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Il dibattito su www.iltuoforum.net Diamo spazio alle opinioni di tutti Il settimanale libero di www.iltuoforum.net Numero 17 - Lunedì, 9 Gennaio 2012 Investire sull’umano Di Druuna “Il valore e “i valori” sembrano essere oggi la parola più pronunciata e più discussa al mondo. Si parla di “difesa dei valori”, spesso senza indicare precisamente quali; si discute di “valori tradizionali”, “valori morali”, “valori sociali”, “valori umani”. E poi si parla di “valore di mercato”, “valore aggiunto”, “valore monetario”. Abbiamo perfino l’Italia dei valori, il “manifesto dei valori”, la “carta dei valori”, i valori del risorgimento e del cristianesimo, i valori laici, i valori statistici, personali, aziendali, nutrizionali, il trasporto e la sicurezza dei valori, perfino i sistemi di valori e infine la perdita dei valori. Il tutto in un momento in cui la crisi è totale. Chi ha denaro non sa bene come investirlo, perché nel mondo globalizzato, tutti i problemi sono interconnessi, e non esistono più “isole felici” al riparo da titoli tossici, fallimenti, crolli monetari e finanziari. Chi non ha molto denaro percepisce che il suo sforzo per cercare di mettere da parte abbastanza da costruirsi un futuro meno incerto, è ormai vano, perché le risorse disponibili si rarefanno e convergono verso rari punti di accumulazione, in grado di determinare nello spazio di un secondo, la povertà di milioni di persone. Dunque siamo tutti presi dentro una prospettiva contabile, in uno spazio mondiale in cui non resta quasi nulla da contabilizzare. Durante le crisi dei passati 40 anni, ricordo una frase ricorrente dei telegiornali: « i risparmi si dirigono verso i beni-rifugio, il mattone e l’oro ». Oggi è scomparsa anche questa logica, perché anche questi beni, in una condizione di crisi generalizzata e totale, solo in minima parte possono assolvere alla funzione di investimento. Dunque i “valori” sono ovunque nel nostro pensiero e nel dibattito pubblico, ma nel concreto sembrano evaporati, fantasmatici, inafferrabili. Quando qualcosa mi sfugge, di solito, mi chiedo: non sarà che stiamo guardando nel posto sbagliato ? non sarà che stiamo limitando la nostra visuale, che restiamo sempre dentro a un recinto logico in cui la soluzione non è possibile ? E così cambio prospettiva. Se guardiamo bene tra le pieghe della società occidentale, esistono molti “valori” che sfuggono ai circuiti della contabilità concreta. A questi beni o aspetti della vita

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Diamo spazio alle opinioni di tutti

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Numero 17 - Lunedì, 9 Gennaio 2012

Investire sull’umano

Di Druuna

“Il valore e “i valori” sembrano

essere oggi la parola più

pronunciata e più discussa al

mondo. Si parla di “difesa dei

valori”, spesso senza indicare

precisamente quali; si discute

di “valori tradizionali”, “valori

morali”, “valori sociali”, “valori

umani”. E poi si parla di “valore

di mercato”, “valore aggiunto”,

“valore monetario”. Abbiamo

perfino l’Italia dei valori, il

“manifesto dei valori”, la “carta

dei valori”, i valori del

risorgimento e del

cristianesimo, i valori laici, i

valori statistici, personali,

aziendali, nutrizionali, il

trasporto e la sicurezza dei

valori, perfino i sistemi di valori

e infine la perdita dei valori.

Il tutto in un momento in cui la

crisi è totale. Chi ha denaro non

sa bene come investirlo, perché

nel mondo globalizzato, tutti i

problemi sono interconnessi, e

non esistono più “isole felici” al

riparo da titoli tossici,

fallimenti, crolli monetari e

finanziari. Chi non ha molto

denaro percepisce che il suo

sforzo per cercare di mettere

da parte abbastanza da

costruirsi un futuro meno

incerto, è ormai vano, perché le

risorse disponibili si rarefanno

e convergono verso rari punti

di accumulazione, in grado di

determinare nello spazio di un

secondo, la povertà di milioni

di persone.

Dunque siamo tutti presi

dentro una prospettiva

contabile, in uno spazio

mondiale in cui non resta quasi

nulla da contabilizzare.

