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1 Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia Facoltà di Giurisprudenza Corso di laurea Specialistica in Giurisprudenza Tesi in Diritto Industriale La tutela brevettuale delle biotecnologie Relatore: Laureanda: Prof. Giovanni Cavani Carolina Giannini Anno Accademico 2007/2008

La tutela brevettuale delle biotecnologie · Mentre gli studi di genetica diedero origine ad applicazioni di modesta ... Torino, 2006, pp. 3 ss. 8 di animali aventi maggiore resistenza

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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Facoltà di Giurisprudenza

Corso di laurea Specialistica in Giurisprudenza

Tesi in Diritto Industriale

La tutela brevettuale delle biotecnologie

Relatore: Laureanda: Prof. Giovanni Cavani Carolina Giannini

Anno Accademico 2007/2008

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CAPITOLO I

ADATTABILITA’ DEL SISTEMA BREVETTUALE ALLE BIOTECNOLOGIE ED OBIEZIONI DI CARATTERE

ETICO

1. Nozione di biotecnologie e brevi profili storici ……...5

2. Le promesse delle biotecnologie ………………...…...8

3. La tutela delle invenzioni biotecnologiche mediante il sistema brevettuale ……………………..10

4. La liceità delle invenzioni biotecnologiche: l’ordine pubblico e il buon costume come limiti alla brevettabilità ……………………………...…....15

5. Le obiezioni etiche alla brevettabilità delle biotecnologie …………….…………………….…..22

6. La questione etica precede la brevettazione ....……..28

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CAPITOLO II LA REGOLAMENTAZIONE NORMATIVA DEL

BREVETTO BIOTECNOLOGICO

1. All’ origine della brevettazione delle biotecnologie: il caso statunitense Chakrabarty ...…32

2. La situazione europea: la lunga marcia verso la protezione brevettuale dell’innovazione biotecnologica …………………………………......36

3. Ricostruzione cronologica della Direttiva CE n. 98/44 e obiettivi dalla stessa perseguiti ………....41

4. Il contenuto della Direttiva98/44/CE .......................47

5. La posizione interpretativa assunta dalla Corte di Giustizia sulla legittimità della Direttiva comunitaria …………………………………….......58

6. La situazione italiana: la legge 22 febbraio 2006

n. 78 attuativa della Direttiva 98/44/CE …………...61

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CAPITOLO III IL BREVETTO BIOTECNOLOGICO: TRA BREVETTO DI

PRODOTTO E BREVETTO DI PROCEDIMENTO

1. La novità dell’ invenzione biotecnologica ………….74

2. L’ originalità ( o attività inventiva ) .…………...…..80

3. L’ industrialità e il concetto di utility ………………88

4. Il brevetto biotecnologico come brevetto di prodotto ………………………………..………........98

5. Il brevetto biotecnologico come brevetto di procedimento ………………………...……………108

6. “Product by process claims” ………...……………112

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CAPITOLO IV LA BREVETTABILITA’ DEGLI STRUMENTI DI

RICERCA (COSIDDETTI RESEARCH TOOLS)

1. Il difficile rapporto tra scoperta e invenzione nel settore biotecnologico ...……………….………120

2. La brevettazione dell’ intermedio nel settore chimico………………………………………..…...127

3. La brevettabilità degli strumenti di ricerca (cd. reseach tools) con particolare riferimento alle sequenze parziali di geni ...…………………....133

4. “The tragedy of the anticommons” ……...………...141

5. Possibili soluzioni alla cosiddetta “tragedy of the anticommons” ………...…………………….…146

6. Conclusioni …...………………...…………………149

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CAPITOLO I

ADATTABILITA’ DEL SISTEMA BREVETTUALE ALLE

BIOTECNOLOGIE ED OBIEZIONI DI CARATTERE

ETICO

§ 1. Nozione di biotecnologie e brevi profili storici.

Il termine biotecnologie è nato abbastanza di recente ed indica l’insieme

delle tecniche che utilizzano organismi viventi o loro parti, per realizzare o

modificare prodotti, per migliorare le caratteristiche di piante o animali, per

sviluppare microrganismi od organismi destinati ad usi specifici (1).

In altri termini, le biotecnologie comprendono tutte quelle tecniche che

utilizzano o causano mutamenti organici in un materiale biologico, in

microrganismi, piante o animali, oppure determinano mutamenti in materiali

inorganici usando mezzi biologici (2).

Si fa, dunque, riferimento all’utilizzazione integrata di discipline

biologiche ed ingegneristiche per la produzione di beni e servizi, mediante

l’utilizzo di organismi viventi, cellule e loro componenti (3).

Tali tecniche sono state utilizzate dall’uomo sin da tempi remoti, pur non

essendovi una piena consapevolezza in che cosa potessero consistere.

Esempi, seppur rudimentali, di procedimenti biotecnologici sono, infatti,

conosciuti e sfruttati dall’uomo da millenni; si tratta delle cosiddette biotecnologie

tradizionali, ossia tecnologie che si avvalgono essenzialmente dell’utilizzo

dell’attività fermentativa di microrganismi per la produzione di pane, formaggi e

bevande alcoliche, tecnologie per secoli impiegate senza che vi fosse coscienza

circa la vera natura dei relativi processi produttivi (4).

(1) Tale definizione unitaria del termine biotecnologie è stata delineata

dall’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI). (2) Cfr. G. GHIDINI - H. HASSAN, Biotecnologie, novità vegetali e brevetti,

GIUFFRE’, Milano, 1990, pp. 1 ss. (3) Cfr. G. CAFORIO, I trovati biotecnologici tra i principi etici-giuridici e il Codice di

proprietà industriale, GIAPPICHELLI, Torino, 2006, pp. 1 ss. (4) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettuale delle invenzioni biotecnologiche, in

Contr. e Impr., 2000, vol. II, pp. 1231 ss.

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E’ stato necessario, allora, attendere la lenta maturazione della ricerca ed,

in particolare, la seconda metà dell’ Ottocento perché Pasteur ponesse finalmente

lo studio delle tecniche di intervento sulla materia vivente su rigorose basi

razionali e scientifiche, identificando ed isolando l’agente responsabile dei

processi di fermentazione, ossia un organismo unicellulare chiamato lievito (5).

Sempre la seconda metà dell’ Ottocento è ricca di scoperte ed intuizioni

basilari per la moderna biotecnologia, dal momento che Mendel conferisce forma

compiuta alle leggi fondamentali della genetica e della trasmissione ereditaria.

Mentre gli studi di genetica diedero origine ad applicazioni di modesta

portata, dispiegando le proprie potenzialità soprattutto nell’affinamento delle

tecniche di incrocio e ibridazione, la microbiologia trovò fin dall’inizio importanti

attuazioni concrete, dapprima nella razionalizzazione delle tecniche fermentative

in campo alimentare ed industriale, e, in un secondo momento, da Fleming in

avanti, nel settore farmaceutico, con lo sviluppo della produzione di antibiotici e

vaccini.

Di importanza decisiva risultò, però, nell’anno 1953, la scoperta, da parte

di Watson e Crick, della struttura tridimensionale, che suggerì quale potesse

essere il funzionamento della molecola, presente nelle cellule degli organismi

viventi, che conserva le informazioni genetiche ed ereditarie di ogni individuo,

ossia il DNA.

Al termine degli anni Settanta le strade della microbiologia e della

genetica si incrociarono, segnando una cesura tra le biotecnologie che da allora

verranno definite tradizionali, in quanto fondate su una manipolazione della

materia vivente sostanzialmente empirica, e le biotecnologie avanzate, che si

avvalgono delle scoperte sulla struttura del DNA e del perfezionamento delle

tecniche idonee a modificarne le caratteristiche (6).

Le biotecnologie avanzate sono, dunque, tecnologie ad alto contenuto

innovativo e presentano vari campi applicativi, quali la medicina e l’industria

farmaceutica in cui vengono utilizzate per ottenere antibiotici e vaccini utili al

trattamento di svariate malattie, l’agricoltura e la zootecnica in cui le

biotecnologie tendono a realizzare la rapida selezione di nuove varietà di piante e

(5) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, JOVENE EDITORE, Napoli, 2004, pp. 7 ss.

(6) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla Direttiva n. 98/44, GIAPPICHELLI, Torino, 2006, pp. 3 ss.

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di animali aventi maggiore resistenza a parassiti e malattie, e, infine, il campo

energetico in cui le biotecnologie consentono la elaborazione di nuove fonti di

energia (7).

Alla luce di quanto precedentemente evidenziato e in vista del ruolo

centrale assunto dall’intervento diretto sulla genetica del vivente, appare

opportuno specificare ulteriormente quale sia il significato della nozione di

“biotecnologie”, dato che, spesso, in un’ottica generalizzante, lo si utilizza

impropriamente per ricondurre ad unità tecniche sostanzialmente molto diverse

che hanno in comune la sola finalità di indurre un organismo ad esprimere certe

caratteristiche utili a soddisfare bisogni umani (8).

In tal senso, nel novero delle scienze biologiche vengono fatte rientrare

tanto le tecniche di incrocio e selezione di organismi dotati di determinate

proprietà, tanto la stessa creazione ex novo di essi attraverso la manipolazione

diretta del DNA.

Nonostante le tecniche di selezione artificiali si siano molto evolute ed

attualmente presentino livelli di complessità un tempo impensabili e che, a

differenza del passato, implicano un intervento attivo dell’uomo sui processi di

fecondazione incrociata (ibridazione), tuttavia, esse rimangono condizionate

dall’esistenza degli stessi vincoli naturali che sfruttano a fini evolutivi.

Le moderne tecniche di ingegneria genetica, invece, partono da un

presupposto diverso: non lo sfruttamento dei vincoli riproduttivi naturali, ma

l’utilizzo di tecniche assolutamente artificiali ed estranee alla realtà naturale.

Le biotecnologie sono, dunque, concepite proprio per il superamento delle

barriere riproduttive naturali; esse modificano l’assetto genetico degli organismi

attraverso l’introduzione diretta ed artificiale di geni provenienti da organismi

molto diversi, operando proprio per superare i limiti imposti dalla natura allo

scambio genico tra organismi troppo differenti.

Questa risulta essere una differenza sostanziale ed impone che il termine

“biotecnologie” venga utilizzato soltanto per individuare quelle tecniche di

modificazione genetica basate sulla manipolazione immediata del DNA, mentre le

(7) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, cit.,

pp. 1232 ss. (8) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., pp. 12 ss.

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tecniche moderne e tradizionali di incrocio e selezione artificiale saranno

qualificati come meri interventi di ibridazione (9 ).

§ 2. Le promesse delle biotecnologie.

Lo sviluppo delle biotecnologie ha consentito di delineare, negli ultimi

venti anni, scenari di ricerca e campi di applicazione interamente nuovi, con

obiettivi ardimentosi che potrebbero essere prima o poi, almeno in parte, raggiunti

(10).

Le prospettive più allettanti si collocano nel campo della medicina e della

farmacologia dal momento che le biotecnologie consentono di realizzare vaccini e

kit diagnostici, una volta decodificato il genoma dell’agente patogeno(virus,

batterio o altro microrganismo).

Si possono, poi, produrre artificialmente proteine per via biotecnologia

mediante tecniche di DNA ricombinante, ossia tecniche che rientrano nel più

ampio concetto di ingegneria genetica e che presiedono all’unione di tratti di

DNA provenienti da molecole diverse, appartenenti allo stesso organismo o ad

organismi differenti (11).

In particolare, una volta identificata la sequenza di DNA responsabile della

produzione di una data proteina, la si taglia dal DNA e la si inserisce, tramite un

apposito vettore, nel DNA di una cellula recettiva, quale può essere un batterio.

Dopodichè le molecole inserite nel DNA della cellula si replicano come

microrganismi funzionali ed avviano la produzione di proteine; persino lo stesso

batterio può essere coltivato e moltiplicato così da disporre di “una sorta di

(9) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., pp. 13 ss. (10) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, in Trattato di

diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia diretto da F. Galgano, vol. XXVIII, CEDAM, Padova, 2002, pp. 43 ss.

(11) Cfr, G. GHIDINI – H. HASSAN, Biotecnologie, novità vegetali e brevetti, cit., pp. 12 ss.

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laboratorio vivente capace di produrre quantità teoricamente illimitate di quella

proteina, con un grado elevatissimo di purezza e a costi spesso accettabili” (12).

Le biotecnologie promettono risultati straordinari anche in ordine al

trattamento di patologie geneticamente motivate, cioè provocate da errori in uno o

più geni, come nel caso del diabete, dell’emofilia e della sclerosi multipla; pure in

questo campo esiti importanti sono stati già raggiunti, individuandosi il gene o i

geni la cui malformazione provoca la patologia e aprendo la via alla ricerca delle

tecniche di intervento (13).

Prospettive ancora più sorprendenti sono state aperte dal recente sviluppo

nell’area delle cellule staminali, in seguito alla scoperta che cellule di embrioni di

mammiferi possono essere coltivate in vitro così da proliferare indefinitamente in

uno stato indifferenziato; tale ricerca ha, infatti, potenzialità enormi, sia sul piano

della diretta applicazione terapeutica, sia sul piano della individuazione di nuovi

farmaci.

Nell’ambito dell’agricoltura e dell’allevamento, poi, si è reso possibile

offrire nuove varietà di piante e animali più produttive, più nutrienti, più resistenti

a stress ambientali e ad agenti patogeni, capaci di vivere e produrre in condizioni

climatiche diverse da quelle della specie di origine e di fornire prodotti dotati di

una maggiore durata.

Infine, le biotecnologie promettono risultati importanti nei campi della

creazione di nuovi materiali, dello smaltimento dei rifiuti e delle fonti di energia.

Si potrebbero, infatti, ottenere materiali più facilmente biodegradabili,

oppure individuare nuove forme di energia o migliori usi delle fonti utilizzate,

oppure, ancora, si potrebbe incrementare il recupero e il riciclaggio di risorse che

hanno già costituito oggetto di sfruttamento.

In definitiva, “davanti ai grandi problemi del mondo di oggi e di domani,

davanti alla enorme crescita della popolazione umana e dei consumi, alla rapidità

della diffusione delle patologie di origine epidemica, alla riduzione delle risorse

naturali, le biotecnologie, che pure potrebbero agire non positivamente se mal

(12) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un

nuovo diritto dei brevetti, in STUDI DI DIRITTO INDUSTRIALE in onore di Adriano Vanzetti, GIUFFRE’, Milano, 2004, pp. 452 ss.

(13) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un nuovo diritto dei brevetti, cit., pp. 453 ss.

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gestite, promettono di dare un contributo di enorme sollievo alla creazione di uno

sviluppo sostenibile” (14).

§ 3. La tutela delle invenzioni biotecnologiche mediante il

sistema brevettuale.

Come in tutti i campi relativi alla ricerca applicata, anche nel settore delle

biotecnologie è stata sempre viva l’esigenza di riconoscere dei diritti ai ricercatori

e a tutti coloro che, con dispendio di tempo, risorse patrimoniali ed energie

intellettuali, non solo contribuiscono al progresso delle conoscenze scientifiche,

ma mettono a disposizione del genere umano prodotti e ritrovati in grado di

risolvere problemi, con possibilità di sfruttamento industriale assai rilevanti (15).

Tale necessità assume connotati particolarmente evidenti nell’ambito delle

tecnologie avanzate, dove l’ottenimento dei risultati ricercati è strettamente legato

e direttamente proporzionale alla larghezza e alla costanza del contributo

economico, il quale difficilmente avrebbe potuto essere garantito in assenza di una

prospettiva di remunerazione non solo morale (16).

A questo proposito non può considerarsi casuale la circostanza che i

maggiori sviluppi delle invenzioni biotecnologiche attengano a settori

tradizionalmente rilevanti sotto il profilo economico, quali la medicina e la

farmacologia; basti pensare alla realizzazione di kit diagnostici e di vaccini,

oppure alla produzione artificiale di proteine con tecniche di DNA ricombinante.

Le risposte al problema della tutela dell’invenzione biotecnologia si

riconducono alle due soluzioni storicamente più collaudate e immediatamente

disponibili: il segreto industriale e il brevetto. (14) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un nuovo diritto dei brevetti, cit., p. 456.

(15) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla Direttiva n. 98/44, cit., pp. 12 ss.

(16) Cfr. G. SENA, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Riv. dir. ind. , 2000, pp. 71 ss.

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Il segreto aziendale è lo strumento attraverso il quale l’imprenditore cerca

di tenere nascosta ai concorrenti la struttura della sua invenzione, in modo da

impedire che essi possano copiarla (17).

Esso non solo appare malsicuro per l’imprenditore, a causa dei rischi di

copiatura del prodotto e di fuga di notizie dalla propria azienda, ma si rivela anche

potenzialmente pericoloso per la collettività, dal momento che quest’ultima sarà

tenuta a sopportare una prolungata situazione di monopolio laddove

l’imprenditore riuscisse a conservare a lungo il segreto; a ciò si aggiunge, poi, il

pericolo che il segreto sia custodito talmente bene da comportare la perdita

dell’innovazione stessa, visto che il normale strumento di conservazione del

segreto è la comunicazione dell’invenzione al numero più esiguo possibile di

soggetti, al limite, a nessuno.

L’imprenditore che innova e la collettività che è destinataria e fruitrice

dell’innovazione hanno, quindi, un interesse in comune: evitare che la protezione

dell’innovazione sia affidata solo all’incerto regime del segreto aziendale;

preoccupazione, questa, che è alla base dell’istituto del brevetto per

invenzione(18).

Con riferimento, invece, all’istituto brevettale è opinione largamente

condivisa che esso assolva ad una duplice funzione, la quale giustifica la

situazione di monopolio, seppur temporaneo, che esso origina, attribuendo al

titolare un diritto di uso esclusivo in deroga al principio della libertà di

concorrenza.

Si ritiene, infatti, in primo luogo, che il sistema brevettuale costituisca un

incentivo all’attività di ricerca volta alla realizzazione di nuove invenzioni e,

inoltre, all’attività di sperimentazione dell’invenzione che si rende necessaria

dopo la sua realizzazione per giungere al concreto sfruttamento economico del

trovato; la concessione di un diritto di esclusiva compensa, infatti, l’inventore

delle spese sostenute per la realizzazione di un’innovazione tecnologica,

costituendo pertanto uno stimolo alla ricerca, e, al medesimo tempo, lo induce ad

(17) Cfr. A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, GIUFFRE’,

Milano, 2005, p. 318. (18) Cfr. A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit., p.319.

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investire nella sperimentazione necessaria per sfruttare industrialmente

l’invenzione e trarre così profitto dall’esclusiva (19).

Si afferma, poi, in secondo luogo, che il sistema brevettuale, ponendo a

carico del brevettante l’onere della descrizione del trovato, costituisce un

incentivo alla rivelazione delle invenzioni a favore della collettività e uno

strumento di diffusione delle conoscenze tecnologiche (20).

Dall’insieme di questi due fattori dovrebbe discendere una accelerazione

del progresso tecnologico, che costituisce la ratio del sistema brevettuale e la

giustificazione del temporaneo sacrificio del principio della libertà di concorrenza.

In questo contesto, allora, lo strumento brevettuale appare quello

maggiormente in grado di tutelare i diritti sui trovati biotecnologici, grazie alla più

penetrante possibilità di combattere le appropriazioni abusive e alle sue

caratteristiche di temporaneità e pubblicità in grado di non inibire, in ogni caso, lo

stimolo per la ricerca scientifica (21).

Ne consegue che anche per le biotecnologie si utilizza il sistema

brevettuale come strumento di incentivazione della ricerca e di protezione dei suoi

risultati.

Questa risulta in qualche modo la scelta naturale visto che il sistema

brevettuale è stato creato dalla nostra civiltà giuridica proprio per disporre di un

dispositivo di incentivazione e tutela delle innovazioni e che, pur essendo nato in

un mondo in cui il ventaglio delle tecnologie era assai ristretto, ha mostrato di

sapersi estendere, in termini complessivamente accettabili, seppure con varie

modifiche adattive, alle nuove tecnologie che si sono progressivamente affacciate

alla storia (22).

Particolarmente significativo, a questo proposito, risulta l’art. 27 dell’

Accordo TRIPS, il quale pone un divieto di discriminazione di settori tecnologici,

segnalando a tutti gli Stati firmatari l’esigenza che la normativa brevettuale sia

aperta a tutti i settori e non impedisca a nessuno di essi l’accesso al brevetto.

(19) Cfr. F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, in STUDI DI

DIRITTO INDUSTRIALE in onore di A. Vanzetti, GIUFFRE’, 2004, pp. 811 ss. (20) Cfr. F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, cit. , pp. 811 ss. (21) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla

Direttiva n. 98/44, cit. , p. 14. (22) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un

nuovo diritto dei brevetti, cit., pp. 474 ss.

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Sul piano della politica legislativa, studi recenti della questione

brevettuale, coscienti dei dubbi periodicamente ricorrenti in ordine alla capacità

del brevetto di raggiungere effettivamente gli obiettivi prefissati, ossia la sua

idoneità a fungere da strumento di incentivazione della ricerca e di tutela dei suoi

risultati, tendono abbastanza concordemente ad affermare che il brevetto rivela

una effettiva utilità proprio nei settori più innovativi, caratterizzati da costi e rischi

di ricerca elevati, sia nella fase anteriore all’invenzione (come strumento capace

di indurre i ricercatori ad investire nella ricerca che conduce all’invenzione) sia

nella fase successiva all’invenzione stessa (come strumento capace di spingere

l’industria ad investire nella ricerca post-invenzione perché, ultimata la

realizzazione dell’invenzione, si pervenga allo sviluppo di un prodotto

commerciabile) (23).

In questo paradigma, si ritiene, dunque, rientri a pieno titolo il settore della

ricerca biotecnologica.

Con riferimento, invece, al segreto industriale, si è giunti a sostenere che

esso non sarebbe, per le invenzioni biotecnologiche, strumento di protezione

preferibile al brevetto in quanto, a parte ogni dubbio sulla sua effettiva possibilità

di preservare in regime di segretezza l’invenzione biotecnologica, la barriera che

esso crea alla diffusione di informazioni è sicuramente eccessiva per un settore

caratterizzato da elevati ritmi di sviluppo e da grande rilevanza socio-economica,

anche in relazione al fatto che la delicatezza dell’uso delle biotecnologie impone,

se mai, una logica di trasparenza e controllo che è l’opposto del segreto (24).

A ciò si aggiunga il fatto che appare preferibile estendere, ad un settore

che evidenzia un alto tasso di novità e una forte evoluzione in atto, un sistema già

noto, e cercare se mai di aggiustarlo per tentativi ed errori.

Del resto, la scelta del sistema brevettuale non implica la consegna delle

invenzioni biotecnologiche ad un complesso di norme predefinito ed immutabile;

al contrario, l’applicazione di un sistema preesistente ad un fenomeno nuovo

comporta in ogni caso la necessità di aggiustamento, e, peraltro, tali capacità di

adattamento e mutazione il sistema brevettuale ha già mostrato di possedere in

(23) Cfr. G. SENA, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industriali, GIUFFRE’, Milano,

1990, pp. 32 ss. (24) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un

nuovo diritto dei brevetti, cit. , p. 475 .

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grado elevatissimo proprio via via che lo si è esteso a tutela delle invenzioni

realizzate in settori emergenti (25).

La questione relativa alla applicabilità del sistema brevettuale al settore

delle biotecnologie deve, quindi, tenere in considerazione il fatto che le norme

sulla brevettazione non sono realmente adeguate a tutte le invenzioni, specie per

quelle nuove, ossia di recente emersione (26).

Il brevetto si presenta, infatti, come un sistema indifferenziato, applicabile,

cioè, in termini costanti alle invenzioni realizzate in qualsiasi settore della tecnica,

ancorché si tratti di una omogeneità ottenuta faticosamente per estensione di

principi e regole, nati per la disciplina delle invenzioni meccaniche, alle altre

invenzioni appartenenti agli altri settori tecnologici che si sono sviluppati in

progressione temporale, sicchè certe regole e certi principi del sistema delle

invenzioni si rivelano dotati di un campo di applicazione in realtà più ristretto di

quanto non faccia credere la loro formulazione in termini generali (27).

Logico corollario di tutto ciò è che il sistema delle invenzioni proteggibili

con lo strumento brevettuale non è più un blocco monolitico ed indifferenziato,

ma tende ad articolarsi in un corpo centrale, costituito da norme di applicazione

generale, e da più corpi aggiuntivi specificamente ordinati alla regolamentazione

di singoli settori.

D’altronde l’accesso di un settore nuovo della tecnica al brevetto porta

sempre con sé l’emersione di esigenze nuove e, da un lato, richiede la creazione di

regole ulteriori, dall’altro, impone una diversa lettura di quelli tradizionali (28). Ed

è ormai patrimonio comune l’idea che l’evoluzione del sistema brevettuale si è

compiuta grazie alla apertura dello stesso verso settori nuovi che lo sviluppo delle

scienze e delle tecnologie viene a delineare, anche attraverso una progressiva

diversificazione delle regole per i diversi settori.

In questo senso, nella linea di ricerca di un assetto soddisfacente, per

tentativi ed errori, lo studio del diritto dei brevetti biotecnologici viene ad essere

(25) Cfr. V. DI CATALDO, Sistema brevettuale e settori della tecnica. Riflessioni sul

brevetto chimico, in Riv. dir. comm., 1985, I, pp. 277 ss. (26) Cfr. G. CASABURI, Le relazioni pericolose tra etica e biotecnologie, in Riv. dir.

ind. , 2004, I, p.17. (27) Cfr. G. FLORIDIA, Invenzioni biotecnologiche e varietà vegetali, in Atti del

Convegno SISPI su “La brevettabilità delle biotecnologie”, (Milano, 22-23 giugno 1999), p. 22. (28) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, in Riv. dir. ind. , 1999, I, pp. 177 ss.

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non solo lo studio di diritto esistente, ma anche la ricerca di proposte innovative

accettabili (29).

§ 4. La liceità delle invenzioni biotecnologiche: l’ordine

pubblico e il buon costume come limite alla brevettabilità.

L’irruzione delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica nella attuale

realtà economica e culturale ha caricato il tema della liceità dell’invenzione del

compito di fungere da mezzo giuspositivo di controllo etico dell’innovazione

biotecnologica, rendendolo uno snodo argomentativo capitale nei processi di

formulazione ed applicazione del diritto dei brevetti a questo settore (30).

Nell’attesa che maturassero risposte legislative e giurisprudenziali

specifiche alla domanda di temperamento etico dell’innovazione, la verifica della

conformità dell’invenzione, descritta in una domanda di brevetto, all’ordine

pubblico e al buon costume è sembrata lo strumento istituzionale adatto a

rispondere al bisogno di apporre confini a ciò che “la tecnica oramai definiva

fattibile” (31).

Determinante, da questo punto di vista, è stato, allora, l’art. 50 del Codice

della proprietà industriale afferente al requisito della liceità dell’invenzione il

quale, al I comma, recita testualmente che “non possono costituire oggetto di

brevetto le invenzioni la cui applicazione o la cui attuazione è contraria all’ordine

pubblico o al buon costume”.

Risulta, dunque, subito evidente come il legislatore abbia voluto inserire i

due limiti fondamentali dell’ordine pubblico e del buon costume in una norma che

(29) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un

nuovo diritto dei brevetti, cit., p. 476. (30) Cfr. P. SPADA, Liceità dell’invenzione ed esorcismo dell’innovazione, in Riv. dir.

priv. , 2000, p. 5. (31) Cfr. P. SPADA, Liceità dell’invenzione ed esorcismo dell’innovazione, cit., p. 5 ss.

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si potrebbe definire “in bianco”, proprio per i rischi che le invenzioni socialmente

pericolose potrebbero comportare (32).

L’ordine pubblico e il buon costume appartengono, poi, al novero di quei

concetti giuridici aperti che aprono il diritto a fonti metagiuridiche.

Con il rispetto dell’ordine pubblico, in particolare, l’ordinamento tende

sostanzialmente a garantire se stesso, per impedire che vengano violati i punti

nevralgici delle strutture sociali costituite; con il rispetto del buon costume,

invece, si intende evitare che il riconoscimento di valore giuridico agli atti di

autonomia possa degradare nella attribuzione di efficacia giuridica ad un agire

che, pur essendo astrattamente non proibito dalla legge, sia, però, in contrasto con

i cardini essenziali della moralità pubblica (33).

La disciplina brevettuale, dunque, prevede che, anche in presenza di tutti i

requisiti di brevettabilità, la tutela sia preclusa nei casi in cui l’invenzione, dato il

suo oggetto, possa nuocere ad un interesse generale della collettività. L’ipotesi

tipica è quella dell’invenzione con oggetto illecito, tale perché contrario a

specifiche disposizioni di legge o, in generale, all’ordine pubblico o al buon

costume.

E’ interessante, però, notare come la ratio del divieto di brevettazione

delle invenzioni, la cui attuazione sia contraria alla legge, è sempre stata oggetto

di discussione.

Poiché il brevetto non attribuisce un diritto positivo di attuare l’invenzione

ma soltanto un diritto di esclusiva, ossia di vietare a terzi l’attuazione, a prima

vista non sembrerebbe giustificato negare la brevettazione per il fatto che

l’attuazione del trovato sia contrario a certe norme o a principi fondamentali;

l’effetto di un simile divieto, infatti, non sarebbe di vietare l’attuazione

dell’invenzione, ma soltanto di rendere impossibile il conseguimento di

un’esclusiva su di essa (34).

(32) Cfr. A. KAUFMAN, Riflessioni giuridiche e filosofiche su biotecnologia e bioetica

alla soglia del terzo millennio, in Riv. dir. civ., 1988, p. 206. (33) Cfr. G. CAFORIO, I trovati biotecnologici tra i principi etici-giuridici e il Codice di

proprietà industriale, cit. , p. 60. (34) Si veda GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, in Le nuove leggi civili commentate, 2008, pp. 401 ss.

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Lo scopo del divieto di brevettazione pare, dunque, quello di evitare che,

attraverso la concessione del brevetto, venga data anche solo l’apparenza di una

approvazione da parte dello Stato delle invenzioni dannose o immorali (35).

Oggi le biotecnologie avanzate trovano ormai ampia utilizzazione sia per

la ricerca scientifica che per la produzione industriale e, di conseguenza, per

l’invenzione biotecnologica si chiedono le stesse forme di tutela proprie di tutte le

altre invenzioni; tuttavia, anche quando un trovato biotecnologico riesce a

soddisfare i requisiti imposti dal sistema brevettuale, permangono ancora forti le

resistenze e le difficoltà dal punto di vista etico nell’accettare la brevettabilità del

vivente e, spesso, le invenzioni in materia vengono condannate di per sé, per il

solo oggetto che le caratterizza, “al limbo della illiceità”(36).

Ne deriva che l’angolo visuale deve assolutamente cambiare e deve

riacquistare i connotati della neutralità, secondo cui una invenzione in sé non è

necessariamente illecita se implica la brevettabilità della materia vivente.

In sostanza, chiedere una privativa concernente materiale organico non

contrasta automaticamente con il buon costume o con l’ordine pubblico:

idealmente il passaggio da compiere nella analisi della realtà giuridica del brevetto

della materia vivente deve essere quello volto a riscoprire tanto le biotecnologie

quale fenomeno scientifico, quanto gli istituti del sistema brevettuale quali

categorie essenzialmente neutre (37).

Di conseguenza, nell’analizzare le problematiche di bioetica che

presentano le diverse forme di privativa legate alla materia vivente, bisogna porre

al centro della propria riflessione non il trovato in sé, che è categoria neutra, ma

l’applicazione concreta della invenzione biotecnologica, delineando parametri

effettivi attraverso cui valutare la liceità o meno della singola invenzione in

relazione al suo uso.

Deve, perciò, ritenersi che, in mancanza di una espressa norma proibitiva,

non basti una generica avversione morale alla diffusione di certi prodotti, ma

(35) Cfr. R. ROMANDINI, Commentario all’art. 4, legge 22 febbraio 2006 n. 78, in

Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza a cura di Ubertazzi, Padova, 2007, pp. 1376 ss.

(36) Cfr. F. D. BUSNELLI, Opzioni e principi per una disciplina normativa delle biotecnologie avanzate, in Riv. crit. dir. priv., 1991, p. 284.

(379 Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, cit., p. 55.

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occorra una valutazione complessiva ed il più possibile oggettiva

dell’applicazione che del trovato si intende fare.

Infatti, il più delle volte, il vero discrimen tra lecito e illecito è

determinato, non dall’invenzione in sé, ma dalle sue utilizzazioni, circostanza che

evidenzia la relatività di ogni giudizio aprioristico circa la liceità di una

invenzione che prescinda dalle sue rivendicazioni applicative.

E’, quindi, necessario riconquistare la dovuta neutralità dei concetti

giuridici, senza caricarli di funzioni per cui essi non sono adatti e non sono stati

pensati: il brevetto è una realtà giuridica elaborata per favorire il mercato e la

ricerca, non per “educarli” (38).

Le nozioni di buon costume ed ordine pubblico, nell’ottica dei trovati

biotecnologici, devono essere lette per quello che concretamente rappresentano:

norme di chiusura, clausole generali che consentono a chi giudica su un titolo di

privativa una valutazione più ampia e connotata da un certo margine di

discrezionalità.

E’ proprio intorno a questo margine di discrezionalità che si trova il nucleo

della questione: buon costume ed ordine pubblico sono indubbiamente argini etici,

ma riferibili esclusivamente alle questioni palesemente contrarie alla moralità

comune e ai principi cardine del vivere civile.

Ogni teoria, quindi, tesa ad allargare i confini di questa discrezionalità

discendente dal giudizio di conformità all’ordine pubblico e al buon costume

finirebbe per paralizzare la ricerca scientifica in materia di biotecnologie e “per

sconfinare nel politico più che nel giuridico” (39).

Per quanto concerne, invece, la posizione della Direttiva 98/44/CE sulla

protezione delle invenzioni biotecnologiche (40) in punto di liceità

dell’invenzione, il riferimento è all’art. 6 con cui il legislatore ha perpetrato la

tradizione, inaugurata dalle precedenti normative internazionali e nazionali in

materia, di dedicare una norma specifica alla questione etica.

Riprendendo, in tal senso, l’art. 27 comma II dell’Accordo TRIPS e

l’art.53(a) della Convenzione di Monaco, la disposizione in esame esclude

(38) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 61 ss. (39) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit.,p. 63. (40) Vedi cap. 2 par. 4, pp. 47 ss.

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espressamente la brevettabilità delle invenzioni il cui sfruttamento economico sia

contrario all’ordine pubblico o al buon costume.

Le ragioni di tali limitazioni alla brevettabilità sembrano ricollegarsi

all’idea che, in certi campi, la ricerca non debba essere favorita e sostenuta con lo

strumento brevettuale. Tuttavia, non bisogna dimenticare che l’assenza del

brevetto o di una normativa definita non impedisce, di per sé, né la ricerca, né

l’attuazione delle invenzioni che ne derivano e che è sempre difficile negare a

priori l’utilità o il valore di una scoperta o di una invenzione (41).

Al fine di fornire ai giudici un metro di valutazione, il secondo paragrafo

dell’articolo in questione elenca, a titolo esemplificativo, alcuni divieti di

brevettazione derivanti dalla applicazione del primo comma: i procedimenti di

clonazione di esseri umani, i procedimenti di modificazione dell’identità

germinale dell’essere umano, le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali e

commerciali, mentre se ne ammette l’uso per finalità terapeutiche e diagnostiche, i

procedimenti di mutazione genetica degli animali atti a provocare su di loro

sofferenze senza utilità medica sostanziale.

La Corte di Giustizia della Comunità Europea, nell’interpretare la norma

in esame, ha concesso alle autorità amministrative e giudiziarie nazionali

un’ampia discrezionalità, la quale risulta funzionale e necessaria per consentire

alle autorità nazionali di effettuare una valutazione casistica che tenga in

considerazione il contesto sociale, culturale ed etico dello specifico Stato nel

quale viene richiesto il rilascio del brevetto, valutazione che porterebbe a risultati

non necessariamente soddisfacenti se compiuta in termini generali e astratti dal

legislatore comunitario (42).

La Corte, poi, pur attribuendo a ciascuno Stato membro la facoltà di

assegnare ai concetti di ordine pubblico e buon costume il significato e la portata

rivestiti a livello nazionale, esclude il rischio che una simile operazione comporti

gravi divergenze d’interpretazione tra gli stati stessi, ricordando che la contrarietà

all’ordine pubblico dovrebbe essere ravvisata soltanto in caso d’incompatibilità

(41) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 96. (42) Cfr. C. CAMPIGLIO, Brevetti biotecnologici: da Lussemburgo a Strasburgo?, in

Dir. del comm. intern. , 2002, pp. 92 ss.

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insanabile con principi fondamentali e non nei casi di contrarietà con una qualsiasi

disposizione nazionale (43).

Dato che la Direttiva non mira ad uniformare le norme nazionali sul

brevetto ma semplicemente a dettare linee guida per i singoli Stati comunitari e

rimette all’interpretazione nazionale la determinazione del contenuto dell’ordine

pubblico, tale nozione potrà variare da Stato a Stato, con la conseguenza che se lo

Stato presso il quale il brevetto è richiesto rifiuta la concessione per contrarietà

all’ordine pubblico, tale concessione potrà essere ottenuta in uno Stato diverso

con ordinamento più favorevole (44).

Interessante è, poi, il fatto che il legislatore comunitario abbia previsto che

il controllo di compatibilità con l’ordine pubblico e il buon costume debba essere

riferito allo sfruttamento commerciale dell’invenzione; questa formulazione ha,

quindi, l’effetto di attrarre già nella fase della concessione del brevetto la

valutazione delle potenziali conseguenze dello sfruttamento economico

dell’invenzione.

L’enunciato dell’art. 6 della Direttiva è stato, però, tacciato di essere

funzionalmente viziato per difetto, dal momento che se la disposizione è stata

voluta per contrastare l’innovazione biotecnologica moralmente riprovata, il

contrasto risulta debole e rischia di essere controproducente.

Tale contrasto risulta debole perché, stando alla clausola generale dell’art.

6, presupposto del divieto di brevettazione è la contrarietà all’ordine pubblico e al

buon costume dello sfruttamento commerciale dell’invenzione, circostanza che

disincentiverebbe l’investimento nella ricerca applicata da parte di enti profit che

non potrebbero più contare su una remunerazione dell’investimento accelerata

dalla prospettiva di profitti differenziali rispetto a quelli stimabili in regime di

concorrenza (45).

Esso risulta, inoltre, controproducente perché il settore profit potrebbe

affidare al segreto, piuttosto che al brevetto, la tutela dell’interesse alla

remunerazione degli investimenti; tutela precaria ma potenzialmente perpetua e

manifestamente costosa sul piano della circolazione delle conoscenze e, quindi,

(43) Cfr. A. BONFANTI, La brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche legate al corpo umano e la tutela dei diritti fondamentali dell’ uomo, in Bioetica e biotecnologie nel diritto internazionale e comunitario a cura di N. BOSCHIERO, GIAPPICHELLI, Torino, 2006, p. 214.

(44) Cfr. C. CAMPIGLIO, I brevetti biotecnologici nel diritto comunitario, in Dir. del comm. intern., 1999, p. 894.

(45) Cfr. P. SPADA, Liceità dell’invenzione ed esorcismo dell’innovazione, cit., p. 14 ss.

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anche nella prospettiva del controllo etico della ricerca e della sperimentazione

(46).

Infine, in merito ai limiti dell’ordine pubblico e del buon costume posti

alla brevettabilità, viene in considerazione la recente decisione della Camera

Allargata dei Ricorsi dell’ Ufficio Europeo, The Enlarged Board of Appeal (47),

del 27 novembre 2008 relativa al caso WARF.

Nel caso in esame l’ EBoA si è preoccupato di chiarire la questione della

brevettabilità della cosiddetta “WARF application”, ossia di un metodo per

ottenere cellule staminali da embrioni umani.

In particolare, l’organo in questione ha deciso di negare la concessione del

brevetto a quelle invenzioni che necessariamente comportano l’uso e la

distruzione di embrioni umani, basandosi sulle previsioni della Convenzione sul

brevetto europeo e della Direttiva europea sulla protezione delle invenzioni

biotecnologiche (48).

La Convenzione sul brevetto europeo, infatti, non consente la

brevettazione delle invenzioni il cui sfruttamento commerciale risulterebbe

contrario all’ordine pubblico e al buon costume. In aggiunta, la Convenzione

proibisce la brevettazione degli utilizzi di embrioni umani per fini industriali o

commerciali.

(46) Cfr. P. SPADA, Liceità dell’invenzione ed esorcismo dell’innovazione, cit., p. 14 ss. (47) The EBoA rappresenta, nel sistema dell’ EPO, l’ ultimo e il più alto grado di appello,

con il logico corollario che le sue decisioni saranno vincolanti sia per le Divisioni di esame e di opposizione (Examining divisions and Opposition divisions) competenti in prima istanza, sia per le Corti d’ appello (Board of appeals) competenti in secondo grado.

