Per quanto ri-guarda la pubblicità, se un programma non ha ascol-to, sia che si tratti di televisione commerciale o pub-blica, continuiamo a mantenerlo? Lo togliamo perchéè brutto o perché, non avendo ascolto, non avrà pub-blicità? Questo vale per la RAI come per la televisionecommerciale. I vincoli, perciò, sono tanti. Quando

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apro i giornali la mattina guardo la rubrica di Grassosu chi vince e chi perde. A volte ci sono scarti enormi,a volte meno, perché la televisione è una: c’è chi la fabene e chi la fa male.

CARLO FRECCERO. Vengo chiamato in causa e vor-rei fare qualche osservazione. Dopo la relazione delpresidente Zavoli, ritengo che la mia presenza intornoa questo tavolo non sia giustificata, perché ho pratica-to molto sovente il male. Ho praticato naturalmente laTV, quella che esiste, quindi devo innanzitutto ringra-ziare di questo invito e scusarmi della mia presenza.Credo che intorno a questo tavolo, comunque, ci sianoquasi tutti i peccatori. È chiaro che io sono un pecca-tore mortale, anche se devo dire che la relazione diZavoli, letta e recitata con quella voce, penetra nelleossa con un effetto dirompente, quasi televisivo, e ciincatena.

Mi permetta, però, Presidente, di non esserecompletamente d’accordo con quanto ha detto. Per ilseguente motivo: credo che ci sia nella critica televisi-va, non solo dei politici, ma anche degli intellettuali,un feticismo del presente e del passato che censura laprogettualità del futuro. È vero, la TV generalista stavivendo una crisi e la RAI, che si affida al modello ge-neralista perché è il suo core business, la sua forza, lasua missione – questo è indubbio –, non può che ri-sentire di tale crisi. Come tutte le imprese pubbliche,

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però, si preoccupa più del presente che del passato. Èmolto semplice: i risultati di audience e di bilancio de-vono essere immediati per permettere ai manager digiustificare la loro permanenza, e quindi è chiaro chevige questa contraddizione e chiunque di noi che rive-sta un ruolo importante deve pensare all’oggi e nonpuò pensare al futuro. Naturalmente si tende a una ri-petizione di schemi, forse talvolta usurati.

Di fronte a tale contesto, si pone un altro proble-ma serio, ossia la moltiplicazione delle reti, che generaun’erosione di audience. Tale audience, che scompare apoco a poco, non fa altro che concentrare tutta la no-stra attenzione verso lo zoccolo di pubblico più anzia-no che, come giustamente osserva Maurizio Costanzo,rimane quello più affezionato alla RAI.

D’altra parte, è però significativo che Zavoli nel-la sua relazione citi come esempio positivo tutti i pro-grammi che non appartengono alla neotelevisione, maalla paleotelevisione, quella in cui il pubblico era pla-tea da educare; mentre oggi, epoca di neotelevisione,diventa attore protagonista. Tutti i generi più frequenticriticati rientrano in questo secondo modello: parlo,naturalmente, di reality, talk show e infotainment. Unmodello di televisione che ora mostra la corda. La TV

ha perso infatti ogni ambizione di lettura del presente.C’è stato, dagli anni ottanta ad oggi, un passaggio ob-bligato da un soggetto collettivo a uno individuale. Èun processo storico, che non si può dimenticare.

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La televisione non è ovviamente colpevole ditutto, essa riproduce semplicemente ciò che accade.All’interno di questo processo di valorizzazione delprivato subentra poi l’effetto perverso, per cui tutto di-venta pettegolezzo, con una attenzione rivolta so-prattutto ai volti noti, che la televisione rumina conti-nuamente. Si ha l’impressione che oggi la televisionegeneralista assomigli sempre di più a una macchinacelibe, che produce e riproduce se stessa. Anche qui,però – e mi ricollego alle considerazioni di Baudo – èimportante notare che la colpa è anche delle rilevazio-ni d’ascolto. Se si ha successo, si ripropone continua-mente lo stesso prodotto che ha avuto successo.

C’è una crisi, naturalmente, ma io sono ottimi-sta. Oggi – credo per la prima volta nell’era del digita-le e del computer – i messaggi generalisti si ridimen-sionano a favore di altri più mirati. Usciamo da unafase di stanchezza per affrontare il nuovo. Credo chestia qui l’ipotesi di lavoro su cui bisogna riflettere. Perme, quindi, non solo la televisione non si estingue,ma, al contrario, si espande anche sui media emergen-ti. In ciò sta la scommessa che dobbiamo tutti affron-tare, con un po’ più di ottimismo e meno compiacenzaverso il male che abbiamo causato.

PIPPO BAUDO. Scusa, Carlo, vorrei intervenire suquanto hai detto a proposito delle citazioni di Zavoli,relative a una televisione paleolitica…

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CARLO FRECCERO. …non ho detto paleolitica, hodetto paleotelevisione...

PIPPO BAUDO. È lo stesso. E’ stato citatoL’Approdo, ma quella era un’Italia diversa. Ricordo ciòche diceva Sergio Pugliese, allora direttore dei pro-grammi, il quale raccontava sempre la storia del TeatroSistina di Roma, che rappresentava spettacoli di varietàper mille persone a sera. Si domandava però se tra lorovi fossero i contadini di Catanzaro o di Catania, soste-nendo che noi avremmo dovuto portare il Sistina intutte le case degli italiani. Quella fu la prima operazio-ne culturale, che non si limitò, ovviamente, soltanto alvarietà, ma si estese a tutte le forme dell’industria delsapere, come nel caso specifico de L’Approdo, che fuun programma di notevole successo.

Non capisco, però, questo insistere sulla morte,dichiarata ormai da tanto tempo, della televisione ge-neralista. Io difendo la televisione generalista. Hol’impressione che la televisione tematica sia una tele-visione generalista fatta per capitoli: come può essaeliminare quella generalista, che è una sorta di com-pendio di tutto?

CARLO FRECCERO. Sia chiaro: io ho affermato chela TV generalista rimane ancora centrale nel Paese. Lodimostra il modo in cui la politica oggi la difende e lacontrolla. Sarei semplicistico, ridicolo e molto banale

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a negarlo, anzi, noto che la politica ha un’attenzionespasmodica verso la TV generalista. Sostengo, però,che, per sfuggire all’analisi pessimistica, che è statasvolta certamente con intelligenza, inquietudine e tri-stezza, occorra “praticare il futuro”, nel quale forse c’èancora qualcosa che può aprire all’ottimismo.

SERGIO ZAVOLI. Vorrei dire subito a Freccero chenon mi riconosco in ciò che ha detto in termini criticia proposito del mio discorso, perché io ho affermatoesattamente ciò che lui, probabilmente, avrebbe amatosentirsi dire. Ma si è distratto! In particolare laddoveho detto, poco fa, che «occorre guardare lo sforzo ge-neroso di chi sa che la televisione ci spinge inelutta-bilmente a vivere nel dopo, si tratta di concepirla co-me annuncio e segno di ciò che ci aspetta, non di ciòche ci attarderebbe se ci ostinassimo a guardarla con ilcannocchiale rovesciato». Per uscire dalle malinconiepasoliniane ho persino affermato che non voglio rim-piangere il tempo delle lucciole.

Questo passaggio, Carlo, si riferiva proprio allatua televisione. E mi fa meraviglia che tu non l’abbiacolto…

CARLO FRECCERO. Chiedo scusa.

ALDO GRASSO. Ringrazio anch’io il presidenteZavoli di avermi invitato. Ho accettato solo perché mi

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ha invitato lui, perché ogni mia uscita pubblica è a ri-schio di incolumità fisica.

Vorrei portare una nota di ottimismo e sostenereche non c’è mai stata una televisione bella come quel-la attuale. È una televisione marginale, che ha diffi-coltà a imporsi, ma non ci sono mai stati, nella storiadella televisione italiana, nicchie così profonde e inte-ressanti come certa televisione attuale. È una televi-sione che non ha alcun complesso di inferiorità neiconfronti della letteratura, del teatro, della filosofia.Una serie come Lost si interroga sui problemi del pre-sente e del futuro come difficilmente la televisione èriuscita a fare in precedenza. Che cosa, allora, creascompiglio, disagi, inquietudini, come diceva il presi-dente Zavoli? Credo che tutto ciò derivi da una serie diequivoci che ci portiamo dietro e che illustro moltobrevemente, scusandomi per tale brevità.

Il primo riguarda il Servizio pubblico, che nonesiste più da trent’anni. È una leggenda che si traman-da in viale Mazzini rigorosamente da padre a figlio,perché c’è ancora una vecchia possibilità che i figli deidipendenti RAI possano entrarvi. Non esiste più ilServizio pubblico. E una finzione che ci portiamo die-tro. La RAI, da parecchio tempo, è soltanto il bottino diguerra dei vincitori. Lo dico senza alcun moralismo,sono cose che avvengono e di cui bisogna prendereatto. Che cosa succede nella spartizione del bottino? Idirigenti che vengono messi alla guida sono scelti più

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per la loro fedeltà che per la loro competenza. Neglianni, il livello di incompetenza, un vero livello di en-tropia, è divenuto così alto che poi, inevitabilmente, cisiamo trovati di fronte a una televisione che non ab-biamo riconosciuto più rispetto al progetto iniziale percui era nata, in cui c’era una perfetta sintonia fra laclasse dirigente di allora e il pubblico cui essa si rivol-geva.

Il secondo equivoco, più di carattere teorico, èche continuiamo a pensare alla televisione, lo affer-mava giustamente Carlo Freccero, come a un soggettocollettivo. Così parliamo della televisione come rispec-chiamento e rappresentazione della società. Sono tuttepanzane. La televisione generalista, o una parte di es-sa, è la rappresentazione di un gruppo di persone. Lagrande novità di questi tempi è che la televisione cessadi essere un soggetto collettivo, uno strumento che cipermette di rispecchiare la realtà, e diventa semplice-mente e coraggiosamente un nuovo ambiente. Questaè la differenza, i nuovi mezzi di comunicazione hannopreso la televisione e l’hanno completamente sfaldata.

Oggi dobbiamo ragionare non più in termini divetusta sociologia sul rapporto fra la società e la televi-sione, ma in maniera molto più dinamica. I mezzi di co-municazione, i media, sono nuovi ambienti, sono lanuova realtà ed è con questa che ci dobbiamo misurare.

Quando Maurizio Costanzo sostiene che i giova-ni non guardano più la televisione, ha ragione: però

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non guardano più un certo tipo di televisione, oppurele riservano modalità di visione che siamo noi a nonriuscire a comprendere. Sono visioni che avvengonoattraverso la frammentazione, internet, i catch up deinuovi canali. Non si tratta più di un rito collettivo, maindividuale.

Illustro brevemente l’ultimo punto. Quando, co-me giustamente ha fatto il presidente Zavoli, si fannorichiami a parole come «qualità», «cultura», «etica», ame vengono sempre i brividi, perché quando si nomi-nano queste parole, che ormai sono soltanto carcasseverbali prive di senso, significa che tali parole sono di-ventate un problema. Quando qualcosa diventa unproblema vuol dire che non agisce più. Noi andiamoavanti con l’equivoco di credere che la cultura, l’etica,la qualità siano contenuti e che, in questo momento, cisia una loro scarsa applicazione. Si dà la colpaall’Auditel perché non si producono programmi diqualità, ma il mio modesto punto di vista è chel’Auditel sarebbe il primo a chiedere programmi diqualità, se solo qualcuno fosse in grado di produrli.

Questi, comunque, non sono contenuti, ma con-divisioni. Se non c’è un gruppo di persone che fa tele-visione e che condivide un certo progetto, come si puòrealizzare un programma culturale? È ambientalmenteimpossibile farlo se non c’è una sua condivisione. Lostesso vale per l’etica. Vogliamo mettere segnali perindicare che il tale film va visto accompagnati dai ge-

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nitori e via elencando? Non è etica questa, è la parodiadell’etica.

Torno a ripetere che, pur nella frammentazione,nella rottura del Moloch che la televisione è stata percinquant’anni, tuttavia non c’è mai stata una televi-sione così interessante, così bella e, purtroppo, cosìmarginale come quella attuale.

GIANCARLO LEONE. Prima di entrare nel merito dialcune questioni poste dal Presidente, vorrei commen-tare un passaggio dell’intervento di Aldo Grasso che,più che non condividere, devo respingere pienamente.

Ho difficoltà a sedere a un tavolo dove la RAI, echi ne fa parte, viene dipinto come una categoria diincompetenti, come se un gruppo privato editorialefosse – ahimè – esente da alcuni malanni che talvoltapossono riguardare tutti. Ho difficoltà a pensare chenel gruppo di cui fa parte Aldo Grasso non vi sianocasi di incompetenza, di nepotismo, di direttori che,una volta lasciati i loro incarichi, continuano a perce-pire gli stipendi di prima e magari sono messi da altreparti. Non mi sentirei di prendere lezioni di morale dauna persona, che peraltro stimo moltissimo, comeAldo Grasso. Se siamo qui per parlare del futuro delServizio pubblico, lo farei evitando questi toni. Pensoche alcune persone che siedono intorno a questo tavo-lo, come Carlo Freccero, o come Caterina D’Amico cheda alcuni anni, con grande impegno, dirige RAI

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Cinema, o Lorenzo Vecchione di RAI Sat, così cometanti altri colleghi, abbiano difficoltà a riconoscersinelle parole di Aldo Grasso.

Ciò premesso torno invece al tema di cui ci chie-de il Presidente. Sono molto ottimista sul futuro dellatelevisione e della RAI, ma molto pessimista sul futuroche l’attende dal punto di vista della regolamentazio-ne finanziaria. Per certi versi – prodigi della scienza edella tecnica! – lo sviluppo tecnologico ha potutomolto di più che anni e anni di indirizzi. Il digitale ter-restre – convengo, da questo punto di vista, conFreccero, Aldo Grasso e con altri, anche se non contutti gli intervenuti – offre finalmente possibilità cheprima il sistema non consentiva. In precedenza, la te-levisione del Servizio pubblico si poteva realizzare so-lo attraverso tre reti generaliste. Il generalismo, di persé, è importante, perché va incontro a tutti, ma inevi-tabilmente produce superficialità e sottrae tempo al-l’approfondimento dei temi: ma ciò fa parte della suastessa essenza.

Oggi una parte d’Italia, diciamo il 30%, ovvero18 milioni di abitanti, può vedere – parlo della RAI –circa dodici canali. Adesso vi è un’offerta integral-mente dedicata ai minori, per 24 ore. Prima si vedeva-no piccole finestre di programmazione all’interno diRaidue e Raitre. RAI Gulp e Yoyo sono due canali chesi occupano soltanto di programmi per minori. Oggichi vede la TV digitale terrestre ha un’offerta intera-

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mente dedicata per ventiquattro ore alle news – senzadover più attendere soltanto gli appuntamenti dei te-legiornali – attraverso RAInews24; chi è interessato aitemi della storia più o meno contemporanea può, sem-pre per ventiquattro ore, vedere RAI Storia; chi vuolevedere cinema italiano ed europeo di qualità accendeRAI Sat Cinema, e anche in questo caso lo può vedereper ventiquattro ore; chi preferisce nuovi generi tele-visivi, programmi cult, il meglio del cinema e della se-rialità e tutto ciò che concerne programmi innovativi,guarda RAI 4; chi vuole lo sport può vederlo su RAI

Sport. Domani, una maggiore offerta tematica sarà di-sponibile attraverso RAI 5.

Tutto ciò è un grande passo avanti, che nessunindirizzo e nessun regolamento ha permesso. E’ lo svi-luppo della scienza, della tecnica e del mercato che loha consentito. E da questo punto di vista, mi sentireidi condividere alcune parole di ottimismo su ciò chene potrà seguire. Viceversa, tale ottimismo si spegne ediventa profondo pessimismo se immagino che a fron-te di tutta questa offerta – realizzata da una RAI che èancora Servizio pubblico, se non altro per gli obblighiche le derivano dal Contratto di servizio – non vi e’ al-cuna corrispondenza rispetto alle risorse previste perlegge.

Recentemente sono stati presentati emendamentiin Finanziaria – anche se inutilmente, direi – perquanto riguarda la lotta all’evasione del canone. C’è

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una legge dello Stato, la legge Gasparri, oggi TestoUnico, che prevede che il ministro competente, in que-sto caso il viceministro allo Sviluppo Economico condelega alle Comunicazioni, determini l’ammontare delcanone sulla base di specifici obblighi di Servizio pub-blico, previsti dalla legge e dal Contratto di servizio; eche, onde evitare una certa arbitrarietà, al fine di veri-ficare tali costi prenda come base la separazione con-tabile del bilancio dell’anno precedente.

In tutti gli anni successivi all’approvazione dellaGasparri nessun ministro ha voluto e/o potuto – poi-ché il gap era abbastanza consistente – determinare ilcanone sul reale ed effettivo costo del Servizio pubbli-co. Tradotto in valore: nel 2009 risultano circa 330milioni di euro di programmi che, anziché essere pa-gati dal canone, pur essendo di Servizio pubblico, so-no pagati dalla pubblicità. Con la crisi in atto, si puòimmaginare quale sarà l’effetto.

Si sta quindi chiedendo alla RAI, attraverso leapposite normative, di adempiere al suo ruolo diServizio pubblico, ma non la si sta finanziando ade-guatamente. Essa deve dunque cercare sul mercato lerisorse pubbliche che non riceve, a torto, dallo Stato.Credo che proprio questo sia il tema di oggi: non sipuò fare Servizio pubblico se non si hanno risorsepubbliche adeguate. La RAI sta vivendo tale condizio-ne. Non vedo all’orizzonte provvedimenti seri che sioccupino della lotta all’evasione del canone e che con-

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sentirebbero di farlo pagare a tutti, peraltro in misuraminore; né vedo ripensamenti sul costo della tassa diconcessione governativa, che è di 60 milioni di euro,né incrementi del canone.

Il tema delle risorse è strettamente connesso, amio parere, al tema del Servizio pubblico. Ciò detto,resto ottimista sulla prima parte. Se la seconda troveràrisposte adeguate, allora forse potremo esserlo di più,o sicuramente in modo più concreto.

ALDO GRASSO. Chiedo solo altri trenta secondi.Visto che è stata apprezzata l’occasione di scusarsi,vorrei farlo anch’io con Giancarlo Leone, se ho urtatola sua sensibilità. Il mio era un paradosso e vorrei chelo prendesse come tale. Voleva soltanto significareche, a mio modesto avviso, il Servizio pubblico, inquesto momento, è una finzione.

SERGIO ZAVOLI. Monsignor Paglia è un uomo diavveduta diplomazia e, insieme, un esemplare pastore.La sua fama naque quando mise insieme la diplomaziaprofana, per così dire, con la vocazione pastorale; cioèquando, in Mozambico, nel pieno di una devastante eimplacabile guerra tra etnie simili e contigue, fu lapersona che, superando persino gli sforzi dell’ONU,riuscì a mettere pace nel Paese.

Credo che trovarsi qui, stamattina, sia per lei unbrodino, monsignore…

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VINCENZO PAGLIA. Ringrazio il presidente Zavoliper l’invito a prendere parte a questo momento di ri-flessione. La sua apertura ha suscitato reazioni vivaci emolteplici sia per i temi posti sul tavolo sia per il com-pito che la RAI è chiamata a svolgere nel nostro Paese.Collegandomi a quanto ha esposto Aldo Grasso vorreifar notare che le sue riflessioni riguardano certamentela RAI, ma non sono affatto slegate da quanto stiamovivendo ogni giorno. E’ del tutto ovvio, del resto, nota-re che la RAI non è slegata dalla realtà del Paese. Anzi,mentre la manifesta ne è anche contagiata.

Senza volermi dilungare, direi che è indispensa-bile parlare della RAI partendo proprio dalla situazionenella quale versa oggi l’Italia. Il giudizio non è esal-tante. Viviamo in una sorta di inerzia che porta un in-fiacchimento generalizzato. E’ difficile guardare al fu-turo; è praticamente sparito ogni sogno dal nostro fu-turo. Ci si contenta del presente e in maniera per dipiù rassegnata. E tutto ciò mi pare si rifletta anchenell’impostazione generale della RAI.

Ma non solo. A mio avviso è urgente una sortadi Risorgimento culturale che coinvolga tutte le realtàistituzionali, tutte le classi dirigenti. Fermarsi alla po-litica è troppo poco e per di più velleitario. L’inerzia –una malattia che colpisce l’anima profonda del Paeseinchiodandoci tutti unicamente alla gestione del pre-sente – ha pervaso l’intero tessuto civile e, a mio avvi-so, anche religioso dell’Italia. Tutti, giovani e meno

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giovani, politici e intellettuali, preti e professori, fac-ciamo fatica a ritrovare quella energia che spinge adelineare assieme e in maniera dialettica il nostro fu-turo. Il dibattito difficilmente si eleva al di sopra degliinteressi di categoria, di gruppo, e spesso resta pur-troppo a livello strettamente individuale. Talora sisente ripetere, anche giustamente, di abbassare i toni.A mio avviso bisogna alzare le idee. Ed è questo l’oriz-zonte nel quale deve cimentarsi la RAI come Serviziopubblico.

Non sono un esperto di questioni televisive. Ma,in passato, mi pare che la RAI fosse riuscita a comporrequell’equilibrio tra informazione, cultura e intratteni-mento che qualificava il Servizio pubblico. Oggi nonpossiamo non porci un serio e preoccupato interroga-tivo. La relazione di Zavoli è una sorta di frusta in talsenso. Ed è indispensabile che, in ogni campo, tale ri-flessione vada compiuta. E in fretta. Sergio Zavoli cita-va una frase che ho preso in prestito da un piccolo vo-lumetto di Carlo Bo, L’omelia, tormento dei fedeli. Nonvorrei qui aprire una riflessione che ci porterebbe lon-tano, ma se dovessi trasferire questa affermazione diCarlo Bo al nostro campo, mi verrebbe da dire che laRAI rischia di essere il sonnifero del cittadino e il risve-glio del consumatore. Il Servizio pubblico deve tenerpresente anzitutto la sollecitazione del cittadino, ossiaaiutare ogni italiano a comprendere e a vivere lo spiri-to della cittadinanza. E’ ovvio che, altrimenti, si solle-

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cita unicamente quell’istinto consumatore che si na-sconde in ognuno di noi. Mi ha impressionato, qualchetempo fa, uno scrittore che proponeva di cambiare ilprimo articolo della nostra Costituzione: l’Italia nonpiù fondata sul lavoro, ma sui consumatori.

La fatica di sollecitare il cittadino è ciò che devefungere da sfondo all’impegno della televisione pub-blica. Ed è una fatica che richiede l’impegno di tutti ea tutti i livelli, culturale, economico, religioso, educa-tivo, politico, e così via. Insomma si tratta di ridefinireil bene comune del Paese, che non è affidato soltantoad una istituzione o ad un gruppo. Sarebbe un erroretragico – e lo dico anche per la Chiesa – se ciascunaistituzione rimanesse bloccata a gestire la propria di-mensione. E’ urgente che tutte si pensino all’interno diun nuovo impegno per l’Italia, per il bene comune ditutti. Siamo collocati in un versante storico in cui èindispensabile un’alleanza virtuosa, e anche dialettica.Ed è ovvio che il Servizio pubblico televisivo debbaessere una delle piazze di questo dibattito, di questacreazione. Quel che a me pare debole è una prospetti-va utopica di ricostruzione del nostro Paese. NelServizio pubblico – e rilevo solo un aspetto – mi pareinoltre particolarmente debole la prospettiva interna-zionale.

La riflessione odierna deve spingerci ad avere unpo’ più di audacia nel ripensare il senso del Serviziopubblico. Il rapporto tra esigenza del Paese e RAI deve

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ritrovare una circolarità virtuosa. Non possiamo per-metterci di lasciarci irretire dai due estremi, ossia la-sciare da una parte che la televisione rispecchi ilPaese, comunque esso sia, e dall’altra costringere latelevisione ad un monismo etico o culturale. Per que-sto è urgente uno scatto culturale che permetta unadialettica positiva tra le diverse anime del Paese.

Credo che questo sia il vero nodo. Parlare di te-levisione, soprattutto di RAI, senza tener conto dellacondizione di un Paese che fa fatica a guardare al pro-prio futuro, è una responsabilità che deve coinvolgercitutti, e particolarmente le classi dirigenti. Si parla, avolte, di silenzio degli intellettuali o di troppa inge-renza della Chiesa, o di frammentazione dell’econo-mia. Sono tutti temi che non possono non coinvolger-ci e che forse dovrebbero essere oggetto di unServizio pubblico che aiuti la circolarità del dibattito edelle prospettive.

Quale società, quale Paese vogliamo e dobbiamocostruire? Guai a restare inerti mentre l’Italia perdesempre più peso politico, sia in Europa che nel mondo.E’ difficile scorgere l’Italia sulla scena internazionale,in Africa, in Asia, o nelle sedi internazionali. Certo,non mancano lodevoli eccezioni. Ma sono appunto ec-cezioni. Ben altro, nei secoli passati, è stato l’influssoitaliano nel mondo. E’ ovvio che tutto ciò è conseguen-za di una debolezza profonda. In tal senso sono con-vinto che parlare di RAI, di Servizio pubblico, significa

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toccare un tema che riguarda l’intero Paese, sia nel suopresente che – vorrei sottolinearlo – nel suo futuro.

SERGIO ZAVOLI. Diamo ora inizio alle domande deicommissari. Comincerei dal senatore Francesco Pardi.

FRANCESCO PARDI. Sono stato sollecitato dall’ac-cenno alla vergogna, con cui ha iniziato Baricco, cheva chiamata per nome. Ciò significa ricordare che quisotto si celebra Craxi per celebrare Berlusconi, per so-stenere che Craxi avrebbe dovuto fuggire dai processi,e che Berlusconi ha lo stesso diritto. Ma sono argo-menti triviali, che mi lascio alle spalle.

Vorrei porre invece una domanda a Baricco.Sono certo – questo vale per tutti noi – che solo la let-teratura potrà salvarci e, poiché ne sono profonda-mente convinto, mi sarebbe piaciuto sapere da Bariccoquale potrebbe essere il modo efficace di far vivere laletteratura in televisione. So che è difficilissimo e chesi teorizza perfino che il teatro non debba andare intelevisione, però qualche mente fervida – e uno scrit-tore lo è, sicuramente – forse ci può suggerire un’ideaal riguardo.

Al contrario, sono di parere opposto a quello diAldo Grasso. Penso che oggi la televisione, eccetto peralcuni casi davvero molto limitati sia grosso modoun’irrimediabile schifezza. Purtroppo, questo può ac-cadere in ogni Paese, e forse accade. Non ho esperien-

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za di altre televisioni. Mentre però altrove il problemadi ridurre l’irrimediabile schifezza in qualcosa di si-gnificativo avrebbe una via d’uscita, o forse più vie diuscita, noi abbiamo un ostacolo all’origine, ontologi-co, che riduce enormemente la possibilità di rimedio:se è vero che la RAI è la spoglia del vincitore, solo inItalia lo è del proprietario dell’azienda concorrenteche, tutte le volte che ne ha avuto la potestà, ha im-bottito la stessa RAI di suoi dirigenti. Non è un misteroper nessuno che essa sia gremita, ai posti apicali, didirigenti provenienti da Mediaset. Come può la RAI,imbottita di dirigenti Mediaset, esercitare una qualchepossibilità di invenzione culturale, nonché di riscattoda ciò che è diventata? Dubito che possa riuscirci.

Un’ultima considerazione riguarda la questionedell’espressione «rappresentazione e traino». Non cre-do che la RAI sia più il traino di nulla; forse è rappre-sentazione, ma in senso peggiorativo. Penso al nuovostile con cui si pone il rapporto tra televisione e popo-lo. La RAI tende, in moltissime sue manifestazioni –moltissimi programmi, passaggi, quantità di ore enor-mi – a dare una rappresentazione del popolo secondoil modo in cui intende vedere il popolo. È una sorta difinta autorappresentazione, perché non è vero che ilpopolo si autorappresenta. E’ la RAI che suggerisce cheil popolo rappresentato sia quello che comincia con lepadelle la mattina e prosegue con talk show e realityper tutta la giornata: ma questa è una rappresentazio-

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ne del popolo solo come volgo e la volgarità televisivane diviene la sua materializzazione. Anche il volgo,certo, è stupendo perché, se uno pensa a Plauto e alvolgo della letteratura, per carità, ci sarebbe da gioir-ne! Il problema è che questo non è il volgo, né diPlauto, né di Terenzio. È il volgo della RAI, rappresen-tato e fatto vivere con i mezzi, gli strumenti, la volon-tà, la pseudocultura della RAI.

Come si esce da una situazione di questo tipo? Inun altro Paese la risposta sarebbe molto semplice: conla concorrenza. Ma in Italia la concorrenza non c’è.

LUIGI VIMERCATI. Desidero cogliere, in proposito,l’occasione per formulare un paio di domande.

La prima è quella che viene spontanea dai fatti re-centi. Penso che sia importante difendere il Serviziopubblico, perché, per le considerazioni espresse conanimo molto eccitato dal collega Pardi, in un Paese cheha un sistema radiotelevisivo come il nostro, la scom-parsa del Servizio pubblico sarebbe particolarmente pe-ricolosa per la stessa democrazia italiana. Sono, quindi,per la sua difesa e proprio per questo non perdo la spe-ranza che esso riesca a fare uno scatto in avanti.