Durante le crisi dei passati 40

anni, ricordo una frase

ricorrente dei telegiornali: « i

risparmi si dirigono verso i

beni-rifugio, il mattone e l’oro

». Oggi è scomparsa anche

questa logica, perché anche

questi beni, in una condizione

di crisi generalizzata e totale,

solo in minima parte possono

assolvere alla funzione di

investimento.

Dunque i “valori” sono ovunque

nel nostro pensiero e nel

dibattito pubblico, ma nel

concreto sembrano evaporati,

fantasmatici, inafferrabili.

Quando qualcosa mi sfugge, di

solito, mi chiedo: non sarà che

stiamo guardando nel posto

sbagliato ? non sarà che stiamo

limitando la nostra visuale, che

restiamo sempre dentro a un

recinto logico in cui la

soluzione non è possibile ? E

così cambio prospettiva.

Se guardiamo bene tra le

pieghe della società

occidentale, esistono molti

“valori” che sfuggono ai circuiti

della contabilità concreta. A

questi beni o aspetti della vita

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sociale, diamo vari nomi, ad

esempio “ricchezze

immateriali”. Il vocabolario è

sempre di tipo economico,

poiché la nostra società ha

consolidato l’idea che tutto si

possa in qualche modo

comprare, vendere o far

fruttare, ma noi potremmo

andare al di là di questa

restrizione, se siamo

abbastanza creativi. Altre

definizioni in questo senso

sono “capitale culturale”,

“capitale sociale”, “beni

ambientali”, “patrimonio

dell’umanità” e così via.

Prendiamo in considerazione

ciò che chiamiamo “capitale

umano”. Nel linguaggio

aziendalista che è prevalso

dagli anni ’80 in poi, si parla

anche di “risorse umane”, ma

capite bene che questo è un

modo di parlare di capacità,

abilità e competenze, come se

fossero effettivamente merci

che si comprano e si vendono.

La differenza tra l’espressione

“risorse umane” e “capitale

umano”, ritengo che sia nel

fatto che la parola “risorse”

evoca uno scenario di scambio,

di compravendita e perfino di

sfruttamento (risorse naturali,

risorse petrolifere, ecc.),

mentre “capitale” rimanda a

un’idea di produzione di

ricchezza ulteriore.

L’Italia dovrebbe essere

particolarmente sensibile al

tema del capitale umano,

poiché è un paese

estremamente povero di

materie prime, ma molto

famoso in quanto a iniziativa

personale e creatività. Ma

andiamo oltre. In genere

“capitale umano” si riferisce

all'insieme delle conoscenze,

saperi, informazioni e capacità

tecniche, che permettono di

svolgere attività di produzione

e trasformazione di materie

prime in prodotti di valore sul

mercato.

Tuttavia, la crisi attuale ci sta

insegnando che questo modo di

pensare si rivela una gabbia

mentale, all’interno della quale

è praticamente impossibile

trovare soluzione ai problemi

dell’economia che si avvitano

su se’ stessi. Lavoriamo,

produciamo, vendiamo,

ricaviamo soldi, ma poi questi

soldi devono essere spesi di

nuovo per il consumo. La

popolazione aumenta, la spinta

al profitto si accresce, i soldi

non bastano mai, le risorse si

esauriscono, per cui si cerca di

escludere una parte del mondo

dai benefici, si innescano così

dei conflitti, mentre i vecchi

problemi restano irrisolti. In

pratica l’umanità continua

sempre di più a combattersi

per accedere sempre alle stesse

risorse, utilizzando sempre gli

stessi vecchi metodi.

L’economia di stampo

illuminista presuppone che

l’umanità sia fatta di individui

essenzialmente volti al loro

immediato interesse, secondo

una razionalità che non è mai

stata definita nel concreto, anzi,

è stata piuttosto smentita dagli

studiosi del cervello e

dell’intelligenza.

Io propongo di uscire da questa

gabbia.

