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La vita della missione
2: Assenza e Solitudine
Nella vita consacrata non si tratta solo
di seguire Cristo con tutto il cuore [...]
ma di vivere ed esprimere ciò
con l’adesione «conformativa» a Cristo
dell’intera esistenza, in una tensione totalizzante [...]
Alla Chiesa sono necessarie persone consacrate
le quali, prima ancora di impegnarsi a servizio
dell’una o dell’altra nobile causa,
si lascino trasformare dalla grazia di Dio
e si conformino pienamente al Vangelo.
(Vita consecrata 16.105)
Assenza e solitudine: Mc 14,32-42
Getsemani: il mistero pasquale inizia a compiersi qui, sullo
sfondo notturno dell’intera scena, con l’immagine del calice. I
discepoli sono invitati a entrare in un mistero che li supera e che
costituisce il cuore della loro identità e missione.
32 Frattanto giungono in un podere chiamato Getsemani. Dice ai
suoi discepoli: «Sedetevi qui, intanto che io prego». 33
Quindi,
presi con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, incominciò ad essere
preso da terrore e da spavento. 34
Perciò disse loro: «L’anima
mia è triste fino alla morte. Rimanete qui e vegliate!». 35
Quindi,
portatosi un po’ più avanti, si gettò a terra e pregava che, se fos-
se possibile, passasse da lui quell’ora.
36 Diceva: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te. Allontana da me
questo calice! Tuttavia non ciò che io voglio, ma quello che tu
vuoi». 37
Tornato indietro, li trova addormentati. Perciò dice a
Pietro: «Simone, dormi? Non hai avuto la forza di vegliare una
sola ora? 38
Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazio-
ne. Certo, lo spirito è pronto; la carne, però, è debole».
39
Allontanatosi di nuovo, pregò ripetendo le stesse parole. 40
Poi
di nuovo tornò e li trovò addormentati. I loro occhi, infatti, era-
no appesantiti e non sapevano che cosa rispondergli. 41
Torna
ancora una terza volta e dice loro: «Continuate a dormire e vi ri-
posate? Basta! È giunta l’ora: ecco che il Figlio dell’uomo è
consegnato nelle mani dei peccatori. 42
Alzatevi, andiamo! Ec-
co: chi mi tradisce è vicino».
Intimità cercate e deluse: l’esperienza di Gesù
Dal punto di vista di Gesù: traspare un profondo bisogno di in-
timità e di condivisione da parte del Maestro. Essa è legata alla
“lotta” che egli deve affrontare assumendo il calice che il Padre
gli porge: «Abbà, Padre. Tutto è possibile a te. Allontana da me
questo calice! Tuttavia non ciò che io voglio, ma quello che
vuoi tu» (Mc 14,36).
Il calice evoca il mistero della passione e morte. L’immagine è stata usata già in riferimento ai discepoli,
esattamente a Giacomo e Giovanni
che ora Gesù chiama in disparte, insieme a Pietro.
In Mc 10,38 Gesù aveva chiesto: «Potete voi bere il calice che
io bevo o essere battezzati con il battesimo con il quale sono
battezzato?». Ora il momento è giunto, e la scena sottolinea a
più riprese la ricerca di comunione da parte di Gesù.
«State qui» (Meínate hṓde: Mc 14,34)
L’ultima cena era un momento di intensa condivisione
da cui traspariva il profondo legame tra Gesù e i suoi.
Ora Gesù si manifesta combattuto:
- mostra un bisogno di solitudine e di preghiera,
- mostra un’esigenza forte di condivisione con i suoi.
- lascia gli undici,
- ne porta tre con sé (paralambánō met’autoú).
Il primo invito che Gesù rivolge loro non è «Pregate!»
anche se la preghiera non è secondaria qui, ma:
«state qui».
Non è presa di distanza dai suoi, ma manifestazione
di un bisogno forte, umano, intenso, di vicinanza.
Gesù voleva vicini a sé i tre discepoli
Pietro, Giacomo e Giovanni in altri momenti chiave,
come la risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,21-24.35-43)
e la sua trasfigurazione (Mc 9,2-9).
