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1 Lacan Quotidien n°94 « Arabes et juifs, Méditerranée et Europe », par François LeguilIo sono Li IL VELO NERO DEL PASTORE di Romeo Castellucci PAR LA REDACTION LE 20 NOVEMBRE 2011 Ovvero l’indicibile come evento di corpo di Francesca Carmignani

Lacan Quotidien

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Francesca Carmignani

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Si comincia. Un rumore assordante di

macchina, per Castellucci “la pura funzione”, il

puro fare. È al limite del sopportabile, tendente

a provocare un evento di corpo in chi assiste,

“sensazioni che toccano i centri nervosi dello

spettatore”. Non voce, ma rumore. Un rumore

campionato e distorto, suono che non arriva

neppure alla lalingua, poiché in assenza di

significante. Poi alle apparizioni dei cadaveri

dell’uomo con il velo e dell’animale

quadrupede, segue il corpo di una donna e di

sottofondo, stavolta, una voce, non parole ma

gemiti femminili. Indistinguibile se siano di

piacere o sofferenza, dunque quintessenza di

godimento. Love song è l’unico significante

presente, inciso sui tendaggi e destinato a

sparire nel fumo, denunciando l’inganno della

parola d’amore.

L’indicibile della morte, della donna, del sesso.

Senza significanti, il non simbolizzato torna nel

reale. Un’allucinazione messa in scena per

un’ora. Il corpo in mezzo alle immagini

depurate, senza il sostegno significante, una

testa di donna che è quasi mozzata da due

immaginari sostegni, una catena prima, poi una

teca, dove si aggirano cecamente alcune cavie.

È evocato il lacaniano ratto nel labirinto dove

essere e corpo coincidono. “L’animale è” dice

Castellucci. Animale morto: dimostrazione che

solo un’ “immagine apodittica”, cioè per lui

certa, si può dare di ciò che è fuori dal

programma fantasmatico e indicibile come la

morte.

Non a caso al posto del velo nero c’è lo

specchio nero, lutto di una fase dello specchio

irrealizzabile, a sancire l’impossibilità di

rappresentazione, pezzo di vetro scuro che per

il regista dichiara ciò che lui stesso denomina “il

collasso del significato”, autentico protagonista

della piece, insieme al corpo, reale più che

immaginario. Un rossetto sul volto: svela la

pateticità del tentativo di recuperare un

cosmetico sembiante o di bordare la zona

erogena, l’orifizio da cui esce la voce? Il regista

afferma di voler indagare il rapporto “tra la

rappresentazione e la negazione dell’apparire” e

nel racconto gotico a cui s’ispira ravvisa “lo

schianto dodecafonico di un buco nero, in cui

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la materia […] nega sé stessa” È la conclusione

aporetica per struttura: una fila di faretti che si

schiantano uno dopo l’altro, mentre resiste un

sibilo irritante e la macchina-locomotiva che

“non pensa, ma fa”, irrompe e se ne va, veicolo

stesso del rumore, che così chiude il cerchio

dell’ombelico indicibile di questo sogno/incubo

allucinatorio, quasi stupro dei sensi dello

spettatore.

Castellucci ci trasporta insieme con lui dietro il

velo… come si narra nel finale della novella di

Hawthorne, in cui i morenti “andavano” là

dietro, accompagnati da quel pastore che si era

coperto il volto senza un perché, angosciando

in tal modo i suoi fedeli. Ma, forse, come

mostra lo scrittore, ognuno è solo dietro il velo,

un velo che, ossimorico, è Aletheia sul vuoto di

significante. Ognuno è solo di fronte al vuoto

dell’Altro barrato ne Il concetto di volto del figlio di

Dio dove prevalgono, paleatici, l’oggetto

sguardo e quello fecale. E soli, ancor più

parossisticamente, lo si è ne Il velo nero del

pastore con il puro oggetto voce che distillato

all’estremo si fa, nel reale, rumore inappellabile

di fronte all’Altro che non esiste, più nessuno a

cui chiedere “perché mi hai abbandonato?”. E

ciò che resta se siamo ridotti al nostro corpo,

come ci ricorda Lacan nella Terza è l’angoscia.

Il velo nero del Pastore: sorta di evento di corpo

per lo spettatore e sinthomo per Castellucci?