In base, poi, alle osservazioni di Grasso, special-mente a chi viene da un’altra regione fa piuttosto im-pressione il familismo della RAI, nonché l’intreccio trafamilismo e politica. Basta leggere i titoli di coda delletrasmissioni per notare quanto ciò sia impressionante.

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Ma quello che mi preoccupa di più, in questo mo-mento, è proprio l’incapacità della RAI di raccontare ilPaese. Cito due questioni. La prima è la vicenda diRosarno, che noi abbiamo scoperto dopo la rivolta degliimmigrati, perché è stato il Servizio pubblico della BBC

a raccontarla e non le nostre trasmissioni, spesso strilla-te – ne abbiamo in RAI –, nelle quali nessuno ha avutolo scatto deontologico di andare a raccontare dal vivola vicenda. E’ una questione complessa, che riguarda ilsud come il nord. Giorni or sono parlavo con alcunioperai dell’Italtel – una fabbrica importante di Milano,con duemila operai e stabilimenti anche a Roma – iquali si domandavano come avrebbero potuto far co-noscere la loro situazione, ossia il rischio che venisseroin gran parte licenziati, e quale escamotage trovare peravere un’udienza. È possibile, cioè, che il Servizio pub-blico non riesca a raccontare la dimensione sociale del-la crisi economica? C’è bisogno che qualcuno si buttigiù da una gru perché la RAI se ne accorga?

C’è inoltre bisogno che il Servizio pubblico pren-da atto, per esempio, delle decine di migliaia di negoziche non hanno più riaperto dopo Natale, dei tanti la-voratori autonomi – vengo dalla Lombardia – e delletante piccole imprese che non hanno più riaperto oche non sanno come fare a sbarcare il lunario. Perchédobbiamo per forza stare dentro una vulgata governa-tiva, secondo cui la crisi non esiste? Perché non c’è al-cuna autentica capacità di raccontare?

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Vorrei rivolgere una domanda anche aGiancarlo Leone, una domanda che ho posto anche aMasi nel precedente seminario. Riusciamo, in questidodici canali, a dare finalmente uno spazio alla cultu-ra, così come la televisione può oggi raccontarla, sen-za immaginare di recarci semplicemente a teatro conle telecamere? È possibile che solo il nostro Paese nonabbia a disposizione un canale dedicato a questo te-ma? Masi, l’altra volta, aveva svolto una premessa eindicato un impegno. Voglio chiedere a Leone se la RAI

sta lavorando in questa direzione oppure se anchequella del digitale rischia di essere un’occasione per-duta di avere un canale dedicato alla cultura.

GIORGIO MERLO1. Rivolgo una domanda generalesenza indirizzarla ad un singolo relatore. Il dottotGrasso ha detto poc’anzi che il Servizio pubblico ra-diotelevisivo è una “finzione”. Se si mette a confrontoquesta affermazione con l’intervento appassionato diPippo Baudo, che peraltro ho condiviso, sul ruolo de-cisivo e centrale che continua a svolgere la Tv genera-lista, possiamo dedurre che abbiamo ascoltato l’alfa el’omega sulla RAI. Lo dico perché in queste considera-zioni è racchiusa anche l’utilità di questi seminari, ca-paci di mettere insieme opinioni diverse se non con-trastanti.

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1 Vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza.

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Non voglio sfuggire al tema e mi scuso perl’elementarità di questa mia riflessione. Però è bene ri-cordare che, secondo la vulgata generale, noi sappia-mo che la “qualità” mal si concilia o non si conciliaaffatto con gli ascolti. Non è sempre così, certo.Sappiamo però che se la qualità non si intreccia congli ascolti – essendo questi legati anche agli introitipubblicitari – inesorabilmente anche un programma,seppur di qualità, è destinato a chiudere a prescinderedai contenuti che sprigiona. Al di là dei grandi eventiche producono ascolti – calcio, tragedie, avvenimentieccezionali – normalmente, di fronte all’audience, nonc’è regola, programma, codice o indirizzo che tenga.

Dobbiamo però uscire da un equivoco. Tuttinoi sappiamo che il Servizio pubblico, che non è solofinzione, si trova di fronte ad una concorrenza spieta-ta per la moltiplicazione dell’offerta editoriale, oltreall’irrompere del digitale. Esso, al contempo, non puòsoltanto assecondare gli istinti o la pancia degli italia-ni, ma deve rispondere anche a criteri, codici, indirizzie regole che presiedono al Servizio pubblico radiotele-visivo. È vero che alcuni conduttori fanno ciò che vo-gliono, ma comunque ci sono indirizzi e regole a cuidevono attenersi.

La domanda, di conseguenza, è molto semplicee al contempo molto impegnativa: e cioè, possiamointrodurre – in attesa che il Servizio pubblico si riap-propri del suo ruolo o della sua “fisionomia” come l’-

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ha definita Pippo Baudo – una regola che gli consentadi sospendere l’assillo quotidiano e martellante degliascolti? Se questo non è, o non sarà possibile, allora siprenda atto che il Servizio pubblico – che resta decisi-vo ed essenziale per la stessa conservazione della de-mocrazia nel nostro paese – e la sua qualità non po-tranno ridursi ad assecondare gli istinti o la semplice“pancia” dei telespettatori. Perché se questa fosse laderiva, inesorabilmente il Servizio pubblico – che nonè ancora una “finzione” – rischierebbe realmente discomparire dall’orizzonte culturale del nostro paese.

SERGIO ZAVOLI. Forse Pippo Baudo vorrebbe inter-venire…

PIPPO BAUDO. …per ribadire che il problema dellerisorse si risolve, secondo me, soltanto con l’obbligoper tutti del pagamento del canone. Non c’è altra solu-zione. Il canone potrebbe essere indicato come formadi tassa da aggiungere, per esempio, alla bollettadell’ENEL. Tutti dicono che è possibile e ci sono gestoridell’energia disponibili. Se ciò si realizzasse la RAI nonavrebbe l’assillo dell’audience, perché avrebbe fonticerte di finanziamento.

In secondo luogo, si aprirebbe una parte pubbli-citaria, quella che oggi è dominio della SIPRA – si faper dire, perché anch’essa incontra molte difficoltà aentrare nel mercato – che quindi favorirebbe anche letelevisioni commerciali. La protezione – termine brut-

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to – nei confronti del Servizio pubblico deve essere to-tale: o si crede che possa sopravvivere e continuare,oppure lo si smonta completamente. Se esso deve sot-tostare a un Contratto di servizio, a tutte le esigenzed’obbligo che, giustamente, deve avere un Serviziopubblico e, contemporaneamente, realizzare l’ascolto evendere anche la pubblicità, è davvero assai difficileche possa raggiungere tutti questi obiettivi. Per rag-giungerli ci vogliono fonti certe di finanziamento.

Se lo Stato (il Governo, il Parlamento) ha tantointeresse che ci siano in questo Paese delle televisioni– che siano una rete, due o tre – che abbiano vera-mente l’ombelico attaccato a quello che succede, incui si può parlare subito dei fatti di Rosarno senza at-tendere l’indomani per esprimere un commento suicommenti degli altri, bisogna liberarle totalmente da-gli assilli economici e anche dalle strutture tipiche del-la televisione.

La struttura della RAI, ad esempio, è mostruosadal punto di vista numerico: abbiamo – fu un’idea deicreatori della Terza Rete – venti stazioni televisive re-gionali. Capite bene che, coi tempi di oggi, avere unatelevisione a Cosenza, un’altra a Catanzaro (dove c’èun distaccamento), un’altra a Reggio Calabria, una aPalermo e una a Catania è inutile, perché oggi con ilsatellite la notizia si dà immediatamente. Spesso Skyarriva prima della RAI. Sky dà la notizia in rete imme-diatamente e la RAI arriva dopo, per via dei turni, degli

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impiegati, dei funzionari, dei pullman che devono par-tire. Peraltro, sono tutti capi redattori.

Si pone in tutta evidenza l’impossibilità di unagestione economica dell’azienda e, quindi, il problemache si discute oggi, e che dibatterete più avanti, è ve-ramente vitale. Non si tratta di essere ammalati e dipoter guarire, ma si tratta di una malattia gravissima,che non si può guarire se non si rifonda ab imis il pro-blema, se non si indica quali obblighi la RAI debba se-guire e quali obiettivi debba raggiungere.

Chi paga? Deve pagare il Paese, come si paganole tasse scolastiche, perché assai simile è la funzionedella televisione. So che l’idea del canone obbligatorioper tutti passa difficilmente ma, poiché ci sono feno-meni di disaffezione – dal momento che qualcuno hainvitato a non pagarlo, non dimentichiamolo –, se nonconvinciamo la gente che il canone va pagato, la si-tuazione sarà definitivamente compromessa. Essa èdunque nelle nostre mani, in quelle dei parlamentari,in quelle di chi ci governa.

ALDO GRASSO. Sono state poste molte questioni inrelazione al mio primo intervento. E’ vero, spesso, nel-la pubblicistica, la televisione è vista come la causa ditutti i mali. E’ il nostro grande alibi sociale: qualunquecosa succeda – i bambini sono svogliati, violenti, c’è ilbullismo e via elencando – è sempre colpa della televi-sione. L’aspetto più curioso è che, all’interno della te-levisione, la colpa di tutto è dell’Auditel.

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Bisognerebbe svolgere un piccolo ragionamento.L’Auditel è uno strumento, per quanto imperfetto, su-scettibile di miglioramento e legato a tutte le leggidella statistica, ma comunque uno strumento. È invececompletamente sbagliato l’uso che se ne fa. È diventa-to l’unico criterio di misurazione dei programmi. Inrealtà, ci sono due aspetti da tenere presente. Uno èche, se si analizzassero a fondo i dati, si troverebbeuna quantità di informazioni incredibile nella radio-grafia del pubblico. Non c’è bisogno di inventarsiQualitel o altro, perché si ha già dall’Auditel la radio-grafia del pubblico che segue le trasmissioni.

L’altro aspetto è la distorsione, che spesso riguar-da anche la pigrizia degli investitori pubblicitari. Leagenzie, i centri media impiegano molto tempo a capi-re la variazione. Per loro è più comodo investire sulgrande numero e spesso l’errore è proprio questo, cioèche sono i primi a non accorgersi di due elementi. Ilprimo è che, se loro mirassero un po’ meglio la pubbli-cità, avrebbero migliori effetti; il secondo – questo è unparadosso che io non ho mai capito – è che molto spes-so la pubblicità è linguisticamente molto più comples-sa del contesto in cui va a finire, ovvero è infinitamen-te più raffinata dei contesti in cui è inserita. Il primolavoro che chiederei agli investitori pubblicitari è, dun-que, un’attenzione maggiore a dove mettono gli spot.

Il secondo punto è relativo alla questione delServizio pubblico. Non vorrei usare la parola progetto,

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mi accontenterei del minimo, cioè capire quali sono lelinee editoriali delle reti RAI. Non lo si riesce a com-prendere. Quello che mi permette di distinguere unacasa editrice da un’altra è la sua linea editoriale, il chevuol dire che ci sono persone che esprimono una posi-zione che si traduce in prodotti, discorsi, programmi,espressività, ecc. Per me il dramma della RAI è che, damolto tempo, non si capisce quale sia la sua linea edi-toriale.

GIULIO MALGARA. Anch’io ringrazio il Presidentedi avermi invitato e spero di portare una testimonian-za e un piccolo contributo.

In base a quanto ho sentito questa mattina, cre-do che tutti abbiano espresso un pezzo di verità. Ilpresidente Zavoli ha eseguito un’analisi, intellettuale eculturale, molto forte, basata su elementi reali e nonpersonali; come al solito ha fotografato molto benequello che sta succedendo: una situazione complessarappresentata anche dai prezzi che stiamo pagando al-lo sviluppo.

Può sembrare che non sia così, ma il Paese co-munque è andato avanti. Quando è nato l’Auditel, ilquadro era del tutto diverso da quello di oggi.L’abbiamo creato nel luglio del 1984, ventisei anni fa evenivamo guardati come se fossimo degli imbroglioni.Tutti sostenevano che i dati fossero “finti”. Intorno in-furiavano guerre feroci fra RAI e Mediaset (che allora si

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chiamava Fininvest) e non vi erano obiettivi che potes-sero coincidere. Poco a poco, tutti hanno capito checosa fossero quei numeri. L’Auditel era al servizio degliinserzionisti, questa era la ragione della sua nascita.Fate conto che nell’84 si investivano circa 2 miliardi dilire di pubblicità, mentre quest’anno si investono 5 mi-liardi di euro! Entrava come currency con la trasparen-za dei suoi dati, in un momento in cui il mercato si sta-va sviluppando velocemente. Bisognava capirlo. E cre-do che la televisione commerciale l’abbia perfettamen-te compreso e l’abbia cavalcato in maniera forte.

La RAI, dal canto suo, le ha tenuto dietro model-lando le sue strategie. Ed è anche cresciuta.

Vorrei inoltre osservare che quando Grasso so-stiene che stiamo vivendo un momento di svolta nellapubblicità, credo che dal suo punto di vista abbia ra-gione. C’è stato sicuramente un grande sviluppo neiprogrammi. Adesso ne abbiamo un’enormità e la pla-tea del pubblico è così diversificata che bisogna offrireprogrammi sempre più mirati.

Infine, due considerazioni ancora. Intanto, se-condo me, si pone un problema economico, che è statotoccato da tutti, in maniera più o meno netta. Oggi siè detto che tutti gli italiani dovrebbero pagare il cano-ne. Ma anche se lo pagassero tutti, non basterebbe. Seio facessi un giro tra voi e domandassi quanto costa ilcanone in Inghilterra, in Germania e in Francia, visorprendereste, perché ove c’è un Servizio pubblico il

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canone costa fino a 300 euro all’anno. Noi ne paghia-mo 109. Se mancano le risorse economiche, inutile di-scutere sui contenuti perché ci fermiamo alla primatappa: non possiamo metterci qui a discutere sulla tu-tela della cultura rispetto a scelte più commerciali,perché il discorso finisce immediatamente.

La RAI ha un compito: deve uscire dall’equivocoServizio pubblico/Televisione commerciale. Può farlo,perché ha tutta la robusta preparazione dei suoi mana-ger per consentirle di uscirne con molta facilità.Anche nella governance e nel profilo delle reti si puòoperare. Arrivando a stabilire di prendere un canale ededicarlo alla cultura, anzi – per meglio dire – alla dif-fusione di un intero sistema di vita civile e di valori, incui la televisione ha un’importanza fondamentale. Uncanale potrebbe essere questo. Gli altri due potrebberoandare sul mercato…

PIPPO BAUDO. Chi se li compra?

GIULIO MALGARA. …poi discutiamo di chi li com-pra. Può darsi che non se li compri nessuno perché, seil canone – facciamo un caso di scuola – invece di 100euro fosse di 200...

PIPPO BAUDO. Chi lo paga?

GIULIO MALGARA. Lascia perdere chi lo paga.Significa che, allora, non abbiamo un Paese civile.

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Se uno va in autostrada e non vuole pagarla, non hadiritto a percorrerla e deve rimanere sulle stradeprovinciali. Oggi il treno ad alta velocità, che costail doppio o il triplo degli altri, non è pagato dallapubblicità, ma dal cittadino. Lo stesso vale per il ca-none.

PIPPO BAUDO. È un altro tipo di servizio.

GIULIO MALGARA. No, è lo stesso, se lo vogliamovendere come Servizio pubblico, se vogliamo partirecon l’educazione della gente. La televisione – e la RAI

è protagonista in questo aspetto – ci ha insegnato an-che a parlare l’italiano, con il maestro Manzi.Dobbiamo partire dal presupposto che la RAI – dopoparlo di te e di tutto ciò che hai fatto tu, che è fonda-mentale – non debba essere solo uno strumento di-dattico per gli italiani, ma anche divertirli, interessar-li, incuriosirli e, certo, educarli. Questo è il Serviziopubblico. Non mi domando chi abbia compiuto que-sta scelta – non lo so – ma gli italiani hanno, nel beneo nel male, un interesse al di sopra di ogni altro: ilcalcio. Gli italiani parlano solo di calcio, vivono dicalcio, e la RAI non ce l’ha! Il calcio mette tutti gli ita-liani seduti di fronte al video il sabato e la domenicapomeriggio in maniera compatta. Perché la RAI nonce l’ha?

PIPPO BAUDO. Perché sul calcio interviene Sky.

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GIULIO MALGARA. E quindi cerchiamo di capireperché è arrivato ad avere 5 milioni di abbonati. Ce losiamo mai chiesto? Perché c’è il calcio. E non potevaaverlo anche la RAI?

Prima di tutto occorre di affrontare il tema dellerisorse economiche, altrimenti non andiamo moltolontano. Questo è il primo punto. Quando il dottorAldo Grasso sostiene che c’è una bella televisione, for-se intende dire che è molto variegata. È vero, ormaiabbiamo programmi molto tematizzati. Naturalmentedobbiamo accontentare tutti i pubblici. Come si fa adaccontentarli tutti? L’Auditel è lì apposta a mostrarenon solo i grandi numeri ma i diversi pubblici. Se glieditori della televisione, sia privata che commerciale,nonché le aziende studiassero davvero a fondo i datiAuditel, vi assicuro che si farebbero vestiti su misuraeccezionali, senza mai scadere nella volgarità.L’Auditel ha avuto la funzione di segmentare la socie-tà italiana, o meglio gli spettatori della televisione ita-liana, in tutti i loro comparti di classe sociale, econo-mica, culturale. Siamo – credo – gli unici oggi a poterpresentare una platea ben identificata nelle sue aspet-tative. Bisogna lavorare su questo, perché è questo chepuò far diventare la televisione migliore. Per quantoriguarda la qualità, sono infatti convinto che oggi siacarente, ma lo è anche come riflesso socio-culturaleperché abbiamo una massa di gente che guarda uncerto tipo di televisione facile. Se non lo facesse le

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scelte sarebbero altre. E qui occorre il coraggio di ri-schiare sul nuovo.

Infine, il tema finanziario del Servizio pubblico èdi enorme importanza. Dobbiamo decidere se voglia-mo attribuire nuove risorse, ma non da 100 euro a109, come nell’ultimo passaggio. Il Paese deve avere ilcoraggio di decidere se la televisione del Servizio pub-blico è un elemento, un’arteria fondamentale per ladiffusione di un sistema di vista civile e culturale, co-me l’autostrada lo è della logistica. Se vogliamo anda-re in questa direzione, bisogna metterci in testa cheoccorre aumentare il canone.

PIPPO BAUDO. Io vorrei che pagassero anche 400euro, così staremmo tranquilli.

GIULIO MALGARA. Ma perché gli altri lo pagano?Abbiamo lo stesso PIL della Francia, della Germa -nia...

PIPPO BAUDO. …ma non siamo nelle stesse condi-zioni. L’Italia è stretta e lunga, le condizioni economi-che dei cittadini non sono uguali. Non puoi portare a200 euro il canone fisso. E poi non puoi far ruotaretutto soltanto intorno al calcio...

GIULIO MALGARA. …è un driver! Il calcio è il dri-ver, Pippo. Ci siete tu e il calcio come driver. Tu haifatto la televisione. Ci sono due personaggi, in Italia,

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che hanno fatto la televisione, Mike Bongiorno ePippo Baudo!

PIPPO BAUDO. Meno male che Costanzo se n’è an-dato…

GIULIO MALGARA. …Costanzo ha fatto un’altra te-levisione, di nicchia. Voi ne avete fatta una di pubbli-co. Sono due concetti diversi. Anche Freccero fa unatelevisione di nicchia. Non buttiamola via, perché latelevisione di nicchia, i dodici canali della RAI, devonoessere guardati con molta attenzione. Come si dicevauna volta, le azioni non si contano ma si pesano e an-che l’audience non si conta ma si pesa.

L’architrave è la televisione generalista, e lo saràancora per alcuni anni. Dopodiché, ci sono i satelliti,che stanno crescendo – io li ho visti nascere – e in ma-niera più qualitativa rispetto alla televisione generali-sta e la miriade di nuovi canali della transizione al di-gitale terrestre. Non può essere che così, perché costa-no meno, sono mirati e sono molto interessanti per lapubblicità. Il dramma è come cambiano le risorse pub-blicitarie. Oggi non abbiamo più i prodotti. Se uno vain America e vede la pubblicità – invito tutti coloroche vi si recano a passare cinque ore del giorno da-vanti al televisore, almeno una volta – capisce comesiano cambiati gli Stati Uniti.

La pubblicità, che noi qui vediamo, là non c’è

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più. Non ci sono più gli alimentari, i detersivi, niente ditutto ciò. La pubblicità è sociale e di servizio. Lo scher-mo non diventa più grande, è sempre lo stesso. I 26 mi-lioni di italiani sono sempre gli stessi e i prodotti chevogliono entrare nello schermo sono sempre di più.Dimentichiamoci l’attuale crisi, che durerà due, tre oquattro anni, ma non è influente sul futuro di un Paese.Il futuro di un Paese non si deve fermare a guardare setra un anno o due saremo ancora in crisi, ma pensare aquando, fra dieci, non lo saremo più. Se non siamopronti a cogliere quel momento, saremo in difficoltà.

Finirà che grandi progetti mondiali, energetici,culturali e di comunicazione pubblica – la scuola,l’università, le regioni, la sanità – compreranno lapubblicità, perché avranno audience molto interessatea sentire che una Università della Lombardia è megliodi quella del Lazio o viceversa; nonché la sanità, gliospedali di eccellenza, le scuole di eccellenza. Questo èil compito principale della pubblicità degli anni futurie la RAI, probabilmente, è più pronta per questo. Io, al-meno, la vedo così, leggendo e vedendo i dati che tuttii giorni vengono pubblicati. Tutti i giorni so chi vedela televisione. So come sono fatti e come cambianoquei 26 milioni di persone che la vedono.

SERGIO ZAVOLI. A questo punto del dibattito misembrerebbe opportuno ascoltare l’onorevole Lainati,che potrà riprendere molti spunti emersi nella discus-

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sione e dirci cosa ne pensa, considerando anche la suafunzione.

GIORGIO LAINATI2. Come rappresentante dellamaggioranza di Governo mi sento in dovere di direqualcosa, anche visti gli interventi che mi hanno pre-ceduto.

L’intervento dell’esponente dipietrista, il sena-tore Pardi, mi induce a rivolgere una domanda primadi tutto a lei, caro dottor Baudo, e poi anche al vice-direttore della RAI, dottor Leone. È chiara evidenzache forse il dottor Leone avrà un problema di poli-tesse e non potrà intervenire; però, avendo l’espo-nente dipietrista usato parole molto pesanti su alcu-ni dirigenti che hanno lavorato al gruppo Fininveste sono da diversi anni dirigenti del Servizio pubbli-co, non c’è nessuno più adatto di lei, dottor Baudo,se lo vorrà – ma anche del dottor Freccero – per re-plicare.

Vede, senatore Pardi, anche il dottor Freccero,che io stimo moltissimo, ha avuto venticinque anni fa– lo ricordo – una lontana collaborazione con l’im-prenditore Berlusconi e quindi anche lui potrebbe dirciche tipo di intervento di qualità hanno le professiona-lità che sono passate da un campo all’altro, cosa che,

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2 Vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza.

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peraltro, non mi sembra così negativa, anche perché irisultati sono sotto gli occhi di tutti.

Ho sentito alcune espressioni riduttive nei con-fronti del Servizio pubblico di ieri e di oggi.Oggettivamente, non condivido le valutazioni negativeche ha manifestato stamattina, per esempio, lo scrittoreBaricco, che pure stimo moltissimo. Potrei citarle tan-tissimi esempi. Se vogliamo parlare della TV generalistae, in particolare, di Raiuno, lei ricorderà che anni fa larete ebbe un successo straordinario trasmettendo inprima serata il programma Tosca. Nei luoghi e nelle oredi Tosca, di Andrea Anderman, girato a CastelSant’Angelo, una delle operazioni culturali di maggiorprestigio del Servizio pubblico, che ebbe un lusinghie-ro riconoscimento da parte dei telespettatori.

Ricorderete che pochi giorni fa – mi fa piaceresalutare il presidente dell’Autorità per le garanzie nel-le comunicazioni, il professor Calabrò – è stato tra-smesso in prima serata da Raidue un bellissimo tri-buto a un grande italiano, Luciano Pavarotti, un pro-gramma realizzato molto bene, che ha avuto un si-gnificativo successo di ascolto. Se facciamo un para-gone, gentili signore e signori, tra due momenti cosìdiversi – i due programmi che ho menzionato – anchese caratterizzati da scelte non continuative, vediamoche in prima serata esistono momenti alti di cultura.

Il dottor Malgara, peraltro – voglio ricordarlo aipresenti – fu indicato dal Governo Berlusconi nel 2005

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quale Presidente del Consiglio d’amministrazione dellaRAI, ma l’allora opposizione di centrosinistra nella no-stra Commissione si oppose. Lei, Presidente, lo ricor-derà più di altri.

Non ho una visione negativa del Servizio pub-blico. Infatti, dottor Leone, mi riconosco molto nel suointervento, perché lei ha giustamente rivendicato, anome del Servizio pubblico, le sue eccellenze di oggi, idodici canali, che hanno veramente portato una diver-sificazione straordinaria e che rappresentano il pre-sente e il futuro della sua offerta.

È un’offerta che deve essere pagata e deve persi-no essere pagata quanto sostiene il dottor Malgara?Credo di non avere alcuna difficoltà nell’affermare, anome della maggioranza di Governo, che ciò non èpossibile, perché riteniamo, con i 109 euro stabiliti dalministero dello Sviluppo economico e dal viceministrodelle Comunicazioni, di chiedere già molto agli abbo-nati. Come voi sapete, non si deve andare molto oltrel’inflazione programmata e quindi l’aumento è statolimitato, anche se il dottor Leone e la RAI lo hannogiudicato insufficiente.

A questo punto apriamo – ed è doveroso farlo,presidente Zavoli – la questione del pagamento delcanone. Il presidente Calabrò e il presidente Zavoli ri-cordano perfettamente che il consigliere di ammini-strazione della RAI indicato dal ministero del -l’Economia e delle finanze, il professor Angelo Maria

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Petroni, ha realizzato diversi anni fa uno studio spe-cifico proprio su come arrivare ad azzerare o a ren-dere minima la fortissima evasione all’abbonamento,che è pari al 30-35% ed è oggettivamente inaccetta-bile. Lo dice uno che ha sempre sostenuto e sostiene– lo affermo con molta chiarezza e nettezza – che ilcanone vada assolutamente pagato. Ci mancherebbealtro!

Per superare e recuperare l’evasione, la stradagiusta potrebbe essere quella di collegare il canonealla bolletta dell’elettricità. Ha ragione lei, dottorLeone, a chiedere al Governo di andare in questa di-rezione. Mi auguro che sarà fatto. Si tratta, comun-que, di un problema serio, perché sappiamo chel’evasione massima avviene nel sud del Paese.Chiedere a persone che hanno risorse economiche li-mitate, magari pensioni di 600 euro al mese, di paga-re per un anno 109 euro è difficile. Sto parlando deimeno abbienti e degli anziani. Abbiamo la responsa-bilità di guardare anche alle fasce più deboli e, dun-que, potremmo immaginare di esentare dal pagamen-to del canone le persone anziane con una pensionebassa. Questo problema – non ho alcuna difficoltà ariconoscerlo – fu affrontato anche dall’ultimoGoverno Prodi. È stato reiterato, ma è molto difficilepoi portare...

PIPPO BAUDO. Scopriremo che è un Paese di an-ziani…

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GIORGIO LAINATI. …mi pare un po’ difficile negarela realtà. Su questo, comunque, rispondo positivamen-te alle richieste, all’appello che ha rivolto il vicediret-tore generale della RAI sulle risorse del Servizio pub-blico. È evidente che senza le risorse è difficilissimoessere Servizio pubblico. Devo dire, proprio in presen-za di Pippo Baudo – il quale, come ricordava il dottorMalgara, è l’immagine della RAI da cinque decenni –che come Popolo della Libertà non abbiamo una visio-ne negativa del Servizio pubblico di oggi.

Mi corre inoltre l’obbligo di rispondere in qual-che misura – me lo consentirà, presidente Zavoli – alleosservazioni del professor Grasso sulla linea editorialedelle reti RAI. Personalmente ritengo che essa sia notaattualmente come lo è stata in passato, con qualunquecoalizione di Governo. Raiuno – lo affermo in presen-za di Sua Eccellenza, monsignor Paglia – è la rete cat-tolica, la rete generalista che manda in onda, giusta-mente, come ha fatto l’altro ieri, la visita del Papa allasinagoga di Roma o eventi che riguardano e sono cu-rati da RAI Vaticano. Il dottor Leone lo potrà ribadirein questa sede. È del tutto giusto che sia così.