«La mia anima è triste» (perílypos: Mc 14,34)
Il Maestro sente la necessità di aprire il cuore ai discepoli,
quasi invitandoli ad affacciarsi sul suo mondo interiore.
I verbi sono al presente:
«Vengono in un podere [...] dice ai discepoli
[...] poi prende con sé [...]».
Presto arriva l’aoristo: «e cominciò».
L’aoristo ha la funzione di penetrare lo stato d’animo di Gesù
in quel preciso momento (paura e angoscia).
Esso dà l’idea di un assalto improvviso di tali sentimenti.
L’intensità della tristezza sperimentata dal Maestro è forte,
«fino alla morte», precisa Marco.
C’è qui il richiamo al Sal 42,6.12
«Perché ti abbatti, anima mia, e fremi dentro di me?»
È la situazione di un levita
perduto in terra d’esilio,
lontano dal luogo della presenza di Dio (= il tempio).
Sentimenti simili si trovano anche nei profeti come:
Mosè, Elia, Geremia, il servo sofferente di Isaia.
Un riferimento alla figura di Giona?
Giona soffre fino al punto di invocare la morte:
«Or dunque, Signore, prendi la mia vita,
perché è meglio per me morire che vivere!» (Gi 4,3).
Questo per il modo misterioso
in cui Dio agisce verso gli uomini.
Le modalità generose dell’intervento di Dio
demoliscono il concetto di pietà e di giustizia
presente in Giona e scoraggiano il profeta fino alla morte.
La tristezza che avvolge Gesù
nasce di fronte a un calice
dove è umanamente contenuto il trionfo del male sul bene,
il trionfo della morte sulla vita, della menzogna sulla verità,
della durezza di cuore sull’amore.
«Andando avanti un poco» (proelthṑn mikròn, Mc 14,35)
Gesù cerca rifugio nel Padre, ma non si stacca dai tre.
Si allontana solo “un poco”:
la distanza anche solo fisica
provoca in lui un tipo di smarrimento.
In altre circostanze
le cose erano andate molto diversamente:
- gli inizi del ministero pubblico in Mc 1,35
- la decisione dopo la scena di Mc 6,46:
In questi casi Gesù si era separato dai suoi
al fine di immergersi nel dialogo con il Padre.
«E viene e li trova che dormono» (Mc 14,37)
Un quarto indizio del bisogno di comunione di Gesù con i suoi
è quel suo circolare fra il luogo della preghiera
e il luogo dove sostano i tre discepoli prediletti.
Gesù cerca i tre e non si limita a cercarli:
li sveglia, parla a Pietro,
li invita in qualche modo a condividere la sua preghiera
e condivide nuovamente quello che porta dentro:
«Lo spirito è pronto ma la carne è debole» (Mc 14,38).
Un bisogno che si traduce nell’invito a stare svegli,
assicurando una presenza in un momento tanto delicato.
La scena si ripete per tre volte e per tre volte Gesù sveglia i
suoi: anche nel secondo caso (Mc 14,40) i discepoli non sanno
cosa rispondere e ciò indica che il Maestro li ha interpellati.
Si realizza qui un rovesciamento di condizione
rispetto a Mc 4,35-41 (la burrasca sul mare, è Gesù che dorme).
«Abbà, padre» (Mc 14,36)
Al bisogno di intimità manifestato verso i discepoli,
si aggiunge il bisogno di intimità nei confronti del Padre.
Reinhard FELDMEIER fa di questo passaggio la chiave
per comprendere tutto il racconto della passione secondo Marco.
La preghiera al Getsemani segna il forte momento di crisi nella
vita del Figlio di Dio. Fino a quella notte egli avrebbe vissuto in
una comunione pressoché continua con il Padre, anche nelle cir-
costanze più critiche, durante le quali si era dovuto confrontare
con l’atteggiamento ostile delle autorità religiose o con la mi-
naccia sempre più forte di essere messo a morte.