Come suggerisce Richard Wilk

(1996) le caratteristiche

fondamentali dell’essere

umano sono piuttosto la

socialità, l’adattabilità e le

potenzialità. Attributi che è

difficile vendere o comprare,

ma che si possono far fruttare a

vantaggio,

contemporaneamente, di sé

stessi e degli altri. Infatti è

davanti agli occhi di ciascuno

che le persone non sempre si

comportano secondo un calcolo

razionale e puramente

egoistico: a seconda delle

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situazioni agiscono in base

all’influenza di regole morali,

secondo la logica del gruppo

con cui si identificano o perché

trovano soddisfazione nel

gratificare o prendersi cura di

persone a cui sono legate e

quindi in funzione di emozioni,

sentimenti o credenze. In

questo scenario, la flessibilità

del comportamento , la capacità

creativa e l’intreccio che lega

tra loro gli esseri umani, fanno

da sfondo a tutti i tipi di

motivazione che di volta in

volta portano a prendere

decisioni concrete nella

soluzione dei problemi che la

vita presenta.

Dunque queste sono le armi

che consentono all’umanità di

superare ostacoli e trovare

metodi per convivere e

possibilmente, migliorare la

propria esistenza. Più queste

armi vengono potenziate,

affinate e coltivate, più spazio si

crea per progredire. Per essere

precisi, si dovrebbe discutere

anche la parola “progresso”, in

quanto, anche in questo, come

nel caso della “razionalità”, si è

preso per buono il significato

settecentesco di sviluppo senza

limiti delle condizioni

puramente materiali, mentre è

stato dimostrato che, oltre una

certa soglia, un incremento

della prosperità materiale, non

aggiunge nulla di significativo

al benessere umano

considerato nel suo insieme.

Ma questa è un’altra storia.

Lasciando da parte questo

argomento, dunque, che ci

porterebbe troppo lontano,

torniamo alla questione

centrale: qual è la ricchezza in

cui possiamo investire e che ci

fornisce le più alte probabilità

di trarne un vantaggio sia come

umanità, sia in quanto singoli ?

Io ritengo che questa ricchezza

sia la crescita umana e

culturale. Credo che le regioni

della terra dove la vita ha la più

alta qualità, sono facilmente

riconoscibili in quelle dove si

investe maggiormente in questi

due “beni immateriali”. E ciò

accade per svariate ragioni: chi

possiede maggiori “armi”

culturali e umane è in grado di

fronteggiare meglio un’ampia

serie di problemi che si

presentano in tutte le società e

in tutte le epoche, e di trovare

soluzioni stabili e durature, ma

non rigide:

- conflitti e difficoltà

sociali e personali

- gestione delle risorse

economiche e ambientali

- rapporti con le altre

regioni, popolazioni e culture

È facile immaginare cosa

accade in una città in cui

ognuno ha costruito un

pezzetto di strada tenendo

conto solo delle proprie singole

esigenze, e in cui ognuno

pretende di muoversi con un

mezzo delle dimensioni più

svariate, alle velocità che vuole,

senza che vi sia un codice

comune per passare agli

incroci. La situazione è ben

diversa in un luogo in cui vi sia

la capacità di accordarsi sulla

dimensione e la collocazione di

strade, case, negozi e parchi,

dove insieme si stabiliscano

regole comuni alla circolazione

e si usino mezzi che cerchino di

conciliare il bisogno di tutti di

muoversi, con il desiderio

generale di avere silenzio, aria

pulita e sicurezza per pedoni e

ciclisti. E questo è solo un

piccolo esempio di ciò che le

“armi della crescita umana”

collettiva possono produrre.

Il capitale umano e culturale,

dunque è un’arma decisamente

potente, soprattutto se si tiene

conto che l’obiettivo

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fondamentale dell’umanità è

sempre stato e continua ad

essere quello di risolvere i più

svariati problemi: dalle

malattie, alla coltivazione, dalla

mobilità all’energia, dalla cura

dell’infanzia a quella

dell’ambiente.

Ecco perché ritengo che questo

sia non solo l’unico e

fondamentale bene-rifugio a cui

dovremmo volgerci in questo

momento, in cui le crisi

economiche e finanziare

travolgono tutti i punti cardine

che la civiltà occidentale ha

costruito in due millenni, ma

anche il bene indispensabile in

cui investire la maggior parte

delle nostre risorse, per

permettere all’umanità di

imboccare la strada di un

progresso che abbia un nuovo

significato.: quello della

sinergia, della condivisione,

della crescita in una

dimensione umana, anziché

contabile.