Anche se ha condotto un programma che, se nonerro, è andato in onda su Raitre per un certo periodo,Pippo Baudo da alcuni decenni è un protagonista diRaiuno e non credo che si offenda se si dice che è uncattolico. Raiuno è una rete che ha un’impostazioneeditoriale nettamente vicina ad alcune scelte del mon-

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do cattolico. Posso capire che a lei questo dia fastidio,ma è un fatto. C’è tutto un mondo, che si richiamavaalla Democrazia cristiana, che sta lì. Cerchiamo di dir-celo con franchezza e realismo. C’è un mondo che sirichiamava al Partito socialista e che sta a Raidue euno che si richiamava al Partito comunista e sta aRaitre. Se poi vogliamo fare gli ipocriti, diciamo chequesto non è assolutamente vero.

Le linee politiche si trasformano poi in lineeeditoriali. E mi si consentirà di affermare che, peresempio, su Raidue c’è un programma che fa impazzi-re di gioia il senatore Pardi e che certamente non sipuò definire non fazioso.

È vero, professore, sono linee politiche ma, se c’èun parallelismo con la politica, lei ha parlato di botti-no che si spartiscono i partiti, che io trovo un’espres-sione veramente esagerata e forte. Che la RAI sia divisae sia una rappresentazione della realtà politica e so-ciale del Paese accade da alcuni decenni, non dagli ul-timi 15 anni, e appartiene a varie norme di legge chehanno regolamentato la determinazione della gover-nance quando erano i presidenti della Camera e delSenato a nominare i cinque consiglieri o quando lalegge n. 112 ha dato a noi, presidente Zavoli, la facoltàdi farlo. Dobbiamo quindi essere realisti e non ipocritisu questo punto.

L’ultima annotazione riguarda quanto diceva ildottor Baudo sulle sedi regionali. È un problema, cer-

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to, ma per il Servizio pubblico è anche una ricchezza.Ricorderete che la legge Mammì del 1990 – a mio av-viso fortunatamente – non consentiva ai network pri-vati, quelli che avevano come editore SilvioBerlusconi, di curare l’informazione regionale, proprioperché veniva e viene ritenuta, secondo me giusta-mente, uno specifico del Servizio pubblico dopo la na-scita nel 1970 delle regioni, con tutto ciò che ne è con-seguito e quanto ormai le regioni rappresentino di im-portante per il nostro Paese.

Ricordiamoci tutti, dottor Baudo, che la TGR – so-no qui presenti autorevoli giornalisti – è la più grandetestata giornalistica del mondo. Credo che abbia il dop-pio dei giornalisti della CNN, ben 800, al suo servizio. Èanche vero che, in una regione come la Lombardia, cheha 9 milioni di abitanti, o in una come la Sicilia, che neha 5 e mezzo, se non erro, è anche difficile assicurareuna presenza quotidiana in tante province e rappresen-tare la realtà di tali territori. Sono tanti giornalisti, chepoi devono avere giustamente i loro turni di riposo,perché non possono lavorare sette giorni su sette, ehanno quindi la necessità di avvicendarsi.

Quel numero, che può apparire esagerato, in re-altà è fisiologico per il funzionamento della TGR. Dalmomento che è qui presente il dottor Natale, che rap-presenta autorevolmente la Federazione nazionaledella stampa italiana, anche come giornalista osservoche esiste un problema: se non ci rendiamo conto,

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Presidente, che c’è una situazione drammatica perquanto riguarda l’occupazione dei giornalisti, rischia-mo di non accorgerci di un problema che, fra poco, in-vestirà anche noi politici.

Per fortuna ci sono questi 800 posti di lavoro nelTGR e altre centinaia nelle altre testate del Serviziopubblico. C’è un dato che riguarda i giovani giornalistinel presente e nel futuro, perché le nuove tecnologie ele nuove frontiere della comunicazione purtroppo ri-ducono gli spazi di lavoro. Inoltre, oggettivamente, icriteri di concessione del patentino da giornalista –che forse verranno un po’ rivisti, anche con la colla-borazione della Federazione della stampa e dell’Ordinedei giornalisti – sono ancora gli stessi.

Ho sostenuto ventun anni fa l’esame da giornali-sta con allora seduto vicino al banco degli esamil’onorevole Massimo D’Alema, che all’epoca era diret-tore de L’Unità. Rispetto a quel periodo, il dottorNatale ci potrà confermare che non ci sono molte dif-ferenze, e però si pone un problema che riguarda l’oc-cupazione dei giovani.

Grazie al Servizio pubblico, che continua ad as-sicurare, non senza difficoltà, a molti giornalisti un la-voro buono o discreto, cerchiamo di guardare anchealle problematiche che li riguardano, nel presente enel futuro.

PIPPO BAUDO. Per quanto riguarda le televisioniregionali, lei sostiene che il TGR, quando agisce, se

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sommiamo gli ascolti, è enorme. Ma il servizio che of-fre una sede televisiva regionale non è continuo nellagiornata. Si accende in alcuni momenti con i telegior-nali regionali.

Poiché si parla tanto di federalismo, perché nonassegnare le televisioni regionali alle regioni? A que-sto punto si scaricherebbe la RAI di un peso economiconotevole: se la televisione regionale deve servire laLombardia, che sia integralmente pagata dalla regioneLombardia. Così si scaricherebbero anche i costi, nonsi licenzierebbe alcun giornalista ma lo si integrereb-be, e la RAI verrebbe alleggerita di un costo enorme.

Lei parla poi dell’alternanza dei dirigenti. Lospoil system ormai è un sistema riconosciuto da tutti.Un tempo si diceva che bisognava selezionare un de-mocristiano, un socialista, un comunista, un socialde-mocratico e uno bravo. Non esageriamo con questatendenza.

Per quanto riguarda, invece, i costi degli spetta-coli, si afferma che aumentano sempre di più. Noi fac-ciamo programmi di grande lunghezza, di due o treore, senza soldi, perché non ne abbiamo. Offriamo agliattori paghe misere. Vengono per simpatia, perché laconcorrenza giustamente offre il doppio, il triplo, per-ché può farlo. Noi abbiamo tutto contingentato; quin-di, se a volte la qualità e il numero delle presenze nonè di grande pregio è perché non ce la facciamo. Potreiparlare personalmente della mia Domenica in, per la

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quale ricorro ad amicizie personali: chiamo l’attore egli chiedo di venire; e come cachet gli offro, per esem-pio, un caffè…

SERGIO ZAVOLI. Pippo Baudo, a questo punto biso-gna che ci diamo tempi più rapidi. Con interventi qua-si simili a epigrammi. E’ un peccato privarci della tuagenerosità, mai i tempi sono stretti e occorre fare an-cora un giro di repliche. A cominciare da Malgara.

GIULIO MALGARA. Avevo solo un suggerimento sucome far fruttare meglio le TV regionali, ossia farepubblicità regionale, che non è mai stata fatta. La tele-visione regionale insegue la pubblicità nazionale,mentre abbiamo un problema, che è quello dello svi-luppo delle piccole e medie aziende regionali: se po-tessimo fare, nello spazio delle emissioni regionali, lapubblicità di prodotti del territorio, svilupperemmoun’iniziativa importante.

CARLO FRECCERO. Vorrei accennare a un problemateorico fondamentale. Cerchiamo di affrontare unaquestione secondo me centrale, relativa a quanto haosservato prima Aldo Grasso, e cioè il fatto che le retidel Servizio pubblico non hanno una linea editorialechiara, il che produce la marmellata televisiva.

Ritengo che questo sia un tema essenziale oggi,proprio per seguire le indicazioni che ci ha fornito il

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Presidente allo scopo di conferire al Servizio pubblicouna dignità più forte. Parto da un dato fondamentale,ossia che l’avvento della pay tv, di Sky soprattutto, hacompiuto una profonda rivoluzione. Su questo non c’èombra di dubbio. La moltiplicazione delle reti ha im-posto una differenziazione del prodotto, con program-mi fortemente identificati. È un dato di fatto moltoimportante e credo che mai come adesso ci sia bisognodi offrire prodotti fortemente identificati.

L’ attuale organizzazione della RAI riflette il mo-dello di televisione industriale che si afferma verso lafine degli anni novanta. E’ il prodotto della direzionegenerale di allora che cerca di razionalizzare l’aziendasul piano economico, subito dopo la presidenzaSiciliano, fortemente caratterizzata da un punto di vi-sta culturale. Il modello di televisione vincente era al-lora, unicamente, il modello generalista. Le reti nondovevano avere una linea editoriale forte, in grado didifferenziarle; al contrario dovevano aspirare a un’au-dience omogenea ed estesa, proponendo prodotti in-terscambiabili di livello medio alto, secondo la defini-zione generica di “qualità televisiva”.

Il modello di televisione industriale segna il su-peramento di una fase autoriale della televisione, maanche e soprattutto l’uscita da una dimensione arti-gianale, autarchica della produzione, per convergereverso modelli di organizzazione aziendale più funzio-nali ed economicamente competitivi. La RAI non è più

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concepita come una realtà legata alla produzione cul-turale, ma come una sorta di fabbrica tesa a fornireun prodotto qualitativamente costante, con il minorcosto necessario. Sono quindi applicabili alla RAI tut-te le regole che caratterizzano la razionalizzazioneaziendale di quegli anni. In particolare viene smantel-lata l’autonomia delle singole reti. La produzione difiction e l’acquisto di prodotti vengono delegate astrutture unitarie più grandi, capaci di garantire ri-sparmi sui grandi numeri. Vengono così svuotate disignificato le identità delle singole reti. Tutte devonoattingere, per le programmazione, ad un magazzinocomune. Viene meno completamente la centralità delprodotto.

In quest’ultimo decennio molte cose, nel panora-ma televisivo, sono profondamente cambiate. La tele-visione, con l’avvento del digitale e della pay tv, hacompiuto una profonda rivoluzione. La moltiplicazio-ne delle reti impone una differenziazione delle stessesulla base di un prodotto fortemente identificato. Lereti tematiche ci hanno abituato alla possibilità di ac-cedere, in qualsiasi momento della giornata, a conte-nuti specifici di nostro interesse. Il consumo di prodot-ti internazionali ha liberato la televisione dalla sua di-mensione locale. A differenza del cinema che ha sem-pre circolato nelle sale di tutto il mondo, la televisionegeneralista è sempre stata legata alla memoria storicadei singoli paesi. Anche l’acquisto di format di succes-

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so internazionale ha sempre comportato un loro adat-tamento, in chiave locale, alle edizioni nazionali. Oggila pay tv propone prodotti globali come i nuovi tele-film americani, che si rivolgono non tanto ad un’au-dience locale, quanto ad un pubblico universale cultu-ralmente differenziato.

L’espressione culturalmente differenziato non siriferisce al concetto universale di cultura in senso eu-ropeo, sulla base del quale è stato costruito il modellodi Servizio pubblico, ma ai Cultural studies americani,che intendono la cultura come differenza culturale. Lacultura si differenzia per etnie, per generi, per tradi-zioni. I Cultural studies sono alla base del pensiero po-liticamente corretto che ritiene egualmente valide edegne di rispetto le espressioni culturali relative a re-altà diverse. Esistevano culture legate alla storia, aiterritori, ma anche una cultura femminista, maschileetc. Tutte queste realtà sono rappresentate dalle retitematiche. Ma c’è una nuova dimensione culturale diportata globale. La dimensione definita “di culto”.Serie americane, ma anche giapponesi, hanno unpubblico di fans che li segue su reti e piattaforme di-verse: al cinema, in televisione, su internet, su Dvd. E’un pubblico di nicchia, ma trasversale e presente intutti i paesi. Il prodotto di culto è per definizione unprodotto forte e fortemente identificato. Reti temati-che e realtà indirizzate al nuovo pubblico dei «natividigitali», richiedono un prodotto forte non reperibile

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nei magazzini della TV generalista, o reperibile comeprodotto di scarto perché troppo identificato.

Come adeguare l’assetto attuale della RAI allaprogressiva differenziazione delle reti? Oggi il model-lo generalista manifesta segni di debolezza. Prodottiindirizzati al grande pubblico e costruiti su format disuccesso hanno catturato un‘audience così deludenteda decretarne la chiusura o il ridimensionamento. Laprogressiva estensione del digitale a tutto il Paese im-pone poi aggiustamenti della programmazione sullabase delle nuove tecnologie. Se il medium è il messag-gio, il digitale ha caratteristiche che impongono unasvolta nella programmazione e nell’identità delle reti.Il digitale è interattività, è convergenza tra media di-versi come telefonia, computer, televisione. Si rivolgenaturalmente ad un pubblico con abitudini di ascoltoe di fruizioni molto meno passivo del pubblico tradi-zionale della televisione generalista. Anche volendoconservare questo pubblico indifferenziato per le retiprincipali, sempre nuovo spazio dovrà essere riservatoalla realtà emergente delle nuove reti prodotte dal di-gitale. Queste reti si differenziano sulla base di un pro-dotto forte e specifico.

Il problema, che cerco di porre oggi, riguarda ilfuturo e l’aggiornamento della RAI in un contesto digrande movimento, nel quale l’Auditel è fondamen-tale. Ma a patto di saperlo usare. È chiaro che se ioutilizzo l’Auditel solo in termini di quantità di ascol-

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to, invece che in termini di qualità dell’ascolto, avròuna visione limitata. Si considera, cioè, solo l’ascol-to massimo raggiunto, poniamo il 35 % di share. Maa volte vale molto di più il 15, il 10, il 7 o il 6 %, sequesto comprende la qualità. Quando io, su Raidue,lanciai Baricco in prima serata, fui rimproverato sul-la base del modello di Tv industriale che uniformavala programmazione delle reti. Oggi è chiaro, al con-trario, che debba esserci una differenziazione; lochiede il mercato. Ma purtroppo ci muoviamo anco-ra in una medietà culturale insopportabile. Forse po-liticamente può andare bene, ma culturalmente que-sta medietà è proprio ciò che oggi la TV detesta.

ALESSANDRO BARICCO. Riallacciandomi al discorsosulla qualità televisiva, sono del parere che essa siamolto bassa. Francamente mi sembra una snobberiadire, al contrario, che la televisione, oggi, sia bella.Tutt’al più potremmo spingerci a dire che spesso la te-levisione fa molto bene cose brutte, ma non credo checiò sia uguale a dire che la televisione è bella. E’ statocitato Lost. Sappiamo tutti che è una punta avanzatanell’evoluzione dello storytelling, nelle impostazioni diuna storia, nella narratologia. Lo sappiamo tutti, masappiamo anche che questo Paese non cresce su Lost eche la televisione non è Lost.

Carlo Freccero ricordava, poc’anzi, di quando in-sieme abbiamo realizzato Totem, in prima serata. Ma

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parliamo di molto tempo fa. Oggi trovo che qualsiasiaspirazione alla qualità debba fare i conti con l’obso-lescenza progressiva, e incurabile, della gestione delprodotto televisivo così ben descritta da Freccero. Inquesto momento, io ho alla mia destra qualcuno cherispetto e stimo, se non altro perché ha confessato diessere un mio lettore... Tuttavia, egli afferma che infondo la televisione è fatta così: il primo canale è deicattolici, il secondo è di ciò che rimane dei socialisti, eil terzo è di ciò che rimane dei comunisti. Freccero af-ferma che questo è il Medio Evo, e naturalmente ionon posso che condividere. Non so se sia una forma diintelligenza il senso di realismo – o di cinismo, a se-conda che si preferisca – che può indurre ad ammette-re una situazione del genere. Tuttavia, sappiamo tuttiche ormai la differenziazione, effettuata sulla base delriferimento a un partito, rappresenta un modello ditarget con cui non si può neanche gestire una boccio-fila. Come dice Freccero, ormai si tratta di misurarsicon linee editoriali che guardino ad una organizzazio-ne quasi antropologica del pubblico. Eppure in Italia,su questo punto, siamo ancora in fortissimo ritardo.

Detto ciò, vorrei rispondere alle domande che misono state poste.

In primo luogo, mi si è chiesto come si possa fa-re cultura in televisione. Anche questa, se posso per-mettermi, è una domanda un po’ vecchia. Domandarsicome si debbano presentare i libri o la musica in tele-

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visione equivale a porsi una domanda vecchia. Unavolta che noi abbiamo individuato una zona antropo-logica a cui vogliamo parlare e abbiamo adottato lalingua comune, conseguirebbe, in maniera indolore, lacreazione di uno spazio televisivo dedicato ai libri, al-la musica, eccetera. Di per sé, il problema di fare unatrasmissione sui libri è inesistente: se si vuole realizza-re, lo si può fare. C’è gente bravissima per questo me-stiere, non è un problema.

Il problema è a monte, e consiste nel capire a chici si rivolge quando si parla di libri. Nel modo piùsemplice, vorrei dire che l’unica certezza che ho, abba-stanza netta, è che non farei mai una trasmissione cul-turale senza tener conto dell’Auditel. Dico questo inquanto spesso si afferma che non si realizzano tra-smissioni culturali perché l’Auditel le schianta. Io, alcontrario, temo il giardino protetto entro il quale pen-siamo sia conveniente parlare di libri. Questo è ciò checombatto fuori dalla televisione, là dove non c’è unasituazione di concorrenza, ma solo un invecchiamentoprogressivo dell’uso che si fa della cultura.

La televisione ha questa caratteristica che a mepiace: ogni mattina si sveglia e c’è una lotta. Chi an-drà a parlare di libri, quindi, sosterrà una sfida e unalotta. Ciò, di per sé, a me non dispiace, in quanto nonvoglio vedere trasmissioni bulgare, nella mia televi-sione, dedicate all’esistenzialismo. Forse ripeto lo stes-so concetto espresso poc’anzi da Freccero – cosa che

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mi succede spesso nella vita – ma io ritengo chel’Auditel vada letto. Il problema è che va letto con in-telligenza. Provo a spiegarmi. Quando Freccero mi mi-se in prima serata con Totem, dopo 45 minuti andò inonda un’attrice che leggeva un pezzo dell’Ulisse diJoyce. E non lo leggeva nuda! Il giorno dopo, sui gior-nali, c’era tutta l’intellighenzia e i fighetti di sinistrache discutevano del fatto che avevamo messo in filaun milione e mezzo di persone, di cui, secondo i datiAuditel, 800.000 erano rimaste ad ascoltare tutto ilmonologo di Molly tratto dall’Ulisse di Joyce. Il pro-blema era che, nella medesima collocazione, la setti-mana prima L’Ispettore Derrick aveva fatto tre milionidi spettatori. Conclusione: l’Auditel decretava la no-stra sconfitta. Ecco un esempio dell’uso perverso emasochistico che si può fare dell’Auditel.

Ultimamente mi è capitato di fare un piccolopezzo nella trasmissione di Fazio dedicata alla musicaclassica. Quella puntata di Che tempo fa ha registratoun milione e mezzo di spettatori, circa un milione inmeno di quelli abituali. Cosa voglio dire? Voglio direche leggere convenientemente il dato Auditel ci fa ca-pire che raggiungere un milione e mezzo nella tra-smissione di Fazio non significa aver perso un milionedi spettatori. Attualmente, la concorrenza non c’è, percui un milione e mezzo di persone danno, come risul-tato, un milione e mezzo a zero. Così era, peraltro, ainostri tempi, quando non perdevamo un milione e

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mezzo rispetto a L’Ispettore Derrick, in quanto questonon era il nostro competitor. Nostro competitor eraeventualmente chi leggeva Joyce su altri canali. Maesisteva? No. E se non esiste, allora vinciamo un mi-lione e mezzo a zero! Mi pare un ragionamento assaisemplice, eppure è molto difficile far passare questoprincipio, anche con le persone più intelligenti cheparlano e scrivono di televisione.

Molto telegraficamente, vorrei poi rispondere al-la domanda relativa al target cui ci rivolgiamo. Io pos-so parlare dei libri, in quanto si tratta di una realtà checonosco molto da vicino. Mi riferisco a una situazioneche può aiutarvi a capire. In televisione, noi possiamoparlare a tre tipi di persone. La prima è quella che leg-ge i libri ed è molto informata sui libri. La secondalegge i libri, ma non ha accesso a molte informazionisui libri. La terza non legge i libri. Quando andiamo intelevisione a parlare di libri, a quale di queste tre tipo-logie parliamo? È molto difficile parlare a tutte e tre. Èsu questo punto che si decide la qualità e il senso. Èqui che essere un Servizio pubblico significa qualcosadi molto, molto reale. Quando parliamo di trasmissioniculturali, quindi, a volte perdiamo qualsiasi riferimen-to e non abbiamo chiarezza sul fatto che dobbiamoconfrontarci con gusti ed esigenze differenti.

A chi parla, ad esempio, Fazio, quando intervi-sta gli scrittori? Fazio raggiunge anche 2,5-3 milionidi ascoltatori: ma chi inquadra nel mirino? Fazio rie-

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sce a spostare le gerarchie dei libri. I nostri stampatorichiedono all’editore se l’autore passerà o meno daFazio, poiché ciò fa una grande differenza: del libroche passa da Fazio si stampano il doppio delle copie.Come mai avviene ciò? Ebbene, Fazio fa una cosamolto singolare: raggiunge il pubblico che ha a por-tata di mano dei libri, ma non l’informazione sui libri.Badate, coloro che non leggono i libri, non compranoi libri di cui si parla da Fazio. Non lo fanno, in quantociò non è sufficiente. Si tratta, infatti, di 10-15 minutiin cui Fazio pone delle domande sofisticate. È comese io sentissi un programma sul Badminton: non co-nosco le regole, e quindi non vado a giocare aBadminton.

In realtà, Fazio compie un tipo di lavoro che col-pisce un target cruciale, vale a dire coloro che sono acontatto con i libri, che li possono comprare, che en-trano nelle librerie, ma non hanno accesso a informa-zioni sufficienti e, quindi, rimangono bloccati. Lui li fapartire, li sblocca; magari anche in direzioni che pos-sono non piacere, tuttavia li sblocca e tutti vanno acomprare quel dato libro. È un tipo di informazioneche rende dinamici. Ma chi rende dinamico? Genteche, comunque, ha già una qualche familiarità con illibro. Anche se io vado da Fazio, una persona che nonlegge libri non mi compra. Chi non legge libri, quan-do io sono da Fazio, cambia canale.

Pertanto, la nostra domanda è la seguente: dob-

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biamo continuare a occuparci, tanto per fare un esem-pio, di libri? Certo che sì, in quanto ciò è preziosissi-mo. Ed è Servizio pubblico. Esistono su Mediaset tra-smissioni del genere? Io posso andare in qualche tra-smissione di Mediaset e parlare dei miei libri a coloroche comprano i libri? La risposta è no. Per questo c’è ilServizio pubblico.

Un ulteriore obiettivo che possiamo proporci èquello di parlare, invece, a coloro che non leggono ilibri. Ma sono due operazioni differenti. Quindi, alladomanda relativa a come bisogna fare una trasmissio-ne sui libri, la risposta è che prima di tutto bisogna de-cidere a chi si vuole parlare.

SERGIO ZAVOLI. C’è, appena il tempo necessarioper fare una sintesi delle opinioni espresse dai parteci-panti al seminario, alle quali si aggiungeranno quelledi Giovanna Melandri, che ha un’antica e prestigiosaconfidenza con questi argomenti, e del dottor CorradoCalabrò, l’autorevole Presidente del l’AGCOM.

Cominciamo da monsignor Paglia.

VINCENZO PAGLIA. L’ultimo intervento ha posto, amio parere, un problema reale. In effetti, abbiamo spe-so molto tempo a disquisire di argomenti certamenteimportanti. Abbiamo parlato del canone, dell’econo-mia, delle autostrade, eccetera. Tutto attuale e decisi-vo. Ma, volendo riprendere l’immagine delle autostra-

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de, il problema centrale non è tanto costruirle ma do-ve dirigerle, verso quali mete debbono essere dirette.Non posso pertanto non ritornare a mettere sul tavoloil tema del futuro del nostro Paese, cioè quale societàvogliamo costruire e quindi quale tipo di Serviziopubblico porre in atto. La RAI deve aiutare i cittadini apercorrere la strada per raggiungere il Paese di doma-ni. Il problema nasce dal fatto che il Paese non è giàedificato ma si edifica cammin facendo. E’ qui la diffi-cilissima sfida che il Servizio pubblico deve affrontare.I canali tematici sono senza dubbio importanti, e sonoil futuro della televisione, ma resta aperto il temadell’obiettivo principale, quello di un Paese che tuttisiamo chiamati a immaginare, sognare, edificare.

Questa domanda, questa preoccupazione, a mioavviso deve riprendere vigore anche all’interno dellecomunità cristiane. Per me, cattolico, deve stare a cuo-re la domanda su quale Paese devo impegnare le mierisorse etiche, spirituali, morali e religiose. Non si trat-ta semplicemente di difendere un punto o l’altro – co-sa ovviamente legittima e a volte doverosa – ma an-che di entrare nel dibattito, nella riflessione generalesulla qualità della società che si vuole edificare. Mipare molto positivo, ad esempio, che la prossima edi-zione delle Settimane Sociali dei cattolici italiani, met-ta a tema un’agenda per il Paese. I cattolici italiani or-ganizzati si cimentano, in certo senso rischiano, nel-l’indicare quali secondo loro devono essere le que-

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stioni prioritarie da affrontare. E non per questo inva-dono il campo altrui, quello della politica. E’ responsa-bilità anche della Chiesa preoccuparsi del futuro delPaese. Non si tratta pertanto, se vogliamo restare nelcampo televisivo, di pretendere spazi di intervento,cosa ovviamente legittima, quanto di intervenire sullaqualità del Servizio pubblico in tutto il suo spettro.

Per riprendere infine l’esempio fatto sulla effica-cia della trasmissione di Fabio Fazio, mi pare impor-tante coglierne l’importanza. In una società, comequella italiana, che ha bisogno di crescere cultural-mente, trasmissioni come questa sono esemplari evanno sostenute. Infine vorrei ribadire l’opportunitàdi un dibattito come questo svolto in una sede parla-mentare. C’è urgenza di ricomprendere e ridefinire icompiti del Servizio pubblico radiotelevisivo e nonlasciarsi trascinare dall’inerzia che sta indebolendo ilnostro Paese.

GIANCARLO LEONE. Trovo molto interessante la di-squisizione di Baricco riguardo al pubblico cui ci si ri-volge. È esattamente così: bisogna capire a chi ci si ri-volge quando si fa comunicazione in generale e quan-do si fa televisione. Da questo punto di vista, la televi-sione generalista si deve rivolgere a tutti, ossia a tuttee tre le tipologie di persone di cui egli parlava.L’offerta tematica consente invece di rivolgersi a colo-ro che sono più preparati sul tema. Mentre prima la

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RAI disponeva soltanto di canali generalisti, per cuidoveva dividersi tra le tre grandi sezioni esposte daBaricco, ora, probabilmente, l’offerta tematica le con-sentirà, unitamente ad un opportuno gioco di rimandicon quella generalista, di rivolgersi agli uni e agli altriin modo più preciso.

Dal mio, del tutto soggettivo, punto di vista, ilsenso della giornata di oggi risiede nella rafforzataconvinzione che sottrarre la RAI alla ricerca degliascolti di per sé rappresenta comunque un dato impor-tante, e può certamente esser d’aiuto per un maggioresforzo qualitativo della programmazione. Per sottrar-re la RAI a questa circostanza quotidiana occorre ga-rantirne maggiori risorse pubbliche e minore dipen-denza da quelle commerciali. Perché ciò avvenga cisono soltanto due strade: incrementare il canone, cosìcome prevede la legge – inapplicata da qualsiasi mini-stro di qualsiasi Governo –, o combattere l’evasione.Mi sembra più semplice la seconda, e per ovvi motivi.Combattere l’evasione in termini numerici significaperseguire un risultato molto preciso. Espongo le cifreuna volta per tutte: la RAI presenta un ricavo di 1 mi-liardo 600 milioni di euro proveniente dal canone, di 1miliardo di euro proveniente dalla pubblicità e di 250milioni di euro provenienti da altre entrate commer-ciali. Questo è il contesto dei ricavi della RAI.

Se si combattesse l’evasione, che oggi pesa per il30%, entrerebbero potenzialmente nelle casse della

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RAI, ogni anno, 500 milioni di euro, a fronte di unosquilibrio di 300 milioni tra Servizio pubblico e non.Se si combattesse veramente l’evasione, questi 500milioni di euro potrebbero anche non essere versatitutti nelle casse della RAI: una parte di questo denaropotrebbe essere destinata alle fasce sociali più deboli ead un decremento complessivo del canone, magari, da109 euro a 99 euro. Tutti pagherebbero meno e ciòconsentirebbe alla RAI di avere maggiore certezze nellerisorse pubbliche e ai cittadini di avere dei vantaggi.In tal modo il Servizio pubblico potrebbe persino ri-schiare di più nel progettare i suoi programmi.

Credo che se non si tiene conto di questo quadroeconomico, tutti gli altri discorsi sono destinati a ca-dere. Se, viceversa, si facesse qualcosa di concreto, co-me opportunamente ha detto il vicepresidente dellaCommissione parlamentare, l’onorevole Lainati, forsefaremmo tutti quanti un grande passo avanti.

ALDO GRASSO. Mi verrebbe da dire che una Toscanon fa primavera! È difficile rispondere quando le per-sone mettono di mezzo il proprio lavoro, in quanto ilproprio lavoro è sacro. Se lo si contesta, si tocca lasensibilità del singolo.