Secondo Feldmeier, in Mc 14,32-42 la situazione si capovolge:
improvvisamente e inaspettatamente Gesù è privato di tale
comunione. L’autore prende in attenta considerazione la paura
e l’angoscia di Gesù (v. 33), la tristezza interiore che assume i
tratti di una invocazione di morte (v. 34); il gettarsi a terra (v.
35); la preghiera rivolta al Padre di allontanare il calice della
passione (v. 36); l’assenza di ogni risposta da parte di Dio; la
triplice ricerca di una solidarietà da parte dei discepoli (vv.
37.40.41).
R. Feldmeier dà forte rilievo all’espressione di Mc 14,41:
apéchei. ḗlthen hē hṓra.
La Nuova CEI e la Nuovissima Versione traducono:
«Basta! È giunta l’ora»;
la TILC con: «È finita! Il momento è giunto».
R. Feldmeier: è constatazione dell’allontanamento di Dio,
il quale ha ormai deciso di lasciare
che il Figlio fosse consegnato nelle mani dei peccatori
(Mc 14,42): «Se ne è andato. L’ora è giunta».
La lettura di Feldmeier si inserisce perfettamente nel quadro
della teologia di Mc e conferma ulteriormente la prospettiva di
fondo, sulla quale Mc colloca il racconto della passione:
Gesù compie la sua missione
passando attraverso l’esigente via della totale spoliazione
di ogni forma di comunione con gli uomini e con Dio.
La ricerca di intimità e condivisione
è per il discepolo un invito a imboccare con il Maestro
la via del dono e dell’abbandono,
di cui il Getsemani è custode,
anche se questa passa per il crogiolo
della prova e della consegna nelle mani dei peccatori,
nella spoliazione più assoluta.
All’interno della narrazione resta
un evidente vuoto da riempire:
quello dei discepoli, che si rivelano incapaci
di rispondere al bisogno
di condivisione e intimità del Maestro.
Sonno e silenzio: l’esperienza dei discepoli
Gesù sta vivendo il passo decisivo della sua vita, ma
i discepoli ne restano totalmente estranei. L’esperienza appe-
na vissuta nel cenacolo si sta traducendo in realtà concreta per il
loro Maestro, ma essi non sono in grado di recepirne
l’importanza.
Anche coloro che si erano detti pronti a bere allo stesso calice
del Maestro (Mc 10,39) si rivelano molto lontani da tale dispo-
sizione, come evidenzia il testo.
I tre discepoli non sanno cosa dire
Una reazione simile si era verificata durante l’episodio della tra-
sfigurazione (Mc 9,7). I tre non avevano saputo cosa dire e
l’unica espressione di Pietro era apparsa del tutto fuori luogo.
In Mc, tale silenzio tradisce una confusione generale dei tre:
in entrambi gli episodi non riescono a cogliere il disegno del
Padre sul Maestro e l’esigente via che questi deve fare sua.
Il silenzio e la paura sono costanti anche di fronte agli annunci
della passione nella trama narrativa di Marco: due volte su tre,
interpellati da Gesù, i discepoli tacciono, manifestando una cer-
ta resistenza nell’affrontare l’argomento. Gesù deve fermare il
suo cammino e chiarire in modo preciso ciò che lo attende, per
evitare ogni fraintendimento (Mc 9,32; 10,32).
I tre discepoli sono oppressi dal sonno
Il tema del sonno nella Scrittura è spesso positivo.
Nel Getsemani il sonno dei tre discepoli
ha una valenza negativa la psicologia moderna lo definirebbe
in termini di “fuga” e di “rimozione”.
Questo traspare da vari indizi
1) Gesù chiede loro di rimanere svegli per 3 volte:
«State qui e vegliate [...]» (v. 34); «non siete riusciti a vegliare
nemmeno un’ora?» (v. 37); «vegliate e pregate per non entrare
in tentazione» (v. 38).
2) la descrizione dello stato dei discepoli
è molto espressiva: «i loro occhi erano appesantiti» (v.
40). La pesantezza che accompagna i discepoli ostacola la
condivisione con il Maestro.