(48) Decisione reperibile all’indirizzo internet www.epo.org/topics/news/2008/20080617.html.

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§ 5. Le obiezioni etiche alla brevettabilità delle biotecnologie.

Le biotecnologie avanzate, vale a dire quelle che utilizzano le tecniche di

ingegneria genetica tanto da distinguerle da quelle convenzionali, ricomprendenti

tutte quelle tecniche “naturali” come la lievitazione o la fermentazione, o anche

processi di ibridazione botanica e zoologica svolti con metodo biologico, sono

fruibili sia per la ricerca scientifica che per la produzione industriale.

Di conseguenza, le biotecnologie sono destinate ad apportare un contributo

fondamentale alla conoscenza delle basi molecolari dei fenomeni biologici e,

quindi, ad un approccio razionale alla protezione e alla cura della salute agendo in

modo integrato su alimenti, farmaci e ambiente.

Le biotecnologie avanzate, dunque, se correttamente utilizzate,

rappresentano uno dei più importanti strumenti a disposizione dell’uomo per

migliorare la qualità della vita; esse non sono più “interessanti tecniche in cerca di

applicazione, ma rappresentano ormai una industria anche se in fase iniziale” (49).

In linea di principio, l’invenzione biotecnologica ha diritto alla stessa

forma di tutela propria di tutte le invenzioni, potendo, l’esclusione del brevetto per

i trovati biotecnologici, essere giustificata solo se sussistono ostacoli giuridici o

etici che necessitano di verifica (50).

Sul piano tecnico-giuridico, infatti, le invenzioni biotecnologiche non

presentano sostanziali diversità rispetto alle invenzioni inanimate, quali quelle

meccaniche, in quanto esse hanno la possibilità di soddisfare i requisiti del

sistema brevettuale: novità, attività inventiva e industrialità.

Ciò non di meno possono esserci resistenze e difficoltà dal punto di vista

etico ad accettare la brevettabilità del vivente, vale a dire del trovato

biotecnologico.

Tra le principali argomentazioni che si adducono contro ogni forma di

incentivo all’ingegneria genetica, vi è il rifiuto di ogni modificazione dell’ordine

(49) Cfr. V. MENESINI – G. CAFORIO, Sistema brevettuale e problemi etici delle

biotecnologie, in Riv. dir. ind. , 1993, pp. 39 ss. (50) Cfr. G. CAFORIO, I trovati biotecnologici tra i principi etici-giuridici e il Codice di

proprietà industriale, cit., pp. 66 ss.

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precostituito; in altri termini, si dichiara illecita ogni modifica dello “Status

Naturae” (51).

In realtà questa tesi appare una formula non consapevole della storia

dell’umanità, con il risultato di porre un rifiuto pregiudiziale a tutto ciò che apre

nuove incognite per il futuro dell’uomo.

Se si riflette sul fatto che, ormai da millenni, l’uomo modifica

costantemente il corso naturale delle cose, è fin troppo evidente che se si vuole

trovare un criterio per la determinazione del lecito e, quindi, del brevettabile in

campo biotecnologico, esso si deve ricercare altrove, in quanto il criterio che

dichiara l’illiceità di tutto ciò che modifica lo Status Naturae non è di per sé

soddisfacente.

Parametro di giudizio determinante per l’analisi della liceità dei trovati

geneticamente modificati diventa, invece, quello del rispetto della dignità umana.

Il progresso della ricerca nel campo delle biotecnologie applicate al corpo

umano suscita numerosi dubbi etici, con particolare riferimento alle conseguenze

potenzialmente incompatibili con la tutela dei fondamentali diritti umani

coinvolti; l’intervento sul patrimonio genetico umano e il ricorso a procedimenti

biotecnologici possono, infatti, risultare estremamente utili nella cura di malattie,

di disturbi ereditari e di processi di degenerazione o alterazione di cellule e geni

ma, al tempo stesso, attribuiscono alla scienza la potenziale capacità d’influire

sulla cosiddetta “lotteria genetica” e d’impostare l’evoluzione della nostra specie

sulla base di criteri eugenetici (52).

Il settore delle biotecnologie mirato ad interventi sul corpo umano si

presenta, dunque, come quello che, per la prima volta, ha posto direttamente a

confronto i diritti che nascono da un’invenzione industrialmente utilizzabile e la

più intima struttura del corpo umano.

La densità problematica del rapporto fra diritto di brevetto e dignità della

persona ha inevitabilmente fatto sì che ad esse siano stati attribuiti significati

opposti.

Per un verso, infatti, esso è stato percepito come uno strumento in grado di

aprire orizzonti nuovi all’attività inventiva degli uomini e, in particolare, di offrire

(51) Cfr. KAUFMAN, Riflessioni giuridiche e filosofiche su biotecnologia e bioetica alla soglia del terzo millennio, cit., p. 212.

(52) Cfr. A. BONFANTI, La brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche legate al corpo umano e la tutela dei diritti fondamentali dell’ uomo, cit., p. 199.

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ad essi nuove occasioni per affermare la propria dignità, a vantaggio della

profittabilità delle imprese biotecnologiche e a beneficio del benessere generale

dell’umanità (53).

Per altro verso, quello stesso settore conferisce opportunità tecniche di

realizzazione ad attività che, secondo importanti indirizzi della coscienza

collettiva, sono percepite come distruttive delle condizioni essenziali richieste per

garantire un’uguaglianza minima tra tutti gli uomini e, dunque, la possibilità

stessa della convivenza sociale (54).

Secondo i termini attuali del dibattito scientifico in materia, sono

sicuramente escluse da ogni forma di tutela brevettuale le invenzioni riguardanti

l’essere umano in quanto tale o che potrebbero modificare l’identità genetica

dell’individuo.

Tutte le proposte di normativa nel settore delle biotecnologie, in ambito

comunitario, quanto nazionale, hanno sottolineato che l’esclusione della

brevettabilità dell’essere umano e la protezione della sua integrità genetica fanno

parte della difesa dell’integrità e della dignità della persona umana, principio

riconosciuto dall’ordinamento giuridico comunitario come facente parte dei diritti

fondamentali il cui rispetto è assicurato (55).

Adottare quale principio-guida il criterio del rispetto della dignità umana è

sicuramente opportuno, senza tralasciare, però, il rischio concreto che ciò

comporta e, cioè, quello di ridursi ad operare con una nozione di ordine generale

dai confini estremamente ampi, nozione sottoposta, di conseguenza, all’alea di

valutazioni soggettive.

Da più parti, di conseguenza, si è cercato di individuare un contenuto

minimo di tale concetto, un fondamento solido su cui costruire forme di tutela più

elaborate. Tale contenuto minimo, in riferimento alle tecniche di ingegneria

genetica, è stato individuato nel divieto di modificare le caratteristiche

(53) Cfr. G. STAMMATI, La dignità della persona umana e il diritto di brevetto, in Il

Dir. ind. , 2001, p.117. (54) Cfr. G. STAMMATI, La dignità della persona umana e il diritto di brevetto, cit., p.

118. (55) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 64 ss.

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fisiologiche e biologiche dell’uomo e nel riconoscimento del diritto

all’individualità genetica di ogni essere umano (56).

Il rispetto della dignità umana, diritto inviolabile che costituisce la

condizione per il riconoscimento del valore intrinseco dell’essere umano, si

esplica, quindi, in campo biomedico, nel rispetto di altri diritti, come quelli

all’integrità e all’inviolabilità del corpo (57); il rapporto tra l’individuo e il proprio

corpo deve essere letto in termini di libertà corporale e di diritto

all’autodeterminazione, visto che ogni intervento sul corpo umano è, in linea di

principio, condizionato al previo ottenimento del consenso libero ed informato.

Il diritto all’integrità fisica, tuttavia, non è assoluto: il suo esercizio non

può condurre ad autorizzare la sottoposizione a trattamenti contrari e lesivi della

dignità umana e a trattamenti e tecniche espressamente vietati.

Primaria importanza assumono, dunque, l’art. 21 della Convenzione sulla

biomedicina e l’art. 3 della Carta dell’Unione Europea, i quali prevedono che, al

fine di garantire il rispetto della dignità umana, sia necessario che il corpo non

costituisca fonte di profitto.

Tale impostazione è stata, poi, confermata dall’art. 4 della Direttiva

98/44/CE, il quale esclude dalla brevettabilità “il corpo umano, sin dal momento

del concepimento e nei vari stadi del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno

degli elementi del corpo stesso, ivi compresa la sequenza o la sequenza parziale di

un gene, al fine di garantire che il diritto brevettale sia esercitato nel rispetto dei

diritti fondamentali sulla dignità e l’integrità dell’essere umano”.

Ne deriva un divieto di brevettazione relativo non solo al corpo umano nel

suo complesso ma anche ai suoi singoli elementi, ivi compresi i geni e le sequenze

parziali di geni, realtà che divengono, invece, brevettabili quando di esse sia

indicata un’applicazione industriale, dovendo essere considerate in tal caso non

più come mere scoperte, come realtà meramente conoscitive, ma come vere e

proprie invenzioni che apportano una qualche utilità concreta sfruttabile

industrialmente.

Alla base del divieto non vi sono motivazioni etiche assolute, bensì

l’esigenza di non monopolizzare le parti del corpo umano, ostacolando così la

(56) Cfr. G. CAFORIO, Le invenzioni biotecnologiche nell’unità del sistema brevettuale, GIAPPICHELLI, Torino, 1995, p. 50.

(57) Cfr. C. CAMPIGLIO, Brevetti biotecnologici: da Lussemburgo a Strasburgo?, cit., p. 187 ss.

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successiva ricerca, se di tali parti non siano state individuate utilizzazioni

industrialmente utili (58).

A differenza del corpo umano nel suo complesso, una parte staccata è,

infatti, suscettibile di sfruttamento industriale lecito, purchè non offenda i diritti

fondamentali alla dignità e alla integrità della persona e il principio di non

commerciabilità del corpo umano; la brevettabilità della parte staccata del corpo

umano non pregiudica, quindi, il divieto della brevettabilità del corpo umano nel

suo complesso.

Oggi, poi, la brevettabilità delle invenzioni ottenute tramite tecniche di

ingegneria genetica è rimessa ancora una volta in discussione, non solo per

ragioni etiche, sintetizzate dalle nozioni di ordine pubblico e buon costume, ma

per una accresciuta riflessione intorno alla questione della cosiddetta biodiversità

(59).

La biodiversità, termine relativamente recente coniato per definire la

varietà delle forme viventi sulla Terra, è di importanza fondamentale poiché dalla

sua conservazione dipende il mantenimento dell’equilibrio ecologico del pianeta

e, dunque, la sopravvivenza della nostra specie.

Conseguenza della biodiversità è la distribuzione delle ricchezze naturali

nelle diverse aree del pianeta: essa esprime, in sostanza, il complesso di quelle

risorse genetiche che non esistono in natura in ogni parte del globo.

In particolare, per quel che concerne le problematiche connesse alle

biotecnologie ed ai trovati di ingegneria genetica, tale nuova scienza tende ad

annullare le biodiversità, poiché consente di riprodurre artificialmente “beni

naturali” tipici di qualsiasi zona del pianeta indipendentemente dalla collocazione

nell’ambiente originario.

Tali operazioni di “appropriazione artificiale del naturale” sono spesso

compiute dalle realtà nazionali più industrializzate a discapito di quelle più povere

che si vedono private, al contempo, di uno dei motori principali della loro

economia e, soprattutto, del patrimonio biologico che caratterizza ogni paese (60).

(58) Si veda GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 398. (59) Cfr. V. MANESINI – G. CAFORIO, Sistema brevettuale e problemi etici delle

biotecnologie, cit., pp. 39 ss. (60) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 67.

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É evidente, infatti, che la possibilità per le grandi multinazionali che

operano nel settore delle biotecnologie di assicurarsi ampie privative su intere

specie viventi può comportare incalcolabili squilibri economici e danni per

l’intera umanità (61).

Secondo una tale impostazione lo sviluppo delle biotecnologie e la

condivisione dei benefici derivanti dallo sfruttamento dei brevetti biotecnologici

può influenzare l’attuale equilibrio dei poteri tra Nord e Sud del mondo.

Le risorse biologiche si concentrano, infatti, nelle regioni del Sud del

mondo, mentre i paesi del Nord posseggono le tecnologie adatte a valorizzare in

termini economici, attraverso la produzione industriale, dette risorse. In altri

termini, la diversità biologica, di cui è ricco il Sud del mondo, rappresenta oggi

“la materia prima” dei prodotti geneticamente modificati dell’industria agro-

chimica e farmaceutica sviluppatasi nei paesi industrializzati (62).

Il dibattito scientifico ha, però, evidenziato il minore potere dei cosiddetti

paesi in via di sviluppo nel far rispettare i propri diritti di sovranità nazionale nei

confronti del potere privato delle imprese biotecnologiche, essendo questi paesi

non sempre in grado di controllare lo sfruttamento da parte di soggetti stranieri

delle proprie risorse biologiche (63).

Una soluzione ipotizzabile, allora, per tutelare le biodiversità potrebbe

rinvenirsi nel sistema delle licenze obbligatorie: almeno per determinate categorie

di trovati biotecnologici, dovrebbe, dunque, prevedersi in capo al titolare del

brevetto l’obbligo di concedere, attraverso una licenza, chiaramente onerosa, la

possibilità di utilizzare l’invenzione in quelle aree geografiche in cui il trovato

biotecnologico non trova applicazione industriale.

Il sistema delle licenze obbligatorie consentirebbe di conciliare gli

interessi dei paesi possessori delle risorse biodiverse a non essere impoveriti,

privati di una delle maggiori fonti di sostentamento, e le esigenze legate allo

sfruttamento del patrimonio genetico dell’umanità, componendo così in una

(61) Cfr. A. BERGHE’ LORETI – L. MARINI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, in Il nuovo diritto dell’Unione Europea, 1998, pp. 773 ss. (62) Cfr. C. SIGNORINI, I diritti di proprietà industriale in materia di biotecnologie e la

tutela della biodiversità, in BREVETTI E BIOTECNOLOGIE a cura di G. GHIDINI – G. CAVANI, LUISS UNIVERSITY PRESS, 2006, p. 179.

(63) Cfr. C. SIGNORINI, I diritti di proprietà industriale in materia di biotecnologie e la tutela della biodiversità, cit., p. 179.

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dimensione più ampia possibile l’interesse delle imprese che utilizzano tali risorse

con l’interesse sociale.

§ 6. La questione etica precede la brevettazione.

La bioetica, a ben vedere, non può valutare in via presuntiva la liceità o

l’illiceità delle biotecnologie e, di conseguenza, la loro tutela brevettuale, essendo

biotecnologie e sistema brevettuale concettualmente neutre.

La bioetica, da parte sua, deve occuparsi dell’applicazione tecnica dei

trovati biotecnologici, stabilendo i parametri attraverso i quali valutare la liceità o

meno della singola invenzione biotecnologica in riferimento al suo uso (64).

Peraltro è da considerare che, come per altri problemi posti dalla

tecnologia moderna, il punto focale della questione non è rappresentato dalla

tecnologia in sé, ma dalla sua applicazione scorretta; la regolamentazione

normativa non deve, quindi, essere diretta nei confronti della ricerca in quanto

tale, bensì nei confronti delle specifiche applicazioni della stessa e delle persone

ed istituzioni di essa responsabili.

Ne deriva che la disciplina dei brevetti non ha, di per sé, interferenze

dirette con i problemi etici, i quali, sebbene effettivamente sussistenti, attengono

in realtà alla attuazione pratica dell’invenzione e non riguardano né la ricerca, né

l’istituto brevettuale in sé considerato (65).

D’altronde la stessa Direttiva comunitaria non si occupa della eticità delle

invenzioni biotecnologiche, né ha l’obiettivo di discernere la liceità o l’illiceità di

certe metodologie e conseguenti pratiche manipolative; essa si occupa solo del

lecito sfruttamento commerciale delle tecniche di ingegneria genetica, limitandosi

a fissare i presupposti per il riconoscimento dei relativi diritti di proprietà

industriale.

(64) Cfr. V. MANESINI – G. CAFORIO, Sistema brevettuale e problemi etici delle biotecnologie, cit., p. 39.

(65) Cfr, G. CASABURI, Le relazioni pericolose tra etica e biotecnologie, cit.,p. 29.

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La Direttiva si limita, cioè, a stabilire in quali circostanze lo studio e la

ricerca scientifica condotta su materiale vivente possa essere brevettabile,

demandando agli stati membri la questione di regolamentare ed indirizzare la

stessa attività di ricerca verso obiettivi e con modalità rispondenti ai principi etici,

morali e di buon costume condivisi in ciascun paese. Così l’espresso divieto sulla

brevettabilità dei procedimenti di clonazione di esseri umani, dei procedimenti di

modificazione dell’identità genetica dell’essere umano, delle utilizzazioni di

embrioni umani a fini industriali o commerciali opera solo a valle, in sede di

rilascio del brevetto, ma non costringe gli Stati membri, in sede di recepimento

della Direttiva, a porre, a monte, un divieto generale di svolgimento dell’attività di

ricerca nei richiamati settori (66).

Il brevetto rilasciato conformemente ai principi della Direttiva, quindi, di

per sé è neutro, come neutra è la soluzione: sarà il modo in cui quella soluzione,

quel brevetto saranno impiegati a violare qualche altro divieto (67).

Così il considerando 14 enuncia che: “un brevetto di invenzione non

autorizza il titolare ad attuare l’invenzione, ma si limita a conferirgli il diritto di

vietare ai terzi di sfruttarla a fini industriali e commerciali e, di conseguenza, il

diritto dei brevetti pare non poter sostituire né rendere superflue le legislazioni

nazionali, europee o internazionali che fissino eventuali limiti o divieti, o

dispongano controlli sulla ricerca e sull’utilizzazione o sulla commercializzazione

dei suoi risultati, con particolare riguardo alle esigenze di sanità pubblica,

sicurezza, tutela dell’ambiente, conservazione della diversità genetica”.

Il fatto che le invenzioni biotecnologiche siano coperte da brevetto non

impedisce, quindi, la previsione di divieti che possono colpire la realizzazione o la

commercializzazione dell’invenzione stessa.

D’altro lato l’assenza del brevetto non preclude, di per sé, né la ricerca né

l’attuazione delle invenzioni che ne derivano.

Così, in forza della Direttiva, gli Stati membri non sono tenuti ad impedire

sperimentazioni sugli embrioni e sulle cellule staminali: se intendono inibirne lo

svolgimento e monitorare l’evoluzione della ricerca scientifica devono introdurre

ulteriori espresse norme di divieto.

(66) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, cit., pp. 1287.

(67) Cfr. MENESINI, Le invenzioni biotecnologiche fra scoperte scientifiche, applicazioni industriali, preoccupazioni biologiche, in Riv. dir. ind. , 1999, I, p. 209.

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Al più, quindi, in ultima analisi, il problema etico, quanto alla

brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche, attiene alla compatibilità etica del

regime di privativa quale regime di produzione professionale.

Ciò presuppone che l’invenzione biotecnologica abbia già superato il

vaglio etico della ricerca applicata, della sperimentazione e della modalità

imprenditoriale della produzione di beni e servizi dotati di plusvalore tecnico

riconducibile ai risultati della ricerca.

Altro è vagliare la compatibilità etica di una data ricerca e altro è

interrogarsi sulla applicazione sperimentale delle tecniche scaturite dalla ricerca,

passare, cioè, da un’attività conoscitiva ad un’attività pratica; altro è chiedersi se

sia eticamente accettabile produrre professionalmente beni o servizi innovativi ed

altro ancora come produrli, se sia, cioè, eticamente indifferente il regime della

produzione ovvero se la compatibilità etica debba concedersi ad uno o altro

regime soltanto (68).

Potrebbe così darsi che la produzione professionale di un dato bene o

servizio innovativo sia eticamente accettabile solo se deconomicizzata; ovvero che

lo sia solo se riservata ad una figura soggettiva pubblica; o, al contrario, a

condizione che il mercato del bene o del servizio in parola sia più o meno

accentuatamente concorrenziale (69).

I problemi reali risultano, allora, prima ancora che etici, di carattere

politico, e attengono ai controlli pubblici sulle tecniche biotecnologiche.

Da questo punto di vista la pur contestata scelta del regime brevettuale va

valutata in termini sicuramente positivi: il brevetto costituisce, mediante

l’attribuzione del diritto esclusivo, uno strumento di più agevole controllo di

coloro che, mediante il brevetto, sono censibili come titolari di biotecnologie

brevettate. Il timore che possano diffondersi in natura organismi che non abbiano

superato il vaglio della selezione naturale può non essere ingiustificato, e tuttavia

esso non può essere “esorcizzato” negando cittadinanza al brevetto biotecnologico

(70).

Tornando al limite etico, un sicuro criterio di interpretazione è offerto dal

rilievo secondo cui “quando vi è conflitto tra principi etici e regole di mercato

(68) Cfr, G. CASABURI, Le relazioni pericolose tra etica e biotecnologie, cit.,pp. 29 ss. (69) Cfr. P. SPADA, Liceità dell’invenzione ed esorcismo dell’innovazione, cit., p. 6. (70) Cfr. FLORIDIA, Invenzioni biotecnologiche e varietà vegetali, cit., p. 23.

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perché si possa avere raccordo non è sufficiente la prevalenza dei primi, ma è

necessario che le modalità di realizzazione in concreto di tali principi siano quelle

che comportano il minor sacrificio in termini di efficienza allocativa” (71).

Né può trascurarsi che accanto all’etica del non fare, del noli me tangere,

vi è quella del fare, la quale induce a guardare “almeno con un prudente

ottimismo” (72) le prospettive offerte all’uomo dalle innovazioni biotecnologiche.

Un ruolo fondamentale nella individuazione di un preciso contenuto del

precetto in esame sarà, senz’altro, offerto dalla giurisprudenza che, invece, a

tutt’oggi, almeno in Italia, è la “grande assente” nel dibattito giuridico sulle

biotecnologie, ciò verosimilmente anche perché la mancanza di una normativa di

riferimento ha sconsigliato il formarsi di un contenzioso giudiziario, implicante

sempre questioni complesse e di notevole rilievo economico.

(71) Cfr. RICOLFI, Bioetica, valori e mercato. Il caso del brevetto biotecnologico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 635.

(72) Cfr, G. CASABURI, Le relazioni pericolose tra etica e biotecnologie, cit.,p. 31.

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CAPITOLO II

LA REGOLAMENTAZIONE NORMATIVA DEL

BREVETTO BIOTECNOLOGICO

§ 1. All’ origine della brevettazione delle biotecnologie: il

caso statunitense Chakrabarty.

Storicamente il problema della brevettabilità nel settore biotecnologico è

emerso con forza in ambito statunitense grazie al caso Chakrabarty.

Negli anni Settanta del ventesimo secolo Ananda Chakrabarty,

microbiologa indiana residente negli USA, che lavorava per General Electric,

utilizzando quattro ceppi diversi di batteri realizzò, con tecniche di ingegneria

genetica, un nuovo ceppo di batteri capace di scindere catene di idrocarburi,

rendendo così il petrolio grezzo biodegradabile in acqua marina, con evidenti

vantaggi per l’ambiente; il nuovo batterio, infatti, riunendo in sé le capacità

operative di quattro ceppi preesistenti, prometteva la disponibilità di un potente

strumento di disinquinamento (73).

Il 7 giugno 1972 Chakrabarty chiese il rilascio del brevetto per il suo

nuovo batterio, denominato Pseudomonas, al Patent Office statunitense, il quale

rigettò la domanda dopo aver rifiutato parte delle rivendicazioni riconducendole a

meri prodotti della natura, “products of nature”, e richiamandosi al § 101 dell’art.

35 U.S.C. che espressamente li escludeva dalla brevettabilità (74).

Tale articolo sancisce espressamente : “Whoever invents or discovers any

new and useful process, machine, manufacture, or composition of matter, or any

new and useful improvement thereof, may obtain a patent therefore, subject to the

conditions and requirements of this title”.

Innanzitutto, allora, l’oggetto su cui si concentra il lavoro inventivo deve

rientrare nell’ampia nozione di “statutory subject matter”, di “materia legalmente

(73) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un

nuovo diritto dei brevetti, cit., p. 444. (74) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 214.

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prevista” : dovrà potersi qualificare, cioè, come “process, machine, manufacture,

composition of matter “ oppure come “new and useful improvement” di questi.

In tal senso, la Supreme Court ha ritenuto che un “living organism”, in

circostanze appropriate, possa essere considerato una “composition of matter”,

oppure un “article of manufacture” ex art. 35 U.S.C. § 101, ma, al contempo, non

ha “overruled” l’insieme del case law relativo all’impossibilità di attribuire titoli

di privativa sui “products of nature”.

Ed è proprio sulla base di queste considerazioni che il Patent Office negò

che potesse considerarsi invenzione brevettabile una entità vivente, seppur nuova.

Contro il rifiuto opposto dal Patent Office, Chakrabarty propose appello

presso il Board of Appeals, il quale, con decisione resa il 20 maggio 1976,

confermò l’orientamento assunto dall’Examiner.

In sostanza, il rifiuto si fondava principalmente su due ordini di motivi:

l’assimilazione dei batteri geneticamente modificati a mere mutazioni naturali e la

paura, con una decisione favorevole, di aprire la via della brevettabilità ad una

serie indefinita di materiali biologici (75).

Peraltro, il Board of Appeals concordò con Chakrabarty rispetto

all’assunto secondo cui i batteri rivendicati non dovessero essere considerati dei

semplici “products of nature” ; risultava, infatti, che il batterio Pseudomonas,

contenente due o più plasmidi diversi generatori di energia, non si trovava

spontaneamente in natura.

Il Board, ad ogni modo, ritenne che la seconda “reason” di rifiuto delle

rivendicazioni fondata sul § 101 dell’ art. 35 U.S.C. fosse sostanzialmente

corretta: “they are drawn to live organisms and do not fit any of the categories of

patentable subject matter as defined by 35 U.S.C. § 101” (76).

I batteri, dunque, non erano una “statutory subject matter”; essi dovevano

essere considerati come non brevettabili poiché il Congresso non li aveva mai

presi in considerazione in nessuno specifico “act” che espressamente ne sancisse

la brevettabilità.

(75) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 219. (76) Cfr. W. F. EBERLE, Bergy, Chakrabarty and Flook: is a “ living” Article of

Manufacture patentable Subject Matter under 35 USC § 101? , in Intellectual Property Law Review, 1979, pp. 381 ss.

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Il 25 marzo 1979, nonostante un primo pronunciamento negativo, la Court

of Customs and Patent Appeals si pronunciò in senso contrario, annullando la

decisione del Patent Office.

Secondo la CCPA non vi era alcun divieto generale relativo alla “living

matter” tale da giustificare una esclusione della applicazione dell’art. 35 U.S.C. §

101.

La decisione della Court of Customs and Patents Appeals del 1979 faceva

luce, quindi, su alcune delle ambiguità registrate negli anni precedenti, a livello

giurisprudenziale, circa l’utilizzo del termine “invention”.. Si chiarì, in

particolare, che una invenzione può avere come oggetto una materia rientrante

nelle previsioni dello “statute”, ma essere al contempo priva di qualsiasi utilità o

del tutto ovvia. Qualsiasi invenzione, inoltre, può essere rivendicata come un

manufatto (manufacture), un composto della materia (composition of matter),

come un processo per la realizzazione di un prodotto (process utilizing the

product in some way enunciated) : tutte queste forme di rivendicazione, però, se

distinte in teoria, possono riferirsi in pratica al medesimo oggetto inventivo (77).

L’importanza della decisione fu confermata, nel 1980, da una pronuncia

emanata dalla Corte Suprema Americana, secondo il cui orientamento, recepito

poi, in generale, nel settore biotecnologico, la brevettabilità era indipendente

dall’essere l’invenzione entità vivente o inanimata; ciò che contava era che

l’invenzione fosse realizzata dall’uomo.

Secondo la formula della Corte Suprema, il Congresso aveva scelto di

esprimere l’art. 35 U.S.C. § 101 in “expansive terms”, in termini estremamente

ampi, sicchè nel concetto di “statutory subject matter”, di materia brevettabile,

potesse ricomprendersi “anything under the sun that is made by man” (78) , con la

conseguenza che il criterio di distinzione tra ciò che è e ciò che non è brevettabile

è “not between living and inanimate things, but between products of nature,

whether living or not, and human-made inventions” (79) .

(77) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 234. (78) Diamond v. Chakrabarty, 447 US 303 (1980). (79) Diamond v. Chakrabarty, 447 US 303 (1980).

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L’organismo di Chakrabarty, secondo la Corte, “is not nature’s handwork,

but his own” , “non è opera della natura, ma sua”: esso rientra, allora, nel novero

dei materiali brevettabili ai sensi del § 101 (80).

La decisione della Corte Suprema segna, dunque, una tappa fondamentale

nella storia del sistema brevettuale e viene convenzionalmente considerata come

la data di nascita dei problemi della brevettazione delle biotecnologie.

Il caso Chakrabarty è, in effetti, il primo di una lunga serie di casi in cui la

domanda di brevetto riguarda direttamente una nuova entità vivente, realizzata

dall’attività inventiva dell’uomo attraverso l’uso di biotecnologie e contiene già i

caratteri che saranno poi costantemente presenti nelle vicende successive; questi

caratteri possono essere individuati nella presenza di costi di ricerca elevatissimi e

di rischi altissimi di insuccesso, nella promessa di grandi benefici, congiunta alla

preoccupazione per possibili effetti negativi imprevisti, la cui esistenza è sempre

di difficile valutazione (81).

Consentire la possibilità di brevettare la materia vivente rappresenta

l’espressione dell’endemica capacità evolutiva delle corti statunitensi che, per

quel che riguarda lo specifico della patent law, si muovono sempre nell’ottica,

tracciata dall’art. 1 § 8 U.S.C. , del “promote the progress of science and the

useful arts”; il brevetto relativo alla “living matter” costituisce, dunque, l’ultima

manifestazione, in ordine di tempo, della “underlying policy” dell’American

patent system(82).

Peraltro, le corti statunitensi hanno da sempre saputo accogliere nell’alveo

del diritto i cambiamenti tecnologici, le “new technologies” ed hanno fatto in

modo che il sistema delle privative industriali fosse un’incubatrice per l’attività

inventiva umana.

(80) Cfr. E. W. GUTTAG, The Patentability of Microorganisms: statutory Subject Matter

and other living Things, in Intellectual Property Law Review, 1979, pp. 17 ss. (81) Cfr. V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e verso un

nuovo diritto dei brevetti, cit., p.445. (82) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 309.

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§ 2. La situazione europea: la lunga marcia verso la

protezione brevettuale dell’innovazione biotecnologica.

La mancanza, sino ad anni recenti, nella maggior parte degli Stati, di una

normativa specifica relativa alle invenzioni biotecnologiche è dovuta all’influenza

determinante di due Convenzioni internazionali elaborate tra la fine degli anni

Cinquanta e i primi anni Sessanta e, dunque, inevitabilmente condizionate dalle

conoscenze scientifiche fino a quel momento elaborate dalla tecnica.

Le due Convenzioni di riferimento sono la “Convenzione internazionale

per la protezione dei risultati vegetali” (UPOV), adottata nel 1961 a Parigi e la

“Convenzione di Strasburgo sulla unificazione di alcuni elementi del diritto dei

brevetti di invenzione” del 1963.

Tali Carte internazionali hanno avuto una profonda influenza sulla

legislazione successiva in materia, in particolare, per quanto riguarda il sistema

comunitario, sulla “ Convenzione di Monaco sul brevetto europeo “, firmata nel

1973, e sulle normative interne degli Stati membri tese alla armonizzazione del

settore delle privative industriali.

Se la Convenzione UPOV si è soffermata principalmente sulla protezione

delle nuove varietà vegetali, quella di Strasburgo, invece, ha ammesso la tutela dei

procedimenti microbiologici e dei loro prodotti, rispettando in ogni caso

l’autonomia dei singoli legislatori nazionali in relazione alla protezione da

accordare alle nuove varietà vegetali ed alle razze animali, così come alla

posizione da assumere rispetto ai procedimenti essenzialmente biologici.

Seguendo la “strada ricostruttiva” della materia delle invenzioni

biotecnologiche tracciata dalla Convenzione di Strasburgo, la disciplina prevista

dalla Convenzione di Monaco sfrutta i margini di discrezionalità attribuiti dai

precedenti interventi internazionali per dettare una disciplina estremamente

restrittiva, che, per molti anni, nonostante il lento lavoro di “erosione

interpretativa” operato dalla dottrina e dalla giurisprudenza dell’Ufficio Brevetti

Europeo e di quelli nazionali, ha creato una situazione di sostanziale paralisi per

l’industria biotecnologica comunitaria (83).

(83) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 33.

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Non è un caso se, specialmente nei primi anni successivi all’emanazione

della CBE, si sia assistito ad una “fuga” delle invenzioni europee, aventi ad

oggetto materiali biologici, verso realtà giuridicamente più accoglienti

d’oltreoceano.

La disciplina fissata dalla Convenzione di Monaco esclude espressamente,

all’art. 53b), tanto la brevettabilità delle varietà vegetali e delle razze animali

quanto quella dei procedimenti essenzialmente biologici di produzione di vegetali

e di animali, ma, allo stesso tempo, garantisce tutela, tramite la possibilità di

ottenere una privativa, esclusivamente alle invenzioni aventi ad oggetto i processi

microbiologici e i loro prodotti.

Dovrà, pertanto, attendersi il lento lavoro di interpretazione estensiva

operato dalla giurisprudenza e dalla dottrina sulle stringenti definizioni dell’art.

53b) CBE perché, oggi, si possa affermare che anche in Europa le invenzioni

biotecnologiche godano di forme di tutela adeguate, sebbene non ancora

paragonabili, quanto ai vantaggi immediati per l’inventore, alla parallela

disciplina statunitense.

Con riferimento alla giurisprudenza dell’Ufficio Brevetti Europeo, tale

organo, nel corso degli anni Novanta, ha tendenzialmente ammesso la

brevettabilità di tecniche di ingegneria genetica applicate agli animali; è il caso

del mammifero transgenico, in ispecie un topo, il cui corredo genico era stato

modificato al fine di predisporlo allo sviluppo del cancro in modo da farne una

cavia utile allo screening industriale accelerato di sostanze cancerogene e,

pertanto, definito Onco-Mouse (84).

Il brevetto, già concesso dal Patent Office USA, era stato alla fine rilasciato

anche dall’Ufficio Brevetti Europeo di Monaco dopo una lunga querelle ed a

seguito della decisione della Commissione di ricorso (85).

Nell’occasione l’organo di appello di Monaco, ribaltando la decisione

della divisione d’esame che aveva negato la privativa, affermava che l’art. 53 lett.

b) della CBE “applies to certain categories of animals but not to animal as such”,

(84) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, cit.,

pp. 1239 ss. (85) Technical Board of Appeal, decisione 19/90 del 3 ottobre 1990, in Off. Journ. Eur.

Patent Office,1991, pp. 486 ss.

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con esclusione della brevettazione non di tutti gli animali in quanto tali ma solo di

alcune categorie di essi (86).

Si tratta, dunque, di una disposizione da interpretare restrittivamente, oltre

che in senso evolutivo tenendo conto non solo delle intenzioni dei redattori del

testo convenzionale al tempo della sua elaborazione, ma anche delle loro presunte

intenzioni alla luce delle circostanze venutesi a creare (87).

La Commissione riteneva, quindi, brevettabili non solo gli animali

derivanti direttamente dall’invenzione e, cioè, dalla manipolazione genetica,

considerato procedimento non essenzialmente biologico bensì microbiologico, ma

anche gli esemplari da essi discendenti attraverso un procedimento di

riproduzione biologica, trattandosi di product by process, cioè di prodotti definiti

tramite il procedimento per ottenerli e, in quanto tali, non rientranti nel divieto di

brevettazione dei procedimenti essenzialmente biologici per la produzione di

animali (88).

Il caso in esame si segnala, poi, per affrontare per la prima volta il

problema dei limiti alla brevettabilità costituiti dal rispetto dell’ordine pubblico e

del buon costume, dichiarando l’inoperatività di tali limiti allorché i vantaggi per

il genere umano, derivanti dall’invenzione, risultino assumere carattere prevalente

rispetto alle sofferenze provocate all’animale e ai possibili rischi ambientali.

“The genetic manipulation of mammalian animals – spiega la

Commissione tecnica – is undeniably problematical in various respects,

particularly where activated oncogenes are inserted to make an animal

abnormally sensitive to carcinogenic substances and consequently prone to

develop tumours, which necessarily cause suffering. There is also a danger that

genetically manipulated animals, if released into the environment, might entail

unforeseeable and irreversible adverse effects…The decision as to whether or not

article 53a) EPC is a bar to patenting the present invention would seem to depend

mainly on a careful weighing up of the suffering of animals and possible risk to

(86) Cfr. M. SCUFFI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche: dalla

Convenzione di Monaco sul brevetto europeo al disegno di legge delega italiano per il recepimento della direttiva 98/44/CE, in Contr. e Impr./Europa, 2003, II, p. 307.

(87) Cfr. C. CAMPIGLIO, I brevetti biotecnologici nel diritto comunitario, cit., 1999, p. 881.

(88) Vedi cap. 3 par. 6, pp. 112 ss.

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the environment on the one hand, and the invention’s usefulness to mankind on

the other” (89).

La sezione esaminatrice è così giunta alla conclusione che i benefici per le

ricerche mediche sul topo di laboratorio con uno sviluppo accelerato del tumore

fossero prevalenti rispetto alle sofferenze inflitte, e che, per contro, i rischi

potenziali per l’ambiente fossero virtualmente inesistenti. Né, ad avviso della

sezione esaminatrice, si può negare la brevettabilità solo perché una tecnologia è

pericolosa, posto che il brevetto non attribuisce un diritto positivo di utilizzo

dell’invenzione, bensì il mero diritto di escludere altri dall’utilizzazione

dell’invenzione per un certo periodo di tempo (90).

L’interpretazione fornita dalla commissione tecnica dei ricorsi nel caso

Onco-Mouse trasforma, invero, l’ordine pubblico da limite a elemento positivo,

ossia a requisito (utilità per l’umanità) ulteriore rispetto a quelli della novità,

inventività e applicazione industriale, requisito che, se soddisfatto nel singolo

caso, prevale sugli interessi alla protezione dell’ambiente e alla evoluzione

biologica naturale (91).

Degno di nota è, anche, il caso relativo alla brevettazione di un frammento

di DNA che codifica la relaxina umana, il quale ha suscitato l’opposizione da

parte del gruppo dei Verdi del Parlamento europeo che ritenevano detto brevetto

offensivo della morale.

La divisione di opposizione ha, poi, respinto l’opposizione, chiarendo che i

brevetti relativi a DNA codificante non conferiscono al titolare alcun diritto di

sorta su singoli esseri umani, al pari dei brevetti relativi ad altri prodotti umani

come le proteine; il DNA, infatti, non è vita bensì una sostanza chimica che

fornisce informazioni genetiche e che può essere impiegata per la produzione di

proteine utili dal punto di vista medico.

“The patenting of a single human gene has nothing to do with patenting of

human life. Even if every gene in the genome were cloned (and possibly patented),

(89) La decisione Harvard / Onco-Mouse si legge in Off. Journ. Eur. Patent Office, 1992,

pp. 588 ss. (90) Cfr. C. CAMPIGLIO, I brevetti biotecnologici nel diritto comunitario, cit., pp. 892

ss. (91) Cfr. C. CAMPIGLIO, I brevetti biotecnologici nel diritto comunitario, cit., pp. 892

ss.

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it would be impossible to reconstitute a human being from the sum of its

genes”(92).

La divisione sostiene, insomma, che un frammento di DNA che codifica

una proteina umana non manca di novità per il fatto di essere sempre stato

presente nel corpo umano e che la sua brevettazione non è intrinsecamente

contraria all’etica, non offendendo valori morali universalmente accettati, con la

conseguenza che non risulta applicabile il limite dell’ordine pubblico e del buon

costume.

Entrambe le decisioni hanno affrontato e risolto, dunque, in modo

favorevole alla brevettazione i problemi di carattere etico e di diritto sostanziale

concernenti la protezione brevettuale della materia vivente, come nel caso del

topo transgenico, o di elementi isolati del corpo umano, come nel caso della

relaxina, ai sensi della Convenzione sul brevetto europeo (93).

Per sgomberare il campo da possibili revirement o parziali cambiamenti di

indirizzo, la Comunità Europea ha deciso di descrivere, in maniera precisa e

definitiva, l’oggetto delle invenzioni biotecnologiche brevettabili, in sostanza

legittimando la prassi permissiva registratasi in seno all’EPO. Si è voluto, cioè,

nel nome del progresso scientifico e del potenziamento della ricerca applicata,

affermare il principio della brevettabilità del vivente, salvo lasciare agli Stati

membri la facoltà di deroga laddove vengano toccati prevalenti interessi di ordine

e sicurezza pubblica (94).