Baudo sostiene che non abbiamo risorse. Io iprogrammi li vedo: negli ultimi programmi ha invitatogli attori dei “cinepanettoni” e domenica quelli chedovevano lanciare la loro serie televisiva. Un caffè ba-

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sta e avanza! Se la RAI deve lanciare i “cinepanettoni”,un caffè è più che sufficiente Ho citato Lost ma potreicitare altre trenta serie. A me non fa impressione chequalcuno si appassioni a una serie televisiva di quel li-vello o che legga Joyce; per me dal punto di vista cul-turale sono la stessa cosa.

Quest’idea che il libro debba avere ancora un suoprivilegio, che altre forme espressive non possonoavere, mi sembra una cosa francamente un poco anti-ca. Mi piacerebbe che Fazio invitasse più spesso scrit-tori – a volte, elegantemente lo fa – che non hanno unlibro in uscita. Sarebbe bello e toglierebbe quell’alonedi marchetta che purtroppo aleggia sempre nella no-stra televisione. Se poi rivolgesse anche qualche do-manda imbarazzante agli ospiti, anche questa sarebbeuna cosa buona. Ma lasciamo stare le polemiche.

Il discorso che mi interessa di più, e che ho cerca-to di affrontare oggi, riguarda le linee culturali.Secondo me, se trattiamo di questa materia – ossia ditelevisione, di discorsi, di prodotti, eccetera –, inevita-bilmente dobbiamo fare i conti con delle linee cultura-li. Le linee politiche sono qualcosa che stanno dietro:non si può identificare una rete per l’appartenenza po-litica, in quanto così la si immiserisce subito. E’ un de-siderio che, da storico della televisione, vorrei vedererealizzato prima di morire: in questo Paese mi piace-rebbe vedere una reale concorrenza televisiva, che in-vece non ho ancora conosciuto. È vero che, da quando

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c’è Sky, questo strano fenomeno comincia ad esserepresente, tuttavia dovrebbe essere uno dei capisaldi delliberismo.

In tutte le televisioni più evolute, uno dei proble-mi fondamentali per restare sul mercato è avere unapropria marca di identificazione, essere un brand rico-noscibile. In Italia solo ora cominciamo a percepirequesto fenomeno, mentre io vorrei che, selezionandocon il telecomando Raidue, potessi capire automatica-mente cosa è Raidue. Invece ora, se mi sintonizzo sullereti RAI, non capisco cosa sono, in quanto un program-ma potrebbe andare in onda su una rete come su un’al-tra. Il “gioco dei pacchi”, ad esempio, lo trasmetteRaiuno, ma se lo trasmettesse Canale 5 o Raitre sarebbela stessa identica cosa. Mancano delle marche di iden-tificazione, e queste si trovano soltanto se si compie unlavoro alle spalle, se qualcuno si siede attorno a un ta-volo e comincia a pensare ai programmi, alle linee edi-toriali, a fare cioè un tipo di lavoro che purtroppo misembra sia sempre molto occasionale.

Premesso che Giancarlo Leone è uno dei più bra-vi dirigenti della RAI, la domanda che pongo è la se-guente: cosa fa un dirigente della RAI, nominato diret-tore di rete, che non conosce molto bene la materia e imeccanismi? Si affida all’esterno. Mi chiedo quindiperché mai dobbiamo ancora tenere in mano tuttaquesta enorme costruzione della RAI, quando un nu-mero enorme di programmi vengono appaltati al-

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l’esterno. È giusto che vengano appaltati all’esterno,ma in questo caso deve esservi apportata qualche tra-sformazione. Se io appalto un programma all’esterno,voglio che il segno di quel prodotto sia comunqueRaiuno, e non Bibi Ballandi o Magnolia, altrimenti iprogrammi li fanno loro e l’identità della RAI svanisce.

Nonostante all’inizio abbia affermato, con unevidente paradosso, che il Servizio pubblico non esistepiù da trent’anni, io credo ancora nel Servizio pubbli-co e nella sua funzione. A patto però che esso la svol-ga davvero. Sono convinto che, in questo momento,per fare un esempio, esso invece non stia svolgendo lasua funzione in termini linguistici. Di altri campi nonho competenza.

CARLO FRECCERO. E’ chiaro che tutto il discorso diquesta mattina verte sul modo in cui si possa abbatte-re il muro creato dalla TV generalista. Esso, infatti, im-pedisce di vedere oltre ciò che solitamente si vede, os-sia la ripetizione e l’usura di schemi già noti. Bisognafar cadere questo muro, per far sì che si possa – anchegrazie alle nuove tecnologie – trovare un ponte con leTV digitali – che è l’aspetto che mi interessa –, ma so-prattutto con chi ha la competenza culturale.

Cosa vuol dire questo? Credo che il vero proble-ma – questa è l’ultima idea che avanzo – consista nelfatto che noi parliamo solo di qualità televisiva. Credo,invece, che si debba parlare di un’altra questione.

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L’economia oggi non è più produzione materiale, maproduzione di immaginario e credo che anche la nuo-va televisione debba riprodurre un immaginario chenon sia solo quello della TV commerciale, ma qualco-sa di diverso.

GIULIO MALGARA. Ritengo che il punto toccato dalprofessor Grasso sull’identità sia fondamentale. Credoche la RAI debba fare un lavoro di marketing moltoforte. In secondo luogo, credo che il fattore economicosia in testa a tutto. O disponiamo delle risorse, oppuretutti questi nostri discorsi faranno fatica a decollare. Idati Auditel, in questo senso, rappresentano un grandeaiuto, in quanto sono economicamente a basso costo edanno informazioni molto utili.

PIPPO BAUDO. Rispondo subito ad Aldo Grassoche, giustamente, mi fa le bucce; d’altra parte questoè il suo compito e non me ne perdona una. Devo dire,però, che io ho presentato anche Baarìa, Gomorra ealtri film. Mi è stato chiesto il motivo per cui presentoil “cinepanettone”. Innanzitutto, il ministero delloSpettacolo non dovrebbe finanziare il “cinepanetto-ne” addirittura come prodotto d’arte e cinema d’essai.Nella rotazione, se devo per forza metterci anche il“cinepanettone”, presento tuttavia anche altre cose.Presento libri, ad esempio. Ho un testimone ocularequi in sala, Emanuele Milano, grande direttore di

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Raiuno. Abbiamo cominciato l’avventura diDomenica In dopo Corrado e abbiamo pensato di fareuna Domenica In colta, alta, che fosse un rotocalcodegli italiani. Presentavo i libri, e questi libri, caroBaricco, si vendevano. Tutti volevano venire in tra-smissione. Persino Moravia – che era restio, odiava latelevisione e si vantava di non avere l’apparecchio te-levisivo in casa –, avendo scritto in coppia conAndermann, l’autore del film sulla Tosca, un libro diviaggi che ebbe grande successo di vendite a seguitodella mia presentazione. Mi fece chiamare per chie-dermi di ritornare.

Un giorno il direttore Emanuele Milano mi con-fidò che la mia presenza come divulgatore letterariostava diventando scomoda, in quanto assicuravo unfatturato di 30 miliardi di lire al comparto dell’editorialibraria. Io cercavo di dare lo stesso spazio ad ogni ca-sa editrice, fosse la Bompiani, la Rizzoli, laMondadori, o altro. Morale della favola: mi fu fattonotare che stavo conducendo sia Domenica In, siaFantastico e, poiché questo mio doppio ruolo di divul-gatore letterario dava fastidio, dovevo scegliere tra ledue trasmissioni. Ho capito che dovevo scegliereFantastico e ho continuato a presentare i “cinepanet-toni”…

ALESSANDRO BARICCO. Quando lavoravo aPickwick non ho mai subito nessuna pressione. Lo vo-

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glio dire come dato di cronaca: non è mai arrivatanessuna forma di pressione. Forse non spostavo cosìtanto pubblico, però Salinger, ad esempio, l’abbiamofatto entrare in classifica ed è stato un lavoro moltopulito.

Vorrei però aggiungere anche un’altra osserva-zione che mi sta a cuore, perché riguarda il sensodell’espressione «Servizio pubblico». Penso che nondobbiamo dimenticare che la televisione rappresentainnanzitutto una chance di accesso a diritti che moltagente non ha. Questo tratto mi sembra importante,anche se riconosco che non è certamente l’unico.Sicuramente, 109 euro sono molto pochi: essi dannoun accesso al mondo e noi, credo, dobbiamo difendereun’idea di Servizio pubblico che rappresenta unachance di accesso a determinati privilegi per un nume-ro di persone che altrimenti non li avrebbero. Quandoparlo di accesso a privilegi, parlo del privilegio dell’in-formazione e di passare il tempo allegramente, ma an-che il privilegio di conoscere, di scoprire, di capire. Edanche del privilegio di accostarsi alla bellezza, o disentirsi vicino ai protagonisti del proprio tempo, o diavere la spiegazione delle parole chiave della propriaciviltà. Si tratta di un tipo di privilegio che noi, comecollettività, riusciamo a dare in maniera molto misu-rata attraverso la scuola e in misura molto scarsa conle nostre politiche culturali, ossia attraverso i teatri, lemostre o le fiere.

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La terza gamba è quindi la televisione. Ecco ilperché del nostro impegno. Ed è su questo punto chediventa importante sapere quale mondo facciamo en-trare. Se uno possiede una televisione commerciale,deve far entrare il mondo che piace: più piace, più lofa entrare. Ma per il Servizio pubblico è un po’ diffe-rente: dovremmo dare il privilegio dell’accesso almondo, ma ad un mondo che sia come vorremmo tra-mandarlo ai nostri figli. Questo è il senso, ad esempio,di leggere Joyce. È una battaglia che abbiamo combat-tuto 15 anni fa, quella di riconoscere la stessa legitti-mità a Lost e a Joyce, e l’abbiamo vinta. Adesso peròbisogna anche ricordarsi che quando leggiamo Joycein televisione, invece di trasmettere Lost, tramandia-mo anche un altro concetto, ossia quello della dimen-sione del tempo, del passato, della genesi delle cose.Questo fa parte del mondo che siamo lieti di conse-gnare ai figli.

Se capisci che c’è un passato, magari incomince-rai anche a capire la necessità di immaginare un futu-ro. Quando, attraverso i libri, la musica o altro, si parladi cultura in televisione, spesso parliamo di una solacosa: comunicare l’idea del tempo. Comunicare l’ideache ci sia un evento accaduto tempo fa che posso con-sumare oggi, e chiedersi, dunque, come poterlo consu-mare. Dobbiamo dare verticalità al tempo per evitareche sia tutto schiacciato nell’oggi e nel contempora-neo. Se perdessimo Bellini non sarebbe tanto grave

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quanto perdere l’idea del passato e della genesi dellabellezza. Questo sarebbe mortale.

La televisione commerciale può farlo o meno, ècommerciale, e può fare quello che vuole. Noi, al con-trario, come collettività, dobbiamo farlo per l’ecologiadella mente, per il rispetto che dobbiamo ai nostri fi-gli, per l’immaginazione del mondo che verrà.Dobbiamo fare Servizio pubblico. Nel senso più alto ecoraggioso di questa espressione.

GIOVANNA MELANDRI. Innanzitutto, desidero rin-graziare il presidente Zavoli per averci dato questa im-portante occasione. Non intendo addentrarmi nel fittobosco delle definizioni di qualità, tuttavia credo chedietro questa discussione si celi la domanda sulla fun-zione del Servizio pubblico, cosa esso sia e cosa sia di-ventato. Vorrei partire da qui.

Personalmente, penso che il Servizio pubblico –come diceva poc’anzi Baricco, col quale concordo –sia uno dei grandi agenti che contribuiscono all’edu-cazione e alla formazione del nostro Paese, e uso noncasualmente la parola «formazione». Esso è tale inun’epoca, quale la attuale, in cui la formazione si spe-cifica, si qualifica e si differenzia sempre di più. Ladomanda che c’è dietro tutto questo è, dunque, la se-guente: di quale tipo di differenziazione ha bisognooggi il Servizio pubblico?

Sinceramente, non penso che ci troviamo di

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fronte ad una medietà democristiana. Penso che ci tro-viamo di fronte a una medietà estetica e a una medietàlinguistica: una medietà che deriva dal diktat dell’ico-na commerciale che c’è dietro. Provo a dirlo in parolemolto semplici: ho un grande problema con i pome-riggi della RAI, quella fase in cui – a proposito di ciòche ha detto Aldo Grasso – il marchio è assolutamenteindistinto. Io accendo la prima, la seconda o la terzarete ed esse possono essere tranquillamente scambiatecon la televisione commerciale. Basterebbe apporre uncerotto sul simbolo e non si capirebbe più di quale ca-nale si tratti. E’ quel tipo di offerta rivolta alle casalin-ghe – e forse, oggi, anche ai disoccupati, che nel po-meriggio stanno di fronte alla televisione – che si ca-ratterizza sempre più per questa medietà estetica e lin-guistica. Questo aspetto, francamente, mi interessamolto di più dell’appartenenza politica di questo oquel conduttore.

La domanda che vorrei rivolgere è, pertanto, laseguente. Certamente si può lavorare per evitare l’out-sourcing e per rielaborare il brand, come suggerivaGarimberti. Esiste, inoltre, la domanda in merito aquale è la forma di auto-rappresentazione del nostroPaese cui deve corrispondere il Servizio pubblico.Tutto ciò è oggi in capo alla responsabilità dell’attualegruppo dirigente. Io ho l’impressione, tuttavia, che cisia un vincolo di sistema, da cui derivano tutte le ri-flessioni che stiamo svolgendo. Questo vincolo di si-

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stema ha due aspetti. Il primo, e su questo punto dav-vero non sono d’accordo con Lainati, ha a che vederecon l’affrancamento della RAI dal giogo del sistemapolitico.

Innanzitutto, in quanto il sistema politico a cuil’onorevole ha fatto riferimento è un sistema politicofrancamente superato. In secondo luogo, in quantopenso – e lo dico anche come critica esplicita verso lamia parte politica – che non riusciremo mai ad avereun Servizio pubblico degno di questo nome se pensia-mo di nuovo di poter ricostruire la RAI con la formula«un democristiano, un socialista, un comunista e unobravo». Non ci riusciremo mai, neanche se rifaremo laRAI con la formula «un PdL e un Pd». Peraltro, abbia-mo questo paradosso: oggi viviamo in un sistema po-litico tendenzialmente bipolare, sebbene non bipartiti-co, che scarica sul Servizio pubblico tutte le dinamichefolli interne ai due poli. Pertanto, non è la linea politi-ca che manca, ma una linea strategica del ruolo delservizio pubblico, in un sistema politico tendenzial-mente bipolare. Questo, però, è un discorso che ci por-terebbe lontano e che, quindi, chiudo qui.

A me interessa capire se con questo assetto digovernance la RAI può diventare quello che monsignorPaglia poc’anzi auspicava, e riscoprire la sua missionenazionale. Io dico di no. Ora governano loro, domanigoverniamo noi: se l’assetto di governance è questo, laRAI non si libererà mai da questo giogo asfissiante, che

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ne determina quella mediocrità estetica e linguisticacui mi son o riferita. Secondo me questa è una delleradici del male.

Naturalmente, dentro l’attuale sistema, ci sonogli spazi per migliorare, per mettersi intorno a tavolo alavorare e a cercare il brand. Tuttavia, il secondo pun-to che vorrei toccare consiste in un quesito che vorreirivolgere al presidente dell’AGCOM: può esistere inItalia un servizio pubblico di questa dimensione?Prima di parlare del problema delle risorse, io mi chie-do se sia compatibile con le dimensioni di serviziopubblico un meccanismo fondato su tre reti finanziatedal canone e da risorse raccolte sul mercato, come av-viene in Italia. Questa è una domanda sistemica. Lamia risposta è no. Non esiste un servizio pubblico delgenere: in Europa noi siamo un’anomalia.

Io penso che per rafforzare la qualità, certamen-te, bisogna raccogliere il canone e combattere l’eva-sione. Questo lo si può fare anche con il sistema attua-le. Tuttavia, il perimetro del Servizio pubblico non puòessere più quello attuale; deve dimagrire: o in terminidi reti, o in termini di affollamento pubblicitario.Vogliamo avere un servizio pubblico che assomigli al-la BBC? Badate, questa è una discussione che sta avve-nendo in tutta Europa, non v’è certo bisogno che ve lodica io. E’ avvenuta in Spagna e sta ora nuovamenteavvenendo in Francia. Noi stiamo tenendo in vita unmostro bicefalo, e il meccanismo con cui lo teniamo in

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vita ha anche delle convenienze politiche, in tutti icampi.

Io credo che sia necessario liberare la RAI dalgiogo dei partiti e ridefinirne l’assetto. Questo non si-gnifica portare la RAI all’irrilevanza nel mercato. Io ti-fo servizio pubblico, ma penso che quel brand pomeri-diano che fa assomigliare Raidue a Italia Uno è figliodi un problema di sistema che va risolto a monte, libe-rando per il mercato risorse oggi congelate, recupe-rando al Servizio pubblico risorse pubbliche che ogginon arrivano e affidando al Servizio pubblico un dise-gno di funzione formativa nazionale che oggi non ha.

Un’ultima pillola: vorrei citare una vicenda at-tuale per i colleghi della maggioranza. Se c’è stata unapiccola iniziativa buona che ha cambiato l’assetto si-stemico in questi ultimi quindici anni, è stata l’intro-duzione delle quote obbligatorie di produzione per ilprodotto audiovisivo europeo. È stato, però, varato undecreto che, come sapete, supera quell’obbligo. Noiavevamo cercato di mettere sulle spalle della RAI unafunzione nazionale: sostenere l’industria audiovisivaculturale. L’industria culturale, infatti, non coincidesolo con la Tosca e la promozione dei libri, ma anchedei film, del cinema e di tutta la filiera audiovisiva. Lamaggioranza ha cancellato questa norma pochi giornifa. Io credo che sia un gravissimo errore, in quanto cifa tornare indietro e abbassa ancora di più la qualitàdel Servizio pubblico.

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SERGIO ZAVOLI. L’onorevole Giovanna Melandri siè dichiarata contraria alle domande, diciamo, canoni-che e ne ha poste alcune più utilmente mirate.Ascoltiamo a questo punto il presidente dell’AGCOM,che dal suo osservatorio potrà dirci molto.

CORRADO CALABRÒ. Pensavo di compiere un inter-vento introduttivo, ripercorrendo un po’ tutti i temiaffrontati. Mi limito, invece, a dire una cosa che mi staa cuore.

La mia è un’osservazione di tassello, ma impor-tante. Non vorrei che facesse scandalo ma, badate, ilServizio pubblico in Italia non si differenzia da alcu-ne delle altre televisioni nazionali, né nel bene, nénel male. Nel male, in quanto, per quel che riguardal’aspetto commerciale, sfido chiunque a distinguereun format trasmesso dalla RAI da uno trasmesso daMediaset o da Sky. È lo stesso, però, anche nel bene:nell’informazione c’è anche qualche altra televisioneche risponde in maniera abbastanza soddisfacente aicriteri di equilibrio, obiettività e completezza. Sitratta solo di alcune, non tutte, ma mi riferisco an-che a quelle che fanno capo alla stessa casa madre.Io ho un termometro per queste misurazioni: le san-zioni che infliggiamo. C’è qualche canale che nonprende sanzioni in quanto, seppure in maniera ap-prossimativa, vediamo che risponde abbastanza benea quei criteri.

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Questo fa perdere il connotato di Servizio pub-blico? No, in quanto il Servizio pubblico ha anchealtre funzioni. Io non la butto in politica; vorrei, an-zi, buttarla sul culturale, seppure non quello di tipoingessato. Mi riferisco, dunque, al culturale creativo,innovativo, stimolante, che amplia la sfera di possi-bili interessati. Questo è un campo del quale la RAI

non può privarsi, in quanto il passaggio al digitale èuna rivoluzione anche sotto questo aspetto. C’è unatendenza all’interattività che, se non verrà assecon-data, porterà alla fuga da un certo tipo di televisio-ne.

Su questo punto ha ragione chi poc’anzi soste-neva che il Servizio pubblico ha il compito di ampliarela sfera dei possibili percettori. Già oggi, chi vede latelevisione a pagamento – pagando anche 60-80 euroal mese – ha la possibilità di cambiare canale finchévuole: ce ne sono, infatti, moltissimi. La televisionegeneralista è stata, fino ad ora, inchiodata sui tre ca-nali. È vero che c’era l’articolazione regionale, tuttavianon faceva una grande differenza. Oggi abbiamo, in-vece, dodici canali e qualcuno, come abbiamo visto inSardegna, è promettente. In ogni caso, che sia promet-tente o deludente, c’è un’attesa che non può essereelusa, e non si può non riconoscere alla grande massadella popolazione il diritto di adeguarsi al modo di ve-dere la televisione che oggi è gradito, cioè con ampiafacoltà di scelta. Questo è ciò che, peraltro, internet

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impone; i ragazzi vedono la televisione sul computer,scaricano e immettono audiovisivi e ciò indubbiamen-te influenza la televisione, tanto che ormai si parla diweb tv e non più semplicemente di televisione.

Si parla dei costi. Innanzitutto, non ho ancoracapito il motivo per cui non si recupera l’evasione nelmodo descritto da Angelo Petroni, oppure in quellosuggerito di recente. Entrambi sono potenzialmenteidonei a far riscuotere, se non il 30% del canone eva-so, almeno un 20%, che rappresenterebbe comunqueun risanamento notevole. In secondo luogo, facciopresente che è vero che la BBC percepisce un canonedoppio rispetto a quello italiano, ma ha anche unaricchezza di programmazione molto maggiore. La BBC,infatti, trasmette documentari storici, scientifici, geo-grafici e quant’altro, che una volta produceva anche lanostra RAI, vendendoli persino all’estero. Oggi inveceacquistiamo tutto, eccetto questo genere di documen-tari. Essi sono trasmessi da un’altra televisione. E,guarda caso, c’è un numero abbastanza consistente ditelespettatori che, su questa televisione e non diretta-mente sulla BBC, guarda quei prodotti. Vuol dire cheinteressano. Si obietta che sono prodotti di nicchia;ma le nicchie possono anche diventare cenacoli. SanPaolo all’inizio aveva appena 7-8 seguaci a Tarso, enegli altri luoghi in cui si recava…

Io mi chiedo, pertanto, se sia davvero così, se visia così tanta insensibilità alla qualità, come si dice.

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Ebbene, voglio portare l’esempio dello spettacolo piùseguito: il calcio. La stragrande maggioranza di coloroche seguono il calcio in televisione, o direttamente al-lo stadio, è in grado di distinguere il bel gioco dal gio-co scadente, e di apprezzare il primo. Perché? Perchéquel gioco l’ha visto giocare. Se gli spettatori avesserovisto solo squadracce che danno pedate al pallone,non passerebbe loro nemmeno per la testa l’idea che ilcalcio, in qualche azione, possa sfiorare l’opera d’arte.Esiste, quindi, un’azione di seminagione: i semi che sigettano oggi daranno frutto domani. Parlo di forma-zione del gusto nel tempo. Chi di noi, la prima voltache ha sentito un’opera musicale, per quanto somma,l’ha gustata? Anche tra i giovani d’oggi il gusto sievolve. Certo, essi si indirizzano sui generi musicalipiù facili e più diffusi. Tuttavia, non c’è in loro unachiusura mentale così drastica come si dà per presup-posto.

È questo il compito del Servizio pubblico. Le al-tre televisioni facciano, sotto questo aspetto, quelloche vogliono. Il Servizio pubblico deve sempre guar-dare più in là. E deve necessariamente rappresentareanche l’oggi, dal momento che la televisione è unostrumento ormai interattivo.

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Sessione pomeridiana

SERGIO ZAVOLI. Riprendiamo i lavori. Questa mat-tina il dibattito ha affrontato la qualità televisiva. Oradaremo continuità al seminario. Vorrei introdurre que-sta seconda parte comunicando subito che a presieder-la sarà il senatore Fabrizio Morri. Ma prima ho pensa-to, di parteciparvi una mia opinione, che spero possaservire per entrare nel vivo della discussione.

Quando nel 1980 divenni presidente della RAI

mi trovai di fronte al primo dei problemi: in Consigliod’amministrazione ci si domandava se convenisse omeno “stare nel mercato”. L’alternativa, evidentemen-te, era quella di starne fuori. Mi spaventai – sebbene ildilemma non avesse, palesemente, un ragionevolesupporto teorico – cercando di capire se una tale ipo-tesi trovasse qualche patrocinatore. Mi spaventai per-ché la RAI aveva invece bisogno di consolidare il suoprimato, proprio a causa di una concorrenza moltoforte, agile e spregiudicata, che si avviava a diventareanche molto pericolosa. Allora dissi che non si potevanon stare nel mercato e che uscirne avrebbe significa-to programmare un suicidio. Aggiunsi però che, perpartecipare a questa competizione, la RAI avrebbe do-vuto perseguire una strategia di altra natura: compe-tere, ma a condizione di distinguersi, non di appiattar-si sul modello altrui. Questo non avvenne come sareb-

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be stato conveniente, e fu all’origine di una serie diguai trascinatisi fino a oggi. Se, come io penso, le ri-forme tarderanno a venire bisognerà riprendere i contilasciati aperti con le premesse di cui vi dicevo.

La RAI è un organismo che dispone di circa do-dicimila dipendenti, di cui circa 1800 sono giornalisti.Non vi spaventi la cifra dei giornalisti: in questo nu-mero, come è stato detto, sono compresi anche quellidelle venti sedi regionali. Ha un’identità che promanadalla sua tradizione, che pensa di poter prolungare,ma nel frattempo si è imbattuta in avvenimenti chepresentavano altri problemi.

Abbiamo con noi il vicedirettore generale,Giancarlo Leone. L’ultima grande diatriba, dottorLeone, si è avuta sul ruolo della RAI nella querelle dellepiattaforme. Sky aveva fatto irruzione all’interno dellostorico confronto-dissidio tra Mediaset e RAI con unacapacità di provocazione, e una intrinseca forza, chegenerava preoccupazioni anche dal punto di vista im-prenditoriale: Sky aveva tutti i numeri, tutte le libertàe tutti i privilegi di cui può disporre un’impresa diquella natura. Con il valore aggiunto rappresentatodal signor Murdoch, un altro di quegli uomini cheGarcia Lorca avrebbe chiamato «di voce dura», che sabene, cioè, come si fanno gli affari.

La RAI si è dovuta difendere. Aveva l’alibi di es-sere un’istituzione, tant’è che riceve un canone, di cuivive, insieme con quanto è in grado di raccogliere at-

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traverso la pubblicità. Mediaset, da parte sua, avevaun introito pubblicitario che la garantiva nei confrontidi qualsiasi tipo di precarietà. Sky, infine, era il batti-tore libero che, sulle prime, profittava delle lusingheesercitabili sia in direzione della RAI sia di Mediaset; egiocando tra i due grandi poli ha trovato il modo difarsi largo e di raggiungere, nel sistema, una posizionetutt’altro che marginale. Sono dell’idea che più polinascono, purché inclini alla convivenza, più ciascunoè garantito nell’insieme e per la propria parte. Queste,comunque, sono ingegnerie combinatorie alle qualioggi è difficile assegnare qualche concreto scenario.

Succede, però, che di fronte alla scelta di tipotecnologico la RAI compie un’operazione che sulle pri-me ha destato preoccupazioni, disincanti e ripulse. Siha la sensazione che stia venendo a patti con Mediasetin funzione anti-Sky, invalidando così il criterio – cheormai aveva un suo profilo storico – di dover conti-nuare a rappresentare, con ben altri specifici doveri, ilconfronto con Mediaset.

La RAI, intanto, introduce il digitale terrestre, cheoffre all’impresa televisiva un’opportunità straordina-ria: quella di poter disporre di tredici canali, istituendouna realtà che ha anche un sotteso significato demo-cratico. Finisce la dittatura della cosiddetta «prima se-rata», per cui, in altri tempi, con i tre programmi gene-ralisti, la scelta era pressoché obbligata. Trasformandoquesti canali in altrettante opportunità, essi possono

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favorire, per un verso, la continuazione della TV gene-ralista e, per un altro, rappresentare una maggiore for-za all’interno dei canali tematici. In definitiva, la nuo-va tecnologia finisce per essere un sistema di propostefatte al pubblico che conferiscono alla RAI un poterecontrattuale diverso.

A questo punto la “partita doppia” dovrà esseredinamica e duttile, dovrà cioè integrarsi con una con-gerie di fattori tecnologici, politici, etici, morali, e cosìvia. Il canone che la RAI riceve è di gran lunga il piùbasso d’Europa; e in tempi come questo bisognerà ri-cercare la più congrua ed efficace modalità perché talecespite assuma un’altra dimensione, consentendo allaRAI di ripartire da posizioni non penalizzanti. Occorreperò aggiungere che la politica dovrà fornirle lo stru-mento per risolvere l’insolvenza degli evasori, la piùplateale e inpunita che si conosca. E ciò perché vada-no disperse, anziché accrescersi, le potenzialità chepresto si dispiegheranno davanti all’azienda del servi-zio pubblico.