3) il brano richiama ironicamente l’episodio in cui Giacomo
e Giovanni si erano detti pronti a bere il calice del Mae-
stro: ora il calice viene offerto, ma mentre Gesù si affida
nelle mani del Padre, i discepoli si rifugiano nel sonno,
restando totalmente estranei a un disegno che solo chi ve-
glia può comprendere fino in fondo.
Possibili richiami dell’AT: Gn 15,1-21.
In questa scena viene descritta l’alleanza gratuita e perenne che
Dio, attraverso Abramo, stringe con l’intera sua discendenza.
12 Quando il sole stava per tramontare, un sonno profondo cadde
su Abram ed ecco che un terrore e una grande tenebra l’assalì. 13
Allora il Signore disse ad Abram: «Devi sapere che la tua di-
scendenza dimorerà come forestiera in una terra non sua; là la-
voreranno e li opprimeranno per quattrocento anni. 14
Ma io
giudicherò la nazione che essi avranno servito! Dopo di che essi
usciranno con grandi beni. […]» (Gn 15,12-14)
È momento chiave per Abramo: comprendendo (in parte) quello
che sta succedendo, egli è oppresso da un oscuro terrore e poi
raggiunto da un senso misterioso di pesantezza che gli impedi-
sce di rimanere sveglio. L’alleanza verrà siglata ma avrà co-
me firmatario Dio solo. Sarà un’alleanza gratuita e unilaterale
che tuttavia non risparmierà 400 anni di oppressione a Israele.
I tre discepoli sono distanti
Nella scena del Getsemani Marco suddivide gli spazi:
– lo spazio più ampio è quello tra Gesù e gli undici,
– lo spazio più ristretto di una maggiore intimità
nel rapporto tra Gesù e i tre discepoli prediletti,
– la comunione massima è tra Gesù e il Padre.
Nonostante la loro posizione privilegiata, i tre si rivelano e-
stremamente distanti. La rassicurazione di Pietro e di tutti gli
altri, fatta a Gesù in Mc 14,29-31 viene subito smentita.
La scena si presenta come una de-figurazione, contrastante con
la tras-figurazione. Nel momento e nel luogo dove cominciano
a compiersi gli annunci del mistero pasquale (sempre respinti
dai Dodici), essi restano distanti, incapaci di commentare e in
una condizione psicologica che sembra evocare la fuga.
Esattamente dove la missione ha la sua sorgente,
i discepoli faticano ad accostarvisi.
Getsemani rivela il punto in cui
ogni discepolo e ogni consacrato
è chiamato a “mettersi in gioco fino in fondo”
Per i Dodici era stato abbastanza semplice partire predicando la conversione,
scacciando i demoni e ungendo di olio i malati (Mc 6,13).
Quando ora si tratta di vivere la scena del Getsemani
in comunione con il Maestro,
non è così.
Vi è come “uno spazio vuoto” che attende di essere abitato.
La sequela si gioca qui, in questo spazio
dove l’obbedienza raggiunge il suo culmine (cfr. Eb 5,8-9),
la povertà la sua spoliazione più radicale
e la logica del dono i suoi orizzonti più vasti.
Entrare con coraggio più maturo
in questo spazio di comunione,
così spesso reso deserto
dalla nostra carne appesantita,
la mente smemorata
e la sonnolenza fuggiasca,
in una sequela tutta nuova,
potrebbe far rifiorire
i giardini della nostra risposta originale,
giovane ed entusiasta,
quando era ancora non compromessa…
Così si potrebbe ribaltare la severa diagnosi
del card. Franc Rodé (Napoli 3.02.2010),
più volte richiamata durante il corso:
La cultura secolarizzata è penetrata nella mente e nel cuore an-
che di alcune persone consacrate e di alcune comunità, confusa
come un accesso alla modernità e come una modalità
d’approccio al mondo contemporaneo, con tutte le sue conse-
guenze: sequela senza rinuncia, preghiera senza incontro, vita
fraterna senza comunione, obbedienza senza fiducia, carità sen-
za trascendenza…
L’allora Prefetto della Congregazione
per gli Istituti di Vita consacrata e Società di vita apostolica
continuava:
La credibilità, l’affidabilità della vita consacrata, al contrario,
emerge quando i consacrati e le consacrate fanno ciò che dico-
no, quando ciò che trasmettono come parola annunciata è da lo-
ro vissuto: evangelizzano perché sono evangelizzati, trasmetto-
no la fede perché sono credenti, diffondono la carità perché vi-
vono il comandamento nuovo.