Le deroghe nazionali, però, alla brevettabilità del vivente, basate su ordine

pubblico e buon costume, non possono costituire la chiave di volta per svuotare e

compromettere la regola generale della brevettabilità del materiale biologico, né

rappresentare un escamotage per sovvertire le finalità e lo spirito che anima la

direttiva comunitaria, proiettata al rafforzamento del mercato europeo delle

biotecnologie ed all’eliminazione di eventuali distorsioni della concorrenza fra

imprese dovute ai diversi modelli nazionali di disciplina (95).

(92) Decisione 8 dicenbre 1994, in Off. Journ. Eur. Patent Office, 1995, p. 388. (93) Cfr. P. RAMBELLI, La direttiva europea sulla protezione delle invenzioni

biotecnologiche, in Contr. e Impr., 1999, p. 492. (94) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., pp. 142 ss. (95) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, cit.,

p. 1240.

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§ 3. Ricostruzione cronologica della Direttiva CE n. 98/44 e

obiettivi dalla stessa perseguiti.

L’idea di occuparsi della protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche risale alla metà degli anni Ottanta e parte dalla constatazione che

la disomogeneità delle normative nazionali relative alla proprietà intellettuale

costituisce ostacolo allo sviluppo del mercato interno; di qui la necessità di

adottare all’interno della Comunità regole comuni che tenessero conto degli

sviluppi biotecnologici (96).

La decisione, quindi, di estendere la tutela brevettuale alla ricerca

biotecnologica attraverso una Direttiva europea ha un significato ben preciso,

stando ad indicare, in positivo, la decisione di operare sul piano dei diritti

nazionali dei singoli Stati membri, secondo la modalità tipica di una direttiva di

armonizzazione dei diritti interni, ma anche, in negativo, la rinuncia a perseguire

la strada di una revisione dello strumento internazionale della CBE (97).

Nonostante l’obiettivo perseguito fosse quello di introdurre al più presto

una normativa unitaria e coerente per favorire lo sviluppo economico ed

industriale della Comunità nel settore biotecnologico, il processo elaborativo si è

prolungato per un arco di tempo di dieci anni, comportando numerosi confronti e

diverse revisioni delle ipotesi di normativa volta per volta prese in considerazione.

Alla luce, quindi, del forte impatto economico, tecnologico e industriale, la

materia è stata oggetto nel 1988 di una prima proposta della Commissione, la

quale si limitava alla disciplina degli aspetti tecnico-giuridici, senza far cenno agli

inevitabili connotati etici. E fu proprio l’assenza di regole di natura etica, in

ordine in particolare alla brevettabilità di geni umani, a determinarne l’insuccesso

e il repentino accantonamento.

Successivamente, nel 1992, la Commissione cercò di ripresentare una

proposta che contenesse molte differenze rispetto alla prima, al fine di incontrare

l’approvazione del Parlamento.

Le vicende seguenti smentirono tale speranza: il Parlamento europeo,

ancora una volta, respinse il lavoro ed inevitabilmente ciò condusse alla procedura

(96) Cfr. C. CAMPIGLIO, I brevetti biotecnologici nel diritto comunitario, cit., p. 857. (97) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi

geneticamente modificati, in Riv. dir. ind. , 2003, I, p. 76.

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di conciliazione, che rappresenta la possibile fase finale della procedura di

codecisione in caso di disaccordo tra Parlamento e Consiglio.

Accadde, poi, un evento unico, almeno sino ad oggi, nella storia dei

procedimenti legislativi comunitari: il Parlamento, sorprendentemente, respinse

anche il testo della proposta adottato in sede di conciliazione (98).

Visto che il fallimento della prima proposta, quella del 1988, era stato

causato principalmente dalla mancanza di qualsivoglia riferimento alla questione

etica, nonché dalla assenza di ogni riferimento al cosiddetto “privilegio

dell’agricoltore”, si riteneva assolutamente necessario inserire dei limiti espressi e

specifici alla brevettabilità del vivente, non essendo considerati adeguati, in tal

senso, i riferimenti esistenti alle nozioni generali di ordine pubblico e buon

costume (99).

E’ chiaro, dunque, che la successiva proposta del 1992 puntò in modo

particolare a potenziare gli aspetti per i quali quella precedente era stata ritenuta

carente.

Venne aggiunta, innanzitutto, una nuova serie di “considerando” al fine di

affrontare espressamente la questione etica, sebbene questo non fosse l’oggetto

specifico di tale normativa, e così si specificarono una serie di divieti di

brevettazione, tra i quali quelli relativi al corpo umano ed agli elementi di esso in

quanto tali oppure ai procedimenti di modificazione genica negli animali

provocanti in essi inutili sofferenze.

Si introdusse, inoltre, il “privilegio dell’agricoltore”, cioè la possibilità

concessa ad un agricoltore di utilizzare parte del raccolto, ottenuto tramite

utilizzazione del prodotto brevettato acquistato dal titolare del titolo di privativa,

come semente per i propri campi.

Tale previsione era stata considerata essenziale dal Parlamento, che,

inquadrandola più come una deroga che come un privilegio, l’aveva motivata con

la finalità di sostenere la tradizione agricola di riutilizzare parte del raccolto per la

semina futura, con la volontà di impedire il controllo dei titolari dei brevetti sulle

aziende agricole e con l’ingiustizia del fatto che gli agricoltori sarebbero stati

(98) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 76. (99) Cfr. B. GUIDETTI, La direttiva 98/44/CE sulle invenzioni biotecnologiche, in

Contr. e Impr., 1999, pp. 483 ss.

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altrimenti costretti a ricomprare il medesimo prodotto per ogni generazione di

colture successiva a quella originariamente acquistata (100).

La Commissione, però, ad un certo punto, intese sbloccare la situazione: il

gap tra USA e Giappone da un lato e UE dall’altro aumentava sempre più,

entrando, quindi, in gioco ragioni di carattere concorrenziale, e iniziò a ritenersi

indispensabile armonizzare le normative degli Stati membri per sostenere e

incentivare la ricerca.

Considerato, allora, che lo scoglio contro cui si era arenata la proposta del

1992 riguardava essenzialmente la mancanza di una espressa preclusione in ordine

alla brevettabilità degli elementi del corpo umano e dei procedimenti di

manipolazione genetica dello stesso, è stato proprio da questi due punti che la

Commissione ha ripreso a lavorare, giungendo il 25 gennaio 1996 a presentare

una nuova proposta di direttiva.

A differenza di quella del 1988, la nuova proposta escludeva

espressamente la brevettabilità del corpo umano o di suoi elementi in sé e per sé,

ovverosia non inseriti in un processo tecnico suscettibile di applicazione

industriale, nonché dei metodi di terapia genica germinale sull’uomo, ossia dei

metodi che in futuro potrebbero permettere di alterare i geni umani nel quadro di

una fecondazione in vitro.

Modificata nuovamente nel 1997 per tenere conto dei numerosissimi

emendamenti proposti dal Parlamento europeo, la Direttiva è stata finalmente

approvata il 6 luglio 1998, ed è in vigore dal 30 luglio dello stesso anno.

La Direttiva 98/44/CE detta norme atte ad offrire alle invenzioni

biotecnologiche una tutela giuridica identica in tutti gli Stati membri mediante il

rilascio di un brevetto e a favorire, conseguentemente, la libera circolazione dei

prodotti biotecnologici e gli investimenti nella ricerca di nuovi procedimenti o

prodotti biotecnologici.

Va, però, rilevato come la direttiva si occupi della mera brevettazione e

non anche della attuazione pratica, della immissione in commercio delle

invenzioni biotecnologiche.

(100) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 78; Cfr. B. GUIDETTI, La direttiva 98/44/CE sulle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 485.

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La Direttiva attiene, dunque, alla “eticità” del solo sfruttamento

commerciale, in via esclusiva, delle tecniche di ingegneria genetica, e non in

generale alla “eticità” delle innovazioni biotecnologiche, sicchè non è escluso che

sia riconosciuta non brevettabile una invenzione in sé “etica” e d’altro canto che

sia riconosciuta la brevettabilità di una invenzione, la cui attuazione è

“eticamente” dubbia (101).

Peraltro, la Direttiva afferma l’applicabilità delle regole generali sul

brevetto europeo ed internazionale al settore particolare dei trovati biotecnologici,

introducendo alcune regole speciali aggiuntive e specificative in grado di meglio

definire i limiti di brevettabilità del vivente.

La direttiva non tocca, pertanto, i contenuti del diritto di privativa, lasciati

alla discrezionalità dei paesi aderenti alla Convenzione di Monaco o stipulanti gli

Accordi TRIPS, ma svolge la funzione di tracciare i confini tra ciò che,

nell’ambito delle invenzioni riguardanti materiale biologico autoriproducibile, può

essere oggetto di esclusiva e ciò che, invece, costituisce patrimonio dell’intera

umanità (102).

La disciplina comunitaria, dunque, non ha la prospettiva di discernere la

liceità o l’illiceità di certe metodologie e procedimenti di indagine e conseguenti

pratiche manipolative, ma si limita a fissare i presupposti per il riconoscimento

dei relativi diritti di proprietà industriale; si limita, cioè, a stabilire in quali

circostanze lo studio e la ricerca scientifica condotta su materiale vivente possa

essere brevettabile, lasciando impregiudicata, rectius demandando agli Stati

membri, la questione di regolamentare ed indirizzare la stessa attività di ricerca

verso obiettivi e con modalità rispondenti ai principi etici, morali, di sicurezza

pubblica e buon costume condivisi in ciascun paese (103).

La Direttiva 98/44/CE, con la quale è stato imposto a tutti gli Stati membri

di garantire la protezione delle invenzioni biotecnologiche, da realizzare mediante

il diritto dei brevetti adottato da ogni stato a livello nazionale, è stata, dunque,

emanata il 30 luglio 1998 al termine di una fase preparatoria durata quasi dieci

anni e rappresenta, in Europa, il primo punto di incontro tra preoccupazioni di

(101) Cfr. C. CAMPIGLIO, I brevetti biotecnologici nel diritto comunitario, cit., p. 858. (102) Cfr. S. SANDRI – E. CAPORUSCIO, Biotecnologie: l’ultima proposta dell’Unione

Europea, in Riv. dir. ind. , 1994, I, pp. 645 ss. (103) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, cit.,

pp. 1237 ss.

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ordine etico ed esigenza di creare una disciplina unitaria in un ambiente dove il

quadro normativo e giurisprudenziale è sempre risultato piuttosto lacunoso, quindi

necessitante di un intervento armonizzatore a favore della certezza del diritto

sull’esclusiva e la sua estensione.

Lo scopo della Direttiva è stato, dunque, quello di fornire le occorrenti

guidelines ai legislatori degli Stati UE affinché si dotino, mediante la tecnica del

recepimento, di una normativa comune, evitando indirizzi legislativi contrastanti

che finirebbero per creare ulteriori ostacoli allo sviluppo del mercato interno dove

l’industria delle biotecnologie già si trova in situazione di dipendenza rispetto ai

corrispondenti diritti di privativa dell’industria statunitense e giapponese (104).

Le finalità che la Direttiva si è proposta nell’affermare e regolamentare la

brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche sono, quindi, legate, in primo

luogo, all’incremento della competitività internazionale dell’industria europea nel

settore, in principal modo nei confronti degli USA; la situazione di sicurezza

giuridica assicurata negli Stati Uniti, e la conseguente maggiore facilità di reperire

finanziamenti adeguati, erano, infatti, di forte incentivo per il trasferimento

oltreoceano dei ricercatori europei, dove la loro attività trovava fertile terreno

applicativo (105).

L’ingiustificato sbilanciamento di tale situazione a favore di imprese non

europee, la comprovata e sempre più grande importanza, anche strategica, delle

biotecnologie per lo sviluppo industriale e delle conoscenze per i prossimi

decenni, le vertiginose prospettive future in ordine al giro d’affari del settore a

livello mondiale, hanno, pertanto, indotto la Comunità ad assumere le misure

opportune per incoraggiare la ricerca e gli investimenti nel settore, soprattutto

rassicurando le imprese in ordine alla possibilità di usufruire dello strumento

brevettuale.

Il legislatore comunitario muove, quindi, dalla dichiarata intenzione di

sostenere e potenziare l’industria biotecnologica e la ricerca in materia di

ingegneria genetica come obiettivo strategico dello sviluppo competitivo della

Comunità.

(104) Cfr. M. SCUFFI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche: dalla

Convenzione di Monaco sul brevetto europeo al disegno di legge delega italiano per il recepimento della direttiva 98/44/CE, cit., p. 299.

(105) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla Direttiva n. 98/44, cit., pp. 40 ss.

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L’intento normativo assume, allora, come base giuridica l’art. 100A del

Trattato, il quale, conferendo al Consiglio il potere di adottare le misure relative al

ravvicinamento delle disposizioni legislative che hanno per oggetto

l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno, consente

un’armonizzazione delle discipline preordinata al consolidamento del mercato

interno ed alla instaurazione di condizioni di libera concorrenza fra le imprese che

operano nel settore delle biotecnologie (106).

Peraltro, la finalità di proteggere gli investimenti compiuti dalle imprese

europee sul versante dell’individuazione tecnologica di prodotti e procedimenti

relativi a materiale biologico traspare chiaramente dai primi tre considerando della

direttiva: “(1) considerando che la biotecnologia e l’ingegneria genetica stanno

acquisendo una funzione crescente in una vasta gamma di attività industriali; che

la protezione delle invenzioni biotecnologiche assumerà indubbiamente

un’importanza fondamentale per lo sviluppo industriale della Comunità; (2)

considerando che, soprattutto nel campo dell’ingegneria genetica, la ricerca e lo

sviluppo esigono una notevole quantità di investimenti ad alto rischio che soltanto

una protezione giuridica adeguata può consentire di rendere redditizi; (3)

considerando che una protezione efficace e armonizzata in tutti gli Stati membri è

essenziale al fine di mantenere e promuovere gli investimenti nel settore della

biotecnologia”.

Ne consegue che lo scopo primario della Direttiva in esame, espresso nei

considerando introduttivi, è essenzialmente rivolto a conseguire

un’armonizzazione a livello interpretativo delle norme di diritto sostanziale

previste dalle legislazioni nazionali e dalla CBE, alla quale tali legislazioni sono

già di fatto uniformate; secondo gli obiettivi del Parlamento Europeo, tale

armonizzazione avrebbe il pregio di rimuovere quelle “aree grigie di incertezza

giuridica” che, in ultima analisi, sono di ostacolo al mercato interno (107).

E’ evidente, poi, che la Direttiva ha anche uno scopo indiretto de jure

condendo, e cioè quello di far sì che le future legislazioni in tale settore possano

avvalersi di una piattaforma di ispirazione comune in modo tale che le normative

(106) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, cit.,

pp. 1239 ss. (107) Cfr. P. RAMBELLI, La direttiva europea sulla protezione delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 495.

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nazionali non si sviluppino secondo linee-guida contrastanti o semplicemente

divergenti.

La speranza del legislatore comunitario rimane, comunque, quella di

incentivare la ricerca scientifica, proprio grazie ai vantaggi derivanti dal

monopolio temporaneo conferito dal brevetto e dalla certezza giuridica

discendente da una disciplina limpida sul diritto di esclusiva che è ad esso

connesso (108).

Questione diversa è quella di valutare la Direttiva 98/44/CE alla luce

dell’obiettivo di potenziare l’industria europea: attualmente quasi il 50% delle

invenzioni biotecnologiche oggetto di brevetto europeo trovano origine nei paesi

extraeuropei e, di conseguenza, appare semmai vero che l’industria europea si

trova in una situazione di dipendenza brevettuale rispetto ai diritti di privativa

acquisiti dall’industria statunitense e giapponese (109).

§ 4. Il contenuto della Direttiva 98/44/CE.

La Direttiva 98/44/CE si compone di un preambolo di ben 56

considerando che è finalizzato ad aiutare l’interprete nella ricostruzione della

disciplina posta dai successivi 18 articoli.

Il primo capitolo dedicato alla “brevettabilità” è quello che riveste

maggiore interesse, in quanto si propone di enucleare i principi relativi alla

brevettazione della materia vivente, delimitandone altresì l’ambito di

applicazione.

L’esordio del testo normativo, contenuto nell’art. 1 par. 1, dichiara

perentoriamente che “gli Stati membri proteggono le invenzioni biotecnologiche

tramite il diritto nazionale dei brevetti”; lo strumento scelto dalla Comunità per

(108) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 84. (109) Cfr. P. RAMBELLI, La direttiva europea sulla protezione delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 495.

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assicurare la suddetta protezione, nonostante le critiche mosse sia a livello etico

che a livello tecnico-giuridico, è appunto “il diritto nazionale dei brevetti”,

ritenuto il più idoneo ad assicurare i costosissimi finanziamenti di cui la ricerca

necessita, previo opportuno adeguamento dello stesso alle peculiarità della

materia, di cui la direttiva tiene conto (110).

La decisa volontà di sopire le polemiche in ordine alla brevettabilità del

vivente, in ogni caso, si appalesa nelle reiterate dichiarazioni di conformità del

testo della Direttiva al diritto dei brevetti.

Il considerando n. 8, a tale proposito, si premura, infatti, di affermare che

la Direttiva non intende in alcun modo creare “un diritto specifico che si

sostituisca al diritto nazionale in materia di brevetti”, bensì adeguare e completare

lo stesso “in conseguenza dei nuovi ritrovati tecnologici”.

Il medesimo convincimento è ribadito più avanti dal considerando n. 28

che ha modo di ripetere che “la presente Direttiva non incide minimamente sui

fondamenti del diritto dei brevetti in vigore”.

Nonostante la Direttiva affermi che il suo contributo al diritto dei brevetti è

da considerare meramente integrativo o di completamento e che è in questo

ambito che gli Stati membri, “ove necessario, adeguano il loro diritto nazionale

dei brevetti per tenere conto delle disposizioni della presente direttiva”, non vi è

dubbio che la normativa abbia una portata effettivamente innovativa, grazie alla

ratifica di tutta quella serie di trasformazioni sostanziali di ampia portata già

introdotte nella prassi brevettuale, contribuendo, così, positivamente al

consolidarsi di un vero e proprio diritto delle biotecnologie (111).

L’art. 2 della direttiva ha, invece, una portata essenzialmente definitoria: in

esso vengono chiarite le nozioni di “materiale biologico”, di “procedimento

microbiologico” e di “procedimento essenzialmente biologico”.

Per “materiale biologico” deve intendersi “un materiale contenente

informazioni genetiche, autoriproducibile o capace di riprodursi in un sistema

biologico”, mentre nell’ambito dei “procedimenti microbiologici” si ricomprende

“qualsiasi procedimento nel quale si utilizzi un materiale microbiologico, che

(110) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla

Direttiva n. 98/44, cit., p. 56. (111) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla

Direttiva n. 98/44, cit., p. 58.

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comporta un intervento su materiale microbiologico, o che produce un materiale

microbiologico”.

Un riferimento particolare merita, poi, la definizione di “procedimento

essenzialmente biologico”, intendendosi per esso “un procedimento di produzione

di animali e vegetali consistente integralmente in fenomeni naturali quali

l’incrocio e la selezione”.

Con l’art. 3 si comincia, invece, a delimitare l’oggetto delle invenzioni

biotecnologiche: nel par. 1 è sancita, infatti, la possibilità di brevettare invenzioni

di prodotto (il materiale biologico) o di procedimento (per produrre, lavorare o

utilizzare tale materiale biologico), qualora rispondano a quei requisiti che sono

comunemente richiesti per la brevettabilità anche negli altri settori della

tecnologia: i trovati di ingegneria genetica devono, quindi, essere nuovi, devono

comportare una attività inventiva e devono essere suscettibili di applicazione

industriale (112).

La norma evidenzia, pertanto, l’applicabilità dei tradizionali requisiti

previsti per la brevettabilità delle invenzioni con riguardo agli organismi viventi

tout court, raccordando, così, saldamente il sistema brevettuale alla materia

biotecnologica (113).

Il par. 2 dello stesso articolo, poi, precisa ulteriormente la dichiarazione di

brevettabilità asserendo con chiarezza che: “un materiale biologico che viene

isolato dal suo ambiente o viene prodotto tramite un procedimento tecnico può

essere oggetto di invenzione”, e ciò “anche se preesisteva allo stato naturale”; con

questo inciso, quindi, la Direttiva conferisce espressione normativa alla

coincidente affermazione del considerando n. 19, il quale, escludendo la rilevanza

in sé della preesistenza del materiale biologico, rende brevettabili sia i nuovi

trovati o procedimenti biologici, sia i materiali naturali preesistenti, purchè isolati

dall’uomo (114).

La motivazione tecnico-giuridica della dichiarazione di brevettabilità si

ritrova nel considerando n. 20, per il quale la tutela può essere affermata sulla

base della sussistenza di “procedimenti tecnici che soltanto l’uomo è capace di

(112) Cfr. B. GUIDETTI, La direttiva 98/44/CE sulle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 487.

(113) Cfr. v. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, cit , p. 84.

(114) Cfr. L. ZAGATO, La tutela giuridica delle invenzioni biotecnologiche: la direttiva 6 luglio 1998, n. 98/44, in Riv. dir. agr. , 1999, p. 434.

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mettere in atto e che la natura di per se stessa non è in grado di compiere”, quali, a

titolo esemplificativo, l’identificazione, la purificazione e la moltiplicazione

dell’elemento biologico al di fuori del suo contesto naturale (115).

I successivi articoli 4, 5 e 6 dispongono, invece, delle esclusioni alla

brevettabilità.

L’art. 4 della direttiva 98/44/CE si occupa della questione, estremamente

discussa, della tutela da concedere alle varietà vegetali e alle razze animali,

trattate con procedimenti di ingegneria genetica.

Per queste forme di trovati gli autori della normativa si sono trovati a

dover soddisfare, da un lato, l’esigenza di adeguare la disciplina delle privative

industriali alle nuove richieste del progresso tecnico, e, dall’altro, a dovere

mantenere un certo coordinamento con la disciplina speciale convenzionale e

comunitaria.

La soluzione più coraggiosa e più coerente con i principi generali della

materia sarebbe stata quella di applicare alle invenzioni biotecnologiche, anche

nel campo delle novità vegetali ed animali, le comuni regole dei brevetti, con la

conseguenza che i procedimenti e i prodotti ottenuti attraverso l’ingegneria

genetica sarebbero stati brevettabili anche se relativi a varietà vegetali oppure a

razze animali; senonchè, la scelta legislativa non è caduta su questa alternativa e si

è giunti, perciò, ad una soluzione di compromesso, con sostanziale congelamento

di tutte le problematiche che, comunque, continuano a travagliare questo settore

(116).

I paragrafi 1 e 3 dell’art. 4, poi, ripropongono testualmente le esclusioni

dalla brevettabilità che già erano oggetto dei divieti dell’art. 53b) della

Convenzione di Monaco: al riguardo, è opportuno sottolineare che l’esclusione

delle varietà vegetali è da intendersi soltanto in relazione all’ottenimento di un

brevetto per invenzione industriale, ma non in senso assoluto, in quanto la

protezione delle varietà vegetali è prevista mediante strumenti legali diversi dal

brevetto per invenzione, quale in particolare la Convenzione UPOV ed il

(115) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla

Direttiva n. 98/44, cit., p. 62. (116) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e

Stati Uniti, cit., p. 92.

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Regolamento CEE 2100/94 istitutivo di un brevetto comunitario per le varietà

vegetali (117).

Maggiore importanza presenta il par. 2 dell’art. 4 della direttiva, in quanto

in essa è presentata, per la prima volta in un testo normativo, la cosiddetta teoria

di “più di una varietà”; tale teorica afferma, in sostanza, la possibilità di brevettare

invenzioni che abbiano ad oggetto piante ed animali in quanto tali, se la loro

applicazione non si limita ad una sola varietà vegetale o razza animale (118).

Il testo dell’articolo 4(2) contiene, quindi, un’eccezione al principio

generale dell’esclusione della brevettabilità delle razze animali e delle varietà

vegetali contenute nella CBE, stabilendo che tale esclusione si applica solo

quando l’eseguibilità tecnica dell’invenzione sia riferita alla varietà o razza

animale di per sé.

Per quanto concerne, invece, l’art. 5, occorre osservare come esso si

articoli su due livelli e sancisca “due diversi principi complementari tra di loro,

l’uno rivolto a salvaguardare una fondamentale e inderogabile esigenza di ordine

etico, l’altro destinato a sostenere, per il tramite del brevetto d’invenzione, la

ricerca scientifica” (119).

Con riguardo al primo principio, il par. 1 ha cura di escludere dal novero

delle invenzioni brevettabili “il corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione

e del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno dei suoi elementi, ivi compresa

la sequenza o la sequenza parziale di un gene”.

Non sembra, quindi, inutile rilevare che l’espressione “corpo umano, nei

vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo” ricomprende anche

l’embrione, in conformità sia della posizione comune del Consiglio assunta il 26

febbraio 1998 in vista dell’adozione della direttiva n. 98/44 sia dell’art. 4 della

dichiarazione UNESCO sul genoma umano.

Il secondo principio, relativo alla ricerca scientifica, viene espresso nel

par. 2, il quale statuisce che “un elemento isolato del corpo umano, o

diversamente prodotto mediante un procedimento tecnico, ivi compresa la

(117) Cfr. P. RAMBELLI, La direttiva europea sulla protezione delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 498. (118) Si veda l’art. 4 par. 2: “Le invenzioni che hanno quale oggetto piante o animali sono

brevettabili se l’eseguibilità tecnica dell’invenzione non è limitata ad una determinata varietà vegetale o razza animale”.

(119) Cfr. A. BERGHE’ LORETI – L. MARINI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 787.

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sequenza o la sequenza parziale di un gene, può costituire un’invenzione

brevettabile, anche se la struttura di detto elemento è identica a quella di un

elemento naturale”.

Ovviamente, per conseguire il brevetto non è sufficiente aver applicato un

procedimento tecnico ad un elemento naturale: l’invenzione deve soddisfare tutti i

criteri della brevettabilità, in particolare quelli dell’inventività e dell’industrialità.

A tale ultimo riguardo, un contributo essenziale viene offerto dal par. 3,

per il quale “l’applicazione industriale di una sequenza o di una sequenza parziale

di un gene deve essere concretamente indicata nella richiesta di brevetto”.

Tale articolo introduce, quindi, come requisito per la brevettabilità di una

sequenza o di una sequenza parziale di un gene la necessità che la richiesta di

brevetto ne indichi l’applicazione industriale, ovvero la sua utilità in termini

tecnici (120).

L’individuazione della struttura molecolare di una sostanza non ne

determina la brevettabilità come invenzione, a meno che colui che ha scoperto tale

struttura non abbia individuato almeno una correlazione tra la struttura e la sua

funzione o uso; in assenza di tale legame viene naturalmente a mancare il

requisito di suscettibilità di applicazione industriale.

Si tratta, dunque, di una norma dal valore assai forte, in primo luogo

perché non si limita a chiedere la semplice funzione del materiale biologico

brevettabile, ma esige l’indicazione della sua applicazione industriale, termine

che possiede “precisione e limitatezza notevoli” (121); in secondo luogo,

l’applicazione industriale deve essere indicata “concretamente”, avverbio che

sembrerebbe coincidere con l’individuazione di almeno una realizzazione pratica

dell’invenzione da brevettare (122).

Correlativamente, ancor più chiaro appare il contenuto del considerando n.

23, il quale afferma direttamente che “una semplice sequenza di DNA, senza

indicazione di una funzione, non contiene alcun insegnamento tecnico”.

(120) Cfr. P. RAMBELLI, La direttiva europea sulla protezione delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 499. (121) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., p. 189. (122) Cfr. G. MORELLI GRADI, La legittimità comunitaria della direttiva sulle

invenzioni biotecnologiche ( Corte di Giustizia CE 9 ottobre 2001 ), in Il Dir. ind. , 2001, p. 327.

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Con l’art. 6 il legislatore ha, poi, perpetrato la tradizione, inaugurata dalle

precedenti normative internazionali e nazionali in materia, di dedicare una norma

specifica alla questione etica.

Riprendendo, in tal senso, l’art. 27 comma 2 TRIPS, con una formulazione

identica a quella dell’art. 53a) della Convenzione di Monaco, la disposizione in

esame esclude espressamente la brevettabilità delle invenzioni il cui sfruttamento

economico sia contrario all’ordine pubblico o al buon costume.

Le ragioni di tali limitazioni della brevettabilità sembrano ricollegarsi

all’idea che in certi campi la ricerca non debba essere favorita e sostenuta con lo

strumento brevettuale.

Al fine di fornire ai giudici un metro di valutazione, il secondo paragrafo

dell’articolo elenca, a titolo esemplificativo, alcuni divieti di brevettazione

derivanti dalla applicazione del primo comma: i procedimenti di clonazione di

esseri umani, i procedimenti di modificazione genica germinale di esseri umani, le

utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali e commerciali, i procedimenti di

modificazione genica di animali provocanti loro sofferenze senza avere un’utilità

medica sostanziale, nonché gli animali stessi derivanti da questi procedimenti.

Di estremo rilievo, al riguardo, è, tuttavia, il contenuto del considerando

42, in cui si evidenzia che l’esclusione dell’impiego di embrioni umani ai fini

industriali o commerciali non riguarda le invenzioni a finalità terapeutica o

diagnostica che si applicano e sono utili all’embrione umano, ferma restando

l’esclusione della brevettabilità di metodi diagnostici, terapeutici e chirurgici per

la cura dell’uomo o dell’animale.

D’altronde l’espresso divieto alla brevettabilità dei procedimenti di

clonazione umana, dei procedimenti di modificazione dell’identità genetica di

esseri umani e delle utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o

commerciali, in quanto contrastanti con l’ordine pubblico e il buon costume,

opera solo a valle, in sede di rilascio del brevetto, ma non costringe gli Stati

membri, in sede di recepimento della direttiva, a porre, a monte, un divieto

generale di svolgimento dell’attività di ricerca nei richiamati settori.

Il vincolo, cioè, vale solo come indicazione interpretativa per gli uffici

brevettuali nazionali e non individua di per sé un’area di illegalità della ricerca

scientifica; non bisogna, infatti, dimenticare che “l’assenza di brevetto, in

mancanza di altre norme, non impedisce, di per sé, né la ricerca, né l’attuazione

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delle invenzioni che ne derivano e che è sempre difficile, se non impossibile,

negare a priori l’utilità e il valore di una scoperta o invenzione” (123).

Per altro verso, gli Stati membri possono discrezionalmente riempire di

contenuti i limiti generali al rilascio del brevetto rappresentati dalla salute

pubblica, dalla sicurezza, dalla garanzia del rispetto di certi standard etici, con

l’obbligo appunto di mantenere, quale soglia minima, i divieti di brevettazione

espressamente enucleati dall’art. 6 (124).

Il capitolo secondo della direttiva attiene, invece, all’ambito della

protezione delle invenzioni biotecnologiche, della quale vengono definiti natura e

limiti, e persegue la finalità di assicurare la libertà di circolazione dei prodotti

biotecnologici brevettati mediante l’armonizzazione delle legislazioni dei singoli

Stati membri.

L’art. 8, nei suoi due paragrafi, si riallaccia alla tradizionale distinzione

della disciplina dei brevetti tra invenzioni di prodotto e invenzioni di

procedimento.

Il primo comma prevede che il diritto di esclusiva connesso al brevetto di

prodotto si estenda a tutti i materiali biologici da esso derivanti mediante

riproduzione o moltiplicazione e dotati delle stesse proprietà, mentre il secondo

comma, relativo al brevetto di procedimento, allarga l’ambito di protezione a tutti

i materiali biologici direttamente ottenuti tramite il procedimento medesimo e al

materiale biologico con identiche caratteristiche derivato per riproduzione o

moltiplicazione dal materiale direttamente ottenuto con il procedimento brevettato

(125).

La motivazione della norma si legge nel considerando n. 46, il quale

osserva che non sarebbe possibile realizzare le tutela voluta se il titolare del

brevetto non avesse un diritto di vietare l’utilizzazione del materiale

autoriproducibile brevettato, analogo a quello riconosciuto per il materiale non

autoriproducibile: ossia il diritto di vietare la produzione del prodotto stesso (126).

(123) Cfr. G. SENA, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., pp. 76 ss. (124) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettale delle invenzioni biotecnologiche, cit.,

pp. 1238 ss. (125) Cfr. G. SENA, La brevettabilità delle scoperte e delle invenzioni fondamentali, in

Riv. dir. ind. , I, 1990, pp. 320 ss. (126) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla

Direttiva n. 98/44, cit., p. 75.

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In via generale, perciò, al titolare di un brevetto su un procedimento viene

riconosciuto il potere di vietare, il cosiddetto ius prohibendi direttamente

attribuito al titolare di un brevetto di prodotto, non solo lo sfruttamento del

procedimento stesso, ma anche l’utilizzazione a fini commerciali del prodotto così

ottenuto, nonché, considerata la riproducibilità degli organismi viventi, il diritto di

proibire l’uso dell’ulteriore materiale biologico che dovrebbe derivare

dall’organismo protetto, se dotato delle medesime proprietà.

Tale disposizione, peraltro, trova completamento nell’art. 9, il quale

precisa che “la protezione attribuita dal brevetto ad un prodotto contenente e

consistente in un’informazione genetica si estende a qualsiasi materiale nel quale

il prodotto è incorporato e nel quale l’informazione genetica è contenuta e svolge

la sua funzione”; in altre parole, la tutela segue il gene brevettato ovunque si trovi,

con la sola eccezione, specificata attraverso il richiamo all’art. 5, del corpo

umano.

Ne deriva che le previsioni contenute negli articoli 8 e 9 sono rivolte a

definire l’ambito di protezione di un brevetto avente per oggetto un materiale

dotato della caratteristica della autoriproducibilità, peculiare delle invenzioni

biotecnologiche.

Al riguardo, le legislazioni nazionali contemplano, generalmente a titolo di

eccezione al diritto di esclusiva conferito dal brevetto, la possibilità di uso

sperimentale in ambito privato e per scopi non commerciali dell’invenzione

brevettata, la cosiddetta “experimental use exception”; esclusione che, con

riferimento alle invenzioni dotate della caratteristica della autoriproducibilità, può

comportare una sostanziale limitazione del diritto di esclusiva (127).

Un materiale biologico di per sé brevettato potrebbe, infatti, essere

ottenuto attuando l’insegnamento del relativo brevetto, una sola volta, in ambito

prettamente sperimentale, ma una volta ottenuto, sulla base di un’attività che

appare rivestire tutte le caratteristiche del lecito uso sperimentale, grazie alla sua

riproducibilità, esso diviene una fonte inesauribile dell’invenzione brevettata.

(127) Cfr. P. RAMBELLI, La direttiva europea sulla protezione delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 501.

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Ed è proprio in relazione a tale fattispecie e ai fini di una tutela del diritto

dell’inventore che gli articoli 8 e 9 estendono la protezione brevettuale ai derivati

ottenibili dalla riproduzione o moltiplicazione del materiale biologico brevettato.

Il legislatore comunitario, dopo aver descritto concretamente l’ambito di

tutela derivante del brevetto nei due articoli precedentemente esaminati, si

sofferma in quelli successivi, gli articoli 10 e 11, sulla definizione di alcuni

fondamentali limiti.

Il primo confine posto dalla normativa all’ampio estendersi della privativa

per invenzioni di ingegneria genetica è quello disciplinato dall’art. 10: la

protezione brevettuale non si estende al materiale biologico ottenuto mediante

riproduzione o moltiplicazione di materiale biologico commercializzato nel

territorio di uno stato dell’Unione Europea dal titolare del brevetto o, comunque,

con il suo consenso, purchè tale riproduzione o moltiplicazione costituisca

derivazione necessaria dell’utilizzo per il quale il materiale biologico è stato

commercializzato ed a condizione che il materiale così ottenuto non venga

utilizzato in seguito per altre riproduzioni o moltiplicazioni.

Si giunge, infine, alla norma di chiusura del capitolo, cioè l’articolo 11, il

quale introduce una importante eccezione alla tutela brevettuale di cui agli articoli

8 e 9: il cosiddetto “privilegio dell’agricoltore” o “farmer exception” contemplata

dalla Convenzione UPOV per le varietà vegetali.

L’agricoltore, una volta che abbia legittimamente acquisito dal titolare del

brevetto il materiale di riproduzione tutelato, è autorizzato a far uso di tale

prodotto come materiale di riproduzione o moltiplicazione nella propria azienda;

gli è consentito, cioè, di riutilizzare parte del raccolto ottenuto tramite il materiale

biologico brevettato per seminare nuovamente in futuro.

Assolutamente innovativo è, poi, l’allargamento, operato dal par. 2 della

norma in esame, del privilegio, finora garantito dalla normativa e dalla prassi

internazionale al solo agricoltore, anche all’allevatore di prodotti zootecnici: nel

momento in cui, infatti, quest’ultimo viene legittimamente in possesso, tramite

vendita o altra forma di transazione commerciale intervenuta con il titolare del

brevetto o con il suo consenso, di bestiame di allevamento o di altro materiale di

riproduzione di origine animale, può utilizzarlo per uso agricolo.

Questo significa che l’allevatore è implicitamente autorizzato a disporre

dell’animale o di altro materiale di riproduzione di origine animale per la

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prosecuzione della propria attività agricola, ma non può venderlo nell’ambito

oppure ai fini di una attività di riproduzione commerciale (128):

Il terzo capitolo della direttiva, dedicato alle “licenze obbligatorie

dipendenti” e costituito dal solo articolo 12, presenta una normativa

sostanzialmente analoga a quella già prevista dall’articolo 47 della Convenzione

sul brevetto europeo e dall’ articolo 31 dei TRIPS; viene, dunque, disciplinata una

ulteriore importante deroga all’esclusiva del diritto del titolare del brevetto e, cioè,

la cosiddetta “esenzione di ricerca” o “breeder exemption”.

Tale eccezione è destinata a sciogliere i contrasti che potrebbero sorgere in

relazione alla fattispecie specifica in cui una privativa su un trovato di origine

vegetale sia dipendente rispetto a un precedente brevetto biotecnologico.

Nel par. 1 viene dichiarato che un costitutore, il quale non possa ottenere o

sfruttare una privativa vegetale senza violare in brevetto anteriore, può chiedere

una licenza obbligatoria per lo sfruttamento non esclusivo dell’invenzione, sempre

che la licenza sia necessaria, appunto, per lo sfruttamento della varietà vegetale

protetta.

Viene altresì stabilito, correlativamente, che il titolare del brevetto ha

diritto ad ottenere una licenza reciproca per l’utilizzo della varietà protetta.

Il paragrafo successivo, in modo speculare, stabilisce lo stesso identico

principio a parti invertite: ossia per l’ipotesi in cui sia il titolare del brevetto a non

poter sfruttare l’invenzione senza violare una precedente privativa vegetale.

Anche in questo caso è stabilita la facoltà del costitutore di varietà vegetale di

ottenere una licenza reciproca e non esclusiva per l’utilizzo dell’invenzione

protetta.

La concessione della licenza, in entrambi i casi, è subordinata dal

paragrafo 3 all’impossibilità di ottenere una licenza contrattuale e alla sussistenza

di un progresso tecnico significativo, che abbia notevole interesse economico

rispetto all’invenzione o alla privativa anteriori.

La previsione del particolare istituto delle licenze obbligatorie dipendenti

rappresenta, quindi, il baluardo posto dal legislatore per placare il timore che un

monopolio brevettuale troppo solido avrebbe nei fatti coperto i risultati della

(128) Cfr. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 101.

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ricerca e costituito ostacolo insormontabile alla loro applicazione industriale,

creando un effettivo blocco nell’industria biotecnologica europea.

§ 5. La posizione interpretativa assunta dalla Corte di

Giustizia sulla legittimità della Direttiva comunitaria.

La Corte di Giustizia ha fornito un rilevante contributo a sostegno

dell’impalcatura complessiva della normativa di armonizzazione comunitaria,

respingendo il ricorso avanzato dai Paesi Bassi e sostenuto dall’Italia e dalla

Norvegia per l’annullamento della direttiva comunitaria.

Il giudizio, innescato ai sensi dell’art. 230 del Trattato CE (129)

all’indomani dell’approvazione della direttiva (19 ottobre 1998), ha vissuto una

fase d’urgenza caratterizzata dalla richiesta di sospensione dell’esecuzione della

direttiva e di adozione dei provvedimenti provvisori necessari ritenuti ragionevoli

e appropriati dall’organo giurisdizionale.

Tale fase intermedia si è conclusa con un’ordinanza del Presidente della

Corte (25 luglio 2000) di rigetto della pretesa sospensione di efficacia del testo

comunitario in quanto la domanda risultava carente del requisito d’urgenza, ossia

non dimostrava l’esistenza di un pregiudizio grave ed irreparabile per la

salvaguardia della dignità umana e dei diritti dei potenziali detentori di brevetti

biotecnologici nelle more di svolgimento dell’ordinario giudizio di annullamento.

