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BERNARD LAZARE a cura di MASSIMO SESTILI i saggisti l’ antisemitismo la sua storia e le sue cause

L'antisemitismo. La sua storia e le sue cause

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La riscoperta di Bernard Lazare.

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Bernard Lazarea cura di MassiMo sestiLi

Massimo Sestili (Roma 1958), insegna Letteratura e Storia nella scuola secondaria superiore. Ha pubblicato: L’errore giudiziario. L’affaire Dreyfus, Zola e la stampa italiana, Faenza, Mobydick, 2004, (Premio Letterario Internazionale Anguillara Sabazia Città d’Arte 2005 - Vincitore Premio Selezione); Bernard Lazare, Contro l’antisemitismo, Roma, Datanews, 2004; Émile Zola, Il digiuno (Tratti n. 72 estate 2006); L’eretico non ha più riposo (Stilos n. 15 luglio 2006), un servizio sul cimitero acattolico di Roma. Collabora con la rivista scolastica «Nuova Secondaria» con la quale ha pubblicato: Leonardo Sciascia e la cultura del Novecento, Dreyfus, Il Cavaliere la Morte e il Diavolo. Ha curato i corsi di formazione: Didattica modulare e pluridisciplinare e Insegnare il Novecento, con Romano Luperini; il seminario L’affaire Moro: testo e contesto di un mistero italiano e i convegni Sviluppo e legalità, con Enzo Ciconte; Come nasce la Repubblica, con Nicola Tranfaglia; La memoria della shoah con Paolo Di Motoli e Francesco Pallante. Per l’Associazione Amici di Leonardo Sciascia ha firmato il progetto Leonardo Sciascia e la cultura del Novecento.

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i saggisti

... Bernard Lazare è il primo intellettuale a prendere coscienza che l’antisemitismo non è una minaccia per i soli ebrei ma per l’umanità intera, e ingaggia una violenta polemica contro il movimento antisemita...

l’antisemitismola sua storia

e le sue cause

Alla memoria di mio padre,a Giorgio,a Irene.

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cAPITOLO I

LE cAuSE GENERALI dELL’ANTISEmITISmO

L’esclusivismo. - II culto politico e religioso. - Jéhovah e la Legge - Ordinamenti civi-li e religiosi. - Le colonie ebraiche. - II Talmùd. - La teoria del popolo eletto. – L’orgo-glio ebraico. - La separazione dalle nazioni. - La contaminazione. - Farisei e Rabbani-ti. - La fede, la tradizione e la scienza profana. - II trionfo dei Talmudisti. - II patriot-tismo ebraico. - La patria mistica. - La restaurazione del regno d’Israele. – L’isolamen-to dell’Ebreo.

Se si vuole scrivere una storia compiuta dell’antisemitismo - sen-za omettere nessuna delle manifestazioni di questo sentimento e se-guendone le multiformi fasi e le metamorfosi - si rende imprescindibi-le iniziare la storia d’Israele dal momento della sua dispersione, o per meglio dire, dal tempo della sua espansione fuori dal territorio della Palestina.

Ovunque gli Ebrei si siano stabiliti, desistendo dal proposito di fon-dare una nazione pronta a difendere la propria libertà e la propria in-dipendenza, si è sviluppato l’antisemitismo, o per meglio dire, l’anti-giudaismo, perché antisemitismo è un termine non appropriato, che ha trovato la sua ragione d’essere soltanto ai nostri giorni, nel momen-to in cui si è voluta inasprire la lotta tra l’Ebreo e i popoli cristiani for-nendole una filosofìa e, contemporaneamente, una ragione più meta-fisica che materiale.

Se questa ostilità e ripugnanza si fossero manifestate nei confron-ti degli Ebrei soltanto in un limitato periodo e in un solo paese, sa-rebbe facile rintracciarne le cause particolari; al contrario, questa stir-pe è stata oggetto dell’odio di tutti i popoli in mezzo ai quali si è sta-bilita. Posto che i nemici degli ebrei appartenevano alle etnie più sva-riate, che vivevano in contrade distanti tra loro, che erano guidati da leggi differenti e governati da principî diversi, che non avevano né le

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stesse tradizioni né gli stessi costumi, che erano animati da uno spiri-to diverso che non permetteva loro di esprimere un giudizio identico su tutte le questioni, ne consegue che le cause generali dell’antisemi-tismo sono state sempre insite in Israele stesso e non in coloro che lo contrastavano.