In questo senso, ai consacrati e alle consacrate veniva richiesta
la capacità di riferimento a Gesù Cristo, alla sua vita quale ese-
gesi del Dio invisibile. Infatti, solo se la vita consacrata è me-
moria viva dell’esistenza, dell’azione e dello stile di Gesù, essa
svolge il suo compito: i religiosi sono presenti nella Chiesa per
incarnare, vivere e ricordare a tutti i gesti e i comportamenti vis-
suti da Gesù nella sua vita umana e nella sua missione. In sinte-
si, nell’assumere la forma vitae Jesu i consacrati “fanno segno”,
sono memoria vivente del Vangelo.
Ripartiamo?
Una meditazione con Caravaggio e Luca (5,27-32)
Uno stimolo ci è offerto anche da… Michelangelo Carrisi,
detto il Caravaggio (1571-1610),
scelto da Giacomo Perego come autore della copertina
di Nuovo Testamento e vita consacrata
che abbiamo seguito come testo base per il corso.
Il dipinto (1599)
La scena si taglia in due parti:
- quella superiore, occupata da una parete anonima
interrotta soltanto da una finestra altrettanto anonima,
- quella inferiore totalmente occupata da Cristo,
Matteo e vari altri personaggi.
Alcuni elementi di riflessione immediata:
La tensione tra luce e ombra, che sottrae al buio solo delle
mani, dei visi, indumenti, mentre lascia quasi invisibile il re-
sto: allusione alla chiarezza che la fede rappresenta per la
vita dell’uomo.
La fonte della luce non è la finestra quasi appannata, bensì
Cristo, dalle cui spalle proviene un fascio luminoso che in-
veste tutti i personaggi, nessuno escluso.
La dimensione del tempo: i personaggi a sinistra vestono co-
me ai tempi di Caravaggio, Gesù e Pietro indossano una tu-
nica “non datata”, come a dire che la chiamata di Cristo
(mediata dalla Chiesa-Pietro) raggiunge da sempre tutti.
La reazione dei personaggi alla chiamata: un paio guardano
sorpresi alla luce senza reagire, Matteo sembra domandare
a Cristo “stai chiamando proprio me?”, un altro paio di
persone è assorto nel contare del denaro, l’attaccamento al
quale è “radice di tutti i mali” (1Tm 6,10)
La scena si svolge in un’osteria, una di quelle che il Caravag-
gio era solito frequentare a Roma che per lui rappresentavano
un sottobosco della vita, luogo dove incontrava gente di ma-
laffare, come a dire che la vocazione di Cristo ci può rag-
giungere anche nel vizio o nella crisi…
Il racconto lucano (Lc 5,27-32)
Il testo di Luca mette a fuoco altri elementi:
Lo «sguardo»
Levi è la prima persona di cui si dice che è stata guardata da
Cristo. Questa è la sesta opera di Gesù descritta da Luca (ri-
chiama i sei giorni della creazione). Lo sguardo di Gesù richiama
lo stesso guardare di Dio che vede al sesto giorno il maschio e la
femmina che ha creato e si rallegra a vedere la cosa molto buona
che è uscita dalle sue mani.
Nello sguardo Matteo-Levi incontra una Persona che esige di
mettersi al centro della sua vita. Gesù non mette davanti cose,
traguardi, obiettivi, condizioni…
È la sua persona e nessun altro, niente altro, il motivo
per cui lasciare un mestiere disonesto,
ma redditizio e comunque legale.
È proprio nell’assenza di ragioni la nostra vera, unica ragione.