La querelle giudiziaria si è, poi, definitivamente risolta con la sentenza del

9 ottobre 2001, che ha pienamente convalidato la Direttiva sulla protezione

brevettuale delle invenzioni biotecnologiche dichiarandola immune da vizi di

legittimità.

In particolare la Corte si è soffermata sui tre principali motivi di censura

avanzati dai Paesi Bassi e avallati dall’Italia e dalla Norvegia: la scelta errata

(129) L’art. 230 del Trattato istitutivo della Comunità Europea afferma che: “ La Corte di Giustizia esercita un controllo di legittimità sugli atti adottati congiuntamente del Parlamento europeo e dal Consiglio, sugli atti del Consiglio e della Commissione che non siano pareri o raccomandazioni, nonché sugli atti del Parlamento europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi “.

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dell’articolo 100A del Trattato quale base giuridica della direttiva e la necessità,

invece, di riferirsi all’articolo 308 del Trattato (ex art. 235) che richiede, per

l’adozione della direttiva, un consenso unanime degli Stati aderenti e non una

mera maggioranza qualificata; la violazione del principio della sussidiarietà e

della certezza del diritto; la violazione del diritto fondamentale al rispetto della

dignità della persona (130).

Sul primo versante la Corte ha rilevato la contiguità dello scopo concreto

della Direttiva con le finalità di ravvicinamento delle disposizioni legislative,

regolamentari ed amministrative degli Stati membri per l’instaurazione ed il

funzionamento del mercato interno; osserva, infatti, che “obbligando gli Stati

membri a proteggere le invenzioni biotecnologiche tramite il loro diritto nazionale

dei brevetti, la Direttiva ha effettivamente lo scopo di prevenire i rischi per

l’unicità del mercato interno che potrebbero derivare dal fatto che gli Stati membri

decidano unilateralmente di concedere o negare siffatta protezione”(131).

In sostanza, la Direttiva conseguirebbe l’effetto di impedire l’insorgenza di

possibili ostacoli agli scambi derivanti dalle discordanze e contrapposizioni

normative e dalle prassi amministrative in ordine alla brevettabilità del materiale

vivente; sarebbe, dunque, chiaramente orientata al fine di garantire un buon

funzionamento del mercato interno eliminando le eventuali cause di

sperequazione al trattamento brevettuale delle biotecnologie nei diversi

ordinamenti europei (132).

Con riferimento alla presunta violazione del principio di sussidiarietà, la

Corte ha rigettato le censure rilevando come, in questo caso, l’azione progettata

potesse essere realizzata meglio a livello comunitario che a livello di singoli Stati

membri poiché lo sviluppo di legislazioni e prassi nazionali differenziate osta al

buon funzionamento del mercato interno e crea una distorsione competitiva fra

aree “protette”, in cui viene riconosciuta la brevettabilità, a certe condizioni, del

materiale biologico, e aree “libere”, in cui viene negata la protezione

dell’esclusiva (133).

(130) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 178. (131) Si veda in merito la Decisione della Corte di Giustizia, 9 ottobre 2001, causa C-

377/98, in GADI, 2001, pp. 4377 ss. (132) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 179. (133) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 180.

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Un altro motivo di ricorso è costituito dalla presunta violazione del

principio della certezza del diritto sancito dal diritto comunitario; in particolare, il

ricorrente lamenta un richiamo oltremodo generico ai criteri di ordine pubblico e

di buon costume che lascia, di conseguenza, un eccessivo margine di

discrezionalità in favore degli ordinamenti nazionali.

Senonchè, la Corte ha rilevato come lo stesso trentanovesimo

considerando della Direttiva riconduca i concetti di ordine pubblico e di buon

costume nei principi etici e morali propri di ciascuno Stato membro, ragione per

cui è inevitabile che vi possa essere un’interpretazione non necessariamente

uniforme di questi criteri, senza che per questo si possa parlare di contrasto con il

principio della certezza del diritto (134).

Ordine pubblico e buon costume sono concetti tradizionalmente utilizzati

nel diritto nazionale dei brevetti, cui si rinvia anche per assicurare quel margine di

flessibilità nell’adeguamento interno che dia conto dei diversi contesti sociali e

culturali di ciascuno Stato membro (135).

Peraltro, uno dei compiti della Corte di Giustizia è proprio quello di

vigilare in modo continuo sulla corretta applicazione di questi criteri e di impedire

che la discrezionalità concessa agli Stati membri possa trasformarsi in abuso (136).

Sul terzo aspetto, legato alla presunta strumentalizzazione del materiale

umano vivente, lesiva della dignità umana, la Corte sostiene che un tale effetto sia

stato scongiurato dalla Direttiva attraverso l’affermazione del principio per cui

non è brevettabile il corpo umano nei vari stadi della sua costituzione e del suo

sviluppo, né sono brevettabili, di per sé ed al di fuori di un’applicazione pratica, i

suoi diversi elementi costitutivi: questi ultimi sono brevettabili solo a condizione

che siano associati ad un processo tecnico che consenta di isolarli e produrli

autonomamente dal loro ambiente naturale e siano individuati e prodotti in vista di

uno sfruttamento industriale e di una applicazione e funzione concreta (137).

Infine, ed in ciò si coglie un aspetto di rilievo della sentenza, la Corte

riconosce che gli Stati membri, in nome della salvaguardia di irrinunciabili

principi etici, quali il diritto alla consapevole autodeterminazione delle persone,

(134) Cfr. F. ROSSI DAL POZZO, Biotecnologie, contenzioso comunitario e norme italiane, in Contr. e Impr., 2003, I, pp. 284 ss.

(135) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 180. (136) Cfr. F. ROSSI DAL POZZO, Biotecnologie, contenzioso comunitario e norme

italiane, cit., pp. 284 ss. (137) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 181.

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possano introdurre limitazioni o divieti legali riguardanti la ricerca o lo

sfruttamento di prodotti brevettati, e, quindi, possano porre restrizioni alle

operazioni anteriori o posteriori al rilascio del brevetto, senza peraltro poter

direttamente impedire la brevettazione di materiale biologico ottenuto ai sensi

della direttiva.

Si possono prevedere, ad opera delle legislazioni nazionali, controlli

sanitari e richieste di consenso sul prelievo ed utilizzo di materiale biologico sui

pazienti interessati, certificazioni di conformità, diritti di informazione per i

consumatori, apposite licenze o autorizzazioni alla commerciabilità del prodotto

biotecnologico brevettato, ovvero si può anche escludere tout court la

realizzazione, l’uso o la vendita di un prodotto brevettato o di un suo particolare

impiego, purché ciò avvenga nel momento successivo alla procedura di rilascio

del brevetto che non risente di tali divieti legali, salvo il limite della compatibilità

con l’ordine pubblico e il buon costume (138).

§ 6. La situazione italiana: la legge 22 febbraio 2006 n. 78

attuativa della Direttiva 98/44/CE.

Come si è precedentemente evidenziato, estremamente lungo e complesso

è stato l’iter relativo alla redazione della Direttiva comunitaria, la cui finalità era

quella di garantire, tramite l’adozione dello strumento brevettuale, gli investimenti

alla ricerca biotecnologica e, conseguentemente, lo sviluppo concorrenziale di

quest’ultima nei confronti degli USA e del Giappone.

Altrettanto laborioso è stato il recepimento della Direttiva da parte degli

Stati membri e, in particolare, dell’Italia.

L’atteggiamento italiano nei confronti delle biotecnologie avanzate e della

possibilità di tutelarne le invenzioni attraverso l’adozione dello strumento

(138) Cfr. BERGHE’ LORETI – MARINI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 793.

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brevettuale è storicamente stato di estrema diffidenza; nel corso dei lavori

preparatori della Direttiva n. 98/44, la persistenza di numerose perplessità aveva

condotto il nostro Paese a chiedere delle moratorie allo scopo di approfondire le

implicazioni etiche, economiche e scientifiche delle biotecnologie, ed il mancato

accoglimento dell’istanza aveva causato l’astensione dell’Italia nel

raggiungimento della posizione comune del Consiglio del 26 febbraio 1998.

La presentazione di un’ulteriore richiesta di moratoria e un intervento

attivo per la sospensione dell’approvazione, peraltro, vennero sollecitate dal

Senato il 10 maggio 1998, ossia due giorni prima della votazione finale del

Parlamento Europeo, quando ormai lo stato dei lavori era tanto avanzato da non

consentire all’eventuale domanda di dispiegare alcuna concreta utilità in tal senso

(139).

Nello stesso ordine di idee si colloca l’adesione dell’Italia al ricorso

presentato dai Paesi Bassi contro la Direttiva; a questo proposito, la Corte di

giustizia ha prima negato la sospensione in via d’urgenza dell’esecuzione della

direttiva con ordinanza 25 luglio 2000 e, poi, ha rigettato il ricorso con sentenza 9

ottobre 2001.

In seguito al deposito della sentenza della Corte di giustizia, la

Commissione CE avviò la procedura di infrazione ai sensi dell’art. 226 del

Trattato CE contro gli Stati membri che non avevano attuato la direttiva.

La condanna dell’Italia arrivò con la sentenza 16 giugno 2005 e, a questo

punto, il Governo diede attuazione alla Direttiva con il decreto legge 10 gennaio

2006 n. 3, il quale fu, poi, convertito con legge 22 febbraio 2006 n. 78.

Da un punto di vista operativo, il significato e il valore reale che possono

essere attribuiti alla normativa nazionale di recepimento sono verosimilmente

piuttosto contenuti, e ciò non tanto per la modestia della ricerca biotecnologica

che è attiva oggi in Italia, quanto piuttosto per lo scarso interesse che le invenzioni

biotecnologiche rivestono per i sistemi brevettali nazionali, trattandosi

generalmente di invenzioni il cui mercato supera i confini nazionali (140).

La ricezione della Direttiva, di contro, può avere un significato politico

importante, quale indicatore della volontà del nostro Paese di tenersi agganciato

(139) Cfr. G. AGLIALORO, Il diritto delle biotecnologie dagli Accordi TRIPS alla Direttiva n. 98/44, cit., p. 92.

(140) Cfr. V. DI CATALDO, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Le nuove leggi civ.i comm , 2008, p. 359.

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all’Europa su un tema così delicato, manifestando, al contempo, l’intenzione degli

Stati membri di superare il tempo del dibattito sull’opportunità di una disciplina

dei brevetti per le invenzioni biotecnologiche, per avviare una più feconda

riflessione sulle norme ad esse relative, valutandone l’adeguatezza e le modalità

interpretative (141).

Il testo legislativo si apre con l’art. 1 in cui viene formulato un riferimento

ad un certo numero di convenzioni internazionali, ed esattamente: la CBE –

Convenzione di Monaco sul brevetto europeo del 1973; la Convenzione di Rio de

Janeiro sulla diversità biologica del 1992; la Convenzione di Oviedo per la

protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo

all’applicazione della biologia e della medicina del 1997 ed il suo Protocollo

addizionale sul divieto di clonazione di esseri umani del 1998; e il cosiddetto

Accordo TRIPS, Accordo di Marrakech sugli aspetti dei diritti di proprietà

industriale attinenti al commercio del 1994.

Con riferimento alla Convenzione di Monaco è possibile osservare come

essa sia pienamente compatibile con la Direttiva 98/44/CE, poiché quest’ultima

propone una disciplina speciale dei brevetti biotecnologici che si innesta

all’interno del diritto brevettale comune, del quale mutua non solo i principi

basilari e le regole della struttura di fondo, ma anche tutte le regole di dettaglio

che non sono state derogate attraverso la predisposizione di norme speciali, le

quali, pur potendo essere diverse da quelle proposte dalla Convenzione, si

collocano in uno spazio che la Convenzione non occupa, dal momento che essa

non riguarda specificamente i brevetti biotecnologici.

La Convenzione di Oviedo del 1997 e il relativo Protocollo addizionale del

1998, poi, non riguardano neanche indirettamente il sistema brevettuale, visto che

disciplinano l’attività di ricerca condotta sugli esseri umani e prevedono

determinati standards di protezione, vietando alcune attività come la clonazione

riproduttiva e la produzione di embrioni a scopo sperimentale.

La Convenzione sulla diversità biologica del 1992, invece, annovera tra i

suoi obiettivi la ripartizione giusta ed equa dei vantaggi derivanti dallo

sfruttamento delle risorse genetiche, riconosce che tali risorse sono soggette alla

sovranità dei paesi in cui si trovano e, infine, sancisce che i benefici risultanti

(141) Cfr. V. DI CATALDO, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche,

cit., p. 359.

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dall’utilizzazione commerciale delle risorse stesse devono essere ripartiti secondo

modalità convenute di comune accordo dagli Stati interessati.

L’ultimo impegno convenzionale citato dalla norma in esame è quello

derivante dall’Accordo TRIPS, il quale è menzionato dalla Direttiva sia al

considerando 12, che impegna gli Stati membri a garantire l’accesso al brevetto in

tutti i settori della tecnica senza discriminazioni, sia al considerando 36, che

consente di escludere la brevettabilità di talune invenzioni per ragioni di ordine

pubblico o di moralità pubblica o di tutela della vita e dell’ambiente.

L’articolo 2 della legge n. 78 del 2006 accoglie in modo letterale le

definizioni di cui all’articolo 2 della direttiva CE 98/44 ed esprime un deciso

favor nei riguardi della brevettabilità delle biotecnologie.

Con riferimento alla tutela delle biotecnologie, infatti, si ripropone la

struttura di fondo del moderno sistema brevettuale, imperniata su una regola

generale di brevettabilità di tutte le invenzioni in qualsiasi settore della tecnica e,

quindi, delle invenzioni anche in campo biologico, limitata da un numero

circoscritto di eccezioni alla brevettabilità, tassative e di stretta interpretazione

(142).

Si tratta di un’impostazione definitivamente consacrata a livello

internazionale dall’Accordo TRIPS, il quale all’art. 27 obbliga gli Stati membri ad

ammettere alla brevettazione tutte le invenzioni dotate dei comuni requisiti di

novità, attività inventiva e industrialità, senza discriminazione di campo

tecnologico, e fissa un elenco tassativo molto ristretto di eccezioni alla

brevettazione che gli Stati hanno facoltà di prevedere in deroga alla regola

generale.

L’art. 3 detta, poi, il principio di brevettabilità delle invenzioni

biotecnologiche all’interno della tradizionale tripartizione che viene fatta nel

diritto nazionale dei brevetti tra invenzioni di prodotto, di procedimento e di uso.

In base all’art. 3 comma 1° lett. a) possono essere brevettati come prodotti

tutti i materiali biologici, anche quando preesistenti in natura, purchè isolati

dall’ambiente nel quale si trovano, oppure realizzati tramite procedimento tecnico;

il riferimento, però, non è confinato ai microrganismi, ma si estende a qualsiasi

materiale biologico anche di organismi superiori, ivi compresi gli elementi isolati

(142) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., 2008, p. 365.

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del corpo umano, con esclusione soltanto del corpo umano, in qualsiasi stadio del

suo sviluppo, delle razze animali e delle varietà vegetali (143).

Con riguardo alle invenzioni di procedimento, la lett. b) parla di

“procedimenti tecnici” per la produzione, la lavorazione o l’impiego di materiale

biologico, intendendosi per procedimento tecnico un procedimento che non

consiste integralmente in fenomeni naturali e che la natura non può compiere

senza l’essenziale intervento, in qualche fase, dell’uomo (144); la norma, dunque,

non fa che confermare il principio, già precedentemente espresso dal diritto

nazionale ed europeo dei brevetti, della brevettabilità dei procedimenti

microbiologici e dei procedimenti non essenzialmente biologici, e quindi tecnici,

per l’ottenimento di animali e vegetali, come pure di tutti i prodotti direttamente

ottenuti tramite tali procedimenti, ad esclusione soltanto delle razze animali e

delle varietà vegetali, considerate non brevettabili come tali, a prescindere dal

procedimento di ottenimento.

Inoltre la norma considera brevettabile qualunque applicazione nuova di

un materiale biologico o di un procedimento tecnico già brevettati, riproponendo,

in questo settore, uno dei principi fondamentali del diritto dei brevetti, secondo il

quale l’esistenza di un brevetto su un prodotto non impedisce che possa essere

brevettata un nuova applicazione del medesimo prodotto; da notare, in ogni caso,

come la medesima regola valga anche quando il materiale preesistente non sia già

brevettato ma sia comunque noto, e cioè accessibile al pubblico.

La regola della brevettabilità del nuovo uso, poi, viene riferita dalla norma

in commento non solo ai prodotti ma anche ai procedimenti; tuttavia un

procedimento già noto, per poter avere un’applicazione diversa da quella

conosciuta, dovrebbe essere modificato in qualche aspetto, il che lo rende

inevitabilmente un procedimento per qualche aspetto diverso dal precedente e,

quindi, un nuovo procedimento a sua volta eventualmente brevettabile. Viceversa,

un nuovo uso di un prodotto noto può essere conseguibile anche all’interno di un

procedimento di applicazione già noto, e quindi non dar luogo a un procedimento

tecnicamente nuovo, ma soltanto a un nuovo uso (145).

(143) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., 2008, p. 370. (144) Si veda a tal proposito la lett. d) dell’art. 3 della legge n. 78 del 2006. (145) Cfr, GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettabilità delle scoperte-invenzioni, in Riv.

dir. ind. , 1999, I, pp. 97 ss.

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La norma prosegue alla lettera d) sancendo la brevettabilità anche delle

parti isolate del corpo umano, fermo restando il divieto relativo al corpo umano

nel suo complesso e a qualunque stato del suo sviluppo, ivi compresi gli embrioni

e le cellule staminali; tuttavia, la norma interna specifica che l’elemento di origine

umana possa essere brevettato solo quando ne sia stata concretamente indicata,

descritta e specificamente rivendicata l’applicazione industriale.

La previsione dell’onere, per il richiedente, di rivendicare la funzione e

l’applicazione industriale non ha precedenti nella legislazione italiana e significa

che un brevetto sul materiale biologico umano non potrà essere concesso se la sua

tutela non è limitata a una applicazione industriale specifica (146).

Infine, l’art. 3 comma 1° lett. e) riconosce la brevettabilità anche di

invenzioni relative a piante e animali qualora non si risolvano in varietà vegetali o

in razze animali; la ratio di tale norma sembra essere quella di affermare la

brevettabilità anche di organismi biologici superiori nel mondo animale e

vegetale, e quindi non soltanto dei microrganismi, salvaguardando al tempo stesso

il tradizionale divieto di brevettazione delle varietà vegetali e delle razze animali.

Storicamente, i motivi della non brevettabilità di piante e animali sono da

ricercare non solo in obiezioni di carattere etico, ma anche nell’idea che considera

gli organismi viventi come il risultato di processi naturali, rispetto ai quali l’uomo

potrebbe avere solo un ruolo secondario limitandosi a indirizzarne il corso,

nonché nel fatto che le nuove piante e razze animali sono spesso frutto di fattori

naturali casuali e non controllabili, con la conseguenza che il procedimento di

ottenimento non è ripetibile con caratteri costanti (147).

La ratio del divieto di brevettazione per le varietà vegetali è quello di

mantenere in questo settore la speciale forma di tutela emersa in sede

internazionale e nazionale; l’Accordo TRIPS dispone, infatti, che le varietà

vegetali devono essere protette tramite brevetto o disciplina speciale, così

confermando che il divieto di brevettazione in questione non può essere motivato

(146) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 389. (147) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., 2008, p. 391.

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dalla volontà di escludere in generale ogni protezione per questi risultati, ma da

un’esigenza di coordinamento dei diversi mezzi di tutela (148).

Per le razze animali, invece, non esiste un sistema di protezione alternativo

al brevetto, sicché l’impedimento alla brevettazione risulta difficilmente

giustificabile in termini razionali; nonostante l’oscura motivazione giuspolitica

della previsione, il legislatore ha deciso comunque di confermare l’esclusione, già

prevista dalla direttiva, rendendola obbligatoria.

Nell’articolo 4, invece, sono raggruppati, senza un particolare ordine

sistematico, i limiti alla brevettazione delle invenzioni in campo biotecnologico.

La lett. a) attua l’art. 5 comma 1° della Direttiva CE 98/44 e vieta la

brevettazione del corpo umano dal momento del concepimento e nei vari stadi del

proprio sviluppo, con inclusione degli embrioni e delle cellule germinali.

La lett. b) conferma, invece, il divieto di protezione per i metodi per il

trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e i metodi di

diagnosi applicati al corpo umano o animale, che il Codice di proprietà industriale

già prevede all’art. 45 comma 4.

La norma prosegue, poi, alla lett. c) precludendo la brevettazione delle

invenzioni “il cui sfruttamento commerciale sia contrario alla dignità umana,

all’ordine pubblico e al buon costume, nonché alla tutela della salute,

dell’ambiente e della vita delle persone e degli animali, alla preservazione dei

vegetali e della biodiversità e alla prevenzione di gravi danni ambientali”.

Si tratta, dunque, di una clausola generale formulata in maniera più

analitica di quella corrispondente della Direttiva, la quale all’art. 6 comma 1° si

riferisce in generale alle invenzioni il cui sfruttamento commerciale sia contrario

all’ordine pubblico e al buon costume (149).

La ratio della norma in esame è strettamente connessa con la fattispecie

costitutiva del diritto di brevetto.

A differenza della tutela d’autore, la quale sorge a titolo originario con la

creazione dell’opera anche quando essa sia contraria all’ordine pubblico o al buon

costume, l’esclusiva brevettuale si costituisce in seguito ad un atto amministrativo

concesso da un organo dello Stato; quest’ultimo si presta, dunque, ad essere

(1489 Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 392.

(149) Per l’approfondimento del limite dell’ordine pubblico e del buon costume si veda il paragrafo 4 del capitolo 1 pp. 15 ss.

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interpretato come una forma di approvazione per la tecnologia brevettata e di

riconoscimento pubblico per l’inventore della medesima da parte dell’autorità

brevettante.

Scopo del divieto è, quindi, quello di impedire che tale equivoco e il

conseguente disorientamento sociale sorgano in relazione a soluzioni tecniche il

cui sfruttamento commerciale si porrebbe in conflitto con principi fondamentali

dell’ordinamento giuridico (150).

L’atto, la cui contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume esclude il

rilascio del titolo, è rappresentato dallo “sfruttamento commerciale” del trovato,

termine che fa riferimento soltanto agli atti futuri di utilizzazione economica del

trovato, non comprendendo, invece, le attività sperimentali che hanno preceduto il

deposito della domanda.

Il divieto non sarebbe applicabile, di conseguenza, quando nello sviluppo

dell’idea inventiva sono stati commessi illeciti, ma la loro reiterazione non sia

necessaria per attuare il trovato.

Infine, degno di nota è il rilievo secondo cui, accanto alla clausola generale

sopra menzionata, vengono enucleate una serie di ipotesi nominate,

sostanzialmente corrispondenti a quelle previste dalla Direttiva comunitaria all’

art. 6 (151).

La lett. d) dell’art. 4, poi, ricollegandosi alla lett. a) contenente il divieto di

brevettazione del corpo umano nel suo complesso, inibisce la brevettazione anche

della mera scoperta di singoli elementi del corpo umano, ivi compresi i geni e le

sequenze parziali di geni; realtà che divengono, invece, brevettabili quando di esse

sia indicata un’applicazione industriale (152).

Alla base del divieto non vi sono qui motivazioni etiche assolute, bensì

l’esigenza di non monopolizzare le parti del corpo umano, ostacolando la

successiva ricerca, se di tali parti non siano state individuate utilizzazioni

industrialmente utili (153).

Il diritto brevettuale vigente non contempla un esame preventivo dei

requisiti di validità; tuttavia, l’UIBM è tenuto a verificare che l’oggetto

(150) Cfr. SCHATZ, in IIC 98, 2, 6, in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza a cura di UBERTAZZI, CEDAM, Padova, 2007, p. 1376.

(151) Si veda in merito il paragrafo 4 del capitolo 2 pp. 47 ss. (152) Si veda in merito il paragrafo 5 del capitolo 1 pp. 21 ss. (153) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 398.

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rivendicato sia un’invenzione tecnica nel senso previsto dall’ art. 45 cpi, non

consista in una razza animale o in un procedimento biologico per il suo

ottenimento, non riguardi metodi terapeutici, sia conforme all’ordine pubblico e al

buon costume (154).

Ed è proprio per consentire l’esame di quest’ultimo requisito che l’art. 5 ha

introdotto, al 1° comma, la possibilità di richiedere un parere del Comitato

nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie, parere facoltativo e, di regola,

non vincolante per l’UIBM che dovrà riferirsi esclusivamente alla liceità del

trovato; saranno, quindi, escluse e, se formulate, irrilevanti eventuali valutazioni

sugli altri divieti di brevettazione.

Il comma 2°, riprendendo il considerando n. 27 della direttiva CE 98/44

secondo il quale “se un’invenzione ha per oggetto materiale biologico vegetale o

animale o lo utilizza, la domanda dovrebbe contenere indicazioni sul luogo

geografico di origine del materiale in questione, nel caso in cui esso sia noto”, ha

previsto l’obbligo di indicare il Paese di origine dell’animale o vegetale dal quale

è stato isolato il materiale biologico che è alla base dell’invenzione, pur

precisando che tale dichiarazione ha il fine di consentire di “accertare il rispetto

della legislazione in materia di importazione e di esportazione”.

Con riguardo alla ratio della dichiarazione di provenienza, essa va

ricercata nella volontà di garantire il maggior grado possibile di trasparenza per la

realizzazione dell’obiettivo dell’accesso alle risorse genetiche e della condivisione

dei benefici stabilito dall’art. 1 della Convenzione sulla diversità biologica, il

quale richiede “a fair and equitable sharing of the benefits arising out of the

utilization of genetic resources” (155).

La norma prosegue, poi, richiedendo il consenso libero e informato

dell’avente diritto per il prelievo del materiale biologico di origine umana,

consenso non necessario, invece, per i materiali biologici di origine vegetale e

animale.

Le ragioni della necessità del consenso sono, in tal caso, prima ancora che

patrimoniali, etiche. Il prelievo e l’utilizzo di materiale biologico di origine umana

(154) Cfr. L. C. UBERTAZZI, Legge 22 febbraio 2006 n. 78 – Attuazione della direttiva

CE 98/44 in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, CEDAM, Padova, 2007, p. 1387.

(155) Cfr. F. LEONINI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Le nuove leggi civ. comm.,2008, p. 415.

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senza il consenso informato costituiscono, infatti, gravi lesioni della libertà

personale, dell’integrità fisica e della dignità umana (156).

I commi 5° e 7° prevedono, rispettivamente, il cosiddetto privilegio

dell’agricoltore e quello dell’allevatore, in attuazione dell’art. 11 della Direttiva

comunitaria avente ad oggetto una deroga al diritto di esclusiva su materiale

brevettato di origine vegetale o animale per l’utilizzo da parte degli agricoltori e

degli allevatori a fini di moltiplicazione e riproduzione in proprio nella loro

azienda.

La legge n. 78 del 2006 si occupa, poi, dell’ipotesi della interferenza

reciproca fra privative vegetali e brevetti biotecnologici: ciò sia nel caso in cui lo

sfruttamento di un ritrovato vegetale non sia possibile senza violare un brevetto

anteriore, sia nel caso simmetrico in cui lo sfruttamento di un’invenzione riguarda

l’uso di una varietà vegetale protetta.

Per entrambe le segnalate ipotesi di dipendenza l’art. 6 della legge in

esame ha introdotto, in attuazione dell’art. 12 della direttiva CE 98/44, la

possibilità per il titolare della privativa posteriore di richiedere una licenza

obbligatoria dal titolare di quella anteriore e, specularmene, la facoltà del titolare

della privativa anteriore di ottenere una cross-licence sul titolo posteriore.

Dato che il titolo di protezione posteriore è trattato come brevetto

dipendente, la norma viene a svolgere la funzione di “cerniera” fra il sistema delle

invenzioni biotecnologiche e quello delle varietà vegetali (157).

Con riferimento, invece, alle condizioni necessarie per ottenere il rilascio

delle licenze obbligatorie, occorre innanzi tutto dimostrare di essersi rivolti invano

al titolare del diritto anteriore per ottenere la stipula di un contratto di licenza,

senza, cioè, essere riusciti a concludere il contratto di licenza volontaria; in

secondo luogo sarà necessario che il trovato, per il cui sfruttamento si chiede la

licenza, costituisca un progresso tecnico significativo di notevole interesse

economico, rispetto al trovato coperto dalla privativa anteriore.

L’articolo 7 si occupa, poi, di comminare la sanzione della nullità agli atti

giuridici e alle operazioni negoziali compiuti in violazione dei divieti previsti

dalla legge n. 78 del 2006 e, segnatamente, dei divieti contenuti nell’art. 4.

(156) Cfr. F. LEONINI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 418.

(157) Cfr. G. FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, GIUFFRE’, Milano, 2006, p. 408.

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La comparsa della norma in commento è da ricollegarsi, dunque,

all’intenzione del legislatore di dettare una norma omnicomprensiva, ad ulteriore

garanzia del rispetto delle disposizioni di divieto (158).

L’articolo 8, rubricato “estensione della tutela”, attua gli articoli 8 e 9

dell’atto comunitario e definisce l’ambito di protezione dei brevetti di prodotto e

di procedimento attraverso il principio per cui i limiti della protezione sono

determinati dal tenore delle rivendicazioni.

Il primo comma estende la tutela attribuita da una rivendicazione di

prodotto ad ogni materiale derivato da quello oggetto di brevetto, purché dotato

delle stesse proprietà.

Scopo della norma è, quindi, quello di consentire al titolare del diritto di

vietare l’utilizzazione del materiale autoriproducibile brevettato in circostanze

analoghe a quelle in cui l’utilizzazione di prodotti brevettati non riproducibili

potrebbe essere vietata, ossia la produzione del prodotto brevettato stesso (159).

La protezione conferita dalla norma è, poi, subordinata a tre requisiti.

Innanzitutto la privativa deve riguardare materiale biologico nel senso previsto

dall’art. 2 comma 1° lett. a) l. 78/2006. Il prodotto deve, inoltre, presentare le

medesime proprietà di quello brevettato, vale a dire le stesse caratteristiche

tecniche che hanno giustificato il rilascio della privativa. Infine, il predetto

materiale deve essere stato ottenuto dall’oggetto rivendicato mediante

riproduzione o moltiplicazione.

Il comma successivo disciplina, invece, la tutela conferita da una

rivendicazione di processo, quando essa abbia per oggetto un metodo per la

produzione di sostanze biologiche.

La protezione, in questa ipotesi, comprenderà ogni materiale direttamente

ottenuto da tale procedimento e qualsiasi altro materiale derivato dal materiale

biologico direttamente ottenuto, purché dotato delle medesime proprietà.

(158) Cfr. R. PENNISI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Le

nuove leggi civ. comm., 2008, p. 430. (159) Cfr. l. C. UBERTAZZI, Legge 22 febbraio 2006 n. 78 – Attuazione della direttiva

CE 98/44 in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit. , pp. 1391.

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In definitiva, la norma attribuisce al prodotto direttamente ottenuto da un

procedimento la medesima tutela contro le riproduzioni non autorizzate prevista

dal primo comma per le invenzioni di prodotto (160).

L’ultimo comma detta, infine, una regola specifica per le rivendicazioni

riguardanti sequenze geniche; in tal caso la protezione sarà estesa ad ogni

materiale biologico in cui l’acido nucleico protetto dal brevetto sia incorporato e

svolga la sua funzione.

La legge si conclude con l’art. 10, attuativo degli articoli 13 e 14 della

direttiva comunitaria, relativo al deposito e all’accesso al materiale biologico.

Il deposito è necessario solo quando l’esperto del ramo non sia in grado,

sulla base della descrizione contenuta nella richiesta di brevetto integrata dalle sue

conoscenze generali, di attuare il trovato senza dispiego di autonoma attività

inventiva.

La valutazione sulla necessità della consegna del materiale è, poi, rimessa

al titolare del diritto, sul quale gravano le conseguenze di eventuali errori; se,

infatti, egli ritiene che la descrizione sia conforme all’art. 51 comma 2 cpi, ma il

giudizio è errato, non sarà più possibile rimediare al vizio della domanda

mediante un successivo deposito, il quale potrà, semmai, integrare una richiesta

posteriore, e non quella precedentemente formulata. Viceversa una volta effettuato

il deposito, non sarà più possibile impedire che terzi, in caso di rilascio del titolo,

ricevano campioni delle colture consegnate, e ciò anche quando si dimostri che la

rappresentazione scritta consente l’attuazione del trovato (161).

Più controverso è, invece, l’istituto dell’accesso, da parte di terzi, alle

colture depositate dal richiedente, e ciò in relazione al fatto che il materiale

biologico è capace di replicarsi in modo autonomo e duraturo, con la conseguenza

che il rilascio del campione implica il trasferimento degli strumenti necessari per

la produzione delle sostanze protette.

La normativa in esame suddivide, poi, il periodo successivo al deposito

della domanda di brevetto in tre fasi.

Nella prima fase, anteriore alla pubblicazione della domanda di brevetto,

l’accesso al materiale biologico è consentito solo alle persone autorizzate ai sensi

(160) Cfr. T. FAELLI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Le nuove leggi civ. comm., 2008, p. 436 ss.

(161) Cfr. L. C. UBERTAZZI, Legge 22 febbraio 2006 n. 78 – Attuazione della direttiva CE 98/44 in materia di protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit. , pp. 1394.

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del diritto nazionale dei brevetti, con esclusione della possibilità per i terzi di

consultare la domanda stessa.

Nella seconda fase, che va dalla pubblicazione della domanda alla

concessione del brevetto, l’accesso al materiale biologico è consentito a chiunque

ne faccia richiesta, a meno che il depositante abbia richiesto che l’accesso sia

limitato ad un esperto indipendente.

Nell’ultima fase, relativa al rilascio del brevetto, ogni persona interessata

potrà ricevere le sostanze depositate qualora si impegni a non rendere accessibile

a terzi il campione e i suoi derivati oppure a utilizzare il medesimo a fini

sperimentali.

Ne deriva che la finalità della norma non è soltanto quella di rendere più

agevole al depositante l’onere di descrivere l’invenzione (onere che, a sua volta,

ha la finalità di consentire l’acquisizione dell’invenzione al patrimonio collettivo

così che la persona esperta del ramo sia in grado di attuarla) ma anche di favorire,

in conseguenza della possibilità di accesso al materiale biologico a fini

sperimentali già durante la vita del brevetto, l’ulteriore ricerca da parte di terzi nel

solco tracciato dall’invenzione (162).

(162) Cfr. F. LEONINI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p.

415.

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CAPITOLO III

IL BREVETTO BIOTECNOLOGICO: TRA BREVETTO DI

PRODOTTO E BREVETTO DI PROCEDIMENTO

§ 1. La novità dell’ invenzione biotecnologica.

La Direttiva comunitaria, al Considerando 8, prevede espressamente che

“il diritto nazionale in materia di brevetti rimane il riferimento fondamentale per

la protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, pur dovendo essere

adeguato e completato su taluni punti specifici”.

Il legislatore europeo è, quindi, conscio del fatto che la disciplina

brevettuale non copre, e non è in grado di coprire, tutti i settori della tecnica in

termini unitari e costanti.

L’accesso di un settore nuovo della tecnica al brevetto porta di solito con

sé l’emersione di nuove esigenze, proprie del settore nuovo, e richiede la

creazione di regole nuove (163).

L’applicazione delle regole note a nuovi problemi pone la necessità di

aggiustamenti e ritocchi, oltre a realizzare anche un effetto più singolare:

l’emersione di problemi nuovi induce a dare una diversa lettura alle regole

tradizionali ed il settore nuovo propone la riscrittura delle regole da applicare non

ad esso solo ma anche a quelli già noti (164).

La Direttiva, allora, evita saggiamente di proporre una disciplina

dettagliata e completa delle invenzioni biotecnologiche, visto che il regime di tali

invenzioni è tutto da costruire, dovendosi fare riferimento per tale operazione da

un lato agli spunti contenuti nella Direttiva, dall’altro alle indicazioni che possono

essere colte nella esperienza già acquisita e nella riflessione sulla casistica dei

primi anni di emersione delle biotecnologie.

Da notare, poi, come questo discorso valga in particolare per i requisiti di

brevettabilità.

(163) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., p. 177. (164) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., p. 177.

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Le invenzioni biotecnologiche sono, infatti, brevettabili quando

possiedono i comuni requisiti di brevettabilità: novità, attività inventiva e

applicazione industriale.

Tali requisiti non vengono, però, ulteriormente disciplinati dalla Direttiva,

essendo con ciò chiaro che si tratta dei medesimi requisiti generali di

brevettazione valevoli per tutte le altre invenzioni, in ossequio al principio di non

discriminazione tra i diversi settori della tecnica; non resta, dunque, che osservare

le modalità con cui tali requisiti si attagliano alle specificità del brevetto

biotecnologico.

Il primo requisito che viene in considerazione è quello della novità, il

quale si riferisce alla soluzione di un problema prima ignoto, ovvero alla

soluzione di un problema già noto ma ancora insoluto o risolto diversamente, “nel

presupposto che la soluzione implichi il ritrovamento di un nuovo rapporto

causale e sia la conseguenza dei mezzi trovati dall’inventore” (165).

In tal senso, si richiede che l’invenzione “non sia compresa nello stato

della tecnica”, ossia “non sia stata resa accessibile al pubblico anteriormente alla

data di deposito della domanda di brevetto”.

Con specifico riferimento al settore dei trovati biotecnologici, lo stato della

tecnica sarà caratterizzato dalle informazioni pertinenti le caratteristiche, le

proprietà, la struttura fisica e chimica di un particolare microrganismo, di un

organismo oppure di un dato segmento di DNA così come rilevabili tramite lo

studio dei componenti depositati (166).

Peraltro, è proprio il riferimento alla “accessibilità” e alla “disponibilità” a

far salvo il presupposto della novità: perché un trovato biotecnologico sia

considerato come appartenente allo stato della tecnica non è sufficiente che esista

in natura, ma è indispensabile la sua possibilità di utilizzo da parte della

collettività. Ecco che, allora, il materiale biologico non isolato non appartiene allo

stato della tecnica e, di conseguenza, una volta reso disponibile tramite

l’intervento umano, diviene nuovo, sebbene, almeno in teoria, già esistente (167).

(165) Cfr. G. CAFORIO, Le invenzioni biotecnologiche nell’unità del sistema brevettuale,

cit., p. 63. (166) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 150. (167) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 151.

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Per poter essere considerata “accessibile” l’invenzione deve essere

divulgata in forma scritta, orale o con qualsiasi altro mezzo, ivi inclusa

un’utilizzazione, in maniera tale da consentire a un tecnico esperto del ramo di

attuarla con carattere costante (168).

Ai fini della sussistenza del requisito della novità sarà, dunque, necessario

che l’invenzione non sia stata divulgata, ossia non sia stata resa accessibile al

pubblico prima del deposito della domanda di brevetto, e quindi non sia stata

pubblicata o in altra forma resa conoscibile a terzi.

I due criteri di misurazione della novità sono, dunque, l’anteriorità, per cui

è necessario che l’invenzione non sia stata realizzata da altri, e la mancata

predivulgazione, ossia il fatto che non sia stata già comunicata dallo stesso autore

a terzi non tenuti al segreto.

Il parametro va inteso in senso restrittivo ed assoluto, sicchè a nulla rileva

la circostanza che la divulgazione sia avvenuta in un paese diverso da quello per il

quale si richiede la protezione brevettuale così come il fatto che la comunicazione

sia rivolta ad un numero ristretto di persone o, al limite, ad una sola persona,

purchè in grado di comprenderne il messaggio, e conseguentemente di attuare

l’insegnamento in esso contenuto o di trasmetterlo ad altri con sufficiente grado di

precisione da consentirne l’attuazione (169).

In ogni caso, non si ha predivulgazione quando l’inventore comunica i

propri risultati a soggetti vincolati al segreto (170), così come non si verifica

un’anteriorità opponibile all’inventore ogni volta in cui altro imprenditore usi la

stessa invenzione nella propria azienda così maturando un diritto al preuso sulla

stessa; in questo caso è l’esistenza del diritto ad escludere che il preuso, sempre

che sia rimasto segreto e riservato, possa distruggere la novità dell’invenzione.

Inoltre la divulgazione avvenuta nei sei mesi antecedenti alla data di

deposito del brevetto che sia frutto di un abuso evidente ai danni del richiedente o

del suo dante causa non incide sulla sussistenza del requisito della novità. Ciò

significa che quando la divulgazione sia immediatamente a ridosso del deposito e

si riesca a dimostrare che è stata realizzata, non solo all’insaputa dell’inventore,

(168) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 371. (169) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., pp. 164 ss. (170) Il riferimento è ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi, ai finanziatori e ai

soggetti vincolati ad un patto di riservatezza e di non concorrenza.