Con questo non si vuole affatto affermare che i persecutori degli Israeliti abbiano avuto sempre il diritto dalla loro parte, né che non si siano abbandonati a tutti gli eccessi che comporta l’odio violento, ma invece stabilire come principio che gli ebrei causarono - almeno in par-te - i loro mali.

Di fronte all’unanimità delle manifestazioni antisemitiche è diffici-le ammettere - come troppo spesso si è inclini a fare - che furono do-vute semplicemente ad una guerra di religione e, conseguentemente, non bisognerebbe vedere nelle guerre contro gli Ebrei la lotta del poli-teismo contro il monoteismo, e la lotta della Trinità contro Jéhovah. I popoli politeisti, come i popoli cristiani, non hanno combattuto la dot-trina del Dio Unico, ma l’Ebreo.

Quali virtù e quali vizi attirarono sull’Ebreo questa universale ini-micizia? Perché fu, di volta in volta ed in pari misura, maltrattato ed odiato dagli Alessandrini e dai Romani, dai Persiani e dagli Arabi, dai Turchi e dalle nazioni cristiane? Perché ovunque, e fino ai nostri gior-ni, l’Ebreo è stato un essere asociale. E le ragioni di questa asocialità ri-siedono nel suo esclusivismo, che era nel contempo politico e religio-so, o per meglio dire, egli teneva esclusivamente al suo culto politico-religioso, alla sua Legge.

Se consideriamo i popoli che nel corso della storia sono stati con-quistati, li vediamo sottomettersi alle leggi dei vincitori, pur mante-nendo la propria fede e le proprie credenze. Potevano facilmente ac-cettare tale situazione, perché l’idea della separazione delle dottrine religiose provenienti dagli dèi, dalle leggi civili promulgate dai legisla-tori, era stata acquisita in modo inequivocabile. Tali leggi si potevano modificare a seconda delle circostanze, senza che i riformatori incor-ressero nell’anatema o nell’esecrazione teologica: ciò che l’uomo aveva fatto, l’uomo poteva anche disfare. Ne consegue che i vinti si ribella-vano ai conquistatori per patriottismo, mossi unicamente dal deside-rio di riconquistare la propria terra e la libertà. Al di fuori di queste ri-volte nazionali, raramente chiesero di non essere sottomessi alle leg-gi generali; se protestarono, lo fecero contro disposizioni particolari,

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che tendevano a metterli in uno stato di inferiorità di fronte ai domi-natori. Nella storia delle conquiste romane, vediamo i popoli vinti in-chinarsi davanti a Roma quando impone loro la stessa legislazione che governa l’impero.

Per il popolo ebreo, la questione si poneva in maniera del tutto di-versa. In effetti, come già fece notare Spinoza1, “le leggi rivelate da Dio a Mosè non furono altro che i diritti particolari dello Stato ebraico”. Mosè2, profeta e legislatore, conferì alle sue disposizioni giudiziarie e governamentali, la stessa virtù che avevano i suoi precetti religiosi, vale a dire la rivelazione. Jéhovah non solo aveva detto agli Ebrei: “Voi non adorerete che un unico Dio e non adorerete idoli”, ma aveva an-che prescritto loro regole di igiene e di morale; non solo aveva indicato loro minuziosamente il territorio dove dovevano compiere i sacrifici, ma aveva stabilito anche le modalità con le quali questo territorio do-veva essere amministrato. Ognuna delle leggi donate, sia essa agraria, civile, di profilassi, teologica o morale, beneficiava della medesima au-torità e prevedeva la medesima sanzione, cosicché i diversi codici for-mavano un corpo unico, un insieme rigoroso, dal quale nulla poteva essere sottratto senza commettere un sacrilegio.

In realtà, l’Ebreo viveva completamente dominato da un signore, Jéhovah, che nessuno poteva vincere né combattere, e non conosceva che una cosa: la Legge, ovvero, l’insieme delle regole e delle prescrizio-ni che un giorno Jéhovah aveva voluto donare a Mosè. Legge perfetta ed eccellente proprio in quanto divina, adeguata a condurre alla gioia eterna coloro che l’avessero seguita e che il solo popolo ebraico aveva ricevuto in dono.