Bibliografia

Wilk R., Economies And Cultures:

Foundations Of Economic

Anthropology , Westview Press.

Boulder, CO.1996

Druuna

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Di “nuovo” non c’è

niente.

di MrBojangles

Nonostante le pesanti “sordine”

imposte all’intero apparato

mediatico di massa,

nessuno escluso, qualche cenno

di cronaca sulle indagini a

proposito del verminaio già

emerso da ENAV e

Finmeccanica riusciamo ad

ascoltarla; e si tratta, più che

altro, della stanca

riproposizione del solito

“lombrosario” di papponi di

stato piazzati sulle loro

poltrone dal solito “padrino”

politico allo scopo di fare

esattamente ciò che hanno

scoperto gli investigatori di

Roma e Napoli.

Quello che risulta non-

accettabilmente strumentale o

beatamente ingenuo, però, è

l’aggettivo “nuova” che tutti

(lettori di gobbi, terzisti,

opinionisti e scribacchini vari,

etc.) appiccicano al termine

“Tangentopoli”.

Chiunque sia anche solo

superficialmente informato

sulla vera storia di Mani Pulite

e del conseguente emergere a

livello nazionale della

corruttela sistemica, ben

definita da Gerardo Colombo

“dazione ambientale”, poi

battezzata semplicisticamente

“Tangentopoli” può

tranquillamente apprezzare

che oggi di nuovo non c’è

proprio niente.

Non sono nuovi gli ambienti

dove prosperano ed ingrassano

a spese dei contribuenti

(onesti) gli stessi figuri con lo

stesso DNA di quelli di fine

secolo scorso; non sono nuovi i

metodi mafiosi di nomina degli

stessi; non sono nuovi i

“pupari” politici che

manovrano i fili ed intascano il

malloppo; non sono nuovi i

canali di transito delle

corruttele e, infine, non è nuova

la spudoratezza con la quale i

“mariuoli” cercano di scansare

le evidenze come dei Craxi

qualsiasi.

Mariuoli bipartisan e

trasversali a quella che è stata

la Casa delle Libertà; ed oggi si

capisce meglio qual erano le

libertà di riferimento.

Quasi nessun gruppo reduce di

quello schieramento s’è

chiamato fuori dalla

mangiatoia; e troviamo a

braccetto quelli che all’epoca

erano semplici im-prenditori

con quelli che tiravano le

monetine ai politici con i cui ex

portaborse ora spartiscono le

tangenti.

Vecchi marpioni pregiudicati

come Brancher (non a caso

nominato ministro dal suo ex

datore di lavoro e capobanda)

fanno pappa e ciccia con ex

aennini duri e puri; giovani

vecchi come Casini e l’allora reo

confesso Cesa gonfiano

tesorerie di partito e saccocce

private a quattro mani con ex

duri e puri della Lega; che viene

da chiedersi in cosa sono mai

stati duri e puri.

Tutta gentaglia inqualificabile

che, oltre a fare da palo al Gran

puttaniere per almeno tre lustri

nel suo programma di

distruzione della Giustizia

italiana, di tutto ha fatto in

quest’arco temporale per

cancellare nel Paese la

memoria di ciò che è stata la

stagione di Mani Pulite e,

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dunque, anche il ricordo dei

loro nomi legati vuoi alle

corruttele vuoi alle feroci

campagne a sostegno, allora,

dei magistrati inquirenti.

Tutta gentaglia che, ove non

avesse già sentenze passate in

giudicato, s’è sempre sperticata

in difese ad oltranza di

corruttori e fin'anche mafiosi:

oggi in attesa di sentenze di

cassazione o già direttamente

in galera e ieri fondatori o

segretari di questo o quel

partito.

Tutto questo, nonostante i

sempre più flebili allarmi che,

di anno in anno, andava

lanciando quella “parte di

Magistratura” in trincea per i

livelli di corruzione che

andavano aumentando: quella

“parte politicizzata” di

Magistratura quotidianamente

bombardata a palle incatenate

dalle corazzate mediatiche del

Conducador Nano.

Nessuno può dire, oggi, di non

averli ascoltati; di non aver

saputo.