Nello sguardo la persona nasce o muore. Dallo sguardo si misu-
ra un rapporto, nello sguardo si sa se per l’altro siamo una perso-
na o un oggetto…
Ognuno di noi ha incrociato lo sguardo di Cristo,
almeno una volta nella vita, altrimenti non sarebbe qui…
Ognuno ha intravisto in quello sguardo
“il bene che vi è affermato, la verità che vi risplende, l’amore
che è reso possibile, l’ordine che domina il caos, la realtà che
promette la realizzazione piena, e infine qualcosa che viene da
oltre, viene da Dio” (R. Guardini).
Il problema è (ri-)mettere a fuoco quello sguardo,
fare in qualche modo
che Cristo sia una Persona e non soltanto un’Idea.
Puntando in modo particolare sulla Parola,
luogo privilegiato e naturale perché
questo sguardo sia esperienza vissuta.
Il «tutto»
Nel suo racconto parallelo, Matteo ha semplicemente “dimenti-
cato” un passaggio nella decisione di seguire Cristo: «lasciando
tutto». Ma Matteo sta parlando di Levi, cioè di se stesso…
Eccesso di umiltà?
O forse del pudore che lo induce ad un’autocensura?
Il “tutto” voleva forse dire qui un bel gruzzolo di soldi,
ma soprattutto un ruolo
a cui Matteo-Levi si era ormai rassegnato,
con cui si era identificato.
L’Impero Romano non aveva un’autorità designata all’esazione
fiscale. Ciascuna Provincia cedeva la riscossione “in appalto” ad
un imprenditore privato che godeva di mano libera: sia facendo
calcoli a sua discrezione (a costo di moltiplicare la somma da
esigere), sia cedendo in subappalto l’affare stesso della riscos-
sione a esattori di secondo grado, che a loro volta si preoccupa-
vano delle loro tasche e non solo dei diritti dell’imperatore.
Da qui l’odio particolare di cui era oggetto un pubblicano:
non solo come alleato di un potere straniero, ma come vera e
propria sanguisuga del denaro che la gente sudava per guada-
gnarsi. Perciò in quel “tutto” non c’è solo un capitale accumula-
to, ma un ruolo da cui progressivamente liberarsi in vista di un
destino tutto da decifrare.
Luca allora usa un verbo all’imperfetto: «alzatosi, lo seguiva».
È il tempo “grammaticale” giusto
per descrivere un’azione
che non si compie una volta per tutte,
ma che richiede una rivoluzione interiore,
un’adesione graduale
ad un modo di pensare e di essere totalmente nuovo.
Matteo-Levi, uno abituato a calcolare e a guadagnare,
uno che per anni ha impostato la sua mente sul dare e avere,
soprattutto sull’avere,
ora è chiamato a sintonizzarsi su di un’altra logica,
quella della pura gratuità, del dare senza avere.
Una domanda si pone per tutti:
che cosa significa quel “tutto”
che ho lasciato all’inizio della mia vocazione,
e che forse ho tentato riprendermi in altri modi,
con altre gratificazioni?
La festa
Nella creazione, al sesto giorno segue il riposo
e la ricreazione di Dio.
In Luca, lo sguardo di perdono di Cristo apre le danze,
intona la musica e inaugura una festa.
La festa vera nasce dal ripartire continuamente
dalla verità di me stesso:
peccatore, perdonato,
amato e accettato per quello che sono.
Un malato – guarito.
Tutto questo deve tradursi in uno stile di vita
di chi incarna e annuncia la bellezza di un’esistenza
che non ha bisogno di titoli o di conti in banca
per sentirsi appagata.
All’esistenza così
basta la consapevolezza di essere amata
e perdonata per quello che è.
È lo stile di vita di chi,
decidendo di seguire Cristo,
sa che non rinuncia
a niente di ciò che rende la vita
degna di essere vissuta:
la gioia dell’amicizia,
l’ottimismo nei momenti difficili,
la certezza che
– anche quando si dovrà cadere
nel baratro della morte –
ci saranno le braccia
a sostenerci e ad accoglierci...