Con una simile convinzione riguardo alla sua Torà (→), l’Ebreo non poteva accogliere le leggi dei popoli stranieri, o quanto meno non po-teva accettare di vedersele applicare, perché non poteva abbandonare le leggi divine, eterne, buone e giuste, per seguire le leggi umane fatal-mente macchiate da provvisorietà e imperfezione. Se avesse potuto di-videre in due parti la sua Torà, se avesse potuto disporre da una parte gli ordinamenti civili e dall’altra quelli religiosi! Ma non avevano forse tutti questi ordinamenti un carattere sacro, e la buona sorte della na-zione ebraica non dipendeva dalla loro totale osservanza?

Gli Ebrei, quando si insediavano tra gli altri popoli, non volevano abbandonare le proprie leggi civili. Tuttavia, queste leggi erano più adatte ad una nazione che non a delle comunità, perché, sebbene esse

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non avessero più nessuna ragione d’essere fuori da Gerusalemme e dal Regno d’Israele, erano pur sempre obblighi religiosi per tutti gli Ebrei, i quali si erano impegnati a rispettarle mediante un antico patto con la Divinità.

Così, in ogni luogo dove gli Ebrei fondarono delle colonie, ovunque essi furono trascinati, chiesero non solo che si permettesse loro di pra-ticare la propria religione, ma anche di non essere sottoposti agli usi dei popoli in mezzo ai quali erano destinati a vivere e, inoltre, di poter-si governare secondo le proprie leggi.

A Roma, ad Alessandria, ad Antiochia, nella Cirenaica, poterono agire liberamente. Di sabato non venivano convocati davanti ai tribu-nali3, si permise loro addirittura di avere propri tribunali speciali e di non essere giudicati secondo le leggi dell’Impero; quando il grano ve-niva distribuito di sabato, si teneva la loro parte per il giorno seguen-te4; potevano essere decurioni (→), ma esentati dalle pratiche contra-rie alla loro religione5; erano amministrativamente autonomi, come ad Alessandria, con propri capi, il proprio senato, l’etnarca (→), e non erano sottomessi all’autorità municipale.

Volevano restare Ebrei in ogni luogo e ovunque ottenevano privi-legi che permettevano loro di fondare uno Stato nello Stato. Grazie a questi privilegi, esenzioni e sgravi d’imposta, si trovavano rapidamen-te in una condizione migliore rispetto agli abitanti delle città dove vi-vevano; avevano una maggiore facilità a commerciare e quindi ad ar-ricchirsi e così suscitavano gelosie e odio.

Il legame d’Israele alla sua Legge fu dunque una delle cause princi-pali della sua condanna, sia che da questa legge traesse benefici e van-taggi suscettibili di provocare invidia, sia che si vantasse dell’eccellen-za della Torà per considerarsi al di sopra ed estraneo agli altri popoli.

Se gli Israeliti si fossero attenuti al mosaismo delle origini, senza al-cun dubbio, ad un certo punto della loro storia, avrebbero potuto cor-reggerlo, in modo tale da lasciarne in vita soltanto i precetti religiosi o metafisici; inoltre, è probabile che se avessero avuto come libro sa-cro esclusivamente la Bibbia, si sarebbero fusi nella Chiesa nascente, che trovò i suoi primi fedeli nei Sadducei (→), negli Esseni (→) e nei proseliti ebrei. Tuttavia, un altro fattore impedì questa fusione contri-buendo a mantenere gli Ebrei isolati fra gli altri popoli: l’elaborazione del Talmùd (→) con il conseguente dominio dei dottori, i quali inse-gnarono una presunta tradizione. L’azione dei dottori, sulla quale tor-

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neremo, fece degli Ebrei quegli esseri indomabili, poco socievoli e or-gogliosi di cui Spinoza, che li conosceva, ha potuto dire: “Quanto poi al fatto che essi siano sopravvissuti per tanti anni dispersi senza Stato, ciò non meraviglia affatto, dal momento che si sono separati da tut-te le altre nazioni a tal punto da attirare contro di sé l’odio di tutte, e ciò non solo per i riti esterni, contrari a quelli di tutte le altre nazioni, ma anche per il segno della circoncisione, che conservano con il mas-simo scrupolo”6.