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ma addirittura coscientemente e dolosamente per recargli un danno, essa non

inficerà il rilascio del brevetto.

In relazione all’area della novità, uno tra i più gravi problemi emersi

attiene alla brevettabilità di un prodotto realizzato per via biotecnologica, quando

esso sia già presente in natura.

In questa ipotesi la brevettabilità può essere posta in dubbio sotto vari

profili: da un lato dicendosi che nel caso si ha una scoperta e non un’invenzione,

dall’altro affermandosi che mancherebbe il requisito della novità (171).

Di grande portata è, quindi, l’art. 3 della legge n. 78 del 2006, la quale

risolve espressamente il dubbio e fornisce utili chiarimenti circa l’applicazione del

requisito della novità a elementi preesistenti in natura; esso dispone, infatti, che

“un materiale biologico già presente in natura è brevettabile quando sia stato

isolato dal suo ambiente naturale o prodotto tramite un procedimento tecnico”.

Ne deriva che la preesistenza in natura in sé e per sé non toglie novità

all’invenzione di un materiale biologico (172).

In via generale, quindi, la novità è data dal non essere l’invenzione

accessibile nello stato della tecnica in termini idonei a renderne possibile

l’attuazione e la riproduzione con caratteri costanti da parte dell’uomo.

Ciò che preesiste in natura non necessariamente è già noto o

immediatamente conoscibile e riproducibile con caratteri costanti (173).

Il materiale preesistente in natura è nuovo fintanto che non viene scoperto;

solo una volta che è stato identificato, isolato e reso riproducibile in forma isolata

potrà dirsi accessibile.

La novità sussisterà, poi, a maggior ragione quando il materiale biologico

oggetto dell’invenzione sia diverso da quello preesistente allo stato naturale,

purchè purificato o modificato in qualche sua parte.

Può, dunque, costituire oggetto di un brevetto biotecnologico non soltanto

quel materiale biologico che sia stato geneticamente modificato oppure,

addirittura, creato dall’uomo, ma anche quello che viene isolato dal suo ambiente

(171) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., p. 178. (172) Cfr. G. SENA, L’ importanza della protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 68 (173) Cfr. G. SENA, L’ importanza della protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 68.

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naturale e riprodotto tramite un procedimento tecnico, anche se preesisteva allo

stato naturale.

In sostanza le ipotesi sono due: il risultato della ricerca scientifica può

condurre o ad un prodotto preesistente, non modificato dall’intervento tecnico

umano, ma semplicemente identificato nelle sue proprietà fisico-chimiche, isolato

e reso utilizzabile, oppure, per altro verso, ad un prodotto non ancora esistente in

natura perché frutto di operazioni di ingegneria genetica poste in essere dall’uomo

su materiale biologico già disponibile.

Il problema della novità è, poi, oggetto di discussione anche con

riferimento ai cosiddetti “risultati o effetti inerenti”.

Nel campo biotecnologico, come in quello chimico, può infatti accadere

che una sostanza o una composizione note, utilizzate per un determinato scopo,

ottengano al tempo stesso anche un ulteriore effetto che, tuttavia, rimane

inizialmente sconosciuto e solo successivamente svelato.

Con riferimento a queste ipotesi l’Ufficio Brevetti Europeo ha deciso che

un effetto che si produca in maniera “inerente” in una utilizzazione già nota di una

sostanza o di un prodotto, non può essere considerato per questo solo fatto privo

di novità (174).

Il concetto di novità si fonda, infatti, sull’appartenenza allo stato della

tecnica, intesa come “accessibilità” e dunque conoscenza effettiva o quanto meno

immediata pubblica conoscibilità delle informazioni della cui novità si discute.

La proprietà nascosta, che non sia immediatamente riconoscibile nel corso

dell’utilizzazione nota della sostanza o del prodotto, non può, quindi, dirsi

“accessibile al pubblico” ai sensi dell’art. 54 CBE (175).

In sede europea l’Ufficio Brevetti, chiamato a chiarire il significato del

concetto di “accessibilità al pubblico” ai sensi dell’art. 54 CBE nel caso di

precedente utilizzazione di una sostanza, ha precisato che, poiché un

insegnamento tecnico relativo ad un prodotto deve mettere in condizione la

persona esperta del ramo di ottenere il prodotto stesso, quando l’insegnamento sia

deducibile dal prodotto già immesso sul mercato, quando cioè per l’esperto del

(174) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., pp. 105 ss.

(175) Secondo l’art. 54 comma 2 CBE ciò che rileva è sapere cosa è stato reso accessibile al pubblico, non assumendo rilievo ciò che può essere “ inerente” in ciò che è stato reso accessibile al pubblico. Ne consegue che un uso nascosto o segreto, in quanto non è reso accessibile al pubblico, non costituisce ragione per negare validità al brevetto.

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ramo è possibile in base alle proprie ordinarie cognizioni scoprire la composizione

o la struttura interna del prodotto e riprodurla senza l’onere di nuove

sperimentazioni, allora sia la composizione che la struttura del prodotto devono

ritenersi accessibili al pubblico.

Il concetto di novità, infatti, deve essere ricostruito in termini oggettivi: lo

stato della tecnica comprende, ai sensi dell’art. 54 CBE, tutto ciò che è accessibile

al pubblico, indipendentemente dalla circostanza che poi il tecnico vi acceda

concretamente o abbia una ragione per farlo.

Tuttavia, perché si possa riconoscere la novità delle invenzioni di nuovo

uso, consistenti nell’individuazione di proprietà prima sconosciute di prodotti già

noti, non è sufficiente il mero fatto di scoprire in un prodotto determinate

proprietà se la scoperta non conduce ad una nuova utilizzazione del prodotto.

La distinzione è stata posta dall’Ufficio Europeo in termini che sono così

concettualmente definibili: si ha invenzione soltanto quando sia insegnata una

nuova applicazione tecnica distinguibile dalle applicazioni in precedenza note; la

scoperta di un effetto collegato all’uso di determinati mezzi deve tradursi in utilità

diverse da quelle in cui in precedenza i medesimi mezzi erano destinati (176).

Si deve trattare, cioè, di utilità praticamente separabile da quella

conosciuta.

Ne consegue che comprendere che una certa utilità nota è il risultato

combinato di una serie di effetti indissociabili, senza insegnare una diversa

utilizzazione, è una mera scoperta.

Il requisito della novità deve apprezzarsi considerando l’invenzione nel

suo insieme, come un blocco unitario di informazioni che comprende anche le

informazioni oggetto della scoperta. Solo quando tutte le caratteristiche divulgate

nel brevetto, necessarie ad ottenere il risultato rivendicato, sono nel loro

complesso già contenute nello stato della tecnica, l’invenzione può dirsi carente di

novità (177).

(176) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., p.

106. (177) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., p.

106.

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§ 2. L’ originalità ( o attività inventiva).

In materia di biotecnologie si è da più parti affermato che l’applicazione

rigorosa del requisito dell’attività inventiva potrebbe escludere dalla brevettazione

gran parte dei risultati della ricerca, dato che molte delle invenzioni risulterebbero

da un “uso di tecniche note applicate in modo routinario a materiali biologici

preesistenti tramite operazioni serialmente ripetute e costosissime, che involgono

esplorazioni ad ampio raggio per tentativi ed errori, e richiedono tempi lunghi,

risorse finanziarie cospicue, dotazioni strumentali sofisticate, pazienza ma non

anche capacità personali particolari, creatività ed ingegno elevati, né tecniche

nuove” (178).

Secondo la formula normativa (179), il requisito dell’attività inventiva è

soddisfatto quando l’innovazione “non risulta in modo evidente dallo stato della

tecnica per una persona esperta del ramo”.

Poiché il brevetto ha per oggetto non la conoscenza teorica della natura ma

la sua applicazione materiale secondo l’insegnamento brevettuale, il carattere di

originalità deve essere ragguagliato alla specifica applicazione e non alla

conoscenza su cui questa si basa (180).

Anche laddove i mezzi attuativi dell’applicazione rivendicata dal brevetto

derivino dall’impiego di tecnica nota o di routine, ciò non precluderebbe il

ricorrere dell’altezza inventiva ogniqualvolta quella realizzazione non fosse pur

tuttavia ancora accessibile al pubblico, fin quando, cioè, il depositante non abbia

apportato la nuova conoscenza della realtà naturale (181).

Alla luce delle considerazioni esposte, la formula normativa di cui sopra

viene intesa nel senso che è dotata di attività inventiva quella invenzione che un

tecnico medio del ramo non sarebbe in grado di realizzare.

Senonchè, applicando questa formula al caso delle invenzioni

biotecnologiche, sembra inevitabile osservare come non possa ravvisarsi attività

(178) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., p. 184. (179) Si veda a tal proposito l’art. 48 del d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30. (180) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi

geneticamente modificati, cit., pp. 29 ss. (181) In questo senso vedi: M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli

organismi geneticamente modificati, cit., pp. 29 ss.; Trib. Milano, 11 novembre 1999, caso “kit diagnostico epatite C”, in Riv. Dir. Ind., 2000, II, pp. 342 ss.

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inventiva in invenzioni che qualunque operatore del ramo sarebbe in grado di

realizzare, se solo avesse a disposizione tempo e risorse finanziarie e strumentali

adeguate.

Gli effetti di questa affermazione potrebbero essere fortemente

disincentivanti per determinate linee di ricerca, dal momento che investimenti

elevati come quelli in questione non vengono affrontati facilmente, o non vengono

affrontati affatto, se si è consapevoli di non poter contare su un’esclusiva

brevettuale sui risultati che la ricerca sarebbe in grado di dare (182).

Di conseguenza si giungerebbe alla conclusione paradossale che

l’applicazione ad ampio raggio e routinaria di certe tecniche note, capace di

pervenire alla realizzazione di proteine, vaccini e kit diagnostici, sarebbe sì alla

portata di qualunque operatore del settore, e tuttavia di fatto non sarebbe da

alcuno effettivamente praticata (183).

Una conclusione del genere, però, sarebbe assai deludente visto che la

disciplina brevettuale ha la funzione di promuovere il progresso tecnico, cioè il

miglioramento della qualità della vita.

Affermare che il diritto dei brevetti non consente di incentivare in certi

settori determinate attività di ricerca che potrebbero offrire risultati importanti non

può, quindi, essere considerato un modo accettabile di chiudere il problema,

dovendosi individuare modalità alternative di soluzione della questione (184).

La ricorrenza di un’attività inventiva originale, di un’attività quindi che

non rappresenta uno sviluppo ovvio delle invenzioni già note, ossia una semplice

esecuzione di idee rientrante nella normale applicazione di principi noti, non si

determina facendo riferimento alle capacità intellettuali dell’inventore, ad un

eventuale “flash of genius” (185), un’intuizione felice, ma si appresta quale frutto

di un’organizzata e non ordinaria attività di ricerca, intesa come “costoso e

paziente lavoro di sperimentazione di grandi équipes di ricercatori” (186) condotto

(182) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., pp. 185 ss. (183) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., pp. 185 ss. (184) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., pp. 185 ss. (185) Così VANZETTI, “Presentazione” del volume “I nuovi brevetti – Biotecnologie e

invenzioni chimiche”, GIUFFRE’, Milano, 1995, pp. VII ss. (186) Così VANZETTI, “Presentazione” del volume “I nuovi brevetti – Biotecnologie e

invenzioni chimiche”, cit., pp. VII ss.

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secondo forme e modalità qualitativamente superiori alla media e con

considerevoli rischi di risultato (187).

Il requisito dell’attività inventiva ha lo scopo di “selezionare ciò che è al di

là del divenire normale di ciascun settore”, il quale conta su “dotazioni umane,

temporali, finanziarie e strumentali presenti in ciascun luogo e in ciascun tempo e

misura diversa” (188).

Al fine di verificare la presenza o l’assenza di attività inventiva “dovrà

controllarsi se l’attività in questione rientri tra quelle che, per i loro costi, i loro

tempi e le loro probabilità di successo, vengono affrontate da un operatore medio

del settore”. E qualora il settore in esame appartenga a quelli in cui la ricerca

viene effettuata non da singole persone fisiche ma da gruppi di ricerca, le capacità

del tecnico medio “non sono solo le caratteristiche intellettuali e di formazione

professionale, ma anche un certo grado di organizzazione degli elementi personali

e materiali” (189).

Il riferimento esclusivo dell’attività inventiva alle capacità intellettuali

dell’inventore non trova alcuna giustificazione, entrando prepotentemente in

gioco altri fattori quali la dotazione finanziaria e strumentale, il tempo a

disposizione, il livello di organizzazione ed il grado di integrazione interna

dell’èquipe.

Costituiscono, in tal senso, indizi di attività inventiva creativa di un trovato

biotecnologico il rilievo scientifico della scoperta effettuata e la circostanza che

qualificati gruppi di ricerca abbiano profuso per anni ingenti sforzi per

raggiungere lo stesso obiettivo senza apprezzabili risultati, venendo in

considerazione la cosiddetta “non evidenza dell’invenzione”.

Il requisito dell’attività inventiva misura, infatti, la distanza della nuova

invenzione dallo stato della tecnica in termini di impegno intellettuale necessario

per giungervi. Se il percorso che deve essere fatto partendo dallo stato della

tecnica per arrivare all’invenzione è al di fuori di quanto normalmente e

immediatamente alla portata del tecnico esperto del ramo, o perché lo stato della

tecnica non offre sufficiente motivazione per la ricerca nella direzione della

invenzione a causa dell’imprevedibilità dell’esito o perchè, pur offrendola, non

(187) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., pp. 162 ss. (188) Cfr. V. DI CATALDO, L’originalità dell’invenzione, GIUFFRE’, Milano, 1983, pp.

74 ss. (189) Cfr. V. DI CATALDO, L’originalità dell’invenzione, cit., pp. 74 ss.

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suggerisce una strada che abbia ex ante ragionevoli probabilità di successo di

ottenere il risultato, allora l’invenzione è dotata di attività inventiva (190).

L’originalità va, dunque, valutata considerando il risultato ottenuto a

confronto con lo stato della tecnica e domandandosi se un tecnico del ramo dotato

di medie capacità ed esperienza avrebbe ottenuto in maniera evidente il risultato

partendo dallo stato della tecnica stesso.

L’attività inventiva non può essere negata in base al tipo di ricerca che è

stata necessaria per realizzare l’invenzione; anche l’uso di metodiche di per sé

banali può condurre a un’invenzione non ovvia. Quando sono necessari un lungo

e faticoso percorso, cospicui investimenti e una grande quantità di

sperimentazione prima di arrivare ad un certo risultato, ben difficilmente quel

traguardo potrebbe essere considerato ex ante evidente dallo stato della tecnica,

ancorché i singoli passaggi della sperimentazione siano di per sé routinari (191).

Ne deriva che il giudizio di non evidenza non debba essere condotto in

astratto, considerando cioè tutto ciò che il tecnico avrebbe potuto realizzare

partendo dallo stato della tecnica.

Esistono, infatti, potenzialità pressoché infinite anche applicando le

metodiche già note e banali, e in astratto qualsiasi ricerca potrebbe essere

intrapresa con la speranza di ottenere un qualche risultato, ma le risorse che

servono a mettere in atto una ricerca, e che operano quindi come limite concreto a

ciò che effettivamente verrebbe realizzato da un tecnico esperto del ramo, sono

sempre limitate.

Occorre, quindi, porre l’accento sulle “dotazioni umane, temporali,

finanziarie e strumentali” al fine di giudicare “se l’attività in questione rientri tra

quelle che, per i loro costi, i loro tempi, e le loro probabilità di successo vengono

affrontate da un operatore medio del settore” anche se il risultato diviene di

pubblico dominio (192).

Sarà, dunque, necessario domandarsi se il tecnico del ramo, dotato di

risorse effettivamente limitate, avrebbe avuto un motivo o una ragione per

intraprendere una certa ricerca e per realizzare la specifica invenzione della cui

(190) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., p. 109.

(191) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 378.

(192) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività inventiva, industrialità, cit., p. 186.

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brevettabilità si giudica, e se sarebbe stato in grado di realizzarla applicando

metodi di soluzione già sperimentati senza sforzi di immaginazione inventiva e

con elevata probabilità di successo.

Se si considera che il tecnico medio del ramo nell’esercizio delle sue

normali capacità, di regola, non destina alla ricerca i mezzi e le risorse di cui

dispone se non è noto il fine, occorrerà domandarsi di volta in volta se, in base

allo stato della tecnica, che deve in ogni caso costituire punto di partenza del

giudizio, il tecnico aveva un motivo per intraprendere una ricerca in una certa

direzione (193).

Anche l’invenzione che viene realizzata applicando in modo routinario

tecniche note a materiali preesistenti, in operazioni serialmente ripetute che non

richiedono capacità personali, creatività ed ingegno elevati, ma, piuttosto,

dotazioni strumentali sofisticate, tempi lunghi e risorse finanziarie elevate, può

quindi ritenersi dotata di originalità, se, appunto, la sua realizzazione è resa

possibile da risorse strumentali e finanziarie superiori a quelle disponibili da parte

del tecnico medio del settore (194).

In questo campo la ricerca tende ad essere affidata più che alle doti

solitarie del singolo all’opera coordinata di gruppi di lavoro, e sempre più di

frequente risultati positivi sono ottenuti grazie alle dimensioni dell’investimento

effettuato piuttosto che alla particolare creatività degli approcci seguiti (195).

Se questi dati non precludono l’accesso alla protezione è perché lo

standard della ”persona esperta del ramo” tende oggi ad essere inteso in modo più

riduttivo che in passato, assumendo infatti che il parametro di riferimento possa

essere reperito nella figura di un “tecnico senza immaginazione inventiva e con la

capacità di attuare solo metodiche già sperimentate”, diventando così meno

problematico ravvisare altezza inventiva anche in innovazioni che, pur avendo

mobilitato risorse assai ampie, posseggano un gradiente di originalità

relativamente basso (196).

(193) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 378. (194) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 163. (195) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi

geneticamente modificati, cit., pp. 30 ss. (196) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi

geneticamente modificati, cit., pp. 30 ss.

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Si determina in tal modo un inevitabile “annacquamento” del criterio

selettivo, che tende a perdere significato nel momento in cui ci si trovi dinanzi ad

un ingente sforzo economico e umano che, nell’apportare benefici innovativi per

la comunità, reclami una contropartita in termini di monopolio nella

commercializzazione del trovato.

Comincia a farsi strada l’opinione secondo cui “gli sforzi finanziari delle

imprese devono essere remunerati comunque, non tanto in considerazione del

contributo intellettuale al progresso scientifico ma per il fatto che solo tali

investimenti rendono disponibili molti ritrovati indispensabili per risolvere

problemi dell’uomo e, in special modo, per garantire una sufficiente qualità della

vita a chi è affetto da patologie genetiche (197).

Si assisterebbe, dunque, ad un abbassamento della soglia della

brevettabilità nel settore delle biotecnologie, assumendo a riferimento una figura

di tecnico esperto del ramo irrealistica alla quale sono attribuite capacità e realtà

ben al di là della media del settore, negando al medesimo qualsiasi

immaginazione inventiva e capacità di seguire strade innovative (198).

Una situazione limite è quella in cui lo stato della tecnica motiva a

svolgere ricerche che potrebbero portare all’invenzione, ma non offre ex ante una

guida sufficientemente sicura di come ottenere il risultato ricercato.

In tal caso sarà ovvio dar corso alla ricerca ma non sarà altrettanto ovvio il

risultato che ne scaturisce visto che questo non era scontato ex ante e quindi

sussisterà attività inventiva legata al rischio di insuccesso della ricerca (199) ; ciò,

però, non significa sostituire tout court il requisito del lavoro e dell’investimento

al requisito della non evidenza ai fini della brevettabilità, in quanto lavoro e

investimento assumono rilevanza soltanto come possibili indizi del fatto che il

risultato dell’invenzione non era immediatamente alla portata di un tecnico del

ramo e che non vi era un’immediata aspettativa di successo, non essendo il trovato

evidente a partire dallo stato della tecnica preesistente (200).

(197) Cfr. G. BIANCHETTI – G. PIFFERI, Il requisito evanescente dell’attività inventiva

delle invenzioni chimiche e biotecnologiche, in Il Dir. Ind., 2000, p. 10. (198) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 380. (199) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, Tutela assoluta e relativa del brevetto sul nuovo

composto chimico, originalità dell’invenzione e dinamiche della ricerca, in STUDI DI DIRITTO INDUSTRIALE in onore di A. VANZETTI, GIUFFRE’, Milano, 2004, pp. 770 ss.

(200) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 381.

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Ulteriori indizi a dimostrazione della non evidenza in questo settore

potranno essere dati dai precedenti tentativi infruttuosi e dal superamento di

pregiudizi che in precedenza avevano distolto i ricercatori dal percorso di ricerca

rivelatosi vincente (201).

In sostanza, l’esistenza di un pregiudizio tecnico che determini la maggior

parte dei ricercatori a non seguire la via poi intrapresa con successo dall’inventore

rappresenta un segno dell’originalità dell’attività inventiva svolta; così come

costituisce un indice di non obviousness il conseguimento di un inaspettato e

significativo vantaggio economico e funzionale del trovato ed il fatto che, per

giungere ad esso, sia stato necessario fondere conoscenze appartenenti a settori

scientifici diversi, le quali prese di per sé sarebbero proprie di un esperto del

singolo ramo, ma la cui somma interdisciplinare risulti di notevole complessità

operativa e richieda la presenza di équipes di ricercatori.

Da notare, peraltro, che l’abbassamento del suddetto requisito di accesso

alla protezione non è carattere specifico dell’innovazione biotecnologica; al

contrario esso corrisponde ad una tendenza diffusa del diritto brevettuale degli

ultimi decenni.

Ai criteri di tipo quantitativo e qualitativo che facevano riferimento al

valore ed all’importanza dell’invenzione, al contributo al progresso scientifico ed

all’avanzamento delle tecniche preesistenti, all’incremento di utilità sociale e alla

convenienza economica, si sono sostituiti, già da oltre un ventennio e

relativamente a tutte le tipologie di invenzioni, criteri di tipo oggettivo e flessibile

che si richiamano alla non evidenza del trovato allo stato della tecnica, alla

soddisfazione di un bisogno umano, all’ inventive step inteso come semplice

miglioramento delle soluzioni offerte a difficoltà reali; e dunque criteri che

valorizzano ogni apporto creativo ulteriore allo stato delle conoscenze, allargando

il giudizio di meritevolezza a tutto ciò che non rientra nell’immediata disponibilità

del tecnico medio di settore (202).

Infine va segnalato che talvolta l’attività inventiva nel campo delle

biotecnologie si manifesta nella fase della ricerca che porta all’individuazione di

una realtà prima ignota.

(201) Cfr. C. GALLI, Problemi in materia di invenzioni biotecnologiche e di organismi

geneticamente modificati, in Il Dir. Ind., 2002, I, pp. 398 ss. (202) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 163.

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Una volta che tale conoscenza è stata ottenuta, la successiva attività

necessaria per la sua utilizzazione pratica, ossia il passaggio dalla sfera del

conoscere a quella del fare, senza la quale non si ha invenzione, può spesso

risultare invece banale e alla portata del tecnico del ramo.

In questi casi la ricerca si sviluppa, quindi, attraverso un percorso nel quale

prima viene realizzata una “scoperta” attraverso un’attività di notevole impegno

(ad esempio l’individuazione del codice genetico di un agente patogeno) e poi

della scoperta viene messa a punto in maniera ovvia un’applicazione pratica

(creazione di un kit immunodiagnostico) (203).

Qualora, poi, i risultati della prima ricerca che ha portato alla scoperta non

vengano resi pubblici, e non entrino quindi a far parte dello stato della tecnica

prima della data del deposito o di priorità della domanda di brevetto che ne

rivendica l’applicazione pratica, ai fini dell’attività inventiva si dovrà considerare

il risultato complessivamente ottenuto, a prescindere dal percorso con il quale è

stato conseguito, confrontandolo con lo stato della tecnica che ancora non

conosceva la scoperta.

Ne consegue che l’attività inventiva deve considerare esclusivamente il

risultato finale a confronto con lo stato della tecnica preesistente,

indipendentemente dal percorso concretamente seguito nella ricerca che ha portato

all’invenzione della cui brevettabilità si giudica.

Tutto ciò in applicazione del principio di carattere generale per cui

l’invenzione deve essere considerata nel suo complesso e per cui il requisito

dell’attività inventiva deve essere valutato attraverso un confronto dell’invenzione

presa nella sua unità e globalità con lo stato della tecnica preesistente; si deve,

cioè, considerare l’invenzione come un blocco unitario, senza frammentare a

posteriori il risultato secondo i passaggi logico – mentali che in concreto possono

aver guidato l’inventore (204).

Il medesimo principio spiega, inoltre, la brevettabilità dei cosiddetti

procedimenti analogici, ossia dei procedimenti già noti ma adattati per la

produzione o per l’uso di prodotti nuovi e inventivi; in questo caso l’invenzione

che concerne l’ovvio adattamento, per produrre un prodotto nuovo e inventivo, di

(203) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 381.

(204) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., p. 108.

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un procedimento già noto, possiede anch’essa i requisiti di brevettabilità dato che

il problema di produrre quel certo prodotto, che conduce all’adattamento del

procedimento, neppure si poneva nello stato della tecnica alla data di deposito

dell’invenzione di procedimento, e dunque lo stato della tecnica non suggeriva né

offriva una motivazione per adattare il procedimento alla produzione della

sostanza non ovvia (205).

Pertanto, quando lo stato della tecnica alla data del deposito della domanda

di brevetto non dispone delle conoscenze scoperte dall’inventore, e se ciò che è

stato scoperto dall’inventore non può neppure essere ricavato dall’esperto con

evidenti deduzioni, allora l’invenzione che insegna ad usare le nuove proprietà

scoperte di un oggetto noto, non potrà dirsi risultare neppure essa dallo stato della

tecnica.

§ 3. L’ industrialità e il concetto di utility.

Il requisito dell’applicazione industriale richiede in primo luogo che il

risultato dell’invenzione possa essere ripetuto o riprodotto con caratteri ed effetti

costanti.

E’ sufficiente questa definizione perché si possano sollevare delle

perplessità circa la scelta del sistema delle privative industriali quale mezzo di

protezione delle invenzioni biotecnologiche; perplessità che trovano origine nella

scarsa attitudine di questa particolare forma di trovato ad avere una applicazione

industriale e, dunque, a soddisfare il requisito di brevettabilità preso in

considerazione.

Un’ invenzione che produca risultati imprevedibili in quanto dipendenti da

meccanismi causali non ancora controllabili non potrà considerarsi

(205) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., p.

108.

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industrialmente applicabile; mentre una certa variabilità del risultato, nei limiti in

cui l’invenzione resti sfruttabile, dovrebbe essere ammissibile (206).

In campo biologico può, infatti, accadere che il procedimento che ha

portato all’invenzione dipenda da fattori causali non ripetibili in maniera costante,

pur essendo il risultato ottenuto suscettibile di essere sfruttato attraverso l’idoneità

del materiale biologico ad autoriprodursi.

Sono le mutazioni naturali, cui è soggetta per il suo stesso essere la materia

vivente, a rendere in realtà difficilmente prevedibile la ripetizione costante del

risultato originariamente ottenuto dall’inventore nei trovati aventi come punto di

riferimento materiale biologico; sono innumerevoli, infatti, le ipotesi in cui

l’inventore non è in grado di garantire che, ripercorrendo il percorso

sperimentativo da lui in origine seguito, si possa pervenire, alla fine, al medesimo

risultato inventivo.

La dottrina si è, allora, sforzata di elaborare delle strade alternative per

giustificare la brevettabilità dell’invenzione biotecnologica, essendo evidente che

un’applicazione troppo rigida del presupposto dell’industrialità avrebbe

comportato, in sostanza, la concreta impossibilità di proteggere tali forme di

trovati.

Se, dunque, da parte di alcuni si è addirittura proposto di rinunciare al

presupposto dell’industrialità, andando però così incontro alla conseguenza di

snaturare del tutto i pilastri della disciplina generale dei brevetti, altra parte della

dottrina ha costruito la teoria della cosiddetta “industrialità presunta”, secondo la

quale la capacità ad una applicazione industriale si presume esserci nel momento

in cui non vengono individuate ragioni tali da far ritenere assolutamente

irripetibile il risultato inventivo cui in origine si è pervenuti (207).

Ne deriva una sorta di inversione dell’onere dimostrativo incombente

sull’inventore, per cui non sarà quest’ultimo a dover provare la ripetibilità del

risultato inventivo, ma sarà chi si oppone alla brevettabilità a dover dimostrare la

carenza di industrialità del trovato.

Questa strada interpretativa non merita, però, di essere percorsa, non

potendosi ammettere la brevettabilità di trovati semplicemente in virtù del fatto

(206) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 385.

(207) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, cit. , p. 144.

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che, all’atto della rivendicazione, non si sia riusciti a dimostrare l’inidoneità degli

stessi ad una applicazione industriale.

Il paradosso risiede, infatti, nell’assenza concreta di una prova della

ripetibilità del risultato inventivo con la conseguenza che un fatto negativo, quale

l’incapacità di provare l’assenza di industrialità, viene equiparato alla prova di un

dato positivo, ossia la sussistenza del requisito di brevettabilità in esame.

Ulteriore soluzione proposta è quella relativa al deposito dell’entità

biologica rivendicata nella domanda di brevetto, adempimento-onere che

andrebbe a sostituire il presupposto di brevettabilità incarnato dall’industrialità; in

sostanza, depositando il materiale organico brevettato, si dovrebbe presumere che

esso sia sempre riproducibile secondo risultati costanti e, di conseguenza, sia

suscettibile di trovare una applicazione industriale almeno potenziale (208).

Senonchè, argomentando in tal senso, cioè fondando una equivalenza

logico-concettuale tra deposito e soddisfacimento del requisito di industrialità,

non si giunge ad altro risultato se non quello di cristallizzare, in via presuntiva, il

requisito in esame nell’operazione tangibile del deposito del materiale biologico,

senza alcuna reale possibilità di verificare la capacità dell’invenzione di garantire

risultati costanti.

In realtà, la soluzione più coerente di fronte al margine di imprevedibilità

che, nelle invenzioni relative alla materia vivente, pregiudica la costanza dei

risultati, risulta essere quella di mantenere l’unità del sistema brevettuale, con

l’adozione di una nozione di industrialità che sia coerente con i trovati da

proteggere. Si ritiene, infatti, che solo formalmente le invenzioni biotecnologiche

siano parificabili alle altre forme di trovati, presentando in realtà una serie di

particolarità, legate alle specificità comportamentali del materiale biologico, tali

da imporre una rilettura delle regole tecniche del diritto dei brevetti.

L’industrialità assumerà, allora, contorni meno netti e definiti sì da poter

accogliere anche le oscillazioni di comportamento della materia vivente, la quale

non sempre è in grado di garantire risultati costanti.

Il sistema delle privative industriali, dunque, conserverà la sua unità di

principi, ma le regole tecniche, proprio in virtù di una istanza di uguaglianza

(208) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 145.

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sostanziale, andranno applicate in modo tale da garantire possibilità di tutela

anche a queste particolari forme di trovati.

Per quanto concerne la disciplina normativa, il riferimento è all’art. 5

comma 3 della Direttiva il quale detta una previsione in forza della quale

“l’applicazione industriale di una sequenza o di una sequenza parziale di un gene

deve essere concretamente indicata e descritta nella richiesta di brevetto”, e ciò al

fine di escludere dalla brevettazione le invenzioni di sequenze per le quali non

siano ancora note funzioni utili e di consentire un effettivo controllo dell’esistenza

del requisito dell’industrialità.

Lo scopo è, in altri termini, di impedire che possano essere monopolizzate

le strutture di DNA prima che di esse sia reperita ed indicata nella domanda di

brevetto la specifica funzione, e quindi quando tali sequenze, essendo ancora

sprovviste di una applicazione industriale, sono da considerare come mere

“scoperte” (209).

La norma si segnala, dunque, per impedire l’appropriazione monopolistica

di una sequenza di DNA e, a maggior ragione, di una sequenza parziale. Tuttavia,

a ben vedere, questa disposizione risulta incompleta perché, dopo aver sancito che

una sequenza o una sequenza parziale non soddisfano di per sé il requisito

dell’industrialità, non precisa quali siano gli ulteriori elementi che debbano

completarla; una risposta in tal senso sembrerebbe rinvenirsi nel Considerando 24

della Direttiva comunitaria il quale prescrive che la domanda debba precisare

“quale sia la proteina o la proteina parziale prodotta oppure quale funzione essa

assolve”, con l’evidente corollario che il requisito dell’industrialità possa essere

soddisfatto indifferentemente dall’indicazione della proteina per la quale la

sequenza codifica o dalla funzione che essa assolve (210).

Invero, accogliendo tale soluzione ci si espone al rischio che la domanda

indichi solo la proteina per la quale la sequenza codifica, senza che venga

precisata la funzione in concreto svolta dalla proteina stessa, con la conseguenza

che il corrispondente brevetto, anziché compensare l’inventore per l’apporto

oggettivamente reso alla collettività, finisce per attribuire al richiedente una sorta

(209) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 386. (210) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi

geneticamente modificati, cit., pp. 48 ss.

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di “prenotazione di tutela“ per un campo di ricerca promettente ma non ancora

portato a maturazione dall’inventore (211).

Di qui l’esigenza, nelle invenzioni aventi ad oggetto sequenze geniche, di

indicare cumulativamente la funzione svolta dalla sequenza e la proteina per cui

essa codifica.

Con riferimento, invece, alla estensione della protezione, è interessante

osservare come in presenza di una norma (212) che non richiede solo una generica

indicazione d’uso ma pretende espressamente che “l’applicazione industriale sia

concretamente indicata”, è insostenibile l’idea che il brevetto, rilasciato su una

domanda che contiene l’indicazione concreta di una certa applicazione industriale

di un dato prodotto, possa poi estendersi ad altre applicazioni industriali, o più

precisamente, ad ogni altra applicazione industriale dello stesso prodotto che

venga da altri successivamente individuato (213).

Diversa sembra essere, invece, la portata delle norme introdotte dal nostro

legislatore che per le invenzioni relative a parti del corpo umano o a sequenze di

DNA impongono che l’applicazione industriale sia non solo descritta ma anche

rivendicata.

Estremamente significativi in tal senso sono l’art. 3 comma 1 lett. d) della

legge n. 78 del 2006 il quale afferma che “è brevettabile l’invenzione relativa ad

un elemento isolato dal corpo umano o diversamente prodotto, mediante un

procedimento tecnico, a condizione che la sua funzione e applicazione industriale

siano concretamente indicate, descritte e specificamente rivendicate” nonché l’art.

4 comma 1 lett. d) della stessa legge il quale “esclude dalla brevettabilità la

semplice sequenza di DNA o la sequenza parziale di un gene, salvo che venga

fornita l’indicazione e la descrizione di una funzione utile alla valutazione del

requisito dell’applicazione industriale e che la corrispondente funzione sia

specificamente rivendicata”.

Peraltro, il concetto di industrialità cui la legge fa riferimento è meramente

potenziale, non necessariamente già attuale, già presente al momento della

richiesta e dell’ottenimento del titolo di privativa: è questa una ulteriore forma di

(211) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, cit., p. 48.

(212) Il riferimento è all’art. 5 comma 3 della Direttiva comunitaria. (213) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività

inventiva, industrialità, cit., p. 189.

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garanzia per la ricerca scientifica, tutelata nella fase intermedia che si colloca tra

momento creativo ed effettivo sfruttamento economico dell’idea.

Si riflette, in tal modo, l’esigenza di tutelare tutta l’attività di

sperimentazione che spesso deve necessariamente seguire l’invenzione prima

dello sbocco industriale con la conseguenza che, per non causare ritardi eccessivi

nella brevettazione, si è intesa l’industrialità semplicemente come astratta idoneità

dell’invenzione ad un’applicazione industriale non legata ad uno sfruttamento

nell’attività seriale necessariamente immediato.

Rimane poi da osservare la nota 1 all’art. 27 dell’Accordo TRIPs in cui il

requisito “dell’applicazione industriale” viene equiparato a quello “dell’utilità”;

in tal senso deve ritenersi priva del requisito dell’industrialità l’invenzione che,

pur essendo attuabile, sia sprovvista di qualunque concreta utilità, così da non

essere neppure destinabile al mercato (214).

L’applicazione industriale intesa come “utilità” assume rilievo in

particolare nel settore della biologia, dove la messa a disposizione di una nuova

struttura biologica non comporta necessariamente anche l’immediata conoscenza

della funzione da essa svolta, e quindi della sua utilità, con la conseguenza che,

affinché l’invenzione brevettabile possa dirsi completata, occorrerà che sia

raggiunta anche una conoscenza delle proprietà utili della nuova struttura.

Ne deriva che l’invenzione avente ad oggetto una porzione delle specie

viventi non solo deve rivestire il carattere dell’industrialità, ossia essere atta, data

la costanza e la ripetitività del risultato, a trovare applicazione a livello industriale,

ma deve anche contenere nella domanda di brevetto l’indicazione di un concreto

utilizzo della scoperta, una sua utilità pratica.

Il sistema brevettuale statunitense condensa tale requisito nel concetto di

“utility”, ossia di utilità che sia “substantial, specific and credible”; l’invenzione

deve raggiungere effetti reali, credibili e mirati in una certa direzione indicata

dall’inventore, deve essere cioè “useful” in base allo stato delle conoscenze.

L’utilità è specifica se è riferibile non a caratteristiche talmente generali da

essere comuni a qualunque altro oggetto di quel genere anche già noto, ma se si

manifesta in una direzione ben definita. Così, ad esempio, difettano di

industrialità, per mancanza di utilità specifica, le sequenze parziali di geni ESTs

(214) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 386.

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per le quali non siano state individuate altre funzioni se non quelle genericamente

riferibili a qualsiasi sequenza genica (215).

L’utilità è, poi, sostanziale se raggiunge finalità pratiche rispondenti ad

esigenze reali che possano, quindi, giustificare uno sfruttamento del trovato

nell’ambito di un’attività industriale diretta al mercato (216).

Infine l’utilità deve risultare, se non del tutto certa, quanto meno credibile,

con la conseguenza che il tecnico del ramo la deve ritenere esistente secondo un

criterio di ragionevole probabilità alla luce delle informazioni rivelate nel brevetto

e delle conoscenze ed esperienze generali e proprie del settore cui appartiene (217).

In altri termini, l’invenzione deve manifestare una assai probabile utilità

effettiva, anche se per averne certezza siano necessari ulteriori sviluppi; è

sufficiente cioè che la ricerca sia giunta ad uno stadio abbastanza avanzato per cui

si possa ipotizzare con ragionevole grado di probabilità scientifica che quel

prodotto assolva ad una data applicazione funzionante.

Ponendo lo sguardo sul concetto di utility vigente negli Stati Uniti, è

possibile osservare come fino alla sentenza della Corte Brenner vs Manson del

1966 sia l’Ufficio Brevetti che le corti concedessero abitualmente brevetti per

prodotti chimici senza porsi domande sulla loro utilità, la quale era ritenuta

sussistente in re ipsa.

Una svolta si è avuta solo con il caso in esame, quando la Corte Suprema

statunitense ha stabilito che le invenzioni, per essere brevettabili, devono

possedere una “utilità pratica”, dalla quale sono esclusi prodotti e procedimenti

utili solamente come strumenti di ricerca e, dunque, funzionali alle ricerche di

stadio successivo (218).

In particolare, l’argomento ritenuto decisivo sembra essere quello per cui

un brevetto su un procedimento di cui non sia rivelata una specifica utility sarebbe

un brevetto su una pura conoscenza, cioè un tipo di esclusiva estraneo al sistema

(215) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 387. (216) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 387. (217) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 387. (218) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime

valutazioni d’insieme, in Riv. Dir. Ind., 2001, I, p. 132.

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brevettuale vigente; “a patent is not a hunting license” e il brevetto presuppone

una specifica indicazione del possibile uso del trovato (219).

Si è, dunque, passati dall’originario significato secondo il quale perché

un’invenzione fosse qualificata “useful” era sufficiente che questa non fosse né

immorale né contraria all’ordine pubblico, all’accezione per cui ricadrebbe

sull’inventore l’onere di dimostrare l’immediata utilità dell’invenzione.

Nell’ordinamento italiano il requisito dell’industrialità viene utilizzato per

negare la brevettabilità in due ipotesi: quando il trovato si propone uno scopo

scientificamente irraggiungibile e quando il trovato, pur proponendosi uno scopo

teoricamente raggiungibile, risulta però, di fatto, tecnicamente incapace di

consegiurlo. Orbene, queste stesse sono le due ipotesi, oltre all’ipotesi

dell’invenzione contraria all’ordine pubblico o al buon costume, che

l’ordinamento statunitense dichiara non brevettabili per assenza di utility, in

quanto considerate “not serious, frivolus or injurious” (220).