Sapevamo, infine, che ci saremmo trovati – eprobabilmente ci troviamo tutt’ora – nella condizionedi dover spiegare il motivo per cui il digitale terrestreè stata la scelta giusta. Sono già allo studio i modi perdifferenziare i canali, fornendo a ciascuno un’identitàprecisa: lo sport, che prima veniva distribuito qua e là,finirà in un canale appositamente dedicato; lo stessodiscorso varrà per le discipline classiche: la letteratura,

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la poesia, la musica, il teatro, così come la scienza, lafilosofia, la teologia, che avranno un terreno in cuimettere radici e dove corrispondere con i suoi frutti aun interesse che la gente ha già cominciato a percepi-re, facendolo coincidere con la grande novità intro-dotta dalla tecnologia. Altrettanto si dovrà fare perrendere “popolare” la cultura dell’economia e della fi-nanza, una realtà che ha introdotto nella vita della fa-miglia un nuovo motivo d’interesse e persino di allar-me.

Gli italiani non hanno avuto subito molta dime-stichezza con il digitale terrestre. All’inizio c’è stato ilproblema del telecomando, per cui non si riusciva acapire quale tasto, di volta in volta, si dovesse preme-re. Di qui a poco, tuttavia, a cominciare dai giovani,tutti entreranno in familiarità con questa straordinariarisorsa. Si pone, dunque, il problema di come gestirla.La RAI è attrezzata per governare una complessità diquesto tipo? Lo è in quanto ha alle spalle una sequeladi sperimentazioni che l’hanno addestrata al nuovo, equindi ad avere una certa velocità di pensiero e diazione. Comunque il digitale, di qui a non molto, saràdi uso comune. Capisco, ad ogni modo, che questo èun momento in cui la RAI sta riacquistando una op-portunità che pareva essere molto lontana, o sempli-cemente nascosta dietro il pericolo rappresentato daMurdoch. E’ così trascorso un periodo in cui è stata alcentro, per così dire, di una “sindrome della piattafor-

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ma”, e ci si domandava dove sarebbe andata e con chi,come contrattare, cosa concedere e in quale misurapretendere.

Stamattina, la prima sessione del seminario si èchiusa, più o meno, a questo livello di argomentazio-ne. Si tratta adesso di affrontare un discorso che inve-sta, concretamente, le identità di questi canali, e cheintraveda la possibilità, sospinta da una nuova realtàcomunicativa, di uscire dal cosiddetto generalismo, inauge fino a ieri, ma oggi in progressiva decadenza E ilmotivo è ovvio: crescono le attese della gente, soprat-tutto i giovani sono poco inclini a seguire una televi-sione che esige un’attenzione quasi meccanica, fon-data sulle tradizioni e i loro aspetti più consumabili,cioè le abitudini.

Di fronte a questa ricchezza di possibilità occor-rono nuovi orientamenti. E’ il punto che inaugura laseconda sessione: capire come ci si debba attrezzareper superare le difficoltà che ci hanno accompagnatofino a oggi, senza tentare di vivere di rendita rispettoalle buone, proficue prove del passato. Con l’animovoltato all’indietro, infatti, non si fa molta strada.

La televisione, per la sua stessa velocità, postulaun continuo adattarsi a ciò che irrompe, grazie alla tec-nologia, nella nostra vita. Indugiare sui ricordi può es-sere salutare o fuorviante, ma è assolutamente certo chela televisione è il terreno sul quale dobbiamo sperimen-tare il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. Non pos-

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siamo consegnare loro delle nostalgie. Il mondo dellelucciole – userò l’abusata espressione pasoliniana – eradestinato a finire. Difatti non si vedono più.

FABRIZIO MORRI3. Naturalmente, per i nostri ospitifa fede la prolusione tenuta ora dal presidente Zavoli.Ad ogni modo, invito ciascuno – ma sono sicuro chequalcuno lo abbia già fatto – a dotarsi della relazioneche il Presidente, a nome di tutta la nostra Com -missione, ha svolto questa mattina.

Si tratta, sostanzialmente, di una relazione tesa amanifestare un’inquietudine presente nel mondo dellapolitica, quindi anche nella nostra Commissione, rela-tiva al fatto che la RAI possa riuscire – come ha fattoegregiamente per i tanti decenni alle nostre spalle – adessere ancora quel baricentro produttivo, ideativo erappresentativo di una società che nel frattempo èprofondamente mutata, non solo a causa della televi-sione ma certamente anche in virtù di essa. La nostraè, infatti, una società che è stata molto segnata nonsolo dalla politica, ma anche dalla forza del mediumtelevisivo.

Naturalmente, noi parliamo di RAI in quanto taleè la competenza della nostra Commissione, ma a nes-

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3 Capogruppo del PD in seno alla Commissione.

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suno di noi, a partire dal presidente Zavoli, sfugge cheun’azione altrettanto importante nella società contem-poranea l’hanno anche gli altri attori presenti sul cam-po, come Mediaset o Sky. Ha una certa importanzaperfino il ricco tessuto dell’emittenza locale, sebbenesia forse troppo frantumato, e rimangono vivi stru-menti e media antichi come la radio, tutt’altro chepassata di moda.

Vorremmo quindi chiedere ai nostri ospiti, per laloro particolare esperienza di autori, di protagonisti edi studiosi, di darci il loro prezioso contributo intor-no a questa domanda: è ancora possibile, in una so-cietà molto più frantumata, individualistica e atomiz-zata che in passato, in cui il fallimento o la crisi deiprocessi di un’idea unica di mondo ha determinatopersino nella civile Europa un ritorno al bisogno dipiccole patrie e di campanili, affidare al Servizio pub-blico, quindi alla RAI, quella missione che così egre-giamente aveva svolto in passato? Mi riferisco, cioè,alla missione di unificazione del Paese, di costruzionedi un linguaggio e di un modo di guardare la realtà ingrado anche di anticipare e costruire quei livelli dicoscienza e di civiltà che hanno fatto sentire menodistante l’italiano di Sicilia dall’italiano di Torino.Ciò, infatti, è avvenuto non solo perché nel frattempomolti erano emigrati, ma anche perché la produzioneRAI svolgeva questo compito di unificazione cultura-le. È ancora possibile fare ciò oggi?

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Non sto dando un giudizio di merito sulle attua-li classi dirigenti o sulle liti della politica, ma sull’ideastessa di potere svolgere un ruolo tanto importante.Mi chiedo, cioè, se sia ancora possibile che un me-dium, magari in crisi – come si dice troppo spesso –,sia ancora in grado di farlo. Certamente, ora c’è unarealtà nuova; tuttavia, dal vostro punto di vista, è an-cora pensabile che la missione della RAI rimanga aquel livello di ambizione, quando cioè si producevanotrasmissioni di grande successo – penso, tra tutte, aquelle di Renzo Arbore, oggi qui con noi –, in cui ci sidivertiva e si costruiva persino un nuovo gusto? Seuna trasmissione aveva un successo tale, evidente-mente coglieva qualcosa di cui c’era bisogno, ma nel-lo stesso tempo lo cambiava, lo trasformava e lo ar-ricchiva.

Oggi non sfugge a nessuno – e concludo chie-dendo il primo contributo proprio ad Arbore – che letrasmissioni di maggior successo di Auditel, anche sulServizio pubblico, sono L’isola dei famosi o il picco diaudience raggiunto da Santoro quando ha invitato laD’Addario. Badate, io non demonizzo nessuno. Ho ci-tato due esempi estremi ma non intendo dare giudizidi valore; spiego solo le questioni su cui ci interro-ghiamo nel mondo della politica. Una volta c’era ilgrande pubblico che seguiva trasmissioni innovative.Forse questo bisogno di qualità è vivo ancora oggi;tuttavia, quel che vorrei sapere è se, dal vostro punto

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di vista, sia ancora pensabile che, con l’aiuto di tuttiquelli che le vogliono bene, la RAI possa interpretare ilbisogno identitario di una società in crisi per traghet-tarlo a livelli di civiltà accettabili.

RENZO ARBORE. Innanzitutto, grazie per la citazio-ne. Non vorrei disperdere in mille rivoli le conversa-zioni di oggi; preferisco parlare soltanto dell’intratte-nimento. «Ofelè fa el to mesté», come diciamo noi aMilano. E mi pare, infatti, che proprio l’intrattenimen-to sia l’imputato. La politica, l’informazione e persinol’infotainment o la fiction non sono tanto criticabili;vengono fatte in maniera un po’ discutibile, ma quelloche è criticato, soprattutto dal pubblico, è l’intratteni-mento. Io vengo letteralmente aggredito dal pubblico,nel senso che, ovunque vado, vengo reso responsabiledel fatto di non apparire più in televisione e del fattoche non vi siano più programmi che quello stessopubblico gradisca. Le persone imputano a me il suc-cesso del Grande Fratello e mi aggrediscono con vee-menza, in quanto me ne attribuiscono addirittura laresponsabilità! E’ certamente una minoranza che, tut-tavia, è quella che ha visto i miei programmi e che og-gi diserta la tv generalista e si concentra su altri me-dia; è una minoranza che va ai concerti, che ripopolail teatro, anche quando presenta formule difficili, eche non demonizza la parola «cultura». Io mi sento ilrappresentante di questa categoria. Non parlerò quindi

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della TV del futuro, che mi pare abbia buone prospetti-ve, ma della TV generalista d oggi.

Consentitemi un’autocitazione, a proposito delmio passato. Ricordo che sono stato e sono tuttora se-gnato e, fortunatamente, confortato da un programmache si chiamava Quelli della notte e che raccoglieva unmilione e mezzo di spettatori. È stato – lo dico conuna punta d’orgoglio – il programma più citato, alpunto che ancora oggi lo devo riproporre quando fac-cio i miei concerti in giro per l’Italia: guai a non can-tare le canzoni di quel programma! Esso ebbe unagrandissima risonanza, ma aveva lo stesso ascolto delpiù nobile Linea diretta di Enzo Biagi su Raiuno. Piùconfortato dai dati dell’ascolto fu, invece, Indietro tut-ta, che introdussi al posto di Quelli della notte, pro-gramma decisamente destinato a un pubblico accultu-rato. Per aumentare l’audience, cercai quindi di im-maginare un programma che consolasse anche l’altropubblico. Indietro tutta si prestava infatti ad una dop-pia lettura: c’erano sì gli errori marchiani di NinoFrassica, che parlava un italiano approssimativo, mac’erano anche le ragazze Coccodè che, pur volendo es-sere una rappresentazione satirica delle ragazze diDrive in, costituivano comunque una facile attrazione.Riuscii, in questo modo, ad ottenere un ascolto più al-to di Quelli della notte.

Io, quindi, non sono mai stato punito dal -l’Auditel. Ma lo sono adesso, in quanto non faccio

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televisione proprio per non soggiacere a questo mo-stro, a questo dittatore che condiziona tutti. Sono let-teralmente stufo di sentir dire, il giorno dopo, «peròha fatto il 35% di share». Lo trovo superfluo, lo trovobanale: lo share esprime solo i dati d’ascolto e giudi-care la bontà di un prodotto soltanto dai dati di ascol-to mi sembra puerile, nonché assolutamente errato.Difatti, l’ascolto è quello che premia, come è successonella sera della morte di Eluana Englaro, quando tuttal’Italia, tutti i giornali e tutti i media parlavano dellafine di questa ragazza e tutte le reti riunite ebbero seimilioni di telespettatori, mentre il Grande Fratello neebbe otto.

Vorrei riferirmi a un vecchio documento che horitrovato per questa occasione. Tanti anni fa – dieci,per l’esattezza – il consigliere Contri mi scrisse e, inseguito, parlò in Consiglio d’amministrazione delladifficoltà di realizzare un canale dedicato alla cultura.Egli disse che il 78% dei telespettatori che compongo-no l’ascolto totale oscilla tra individui che non hannoalcun titolo di studio (7,2%), e quelli che hannoun’istruzione elementare (37,8%) o un’istruzione me-dia inferiore (28,6%); dei rimanenti, il 22,7% haun’istruzione media superiore e solo il 4,5% ha unalaurea. Questo, dieci anni fa, era il panel dell’Auditel.È stato aggiornato e, con infinita fatica, sono riuscitoa sapere che adesso il 59,4% ha solo la licenza ele-mentare. Ciò significa che in media, non tutti ce l’han-

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no, e che tra loro ci sono perfino analfabeti, sebbeneabbiano una rappresentanza minore. Il 33,3% ha undiploma superiore, ovvero il diploma di terza media oquello delle scuole medie superiori; il 7,2 ha invece untitolo universitario che, quindi, è aumentato.

È chiaro che la maggioranza decreta il successodel Grande Fratello, a dispetto di tutte le informazioni.È chiaro che la maggioranza, incolta non per sua col-pa, premia molto spesso i programmi di intratteni-mento di cattiva fattura (e da noi ce ne sono tanti).Essa premia la rissa, il gossip da pianerottolo – soprat-tutto nelle fasce di maggiore ascolto –, cioè quella TV

che io definisco «paracula». Scusate l’espressione, maquesto è l’unico termine possibile per definire una te-levisione che deve inventare una «paraculaggine» inogni puntata, come quella di invitare Fabrizio Coronao di mettere due personaggi che si scontrano fra di lo-ro (e guai se non lo fanno, perché vengono anche pro-testati) oppure, semplicemente, mettere in studio unabella ragazza, che in termine tecnico – diciamo così –viene chiamata in altra maniera dai realizzatori deiprogrammi! È questa la TV «paracula» a cui si ricorrenell’intrattenimento, e non mi riferisco solo alla RAI,ma a tutta la televisione generalista.

La RAI, in qualche maniera, in fondo salva lafaccia, ma anche alla RAI la rissa è diventata obbliga-toria e anche nel suo caso il termine «furbo» o «furba-stro», a cui ricorriamo per mitigare un po’ il concetto,

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va usato ugualmente in quanto anche alla RAI c’è l’os-sequio attribuito all’Auditel.

Mi si chiedeva, dunque, quale sia la ricetta.Ebbene, l’ossequio all’Auditel è effettivamente terribi-le. Capisco che l’Auditel oggi, soprattutto in termini dieconomia, regge, attraverso la pubblicità, tutto l’im-pianto delle televisioni e, in particolare, della televi-sione generalista. A mio avviso, però, ci sarebbe un ri-medio per mitigare il fatto che il successo di quantitàviene identificato con la qualità o con la bontà e labellezza di un programma. Questo rimedio potrebbeessere il ritorno, sotto mentite spoglie – non possono,infatti, essere le stesse, altrimenti si viene tacciati dipassatismo –, del famosissimo e famigerato indice digradimento, con il quale iniziai a fare la radio e colquale abbiamo fatto la prima televisione, quando esi-steva ancora il Servizio Opinioni.

Quel sistema era un giustiziere: è vero che, ma-gari, si poteva ottenere un ascolto elevato con la rissaverbale, però, se si osservava il voto di gradimento, glistessi che avevano visto la rissa verbale e non si eranostaccati dalla televisione, su una scala da 1 a 10, maga-ri davano come voto 3. Il giudizio sulla bontà di unprogramma modifica l’onnipotenza dello share o del-l’ascolto, che invece spesso premia la cattiva qualità.

Francamente, proporrei di inserire di nuovo unindice di gradimento, ma non il Qualitel che, innanzi-tutto, costa molto e, in secondo luogo, confonde la

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qualità con l’apprezzamento del pubblico, che sonodue cose diverse. Chiamiamolo, dunque, apprezza-mento, o definiamolo come «la bontà» di un program-ma televisivo. Questo, tra l’altro, è il compito che do-vrebbe spettare alla critica, mentre io non sento maiun critico dire che un programma, sebbene abbia avu-to un grandissimo successo, è francamente brutto;non lo sento più dire da anni. Da anni non sento diremale di un programma che magari è bruttissimo. Se ilprogramma bruttissimo ma ha raggiunto un buonascolto, viene comunque, per così dire, sdoganato.

Succede quindi che, in nome dell’Auditel, chi,come me ed altri, ha avuto un certo successo da ognipunto di vista, cerca comunque una nicchia o unascappatoia. Il caso di Fiorello è emblematico. Fiorello,dopo aver realizzato due grandi successi di ascolto – è,infatti, il più popolare tra i protagonisti della televisio-ne di oggi e, forse, anche il più bravo –, si è accucciatoe rintanato da Sky proprio per evitare che l’ascoltoscendesse di qualche punto, come forse poteva capita-re se avesse fatto per la terza volta la prima serata diRaiuno. Ha fatto questa scelta per evitare di sentirsidire che ormai era finito, che non era più quello di unavolta, con tutte quelle altre cose terribili che, in certicasi, si dicono di noi artisti e che noi paventiamo co-me un orrendo spauracchio.

Del resto, non si tratta solo di Fiorello; come luice ne sono tanti. Pensiamo a Grillo: non è che non sia

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più stato invitato, anzi, è stato invitato mille volte, madopo aver ottenuto alcuni successi, si è messo a farpolitica. Anche altri hanno scelto di defilarsi.Pensiamo a Cochi e Renato, che ormai si dedicano soloal cinema, o a Benigni, che è molto furbo e riesce a fartrasmettere Dante. Ma poi si accuccia anche lui!

In sintesi, tutti quelli che sono stati beneficiati –e per fortuna è anche il mio caso – di un successo stre-pitoso, devono poi spostarsi su un altro territorio, inquanto questo dittatore assoluto che è l’Auditel, chenon viene frenato da niente, ci obbliga a stare sempresul chi vive e non inventare più nulla. Ma l’invenzio-ne spetta soprattutto a noi. Il fatto che oggi l’intratte-nimento sia affidato a format creati in Olanda, a menon sta affatto bene. Scusate se mi cito nuovamente.Ma cosa era L’altra domenica se non un format? Eraun telegiornale dello spettacolo che sottoposi, peral-tro, all’esame della RAI e gli esaminatori dell’epoca inun primo tempo me lo bocciarono. Si trattava sempli-cemente di un telegiornale dello spettacolo, nel qualeal posto di Ruggero Orlando c’era Isabella Rossellini,ed era un format che ancora oggi, forse, potrebbe es-sere ripetuto. Lo stesso dicasi per altri programmi, aiquali si interessarono persino gli americani, comeQuelli della notte, in cui si teneva una conversazionespiritosa su argomenti dei massimi sistemi.

Toccherebbe, quindi, in particolare alla RAI do-tarsi di persone che si dedichino all’invenzione di for-

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mat. Oltretutto, oggi vengono chiamati format pro-grammi di semplici interviste, come diceva ancheBaudo poc’anzi. Sono etichettati come format persinoprogrammi che non hanno nessuna originalità, dietroai quali non c’è nessuna invenzione, nessuna «TV

d’autore», che invece andrebbe rispettata e stimolata. Per concludere, ritengo che sia da meditare se-

riamente, e da proporre all’Auditel, l’idea di far votareil pubblico. Basterebbe un voto da 1 a 10: le personevedono il programma, vedono la rissa di Amici o dialtri programmi e, accanto al dato di ascolto, si leggeanche il giudizio da 1 a 10 sulla bontà e sull’apprezza-mento del programma. Certo, se questo giudizio lochiamiamo «gradimento», diamo l’impressione di lo-dare la televisione del passato.

Mi dispiace di aver parlato solo della televisionegeneralista e non di quanto sta succedendo in tutto ilsistema. Come tante altre persone, sono un assiduo te-lespettatore. Oltre ad aver contribuito a fare la televi-sione e la radio, sono un grandissimo fruitore della te-levisione, guardo televisione dalla mattina alla sera, eanche la notte. Guardo anche le televisioni straniere e,naturalmente, sono molto incuriosito da quello chesuccederà con le nuove reti del digitale terrestre. Possogià dire che, per esempio, Storia sta rapidamente gua-dagnando pubblico. Si tratta di un pubblico accultura-to e importante di professionisti, che mi fermano perdirmi di avermi visto su Storia. Appena qualcuno fa

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qualcosa di più, i risultati quindi ci sono. È vero che sitratta di una minoranza, però non è detto che la mag-gioranza abbia sempre ragione.

Certo, se non c’è la rissa, se non c’è il gossip, senon c’è l’articolo esplosivo dei giornali a grande tira-tura, un programma è ignorato. Tra l’altro, non c’èneppure l’aiuto di altri media. Ecco perché l’unico ri-medio sarebbe riproporre l’indice di gradimento, ma-gari chiamandolo con un altro nome.

Recentemente è stata realizzata una piccola in-dagine, in cui sono stati citati programmi come Chetempo che fa o Report, e già qualcuno si è interessatoall’ipotesi che qui ho prospettato. Ciò conferma l’op-portunità di tornare al gradimento, di dare anche ungiudizio di bontà sul programma, onde evitare che lepersone si lamentino della cosiddetta televisione ge-neralista, che poi sono soprattutto quelle che rappre-sentano un target anziano. I giovani, è noto, frequen-tano ormai altri media e non sono grandi fruitori diquesto tipo di televisione. Perché una cosa è certa:sebbene si parli di televisione del futuro, oggi i grandifruitori della televisione sono quelli della mia età,compreso il sottoscritto.

JOLE BALDARO VERDE. Renzo Arbore ha introdotto,da grande professionista dello spettacolo televisivo,questioni che in qualche modo attengono anche allediscipline di cui mi occupo, in particolar modo per ciòche riguarda l’universo femminile, altra grande platea

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della televisione. Soprattutto a partire dal mitico ‘68del secolo scorso, il balzo culturale della rivoluzionesessuale ha portato nel nostro paese un grande cam-biamento nella vita delle donne. Ha permesso ad esse,non solo di consolidare la propria autonomia e libertàeconomica con l’autorealizzazione nel mondo del la-voro, iniziata già nella prima metà del Novecento, madi affermare il proprio dritto all’eroticità, al piaceresessuale creativo e condiviso.

Da quel momento, se pur timidamente, il rappor-to stabile (matrimoniale o di convivenza) tra uomo edonna non è stato più indissolubilmente legato ad unaprocreazione valuta da Dio, ma alla procreazione re-sponsabile, voluta dai due genitori, e alla “qualità” del-la relazione. Inoltre, non solo gli uomini, ma anche ledonne, potendo usufruire del dono fatto dalla Dea-Scienza – la contraccezione sicura (la pillola Pincus fuscoperta nel ‘60) – hanno potuto rompere il tabù deirapporti prematrimoniali. Questo ha permesso che, siapur timidamente, perfino alla TV che tutti guardavano(era la grande novità) il tabù, che impediva di parlaredi sesso, di apparire troppo sexy nell’abbigliamento(sempre per le donne), di affrontare argomenti fino aquel momento ritenuti scabrosi, sia stato allentato esiano state programmate trasmissioni spesso centratesulla sessualità, alle quali ero spesso invitata a parteci-pare in qualità di sessuologa (anche la sessuologia co-me scienza autonoma inizia nello stesso tempo ad es-

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sere riconosciuta). Questi programmi erano molto ap-prezzati, il pubblico li richiedeva, io ero riconosciuta efermata per strada e mi si chiedeva di continuare a par-lare di sessualità perché questo argomento, fino a quelmomento proibito, doveva essere conosciuto da tutti.

Per quanto tempo è durata questa rivoluzione?Pochi anni e poi…nebbia! Mi sembra, a guardare i pro-grammi di oggi, di essere tornati indietro nel tempo,addirittura a quello lontanissimo in cui la scopertascientifica della paternità permise ai maschi di impos-sessarsi del potere procreativo e del potere sessuale, fi-no a quel momento ritenuti un dono magico-divinoposseduto dalle donne. Il momento, cioè, in cui nasceil patriarcato e nascono i “miti d’origine”, quei rac-conti, prima trasmessi oralmente e poi scritti, creatidalla fantasia degli uomini che tentavano di dare unarisposta alle infinite domande che la vita e la morte cipongono. L’epoca in cui nascono anche, con i mitid’origine che leggiamo nella Bibbia, i ruoli maschili efemminili che per millenni caratterizzeranno poi i duesessi, e si viene strutturando quella complementaritàdella coppia che è stata considerata normale fino adieri.

Per meglio comprendere il mio attuale pensiero,possiamo provare a leggere il più famoso mito d’origi-ne, quello del peccato originale, non in chiave religio-sa, ma in chiave scientifica. L’albero della conoscenzadel bene e del male potrebbe rappresentare, in questa

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chiave, l’evoluzione del terzo cervello4, la cortecciache ci differenzia dagli animali e che ha permesso lanascita della coscienza umana che, nel linguaggio co-mune, chiamiamo intelligenza. Fu Eva, cui alcuni an-tropologi attribuiscono anche un primitivo uso del lin-guaggio umano, che capì l’importanza di questa evo-luzione del cervello, la quale non solo permetteva agliesseri umani di capire cosa succedeva intorno a loro ein loro stessi, ma anche di modificare l’ambiente eprogredire verso una maggiore sicurezza individuale edella specie. Nello stesso tempo, essendo l’uomo unanimale sociale, era necessario che fossero promulgatedelle regole, delle leggi che permettessero ai compo-nenti del gruppo di tener conto dei bisogni reciproci enon solo di quelli individuali. Nasce anche la differen-za tra il bene e il male. Si struttura la prima coppiastabile, che rappresenterà il fulcro della famiglia, e sa-rà consacrata dopo millenni dal vincolo del matrimo-nio religioso. Nascono i ruoli dell’identità maschilecentrata sul lavoro, tu uomo lavorerai con gran sudore,e di quella femminile centrata sulla maternità, tu don-

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4 Il nostro cervello è tripartito, la parte più antica è rappresentatadal cervello del rettile o degli istinti, la parte centrale è il limbicoo cervello delle emozioni, la che condividiamo con i mammiferi(non a caso cani e gatti sono tanto amati dalle persone sole), laparte più recente è rappresentata dalla corteccia cerebrale.

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na partorirai con gran dolore. E verrà inoltre aggiunto,a proposito dei ruoli all’interno della coppia, ancoraun ulteriore comandamento: tu donna desidererai conpassione tuo marito, ma dipenderai da lui. L’eroticitàfemminile, fin dalla notte dei tempi, sembra quindi ri-conosciuta ed accettata, anche se viene ribadita la di-pendenza della donna dall’uomo. Il quale, come è no-to, in un altro mito viene creato per primo.

Il primo balzo culturale, precedente a quello del-la moderna rivoluzione sessuale, è quindi avvenutocirca quindicimila anni or sono, quando gli esseriumani divennero agricoltori ed allevatori di bestiame.Osservando gli animali di allevamento gli uomini siresero conto che i cuccioli nascevano nel periodo po-steriore al rapporto sessuale tra un maschio ed unafemmina. Si giunge quindi alla scoperta scientificadella paternità, quella che comportò la scoperta del-l’importanza, fondamentale o addirittura esclusiva,del maschio per la procreazione. Questa scoperta por-tò l’uomo, non solo ad appropriarsi del potere pro-creativo (va ricordato come, fino alla scoperta degliovuli femminili si sia ritenuto che lo spermatozoo fos-se l’homunculus e l’utero la terra che permetteva al-l’embrione di essere nutrito e crescere fino al momen-to della nascita), ma anche del potere sessuale. Furonocertamente inventati in quel periodo il mestiere piùantico del mondo, da un lato, e quello della casalinga,dall’altro. Ecco quindi che le donne vengono divise in

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due categorie: le “degne” di diventare le madri dei fi-gli dell’uomo che le sceglieva per compagne, distintedalle “cattive signorine”, come le denominò il poetaGuido Gozzano. Le prime rispettate dalla società, maconsiderate in realtà “fattrici”, legate al dovere coniu-gale, private dell’eroticità ritenuta pericolosa per l’uo-mo e inchiodate nel ruolo di angeli del focolare. Le se-conde, che all’inizio erano rispettate come le “verginisacre” del tempio della dea dell’amore e che avevano ilcompito di iniziare, attraverso il rito del primo rappor-to sessuale, il ragazzo permettendogli di sentirsi ed es-sere riconosciuto come uomo, divennero poi le prosti-tute, comprate, vendute, adoperate come oggetti persoddisfare tutte le fantasie possibili legate alla nostraidentità sessuale genetica che, come tale, è onnipoten-te e amorale.

Devo qui ricordare che la scoperta del genomaumano, del DNA, è recentissima e risale al 1944(Watson e Crick ne furono gli scopritori) e solo perquesto oggi la sessuologia, scienza che integra il bio-logico, lo psicologico e il culturale, può ipotizzare chela nostra identità sessuale abbia una base geneticache, nel tempo in cui la Dea-Scienza non era ancoranata, i greci, con una intuizione raffinata, avevanoposto in cielo creando l’Olimpo. Vi regnavano dodicidei, sei maschi e sei femmine onnipotenti, nel sensoche erano non solo immortali, ma si potevano conce-dere tutto ciò che desideravano, anche in campo ses-

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suale: erano infatti eterosessuali, omosessuali, bises-suali, incestuosi, pedofili, adulteri, aggressivi, ecc. ecc.La nostra identità sessuale genetica che, come gli dei,influenza ma non determina il nostro comportamento,si ipotizza possa essere simile a quella degli dei olim-pici: onnipotente e amorale. Sarà poi la cultura dellapropria famiglia, del Paese nel quale si nasce, della re-ligione nella quale si crede, che dall’infanzia fino allatarda adolescenza insegnerà, richiederà l’osservanza,imporrà le regole che dovranno essere interiorizzate,per diventare infine ciò che Freud chiamò Super-Io, ePiaget coscienza sociale e morale.