I dottori affermavano che, scopo principale dell’uomo sulla terra, sono la conoscenza e la pratica della Legge, la quale non può essere pienamente attuata se non sottraendosi alle false leggi. L’Ebreo che seguiva questi insegnamenti si isolava dal resto degli uomini; si chiu-deva dietro le barriere che avevano elevato intorno alla Torà, dappri-ma Esdra e i primi scribi7 e, successivamente, i Farisei (→) e i Talmu-disti eredi di Esdra, travisatori del mosaismo originario nonché nemi-ci dei profeti. Si isolò rifiutando di sottomettersi agli usi che creavano dei legami tra gli abitanti dei paesi in cui si era stabilito, ma anche re-spingendo ogni rapporto con gli abitanti stessi. Alla sua insociabilità, l’Ebreo sommò l’esclusivismo.

Senza la Legge, senza Israele per praticarla, il mondo non esistereb-be, Dio lo farebbe ritornare nel nulla e il mondo non conoscerebbe la felicità se non quando sarà sottomesso all’impero universale di questa legge, cioè all’impero degli Ebrei. Di conseguenza, il popolo ebraico è stato scelto da Dio come custode delle sue volontà e dei suoi desideri; è il solo con cui la Divinità abbia stretto un patto, è l’eletto del Signore. Il Talmùd racconta che quando il serpente tentò Eva e la corruppe con il suo veleno, Israele si liberò dal male ricevendo la rivelazione del Sinai, ma le altre nazioni non ne poterono guarire. Così, anche se esse han-no il proprio angelo custode e le proprie stelle protettrici, solo Israele è posto sotto l’occhio stesso di Jéhovah; è il figlio prediletto dall’Eter-no, il solo che abbia diritto al suo amore, alla sua benevolenza, alla sua singolare protezione; gli altri uomini sono posti al di sotto degli Ebrei e solo per pietà hanno diritto alla magnificenza divina, perché soltan-to le anime degli Ebrei discendono dal primo uomo. I beni elargiti alle nazioni in realtà appartengono a Israele e vediamo che Gesù stesso ri-sponde alla donna greca:

“Lascia che prima siano saziati i figli, perché non sta bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”8. (→ Marco VII, 27)

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La fede nella loro predestinazione, nell’essere gli eletti, sviluppò negli Ebrei un orgoglio immenso. Successivamente, quando alle ragio-ni teologiche si aggiunsero quelle patriottiche, essi giunsero a conside-rare i non-Ebrei con disprezzo e spesso con odio.

Nell’epoca di Giovanni Ircano, nel momento in cui la nazionalità ebraica si trovò in pericolo, i Farisei dichiararono che il suolo dei po-poli stranieri e le relazioni tra Ebrei e Greci erano impure. In seguito, gli Shamaiti (→), in un Sinodo, proposero di istituire una separazione totale tra Israeliti e Pagani ed elaborarono una raccolta di proibizioni, chiamata Le diciotto cose, che divenne predominante nonostante l’op-posizione dei discepoli di Hillel. Di nuovo nelle esortazioni di Antio-co Sidete, si inizia a parlare dell’insociabilità ebraica, vale a dire “del-la scelta di vivere in un ambiente esclusivamente ebraico, rifiutando qualsiasi rapporto con gli idolatri, e del forte desiderio di rendere que-ste relazioni sempre più difficoltose, se non impossibili”9. E ancora, da-vanti ad Antioco Epifane, vediamo il gran sacerdote Menelao accusare la Legge di “insegnare l’odio verso il genere umano, di proibire di sede-re alla mensa degli stranieri e di mostrare loro benevolenza”.

Se queste prescrizioni avessero perso la loro autorità quando scom-parvero le cause che le avevano generate e, in qualche modo giustifi-cate, il male prodotto sarebbe stato minore. Al contrario, le vediamo confermate nel Talmùd, e approvate di nuove dall’autorità dei Dotto-ri. Quando l’opposizione tra i Sadducei e i Farisei cessò con la vitto-ria di quest’ultimi, quei divieti assunsero forza di legge e furono in-segnati, contribuendo a sviluppare e incrementare l’esclusivismo de-gli Ebrei.