Successivamente, però, nel caso Brana del 1995 il rigore del requisito

dell’utilità pratica dell’invenzione è stato attenuato, risultando necessaria una

puntuale indicazione di una utilità almeno sperimentale dell’invenzione ed

essendo sufficiente che l’utilità pratica vera e propria non fosse a priori esclusa

sulla base delle conoscenze dello stato della tecnica.

Nel caso in esame si è, infatti, affermato che l’utilità pratica delle

invenzioni farmaceutiche è soddisfatta dalla descrizione di un’utilità in vitro, ossia

“in provetta”, sulla base dei soli esperimenti condotti in laboratorio, purchè non

sia evidente l’impossibilità di un’utilità in vivo, da attuare direttamente

sull’organismo destinatario sulla base di test clinici (221).

Nello stesso anno l’Ufficio Brevetti statunitense ha dettato specifiche

guidelines dichiarando che, ai fini del requisito di utilità concreta, “deve essere

considerato sufficiente ogni ragionevole uso dell’invenzione che il depositante la

domanda di brevetto ha individuato e che può essere considerato di beneficio per

la collettività” (222).

(219) Così V. DI CATALDO, Sistema brevettuale e settori della tecnica. Riflessioni sul

brevetto chimico, cit., p. 309. (220) Così V. DI CATALDO, Sistema brevettuale e settori della tecnica. Riflessioni sul

brevetto chimico, cit., p. 305. (221) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime

valutazioni d’insieme, cit., pp. 132 ss. (222) PTO Examination guidelines on utility requirement ( July 20, 1995).

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Questa indicazione pare, dunque, fare proprio l’orientamento

giurisprudenziale più recente e, soprattutto, più favorevole alla brevettazione

anche dei primi risultati della ricerca.

Alla luce di queste guidelines, infatti, anche gli ESTs (223) sembrano poter

essere validamente brevettabili nel sistema statunitense, ciò che senz’altro non

accadeva alla luce dell’indirizzo emerso nel caso Brenner v. Manson.

Questa svolta segna probabilmente l’accoglimento delle tesi secondo le

quali incoraggiare la diffusione delle conoscenze della ricerca di base minimizza

la dispersione delle risorse nei vari stadi delle ricerche che conducono alle

invenzioni e migliora l’efficienza economica del sistema brevettuale (224).

Il requisito dell’utility dell’invenzione nel sistema americano permette,

dunque, la brevettazione delle sequenze di DNA in generale, purchè di esse si

indichi in termini precisi l’utilità per il successivo stadio della ricerca e per la

collettività.

Similmente in Europa l’Ufficio Brevetti pare non ritenere necessaria nella

domanda di brevetto per un gene la descrizione della funzione della proteina

codificata dal gene stesso, con il logico corollario che le invenzioni che non hanno

un’utilità diretta per la collettività, ma sono utili solo per gli ulteriori stadi della

ricerca, come le sequenze di DNA, possono in generale essere brevettate (225).

Anche in Europa, dunque, per la brevettazione di un gene pare necessario

che l’utilità “finale” dell’invenzione, corrispondente alla funzione della proteina

codificata, sia indicata nella domanda di brevetto solo in termini credibili, alla

luce dello stato della tecnica.

Peraltro, la CE e l’UEB, prescrivendo all’art. 5 comma 3 della Direttiva e

alla regola 23e CBE l’onere di indicare la concreta applicazione industriale delle

sequenze di DNA che si intendono brevettare, si preoccupano di assicurare la

possibilità che le ricerche di primo grado siano portate a ulteriori sviluppi da

quelle di grado successivo, rendendo accessibile la brevettazione solo

(223) Da intendersi per ESTs brevi sequenze di DNA utilizzate per individuare la

sequenza di un gene ancora sconosciuta. (224) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., p.

141; FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, cit., pp. 133 ss.

(225) Cfr. G. BERGOMI, La tutela brevettuale dell’intermedio, in I nuovi brevetti, a cura di A. VANZETTI, GIUFFRE’, Milano, 1995, p. 107.

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all’inventore che indichi con una certa precisione la direzione nella quale

concentrare le ricerche ulteriori.

Di conseguenza per brevettare una sequenza di DNA, come strumento per

produrre una proteina, sarà necessario indicare la funzione di tale proteina senza,

però, descriverne la funzione stessa, perché, diversamente, se si pretendesse una

descrizione della proteina come se proprio questa fosse oggetto di brevetto,

verrebbe meno il significato delle norme sulla brevettazione delle biotecnologie,

potendosi accedere alla tutela brevettuale solo quando si è già ultimata una fase di

ricerca ulteriore (226).

Anche in Europa pare, dunque, configurarsi un sistema di brevettazione

per stadi della ricerca (227).

In conclusione, attraverso la esplicita previsione del requisito di

industrialità o utility l’ordinamento persegue un obiettivo di “serietà”: occorre che

il risultato sia raggiungibile, che il trovato “funzioni”, non anche, però, che esso

presenti una utilità comparativa, cioè una utilità maggiore di quella presente nei

trovati anteriori. Non è richiesta la prova di una utilità maggiore rispetto allo stato

della tecnica, ma occorrono comunque sia un’indicazione, anche solo implicita, di

uso, sia la praticabilità dell’uso descritto (228).

(226) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, cit., pp. 132 ss.

(227) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime valutazioni d’insieme, cit., p. 137.

(228) Così V. DI CATALDO, Sistema brevettuale e settori della tecnica. Riflessioni sul brevetto chimico, cit., p. 314.

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§ 4. Il brevetto biotecnologico come brevetto di prodotto.

Tradizionalmente le invenzioni si classificano in due categorie principali:

brevetto di prodotto e brevetto di procedimento.

Questa tradizione definisce invenzione di prodotto quella che concerne

direttamente una realtà materiale, sia essa un oggetto, una macchina, un composto

chimico o un materiale biologico.

Con specifico riferimento all’invenzione biotecnologica, la regola 23b

CBE statuisce che “le invenzioni biotecnologiche sono invenzioni che concernono

un prodotto consistente in materiale biologico o che lo contiene, o un

procedimento attraverso il quale viene prodotto, lavorato o impiegato materiale

biologico”.

Stando alla regola 23b CBE e all’art. 2 della Direttiva per “materiale

biologico” si intende “un materiale contenente informazioni genetiche,

autoriproducibile o capace di riprodursi in un sistema biologico”.

Con i concetti di “materiale autoriproducibile” e “materiale capace di

riprodursi in un sistema biologico” si fa, dunque, riferimento, da un lato, agli

organismi e ai microrganismi, dall’altro, alle sequenze di DNA, i quali potranno

indifferentemente costituire oggetto di brevetto.

I primi due casi non pongono particolari problemi interpretativi dal

momento che la brevettabilità delle invenzioni aventi ad oggetto microrganismi o

organismi più complessi è stata ormai pacificamente ammessa tanto dalla

normativa nazionale quanto dalla Convenzione sul brevetto europeo, nonché

confermata dalla Direttiva 98/44/CE.

Inizialmente il riconoscimento della tutela brevettuale dei procedimenti

microbiologici venne interpretato sia in Europa che negli Stati Uniti in maniera

sostanzialmente uniforme, e cioè nel senso di consentire alle autorità competenti

l’esclusivo rilascio di brevetti di procedimento quando si fosse riuscito a

dimostrare un qualche risultato inventivo raggiunto tramite l’utilizzazione di

microrganismi già esistenti in natura.

Tutto cambiò negli Stati Uniti dopo la conclusione del caso Diamond vs

Chakrabarty del 1980 in cui la Court of Customs and Patent Appeal, prima, e la

Supreme Court, dopo, dichiararono l’assoluta indifferenza, ai fini della

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concessione della tutela brevettuale, della qualificazione quale organismo vivente

oppure quale semplice materiale biologico del trovato di cui viene rivendicata la

brevettazione.

Tale presupposto apre, dunque, la strada alla affermazione, in positivo,

della assoluta equivalenza, quale oggetto di un’invenzione brevettabile, tra un

qualsiasi trovato chimico oppure meccanico e la materia vivente,

indipendentemente dal suo atteggiarsi quale organismo vivente oppure semplice

microrganismo, purchè “human made”, ottenuta cioè tramite l’attività inventiva

umana.

Si è così verificata una vera e propria rivoluzione interpretativa: se prima

del caso Chakrabarty era possibile ottenere esclusivamente brevetti di

procedimento concernenti la materia vivente, purchè fosse mostrato un risultato

inventivo derivante dalla utilizzazione di microrganismi geneticamente modificati,

a seguito della evoluzione giurisprudenziale in materia è stata prevista la

concessione anche di brevetti di prodotto relativi, peraltro, non soltanto a

microrganismi, ma anche ad entità biologiche superiori.

In altre parole, le rivendicazioni delle domande di privativa potevano avere

quale oggetto immediato non più soltanto il procedimento, ma la stessa materia

vivente geneticamente modificata accompagnata, però, sempre dal suo

“procedimento di fabbricazione” e purchè, chiaramente, fossero ben delineati

l’industrialità, la novità e l’originalità.

I titoli di privativa concernenti i microrganismi e gli organismi superiori,

dunque, rimangono inscindibilmente legati, nella rivendicazione brevettuale, al

processo che ne consente la sintesi in laboratorio; tale vincolo discende

direttamente da quelli che sono i caratteri peculiari degli organismi viventi e,

cioè, dall’impossibilità di procedere ad una descrizione compiuta di tutte le loro

proprietà e dalla difficoltà di distinguere nettamente ciò che è compiuto dall’uomo

da ciò che è essenzialmente naturale (229).

Più complicato è stabilire, invece, quando possono essere brevettate le

sequenze di DNA, generalmente distinte in “geni”, “sequenze parziali di geni”,

“ESTs” e “SNPs”.

(229) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., pp. 115 ss.

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Gli ESTs, expressed sequence tags, sono brevi sequenze di DNA utilizzate

per individuare sequenze di geni che ancora non si conoscono; poiché, poi, essi

inducono le sequenze ricercate a evidenziarsi, la loro funzione viene definita di

“marker”.

Gli SNPs, single nucleotide polimorphism, sono, invece, brevi tratti di

DNA introdotti in più ampie sequenze geniche, in modo che queste ultime

codifichino proteine diverse rispetto a quelle naturali (o comunque già nello stato

della tecnica) e, dunque, con nuove proprietà.

In linea di principio tutte le sequenze di DNA illustrate possono,

ricorrendo i requisiti, essere oggetto di un valido brevetto; senonchè l’art. 5

comma 3 della Direttiva e il punto 3 della regola 23e CBE pongono un limite alla

brevettazione di tali sequenze laddove dispongono che “l’applicazione industriale

di una sequenza o di una sequenza parziale di un gene deve essere concretamente

indicata nella richiesta di brevetto”.

Circa tale indicazione la CE e l’UEB offrono, però, spiegazioni in parte

differenti.

Secondo il Considerando 24 della Direttiva “affinché sia rispettato il

criterio della applicazione industriale, occorre precisare, in caso di sequenza di un

gene o di sequenza parziale, quale sia la proteina o la proteina parziale prodotta o

quale funzione essa assolva”. La direttiva ritiene, dunque, sufficiente l’indicazione

della struttura o, in alternativa, della funzione della proteina codificata dal gene.

La nota alla regola 23e CBE spiega, invece, che “quando ad essere oggetto

di invenzione sono le sequenze e le sequenze parziali di un gene, è necessario

indicare in particolare quale funzione è svolta dalla sequenza e dalla proteina da

essa codificata”; in base al regolamento nella domanda di brevetto per un gene

deve essere specificata non solo la funzione del gene ma anche la funzione della

proteina codificata.

L’UEB ha, dunque, posto un onere ulteriore, rispetto a quanto aveva fatto

la CE, a carico dell’inventore, onere che non deve comunque essere assolto

quando una sequenza di DNA non è utilizzata per la produzione di una proteina,

completa o parziale, ma è utilizzata come marker (gli ESTs). In questo caso,

infatti, l’indicazione della concreta applicazione industriale della sequenza

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dovrebbe consistere semplicemente nell’indicazione del materiale biologico

evidenziato dal marker (230).

A dimostrazione di ciò il Considerando 24 della Direttiva riferisce l’onere

delle indicazioni relative alla proteina al solo caso in cui la sequenza di DNA sia

brevettabile per la produzione della proteina stessa, cosa che non avviene nel caso

degli ESTs; visto che questi ultimi non funzionano come codificatori di proteine

ma semplicemente come marker di altri segmenti genici, rispetto ad essi non si

porranno, infatti, difficoltà descrittive e sarà sufficiente la semplice indicazione

del materiale biologico evidenziato.

Per quanto concerne l’estensione della privativa, secondo l’opinione

tradizionale il brevetto di prodotto riserva al titolare il diritto esclusivo di

produrre, utilizzare e commercializzare il prodotto, con la precisazione che tale

brevetto gode di “protezione assoluta”.

Questa formula esprime, dunque, l’estensione del brevetto di prodotto in

due direzioni diverse: si dice, infatti, che esso protegge il prodotto “comunque

ottenuto” ed “in tutti i suoi possibili usi”.

Senonchè tale formula è nata con le invenzioni della meccanica e si è

consolidata nei secoli in cui essa è stata l’unica tecnologia praticata dall’uomo,

presentando così una struttura generalizzante e onnicomprensiva che non risulta

adeguata ai nuovi settori della tecnica (231).

La prima parte della formula (“comunque ottenuto”) descrive la regola per

cui il brevetto di prodotto preclude ai terzi la produzione e commercializzazione

del prodotto, a prescindere dal fatto che il titolare del brevetto provi che esso è

stato realizzato attraverso il procedimento descritto dalla domanda di brevetto;

anzi, anche se il terzo convenuto in contraffazione dovesse dimostrare di averlo

realizzato attraverso un procedimento diverso da quello descritto dalla domanda di

brevetto.

Tale regola non è mai stata seriamente messa in discussione per le

invenzioni della meccanica, dato che il prodotto della meccanica viene

normalmente realizzato attraverso attività, come ad esempio assemblaggi e

(230) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime

valutazioni d’insieme, cit., p. 129. (231) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai

procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, in Il Dir. Ind., 2004, I, p. 112.

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montaggi, al cui interno spesso non sono pensabili varianti, o sono pensabili solo

varianti minime, cioè evidenti.

La formula in questione, allora, ben si attaglia alle invenzioni della

meccanica, per il cui prodotto è disponibile un solo procedimento di

fabbricazione, con la conseguenza che, se è vero che esso può avere delle varianti,

si tratta pur sempre di varianti così vicine da poter essere considerate non

inventive dal punto di vista brevettuale.

In questo senso, se la formula “comunque ottenuto” appare appropriata per

la meccanica, che è il mondo della rigidità e delle strutture univoche, così non

accade per la chimica, che è invece il regno della trasmutazione e del divenire, in

cui spesso avviene che taluno individui un procedimento nuovo ed originale per la

realizzazione di un composto noto, fino a quel momento prodotto per via affatto

diversa, con la conseguenza che, per le invenzioni della chimica, la regola della

tutela assoluta appare del tutto inadeguata (232).

Con riferimento alle biotecnologie, è possibile osservare come esse

presentino, rispetto al problema in esame, caratteri analoghi a quelli proposti dalla

chimica, facendo così entrare in crisi la formula del “comunque ottenuto”.

Tale regola, in forza della quale il brevetto di prodotto copre il prodotto

medesimo qualunque sia il procedimento con cui esso è stato ottenuto, pur

largamente attestata nel settore meccanico, potrebbe non trovare cittadinanza nel

campo biotecnologico.

La giurisprudenza ha, infatti, esaminato ipotesi in cui uno stesso prodotto

(una proteina) può essere realizzato utilizzando procedimenti affatto diversi: con

metodi di estrazione e purificazione dall’ambiente naturale e con metodi di

ingegneria genetica.

I casi più clamorosi sono, a tal proposito, la lite tra Amgen e Chugai per la

eritropoietina e tra Genetech e Scripps per il Fattore VIII-C (233).

Degno di nota è il fatto che in entrambi i casi viene negato che un brevetto

su una proteina realizzata per estrazione copra anche la proteina realizzata con

(232) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai

procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 116. (233) Per una disamina particolareggiata dei casi in questione si veda il par. 6 cap. 3 pp.

112 ss.

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tecniche di DNA ricombinante e viceversa; il che è esattamente contrario a quanto

suggerirebbe la formula del “comunque ottenuto” (234).

La Direttiva, poi, non fa altro che confermare tale impostazione, sancendo,

da un lato, la brevettabilità di un materiale biologico che venga isolato

dall’ambiente naturale, anche se già accessibile per via di produzione

biotecnologica e, dall’altro, la brevettabilità di un materiale biologico che venga

prodotto per via biotecnologica, anche se sia già stato isolato dall’ambiente

naturale.

Si giunge, così, alla conclusione che i brevetti aventi ad oggetto un

materiale biotecnologico attribuiscono al titolare l’esclusiva di produzione del

materiale solo in quanto prodotto con il procedimento descritto nella domanda di

brevetto, sia esso di isolamento dall’ambiente o di produzione per via

biotecnologica (235).

Tornando alla seconda parte della formula tradizionale della tutela assoluta

del brevetto di prodotto, occorre osservare come essa disciplini il rapporto tra il

brevetto di prodotto ed i possibili usi del prodotto stesso, precludendo ai terzi tutti

i possibili usi del prodotto e non solo quelli indicati dall’inventore e rivendicati

nella domanda di brevetto.

In applicazione di questa tesi si dovrebbe, dunque, concludere che il

brevetto attribuisce al suo titolare una riserva sul prodotto che interessa non solo

l’uso rivendicato dalla domanda di brevetto, ma tutti i suoi possibili usi, noti o

ignoti che siano all’inventore alla data della domanda.

Il principio tradizionale della protezione del prodotto estesa ad ogni suo

possibile uso ha costituito, però, oggetto di critica da parte della dottrina, la quale

ha, a tal fine, fatto leva sulla figura dell’invenzione di traslazione.

Chi utilizza un trovato noto in un settore diverso ed in una funzione

totalmente differente da quella originariamente propria di quel trovato ha

realizzato una nuova invenzione, detta invenzione di traslazione, da sempre

considerata suscettibile di brevettazione (236).

(234) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai

procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 117. (235) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai

procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 117. (236) Cfr. A. VANZETTI – V. DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit., p. 342.

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La brevettabilità della traslazione dipende, quindi, dal fatto che il nuovo

uso sia o non sia equivalente all’uso già noto; nel primo caso la traslazione manca

di originalità e non è brevettabile, mentre nel secondo essa è originale e

brevettabile.

Peraltro, il brevetto di traslazione è del tutto indipendente dal primo

brevetto sul prodotto eventualmente esistente.

La doppia regola della brevettabilità dell’invenzione di traslazione e

dell’indipendenza del brevetto di traslazione dal primo brevetto di prodotto

risulta, allora, logicamente incompatibile con l’idea che il brevetto di prodotto

copra tutti i possibili usi del prodotto stesso. Se, infatti, il brevetto di prodotto

coprisse realmente tutti gli usi del prodotto, anche il nuovo uso pensato

dall’autore della traslazione dovrebbe rifluire all’interno degli usi riservati al

titolare del primo brevetto, e non avrebbe alcun senso la concessione di un

brevetto all’autore della traslazione; ancor meno, di un brevetto “indipendente”

(237).

Si è così giunti a ritenere che ogni tipo di brevetto copre il prodotto a cui si

riferisce solo in relazione all’uso rivendicato dall’inventore o agli usi equivalenti,

concludendo che l’indicazione dell’uso cui il trovato è destinato costituisce un

requisito indispensabile di qualsiasi invenzione di prodotto (238).

L’esigenza di individuare gli scopi cui il prodotto è destinato è stata

avvertita in particolare con riferimento alle invenzioni chimico – farmaceutiche,

nelle quali l’applicazione concreta del trovato non ha quell’evidenza che di regola

contraddistingue l’invenzione meccanica nel suo aspetto esteriore.

Mentre nella meccanica le traslazioni originali, e quindi brevettabili, sono

assai rare, in quanto in questo settore i rapporti tra struttura e funzione sono di

solito univoci e prevedibili, ben più frequente è l’ipotesi dell’individuazione di un

nuovo uso di un composto chimico noto, dal momento che nella chimica il

rapporto tra struttura e funzione non è sempre univoco e prevedibile, con la

conseguenza che, dato un certo composto, non è facile prevederne tutti gli usi e

comunque, noti di esso certi usi, è probabile che possano individuarsene altri ma

non è agevole prevedere da subito quali; l’individuazione di nuovi usi di composti

(237) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 118.

(238) Cfr. M. SCUFFI, Product-by-process claims: un contrastato impiego nell’invenzione chimico-farmaceutica e biotecnologica, in Il Dir. Ind., 2002, pp. 340 ss.

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noti è fatto relativamente frequente e la ricerca che punta all’individuazione di

nuovi usi di composti noti assorbe una fetta rilevante del totale dei finanziamenti

destinati alla ricerca chimica (239).

Con specifico riferimento alla brevettabilità del prodotto è stato, poi,

affermato che per brevettare un’invenzione in campo chimico non è sufficiente la

sola formulazione di una struttura molecolare, ma è necessaria anche l’indicazione

della funzione di tale struttura in virtù delle proprietà possedute da tale composto

(240); ciò in quanto la tutela si correla non al prodotto in sé ed alle astrattamente

ipotizzabili sue utilizzazioni, ma al prodotto in funzione dello specifico utile

scopo cui il medesimo è preordinato per soddisfare un certo bisogno dell’uomo.

Applicazione pratica del principio si è avuta nel caso “cimetidina”

(composto idoneo alla preparazione di un farmaco anti-ulcera) riguardante un

brevetto avente ad oggetto una nuova molecola descritta con formula generale

senza indicazione di tutti i possibili usi (241).

E’ stata in questa occasione ribadita la necessità di una indicazione

specifica di uso o destinazione, non essendo ammissibile, ai fini della

brevettazione, prenotare una esclusiva anticipata sulle proprietà e quindi sui futuri

impieghi di sostanza descritta solo nella sua composizione chimico – fisica, cioè

nella sua struttura molecolare (242).

Rimane però da chiarire se esiste un rapporto, e quale, tra il brevetto di

nuovo uso di un composto ed il brevetto anteriore eventualmente rilasciato a

favore di chi abbia per primo realizzato il composto e ne abbia rivendicato altri

usi, diversi e non equivalenti a quelli di cui al secondo brevetto.

Per risolvere il problema occorre valorizzare la funzione del sistema

brevettuale e richiamare il principio secondo cui l’estensione della privativa deve

essere commisurata al contributo che l’inventore apporta allo stato della tecnica,

venendosi in tal modo a configurare un bilanciamento degli interessi in gioco.

La soluzione più equilibrata e ragionevole, allora, è quella che varia a

seconda che il composto, alla data dell’invenzione che ha dato vita al composto

(239) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 119.

(240) Si veda in tal senso Cassazione, 6 marzo 1995, n. 2575, in GADI, 1995, 3194, pp. 113 ss.

(241) App. Torino, 26 aprile 1988, in GADI, 19888, 2310, pp. 569 ss. (242) Cfr. M. SCUFFI, Product-by-process claims: un contrastato impiego

nell’invenzione chimico-farmaceutica e biotecnologica, cit., p. 342; App. Torino, 26 aprile 1988, in GADI, 1988, 2310, pp. 569 ss.

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nuovo, sia dotato di originalità per la sua struttura o per la sua funzione. Può

accadere, infatti, che il primo inventore abbia creato un composto strutturalmente

non ovvio, perché dotato di una struttura non derivabile da parte del tecnico medio

dai composti già noti; ovvero che abbia costruito un composto non ovvio, perchè

dotato di una struttura agevolmente derivabile da composti già noti, ma provvisto

di funzioni non ovvie in quanto diverse e non equivalenti alle funzioni dei

composti già noti (243).

In entrambi i casi l’inventore del nuovo uso ha diritto al brevetto ma esso

verrebbe ad avere estensione diversa nelle due ipotesi.

L’invenzione di nuovo uso di un composto noto dovrebbe essere

considerata dipendente dalla prima quando il composto, alla data della prima

invenzione, era strutturalmente originale; in questa situazione, infatti, è

ragionevole riconoscere un debito all’inventore del nuovo uso rispetto

all’inventore del composto, visto che esso era strutturalmente non ovvio e il

secondo inventore ha sfruttato “il nocciolo duro” della prima invenzione, ossia la

sua struttura. L’invenzione di nuovo uso di un composto noto dovrebbe, invece,

essere considerata indipendente dalla prima quando il composto, alla data della

prima invenzione, era strutturalmente ovvio, ed ha ottenuto il brevetto solo per

originalità di funzione; in questo caso, l’inventore del nuovo uso non ha fruito

dell’invenzione precedente dato che essa risiedeva essenzialmente nella funzione

del composto e non nella sua struttura (244).

Con specifico riferimento alle biotecnologie, è necessario osservare come

le invenzioni nel campo della genetica siano profondamente diverse da quelle

realizzate in altri settori, ivi comprese le invenzioni chimiche, dal momento che

esse sono legate all’individuazione della funzione di un gene, funzione che

probabilmente non è la sola che quel gene può svolgere nell’organismo vivente.

In questo quadro, riconoscere all’autore dell’invenzione un’esclusiva che

si estenda a tutte le possibili funzioni del gene, anche completamente diverse da

quella individuata, sarebbe del tutto privo di giustificazione, poiché

(243) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai

procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 120. (244) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai

procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 120.

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l’arricchimento apportato al patrimonio tecnico collettivo non è relativo alla

struttura del gene ma riguarda solo la specifica funzione individuata (245).

Vi saranno, allora, alcune funzioni che, sebbene non indicate nella

domanda di brevetto sul gene, saranno comunque, in virtù di un rapporto di

equivalenza o di dipendenza, ricompresse nell’ambito di tutela del primo brevetto;

così come vi saranno altre funzioni che, essendo del tutto estranee al contributo

inventivo del primo brevetto, non rientreranno nell’ambito di tutela conferito da

quest’ultimo.

Le successive invenzioni relative al medesimo gene dovranno, pertanto,

essere considerate dipendenti dalla prima solo quando siano in qualche misura

ricollegabili logicamente all’insegnamento tecnico di essa (246).

Vengono, infine, in rilievo le ordinanze cautelari del Tribunale di Milano

del 10 febbraio 1997 e 22 marzo 1997 (247) relative al brevetto avente ad oggetto

l’individuazione della sequenza genica del virus dell’epatite C e l’utilizzazione di

questa scoperta per la realizzazione di kit immunodiagnostici.

Nel caso in esame i giudici hanno ammesso la possibilità di brevettare il

codice genetico di una determinata proteina solo in funzione della sua

applicazione tecnica esplicitata nelle rivendicazioni pur stabilendo, con ricorso al

criterio dell’omologia, che sono da ricomprendere nell’ambito di protezione non

solo le proteine la cui sequenza di amminoacidi è esattamente quella specificata

nel brevetto ma anche le proteine che hanno in comune con le prime solo una

parte significativa della sequenza, con la precisazione che il rapporto percentuale

della parte comune rispetto al totale della sequenza di riferimento va determinato

caso per caso secondo le conoscenze scientifiche del settore (248).

Nel nostro ordinamento permane, dunque, l’indirizzo secondo cui, a fronte

di una pluralità di usi del prodotto, l’esclusiva brevettuale si estende soltanto

all’uso indicato e a quelli equivalenti, risultando di conseguenza libero il diritto di

(245) Cfr. F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, in STUDI di

DIRITTO INDUSTRIALE in onore di A. VANZETTI, GIUFFRE’, 2004, p. 823. (246) Cfr. F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, cit., p. 824. (247) Trib. Milano, caso Sorin – Chiron, ordinanze cautelari 10 febbraio 1997 e 22 marzo

1997. Si veda in proposito G. DEL CORNO, Prime decisioni in tema di invenzioni biotecnologiche, in Riv. Dir. Ind., 1998, II, pp. 302 ss.

(248) Cfr. M. SCUFFI, Product-by-process claims: un contrastato impiego nell’invenzione chimico-farmaceutica e biotecnologica, cit., p. 342.

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sfruttamento degli usi successivamente individuati dagli altri e non equivalenti a

quelli individuati dal primo inventore (249).

Lo scopo è chiaramente quello di contrastare i cosiddetti “brevetti di

sbarramento” che, ove concessi in relazione a tutti i composti ottenibili da una

formula generale (che potrebbero essere milioni e suscettibili di applicazioni

ancora sconosciute), verrebbero a creare situazioni monopolistiche incompatibili

con lo sviluppo della ricerca (250)

§ 5. Il brevetto biotecnologico come brevetto di

procedimento.

La regola 23b CBE, ricordata precedentemente (251), definisce invenzione

biotecnologica anche il procedimento con cui un materiale biologico è prodotto,

trattato o utilizzato; sono, dunque, procedimenti biotecnologici le tecniche di

produzione delle proteine attraverso l’impiego dei geni che le codificano.

Da notare, però, come non tutti i procedimenti che producono, trattano o

usano materiale biologico possano essere brevettati. La regola 23b CBE e l’art. 4

lett. b) della direttiva mantengono, infatti, il divieto di brevettabilità dei

procedimenti essenzialmente biologici già previsto dall’art. 53b della

Convenzione di Monaco.

Il discrimen tra quanto è coperto da privativa e quanto non lo è nell’ambito

delle invenzioni biotecnologiche di procedimento si gioca, dunque, sul rapporto

dicotomico tra procedimenti “microbiologici” brevettabili e procedimenti

“essenzialmente biologici” non brevettabili.

(249) Cfr. M. SCUFFI, Product-by-process claims: un contrastato impiego

nell’invenzione chimico-farmaceutica e biotecnologica, cit., p. 342. (250) Cfr. M. SCUFFI, Product-by-process claims: un contrastato impiego

nell’invenzione chimico-farmaceutica e biotecnologica, cit., p. 342. (251) Vedi cap. 3 par. 4 pag. 98.

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I problemi che sorgono nel valutare se un procedimento sia essenzialmente

biologico, e dunque non brevettabile, sono dovuti al fatto che molto spesso un

procedimento biologico comprende sia fasi microbiologiche, la gestione delle

quali richiede sempre una certa tecnica, sia fasi naturali o biologiche tout court,

che non richiedono alcuna tecnica perché o avvengono spontaneamente o sono

estremamente facili da provocare (252).

In realtà l’Ufficio Brevetti europeo, nella prassi, ha stimato la natura

essenzialmente biologica del procedimento sulla base di una valutazione di

insieme diretta a stabilire la prevalenza dell’aspetto naturale su quello tecnico-

microbiologico o viceversa; poteva, dunque, accadere che un procedimento fosse

giudicato essenzialmente biologico nonostante presentasse un contributo, seppur

minimo, di tecnicità (253).

La nuova regola, per contro, dispone che possa qualificarsi

“essenzialmente biologico” solo il procedimento che non veda alcuna fase tecnica

nel suo svolgimento, sia cioè caratterizzato esclusivamente da fenomeni naturali,

prescindendo dalla tradizionale valutazione d’insieme per aprire le porte della

protezione brevettuale a tutti i procedimenti che, pur essendo prevalentemente

naturali, presentano comunque un minimo di tecnicità (254).

Ciò che, però, effettivamente rileva è che nel brevetto di procedimento

l’esclusiva copre unicamente il procedimento, sia che non attenga

immediatamente al prodotto ma soddisfi comunque interessi industriali, sia che

conduca alla realizzazione di un prodotto. In questo ultimo caso l’esclusiva si

estende anche al prodotto ottenuto con quel metodo o processo di fabbricazione

purchè ne sia risultato diretto e necessario.

L’art. 66 comma 2 del Codice della proprietà industriale (255) stabilisce che

“se oggetto del brevetto è un procedimento, sorge in capo al titolare il diritto di

vietare ai terzi di applicare il procedimento nonché di usare, mettere in

commercio, vendere o importare a tali fini il prodotto direttamente ottenuto con il

procedimento in questione ”.

(252) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime

valutazioni d’insieme, cit., p. 141. (253) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime

valutazioni d’insieme, cit., p. 141. (254) Cfr. T. FAELLI, La tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa: prime

valutazioni d’insieme, cit., p. 141. (255) Si tratta del decreto legislativo 10 febbraio 2005 n. 30.

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Altrettanto dispone l’art. 64 comma 2 della Convenzione sul brevetto

europeo laddove prevede che “se l’oggetto del brevetto europeo è un

procedimento, i diritti conferiti da questo brevetto si estendono ai prodotti ottenuti

direttamente mediante questo procedimento”.

La giurisprudenza dell’EPO, intervenuta in materia, ha, poi, chiarito che

“the protection conferred by a claim directed to a process for preparing a product

covers that process and the product directly obtained by that process. Hence, the

same product, when obtained by any other process for preparing the product, is

not within the scope of protection conferred by the process claim” (256).

Anche la Direttiva 98/44/CE riprende questo principio stabilendo all’art. 8

comma 2 che la protezione attribuita da un brevetto avente ad oggetto un

procedimento per la produzione di un materiale biologico inventivo si estende al

materiale biologico direttamente ottenuto dall’attuazione del procedimento e a

tutti gli esemplari di tale materiale ricavati dalla riproduzione o moltiplicazione

del primo, sempre che essi mantengano attive le caratteristiche per le quali è stato

brevettato il materiale biologico originario.

L’estensione della tutela del procedimento al prodotto, nei limiti sopra

indicati, lascia così liberi i terzi di porre in commercio un prodotto identico purchè

ottenuto con un procedimento diverso ovvero con strumenti e semilavorati creati

con l’aiuto o l’impiego del procedimento brevettato, senza che il prodotto

discenda da esso (257).

L’inventore del procedimento che intendesse impedire la realizzazione di

quel prodotto indipendentemente dal metodo di fabbricazione dovrebbe perciò

richiedere un distinto brevetto che tuteli il prodotto in sé.

Nell’ordinamento vige, infatti, il principio di unicità dell’invenzione

(espresso dall’art. 161 del C.p.i.) che esclude che un solo brevetto possa coprire

sia il procedimento sia il prodotto.

Invero, la Convenzione sul brevetto europeo ed il Regolamento annesso

offrono una lettura diversa e ammettono la protezione con unico brevetto di una

pluralità di invenzioni purchè legate tra loro in modo tale da formare un solo

concetto inventivo.

(256) Technical Board of Appeal, decisione 20/94 del 4 novembre 1998, in Case law of the Boards of Appeal EPO, IV ed. 2001, pp. 226 ss.

(257) Cfr. M. SCUFFI, Product-by-process claims: un contrastato impiego nell’invenzione chimico-farmaceutica e biotecnologica, cit., p. 343.

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In applicazione di questo principio l’EPO ha, quindi, ritenuto valida la

brevettazione di nuovi prodotti chimici e contestualmente dei procedimenti

necessari alla loro preparazione ove tecnicamente correlati per la realizzazione del

prodotto finale.

Anche la giurisprudenza italiana ha fornito soluzioni differenziate.

Nella controversia sulla “cimetidina” (258) è stato innanzitutto affermato

che nelle invenzioni chimiche prodotto e procedimento sono autonomamente

brevettabili perché un unico brevetto non può conferire una duplice privativa per

il principio di unità dell’invenzione.

Tale criterio è stato, invece, ritenuto “antitetico ed antieuropeo” da altra

decisione (259) sul rilievo che il mancato rispetto dell’art. 29 della legge

invenzioni, relativo al principio di unità, costituisce unicamente una irregolarità

amministrativa mentre la disposizione dell’art. 82 della CBE (260) contiene una

specificazione del concetto di unità dell’invenzione che appare logico utilizzare

anche per il disposto della norma italiana, potendo in tale concetto rientrare anche

più invenzioni tra le quali esista un legame tale da costituire un unico concetto

inventivo generale (261).

(258) App. Torino, 26 aprile 1988, in GADI, 1988, 2310, pp. 569 ss. (259) App. Milano, 16 novembre 1993, in GADI, 1994, 3083, pp. 494 ss. (260) Ai sensi dell’art. 82 CBE “la domanda di brevetto europeo può concernere una sola

invenzione ovvero più invenzioni tra le quali esista un legame tale che costituiscono un solo concetto inventivo generale”.

(261) Cfr. M. SCUFFI, Product-by-process claims: un contrastato impiego nell’invenzione chimico-farmaceutica e biotecnologica, cit., p. 343.

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§ 6. “Product by process claims”.

La Direttiva, recuperando la classica distinzione fra scoperta e invenzione,

ritiene brevettabili solo i prodotti o i procedimenti aventi ad oggetto materiale

biologico che abbiano carattere innovativo, siano il frutto di un’attività inventiva e

siano suscettibili di applicazione industriale.

Diventa così brevettabile ogni elemento di organismi riproducibili purchè

sia individuata la sua utilità pratica; non è sufficiente, quindi, l’identificazione

dell’esistenza e della natura di un certo elemento, ma è necessario, perchè possa

sorgere un diritto di esclusiva, che ne venga dichiarata la funzione ed il possibile

impiego industriale. In tal senso il brevetto non copre l’elemento di per sé, bensì

quella particolare applicazione industriale proposta dall’inventore.

Pertanto i risultati della ricerca condotta possono costituire la base di

partenza per altri ricercatori al fine di enucleare ulteriori potenzialità pratiche del

trovato, associandogli nuove funzionalità e utilità; di guisa che sono ammissibili,

senza necessità di licenze d’uso, brevetti per nuove applicazioni di prodotti già

brevettati.

Si tratta, in questo caso, di brevetti di nuovo uso o di procedimento che

sfruttano in maniera e in forme diverse l’originario trovato o giungono ad una sua

diversa riproduzione, senza trovarsi necessariamente in rapporto di dipendenza

giuridica da quest’ultimo (262).

Il brevetto, infatti, garantisce al titolare l’esclusiva solo relativamente agli

usi di un certo prodotto o procedimento rivendicati nella domanda, senza

estendersi agli usi ulteriori individuati da ricercatori successivi attraverso

un’autonoma e aggiuntiva attività di sperimentazione (263).

Né potrebbe essere diversamente perché, altrimenti, il primo inventore

potrebbe profittare “parassitariamente” dei costi ed investimenti sopportati dai

ricercatori successivi, ponendo un’ipoteca sulle successive evoluzioni scientifiche.

D’altra parte non possono trarsi argomenti contrari dall’art. 8 comma 1

della Direttiva il quale stabilisce che “l’ambito di protezione del brevetto relativo

ad un materiale biologico dotato di determinate proprietà si estende a tutti i

(262) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., pp. 150 ss. (263) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., pp. 150 ss.

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materiali biologici da esso derivati mediante riproduzione o moltiplicazione in

forma identica o differenziata e dotati delle stesse proprietà”.

L’art. 9, invece, sostiene che “la protezione attribuita da un brevetto ad un

prodotto contenente o consistente in un’informazione genetica si estende a

qualsiasi materiale nel quale il prodotto è incorporato e nel quale l’informazione

genetica è contenuta e svolge la sua funzione”.

Se si interpretasse il combinato disposto dei due articoli in senso estensivo,

per cui il brevetto copre il prodotto o il procedimento in sé, determinando una

privativa in qualunque suo successivo utilizzo da parte di chiunque, si

giungerebbe al paradosso di bloccare l’evoluzione scientifica in quel settore,

lasciando a chi l’abbia per primo studiato e sia giunto a risultati il potere di

decidere se continuare o meno l’indagine (264).

Per tale via si verrebbe, dunque, a contrastare apertamente lo “scope of

protection” della Direttiva che è quello di favorire, tramite il riconoscimento di un

diritto di proprietà industriale, il progresso scientifico e lo sviluppo della

conoscenza per migliorare la qualità e le aspettative di vita, attraverso

investimenti remunerativi da parte del settore privato (265).

Alla luce di queste considerazioni non si può che accedere ad una lettura

restrittiva dei due articoli, secondo cui essi avrebbero la funzione di preservare le

ragioni proprietarie del primo inventore contro possibili abusi commessi dai

successivi utilizzatori del prodotto che, pur non apportando alcun “salto ideativo”

(266), si limitino a sfruttare parassitariamente i risultati inventivi altrui, senza però

inibire la legittima richiesta di brevettare diverse caratteristiche e funzioni del

prodotto già scoperto, o di utilizzarlo per finalità diverse in nuovi composti.

In tal senso l’art. 9 protegge il prodotto che contiene o consiste

nell’informazione genetica con riguardo non al prodotto in sé ma alla sua funzione

ed utilità concreta, con la conseguenza che l’individuazione di un nuovo uso di un

materiale biologico coperto da brevetto origina un’invenzione brevettabile non

(264) Cfr. A. PIZZOFERRATO, La tutela brevettuale delle invenzioni biotecnologiche,

cit., p. 1242. (265) Apertamente l’art. 7 dell’Accordo TRIPs statuisce che”la protezione e il rispetto dei

diritti di proprietà intellettuale dovrebbero contribuire alla promozione dell’innovazione tecnologica nonché al trasferimento e alla diffusione di tecnologia, a reciproco vantaggio dei produttori e degli utilizzatori di conoscenze tecnologiche e in modo da favorire il benessere sociale ed economico, nonché l’equilibrio tra diritti e obblighi”.