Desidero sottolineare ancora come l’identità ses-suale sia un concetto che comprende l’identità geneti-ca, quella cromosomica o di genere (quella che deter-mina il dimorfismo sessuale), l’accettazione intrapsi-chica della propria identità di genere e l’orientamentosessuale. Di conseguenza l’omosessualità, secondo lasessuologia, non è da considerarsi vizio, perversione omalattia, bensì componente normale della identitàumana, anche se di minoranza. Tuttavia viviamo in unpaese a maggioranza cattolica, in cui l’omosessualitàviene ancora considerata contro natura e vissuta datante persone in modo negativo, come una perversio-ne, legata quasi sempre ad una madre troppo sedutti-va. Va ricordato infatti che, sempre dal citato mitodella genesi, la sessualità è stata finalizzata solo allaprocreazione e non, come abbiamo detto e come la

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scienza sessuologica ritiene, anche alla qualità dellarelazione.

Tutti noi abbiamo studiato l’Iliade alla scuolamedia e sicuramente ricordiamo come gli Dei influen-zassero i protagonisti del poema omerico, incitandoli acombattere, ad amare, ad uccidere, a riappacificarsi,esattamente come potrebbero fare i nostri geni. Se ac-cettiamo il paragone tra i nostri geni e gli deidell’Olimpo, possiamo anche ipotizzare che la nostraidentità sessuale genetica sia bisessuale, eterosessualeed omosessuale, e che siano inoltre psicologicamentepresenti, in tutti gli esseri umani, sia qualità maschiliche femminili.

Dobbiamo ricordare che soltanto dal 1963 alledonne è stato permesso di frequentare alcune Facoltàuniversitarie, fino ad allora riservate solo ai maschi. E’da quel momento in avanti che le donne, potendomettere in luce la loro parte maschile fino ad alloranon accettata, hanno dimostrato ampiamente di esserecapaci di diventare soldati, andare in guerra a com-battere (persino diventare terroriste ed uccidere sacri-ficando la propria vita), essere magistrati (la nostralingua è ancora sessista e non esistono qualifiche fem-minili per professioni ritenute adatte solo ai maschi),amministrare la giustizia, diventare ingegneri, presi-denti della Camera dei deputati, filosofe ecc. Tutteprofessioni che erano state considerate, da quando so-no nate, esclusivamente maschili.

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Vediamo, inoltre, quanti uomini siano oggi ca-paci, mettendo in luce la loro parte femminile, di de-dicarsi all’allevamento dei loro figli, tanto da esserechiamati «mammi» per la dolcezza, la tenerezza e lacapacità di mettersi in contatto con un bambino anchemolto piccolo. Dal punto di vista psicologico, quindi,siamo sicuramente bisessuali. Abbiamo la possibilitàdi manifestare qualità che per millenni sono state con-siderate solo maschili o solo femminili.

Tuttavia, questa accettazione della bisessualitàpsicologica degli esseri umani non ha portato i cam-biamenti che si ritenevano raggiunti nella mitica sta-gione della rivoluzione sessuale. Le donne che ne han-no fatto parte hanno creduto che, una volta infranto iltabù dei rapporti prematrimoniali, potendo avere rap-porti sessuali con la partner amata non ci fosse più bi-sogno per i ragazzi del rito d’iniziazione nelle famoseCase chiuse. Sempre le donne hanno ancora ritenutoche, potendosi permettere l’eroticità all’interno delmatrimonio, non vi sarebbe più stata per loro una ma-ternità obbligata ma, per entrambi i genitori, una geni-torialità responsabile. Il figlio doveva essere il frutto diun desiderio condiviso.

La psicologia cognitivista, in questi ultimi anni,ha introdotto il concetto di memoria implicita che fariferimento al rapporto emozionale che la madre hacon un bambino desiderato o con il frutto di un mo-mento di irresponsabilità o addirittura di una violenza.

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Le emozioni della madre, positive o negative, nell’ulti-mo trimestre di gravidanza e nei primi due anni di vi-ta, si trasmettono al bambino, il cui corpo le ricordaper lunghi anni, quando non per sempre. E’ una fasedelicata che, se non è vissuta in profondità, può com-promettere i rapporti sessuali futuri e cancellare, adesempio, ogni desiderio di preliminari amorosi, cherappresentano invece una regressione benigna al pe-riodo infantile, quando il corpo del piccolo viene ac-carezzato, baciato, cullato, dalla madre. Se la madrenon ti ha desiderato, la qualità della tua vita futura sa-rà ferita!

Le conquiste femminili hanno tuttavia compor-tato una serie di conflitti e soprattutto hanno feritol’identità maschile. Gli uomini si sono ritrovati a do-ver competere, a scuola e sul lavoro, non solo con al-tri uomini, ma con donne che spesso si sono dimo-strate molto brave, mogli che guadagnano più di loro,o che non amano i lavori casalinghi e che, in un certosenso, essi sono obbligati ad aiutare. La cosa peggioreè stata tuttavia la conquista dell’eroticità femminile.La virilità maschile, prima assicurata dal numero deifigli, viene oggi misurata dalla qualità e dal numero diorgasmi che gli uomini fanno provare alla loro donna.Sembrano queste le ragioni per cui, in questi ultimianni, la prostituzione abbia raggiunto vertici impen-sati. Giovani donne, schiave, vendute e comprate,sfruttate, maltrattate ed uccise, affollano le strade di

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periferia. Ed uomini, non soltanto malati, soli, anziani,(come si pensava fossero i clienti delle prostitute) magiovani e sani richiedono le loro prestazioni. Il pienopotere sessuale viene quindi ristabilito.

Inoltre, tutti siamo a conoscenza della campagnacontro l’aborto e contro la RU 486, la pillola abortivache, dopo la depenalizzazione dell’aborto (prima dellalegge 194 le donne venivano condannate alla penadetentiva, quando non morivano o non rimanevanosterili), permette alle donne l’interruzione volontariadi gravidanza in ambiente ospedaliero, liberandole daiferri chirurgici. Non una parola, tuttavia, sulla respon-sabilità degli uomini. Forse, come migliaia di anni orsono, siamo ritenute capaci di procreare da sole, pa-drone della vita e della morte!

Si assiste ancora ad un aumento delle depressio-ni post partum, poiché la maternità per le donne rap-presenta oggi un doppio legame, per cui o ti curi dituo figlio o continui a far carriera. Devi inoltre essereun’ottima moglie, un’ottima madre, un’ottima amante,un’ottima lavoratrice, dimostrare cioè un’onnipotenzaassoluta che non è possibile a nessuna donna. Tutte lenostre conquiste si sono quindi tramutate in conflitti.

Forse la Chiesa Cattolica dovrebbe almeno rive-dere la sua posizione contro gli anticoncezionali enon riferirsi come verità di fede al “mito d’origine”,come da lei stessa definito, che impone di crescere emoltiplicarsi! Era giusto e possibile agli inizi della vi-

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ta umana, ma oggi , se il genere umano desidera so-pravvivere, appare necessario il controllo delle nasci-te.

Da quaranta anni, in ogni legislatura viene pro-posta l’introduzione nella scuola dell’educazione ses-suale. La legge non è mai stata approvata. La televi-sione attuale mostra programmi in cui il sesso vienemercificato, il corpo delle donne, e spesso anche quel-lo degli uomini, mostrato come oggetto da usare e go-dere liberamente, il tutto accompagnato da un lin-guaggio osceno. La sessualità appare così sempre piùscissa dagli affetti. La seduttività femminile viene le-gata al mito di una eterna giovinezza, a una disponi-bilità verso quei rapporti che un tempo erano definitiperversi. Non vi sono programmi dove la sessualitàvenga unita all’affettività, nei suoi periodi critici enelle varie età della vita, o dove vengano discussi dapersone competenti i possibili problemi emergenti. Latelevisione potrebbe invece sostituire la legge non ap-provata (perché? possiamo chiederci) e realizzare unprogramma di educazione sessuale, che potrebbe esse-re visto nelle scuole, in modo da garantire a tutti unacorretta informazione scientifica. I problemi emersipotrebbero poi essere discussi anche in famiglia inmodo da far comprendere ai bambini che esiste e vie-ne riconosciuta la sessualità infantile, ovvero la basedi quella identità sessuale “certa” che caratterizzal’età matura.

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Questi discorsi oggi non vengono mai fatti in te-levisione. In passato ho conosciuto il senatore SergioZavoli proprio in occasione di un convegno di questotipo ed ho partecipato ad alcune sue trasmissioni, incui si discuteva la modificazione dei comportamentiavvenuti in quegli anni. Oggi, quando vado a fare unaconferenza, in una sede congressuale, mi viene chie-sto, soprattutto dalle colleghe, perché io non appaiapiù in televisione. Ma non sono certo io che posso de-cidere un programma, né reclamare in esso la mia pre-senza. Se non viene deciso che alcuni argomenti sonoimportanti da trattare in TV, che alcune cose vannodette, ci ritroviamo come con i problemi dell’adole-scenza. Sembra che in questo periodo, che ha una lun-ghezza molto più ampia di quella di ieri, il raggiungi-mento di una identità sessuale “certa”, sia per gli uo-mini che per le donne, venga basato sul numero deirapporti sessuali che si riescono ad avere. Rapportiinoltre basati sul proprio potere sessuale, sul propriopiacere, scissi dall’affettività. Mi piacerebbe chiedereai giovani – in modo che possano rispondere in unprogramma di televisione interattiva – se credano an-cora che esista l’amore e cosa rappresenti per loro.

Mi piacerebbe che in TV si potessero anche di-scutere le motivazioni per le quali, per il maschio, ilprincipale pilastro che regge l’identità sessuale conti-nui ad essere la possibilità di avere rapporti sessualianche fino a 90 anni e come le case farmaceutiche lo

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abbiano incoraggiato a crederlo, mettendo in com-mercio medicinali che lo consentono; mentre per ledonne la seduttività, pilastro della sua identità, che lepermette di avere una risposta positiva ad una sua ri-chiesta o di essere scelta ai fini di un rapporto sessua-le, sia legata solo alla bellezza e alla gioventù. Unapillola magica per lei non esiste, la medicina non le èdi alcun aiuto. Può rivolgersi alla chirurgia estetica,ma fino ad un certo punto. Avviene quindi che nell’etàanziana gli uomini possano sposare la badante o lastraniera più giovane di 40-50 anni, ma che una don-na, rimasta sola ad una certa età, non trovi un nuovocompagno perché divenuta vecchia e non desiderabile.

Renzo Arbore faceva presente l’importanza dellivello culturale degli ascoltatori. Se non si conosconoalcune cose, perché non si è stati informati e non sipossiede un titolo di studio superiore o almeno medio,non si può raggiungere una autorealizzazione in unlavoro che richiede, per raggiungerlo, costanza e stu-dio fino ad età matura. Con la sola licenza elementareo della scuola media, si può pensare soltanto adun’autorealizzazione che permetta di raggiungere ilsuccesso, e il conseguente guadagno, solo come cal-ciatore o velina, utilizzando qualità che non si basanosullo studio, ma sull’avvenenza, sulla bellezza e sul-l’abilità del corpo, che permettono di emergere forsepiù e meglio di quanto consenta una laurea. E, poichérendono molto danaro, permettono anche di raggiun-

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gere il potere; che oggi rappresenta per molti il biso-gno più importante.

FABRIZIO MORRI. Lascio la parola a MassimoBordin, per ascoltare il punto di vista di un operatoredell’informazione.

MASSIMO BORDIN. Vi ringrazio per l’invito.Ascoltando la relazione del presidente Zavoli mi è sor-to un dubbio, che mi permetto di esternarvi prelimi-narmente.

Il Presidente ci ha spiegato come nella televisio-ne risieda gran parte del futuro, fatto indubitabile vistigli scenari che si stanno configurando. Mi chiedo peròse, in un futuro non tanto lontano, parleremo ancoradi televisione, o di tutto ciò che troveremo su unoschermo, con gli stessi criteri che abbiamo oggi.Siamo infatti abituati a considerare televisione unelettrodomestico differente da altri elettrodomestici oda altri servizi che abbiamo in casa. Ma le cose vannointrecciandosi sempre di più, come par di capire, e latelevisione sembra perdere la sua specificità.

Ciò induce a un’altra serie di considerazioni. Latelevisione, come anche la radio, ci ha abituati al-l’ascolto in tempo reale: per seguire quel determinatoconcerto o vedere quella determinata partita di calcio sifa in modo di essere davanti al teleschermo o davantiall’apparecchio radio (molti anni fa) a quella data ora.Oggi, non è più così: dai VHS si è passati ai Dvd, ma or-

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mai tutto passa attraverso internet. Ho persino ascolta-tori che ascoltano la rassegna stampa, che faccio in di-retta alle 7,30, con più comodo, verso mezzogiorno.Hanno un sistema che permette di ascoltare in differitadirettamente sul telefonino. Naturalmente, questo ri-guarda maggiormente le fasce giovanili informatica-mente acculturate piuttosto che la terza età, ma anchela terza età non deve essere troppo sottovalutata.

In questo quadro il discorso degli ascolti e dellapolitica diventa complicato. Qui ognuno parla secon-do la sua esperienza e secondo il suo bagaglio di mo-delli comunicativi. È innegabile che Radio Radicaleabbia una sua connotazione. Cerco di spiegarmi conun esempio che riguarda la storia dei radicali, ovveroil debutto televisivo di Marco Pannella del 1974,quando, alla fine di un digiuno – nel caso specificonon v‘era dubbio che avesse ragione perché chiedeva,come fondatore della Lega italiana per il divorzio, diparlare in TV appunto del divorzio, su cui si era appe-na fatto il referendum – vinse il braccio di ferro e arri-vò in televisione in diretta. Vennero pronunciate dueparole che in televisione non si erano mai sentite:aborto e compagno Pinelli. Narra la leggenda che,spenta la telecamera, il cameraman avesse pronuncia-ta la storica frase: «Dotto’, meglio de‘ Kennedy!», vo-lendo così indicare che il confronto televisivoKennedy-Nixon restava ancora una pietra di parago-ne, a quindici anni di distanza.

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Tutte le volte che vedo Pannella in televisionemi preoccupo che voglia ripetere quell’exploit. Ciò ètecnicamente impossibile, non certo dal punto di vi-sta di Pannella, ma da quello delle condizioni cultu-rali, e soprattutto delle condizioni di fruizione, ormaiprofondamente cambiate. Nel 1974 c’era la televisio-ne in bianco e nero, e due soli canali: ma davanti alteleschermo c’erano milioni di persone e il messag-gio arrivava comunque a un numero di spettatorielevato.

La comunicazione politica era paludata: non so-lo in giacca e cravatta, ma attenta alle forme. L’unicatrasgressione – allora neanche considerata tale – era ilfatto che tutti fumavano, ma per il resto sembrava diassistere alla riunione di un club. Un eloquio più ag-gressivo diventava quindi un evento, una trasgressio-ne. Oggi, siamo ai limiti dell’omicidio in diretta, e latrasgressione dovrebbe essere semmai l’opposto: labuona creanza.

Per di più – ed è forse l’aspetto decisivo – anchela scelta dei programmi è infinitamente più ampia, an-che se mi pare difficile che oggi si possa già valutarequanto il digitale terrestre modificherà in futuro le no-stre abitudini. Comunque la televisione generalista vaesaurendosi e le differenze di genere hanno comincia-to a essere valorizzate anche dai nuovi punti di vistadella televisione. Radio Radicale non è stata quindisolo antesignana, ma si è posta un problema che mi li-

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mito qui ad accennare: la questione del Servizio pub-blico vista da una particolare angolazione.

Mi permetto di utilizzare la relazione del presi-dente Zavoli, laddove, citando Luigi Einaudi, afferma:«Conoscere non è un privilegio, ma un diritto: cono-scere per deliberare». La conoscenza è affidata al mo-mento più solenne della Repubblica, cioè al dibattitoparlamentare. Noi abbiamo tentato di costruire unaradio monodirezionata sul Parlamento, atto che al-l’epoca parve quasi rivoluzionario. Ricordo come, consincero raccapriccio, il Presidente della Camera si me-ravigliasse della nostra intenzione di trasmettere perradio le sedute. Oggi il concetto è invalso non solo permerito di Radio Radicale, ma anche perché l’evoluzio-ne politico-culturale del nostro Paese ha modificato ilconcetto di “sacralità” delle istituzioni, e della politica,immettendovi altri criteri quali la trasparenza.

Per quanto poi riguarda il tema proposto dalpresidente Zavoli, ovvero la necessità di stare nelmercato, non saprei dire se esista il mercato delle di-rette parlamentari. Mi attesterei a un dato empirica-mente verificabile: l’Espresso ha sempre avuto una ti-ratura inferiore alla Gazzetta dello Sport, il Mondo diPannunzio ha sempre tirato meno copie di Oggi eGente; è quindi evidente che il rapporto fra quantitàe qualità non sia necessariamente proporzionale.Bisogna però considerare che ascolti ridotti non com-portano necessariamente coperture di mercato diret-

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tamente proporzionali. Certo, i dati riportati da RenzoArbore a proposito dell’Auditel mi paiono inquietanti.Dobbiamo sperare che con l’indicazione «scuola del-l’obbligo» si intendano almeno le scuole medie, altri-menti sarebbe tragico. E’ evidente ad ogni pubblici-tario che la posizione nel mercato di un servizio delgenere di quello di Radio Radicale permette di inter-cettare un target alto e può garantirsi sponsor parti-colari, interessati ad entrare in contatto con un pub-blico con determinate caratteristiche e determinaticonsumi.

L’ultimo problema riguarda l’informazione poli-tica, al di là della diretta con il Parlamento, che ci con-sente di vivere attraverso una sussidiarietà di Serviziopubblico, che mi auguro ci veda interagire con la RAI

senza entrare in competizione. Anche, o proprio per-ché, oggi la competizione con la RAI, in questo settore,non ci spaventa.

È invece importante capire il resto della comuni-cazione politica. Per la Camera si fa presto, perché ba-sta avere un redattore in studio che per quel giornodovrà informare gli ascoltatori su chi stia parlando. IlPresidente invece rileva giustamente che bisognerebbebattersi perché ogni volta sia garantita la voce di tuttii soggetti chiamati in causa, tema nel quale i Radicalisono molto coinvolti. Conoscete la questione. Mi ren-do conto che sia oggettivamente difficile garantire ilpluralismo, ma è anche vero che in dieci anni di infor-

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mazione politica televisiva, della RAI e di Mediaset, visono stati da parte dell’Autorità garante 49 interventidi richiamo; ovvero, circa una volta per ogni trime-stre, l’Autorità di garanzia è stata costretta a interve-nire. E’ logico pensare che qualcosa non va.

Infine, l’informazione politica è enormementecambiata e la stessa apertura del mercato ai privati,che si è fatta sentire molto più per le radio che per letelevisioni, è stata relativa rispetto all’intervento di-retto del cittadino. Un fenomeno che si è visto proce-dere in parallelo fra privato e pubblico televisivo è loslittamento, prima lento e a un certo punto parossisti-co, da un modello delle tribune politiche dove c’eranol’aristocrazia del giornalismo politico che sedeva adanfiteatro e il politico con il suo assistente al centrodella scena, a quello di un talk show dove al centrodella scena si trova il conduttore e intorno a lui vi so-no i politici. Si è quindi passati dalla centralità del po-litico alla centralità del conduttore, tanto che ormaiabbiamo conduttori che possono perfino prescinderedal politico, o dall’autorappresentazione della politica,quella che dovrebbe cioè formare le scelte dei cittadi-ni, e le loro decisioni, sulla base della capacità di in-terpretare direttamente le diverse opzioni. Questo fe-nomeno può esser visto anche come sviluppo di nuoveforme di giornalismo televisivo, ma certamente com-porta rischi democratici non irrilevanti.

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FABRIZIO MORRI. Presidente Calabrò, è stata citatal’attività dei componenti dell’Authority, che collaboracon la Commissione parlamentare con poteri diversi,anche sanzionatori, e negli ultimi tempi è non soloparticolarmente attenta a come intervenire sulle que-stioni relative al pluralismo citate da Bordin, ma stariflettendo sulla dibattuta e mai conclusa questionedella qualità.

CORRADO CALABRÒ. Prendo spesso il caffè in unbar in piazza Sant’Eustachio. Un giorno, avendo sa-puto che la mattina c’era stata una sparatoria, arri-vando chiesi al cameriere cosa fosse accaduto. Mi ri-spose di non saperlo. Insistetti, dichiarando di sapereche avevano sparato a un uomo lì davanti. Mi rispo-se: «Così dicono, ma il telegiornale non ha riportatoniente».

La televisione, dunque, come validazione dellarealtà. E non soltanto per i camerieri. Anzi, la TV èconsiderata come la rappresentazione di una realtà al-ternativa percepita come l’unica condivisa. Ricordia -mo gli esempi della caduta del muro di Berlino, del-l’immigrazione dai Paesi limitrofi, del modello di don-na di successo, la velina; comportamenti tutti indottidalla televisione. Si rischia che la realtà reale diventisecondaria rispetto a quella virtuale.

La televisione equivale a una patente di esisten-za anche per gli individui. Ormai, chi non appare in TV

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non ha immagine, non ha consistenza, non ha identi-tà, per cui si ricorre agli espedienti più smaccati perfar apparire gli uomini politici negli spettacoli di in-trattenimento, perché si è scoperto che le tribune poli-tiche, ingessate e paludate, non hanno attrattiva.

Non ha importanza quello che dice in quel con-testo l’esponente politico: essere un personaggio cosìnoto da essere ripreso in televisione, perfino allo sta-dio, è ciò che conta e che rimane impresso nell’imma-ginario collettivo. Questo non solo da noi: per la po-polarità della Tymošenko, di Rugova, di Karzai, è statadeterminante l’apparizione ripetuta e perfino stereoti-pata in televisione, rispettivamente con la treccionabionda avvolta sul capo, con il foulard al collo, con loscialle verde sulle spalle.

Stanno cambiando le cose? Sì e no. Per l’infor-mazione, internet sta contendendo il terreno alla tele-visione e ha già parzialmente soppiantato i giornaliper l’immediatezza delle informazioni: «it from bit». Larete sta trasformando i rapporti interpersonali, sosti-tuendo il contatto fisico con il collegamento informa-tico. Le comunità virtuali sono più frequentate deigruppi personali e portano a esternazioni più disinibi-te. Assistiamo a una sorta di aggregazione tribale, percui un ragazzo di Centocelle condivide interessi e co-stumi più con un ragazzo di Seul che con un suo coe-taneo della porta accanto. Ormai il televisore non èuno specifico apparecchio, ma uno schermo su cui

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proiettare di tutto e su cui i ragazzi proiettano le im-magini del loro computer.

Per l’esistenza comune, però, la televisione è an-cora il mezzo più significativo e diffuso. In Italia, an-che per l’informazione, la televisione svolge ancoraun ruolo dominante, e questo vale anche per l’infor-mazione politica. Secondo una rilevazione del CENSIS,nell’ultima campagna per le elezioni europee del 6-7giugno, il 69% degli elettori si è formato la propriaopinione attraverso i telegiornali e il 30% attraversoi programmi di approfondimento, sempre in TV. Lastampa cartacea è stata determinante per il 25,4% einternet solo per il 2,3%, a differenza di quello che siè verificato negli Stati Uniti, dove Obama ha condottola sua campagna elettorale soprattutto dal proprioblog (assistito naturalmente da centinaia di collabora-tori).

Nel nostro Paese, quindi, i telegiornali restanodeterminanti per orientare il voto. Dai dati del moni-toraggio dell’Autorità, è emerso che nel 2008 i tele-giornali di tutte le emittenti radiotelevisive nazionalipubbliche e private (il Servizio pubblico non fa ecce-zione) hanno dedicato alla cronaca il 25,2 % del tem-po di diffusione, alla politica il 25%, all’economia e allavoro l’8,4 %, allo sport il 6,9%, allo spettacolo il 4,1,a costume e società il 2,4, alla cultura solo l’1,6%.

Al di là dei dati quantitativi, il problema sussi-ste da un punto di vista qualitativo. Condivido l’ac-

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cento posto da Renzo Arbore sulla necessità di di-stinguere qualità da quantità. Se si considera il modoin cui le notizie vengono trasmesse, è raro che la si-tuazione di qualche altro Paese del mondo sia ogget-to di accurata informazione. Altrove, la televisionepubblica investe molte risorse sui reportages relativialla situazione di altri Paesi: lo fanno BBC, France 24,Al Jazeera, che è una televisione informatissima spe-cialmente su quanto accade nei Paesi arabi. Vengonotrasmessi reportages incredibilmente puntualisull’Iraq, sull’Afghanistan. Pur non essendo una tele-visione araba con azionisti esclusivamente arabi, AlJazeera si rivolge prevalentemente agli arabi e forni-sce un servizio di qualità superiore a quello fornitodalle nostre televisioni agli italiani.

Da noi si tende infatti all’elementarità, alla tau-tologia. Anche nelle trasmissioni, cosiddette di appro-fondimento, si riscontra una certa evasività o insoffe-renza a inquadrare le varie questioni nei loro terminiprecisi. In questo momento, ad esempio, la questionedi maggiore attualità e importanza per lo Stato italia-no è probabilmente la tematica del federalismo, eppu-re non è mai stato trasmesso un servizio che chiarissei pro e i contro, senza schermaglie tra fazioni; che pre-cisasse chi si addosserà il peso enorme del debito pub-blico nel nuovo federalismo fiscale.

In questo modo non si orienta l’opinione pubbli-ca, si cerca solo di intercettare il massimo consenso.

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Gli slogan, l’affermazione opinabile, persino la men-zogna, l’errore, se pronti e risoluti, vengono credutipiù della verità coscienziosamente dosata. In televisio-ne, un’affermazione vale quella contraria, anzi chiparla per primo fa più colpo. Non c’è una responsabi-lizzazione che dal vivo metta a confronto l’errore e lamenzogna; il procedimento di rettifica è fiacco, tardi-vo e involuto; l’affermazione in diretta resta stampatanella memoria della maggioranza dei telespettatori; lasmentita viene invece accolta con scetticismo.

Di notevole impatto appare anche la sostituzionealla funzione del Parlamento da parte di trasmissionitelevisive di larga audience, quali Porta a porta,Ballarò – per certi aspetti anche Annozero – tutte ap-partenenti alla programmazione RAI; ma simili esempiesistono anche su Mediaset. Gli annunci più impor-tanti di iniziative legislative e di decisioni del Governovengono anticipati in televisione e sommariamenteesposti in quella sede. Bene, si dirà, siamo di nuovo al-l’agorà, alla piazza di Atene. Ma non è così, perché leaffermazioni restano sempre sommarie, approssimati-ve, prive della caratura garantita da una informazionevera. Ad ogni modo, la televisione conforma pur sem-pre il pubblico dibattito e, secondo i dati del CENSIS,condiziona in larga misura la partecipazione dei citta-dini alla vita pubblica. I suoi contenuti connotano larappresentazione della realtà in maniera non neutrale.È vero, ha una funzione di traino – come recita il tema

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di questo convegno – ma non nella direzione auspi-cata.

Malgrado ciò, la centralità spetta al Serviziopubblico, non al conduttore, che si è sostituito al poli-tico, all’opinionista informato. La centralità delServizio pubblico non è un dogma arcaico nell’era diinternet, e giustamente quindi il presidente Zavoli celo ha riproposto. Non si può essere passatisti, ma ilconcetto di televisione pubblica è profondamente ra-dicato nella tradizione democratica delle forze politi-che europee (liberali, socialiste, cattoliche), che hannodato vita a quella straordinaria costruzione che è sta-ta, e in forme diverse ancora è, lo stato sociale. Forseciò che di più europeo ha l’Europa.

Nel 1924, John Reith, primo direttore della BBC,ha dichiarato: «Se l’etere fosse stato svenduto al dena-ro e al suo potere e non ci fosse stata responsabilitàetica e intellettuale, se interessi diversi da quelli pub-blici avessero preso il sopravvento, la BBC non sarebbemai divenuta quello che è». La crociata contro ilServizio pubblico radiotelevisivo è un fenomeno squi-sitamente italiano, laddove tutti i Governi europei so-no gelosi sostenitori delle loro televisioni pubbliche;che tuttavia cercano anch’essi di sfruttare per i loro fi-ni politici. Ma l’essenziale è che il sistema non lo con-senta. Anche in Italia il quadro normativo comunita-rio e nazionale non lo consentirebbe. Per questo esisteuna rete delle Autorità indipendenti radiotelevisive del

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Mediterraneo, della quale fanno parte Marocco, Egitto,Palestina, Israele, Libano, Giordania, oltre a Grecia,Francia, Portogallo, Italia, Spagna e altri. Questa èun’indicazione di tendenza importante, che attraversatutto il mondo con vocazione democratica immediatao dilazionata. In tutti questi Stati la televisione è sot-toposta alla vigilanza di Autorità indipendenti daiGoverni, oltre che dagli operatori.