L’ulteriore timore della contaminazione, separò gli Ebrei dal mon-do, rendendo più inflessibile il loro isolamento. Riguardo alla conta-minazione, i Farisei avevano idee di un rigore estremo: a loro avviso, i divieti e le prescrizioni della Bibbia non erano sufficienti a preservare l’uomo dal peccato. Siccome il minimo contatto contaminava i vasi dei sacrifici, essi giunsero a considerare se stessi contaminati da un con-tatto estraneo. Da questa paura nacquero numerose regole riguardan-ti la vita quotidiana: gli indumenti, l’abitazione, l’alimentazione, tutte regole emanate allo scopo di evitare agli Israeliti la contaminazione e il sacrilegio e, di nuovo, tutte adatte ad essere osservate in uno Stato indipendente o in una città, ma impossibili da rispettare in paesi stra-nieri, in quanto comportavano, per coloro che volevano seguirle, la ne-

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cessità di evitare la compagnia dei non-Ebrei e di conseguenza, di vive-re appartati, refrattari a qualsiasi contatto.

I Farisei e i Rabbaniti (→) si spinsero ancora più avanti: non pa-ghi di preservare i soli corpi, cercarono di salvaguardare anche lo spi-rito. L’esperienza aveva dimostrato quanto fosse pericoloso, per co-loro che professavano la loro fede, l’introduzione di elementi elleni-ci o romani. I nomi dei grandi sacerdoti ellenizzanti: Giasone, Mene-lao, etc, ricordavano ai Rabbaniti i tempi in cui il genio della Grecia, conquistando una parte d’Israele, era stato sul punto di soggiogarlo. Essi sapevano che il partito sadduceo, amico dei Greci, aveva aperto la strada al Cristianesimo, come del resto avevano fatto gli Alessan-drini e tutti coloro che affermavano: “Le disposizioni legali, enuncia-te con chiarezza nella legge mosaica, sono le uniche obbligatorie; tut-te le altre, provenienti da tradizioni locali o emanate posteriormente, non hanno diritto ad una rigida osservanza”10. I libri e gli oracoli che prepararono il Messia erano nati sotto l’influenza greca. Gli Ebrei el-lenizzanti - Filone e Aristobulo, lo Pseudo-Foclide e lo Pseudo-Longi-no, gli autori degli Oracoli Sibillini e degli Pseudo-Orfici -, tutti eredi dei profeti di cui riprendevano l’insegnamento, conducevano i popoli a Cristo. Si può affermare che il vero Mosaismo, purificato e reso più grande da Isaia, Geremia e Ezechiele, diffuso universalmente ancora dai giudeo-ellenisti, avrebbe portato Israele al Cristianesimo se non ci fossero stati l’Esdraismo, il Farisaismo e il Talmudismo a trattenere la massa degli Ebrei nei vincoli delle strette osservanze e delle angu-ste pratiche rituali.

Per proteggere il popolo di Dio e metterlo al riparo da nefaste in-fluenze, i dottori celebrarono la loro Legge al di sopra di ogni cosa. Di-chiararono che solo lo studio di essa doveva essere accolto dall’Israe-lita e, siccome la vita intera era appena sufficiente per conoscere e approfondire tutte le sottigliezze e tutta la casistica di questa Legge, proibirono lo studio delle scienze profane e delle lingue straniere. Già Giuseppe poteva affermare11: “Qui da noi, non si apprezzano coloro che studiano diverse lingue”; immediatamente non ci si accontentò di non apprezzarli e vennero scomunicati. Ma queste sconfessioni non parvero sufficienti ai Rabbaniti. In mancanza di Platone, l’Ebreo non aveva la Bibbia, e non sapeva forse intendere la voce dei profeti? Sic-come non si poteva bandire il Libro, lo si sminuì e lo si rese tributario del Talmùd; i dottori dichiararono: “La Legge è acqua, la Mishnah (→)

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è vino”. Fu così che la lettura della Bibbia venne considerata meno proficua e meno utile alla salvezza, rispetto alla lettura della Mishnah.