(266) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 153.

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dipendente di per sé dal primo brevetto, il quale copre solo gli usi rivendicati o ad

essi equivalenti del prodotto biotecnologico (267).

Ne deriva che se il prodotto viene combinato per realizzare la sua funzione

tipica, già individuata dall’inventore originario, questo sarà protetto dal diritto di

proprietà industriale, mentre se viene utilizzato per una funzione diversa e

innovativa, sconosciuta al primo inventore, esso non potrà dirsi protetto da

brevetto e non sarà necessario richiedere al primo inventore una licenza d’uso.

In tal caso il brevetto di prodotto potrà configurarsi come product by

process patent, ossia come brevetto che copre un certo prodotto in quanto

realizzato seguendo un particolare procedimento tecnico, senza conferire un

diritto di esclusiva su ogni prodotto identico a quello brevettato, anche se ottenuto

con metodi differenti.

Il product by process consiste, dunque, nella definizione di un prodotto

attraverso il procedimento per ottenerlo; ne consegue che l’invenzione non

protegge il prodotto in sé ma il prodotto in quanto volto ad un certo uso.

Una netta distinzione tra invenzione di procedimento e invenzione di

prodotto può, dunque, essere posta soltanto in quei settori della tecnica in cui il

prodotto brevettato sia esattamente individuato indipendentemente dal suo

processo di fabbricazione, fenomeno che non trova riscontro relativamente ai

trovati biotecnologici i quali, ai fini della identificazione, devono essere

esattamente individuati tramite il procedimento di sintesi, di isolamento o di

alterazione genetica attraverso cui vengono resi disponibili alla collettività (268).

Tale indicazione, peraltro, è un presupposto essenziale ai fini della

riproducibilità dell’invenzione; l’inventore che chiede tutela per un trovato deve

necessariamente indicare, nella domanda di brevetto, il processo di fabbricazione

adoperato, poiché microrganismi ed organismi, per la complessità biologica che

generalmente li caratterizza, non sono prodotti definibili diversamente (269).

In sintesi, l’invenzione biotecnologica di prodotto si qualifica in questi casi

quale product by process, quale prodotto derivante da un procedimento

determinato.

(267) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività inventiva, industrialità, cit., p. 190.

(268) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, cit., p. 123.

(269) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., pp. 104 ss.

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Per ottenere la protezione del prodotto biotecnologico si pone, dunque,

quale conditio sine qua non la necessaria rivelazione del processo, riconoscendosi

implicitamente la centralità che il procedimento tecnico operato dall’uomo riveste

nell’attività di ricerca scientifica del settore, posto che, proprio in esso, è

contenuto il momento creativo.

I microrganismi e gli organismi, in definitiva, secondo l’opinione fatta

propria anche dall’Ufficio Brevetti europeo, possono essere rivendicati di per sé,

quali invenzioni di prodotto, soltanto secondo la formula del product by process,

con l’indicazione necessaria, cioè, del procedimento di fabbricazione (270).

Quest’ultima affermazione è giustificata dal rilievo che, se si svincolasse

la concessione del brevetto per il materiale biologico dal procedimento tramite cui

esso è sintetizzato o isolato, potrebbero essere tutelati tramite un regime di

privativa anche i trovati ottenuti con procedimenti diversi da quelli

microbiologici, ma, in definitiva, essenzialmente biologici e, quindi, il frutto di

una mera scoperta o di una mutazione naturale: tutto ciò perché da una domanda

priva di qualsiasi riferimento alla modalità di produzione non si potrebbe

discernere ciò che è prodotto dall’uomo da ciò che è semplicemente derivato da

processi naturali (271).

Peraltro, non c’è ragione di escludere in campo biotecnologico la regola

generale per cui la misura del diritto di esclusiva deve essere contenuta entro i

limiti dell’insegnamento effettivamente proposto dall’inventore. Sicchè il brevetto

sul prodotto copre, oltre alle varianti “nominate”, solo le varianti implicite, ossia

deducibili dalla formula generale con il semplice impiego delle conoscenze

proprie del tecnico medio del ramo; mentre le soluzioni che offrono un risultato

originale, pur partendo dalla stessa base conoscitiva di quel prodotto, sono escluse

dalla sfera di applicazione del primo prodotto in quanto indipendenti ed autonome

da quest’ultimo (272).

Né potrebbe ritenersi che l’individuazione del nuovo uso si trovi in

rapporto di “dipendenza” con la precedente invenzione di prodotto, perlomeno

quando essa dia vita ad un nuovo risultato utile o consenta l’efficiente

(270) Cfr. SENA, L’ importanza della protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., pp. 65 ss. (271) Cfr. V. D’ANTONIO, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati

Uniti, cit., p. 124. (272) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 154.

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utilizzazione del trovato in campi e settori ulteriori rispetto a quelli in cui era stato

sperimentato in precedenza.

Tutto ciò nasce evidentemente dalla necessità di non inibire le “subsequent

innovations”, le soluzioni diverse più progredite e competitive sul mercato,

rallentando così l’evoluzione dell’innovazione tecnologica (273).

Invero, il rapporto di dipendenza deve essere affermato “se il secondo

trovato adotti, in tutto o in parte, la stessa idea di soluzione in relazione allo stesso

tipo di risultato utile”, cioè alla stessa destinazione d’uso.

Quindi, ad esempio, l’invenzione che migliori il conseguimento dello

stesso tipo di utilità con un’idea di soluzione che comunque utilizza, pur

“perfezionandola”, quella propria dell’esclusiva anteriore, è dipendente da questa.

Viceversa, l’invenzione che, pur utilizzando elementi oggetto di altrui

precedente esclusiva, li combini in modo originale dando luogo ad un nuovo

risultato utile che i singoli elementi considerati in sé e nella loro semplice

sommatoria non consentivano di conseguire, va considerata non dipendente dalla

prima.

Così pure va ritenuta non dipendente dalla prima esclusiva l’invenzione

che “trasferisca” l’ideazione precedente in un diverso e lontano settore d’uso,

conseguendo un nuovo risultato utile (274).

Nella stessa direzione si è, poi, espressa la Corte Suprema italiana (275)

quando ha osservato che oggetto del brevetto non è il principio scientifico in sé,

ma resta la soluzione del problema tecnico-industriale, quale indicata

dall’inventore in applicazione del principio scientifico da lui scoperto od

elaborato. In sostanza, la privativa si forma rispetto ad una singola soluzione

industriale, ad un certo esito applicativo di una scoperta, non sull’intera gamma

delle sue possibili applicazioni.

Il brevetto riguardante un determinato segmento di DNA capace di

produrre una certa proteina copre tutti gli sfruttamenti commerciali di quel gene

che siano volte alla produzione della proteina.

Ma se in un momento successivo si scopra che la proteina già individuata

può svolgere altre attività o funzioni a ricaduta industriale oppure che, associando

(273) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 154. (274) Cfr. G. GHIDINI, Profili evolutivi del diritto industriale, GIUFFRE’, Milano, 2001,

pp. 63 ss. (275) Cass. 29 dicembre 1988, n. 7083, in Foro it., 1989, I, pp. 690 ss.

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alla sequenza di amminoacidi tipica di quella proteina altre e diverse strutture, se

ne potenzi significativamente l’efficacia o il livello di attività, l’inventore potrà

brevettare il diverso uso o le diverse caratteristiche della proteina, senza che il

primo inventore possa presentare opposizione o possa rivendicare la paternità

economica sulla nuova invenzione (276). Allo stesso modo, se è stata brevettata

una certa proteina umana ricavata secondo un procedimento di estrazione e

purificazione da fonti naturali, non potrà il titolare di tale brevetto rivendicare un

diritto di privativa sulla proteina in sé; la produzione di tale proteina attraverso

metodiche e tecnologie differenti, come tecniche di DNA ricombinante, non

ricadrà nella sfera di estensione del brevetto originario e potrà essere oggetto di un

autonomo brevetto indipendente laddove sia il frutto di un innovativo ed originale

procedimento tecnico (277).

Il brevetto per la proteina naturale non si estende così a comprendere la

proteina ricombinante, così come non comprende altre funzioni e proprietà,

scoperte successivamente, della proteina naturale.

Estremamente significative a riguardo risultano, quindi, le decisioni

relative alle metodiche impiegate per la produzione della eritropoietina e del

Fattore VIII C.

Nel caso Amgen vs Chugai i giudici milanesi (278) si sono occupati, in sede

di appello, di un metodo per produrre eritropoietina umana ricombinante, per

ottenere, cioè, tramite la tecnica del DNA ricombinante, una proteina

normalmente prodotta dal corpo umano in grado di stimolare la produzione di

globuli rossi chiamata EPO; proteina che trova impiego in campo farmacologico

per la cura di anemie e può essere ricavata anche dall’urina umana ma solo in

quantità limitate, sicchè occorrono tecniche di ingegneria genetica per la sua

riproduzione su scala industriale.

Nella causa di contraffazione del brevetto Amgen i giudici d’appello hanno

escluso che il metodo di preparazione di un polipeptide di eritropoietina partendo

da sequenze di cDNA (che è molecola di sintesi artificiale perché ottenuta per

clonazione derivandola dall’ RNA messaggero) costituisse contraffazione per

(276) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 155. (277) Cfr. A. PIZZOFERRATO, Brevetto per invenzione e biotecnologie, cit., p. 155. (278) App. Milano, sentenza 5 maggio 1995 (in GADI, 1995, 3311, pp. 970 ss.)di revoca

dell’inibitoria concessa, per ritenuta contraffazione, da Trib. Milano con sentenza 22 novembre 1993 (in GADI, 1993, 2998, pp. 768 ss.).

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equivalente di brevetto rivolto alla produzione di EPO umana ricombinante

utilizzando sequenze di DNA normale o gnomico.

Quei giudici stabilivano, infatti, che si trattava di metodi di preparazione

proteinica diversi (l’uno utilizzante un frammento di un gene o DNA gnomico,

l’altro un cDNA cioè la copia in forma di DNA della molecola di RNA

messaggero) e che l’ambito di esclusiva del prodotto era individuato per via del

procedimento di fabbricazione impiegato, sicchè venivano a considerare la

rivendicazione di “product by process” come rivendicazione di procedimento,

cioè in funzione del metodo con il quale si otteneva la proteina ricombinante e

non in funzione della proteina per se stessa considerata.

Altrettanto significativo risulta, poi, il caso statunitense Scripps-Genetech

(279) che vedeva contrapposti due metodi di realizzazione del Fattore VIII C,

proteina usata nel trattamento dell’emofilia, consistenti nel procedimento

tradizionale di estrazione e purificazione da plasma sanguigno umano e nella

tecnica del DNA ricombinante.

L’impresa titolare del brevetto anteriore (Scripps) citò la titolare del

brevetto successivo (Genetech) per contraffazione della prima invenzione,

sostenendo che il proprio brevetto copriva il Fattore VIII C umano in sé,

“comunque ottenuto”.

Il giudice americano decise la controversia fissando un principio

fondamentale: non costituisce contraffazione la realizzazione di un prodotto

identico a quello brevettato attraverso un procedimento diverso da quello usato

dal titolare del brevetto. In altre parole, un brevetto per un’invenzione di prodotto

conferisce il diritto di esclusiva solo sul prodotto ottenuto con le modalità

indicate; qualsiasi prodotto identico ottenuto mediante procedimenti differenti è

nuovo e non costituisce contraffazione del brevetto anteriore.

Secondo la giurisprudenza americana, dunque, il brevetto relativo ad una

certa proteina ottenuta con un procedimento volto ad estrarre, isolare e purificare

le sostanze naturali non copre anche la medesima proteina in quanto prodotta con

la tecnica del DNA ricombinante.

In questa prospettiva il prodotto non sarebbe protetto in sé ma in quanto

ottenuto attraverso un determinato procedimento; il medesimo brevetto non

(279) Court of Appeal of the Federal Circuit of the United States, 1991.

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coprirebbe, viceversa, un prodotto, sia esso modificato in qualche riguardo o

identico, ottenuto seguendo un altro metodo (280).

Il quadro delineato è stato poi confermato dalla Direttiva 98/44/CE

laddove prevede, all’art. 3, la brevettabilità del materiale biologico isolato dal suo

ambiente naturale o prodotto tramite un procedimento tecnico, ancorché

preesistente in natura.

Si giunge così alla conclusione che i brevetti aventi ad oggetto un

materiale biotecnologico attribuiscono al titolare l’esclusiva di produzione del

materiale solo in quanto prodotto con il procedimento descritto nella domanda di

brevetto, sia esso di isolamento dall’ambiente o di produzione per via

biotecnologica (281).

(280) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, cit., pp. 54 ss..

(281) Cfr. V. DI CATALDO, Tra tutela assoluta del prodotto brevettato e limitazione ai procedimenti descritti ed agli usi rivendicati, cit., p. 117.

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CAPITOLO IV

LA BREVETTABILITA’ DEGLI STRUMENTI DI

RICERCA (COSIDDETTI RESEARCH TOOLS)

§ 1. Il difficile rapporto tra scoperta e invenzione nel settore

biotecnologico.

Secondo la definizione tradizionalmente accettata, la scoperta consiste

nella individuazione di un quid prima ignoto, ma esistente in natura, o nella

determinazione di proprietà e di utilità, prima ignote, di un quid già conosciuto,

distinguendosi in tal modo dall’invenzione che può essere definita come la

creazione di un quid prima inesistente (282).

Dal punto di vista giuridico, il rapporto dicotomico tra scoperta e

invenzione presenta notevoli implicazioni pratiche in quanto determina la

brevettabilità o non brevettabilità di un risultato della ricerca (283). Da qui

discende anche la distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata: la prima,

“volta alla comprensione dei fenomeni e all’organizzazione concettuale e

sistematica dei dati scoperti e delle ipotesi interpretative” (284), ha come scopo la

produzione di risultati teorici e astratti, senza applicazioni concrete e, come tali,

“scoperte” inidonee ad essere oggetto di diritti proprietari (285); la seconda, per

contro, “partendo dalle acquisizioni della ricerca di base perviene al progetto di

dispositivi e metodologie utilizzabili a scopi innovativi” (286), finendo per

realizzare innovazioni capaci di soddisfare bisogni di carattere pratico e, quindi,

traducibili in applicazioni sfruttabili su scala industriale che possono costituire

oggetto di privativa (287).

(282) Così G. SENA, La brevettazione delle scoperte e delle invenzioni fondamentali, cit.,

pp. 318 ss. (283) Cfr. P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, in Brevetti e biotecnologie a cura di GHIDINI – CAVANI, LUISS UNIVERSITY PRESS, 2006, pp. 37 ss.

(284) Cfr. G. FLORIDIA, Le invenzioni universitarie, in Riv. Dir. Ind., 2007, p. 315. (285) Cfr. P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, cit., pp. 37 ss. (286) Cfr. G. FLORIDIA, Le invenzioni universitarie, cit., p. 315. (287) Cfr. P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, cit., pp. 37 ss.

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Sulla base della normativa vigente in Europa e in Italia parrebbe doversi

concludere che le scoperte non siano tutelabili: tanto la Convenzione di Monaco

(288) quanto il Codice della proprietà industriale (289), dopo avere enunciato che

l’oggetto del brevetto è costituito dalle invenzioni, precisano che “non sono

considerate come invenzioni le scoperte”, con la conseguenza che queste ultime

non potranno costituire oggetto di una privativa industriale se considerate in

quanto tali. Al contrario, il Patent Act americano (290) definisce il termine

“invention” indifferentemente come “invention or discovery”, precisando che può

ottenere il brevetto “whoever invents or discovers”.

Questa conclusione radicalmente negativa tende, però, ad essere superata,

con riguardo alle biotecnologie, dal testo della Direttiva; nel settore

biotecnologico, i concetti di scoperta e invenzione tendono, infatti, a sovrapporsi,

essendo difficile tracciare una linea di confine tra le due nozioni.

Nell’ottica della necessità di incentivare la ricerca remunerando gli

investimenti all’uopo necessari anche nel settore della biotecnologia, è stato

appunto sostenuto che occorre assicurare la tutela brevettuale indipendentemente

dal fatto che il risultato sia concettualmente qualificabile come scoperta oppure

come invenzione (291).

Si propone, in altri termini, di superare la dinamica del rapporto scoperta-

invenzione che è propria del settore della meccanica nel quale, infatti, le leggi

della fisica e le teorie scientifiche si collocano a monte della progettazione dei

dispositivi meccanici. La regola della non brevettabilità delle scoperte in

contrapposizione alla brevettabilità delle invenzioni, nata per essere applicabile al

settore della tecnologia meccanica, non si adatta al settore della biotecnologia “in

cui spesso scoperta ed invenzione si compenetrano in un tutto inscindibile”, sicchè

il divieto della brevettazione della scoperta si risolve in un divieto della

brevettazione anche della consequenziale invenzione (292 ).

Prendendo atto di ciò la Direttiva ammette, all’art. 3 comma 2, la

brevettazione di ciò che preesiste in natura, purchè, in coerenza con i principi

generali del sistema e con l’indicazione contenuta nello stesso articolo al comma

(288) Il riferimento è all’art. 52 comma 2 lett. a). (289) Si veda l’art. 45 lett. a) del d.lgs. n. 30 del 10 febbraio 2005. (290) Patent Act, 35 U.S.C., §§ 100 a e 101. (291) Cfr. G. FLORIDIA, Le invenzioni universitarie, cit., pp. 315 ss. (292) Cfr. G. FLORIDIA, Le invenzioni universitarie, cit., pp. 315 ss.

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1, costituiscano oggetto di brevetto solo i prodotti biologici preesistenti che non

appartengono allo stato della tecnica, perché, pur preesistendo allo stato naturale,

non sono conosciuti in quanto non ancora scoperti.

A ciò si aggiunga che non sarà la mera scoperta a poter essere brevettata

ma solo quella che consente la identificazione e la realizzazione di una concreta

utilità ed applicazione industriale; la brevettabilità è esclusa con riguardo alle

scoperte “considerate in quanto tali” ed è , invece, ammessa con riferimento alle

loro applicazioni tecniche e ai prodotti necessari per la loro attuazione (293).

Questa stessa esigenza è, poi, espressa dall’art. 5 comma 1 della Direttiva

il quale dispone che “la mera scoperta di un elemento del corpo umano, ivi

compresa la sequenza o la sequenza parziale di un gene, non possono costituire

invenzioni brevettabili”, mentre il successivo comma 3 aggiunge che

“l’applicazione industriale di una sequenza o di una sequenza parziale di un gene

deve essere concretamente indicata nella richiesta di brevetto”; la mera

individuazione di un gene non è, dunque, brevettabile fino a quando il materiale

biologico isolato non sia utilizzabile come prodotto atto ad una specifica

applicazione industriale.

Laddove un diritto di esclusiva brevettuale fosse riferito a scoperte e

principi scientifici “in quanto tali”, esso dovrebbe, infatti, secondo la struttura di

protezione tipica dell’istituto, cadere su tutte la possibili e spesso a priori

indeterminabili forme di sfruttamento concrete di essi. Un sistema che

riconoscesse diritti brevettuali anche su scoperte scientifiche di carattere astratto

dovrebbe dunque ammettere privative di ampiezza potenzialmente smisurata, con

il rischio di paralizzare la libertà di ricerca (294).

Attribuire allo scopritore di un nuovo principio scientifico astratto un

diritto esclusivo su tutte le successive realizzazioni tecniche che oggettivamente

possono essere spiegate come applicazioni del principio scoperto, significherebbe

allora garantirgli un compenso che non è normalmente proporzionato al suo

contributo al corso del progresso tecnico, e anzi un compenso paradossalmente

tanto maggiore quanto più il principio scientifico scoperto è generale e quindi

(293) Così G. SENA, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 70. (294) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte-invenzioni, cit., pp.

134 ss.

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distante da uno scopo pratico (295). Di qui l’esigenza di garantire tutela brevettuale

alle sole invenzioni che risultino dotate di utilità e suscettibili di applicazione

pratica.

Come è stato autorevolmente osservato (296), in alcuni settori, specie in

quello biotecnologico, una netta distinzione tra scoperta e invenzione si è rivelata

impraticabile e, conseguentemente, è venuta meno anche la distinzione tra ricerca

di base e ricerca applicata, dovendosi ritenere che la ricerca biotecnologica sia

sempre applicata.

Nelle biotecnologie la necessità di estendere la “patentability subject

matter” deriva dal fatto che i prodotti e i procedimenti brevettati sono spesso

realizzati mediante tecniche di routine, già facenti parte dello stato dell’arte, che

vengono applicate ai nuovi risultati della ricerca di base, la quale perde, quindi,

“l’astrattezza” che la caratterizza e sfocia in risultati tecnici (297).

Invero, l’esclusione della brevettabilità dei risultati della ricerca di base

oltre ad avere, ex post, una volta che tali risultati siano stati conseguiti e poi

divulgati, un effetto positivo sulla ricerca successiva che ha quale punto di

partenza la loro conoscenza, avrebbe anche, ex ante, ben più consistenti effetti

negativi sul progresso tecnico, poiché essa disincentiverebbe sia l’attività di

ricerca da parte dei privati volta al conseguimento di tali risultati in assenza della

remunerazione conseguente alla brevettazione, sia la divulgazione dei risultati

eventualmente ottenuti, poiché essi sarebbero mantenuti segreti avendo i loro

autori interesse a non estendere ai concorrenti il vantaggio che la conoscenza di

tali risultati attribuisce nello sviluppo della ricerca successiva volta a conseguire

nuovi trovati brevettabili.

La ragione delle posizioni contrarie alla brevettabilità dei risultati della

ricerca di base sembrerebbe poter essere individuata nel timore che una esclusiva

sui risultati della ricerca di base possa costituire un vero e proprio blocco delle sue

applicazioni tecnologiche, che possa cioè comportare un effetto di sbarramento

precludendo lo sbocco pratico dei risultati della ricerca fondamentale (298).

(295) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte-invenzioni, cit., p.

135. (296) Cfr. G. FLORIDIA, Le invenzioni universitarie, cit., pp. 315 ss. (297) Cfr. P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, cit., p. 39. (298) Così G. SENA, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 72.

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125

Come è stato affermato dalla Corte Suprema (299), la regola della non

brevettabilità delle scoperte si fonda, non su una loro supposta intrinseca

incapacità di produrre concreti risultati pratici, bensì, all’inverso, sulla loro

capacità di determinare un insieme di applicazioni tecnologiche a larghissimo

ventaglio pressoché indeterminato; attribuendo all’autore della scoperta la facoltà

di interdire l’attuazione pratica di tutte le innovazioni che altri potranno apportare

alla tecnologia basandosi sulla scoperta si giungerebbe, infatti, a paralizzare ogni

progresso.

Il problema della protezione giuridica della ricerca di base riguarda proprio

la promozione della ricerca stessa, con la conseguenza che, senza una disciplina

che renda convenienti gli ingenti investimenti che essa richiede, non si

produrranno quelle scoperte e invenzioni fondamentali che si vogliono offrire allo

sfruttamento gratuito.

In dottrina (300) si è così giunti a sostenere che, se è vero che vi sono

scoperte e invenzioni fondamentali, frutto della ricerca di base, che possono

determinare un insieme di applicazioni tecnologiche ad altissimo ventaglio, è

altrettanto vero che è necessario promuoverne la accessibilità e la circolazione,

proprio per favorire quello sviluppo tecnico che da esse deriva.

Si pone, pertanto, la necessità di conciliare l’esigenza di incentivare e

tutelare attraverso l’esclusiva brevettuale le invenzioni fondamentali, che si

collocano nella prima fase della ricerca, con il bisogno di evitare che l’esistenza di

una privativa a monte possa disincentivare le fasi successive della ricerca da parte

di terzi (301).

Il problema non è, dunque, di facile soluzione perché occorre trovare tra

l’interesse del titolare del brevetto a monte e quello dei futuri titolari dei brevetti

successivi un bilanciamento che sia conforme alla ratio del sistema brevettuale di

incentivazione e di accelerazione del progresso tecnico.

Tale bilanciamento richiede, innanzitutto, che l’ambito di tutela delle

invenzioni di base venga determinato in conformità con il principio fondamentale

(299) Cass., 29 dicembre 1988, n. 7083, in Foro it., 1989, vol. I, pp. 690 ss. (300) Si veda in tal senso SENA, La brevettazione delle scoperte e delle invenzioni

fondamentali, cit., p. 328; ID., L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 73.

(301) Si veda in tal senso SENA, La brevettazione delle scoperte e delle invenzioni fondamentali, cit., pp. 327 ss; ID., L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., pp. 72 ss.

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secondo cui l’ampiezza della protezione accordata da un brevetto deve essere

commisurata al contributo che l’inventore apporta allo stato della tecnica (302).

Occorre, pertanto, che all’autore dell’invenzione di base venga attribuita

una adeguata tutela a prescindere dal fatto che con la ricerca successiva egli sia

giunto a realizzare una o più concrete applicazioni di essa; solo in tal modo,

infatti, si riconosce l’importanza dell’innovazione di base e si minimizza il rischio

che essa sia mantenuta segreta sino a quando non siano state conseguite una o più

invenzioni a valle, venendo così preclusa ad altri la possibilità di svolgere la

ricerca successiva che ha quale presupposto la conoscenza dei risultati della

ricerca di base (303).

Una possibile soluzione alla questione della estensione della esclusiva

brevettuale risiede nel meccanismo della licenza obbligatoria a favore delle

invenzioni dipendenti, meccanismo che consente di contemperare i vari interessi

in gioco, ammettendo la brevettazione delle scoperte e invenzioni fondamentali

senza precludere lo sviluppo delle applicazioni tecnologiche che derivano da

quelle (304).

Pare, dunque, che l’orientamento prevalente, come evidenziato nell’ambito

dell’AIPPI (Associazione Internazionale per la Protezione della Proprietà

Intellettuale), sia quello di ammettere una licenza obbligatoria nel caso di brevetti

per invenzione dipendente, a condizione che quest’ultima comporti un progresso

tecnico considerevole, che la licenza sia effettivamente necessaria per la sua

attuazione, che venga corrisposta una congrua royalty e che sia reciprocamente

concessa una licenza sul brevetto dipendente a favore del titolare del brevetto

principale.

Gli orientamenti espressi dalla dottrina sono poi stati confermati, a livello

giurisprudenziale, dalla sentenza 11 novembre 1999 del Tribunale di Milano

relativa al caso Sorin vs Chiron (305).

Nel caso in esame l’impresa Chiron Corporation, dopo aver isolato e

decodificato il virus responsabile dell’epatite C, riuscì a mettere a punto un kit

(302) Cfr. V. DI CATALDO, La brevettabilità delle biotecnologie. Novità, attività inventiva, industrialità, cit., p. 179.

(303) Cfr. F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, cit., p. 818. (304) Si veda in tal senso SENA, La brevettazione delle scoperte e delle invenzioni

fondamentali, cit., p. 329; ID., L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., p. 74.

(305) Cfr. G. SENA, Brevi note sulla brevettabilità delle scoperte e invenzioni fondamentali, in Riv. Dir. Ind., 2000, II, pp. 342 ss.

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immunodiagnostico ottenendo prima un brevetto statunitense nel 1987 e

successivamente un brevetto europeo. Per difendere la privativa in Italia, Chiron

citò in giudizio per contraffazione una sua concorrente, Sorin, la quale eccepì la

nullità del brevetto adducendo come motivazioni la non brevettabilità del trovato,

il difetto di applicazione industriale, l’insufficienza della descrizione brevettuale e

la mancanza di novità.

In tale circostanza il Tribunale di Milano, dapprima in sede cautelare e poi

nel corso del giudizio di merito, ha ammesso la possibilità di brevettare

l’individuazione della struttura di un virus in quanto scoperta che possiede

un’immediata industrialità quanto alla sua utilizzazione in analisi immunologiche

(306). I giudici milanesi hanno così applicato l’art.2585 del codice civile, secondo

cui può costituire oggetto del brevetto anche l’applicazione tecnica di un principio

scientifico purchè dia immediati risultati industriali.

Questa decisione sembra, dunque, essersi allineata all’orientamento

dottrinale che ritiene che nel settore biotecnologico la scoperta e la sua

applicazione non siano più distinguibili, rappresentando i risultati di una ricerca

unitaria.

Si è, allora, sostenuta la necessità di estendere la disciplina e la tutela

giuridica al momento della ricerca, assicurando la protezione anche alla fase che

precede la specifica applicazione pratica; indipendentemente dal fatto che il

risultato della ricerca sia concettualmente qualificabile come scoperta o

invenzione sussiste la necessità di remunerare gli ingenti investimenti a carico

delle imprese biotecnologiche (307).

Senonchè tale opinione, anche se confermata dalla giurisprudenza, è stata

osteggiata da quanti ritengono che tale orientamento comporti il sostanziale

superamento della distinzione tra scoperta scientifica e invenzione industriale

nonché l’elusione del divieto imposto dall’art. 45 CPI.

Un bilanciamento di queste due posizioni potrebbe, dunque, essere

rinvenuto nella stretta interpretazione dell’art. 2585 comma 2 del codice civile

che, da un lato, riconosce la brevettabilità della scoperta, dall’altro, ne circoscrive

(306) Cfr. G. DEL CORNO, Prime decisioni in tema di invenzioni biotecnologiche, cit.,

pp. 314 ss. (307) Si veda in tal senso i veda in tal senso G. SENA, La brevettazione delle scoperte e

delle invenzioni fondamentali, cit., pp. 317 ss; ID., L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, cit., pp. 65 ss.

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la protezione alla sola applicazione tecnica individuata, senza che si possa

impedire ad altre imprese di brevettare ulteriori innovazioni tecniche discendenti

da quella scoperta(308).

§ 2. La brevettazione dell’intermedio nel settore chimico.

Per prodotto chimico intermedio si intende “il composto chimico che

materializza una fase intermedia di un processo di sintesi o, più genericamente, un

composto chimico la cui utilizzazione avviene unicamente in funzione della

preparazione di altri composti (prodotti finali) destinati ad altri usi specifici” (309).

Questa definizione implica che l’intermedio sia “un prodotto chimico la

cui struttura molecolare viene successivamente modificata attraverso la

formazione di nuovi legami chimici”; pertanto “non sono intermedi tutti quei

prodotti che, pur non possedendo singolarmente le proprietà del prodotto finale

destinato all’uso commerciale, sono in esso contenuti in qualità di componenti,

ingredienti o additivi, senza venire ulteriormente modificati nella loro struttura

molecolare” (310).

Esaminando la giurisprudenza e la letteratura brevettuale dei maggiori

paesi industrializzati occidentali si ha conferma del fatto che la brevettabilità degli

intermedi non è posta in discussione per quanto riguarda la capacità di rispondere

ai requisiti di novità, industrialità e originalità.

Negli Stati Uniti, in cui il requisito dell’industrialità è sostituito da quello

dell’utility, l’utilità dell’intermedio è, appunto, quella di rendere possibile

l’attuazione di un processo chimico per l’ottenimento di un altro prodotto a sua

volta utile.

Diventa quindi essenziale per la brevettazione dell’intermedio che dal

brevetto stesso venga fornita una chiara indicazione del modo con cui esso può

(308) Cfr. P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, cit., p. 42. (309) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, in Riv. Dir. Ind.,

1990, I, p. 330. (310) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, cit., p. 330.

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essere utilizzato nel processo di trasformazione successivo; non viene ritenuta

sufficiente la generica affermazione che un nuovo prodotto chimico possa essere

utilizzato per la fabbricazione di altri prodotti utili per qualificarlo come

intermedio brevettabile (311).

Tuttavia l’utility dell’intermedio non basta per decretarne la brevettabilità,

occorrendo provarne anche la originalità.

A tal proposito la giurisprudenza americana segue il criterio della

contributing cause, in forza del quale l’originalità dell’intermedio può essere data

dalla circostanza che esso, secondo la ragionevole previsione dell’esperto del

ramo, è la causa degli effetti sorprendenti del composto finale ottenuto (312).

Qualora la causa di proprietà sorprendenti e non ovvie del prodotto finale sia

identificabile in certe particolarità strutturali trasferitegli dall’intermedio, di tale

contribuzione deve essere riconosciuto merito all’intermedio stesso, con il

conseguente effetto positivo nella valutazione della sua originalità.

La giustificazione di questo criterio affonda le proprie radici nel principio

secondo cui, ai fini dell’accertamento dell’originalità, si deve prendere in

considerazione l’oggetto dell’invenzione nel suo insieme e, segnatamente, si deve

tenere conto anche di tutte le proprietà del composto. Poichè, secondo la

giurisprudenza, la capacità dell’intermedio di influire sulle proprietà del prodotto

finale deve essere considerata come una proprietà dell’intermedio, ne discende

che chi deposita una domanda di brevetto per un intermedio, al fine di vincere la

presunzione di ovvietà dell’intermedio basata sulla sua affinità strutturale con altri

composti noti nello stato della tecnica, dovrà innanzitutto identificare la causa

delle qualità superiori del prodotto finale ottenuto con l’intermedio rivendicato, e

poi verificare se tale causa è riconducibile all’intermedio, così da stabilire un

nesso tra l’intermedio e le proprietà del prodotto finale (313).

La giurisprudenza dell’ Ufficio Brevetti Europeo distingue, invece, tra il

caso in cui l’intermedio intervenga in un procedimento originale dal caso in cui

l’intermedio venga utilizzato in un procedimento in sé ovvio ma che serve per la

fabbricazione di un prodotto nuovo e inventivo.

(311) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, cit., p. 333. (312) Cfr. G. BERGOMI, La tutela brevettuale dell’intermedio, cit., pp. 101 ss. (313) Così G. BERGOMI, La tutela brevettuale dell’intermedio, cit., p. 102.

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Nella prima ipotesi la Commissione dei Ricorsi ha precisato che anche per

gli intermedi, così come per ogni altra invenzione, il criterio per la valutazione

dell’originalità è sostanzialmente quello dell’arricchimento dello stato della

tecnica “in modo sorprendente”, essendo indifferente se l’arricchimento dello

stato della tecnica avviene perché è inventivo il procedimento di sintesi

dell’intermedio, o il procedimento di trasformazione dell’intermedio stesso o il

complessivo procedimento nel quale l’intermedio è utilizzato e rivendicato (314 ).

Peraltro, la brevettabilità dell’intermedio non è esclusa neppure ove il

procedimento non sia in sé inventivo ma sia un procedimento noto che consente di

ottenere sostanze nuove e dagli effetti sorprendenti, che possono essere

indifferentemente altri intermedi o prodotti finali (315).

Si ritiene, dunque, che l’intermedio debba fornire un contributo strutturale

ai prodotti successivi per poter essere qualificato come tale.

Senonchè, queste connessioni strutturali non sono elementi sufficienti per

decretare la brevettabilità dell’intermedio, occorrendo invece valutare lo stato

della tecnica, ed in particolare quelle aree della chimica che comprendono

composti collocabili per analogia vicino all’intermedio o ai composti finali, per

stabilire se l’intermedio implica effettivamente un’attività inventiva.

Da ciò nasce l’esigenza che il contributo che la struttura chimica

dell’intermedio fornisce alla struttura del prodotto finale presenti almeno una delle

caratteristiche che permettono a quest’ultimo di differenziarsi dallo stato della

tecnica ad esso relativo.

Quanto all’attività inventiva occorre, dunque, dimostrare che l’intermedio

non è ovvio né con riferimento allo stato della tecnica prossimo al prodotto

intermedio stesso, né con riferimento allo stato della tecnica prossimo al prodotto

finale. Bisogna, cioè, dimostrare, da un lato, che l’intermedio rivendicato possiede

talune proprietà di cui sono sfornite le sostanze aventi una struttura analoga e che

sono imprevedibili dall’esperto del ramo, dall’altro, che l’esperto del ramo non è

in grado di ricavare l’intermedio da prodotti finali analoghi a quello ottenuto con

l’intermedio stesso (316).

(314) Cfr. G. BERGOMI, La tutela brevettuale dell’intermedio, cit., p. 106. (315) Cfr. G. BERGOMI, La tutela brevettuale dell’intermedio, cit., p. 106. (316) Cfr. G. BERGOMI, La tutela brevettuale dell’intermedio, cit., pp. 106 ss.

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L’analisi della giurisprudenza americana e dell’Ufficio Brevetti Europeo

evidenzia, dunque, che il punto più delicato nella valutazione della brevettabilità

del prodotto chimico intermedio risiede nel riconoscimento di un livello

inventivo, che può realizzarsi attraverso metodologie diverse a seconda del

risultato finale a cui l’intermedio contribuisce.

Nel caso del nuovo intermedio per la fabbricazione di un prodotto finale

noto esiste, infatti, uno stato della tecnica che offre come riferimento ogni altro

procedimento alternativo conosciuto per la preparazione del relativo prodotto

finale.

L’effetto tecnico dell’intermedio può essere in tal caso misurato dalla sua

contribuzione al risultato industriale totale finale che, a sua volta, viene misurato

rispetto a quello della tecnica nota e, se la sua utilizzazione per l’ottenimento di

tale effetto avviene attraverso un procedimento chimico originale che ha richiesto,

esso stesso, uno sforzo inventivo, ciò significa che le sue proprietà chimiche non

erano facilmente prevedibili e deve di conseguenza riconoscersi al nuovo

intermedio una collocazione in un’area della chimica non ovvia per il tecnico del

ramo e, quindi, un diritto al brevetto (317).

Con riferimento al riconoscimento del livello inventivo dell’intermedio

utile per la produzione di una nuova sostanza finale a sua volta brevettabile,

manca un termine di riferimento diretto, in quanto il suo effetto tecnico si

manifesta solo in concomitanza della realizzazione di un ulteriore aspetto

dell’idea inventiva. In sostanza, non si può pensare alla realizzazione di un

determinato intermedio se il prodotto finale per cui esso viene utilizzato non è

ancora stato concepito e realizzato (318).

Senonchè, è pur vero che esiste uno stato della tecnica costituito

dall’insieme dei composti chimici conosciuti e dalle eventuali indicazioni di un

loro possibile impiego, con la conseguenza che si rende necessario un esame delle

aree dello stato della tecnica vicine sia all’intermedio sia al prodotto finale.

In questa ottica, il nuovo intermedio può essere brevettabile sia quando è

responsabile di proprietà peculiari e sorprendenti espresse in maniera tangibile nel

nuovo composto finale, sia quando, pur non potendosi espressamente rilevare tale

relazione, la sua struttura chimica risulta determinante per l’ottenimento del

(317) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, cit., p. 338. (318) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, cit., p. 339.

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nuovo prodotto finale e per la sua differenziazione dal relativo stato della tecnica

e, nel contempo, non è desumibile dalle aree sopra citate (319).

Dalle posizioni della giurisprudenza straniera diverge in maniera stridente

l’opinione contraria alla brevettabilità dell’intermedio espressa dalla Cassazione

nel 1990 nella sentenza “cimetidina” (320).

Alla base della motivazione offerta dalla Suprema Corte vi era

l’affermazione secondo cui “l’intermedio, se inteso come quella sostanza chimica

che rappresenta un passaggio obbligato del procedimento di sintesi, ma che non è

fruibile per il soddisfacimento di un bisogno diverso da quello connesso

all’attuazione del procedimento stesso, non è concettualmente separabile dal

procedimento e non è quindi autonomamente brevettabile come prodotto”.

Secondo questo orientamento l’intermedio non sarebbe, quindi,

brevettabile perché l’invenzione di prodotto postula la sua destinazione al

soddisfacimento di un bisogno finale, di consumo.

Successivamente la giurisprudenza italiana, in una diversa causa

riguardante la cimetidina, mutando orientamento, ebbe invece modo di

pronunciarsi a favore della brevettabilità dell’intermedio (321).

Il profilo caratterizzante di questa pronuncia è che in essa la Corte

perviene alla brevettabilità dell’intermedio senza negare il presupposto della

destinazione dell’invenzione di prodotto al soddisfacimento di un bisogno umano,

limitandosi ad affermare che le invenzioni di prodotto possono soddisfare un

bisogno strumentale, ossia di produzione (322). In particolare la Corte, dopo aver

rilevato che l’intermedio per il quale veniva chiesta tutela –l’imidazolo- era un

prodotto avente una precisa utilità industriale in quanto serviva per ottenere i

prodotti finali nell’ambito di un processo industriale, concluse per la brevettabilità

dell’intermedio affermando che, “se è vero che un prodotto per costituire oggetto

di un trovato brevettabile deve servire a soddisfare un bisogno umano, non vi è

ragione per escludere che tale finalità sia adempiuta laddove tale prodotto, nuovo

(319) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, cit., p. 339. (320) Cass., 16 novembre 1990, n. 11094, in Giur. ann. dir. ind., 1990, n. 2478, 115 ss. (321) Il riferimento è alla sentenza della Corte d’Appello di Milano, 16 novembre 1993, in

Giur. ann. dir. ind., 1994, 3083, pp. 494 ss. (322) Cfr. G. BERGOMI, La tutela brevettuale dell’intermedio, cit., p. 109.