Ritengo che anche da noi la Commissione parla-mentare di vigilanza e l’Autorità per le garanzie nellecomunicazioni facciano con impegno il loro dovere.Sono stati già effettuati 51 interventi (giacché ai 49 ci-tati da Bordin hanno fatto seguito altri due). A parte ilproblema profondamente squilibrante del conduttorecome momento centrale, che influenza enormementel’opinione pubblica, perché viene ritenuto un sacerdo-te, un magistrato, un personaggio super partes, laddo-ve invece spesso cede a inclinazioni di parte, si tendea realizzare l’equilibrio, anziché all’interno delle sin-gole trasmissioni, attraverso la realizzazione di unatrasmissione squilibrata a destra e di una squilibrata asinistra. La legge impone al riguardo indirizzi specificiper il corretto esercizio del Servizio pubblico. Forseneppure una televisione privata può fare questo on-deggiamento, ma certo per il Servizio pubblico essocostituisce uno squilibrio della sua funzione.

A un altro genere di deviazione, questa volta perscopi dichiaratamente antipolitici, si assiste con la

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rappresentazione di processi in televisione; tema deli-cato perché interferisce con il diritto di cronaca e conquello di informare e di essere informati richiamati daZavoli e da Bordin. Proprio alla luce dell’eccezionalevalenza del mezzo televisivo, devono però essere evi-tate forzature che poi non potrebbero essere recupera-te, a maggior ragione per quanto riguarda la RAI e lasua funzione di Servizio pubblico. Quando si esponealla gogna mediatica qualcuno che non è stato con-dannato, la sua reputazione viene lesa in una manieratale da non poter essere più reintegrata; come quandosi rompe un bicchiere che, pur incollandone i pezzi,non tornerà più come prima.

Programmi televisivi di grande appeal tendono atrasmettere in forma spettacolare e con un linguaggiotelevisivo ricostruzioni di vicende giudiziarie ancorain corso, senza le garanzie processuali stabilite dal co-dice. Il linguaggio televisivo è un linguaggio sincopa-to. In questo modo, la televisione rischia seriamente disovrapporsi alla funzione di giustizia e di apparire co-me l’unica verità. Quando poi a distanza di anni, per-ché purtroppo la giustizia è terribilmente lenta, arrive-rà la sentenza nella sede appropriata, se sarà conformel’opinione pubblica sosterrà che la televisione l’avevadetto quattro anni prima, mentre, se è difforme, pen-serà che abbiano imbrogliato le carte.

Come dichiarato anche dal Capo dello Statonell’incontro con la stampa, appare pertanto estrema-

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mente positiva la sottoscrizione nel maggio scorso delCodice di autoregolamentazione sulla trasmissione deiprocessi da parte di RAI, Mediaset e Telecom e le orga-nizzazioni associative delle emittenti televisive, da unlato, e da parte dell’Ordine dei giornalisti e dellaFederazione nazionale della Stampa, dall’altro. Se pre-scindiamo dalle non poche sbandate, possiamo quindiaffermare che il sistema delle regole e dei controllifunziona abbastanza bene, o perlomeno è abbastanzacompleto in teoria: ma solo in negativo, ovvero perprevenire e reprimere prevaricazioni squilibranti. Benpiù difficile, al contrario, è conformare in positivo letrasmissioni televisive a criteri di evoluzione civile eculturale, ambito in cui il Servizio pubblico mostrapurtroppo la corda.

La televisione è una finestra aperta sul pianeta;la nostra è spesso una finestra sul cortile. È ripiegatasui fatti di casa nostra, specialmente di cronaca nera edi gossip politico, con una visione provinciale se con-frontata con quella di altre televisioni. È una grandeTV locale, il che induce un effetto di chiusura mentaleche va considerato con grande attenzione. Eppure, laCorte costituzionale ha affermato che «è funzione spe-cifica del Servizio radiotelevisivo pubblico la diffusio-ne della cultura» (sentenza n. 284 del 2002).

Oggi, è possibile offrire spettacoli di un certo li-vello culturale a una platea magari non numerosa ditelespettatori che lo gradiscono grazie alla possibilità

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di registrare le trasmissioni, come consentono quasitutti gli apparecchi. La RAI non può rinunciare allaqualità per inseguire l’audience. Il discorso della quali-tà, se assolutizzato, è però improponibile, giacché leemittenti trasmettono ventiquattro ore su ventiquattroed è impensabile che tutte le trasmissioni siano di livel-lo qualitativo notevole, e tuttavia una premessa cosìrealistica non comporta comunque l’impossibilità diavere trasmissioni di qualità. La BBC ne offre a bizzeffe,e anche altre televisioni straniere ne sono la dimostra-zione. Da noi qualche trasmissione di qualità esiste, mapotrebbero essere molte di più, soprattutto quelle delServizio pubblico. E ciò diviene ormai sempre più ne-cessario, perché con l’interattività della televisione,grazie al digitale, se la tv non si rinnova, declina.

La tendenza alla qualità viene frenata dai pub-blicitari. Spesso, paradossalmente, questi realizzanouna pubblicità di qualità, più creativa delle trasmissio-ni che interrompe, ma è il condizionamento che derivadai pubblicitari che angustia le televisioni e snatura inparticolare il Servizio pubblico della RAI, che si reggesul sistema misto canone e pubblicità. Perché i pubbli-citari pagano in base all’audience prevista. Ogni tra-smissione è potenzialmente un quid novi, quindi lasua audience è imprevedibile. Si tende così a ricalcarele piste che hanno già fatto registrare un buon ascolto,si tende al ripetitivo, all’omologazione, ovvero a tuttociò che può garantire la quantità degli ascolti. E’ il

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percorso al quale giustamente si è sottratto RenzoArbore e che ha avuto successo proprio perché non hamai ripetuto la stessa trasmissione. Si indulge invecea riproporre trasmissioni seriali, sfruttando un filonefino all’esaurimento, alla saturazione, al rigetto.

L’omologazione nell’offerta televisiva, tra RAI etelevisione commerciale, è ormai tale che mette in for-se persino la ragion d’essere di alcune delle trasmissio-ni del Servizio pubblico. La televisione dello spettaco-lo e del varietà abbonda di programmi fotocopia. Inqualche intervento precedente si è detto che, accen-dendo la televisione, si vorrebbe individuare con chia-rezza se si tratti del primo, del secondo o del terzo ca-nale. Non so se questo sia veramente così, ma talvoltavorrei davvero anch’io poter distinguere la RAI dallatelevisione commerciale.

Siamo certamente in presenza di una manovraanticulturale e regressiva. In altra occasione, ho parla-to di tv desipiente, cioè che fa perdere cultura anzichéfarla crescere, in spregio all’articolo n. 9 dellaCostituzione. D’accordo, oggi ci sarà pure un 60% diuditorio non acculturato; ma quando, ieri, in Italia esi-stevano tanti analfabeti e tante persone incapaci diparlare la lingua, fu la televisione ad elevarne il livelloe la qualità dell’espressione, a garantirne la formazio-ne culturale.

Purtroppo mi appare incontestabile, presidenteZavoli, nonostante l’attaccamento che abbiamo alla

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nostra televisione, che si stia assistendo a un regressoculturale. Cultura non è formazione erudita. Cultura ècapacità di valutazione coerente, in un contesto etero-geneo, e al tempo stesso eliminazione delle notazioniirrilevanti. Alla vertiginosa evoluzione tecnologicache stiamo vivendo, cui il digitale e internet aprono lastrada, finora non ha corrisposto in Italia un progressodella televisione pubblica in termini di qualità e inno-vazione. Ma nel medio e lungo periodo è solo la cultu-ra che determina il livello di civiltà di un Paese e neavvalora l’assetto sociale.

L’onorevole Giovanna Melandri lamentava che ildecreto legislativo predisposto dal Governo cancelli lariserva per i prodotti europei. Faremo una segnalazio-ne al Governo su questo, perché lo consideriamo unpasso indietro.

Le nuove linee-guida del Servizio pubblico per iltriennio 2010-2012 prevedono per la RAI l’obiettivo diun innalzamento degli standard qualitativi – speriamoche li rispettiate nel Contratto di servizio, dottor Leone– e la predisposizione di un piano strategico per il re-cupero dei generi culturali di nicchia, compreso il tea-tro, la musica sinfonica, la lirica nelle tre reti genera-liste, diversificando e segmentando l’audience – altretelevisioni lo fanno e prosperano –, connotando anchei generi di più largo consumo quali fiction e intratte-nimento con qualche carattere di qualità, innovazione,originalità, minore ripetitività. Si potrà obiettare che è

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più facile a dirsi che a farsi, ma non si può sfiduciareil Servizio pubblico a priori o a… prescindere; anchese è la stessa RAI talvolta ad autosfiduciarsi.

Finora la RAI ha eluso il compito di avviare la ri-levazione della qualità dei suoi programmi, come im-posto dal vigente Contratto di servizio. Ha infine atti-vato un mini-Qualitel simile all’indice di gradimentoricordato da Renzo Arbore. Anche in questo caso, sen-za enfatizzare la valenza di questi strumenti di rileva-zione, che sono necessariamente imperfetti e approssi-mativi quando si tratta di rilevare un valore tanto as-soluto quanto sfuggente come la qualità, allorché ver-ranno resi noti i risultati delle pur limitate rilevazionieffettuate, consegnateci dal presidente Garimberti edal direttore generale Masi, penso che avremo dellesorprese…

SERGIO ZAVOLI. C’è un problema che mi pare nonabbia ancora trovato, qui, un momento di relativa econdivisa certezza. Ciascuno ha un’idea del pluralismo.Intorno a questa parola il Presidente Ciampi aveva deci-so di inviare il suo primo e unico intervento alle Camere,con un messaggio molto forte. Lo dico con grande ma-linconia: l’Aula del Senato non era quella, diciamo dellegrandi occasioni. La discolpa fu che si trattava di unmomento difficile, non solo del nostro Paese. In queigiorni il Parlamento era, per così dire, stressato.

Io dissi, ricordo, al professor Fisichella che mi

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sentivo mortificato non solo come parlamentare, maanche come cittadino. Avevamo ascoltato il massag-gio del Presidente della Repubblica su una questioneche riguardava l’insieme della società, nella quale ave-vo giocato la mia piccola vita tenendo fede ad alcuniprincìpi e cercando di rappresentarli nel modo piùcoerente, per poi trovarmi nella condizione di dovermiguardare in giro e lamentare che queste passioni, co-siddette «civili», non attraversassero il Paese in unaoccasione così speciale.

Questi seminari possono forse rimettere insiemequalche coccio. Se me lo consentite, vorrei parlare diun’altra esperienza personale. Il 1976 è stato l’anno diuna famosa riforma. Era in voga una sociologia azien-dale affatto singolare. A mio avviso provvisoria, senon addirittura posticcia. Ma quando le cose, buone ocattive, vanno a regime ci si adatta a tutto. Quella ri-forma disegnò il ruolo dell’informazione del Serviziopubblico secondo uno schema che parve subito im-provvisato, e dunque fragile. Una nuova regola stabi-liva che le testate non si differenziassero per la tona-lità conferita loro da una redazione composita, fatta ditante persone con idee e ideali diversi, ma costruisse-ro invece la propria identità sulla base dei convinci-menti politico-culturali dei rispettivi direttori. Ciò si-gnificava che i giornalisti avrebbero scelto il loro di-rettore. Io ero socialista e mi trovai circondato da unacinquantina di socialisti.

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Naturalmente, la cosa mi allarmò. Convocai imiei redattori e li pregai di capire che non avevo nessu-na intenzione di fare l’Avanti! al GR1. Li esortai quindia ripensare la loro scelta, perché nessuno avrebbe do-vuto sentirsi obbligato a stare con me solo per il fattodi condividere le mie idee politiche. Intendevo fare ungiornale che stesse nell’area del centrosinistra ma senzaescludere il dibattito interno. Allora andai alla ricercadei professionisti della radio e della televisione, di tuttigli orientamenti, disposti a venire a lavorare con me alGr1, in omaggio a un pluralismo che fosse una ragio-nevole rappresentazione delle più significative presen-ze culturali e politiche del Paese.

Ricordo che mi mancava un liberale e mi eromesso in testa di trovarlo. Un giorno mi dissero che cen’era uno – sembrava di parlare d’una razza estinta –in viale Mazzini, che avrebbe potuto accettare. Lo tro-vai in un piccolo ufficio, fatto su misura per la sua so-litudine. E avanzai la mia richiesta. Trasecolò, mi chie-se come avessi saputo di lui, e gli risposi che avevosentito, in giro, delle voci. Arrivai con il mio liberalesottobraccio e lo presentai in redazione come si pre-senta un esemplare raro. Avevo introdotto nell’identi-tà politico-culturale di un giornale un bravo profes-sionista che, nonostante la lottizzazione, non rispon-deva al vezzo dei partiti di segnalare ciascuno i proprirappresentanti. Credo sia stato il più indipendente deimiei giornalisti.

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Il giorno in cui fui nominato presidente dellaRAI, una delle prime cose che misi sul tavolo fu il pro-blema del “riassetto”, per rivedere completamente tut-ta la faccenda. Il teorema era semplicissimo: non più ilpluralismo verticale, cioè una somma di faziosità,bensì tante redazioni al cui interno, orizzontalmente,fosse rappresentata una ragionevole varietà di opi-nioni. Non parlo di una astratta, puramente formaleobiettività, in cui non credo. Nessuno può infatti rite-nere che possa esistere qualcosa di assolutamenteobiettivo, in un movimento di pensiero – e nelle suecostruzioni pratiche – chiamato a gestire la quotidia-nità dei propri compiti, cioè la forma più incerta e fug-gevole della verità

Questa esperienza dette luogo a molti confronti,uno dei quali è rimasto storico: il GR1 contro il GR2 oviceversa. Il mio contraltare era Gustavo Selva, il qua-le intendeva esprimere ogni giorno il suo parere, fi-dando di poter attingere alle punte più avanzate delpensiero e della parola del suo giornale, in gran partemonocolore, indicando come i suoi collaboratori, masoprattutto i suoi ascoltatori, avrebbero trovato labussola per orientarsi nella galassia delle notizie.

Proprio in questi casi occorre pretendere che ilpluralismo debba realizzarsi, sempre e comunque, conle garanzie della trasparenza, della completezza e dellacontestualità. Allora il GR 1 e il GR 2 si somigliavanoper il gran numero di interviste che mettevano in

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campo. Non ho mai creduto – qui parlo per me – didover tornare a casa sempre con uno scoop. Mi sonoqualche volta lusingato, semmai, di scoprire come,ponendo delle domande, ricevessi risposte che la per-sona intervistata non sapeva di poter dare. E, quantoagli scoop, non posso dimenticare che, la mattina diVia Fani, il GR 2 ci precedette di quattro minuti!

VINCENZO CERAMI. Non ho mai lavorato in televi-sione. Ho sempre vissuto la televisione da consumato-re, da telespettatore, e anche da «intellettuale», che siguarda intorno criticamente e formula giudizi cercan-do di darsi spiegazioni. Questa premessa devo farla,perché non ho nessun interesse a difendere l’aziendaRAI, pur gloriosissima, pur contraddittoriamente fonda-mentale nella crescita di questo Paese, un’azienda riccadi grandissime professionalità tecniche e artistiche.

Da fuori ho visto un’altra cosa rispetto a quantoho sentito dire, oggi, in questa sede. Ritengo la RAI re-sponsabile di una lunga serie di sciagure italiane. Latelevisione ha creato la globalizzazione culturale dicui è diventata essa stessa vittima. È stata prima ideo-logica e poi supinamente organica alle esigenze delmercato. Essa decide i comportamenti e detta i canonidella cultura cosiddetta dominante. La televisione al-fabetizza, ma rende anche ignoranti, ed è molto piùimportante di quanto voi stessi possiate immaginare.Gli alfabeti sono tanti, ce ne sono anche dell’orrore.

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Quando è nata, la televisione ha voluto creare ilcittadino «perfetto». C’era il modello di Bernabei, cheaveva in mente un italiano molto preciso: piccolo bor-ghese, bigotto, ipocrita, razzista e conformista. Le no-vità, anche culturali, dovevano rimanere fuori dal pic-colo schermo. I capelloni sono entrati in TV grazie allatelevisione commerciale che, non obbedendo ad altreideologie se non a quelle del profitto, ha fatto entrarenelle case degli italiani la realtà vera del Paese, che eratenuta fuori perché considerata pericolosa.

L’Italia è uno dei Paesi più ignoranti d’Europa,come dimostrano i dati statistici. I numeri prima citatida Renzo Arbore sono sotto gli occhi di tutti. Siamo ilPaese più sanguinario d’Europa, abbiamo addiritturaquattro micidiali organizzazioni criminali tra le piùpotenti del mondo (‘ndrangheta, mafia, sacra coronaunita, camorra), abbiamo un consumo di prostituzioneche è il secondo nel mondo e coinvolge nove milionidi italiani ogni anno. La nostra natalità è pari a zero.

Ci chiediamo quale sia la relazione di questaItalia, scarnificata e squallida, con la televisione, equanto essa sia responsabile della disgregazione cul-turale italiana. La TV ha certamente creato i connotatidell’Italia attuale, ha finalmente creato una lingua na-zionale, la lingua italiana. Ha alfabetizzato il nostroPaese, ma solo a livello di lingua orale, non della lin-gua scritta, per cui in Italia siamo i peggiori lettorid’Europa di giornali e di libri, perché non siamo stati

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educati alla parola scritta, ma alla parola parlata, cheè sempre aleatoria.

È vero, adesso c’è una lingua unificata, da Aostaa Palermo, per cui tutti si capiscono: è una lingua te-levisiva. Che ha pagato un prezzo, quello di aver can-cellato le minoranze culturali, i dialetti, come è fataleche succeda quando una cultura non si difende ma siimpone. Sto facendo un discorso non ideologico, maculturale: parliamo di etica della televisione, che nonpuò non essere didascalica. Confesso che, nella miavita, dal teleschermo ho sempre visto uscire il peggiodell’uomo, ammantato di buoni sentimenti, di ipocri-sia, di demagogia, di moralismo, di sentimentalismo,di miseria umana. È vero, la TV insegna, ma le ho an-che visto dettare solo cose molto soffocanti. Quandocomparve nei tinelli delle case, i grandi filosofi mon-diali, da Marcuse a Adorno, a Bobbio, si spaventarono,chiedendosi se nelle democrazie la libertà fosse ancorascontata. Questa domanda è stata posta proprio quan-do è nata la televisione, non prima.

Oggi guardo il mondo come se la televisione fos-se superata, vedo altri problemi che arrivano da inter-net, dalla rete, dai blog, da Facebook, dalle contami-nazioni linguistiche, dalla virtualità di second life, cheè il grandissimo problema che si lega all’identità cul-turale sempre più omologante. Aspettiamo di vederecosa succederà.

Dovremo tenere sotto stretta osservazione la no-

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stra indipendenza di giudizio e la nostra libertà. Secompio un gesto non spontaneo, coatto, non sono li-bero. Quando sono convinto di fare liberamente unacosa mentre ne faccio coattamente un’altra, non sonolibero, mi trovo a vivere nella peggiore delle schiavitù.In una società autoritaria si sa cosa si può fare e cosanon si può fare. In una democrazia può succedere difare liberamente il contrario di ciò che si vuol fare nel-la realtà.

E’ quindi necessario dare particolare attenzionealla cultura in televisione. Non intendo dire culturacome genere televisivo, tipo poesia, teatro, libri; quan-do dico cultura intendo ben altra cosa. E’ buona cul-tura fare bene uno spettacolo di intrattenimento comequelli straordinari che fece Renzo Arbore ai suoi tem-pi. È buona cultura fare belle fiction, coraggiose e diqualità. E’ buona cultura mostrare il meglio degli uo-mini, non il peggio, che si vede nel Grande Fratello,nell’Isola dei famosi e nei piagnistei quotidiani delfinto patetismo realistico. False mitologie e sottocultu-ra diventano pane quotidiano dei nostri ragazzi, e ro-vinano l’Italia. La cattiva televisione fa un male spa-ventoso alle nuove generazioni, ai giovani, molti deiquali non si accorgono neppure di sognare cose sba-gliate. E rimangono intrappolati.

Tutti pensiamo che la politica passi attraverso iprogrammi d’informazione, ma non è vero, perchél’informazione televisiva non è veicolata dalle paro-

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le, ci arriva attraverso le immagini. Se il giornalistaannuncia, con la cravatta storta, che c’è stato un ter-remoto con 100.000 morti, quel terremoto non c’èstato. Se si gratta il naso in quel momento, la notiziadiventa un’altra, ha ben altro peso. Le parole, in tele-visione, lasciano il tempo che trovano. Il linguaggiotelevisivo è, appunto, solo visivo. Tutto è fiction.L’operatore bravo che fotografa il terremoto appenaavvenuto, va a inquadrare non i morti per terra, per-ché quelli li abbiamo visti milioni di volte sul tele-schermo, ma la bamboletta spezzata sotto una travecrollata, perché l’immagine è di grande emotività, digrande emozione, induce a immaginare una bambinache cammina con la bambola in braccio, poi cadeuna trave che le spezza la vita gioiosa, l’infanzia. Ilfamoso gabbiano pieno di catrame che non ce la fa asollevarsi è diventato l’ emblema della Guerra delGolfo. Ma è una menzogna mediatica. La bestiola èstata fotografata molti anni prima. Era una bestiolarimasta impastoiata nel carburante fuoruscito dal-l’incidente di una petroliera a largo del Kuwait. In te-levisione è quindi sempre più urgente un’ecologiadell’informazione.

Tutte queste domande forse non dovremmo piùporcele, dato che adesso le cose stanno cambiando;ma è certo che la televisione fa gli italiani più di quan-to noi immaginiamo e, contemporaneamente, anchegli italiani fanno la televisione a misura delle loro

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aspirazioni. E’ il gatto che si morde la coda, perché seil Paese è quello che è, e chiede quello che chiede, tro-va sempre funzionari che danno in pasto agli italianiciò che essi vogliono in superficie e non vogliono nel-le coscienze. L’Auditel è un disastro, che non permettea questo circuito infernale di interrompersi.

Il Servizio pubblico deve rimanere tale. Nonchiedo al Servizio pubblico di fare più cultura in asso-luto, ma di fare più cultura nell’intrattenimento, neitelegiornali, nell‘informazione, anche nel gioco dellescommesse, anche nelle fiction, che sono sempre piùbrutte. Chiediamoci quanta pubblicità la nostra televi-sione abbia fatto alla mafia, con i vari film. Ogni voltache si vede un film con la mafia impariamo che a vin-cere sono sempre i cattivi. Anni fa, Giuliano Montaldorealizzò un film sulla mafia, esattamente sul giocod’azzardo. La mafia mandò un mafioso sul set, un ma-fioso simpatico, allegro che permetteva al regista diparlare tranquillamente male della mafia, ma non do-veva dire che il gioco del Casinò era truccato.Insomma più si parla male della mafia più si fa un fa-vore all’organizzazione criminale. E quanti film dimafia sono passati sui nostri teleschermi. I mafiosi so-no rappresentati come caricature, e così anche i cara-binieri. I film sui carabinieri mi fanno stringere il cuo-re, perché i carabinieri sono migliori di come vengonorappresentati in questi film, dove appaiono zoticoni,stupidi, ridanciani e ridicoli.

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Tutto questo fa molto male, perché offre unarappresentazione del mondo bugiarda. Non è questal’Italia, e gli italiani sono migliori dell’immagine che sidà di loro. La televisione è offensiva, aggressiva evolgare, oltre che estremamente ansiogena. Non vedoaltro che vincere e perdere continuamente soldi, vedomadri che piangono in finti melodrammi. E’ un’ansiacontinua. La RAI non sa più cosa voglia dire il concet-to di “funzione pubblica”, si è messa in gara con la te-levisione privata, e ha dovuto accettare la logica delmercato. Non si è posta nemmeno per un momento ladomanda se sia conciliabile la sua funzione pubblicacon il mercato. Io credo invece che sia “molto” conci-liabile, perché fare buoni programmi fa bene sia almercato sia all’etica pubblica. Per la televisione pub-blica la competizione è uno stimolo, a patto che nonabbandoni i principi fondamentali della qualità, dellacultura, della bellezza. E del senso di responsabilitàche, non dimentichiamolo, è parte integrante della suafunzione civile.

SERGIO ZAVOLI. Sappiamo tutti che Cerami è, in-sieme, uno scrittore e un intellettuale, che non si è li-mitato a segnalarsi per un pensiero originale e unascrittura assai coltivata, ma che ha lasciato molti segnianche con le sue sceneggiature cinematografiche. Ciòche ha detto mi lascia perplesso, poiché con la sua ver-ve polemica sottostima il valore politico, civile e cul-

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turale della Tv di Bernabei, che ebbe invece il meritodi dare alla RAI una visione critica di quella realtà cheCerami richiama con parole giustamente severe.

Ora vorrei ascoltare Paolo Crepet, uno fra gli psi-cologi più famosi del Paese, oltre che uno scrittore esaggista noto e apprezzato.

PAOLO CREPET. Mi ricollego all’idea di libertà dicui ha parlato Cerami. Libertà e libero arbitrio sono le-gati alla capacità e alla possibilità di interpretare la re-altà. Per tanti anni mi sono chiesto come mai in un al-bergo a cento metri da San Pietro non si trovino laBibbia e il Vangelo, ma ad Oslo sì. Un motivo c’è: perduemila anni abbiamo vissuto con l’idea che ci debbaessere un interprete della verità, non una verità chescegli.

Vincenzo Cerami parlava della tradizione orale.Mia nonna andava tutte le sere al Vespro, pregava inlatino e non lo conosceva, non sapeva bene neancheche cosa stesse dicendo, ma si sentiva molto pia emolto religiosa. Il prete sceglieva la pagina delVangelo e non la faceva scegliere ai credenti. Ecco ladifferenza di maturità.

In una cultura che è abituata ad avere il capo-gregge, il servizio televisivo è cosa molto diversa quel-lo espresso in una cultura dove ognuno è invece cre-sciuto con l’idea e la libertà di doversi autonomamen-te scegliere la via della salvezza. Non si trova quindi la

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Bibbia a Borgo Pio, perché chi la vuole deve andaredall’interprete della Bibbia.

Oggi la televisione deve credere nella gente. Nonsono razzista, quindi non ho mai ritenuto che il popo-lo abbia qualità inferiori a chi come me ha due lauree.Credo che alla gente debbano essere dati strumenti diverità. E qui ci troviamo di fronte a un primo proble-ma, perché la televisione inganna. X Factor, ad esem-pio, è un classico esempio di commedia dell’inganno.Nessuno di quei ragazzi o di quelle ragazze funzioneràmai nel mondo dello spettacolo. Lo sanno tutti.Funzioneranno per mezza stagione, per due mesi: manon viene fuori alcun Vasco Rossi e nessuna Mina daX Factor, così come da Amici non viene fuori Nureyev.Lo sappiamo perfettamente, il talento è una cucinalenta, faticosa, dove c’è dolore. Picasso diceva che lagenialità per il 98% è sudore. In quei programmi nonc’è una stilla di sudore, fai quattro mosse, due canti evai. La televisione che illude soprattutto le giovani ge-nerazioni compie un reato gravissimo, che forse nonrientra nel codice penale, ma rientra in quello moraleed etico. Non possiamo vendere questo ai ragazzi, per-ché i ragazzi ci credono. Credono davvero che per rag-giungere il successo basti essere furbi e disinvolti,avere qualche superficiale caratteristica. Ma sappiamoperfettamente che non è così.

La televisione peraltro ha una strana schizofre-nia, perché sul video funziona davvero chi sa. Nelle

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mie comparse televisive ho conosciuto tante ragazzeche erano molto contente di non saper fare niente. Unaera molto nota, la moglie di un famoso cantante pu-gliese. Le ho detto bonariamente che non sarebbe arri-vata a Pasqua e infatti non c’è arrivata, non farà nean-che la Fiera della sposa di Bitonto. Se non sai fareniente, muori. Nella cultura dello spettacolo in realtàc’è un elemento etico per cui va avanti quello che safare. Il regista che fa un buon film, e poi non riesce piùa mantenere quella qualità, muore. Uno scrittore che faun buon libro, e poi non li fa più, muore; come è giustoche sia, perché il potere legato alla visibilità è legatoanche alla qualità delle cose che sai fare, cioè al merito.

La televisione e le masse. Non mi pento affattodi partecipare a trasmissioni molto popolari, dato chemi occupo di cose popolari, che spesso sono tragedie.Da sempre, a partire dai Greci, la tragedia ci interessaenormemente, riempiva allora i teatri, attrae oggi neititoli dei giornali, che non vendono se non mettono inbella evidenza la notizia del pensionato trafitto dalcancello. Mi chiedo perché non imparare dalla grandelezione di Buzzati e non usare i grandi drammi comeesempi metaforici. Parlo della storia di Novi Ligure,che conosco molto bene. C’è una ragazzina che uccidein maniera orrenda la madre e il suo fratellino: è unametafora? Assolutamente. Non sono interessato al-l’aspetto granguignolesco. Vespa fa quello che crede,ma non ho mai capito la casetta di Cogne. Mi interes-

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sava parlare dell’amore/odio, del perché una madreuccide. Esiste la cattiveria senza la psicopatologia. Sì,siamo anche cattivi e dobbiamo capire perché. Questoa me sembra che sia metaforicamente un cavallo diTroia.