Tuttavia, i Rabbaniti non riuscirono a cancellare facilmente la cu-riosità d’Israele; ci vollero dei secoli, e risultarono vincitori soltanto nel XIV secolo. Dopo che Ibn Ezra, Rabbi Bechaï, Maimonide, Bedar-chi, Joseph Caspi, Levi ben Gershom, Mosè di Narbona e molti altri ancora - tutti quelli che, discepoli di Filone e degli Alessandrini, vole-vano rinvigorire il Giudaismo per mezzo della filosofia straniera –, fu-rono scomparsi; dopo che Asher ben Yehiel ebbe convinto l’assemblea dei rabbini di Barcellona a scomunicare chi si fosse occupato di scien-za profana; dopo che Rabbi Schalem di Montpellier ebbe denunciato ai domenicani il More Nebouchim, e questo libro, la più alta espressione del pensiero di Maimonide fu dato alle fiamme, soltanto in conseguen-za di tutto questo i Rabbini trionfarono12.

Avevano ormai raggiunto il loro scopo. Avevano isolato Israele dal-la comunità dei popoli, ne avevano fatto un solitario scontroso, ribel-le a tutte le leggi, ostile a qualsiasi sentimento di fratellanza, chiuso a qualsiasi idea bella, nobile o generosa; ne avevano fatto una nazio-ne miserabile e meschina, inasprita dall’isolamento, inebetita da una educazione gretta, demoralizzata e corrotta da un ingiustificabile or-goglio13.

A questa trasformazione dello spirito ebraico, dovuta alla vittoria del settarismo dei dottori, coincide l’inizio delle persecuzioni ufficiali. Fino a quel momento, non vi erano state che esplosioni di odio loca-li, non vessazioni sistematiche. Con il trionfo dei Rabbaniti, si costrui-scono i ghetti, ed incominciano le espulsioni ed i massacri. Gli Ebrei vogliono vivere appartati, ci si separa da loro. Detestano lo spirito del-le nazioni in cui vivono, le nazioni li cacciano. Gli Ebrei bruciano il More, si brucia il Talmùd e si bruciano gli Ebrei stessi14.

Sembra che null’altro sarebbe potuto ancora intervenire per sepa-rare completamente gli Ebrei dal consorzio umano, tanto da farne un oggetto di orrore e di condanna. Eppure un’altra causa venne ad ag-giungersi a quelle che abbiamo enunciato: l’indomabile e tenace pa-triottismo d’Israele.

Certamente tutti i popoli rimasero legati alla terra natìa. Vinti, di-strutti dai conquistatori, obbligati all’esilio o alla schiavitù, rimasero fedeli ai dolci ricordi della città saccheggiata o della patria perduta; però nessun popolo conobbe l’esaltazione patriottica degli Ebrei. Così

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il Greco, la cui città veniva distrutta, poteva ricostruire altrove il foco-lare benedetto dagli antenati; il Romano che partiva in esilio portava con sé i suoi penati: ma Atene e Roma non erano quella patria mistica che fu Gerusalemme.

Gerusalemme era il guardiano del tabernacolo che conteneva il ver-bo divino; era la città del Tempio unico, il solo luogo al mondo in cui si potesse efficaciemente adorare Dio ed offrirgli dei sacrifici. Soltan-to molto tempo dopo, nacquero dei luoghi di preghiera in altre città della Giudea, o della Grecia, o d’Italia. In questi luoghi ci si limitava a fare letture della Legge, discussioni teologiche, ma non si conosceva la grandiosità di Jéhovah che a Gerusalemme, il santuario prescelto. Quando ad Alessandria venne costruito un tempio, fu considerato ere-tico; e, di fatto, le cerimonie che vi venivano celebrate non avevano al-cun significato, perché avrebbero dovuto compiersi soltanto nel vero Tempio. San Crisostomo, dopo la dispersione degli Ebrei e la distruzio-ne della loro città, ha potuto giustamente affermare: “Gli Ebrei com-piono sacrifici in tutti i luoghi della terra, eccetto là dove il sacrificio è permesso e valido, cioè a Gerusalemme”.

Per l’Ebreo l’aria della Palestina è la migliore, è sufficiente per ren-dere l’uomo sapiente15, la sua santità è così efficace che chiunque viva fuori dei suoi confini è come se non avesse alcun Dio16. Per questo non bisogna vivere altrove e il Talmùd scomunica chi mangerà l’agnello pa-squale in un paese straniero.