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e originale, svolga una funzione puramente strumentale nell’ambito di un

processo di preparazione industriale” (323).

Ne discende che la brevettabilità dell’intermedio è ammessa solo a

condizione che esso serva alla produzione di un bene finale.

Concludendo, al prodotto chimico definito come intermedio si devono

riconoscere gli stessi diritti, ai fini della brevettazione, di tutti gli altri prodotti

chimici in quanto può positivamente rispondere ai requisiti di novità, industrialità

e attività inventiva. Il fatto che l’uso finale da parte del consumatore non implichi

direttamente l’intermedio, bensì il risultato di ulteriori elaborazioni chimiche, non

comporta alcuna negazione aprioristica del riconoscimento dei suddetti requisiti.

La negazione della brevettabilità dell’intermedio sottrarrebbe alla

comunità il positivo impulso del sistema brevettuale relativamente alla scoperta di

nuove sostanze chimiche che possono esplicare funzioni fondamentali nello

sviluppo tecnologico aprendo la strada alla realizzazione di nuovi processi

industriali e all’ottenimento di nuovi prodotti finali sempre più efficaci (324).

L’intermedio brevettato gode, infine, di una ampia tutela che non si

esaurisce nel procedimento del quale esso è mezzo di attuazione ma si concreta

nel monopolio sul nuovo prodotto chimico posto a disposizione dello stato della

tecnica che, oltre ad essere utilizzabile secondo le indicazioni fornite

dall’inventore, può costituire un mezzo per la realizzazione di nuove applicazioni

industriali (325).

(323) App. Milano, 16 novembre 1993, cit., pp. 494 ss. (324) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, cit., pp. 346 ss. (325) Così R. SGARBI, La brevettazione dei prodotti chimici intermedi, cit., pp. 346 ss.

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§ 3. La brevettabilità degli strumenti di ricerca (cd. research

tools) con particolare riferimento alle sequenze parziali di

geni.

La necessità di impedire la creazione di un monopolio su una informazione

scientifica riguarda da vicino il settore biotecnologico in quanto il mondo

biologico ha come suo fondamento un contenitore di informazioni, ossia il DNA,

la cui funzione consiste appunto nel trasmettere le informazioni essenziali per il

funzionamento della cellula (326).

L’individuazione di un gene, ossia di un segmento di DNA

autoriproducibile in grado di trasmettere i caratteri ereditari, rientra certamente

nella nozione di scoperta, dovendosi però stabilire se e quando tale risultato

scientifico sia una scoperta in quanto tale e, quindi, non sia brevettabile e quando,

invece, se ne possa ammettere la brevettabilità.

Una chiave di lettura è fornita dall’art. 5 della Direttiva 98/44 secondo cui

“la scoperta di uno degli elementi del corpo umano, nonché la sequenza o

sequenza parziale di un gene non possono costituire invenzioni brevettabili”; al

contrario, “sono brevettabili gli elementi del corpo umano o le sequenze geniche

qualora siano isolati o comunque tecnicamente riprodotti, anche se già sussistenti

in natura, purchè ne sia indicata una concreta applicazione industriale”.

Analogamente, la regola 23 lett. e) della CBE (327) stabilisce che la

semplice scoperta di una sequenza genica non può costituire oggetto di brevetto.

Tuttavia, se isolata dal corpo umano, può costituire un’invenzione brevettabile

purchè l’applicazione industriale sia “disclosed” nella domanda: si richiede,

quindi, ai fini di una valida brevettazione, l’indicazione della funzione nella

richiesta di brevetto.

Da qui si desume che le sequenze geniche sono brevettabili in quanto

codificano una proteina o assolvono a una specifica funzione mentre è da

escludere la possibilità di ottenere un brevetto su una sequenza genica in quanto

(326) Così P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, cit., pp. 49 ss. (327) Nel 1999 le implementing regulations della Convenzione di Monaco sono state

modificate e, in particolare, è stata inserita una apposita sezione relativa alle invenzioni biotecnologiche.

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tale (328). Una sequenza genica individuata per se stessa e non in base alla sua

funzione rientrerebbe, appunto, nella nozione di scoperta e non di invenzione.

Accanto alle sequenze geniche complete esistono, poi, le sequenze parziali

di geni, nel cui alveo rientrano le EST (Expressed Sequence Tags) e gli SNP

(Single Nucleotide Polimorphisms).

Le EST, letteralmente “etichetta di sequenza espressa”, si caratterizzano

per il fatto di non essere generalmente idonee alla codificazione di una proteina e

di assolvere, pertanto, essenzialmente funzioni di ricerca.

In particolare, queste sequenze parziali sono utilizzate sia per individuare

sequenze complete di geni, idonei a loro volta a codificare per una determinata

proteina, sia per valutare “l’espressione” di un gene, capire la fisiologia di un

organismo in contesti e in tessuti diversi ed assolvere funzioni diagnostiche (329).

Siccome poi inducono le sequenze ricercate ad evidenziarsi, sono spesso

indicate come markers di geni.

In questo senso le sequenze EST si distinguono, da un lato, dai geni che

codificano per una determinata proteina, dall’altro, da altre tipologie di sequenze

parziali di geni, quali sono gli SNP che, come suggerisce il nome (polimorfismi a

singolo nucleotide) sono singole variazioni puntiformi del genoma.

Queste ultime sono sequenze parziali “a mutazioni individuali”, ovvero

tratti di DNA che, inseriti in più ampie sequenze geniche, determinano in queste

ultime la codificazione di una proteina diversa o con nuove proprietà (330).

Questo tratto caratteristico fa, dunque, ritenere che gli SNP, a differenza

degli EST, possano assolvere ad una utilità specifica, con la conseguenza che

soltanto gli EST rientrano nella categoria degli strumenti di ricerca, cosiddetti

research tools, senza però esaurirla (331).

Nella categoria dei research tools possono, infatti, essere compresi una

serie piuttosto eterogenea di trovati brevettabili; come evidenziato dal British

(328) In tal senso V. DI CATALDO, Biotecnologie e diritto. Verso un nuovo diritto e

verso un diritto dei brevetti, cit., p. 368. (329) Così A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, in Riv. Dir. Ind., 2005, p. 460. (330) Così A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 460. (331) Così A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 461.

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Group of AIPPI (332) nel Report Q150 (333) “ the term research tools can cover a

variety of different types of patentable subject matter”.

The term “research tools” would seem to connote a user perspective,

indicating something that is not yet an end product and has its primary value as

an input into further research (334). Si fa, dunque, riferimento ai primi risultati

“utili” della ricerca, a quei trovati che, pur non costituendo prodotti finali,

rivestano un’utilità esclusivamente per la ricerca successiva.

E’ con riferimento agli strumenti di ricerca, e in particolare alle sequenze

parziali di geni EST, che si pone il dibattuto problema della brevettabilità di tali

materiali, problema che può essere considerato un tassello del più ampio tema

relativo all’espansione delle privative industriali ed alla conseguente riduzione

dell’area riservata al pubblico dominio. Infatti l’argomentazione secondo cui una

progressiva estensione delle privative si risolverebbe in una minore disponibilità

della “materia prima intellettuale”, e in un conseguente rallentamento del

progresso e dell’innovazione, rileva in diverse aree evolutive del diritto

brevettuale e si estende ai trovati biotecnologici (335).

A queste sequenze parziali di geni possono certamente essere estese le

considerazioni svolte in precedenza circa l’esclusione dalla brevettabilità delle

sequenze geniche in quanto tali, vale a dire senza alcuna funzione, e la necessità

di limitare la tutela alla sola funzione descritta. Tuttavia, quando le sequenze

geniche o le metodologie per l’utilizzo delle stesse nella ricerca di base si rivelano

essenziali per la ricerca successiva, queste osservazioni non risultano sufficienti

visto che occorre limitare l’uso strategico dei brevetti, il quale può costituire un

vero e proprio pregiudizio per l’innovazione (336).

In tal senso si è espresso anche il Parlamento europeo con una Risoluzione

del 4 ottobre 2001, invitando il Consiglio, la Commissione e gli Stati membri ad

(332) AIPPI is the world’s leading non-government organisation for research into, and formulation of policy for, the law relating to the protection of intellectual property.

(333) Cfr. THE BRITISH GROUP OF AIPPI, Report Q 150: Patentability requirements and scope of protection of expressed sequence tags (ESTs), single nucleotide polymorphisms (SNPs) and entire genomes, in EIPR, 2000, pp. 39 ss.

(334) Così R. EISENBERG, Bargaining over the transfer of proprietary research tools: is this market failing or emerging?, in EXPANDING THE BOUNDARIES OF INTELLECTUAL PROPERTY edited by DREYFUSS- ZIMMERMAN-FIRST, Oxford university press, 2004, p. 228.

(335) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni EST, cit., p. 458.

(336) Così P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non sempre perfetto, cit., p. 50.

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adottare “le misure necessarie a garantire che il codice genetico umano sia

liberamente disponibile per la ricerca in tutto il mondo e che le applicazioni

mediche di determinati geni umani non siano ostacolate da monopoli basati su

brevetti”, al fine di evitare che il rilascio di una privativa brevettuale possa, a

determinate condizioni, pregiudicare la ricerca.

In ogni caso, la brevettabilità degli EST non è espressamente esclusa né

dal diritto positivo statunitense né da quello comunitario europeo.

Nell’ordinamento americano la brevettazione degli EST costituisce, infatti,

una pratica diffusa (337).

Negli Stati Uniti la brevettazione dei trovati biotecnologi ha avuto origine

con il caso Diamond vs Chakrabarty del 1980 relativo agli organismi

geneticamente modificati (338).

Da allora si è registrato un sostanziale aumento della brevettazione dovuto

al concorrere di due tendenze: in primo luogo la giurisprudenza americana ha

interpretato in maniera più blanda il requisito dell’utility, non richiedendo la

sussistenza di una utilità finale ai fini della brevettazione, ma consentendo

l’attribuzione di una privativa ai primi risultati della ricerca, ai trovati afferenti a

livelli base della ricerca biomedica; in secondo luogo la brevettazione di tali

trovati è stata facilitata dalla politica del Congresso volta a stimolare al ricerca

finanziata con fondi pubblici e culminata con il Bayh Dole Act del 1980 (339).

A seguito di tale intervento le università sono divenute i soggetti più attivi

nella brevettazione delle invenzioni sviluppate con fondi federali, dal momento

che la titolarità dei brevetti conseguiti sulle innovazioni realizzate in ambito

accademico è stata assegnata alle università e non ai singoli ricercatori.

Le università americane più celebri, sedi di importanti ricerche

scientifiche, hanno così costituito degli uffici istituzionalmente dediti alle

politiche brevettali, occupandosi delle procedure di rilascio delle privative, della

concessione delle licenze e ponendosi generalmente come obiettivo la

massimizzazione delle royalities (340).

(337) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 461. (338) Si veda il par. 1 del cap. 2, pp. 32 ss. (339) The Government Patent and Policy Act del 12 dicembre 1980. (340) Così P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, cit., pp. 52 ss.

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Con specifico riferimento agli EST, nel 1991 il National Institute of

Health, rivolgendosi al US Patent and Trademark Office, ha perorato la causa

della brevettazione di queste entità per poi mutare orientamento successivamente

e muoversi nella direzione opposta (341).

Forti obiezioni alla brevettabilità degli EST sono poi state avanzate

dall’HUGO, Human Genome Organisation, depositario del progetto di mappatura

completa del genoma umano.

Al contrario, il Patent Office americano si è espresso a favore della

brevettazione; nel 1997 è stato, infatti, annunciato che tale organo avrebbe

permesso la brevettazione di EST in considerazione della loro utilità come

strumenti di ricerca e il 6 ottobre 1998 è stato riconosciuto il primo brevetto su

EST alla Incyte Pharmaceuticals Inc.

Negli USA non dovrebbero, quindi, esservi ostacoli alla brevettazione

degli EST ancorché preordinati ad operare solo come sonde nucleiche, ossia come

mezzi impiegati per scandagliare il DNA alla ricerca del gene completo, a

condizione che sia presente il requisito dell’altezza inventiva e sia riscontrabile

un’utilità specifica, sostanziale e credibile, anche se poi la funzione assolta sia

solo quella di “amo” per individuare una certa sequenza completa di DNA (342).

In tale ordinamento il brevetto conferisce un’esclusiva anche sugli usi

sperimentali dell’invenzione, potendosi così ipotizzare l’utilità anche di

un’invenzione che possa servire al solo fine di condurre verso ricerche ulteriori.

Per quanto concerne la situazione europea, il conferimento di una privativa

industriale su queste entità è in linea teorica consentita dalle norme comunitarie

(343).

Ai sensi, appunto, dell’art. 2 della Direttiva sulla protezione giuridica delle

invenzioni biotecnologiche e della regola 23b CBE il materiale biologico

brevettabile può essere costituito da un organismo, da un microrganismo oppure

da una sequenza di DNA, ricomprendendosi all’interno di questa categoria sia

sequenze complete che sequenze parziali di geni.

(341) Cfr. A. OSER, Patenting partial gene sequences taking particular account of the

EST issue, in IIC, 1999, p. 1 ss. (342) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi

geneticamente modificati, cit., pp. 44 ss. (343) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 461.

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Senonchè, l’eventualità di una brevettazione degli EST nell’Unione

Europea, secondo la pratica già diffusa nell’ordinamento statunitense, determina

molteplici critiche.

La concessione di diritti di esclusiva su queste entità potrebbe, infatti,

determinare un aumento dei costi della ricerca. Da un lato verrebbero ad

accrescersi i costi finanziari, dovuti alla imposizione di prezzi di monopolio sui

trovati brevettati, dall’altro diverrebbero più onerosi i costi di transazione,

particolarmente significativi in un ambiente di innovazione fortemente cumulativa

(344).

E’ però con riferimento alla sussistenza dei requisiti di validità del brevetto

per invenzione che sorgono i dubbi più rilevanti circa la brevettazione delle

sequenze parziali di DNA.

Considerato che la preesistenza della sequenza in natura non comporta

l’automatica esclusione della sua brevettabilità, si richiede quindi la verifica della

sussistenza dei requisiti di accesso alla protezione brevettuale, quali la novità,

l’altezza inventiva e l’industrialità.

Con riferimento alla questione della novità, “the most important patent

offices agree that an invention related to a partial sequence of a gene is new as

compared with the previous description of the total gene or of a larger gene

section including the partial sequence, if this partial sequence of the invention

had not been disclosed in its specific form” (345).

“Partial gene sequences, once isolated and made available to the public,

form part of the state of art, in the same way as any other chemical” (346). La

sequenza parziale di un gene può, dunque, definirsi nuova fintanto che non è stata

rivelata (disclosed) o resa accessibile al pubblico entrando così a far parte dello

stato della tecnica, visto che, ai fini della sussistenza del requisito in questione, si

richiede che l’invenzione non sia stata resa di pubblico dominio.

(344) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 464. (3459 Cfr. A. OSER, Patenting partial gene sequences taking particular account of the

EST issue, cit., p. 10. (346) Cfr. THE BRITISH GROUP OF AIPPI, Report Q 150: Patentability requirements

and scope of protection of expressed sequence tags (ESTs), single nucleotide polymorphisms (SNPs) and entire genomes, cit., p. 41.

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Maggiori critiche sorgono per gli EST con riferimento al requisito

dell’attività inventiva, che sussiste quando l’invenzione non risulta in maniera

evidente dallo stato della tecnica secondo una persona esperta del ramo.

In tal caso l’inventive step dovrà, quindi, essere valutato tenendo conto del

contributo tecnico apportato dal trovato allo stato della tecnica.

Siccome i metodi utilizzati per l’individuazione e l’isolamento delle

sequenze parziali sono per lo più routinari, il contributo di cui sopra dovrà essere

valutato tenendo conto dei risultati tecnici effettivamente raggiunti, comparandoli

con lo stato della tecnica (347).

“Consequently, the inventive step will generally not depend on how the

expert could arrive at the claimed DNA but rather what can be achieved by it”

(348).

Il requisito maggiormente discusso è, però, quello dell’utilità; se, da un

lato, le sequenze parziali rappresentano un potente strumento di ricerca, dall’altro,

il possesso di un EST non garantisce né consente di prevedere una strategia

pratica per ottenere la sequenza del gene cui quello appartiene (349).

In particolare si è osservato come l’invenzione avente per oggetto un EST

mancherebbe di assolvere al requisito dell’utilità quando il solo uso indicato nella

domanda di EST sia quello di identificare altri acidi nucleici, la cui utilità non è a

sua volta conosciuta; ciò significa che quando gli EST sono utilizzati come sonde

nucleiche la loro utilità ai fini della ricerca della sequenza completa non soddisfa

il requisito di industrialità inteso alla luce dell’art. 5(3) della Direttiva (350).

Similmente si argomenta nel caso di utilizzo a fini diagnostici, ove

l’utilizzo della sequenza parziale evidenzia la malattia genetica o la

predisposizione genetica che determina nell’individuo malato o geneticamente

disposto alla malattia la produzione di una determinata proteina difettosa.

L’insufficienza dell’utilità è, in questo caso, dovuta al fatto che la conoscibilità

(347) Cfr. M. HOWLETT – A. CHRISTIE, An analysis of the approach of the European,

Japanese and United States Patent Office to patenting partial DNA sequences ESTs, in IIC, 2003, pp. 387 ss.

(348) Cfr. A. OSER, Patenting partial gene sequences taking particular account of the EST issue, cit., p. 12.

(349) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni EST, cit., p. 468.

(350) Cfr. M. RICOLFI, La brevettazione delle invenzioni relative agli organismi geneticamente modificati, cit., p. 45.

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141

della malattia sarebbe possibile solo a seguito di ulteriore ricerca condotta

utilizzando la sequenza (351).

Con riferimento all’industrialità, l’art. 5 comma 3 della Direttiva e il punto

3 della regola 23e CBE impongono che l’applicazione industriale della sequenza o

della sequenza parziale di un gene debba essere indicata nella domanda.

Il considerando 24 della direttiva, inoltre, nel confermare l’obbligatorietà

di questa indicazione, la riferisce ai casi di brevetto relativi ad “una sequenza di

un gene o una sequenza parziale di un gene utilizzata per produrre una proteina”

prevedendo che sarà necessaria l’indicazione della proteina prodotta o della

funzione cui essa assolve, escludendo da questo discorso la sequenza parziale

avente funzione di ricerca (352).

Coerentemente, il Considerando 16 della direttiva esclude dalla

brevettazione la mera scoperta di una sequenza o di una sequenza parziale di un

gene, mentre il Considerando 23 non considera un’invenzione brevettabile la

sequenza di DNA non accompagnata dall’indicazione di una funzione in quanto

non contenente alcun insegnamento tecnico; “a simple DNA section without

indication of a function does not contain a technical teaching and hence does not

represent a patentable invention” (353).

Diventa dunque fondamentale la previsione di una funzione utile della

sequenza genica perché ci si possa trovare di fronte ad un’invenzione brevettabile.

“If the teaching is restricted to the mere reproduction of genetic

information, it is merely an enrichment of the state of knowledge, a pure

discovery. On the other hand, if, as a result of the indication of the function, a

claimed DNA sequence causally contributes to a technically exploitable result, it

is an invention” (354).

(351) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni EST, cit., p. 469.

(352) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni EST, cit., p. 485.

(353) Cfr. A. OSER, Patenting partial gene sequences taking particular account of the EST issue, cit., pp. 6 ss.

(354) Cfr. A. OSER, Patenting partial gene sequences taking particular account of the EST issue, cit., p. 7.

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§ 4. “The tragedy of the anticommons” nella ricerca

biotecnologica.

Come è stato osservato da Michael Heller e Rebecca Eisenberg (355), la

concessione di un numero elevato di privative industriali sulle “upstream

discoveries” (sui primi risultati della ricerca) minaccia di reprimere la

“downstream research”, la ricerca successiva funzionale allo sviluppo del

prodotto, incrementando altresì i costi di transazione.

Se una risorsa è incline ad essere “overused in a tragedy of the commons”,

in cui troppi soggetti hanno il privilegio di utilizzare un dato bene senza che

alcuno abbia il diritto di escludere gli altri, al contrario, questa stessa risorsa

risulterà “underused in a tragedy of the anticommons”, dove si riscontrerà, invece,

la presenza di una molteplicità di proprietari in grado ciascuno di escludere gli

altri (356).

Alla base di quella che viene definita “the tragedy of the anticommons”

c’è, dunque, la privatizzazione dei primi risultati della ricerca, della “upstream

biomedical research”; privatizzazione che comporta sia vantaggi che rischi.

Il brevetto e gli altri strumenti di protezione della proprietà intellettuale,

infatti, non solo possono costituire un forte incentivo a farsi carico di progetti di

ricerca rischiosi, ma possono anche contribuire ad una distribuzione più equa dei

profitti (357).

D’altra parte la privatizzazione rischia di ostacolare la futura ricerca; il

risultato sarà una spirale di “overlapping patent claims in the hands of different

owners, reaching ever further upstream in the course of biomedical

research”(358), di domande che pretendono, quindi, di coprire anche gli ulteriori

risultati della ricerca.

Il principale meccanismo attraverso cui i governi finiscono per creare un

“anticommons” è rappresentato dalle RTLAs -Reach through license agreements-

(355) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, in SCIENCE, 1998, vol. 280, pp. 698 ss. (356) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., pp. 698 ss. (357) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., pp. 698 ss. (358) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., p. 698.

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ossia clausole inserite nei contratti di licenza attraverso le quali i titolari di

brevetti sui research tools si assicurano dei diritti sull’innovazione successiva che

con essi è stata raggiunta.

“An RTLA gives the owner of a patented invention, used in upstream

stages of research, rights in subsequent downstream discoveries” (359).

Tali diritti potranno, poi, assumere la forma di una royalty sul ricavato

derivante dall’uso dello strumento di ricerca, di una licenza esclusiva o non

esclusiva sulle successive scoperte, di un diritto di opzione per l’acquisizione di

un tale licenza.

In pratica, le RTLAs possono condurre ad un “anticommons” nel momento

in cui i titolari di privative sui research tools presentano “overlapping and

inconsistent claims on potential downstream products”, avanzano cioè pretese sui

potenziali prodotti finali (360).

Tra i fattori che contribuiscono a rendere difficoltosa la negoziazione per il

trasferimento della proprietà intellettuale meritano, poi, di essere menzionati

innanzitutto gli alti costi di transazione.

Il pericolo di alti costi di transazione emerge, infatti, in mercati innovativi

in cui lo scarto tra invenzione ed innovazione deriva dalla cumulatività del

processo innovativo e dalla conseguente rilevanza di una moltiplicazione dei

titolari di diritti di esclusiva. In un simile contesto, il rischio di un freno

all’innovazione non deriverebbe da una limitazione all’accesso imposta dalla

“impresa pioniere”, ma da alti costi di transazione e da comportamenti strategici

posti in essere da molteplici soggetti che rivendicano diritti di esclusiva (361).

Peraltro, si è osservato che l’accrescimento dei costi di transazione grava

non solo sui soggetti produttori di innovazione, su cui ricadono gli oneri di

un’innovazione cumulativa, ma anche, indirettamente, sui soggetti che, pur non

innovando, sono licenziatari di innovazione o acquirenti del prodotto finito, il

quale incorpora una molteplicità di trovati brevettati (362).

(359) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., p. 699. (360) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., p. 699. (361) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 478. (362) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 480.

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“High transaction costs may be an enduring impediment to efficient

bundling of intellectual property rights in biomedical research” (363).

A questo proposito occorre, in primo luogo, osservare come spesso ad

essere titolari di diritti di esclusiva sui research tools siano istituzioni pubbliche,

aventi a disposizione risorse limitate per poter assorbire i costi di transazione.

A ciò si aggiunga il fatto che il carattere eterogeneo degli interessi facenti

capo ai titolari di brevetto pubblici e privati può rendere complicato elaborare

termini di licenza standard, richiedendo invece costose negoziazioni condotte caso

per caso.

Tuttavia, anche laddove i titolari di brevetti su research tools siano

motivati ad escogitare meccanismi di riduzione dei costi di transazione, essi

sarebbero comunque dissuasi da altre costrizioni legali, in particolare la normativa

antitrust (364).

Nell’ambito della normativa antitrust si registra, infatti, un atteggiamento

di ostilità nei confronti del fenomeno del Patent Pooling (365), ossia accordi tra

due o più titolari di brevetti per concedere in licenza insieme ai terzi uno o più

loro brevetti (366).

Invero, i Patent Pools si realizzano in concreto solo quando c’è un

interesse convergente di tutti i titolari dei vari brevetti collegati a sfruttarli in

comune e, quindi, solo quando tra i brevetti esiste un effetto di blocco reciproco o

quando il loro sfruttamento congiunto offre un vantaggio competitivo ai loro

titolari (367).

Quando, invece, come accade di frequente nel campo delle biotecnologie, i

vari brevetti hanno ad oggetto prodotti tra loro concorrenti, ipotizzare un libero

accordo tra i loro titolari appare illusorio, poiché il titolare del brevetto a monte

avrà interesse a far valere il suo diritto di esclusiva per impedire lo sfruttamento

dei brevetti dipendenti e non ad accordarsi con i titolari di questi e subire la loro

concorrenza.

(363) Così R. EISENBERG, Bargaining over the transfer of proprietary research tools: is

this market failing or emerging?, cit., p. 232. (364) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., pp. 700. (365) In tal senso M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., p. 700. (366) Così F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, cit., p. 824. (367) Così F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, cit., p. 824.

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Accanto agli alti costi di transazione, un altro fattore di difficoltà è

rappresentato dalla eterogeneità degli interessi facente capo ai titolari di brevetti;

“intellectual property rights in upstream biomedical research belong to a large,

diverse group of owners in the public and private sectors with divergent

institutional agendas” (368).

“Biomedical research occurs in universities, nonprofit institutions,

government agencies, small biotechnology firms and major pharmaceutical firms”

(369).

E’, dunque, proprio questa differenziazione di interessi a rendere

difficoltoso il raggiungimento di un accordo; mentre un’agenzia governativa come

il National Institute of Health sarà interessata ad assicurare una assai ampia

disponibilità del nuovo prodotto terapeutico ad un prezzo ragionevole, una

impresa privata sarà, invece, più incline ad utilizzare le privative industriali per

preservare un monopolio lucrativo sul prodotto e per finanziarne il futuro

sviluppo.

“Another conflict in agendas arises between owners that pursue end-

product development and those that focus primarily on upstream research” (370).

L’obiettivo relativo allo sviluppo del prodotto finale può, infatti, essere

soddisfatto meglio rendendo gli strumenti di ricerca ampiamente disponibili su

una base non esclusiva, mentre gli scopi legati alla ricerca effettuata “a monte”,

possono essere perseguiti più agevolmente attraverso l’offerta di licenze esclusive

(371).

A complicare il quadro sin qui delineato interviene anche la diversa

capacità di tollerare i costi di transazione.

Le università possono, infatti, trovarsi mal equipaggiate ad affrontare le

transazioni necessarie per acquisire una licenza di utilizzo relativa agli strumenti

di ricerca; al contrario, gli enti privati di più ampie dimensioni dispongono di

(368) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., p. 700. (369) Così R. EISENBERG, Bargaining over the transfer of proprietary research tools: is

this market failing or emerging?, cit., p. 235. (370) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., pp. 700 ss. (371) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., pp. 700 ss.

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maggiori risorse per la negoziazione delle licenze rispetto alle istituzioni

pubbliche e alle imprese di piccole dimensioni (372).

Inoltre, ciascuna istituzione rappresenta una comunità eterogenea al cui

interno si trovano diverse tipologie di soggetti i cui intendimenti possono

divergere ed entrare in conflitto durante la negoziazione delle condizioni di

trasferimento dei research tools.

In particolare, all’interno delle università statunitensi si registra una

diversità di vedute tra scienziati e professionisti incaricati del trasferimento della

tecnologia (technology transfer professionals).

Se, da un lato, la priorità degli scienziati, quando intendono ottenere

research tools, è quella di acquisire il materiale di cui necessitano il prima

possibile, dall’altro, l’obiettivo primario dei cosiddetti “technology transfer

professionals” è quello di occuparsi della concessione ai privati di licenze sulle

invenzioni di proprietà delle università al fine di conferire fondi all’università in

vista delle ricerche successive (373).

La priorità di questi ultimi è, dunque, quella di proteggere l’università e i

suoi scienziati dall’incorrere in obbligazioni suscettibili di limitare la loro libertà

di condurre ricerche, di preservare le future opportunità di ottenere fondi per la

ricerca e di riservare la possibilità di concedere licenze per le future scoperte a fini

di lucro (374).

(372) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The

anticommons in biomedical research, cit., pp. 700 ss. (373) Cfr. R. EISENBERG, Bargaining over the transfer of proprietary research tools: is

this market failing or emerging?, cit., p. 239 ss. (374) Cfr. R. EISENBERG, Bargaining over the transfer of proprietary research tools: is

this market failing or emerging?, cit., p. 239 ss

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§ 5. Possibili soluzioni alla cosiddetta “tragedy of the

anticommons”.

Una prima linea di soluzioni proposta a livello dottrinale ha individuato la

necessità di un’esclusione della brevettabilità della entità EST non in virtù di un

percorso interpretativo ex post ma attraverso una previsione legislativa; si

determinerebbe in tal modo la necessaria appartenenza dell’EST al pubblico

dominio.

Senonchè, una tale soluzione appare viziata da un certo “apriorismo

normativo”; è vero che essa restituisce la libertà dell’accesso all’utilizzo della

conoscenza di base attraverso un’imposizione legislativa del pubblico dominio,

ma l’esclusione della tutela industriale dovrebbe seguire l’analisi dei requisiti di

validità che l’ordinamento richiede (375). Diversamente, un’esclusione ex ante

incontrerebbe i limiti tipici di un modello di previsione legislativa ex ante ed

unilaterale sulle scelte di interesse generale, rispetto a modelli basati su

bilanciamenti ex post e decentrati, quali quelli operati tradizionalmente dal giudice

(376).

Altre proposte si muovono, invece, con maggiore cautela facendo

coesistere la privativa brevettuale con un meccanismo di accesso al trovato da

parte dei terzi. Appartiene a questa differente tipologia di soluzioni l’idea di

introdurre una clausola generale che consenta l’uso legittimo di taluni trovati

biotecnologici laddove tale utilizzo risulti ragionevole (377).

L’introduzione di un “fair use”, quale soluzione alla “tragedy of the

anticommons”, sarebbe volta, in quest’ottica, a risolvere essenzialmente il

problema della “market failure” consistente nella presenza di alti costi di

transazione (378).

Ciò riflette, peraltro, la fiducia nelle capacità del sistema giudiziario di

mediare tra interesse individuale ed interesse generale. Il ricorso ad una

(375) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 470. (376) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 470. (377) Cfr. O’ ROURKE, Toward a doctrine of fair use in patent law, in Columbia Law

Review, 2000, 100, pp. 1177 ss. (378) Cfr. O’ ROURKE, Toward a doctrine of fair use in patent law, cit., pp. 1177 ss.

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limitazione generale dei diritti del titolare del brevetto, che consenta un uso

ragionevole del trovato da parte del terzo, ha infatti il vantaggio di affidare al

giudice il bilanciamento fra privativa e uso legittimo del terzo, secondo un

modello di gestione del pubblico dominio decentrato alla magistratura (379).

Questa tesi presenta, però, un forte profilo di criticità; dal punto di vista

dell’applicabilità di tale meccanismo alle sequenze EST, è difficile immaginare un

uso ragionevole delle stesse che non sia già noto fra le possibili ipotesi di utilizzo.

La prospettiva di una soluzione che demandi alle scelte giurisprudenziali la

formazione di una casistica di usi ragionevoli attraverso l’interpretazione di una

clausola generale offre, invece, particolari vantaggi e si giustifica laddove le

possibili fattispecie siano potenzialmente varie e imprevedibili (380).

Una strada alternativa è fornita dallo strumento della licenza obbligatoria

di dipendenza, che consentirebbe di evitare l’effetto di disincentivazione della

ricerca e di blocco dello sfruttamento dei suoi risultati che si verifica nel caso di

sequenza di più invenzioni (381).

Nell’ordinamento italiano, l’istituto consente al titolare di un’invenzione

dipendente di ottenere una licenza non esclusiva dal titolare della invenzione

principale a condizione che la prima comporti un progresso tecnico considerevole,

che la licenza sia necessaria per l’attuazione dell’invenzione dipendente, che sia

corrisposta una congrua royalty e che sia concessa, specularmente, una licenza al

titolare del brevetto principale .

L’ambito di questo istituto è tuttavia limitato per due ordini di ragioni.

In primo luogo, l’istituto della licenza obbligatoria, presupponendo

l’esistenza di un brevetto dipendente, è applicabile ai soli casi in cui il prodotto

biotecnologico renda necessaria la violazione di un brevetto altrui; essa non pare,

pertanto, applicabile alla fattispecie più problematica del brevetto EST che è

quella di aumentare i costi di ricerca di nuove entità biogenetiche prima che

queste siano state brevettate (382).

(379) Cfr. A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 471. (380) Così A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 472. (381) Cfr. G. SENA, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni

biotercnologiche, cit., pp. 73 ss. (382) Così A. OTTOLIA, Riflessioni sulla brevettabilità delle sequenze parziali di geni

EST, cit., p. 473.

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In secondo luogo, operano i limiti strutturali dell’istituto che ne rendono

generalmente difficile l’applicazione, quali la complessità del procedimento,

l’indeterminatezza delle condizioni richieste e il carattere aleatorio della

individuazione del canone.

Affinché i brevetti relativi ai primi risultati della ricerca biotecnologica

non siano di ostacolo allo sviluppo della ricerca successiva da parte dei terzi, ma

costituiscano anzi uno stimolo ad essa, è quindi necessario che sussista una

ragionevole certezza non solo in ordine ai limiti derivanti dai brevetti anteriori

allo sfruttamento dei nuovi trovati, ma anche circa la possibilità di ottenere in

tempi rapidi ed a costi prevedibili le licenze necessarie per attuare i nuovi trovati

(383).

Occorre, pertanto, ripensare l’istituto della licenza obbligatoria perché solo

se si realizzano le condizioni previamente indicate possono trovare giustificazione

gli investimenti necessari per la ricerca e lo sviluppo dell’innovazione successiva

(384).

Per contrastare gli effetti negativi degli “upstream patents” sulle

dinamiche della ricerca sono, poi, stati proposti ulteriori rimedi quali: una portata

delle esclusive limitata alle sole applicazioni descritte, una più ampia

interpretazione dell’eccezione di uso sperimentale, un più ampio ricorso alla

procedura di opposizione al rilascio del brevetto per mancanza dei requisiti di

brevettabilità (385).

In ogni caso, l’obiettivo da perseguire è quello di trovare il giusto

equilibrio tra la tutela degli investimenti e l’accesso alle informazioni

fondamentali per la ricerca e l’innovazione.

L’equo contemperamento dei due interessi può essere raggiunto

modellando il sistema brevettuale a situazioni diversificate. L’effetto

pregiudizievole per la ricerca successiva derivante dai diritti proprietari su uno

strumento di ricerca sono tanto maggiori quanto più è utilizzato lo stesso. Al

contrario, se è la ricerca finalizzata ad una specifica applicazione a richiedere

(383) Così F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, cit., p. 825. (384) Così F. LEONINI, Il ruolo del brevetto nella ricerca biotecnologica, cit., p. 825. (385) Così P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non

sempre perfetto, cit., p. 54.

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l’utilizzazione di un’invenzione brevettata, i rischi per l’innovazione sono

contenuti, in quanto limitati ad una specifica applicazione (386).

Alla luce delle considerazioni svolte, il rilascio di un brevetto appare una

soluzione efficiente laddove una scoperta abbia un numero ridotto di applicazioni

industriali, visto che in tal caso i costi per l’assegnazione di diritti di proprietà

intellettuale saranno generalmente bassi, analogamente ai costi di transazione

derivanti dalla contrattazione di licenze per lo sviluppo della scoperta (387).

Nel caso in cui, invece, la scoperta sia suscettibile di molteplici

applicazioni commerciali o di ricerca i costi di transazione aumenteranno,

diventando perciò preferibile lasciare la scoperta nell’ambito del dominio

pubblico ai fini di una maggiore divulgazione scientifica.

§ 6. Conclusioni.

Concludendo, il fenomeno della privatizzazione emerso nell’ambito della

ricerca biotecnologica offre sia promesse che rischi. Se da un lato promette di

incentivare gli investimenti privati, dall’altro rischia di creare quella che viene

definita “a tragedy of the anticommons” attraverso la proliferazione dei diritti di

proprietà intellettuale (388).

A ciò si aggiunga la difficoltà rappresentata dal fatto che nel settore

biotecnologico un “anticommons” è incline a permanere più che in altri settori a

causa degli alti costi di transazione e dell’eterogeneità degli interessi facenti capo

ai titolari di privativa.

La brevettabilità dei risultati intermedi della ricerca, ossia dei materiali che

hanno una utilità esclusivamente per la ricerca successiva, ha innanzitutto effetti

positivi perché può realizzare una più rapida diffusione delle conoscenze e delle

(386) Così P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non sempre perfetto, cit., pp. 52 ss.

(387) Così P. ERRICO, Tutela brevettuale e ricerca biotecnologica. Un binomio non sempre perfetto, cit., pp. 52 ss.

(388) Cfr. M. HELLER – R. EISENBERG, Can patent deter innovation? The anticommons in biomedical research, cit., p. 701.

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informazioni sulle altrui ricerche, ponendosi come valida alternativa al segreto

(389).

La divulgazione, attraverso il deposito del brevetto, delle informazioni sui

primi risultati dotati di qualche utilità assume, quindi, un ruolo fondamentale

soprattutto perché arricchisce il patrimonio delle conoscenze e apre i campi di

ricerca successivi.

In tal senso, il brevetto ha effetti benefici in quanto consente una valida

alternativa al mantenimento del segreto sui risultati dei primi stadi della ricerca,

evitando il costo per la collettività di un ritardato arricchimento del patrimonio

delle conoscenze.

Il brevetto, assicurando un ritorno degli investimenti sui progetti che

incontreranno successo, serve poi ad attrarre nuovi investimenti nei campi che

segnala come promettenti. Esso costituisce, quindi, il presupposto per sostenere le

costose attività di sviluppo necessarie per portare il prodotto inventato sul

mercato, attività che spesso coinvolgono competenze e strutture diverse da quelle

in gioco nella prima fase della ricerca (390).

La brevettazione consente, dunque, alle imprese di raccogliere più

agevolmente sul mercato le risorse necessarie al finanziamento della ricerca e di

trasferire poi i risultati alle imprese attive nella ricerca a valle, favorendo così la

divisione del lavoro e la specializzazione delle attività di ricerca che sono in

generale fattori di maggiore efficienza e progresso.

Per altro verso, tuttavia, la brevettazione dei risultati intermedi accresce i

costi e gli ostacoli per i ricercatori che operano a valle, che si trovano cioè a dover

negoziare con un’ampia cerchia di soggetti fornitori degli input della loro ricerca,

potendosi innescare una corsa alla brevettazione “strategica”, motivata soltanto

dal tentativo di bloccare l’altrui ricerca o di difendersi da analoghe iniziative dei

concorrenti, che alla lunga può ritardare il corso del progresso (391).

(389) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p. 388. (390) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La brevettazione delle scoperte – invenzioni, cit., p.

141. (391) Cfr. GIOV. GUGLIELMETTI, La protezione giuridica delle invenzioni

biotecnologiche, cit., p.388.

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INDICE GIURISPRUDENZIALE:

Corte di Cassazione

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- Cassazione, 16 novembre 1990, n. 11094, in GADI, 1990, 2478, pp.

115 ss.

- Cassazione, 6 marzo 1995, n. 2575, in GADI, 1995, 3194, pp. 113 ss.

Giudici di merito

- App. Torino, 26 aprile 1988, in GADI, 1988, 2310, pp. 569 ss.

- App. Milano, 16 novembre 1993, in GADI, 1994, 3083, pp. 494 ss.

- App. Milano, 5 maggio 1995, in GADI, 1995, 3311, pp. 970 ss.

- Trib. Milano, 22 novembre 1993, in GADI, 1993, 2998, pp. 768 ss.

- Trib. Milano, ordinanza cautelare 10 febbraio 1997, in GADI, 1997, 3650, pp. 615 ss.

- Trib. Milano, ordinanza cautelare 22 marzo 1997, in GADI, 1997, 3654, pp. 646 ss.

- Trib. Milano, 11 novembre 1999, in GADI, 1999, 4030, pp. 1361 ss.

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Corte di Giustizia CE

- Corte di Giustizia CE, 9 ottobre 2001, causa C-377/98, in GADI, 2001, pp. 4377 ss.

EPO Technical Board of Appeal

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- EPO Technical Board of Appeal, decision 8 december 1994,

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EPO Enlarged Board of Appeal

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