La televisione ha un potere che nessun altro me-dium possiede, ossia quello di attirarci al suo interno edi fare esplodere e implodere qualcosa. La grande no-tizia attira l’attenzione e poi devi avere la capacità dileggere l’elemento metaforico. Mi chiedo quindi se-condo quale legge – non certo quella dell’audience –bisogna mettere a commentare fatti di straordinariaimportanza signorine o signorini che non si sa perquale motivo siano lì. Una volta, chiesi a una signori-na perché si trovava lì e lei mi rispose che era lì perchéera una mamma. Quindi una signorina diventa opinio-nista solo perché ha partorito un bambino!

Potrei citare trasmissioni, a cui partecipo, comeLa vita in diretta. Mi chiedo perché dobbiamo parlaredi un problema enorme come l’accettazione o non ac-cettazione dell’omosessualità, ridicolizzandola conqualche starlet del momento, se non per accontentar-ne il manager.

Molti anni fa, lavoravo con Paolo Limiti a unatrasmissione di intrattenimento del mattino, sullaTerza rete dell’epoca. In un incontro con lui suggerii difare un esperimento e parlare di depressione in modoleggero e senza citare gli psicofarmaci. La mattina la

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TV viene seguita da molte donne, alle quali non inte-ressano le ballerine con l’ombelico di fuori, ma inte-ressa la vita (un marito con il quale non si parla daquarant’anni, figli che non si sa dove sono, la vecchia-ia che avanza…). La gente non è cretina: la gente vuo-le cose vere, ma bisogna sapergliele dare.

Credo che la televisione debba essere, ad esem-pio, anche Carmelo Bene che legge Majakovskij, forsenon alle nove di sera, forse in un canale tematico chepreserverà questi «panda» che vogliono emozioni suc-culente. Fortunatamente esiste la tecnologia, per cuisu Youtube si può rivedere Carmelo Bene che leggeMajakovskij nel 1972-73 o l’Inferno, una delle cosestraordinarie che la RAI ha prodotto. Credo che ci sia-no ragazzi che pensano che Majakovskij sia il terzinodell’Inter e Carmelo Bene sia il terzino del Lecce.Eppure Anche su Facebook c’è un mondo giovanileche non è affatto banale. Girano cose di grande quali-tà, appelli molto dignitosi contro la vivisezione e unaserie di cose che agitano il mondo giovanile, per cuiriusciamo anche imparare qualcosa.

Considero possibile fare una televisione di quali-tà, che tuttavia non significa raggiungere un livellointellettuale «alto», ma cercare di spiegare bene alcunecose. Il mio primo maestro, quando gli presentai unlavoro scientifico di venti pagine di cui ero molto fie-ro, mi disse di aver scritto troppo, perché un signoreaveva preso il premio Nobel con dieci righe. Chi cono-

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sce infatti semplifica, mentre chi non capisce usa unlinguaggio complicato che attiene a una certa cultura,ma che è ciarpame, citazionismo, non è cultura assi-milata. Se si sanno le cose, anche quelle più complica-te, si riesce a dirle in maniera piana, che non significabanalizzarle. A un famoso psicanalista, che mi accusa-va di scrivere per le lavandaie, risposi che ne sarei sta-to felicissimo, perché parlo delle cose della vita. Nonvedo quindi perché la televisione, che parla delle cosedella vita, non possa avere anche un linguaggio ade-guato ad esse, che non può essere banalizzato man-dando in video una signorina che non sa niente del-l’argomento di cui parla.

Credo che occorra poi fare qualcosa per tener te-sta alla dittatura degli autori televisivi. Il direttore PierLuigi Celli promosse una iniziativa che purtroppo nonebbe successo, la Green house, una sorta di luogo ovesi incontravano responsabili della RAI e creativi, al fi-ne di proporre nuovi modi di girare un’intervista, diusare tecniche diverse con la telecamera, e così via.Queste persone non erano dei raccomandati e l’ideaera suggestiva. Pensate invece alla devastazione diaver realizzato una trasmissione, che si chiama pro-prio I raccomandati, in un Paese devastato dalle rac-comandazioni…! Evidentemente, vogliamo essere nondiciassettesimi, ma trentaquattresimi nel mondo.

La Green house era un’iniziativa libera, in cuiun giovane che sapeva fare qualcosa poteva avere la

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speranza che la sua proposta fosse ascoltata, studiata erispettata. Siamo sicuri che oggi un grande creativopossa andare in RAI ed essere ascoltato, senza telefo-nate, senza qualcuno che gli apra la porta? Se ciò noncomincia ad avvenire, la RAI non ha speranza: conti-nueremo a comprare dall’Olanda o dagli Stati Uniti,dove il nepotismo non esiste.

La RAI, come è stato ricordato, aveva la terrifi-cante regola che quando un soggetto che vi lavoravamoriva gli subentrava il figlio o un parente. Mi è sem-brata una circostanza da Paese in via di sviluppo quel-la per cui, morto il papà, deve subentrare il figlio, an-che se deficiente, purché porti lo stesso cognome delpadre defunto. Ciò non ha nulla a che fare con la qua-lità, con la coraggiosa voglia di sperimentare qualcosadi nuovo.

Trenta anni fa, abbiamo avuto il coraggio di da-re la telecamera in mano a una persona sicuramentenon amata dalle masse, come Pierpaolo Pasolini, perrealizzare cose straordinarie. Esiste il rischio di esserenoiosi, criptici, ma abbiamo scelto di dare la voce aUngaretti anche se non si capiva cosa stesse dicendoin quelle sue memorabili letture, che rivelano un’emo-tività totale anche dopo 35 anni. Anche questa è spe-rimentazione. Ma tocca i privilegi e le caste.

SERGIO ZAVOLI. Do la parola alla dottoressaGavrila, una ricercatrice universitaria che, tra l’altro,

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ha il privilegio di essere molto giovane, quindi di ve-dere cose molto complesse da un osservatorio moltosemplice. Sono molto curioso di sapere cosa avrà dadirci dopo averci ascoltato.

MIHAELA GAVRILA. L’intervento del presidenteZavoli ha illustrato una lungimirante proposta di unmodello di televisione che induce a riflettere su unaidea di sistema e su alcune prove di settore. La propo-sta di sistema è quella che ci invita a monitorare con-tinuamente la qualità dell’interazione tra l’universodella produzione e quello della fruizione. Non esisteuna produzione, se non vi è un universo della fruizio-ne, piccolo o grande che sia.

Nei suoi 56 anni di storia ufficiale, la televisioneha rappresentato per l’Italia il volano dei cambiamen-ti, a volte propulsore di vere e proprie rivoluzioni nelcostume, nel linguaggio e nel senso comune quotidia-no, nell’espressione dei bisogni e dei gusti. E, proprioper la sua centralità nella vita sociale, culturale e poli-tica del Paese, essa è stata spesso bersaglio di contro-versie e di aspre critiche. Si tratta di prese di posizioneche hanno accompagnato la storia del mezzo e chefanno emergere sempre più l’interesse suscitato tra in-tellettuali, media e opinione pubblica. Segni di crisi ri-petute? Forse. Ma forse anche segnali di riconosci-mento del potere della comunicazione audiovisiva edelle sue implicazioni sociali.

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Ancor oggi, a distanza di più di cinque decenni,continuiamo a porci il problema del ruolo della rinno-vata TV nella vita sociale e culturale, soprattutto incondizioni di crisi economica e non solo. Scorrendovelocemente la storia dell’Italia, emergono sostanzialidifferenze nelle modalità con cui viene elaborato ilrapporto crisi-televisione. Dentro la cornice interpre-tativa di ciascuna delle fasi di sviluppo del mezzo, sipuò individuare un momento che nel dibattito pubbli-co è stato caratterizzato come crisi, cioè rottura, di-scontinuità rispetto al passato.

Dopo una prima stagione di scosse, registratanegli anni settanta, in un periodo, dunque, oscillantetra la tendenziale rivoluzione sociale e l’inizio dellarincorsa di interessi economici, alla fine degli anniottanta siamo invece in un secondo momento di av-vertita debolezza della TV. A differenza della prece-dente crisi, documentata soprattutto dai nessi logicitra fenomeni economici, politici e sociali e attraver-so documenti audiovisivi e giornalistici dell’epoca,questo secondo periodo dà la parola ai pubblici, laragion d’essere di qualsiasi industria culturale e me-diale (secondo l’assunto che non esiste un universodella produzione se non esiste un universo dellafruizione).

Siamo di fronte, infatti, alla prima crisi della TV

certificata dai dati Auditel, cui corrisponde l’inizio diuna transizione basata su quel fenomeno che un lungi-

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mirante libro del periodo definisce trasgressione5. È so-lo l’inizio di un periodo che farà della quotidianizza-zione dell’infrazione televisiva un elemento di routineproduttiva. Anche perché, in quel periodo di crisi delsettimo anno, la trasgressione, accanto all’innovazionenel trattamento dell’informazione, si è rivelata appa-gante. Si rimanda, a titolo esemplificativo, all’ascoltodi Indietro tutta, programma condotto da RenzoArbore e Nino Frassica per Raidue (andato in onda dal14 dicembre 1987 fino al 11 marzo 1988, per un totaledi 65 puntate), che manifesta la sua vena satirica fa-cendo ricorso proprio ai linguaggi e ai contenuti dellatelevisione del periodo, facendo dell’intelligente criticauna TV in crisi di contenuti e di innovazione, una stra-tegia di coinvolgimento del telespettatore.

Quello che accade nell’universo dell’intratteni-mento viene rafforzato dal caso Raitre, la rete più in-novativa del periodo che, nata come Terza rete nel1979 a carattere soprattutto regionale, si è trovata poiin vantaggio, molti anni dopo, nel complessivo riposi-zionamento della propria offerta a livello nazionale.Al di là della specifica forza dei programmi inseriti nel

5 Si tratta del volume di S. Bentivegna e M. Morcellini, L’obbligodel nuovo. Televisione e spettacolo tra innovazione e tradizione,Nuova Eri, Torino, 1989. Per la definizione del concetto di tra-sgressione, cfr. in particolare il capitolo di Mario Morcellini,«Ipotesi e scenari della ricerca».

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rinnovato palinsesto della rete, l’andamento positivoin tutte le fasce orarie fa emergere un interessante ele-mento legato alla reputazione e all’immagine com-plessiva del canale. Dentro questo laboratorio, che tra-sforma la crisi in risorsa del cambiamento, si afferma-no anche quei generi riconducibili alla tv-verità, quin-tessenza di cronaca e fiction, che permettono al tele-spettatore di salire sul grande palcoscenico mediatico,intervenendo direttamente o attraverso il telefono. Èl’epoca di Telefono giallo, Un giorno in pretura, Chi l’-ha visto?, Linea rovente, Samarcanda, trasmissioni chestanno ancora facendo storia – alcune – e che inven-tano la piazza televisiva quale sostituto della piazzadel paese, luogo di condivisione, d’indiscrezioni e dimessa in scena dei sentimenti.

Nel 1996-1997, a dieci anni di distanza, la tele-visione viveva una seconda crisi, seguita da un nuovocedimento delle audience, esattamente dopo un de-cennio, nel 2007. Si tratta quindi di un discorso ricor-rente, caro all’opinione pubblica, che mostra la conti-nua alternanza tra periodi di debolezza e rigenerazio-ne. L’ultimo trend discendente ha preso il via nel2003, ha riscontrato il massimo della depressione nel2007, per arrivare a una ripresa degli ascolti con il2008. A ben vedere, quest’ultima stagione di difficol-tà della televisione è stata accompagnata da una seriedi piccole rivoluzioni sul piano sociale, culturale etecnologico. In particolare, l’ultima stagione della te-

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levisione vede la convivenza tra varie piattaformetrasmissive, con un predominio inequivocabile dellatecnologia digitale.

In Italia, la questione del passaggio al digitaleterrestre è stata spesso affrontata in chiave di moltipli-cazione dei soggetti operanti sul mercato. Dopo de-cenni di pietrificazione causata dal duopolio, societàcivile, imprese e parte del mondo politico iniziano avedere lo spiraglio del cambiamento nei risultati diascolto di Sky, immaginando la replicabilità e il po-tenziamento di quel modello sul digitale terrestre, acarico di operatori neo-entranti. A ben guardare, no-nostante l’evidente allargamento delle opportunità,dovuto in particolare alla moltiplicazione delle reti,sulla piattaforma digitale terrestre i soggetti coinvoltisono sempre gli stessi: RAI, Mediaset, La7 e, ancora ti-midamente, qualche altro operatore.

Una situazione, dunque, che replica, su piatta-forme diverse, quanto affermatosi già da qualche an-no: si mantengono le posizioni di potere, con leggeriscardinamenti di alcuni monopoli di fatto (Sky sul sa-tellite e Mediaset sul digitale terrestre), mentre la RAI

avverte una certa difficoltà nell’accreditarsi quale lea-der di processo se non attraverso l’offerta digitale ter-restre in chiaro, che fa riemergere il Servizio pubblicoquale competitor temibile. Andando ad analizzare leperformance delle reti RAI in chiaro a gennaio 2010, aconfronto con lo stesso periodo del 2009, si osserva

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una evidente differenza in positivo rispetto ai canaliMediaset, soprattutto per quanto riguarda le regioni inemissione all digital. Un Servizio pubblico che viag-gia, dunque, soprattutto sul digitale terrestre in chiaro,attraverso una proposta editoriale più convincente ri-spetto a quella degli altri competitor, che vivono unastagione migliore nelle regioni in cui non è ancora av-venuto lo switch off.

Al problema della diffusione delle infrastrutturetecnologiche e al cambiamento dei consumi e degli stilidi vita bisogna aggiungere l’analisi accurata degli ele-menti di continuità e di rottura tra la vecchia e le nuo-ve TV. A fronte della retorica della sconfitta del genera-lismo si affacciano, anche nel mercato delle “altre” TV,contenuti più che mai aperti alla fruizione di una am-pia platea. Un nuovo mainstream, dunque, che si svi-luppa soprattutto in orizzontale, nella navigazione trale righe della multicanalità. Si tende a parlare del digi-tale come una alternativa alla TV tradizionale, mentre èspesso televisione generalista o semigeneralista visibilesu altre piattaforme, terrestri o satellitari che siano. Ildigitale garantisce anche una risposta in termini diidentificazione della narrazione, quasi una riabilitazio-ne del concetto di genere, perché abbiamo il canale dicinema, il canale per i bambini, il canale all news, etc.In altre parole, è un generalismo diverso, leggibile nonpiù in verticale all’interno dello stesso palinsesto, matra le righe della navigazione con il telecomando. Lo

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zapping ci aiuta a ricostruire il nostro palinsesto gene-ralista navigando da una rete all’altra.

Il nuovo volto della TV, fruita attraverso le variepiattaforme, dovrebbe rispondere a quesiti sociali rima-sti in subordine nell’agenda dei media tradizionali. Sipensa, ad esempio, ad una TV che sia di movimento suicontenuti, cioè che vada ad esplorare i confini dei con-tenuti noti, recuperando il passato e reinterpretandolo efacendolo diventare innovazione in comunicazione6.

Considerando l’ultima stagione, diventa semprepiù opportuno incorporare nelle strategie per il futuroanche quei contenuti multimediali che dovrebbero in-tegrare sempre più la tradizionale offerta televisiva. Èquesta la sede opportuna per insistere insieme alla co-munità di studiosi, critici e professionisti sulla necessi-tà di un allargamento reale, da parte del Servizio pub-blico in particolare, anche ai cosiddetti contenuti col-laterali, interessanti in quanto traino e strumento difidelizzazione dei giovani fruitori.

Una delle questioni considerate “di settore” cheritenevo opportuno almeno tratteggiare è, infatti,

6 L’esperienza dei media universitari rappresenta un esempio diofficina dell’innovazione, in grado di sperimentare e di garantirerisorse creative e di ricerca anche ai principali network nazionali.Questi aspetti sono stati affrontati criticamente nel V IncontroNazionale di Scienze della Comunicazione, dal titolo «Facoltà diComunicare. Radio e tv come laboratorio d’identità», che si èsvolto a Bologna, il 7 novembre 2007.

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quella della debolezza del patto comunicativo tra ilServizio pubblico e i giovani. Se le reti private hannofidelizzato generazioni di fruitori e di elettori attraver-so la semigeneralista Italia1, alla molteplice propostamultimediale della RAI spetta il compito di ricomposi-zione dei pubblici giovani intorno a un’offerta chepossa dare risposte convincenti al bisogno d’informa-zione, d’intrattenimento, d’innovazione del Paese.Anche laddove le nuove generazioni manifestano evi-dente distacco rispetto alla televisione, non è detto chenon si possa rimediare alla distanza, inserendo i con-tenuti prodotti dalle TV e dalle radio di Servizio pub-blico all’interno delle piattaforme più frequentate daigiovani. È un esempio eloquente quello che accade suYouTube oppure nei vari social network di condivisio-ne e di recupero della memoria, anche audiovisiva,dell’Italia e degli italiani. Questa funzione del Serviziopubblico può essere recuperata indagando l’universodei giovani, provando a capire dove siano fuggiti, at-traverso quali piattaforme fruiscano contenuti ancheaudiovisivi, come accade all’interno di YouTube, maanche nella loro tendenza a recuperare contenuti co-me i revival. Questo ci fa capire che i giovani hannobisogno di memoria e che per ragionare e potersi pro-iettare nel futuro hanno bisogno di radici; e ci fa in-tendere che la RAI può garantire questo processo, aiu-tando la ricomposizione delle ragioni identitarie, deimotivi di appartenenza, delle etiche di cui le nuove

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generazioni non sono comunque prive. I giovani siraggruppano intorno ad argomenti ambientalisti, han-no una particolare etica del lavoro, si uniscono perparlare della qualità della vita e del cibo, della pace,dell’amore. Non sono quindi più deboli dei loro padri,da un punto di vista morale ed etico, ma hanno proba-bilmente bisogno di qualcuno, di qualcosa, di un siste-ma, forse anche di uno Stato che possa dare loro unabussola per il ritrovamento di una identità. Penso che,almeno in parte, questa funzione spetti al Serviziopubblico. Ciò può accadere a condizione che i networkdedichino attenzione non soltanto alla quantità dellafruizione, ma anche a come i palinsesti possano di-ventare sapere ed emozione, risorsa di identità, stimo-lo per ricomporre le comunità immaginate.

Bisogna mantenere comunque una dose di di-stacco di fronte all’opinione estrema di alcuni studiosi,che vede nei giovani l’avanguardia di un processoorientato verso una totale sostituzione dell’immagina-rio visuale collettivo, progressivamente emancipatodall’ossessione del video, accasato, per così dire, conla mediazione delle nuove tecnologie, in forme menta-li autonomamente differenziate, ma comunque moltolontane dalla fruizione televisiva tradizionale.

I giovani, costruendo un approccio meno melo-drammatico con le tecnologie, sono destinati ad avvi-cinarsi più facilmente ad una televisione che, almenoda un punto di vista tecnologico, si presenta più com-

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plicata all’accesso. Si tratta non solo del superamentodi una barriera conoscitiva, ma anche dalla rimozionedi tutta una serie di ostacoli temporali: dal diverso in-vestimento in consumi e beni materiali alla necessitàdi razionalizzazione di tempi individuali e sociali.

All’interno di questa zona individuale, forte-mente voluta, anche la TV deve sapere come ritagliarsiil proprio spazio, e riuscirà a entrare solo se saprà pia-cere, se riuscirà a coinvolgere, se riuscirà ad appassio-nare e se, soprattutto, arriverà a porsi, non comeun’imposizione esterna, ma come libero approdo di undesiderio individuale. Attraverso il linguaggio audio-visivo, di forte impatto nell’immaginario e nella sensi-bilità dei giovani fruitori, a prescindere dalla piatta-forma utilizzata per accedere, si potrebbe restituire aigiovani il perduto senso del noi – come direbbe il pre-sidente Zavoli – cioè dell’appartenenza e della parte-cipazione a un progetto di società inclusivo.

E il Servizio pubblico potrebbe così persino reinter-pretare il suo statuto: da quello di semplice “società perazioni” cambiarlo, in un’ottica più evoluta e forse anchepiù redditizia, in quello di “società per azioni sociali”.

SERGIO ZAVOLI. Non le abbiamo chiesto da doveprovenga.

MIHAELA GAVRILA. Sono di origine rumena, ma hostudiato con particolare interesse la televisione italia-na, su cui ho scritto molto.

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SERGIO ZAVOLI. Complimenti!

MARCELLO VENEZIANI. Prometto di essere sinteticoperché scorrono ormai i titoli di coda, con una plateaesausta e decimata. Partirei dal tentativo di tradurre inuna domanda concreta la questione del Servizio pub-blico, chiedendoci se attualmente la RAI migliori laqualità civile e culturale del nostro Paese. A questa do-manda rispondo che, in piccola misura, certamente laRAI ne migliora la qualità civile e culturale. E tuttavia,in misura forse non altrettanto esigua, la peggiora, per-ché oltre a concorrere al degrado qualitativo del Paese,lo incattivisce attraverso programmi livorosi e faziosi.

Si tratta quindi di un quadro non molto confor-tante, come gli interventi precedenti hanno conferma-to. Ho infatti l’impressione che la RAI sia irriformabile,lo dico per esperienza personale, essendo stato consi-gliere di amministrazione della RAI e avendo speri-mentato l’impossibilità di modificare la RAI, ingessatada un triplice busto: quello politico e partitico, ormaiproverbiale; quello del partito RAI, una struttura fossi-lizzata che non accetta modifiche e cambiamenti; e in-fine quello del sindacato, che non garantisce la mobi-lità, la duttilità e la flessibilità di cui ha bisognol’azienda. Questi tre busti rendono impossibile rifor-mare la RAI.

Solitamente, alla politica si attribuisce la respon-sabilità dell’ingerenza pesante nella vita della RAI, il

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che è sicuramente vero, ma credo rappresenti il maleminore. Il vero problema del rapporto tra la politica eil Servizio pubblico radiotelevisivo non è tanto la purnefasta ingerenza che riguarda, per così dire, la bassaportineria, cioè piccoli favori, piccole clientele, piccolipassaggi televisivi e autopromozioni di breve raggio,quanto la latitanza della politica, dal punto di vistaprogettuale, nei confronti della RAI. Dunque, il proble-ma è esattamente opposto: è la politica ad essere pocopresente nel destino della RAI, nel garantire la missio-ne civile e culturale di Servizio pubblico. Il “continen-te politica” non si occupa di cambiamenti strutturalidella RAI, non vuole apportare modifiche strutturali,riforme, mutamenti di linea e di spessore, ma soltantouna maggiore presenza dei propri uomini, dei proprispot pubblicitari, della propaganda spicciola di parte.E’ questo il dato desolante: l’impossibile riformismodella RAI. E credo che questo impossibile riformismocontenga anche l’assenza di un disegno culturale.

Mi sono trovato di fronte all’esperienza di pro-porre progetti che sono stati approvati all’unanimitàdal Consiglio di amministrazione di cui facevo parte,per introdurre programmi culturali, inventare reti spe-rimentali, lanciare compagne promozionali in favoredella lettura, ripensare palinsesti e linee strategiche,avviare tentativi per innalzare la qualità. Vi assicuroche é stata un’impresa impossibile, sia per l’impermea-bilità della RAI ai cambiamenti, sia per l’incapacità se-

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lettiva della RAI di scegliere le persone di maggiore ta-lento, sia infine per un’altra ragione paradossale:quando la TV pubblica inseguiva la TV commercialeattraverso i grandi ascolti e la grande raccolta pubbli-citaria, veniva accusata di berlusconizzarsi; quandoinvece effettuava il processo inverso – come pur ten-tammo di fare – ovvero inserire programmi culturali,si accusava questo tentativo di appiattirsi sulla con-correnza commerciale, di rendere un favore alle retiberlusconiane in termini di ascolti e raccolta pubblici-taria. In un modo o nell’altro non c’era scampo!

Ritengo che le necessità di cambiamento dellaRAI riguardino soprattutto quattro settori. Il primo èemerso durante l’intervento di Renzo Arbore: la ne-cessità che la RAI cominci di nuovo a produrre in mo-do creativo i suoi programmi. L’idea dell’importazionedi format è un avvilente fenomeno di colonizzazionedella RAI che mortifica l’intelligenza italiana, mortificala creatività e le risorse interne. Tutti i tentativi di farnascere laboratori interni, come RAI-Futura che mi ri-guardava direttamente, sono stati prima distorti nellaloro missione e poi sepolti senza pensarci. Ma è quellala strada, ovvero sottoporre nuovi format a una speri-mentazione creativa, cercando di produrre all’internoprogrammi, talenti e idee nuove.

Il secondo settore è la riflessione sulla culturapopolare, ovvero sulla errata convinzione che «cultu-ra» significhi élite e noia, e «popolare» significhi bana-

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le e volgare. Il tentativo di correlare l’espressione cul-turale con l’espressione popolare non è stato fatto per-ché la pressione degli ascolti e della raccolta pubblici-taria, e la necessità di ottemperare a obblighi imme-diati e contingenti, producono effetti non positivi edegradanti per il Servizio pubblico. Qui emerge il di-scorso di fondo della differenziazione delle reti.Quando sento dibattere se occorra inseguire l’audienceo la qualità, mi sembra di sentire discorsi bizantini,perché un Servizio pubblico che gode di una così plu-rale presenza di reti può inseguire i grandi ascolti sualcune reti, la qualità e la cultura su altre, differen-ziando le funzioni e i livelli di intercettazione dei tar-get. Questo discorso invece si conclude sempre a som-ma zero, perché c’è chi tira sull’audience e chi tira sul-la qualità e, come sempre, prevale l’indecisionismo,l’intesa fondata sul disarmo bilaterale, e dunquel’inerzia, che poi è la filosofia di fondo della RAI.

Questo è il vero problema, che ho vissuto da di-pendente RAI, da giornalista RAI e da consigliere RAI, eche vivo tuttora da collaboratore ma anche da spetta-tore. È un problema non risolvibile, se non si scom-mette affidando piena forza decisionale a chi guida laRAI, imponendogli di assumersene la responsabilità al-la fine del mandato. Credo che questa sia l’unica stra-da possibile: non la mediazione infinita per una con-certazione minimale, ma la decisione responsabile percambiare davvero il volto e i contenuti della RAI. Alla

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RAI, invece, non si concepisce la decisione intesa comemezzo e la qualità del servizio intesa come scopo; c’èsoprattutto la concertazione come mezzo e la soprav-vivenza come scopo. Se il fine è la sopravvivenza, laRAI va verso l’estinzione.

Credo sia necessario partire dall’idea della diffici-le riformabilità della RAI, se non vogliamo accettarel’idea della sua impossibile riformabilità. Dopodiché,partendo da questa considerazione, dobbiamo realisti-camente chiedere che ciascuno – dal partito internodella RAI al sindacato della RAI, ai partiti che governa-no indirettamente ma di fatto la RAI – si assuma le pro-prie responsabilità, cercando soluzioni che la salvinoda quel declino graduale, ma inarrestabile, verso cui sista avviando. E’ inutile farsi illusioni se manca un im-pulso reattivo condiviso, se manca l’azione risoluta diuna minoranza costituente posta nelle condizioni ef-fettive di decidere. D’altra parte la RAI in realtà rispec-chia il destino di decadenza che riguarda l’intero Paese.

SERGIO ZAVOLI. Nell’immaginare questo seminario,sia era messo in conto di poterne trarre indirizzi di ti-po creativo, pensando che in quest’aula avremmoascoltato persone consapevoli, serie, colte, con unospirito critico incline ad affrontare la complessità. Ecosì è stato, specialmente quando si sono raggiunti ipunti alti del dibattito.

Quando sento usare toni apocalittici riguardo al

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problema della RAI nel nostro Paese, mi viene semprein mente la frase di un santo, il più laico tra quelli checonosco, non fosse altro per come dal suo laicismo,attraverso la conversione, giunge all’assunzione dellesue responsabilità di uomo dello spirito, oltre che deifatti e della storia: ovvero sant’Agostino il quale dice-va che «da due pericoli, occorre ugualmente guardarsi:dalla disperazione senza scampo, e dalla speranza sen-za fondamento».

Mi pare che la RAI sia stata giudicata con equità.Rimango persuaso che essa sia un grande patrimoniodella cultura, ma stenterei a dire che oggi svolga il suocompito con l’indipendenza e l’impegno di un Serviziopubblico. Si trova, d’altronde, a dover competere controppe cose, a cominciare dalla più intrusiva: la politi-ca. Credo che la politica debba fare un passo indietrorispetto a quella che è stata definita l’«occupazione»della RAI. Un’azienda di quella natura deve potere agi-re in un’autonomia che le consenta di gestire se stessasenza le inframmettenze che la rendono spesso inerte,perché subalterna, dovendo obbedire ad altro rispettoa ciò cui si dovrebbe invece dedicare.

Non di rado, in questa azienda, si è ripetuto il vi-zio di preferire gli ubbidienti ai capaci. È un’espressio-ne forte, ma spero che me la perdoniate. Sono afflittoda tutto ciò che condiziona, e che limita, la consape-volezza e la libertà di chi ancora crede che lavorare al-la RAI significa farlo anche per il nostro Paese.

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STAMPA:Tipografia Print Company S.r.l.

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