Tutti gli Ebrei della dispersione inviavano a Gerusalemme l’impo-sta del didracma (→) per il mantenimento del Tempio; almeno una volta nella vita si recavano nella città sacra, come più tardi i Maomet-tani andranno alla Mecca; dopo la morte si facevano portare in Palesti-na e numerose barche approdavano sulla costa, cariche di piccole bare che venivano poi trasportate a dorso di cammello. Solamente a Geru-salemme, e nel paese donato da Dio agli antenati, i corpi sarebbero re-suscitati. Là, quelli che avevano creduto in Jéhovah, osservato la sua legge, obbedito alla sua parola, si sarebbero svegliati al suono delle ul-time trombe e sarebbero comparsi davanti al loro Signore. Là soltanto avrebbero potuto rialzarsi all’ora stabilita, perché qualsiasi altra terra, ad eccezione di quella bagnata dal giallo Giordano, è una terra vile, cor-rotta dall’idolatria, priva di Dio.

Dopo che la Patria fu distrutta e vicende sfavorevoli ebbero disper-so Israele per il mondo, in seguito al crollo del tempio tra le fiamme e

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l’occupazione da parte degli idolatri del santissimo suolo, i rimpianti dei giorni passati si immortalarono nell’anima degli Ebrei. È tutto fi-nito, mai più nel giorno del perdono potranno vedere il caprone nero portare nel deserto i loro peccati, né vedere uccidere l’agnello per la notte di Pasqua, o recare le loro offerte all’altare e, privati di Gerusa-lemme durante la vita, non vi sarebbero stati riportati dopo la morte.

Gli Ebrei pii pensavano che Dio non doveva abbandonare i propri figli e nacquero delle ingenue leggende per il conforto degli esiliati. Vi-cino alla tomba degli Ebrei morti in esilio, raccontavano, Jéhovah apre lunghe caverne e attraverso queste i corpi scivolano fino in Palestina; mentre il pagano che muore laggiù, vicino alle colline consacrate, esce dalla terra d’elezione perché non è degno di restare dove avverrà la Ri-surrezione.

Tuttavia, ciò non era sufficiente. Non si rassegnavano a recarsi a Gerusalemme come pellegrini lamentosi, piangendo contro le mura crollate, a tal punto insensibili nel loro dolore che alcuni si facevano calpestare dagli zoccoli dei cavalli mentre singhiozzando baciavano la terra; non potevano credere che Dio e la città beata li avessero abban-donati. Con Giuda Levita esclamavano “Sion, hai dimenticato i tuoi in-felici figli che gemono nella schiavitù?”.

Aspettavano che il loro Signore rialzasse le mura cadute con la sua potente mano destra e speravano che un profeta, un eletto, li riportas-se nella terra promessa. Quante volte si sono visti nel corso dei secoli - gli Ebrei a cui si rimprovera il troppo attaccamento ai beni di questo mondo -, abbandonare casa e beni per seguire un falso messia che si offriva di guidarli e prometteva loro il tanto desiderato ritorno! Furo-no migliaia coloro che seguirono Serenus, Mosè di Creta, Alroï e che si lasciarono massacrare nell’attesa del lieto giorno.

Con i Talmudisti avvenne la trasformazione di questi sentimenti di esaltazione popolare ed eroismi mistici. I dottori insegnarono la re-staurazione dell’Impero ebraico e, affinché Gerusalemme risorgesse dalle sue rovine, vollero conservare puro il popolo d’Israele, impedir-gli di fondersi, plasmandolo dell’idea che in ogni luogo era in esilio, in mezzo a nemici che lo tenevano prigioniero. Ai loro discepoli i dotto-ri dicevano: “Non coltivare il suolo straniero, presto coltiverai il tuo; non affezionarti a nessuna terra perché tradiresti il ricordo della tua patria; non sottometterti a nessun re perché non hai altro padrone che il Signore della terra santa, Jéhovah; non disperderti in mezzo alle na-

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zioni, comprometteresti la tua salvezza e non vedresti sorgere il gior-no della risurrezione. Rimani quale eri quando sei uscito dalla tua casa; verrà il giorno in cui rivedrai le colline degli avi ed esse saranno allora il centro del mondo, del mondo che sarà a te sottomesso”.

Questa dunque la molteplicità dei sentimenti utili a fondare l’ege-monia d’Israele, a preservarne l’indole di popolo, a permetterle di svi-lupparsi con grande potenza e altissima originalità; queste tutte le vir-tù e tutti i vizi che le forgiarono questo spirito particolare e questa fi-sionomia necessari per conservare una nazione, che le permisero di raggiungere la sua grandezza e più tardi di difenderne l’indipendenza con una energia feroce ed ammirevole; tutto ciò contribuì, quando gli Ebrei cessarono di formare uno Stato, a rinchiuderli in un totale ed as-soluto isolamento.

Alcuni apologeti affermano che questo isolamento ha creato la loro forza. Se intendono dire che è grazie ad esso che gli Ebrei continuaro-no a esistere, allora è vero; ma se si considera in quali condizioni rima-sero tra i popoli, si vedrà che questo isolamento fu la causa della loro debolezza e che sopravvissero fino ai tempi moderni come una legione di paria, di perseguitati, e spesso di martiri. Del resto, non si può at-tribuire unicamente all’isolamento la loro stupefacente continuità. In realtà fu fondamentale l’eccezionale reciproca solidarietà nelle loro di-sgrazie, e il mutuo appoggio che si dettero; e ancora oggi, proprio in quei paesi dove gli Ebrei partecipano alla vita pubblica, avendo abban-donato i loro dogmi confessionali, è proprio questa solidarietà che im-pedisce loro di fondersi e di scomparire, conferendo loro vantaggi ai quali non sono affatto indifferenti.

Questa preoccupazione per gli interessi mondani, che evidenzia un aspetto del carattere ebraico, non fu senza conseguenze sul compor-tamento degli Ebrei, soprattutto dopo che ebbero lasciato la Palesti-na; e, spingendoli verso determinate direzioni ed escludendone tante altre, provocò contro di loro sentimenti di violentissima e immedia-ta ostilità.

L’Ebreo possiede una duplice anima: una mistica e l’altra positiva. Il suo misticismo spazia dalle teofanie del deserto ai vagheggiamen-ti metafisici della Kabbalah (→); il suo positivismo, o piuttosto il suo razionalismo, si manifesta sia nelle sentenze dell’Ecclesiaste (→) che nelle disposizioni legislative dei rabbini o nelle controversie dogmati-che dei teologi. Ma se il misticismo conduce a Filone o a Spinoza, il ra-

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zionalismo conduce all’usuraio, al pesatore d’oro e fa nascere l’avido commerciante. È vero che talvolta questi stati d’animo si sovrappon-gono e che l’Israelita, come è successo nel Medioevo, può dividere in due parti la sua vita: una votata al sogno dell’assoluto, l’altra dedita al commercio più avveduto.

Di questo amore degli Ebrei per l’oro non è possibile parlarne in questo contesto. Se ingigantì al punto di diventare, per questa razza, quasi l’unico motore delle sue azioni, se generò un antisemitismo vio-lentissimo e molto aspro, ciò non può essere considerato tra le cause più specifiche. Al contrario, fu il risultato di queste stesse cause e ve-dremo che furono in parte l’esclusivismo, il persistente patriottismo e l’orgoglio d’Israele che spinsero l’Ebreo a diventare l’usuraio odiato dal mondo intero.

In realtà, tutte le cause che abbiamo elencato, pur essendo genera-li, non sono le uniche. Le ho definite generali perché derivano da un elemento costante: l’Ebreo. Tuttavia, l’Ebreo non è che uno dei fatto-ri dell’antisemitismo; con la sua presenza lo provoca, ma non è il solo a determinarlo. Le caratteristiche particolari dell’antisemitismo, che cambiano a seconda delle epoche e dei paesi, dipendono dalle nazio-ni in cui hanno vissuto gli Israeliti, dagli usi, dai costumi, dalla religio-ne, dal governo, dalla stessa filosofia dei popoli tra i quali si è svilup-pato Israele.

Seguiremo l’evoluzione e le differenze dell’antisemitismo nel cor-so dei secoli fino ai nostri giorni, vedremo così se, almeno per qualche paese, le cause generali che ho cercato di stabilire persistano ancora e, se non sia altrove che bisognerà cercare le ragioni dell’antisemitismo moderno.