Dunque, niente è cambiato

poiché, soprattutto, niente s’è

interrotto: ed il definire

“nuova” una stagione che, di

fatto, non è mai terminata e che

vede tirare le fila del gioco la

stessa accozzaglia di farabutti

impuniti e di parenti stretti dei

soliti noti non è solo

tragicamente gattopardesco, in

questi tempi sanguinosi di crisi

globale, è un’ulteriore corsa in

avanti di questa classe politica

indecente nel provocare quella

che il maestro Monicelli, poco

prima di compiere il suo atto

estremo, ha invocato come

passaggio necessario al nostro

Paese per poter aspirare ad

essere, finalmente, un paese

normale.

Una rivoluzione.

MisterB

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Il doppio registro della

contemporaneità

di Florian

Se è vero che il presente in sé

non esiste se non come

memoria del passato ed

anticipazione del futuro, ciò

significa che viviamo

contemporaneamente in due

mondi, quello in cui si mettono

a frutto pensieri precedenti e

quello nel quale se ne

anticipano di nuovi. Questo

scollamento tra le due realtà è

rappresentato sul piano sociale

da chi vive il presente sulla

base di ciò che ha ereditato e

chi sperimenta ai margini il

mondo che verrà. Da un lato gli

uomini di potere, dall’altro gli

intellettuali, queste forze

agiscono simultaneamente

fornendo della

contemporaneità un duplice

aspetto a seconda che si guardi

all’operato degli uni e degli

altri.

Riguardo i mutamenti politico-

sociali sarebbe dunque miope

collegare una fase a quella che

l'ha immediatamente

preceduta. Se indaghiamo più a

fondo in merito alla natura del

cambiamento ci accorgiamo

che questo ha un rapporto più

diretto e autentico con

un’epoca anteriore a quella

immediatamente trascorsa e

che nella circostanza aveva

agito meramente sul piano

delle idee. Non solo, in base a

quanto accaduto negli ultimi

decenni possiamo anche

abbozzare l'entità del tempo

che separa gli anticipatori del

mondo nuovo dai guardiani del

tempo presente: circa

vent'anni. Vediamo alcuni

esempi.

L'esistenzialismo e il nichilismo

del secondo dopoguerra con la

loro critica occidentale all'etica

borghese preparano di fatto il

Sessantotto. Quest’ultimo, con

la messa in discussione degli

hippies dell'autorità vigente in

ambito sessuale, familiare,

religioso, anticipa il

libertarismo realizzatosi negli

anni novanta in chiave

borghese-bohemien. Seattle,

patria del movimento no-

global, è invece il punto di

partenza per quella risposta

"indignata" e "antipolitica" che

vediamo riempire in questi

giorni le piazze.

Si dia poi il caso di Barack

Obama. La sua ascesa alla

Presidenza degli Stati Uniti

quattro anni fa è stata messa in

relazione alla controversa

epoca politica dominata da

George W. Bush. In realtà

Obama ha rappresentato il

frutto maturo della candidatura

di bandiera del reverendo

afroamericano Jesse Jackson

avvenuta nel più lontano 1988

contro George Bush padre. Ciò

che era "impossibile" allora è

stato possibile oggi perché le

avanguardie che avevano

sostenuto Jackson pur sconfitte

nel breve tempo grazie al loro

radicarsi in società hanno finito

per cambiarla a loro

somiglianza e divenendo esse

stesse parte dell’establishment

hanno infine reso “possibile”

l’elezione di Obama.

Un altro fenomeno politico

americano di cui si è dibattuto

a lungo negli scorsi anni ha

riguardato i cosiddetti

“neocon”, ovvero quel gruppo

di influenti intellettuali passati

in vent'anni dalla sinistra

“liberal” alla destra

“conservative”. In realtà i vari

Kristol, Podhoretz, Novak, non

hanno compiuto grandi

“abiure”, essendo stata la loro

realtà, la loro "sinistra", ad

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affermarsi nel tempo e a

posizionarsi a destra solo

perché scalzata nel frattempo

da una “nuova sinistra” più

radicale. In questo caso la

retorica politica del neocon

Reagan sul muro di Berlino

destinato di lì a poco a cadere

aveva dietro di sé quell'Ich Bin

Berliner pronunciato nei primi

anni sessanta da un

indimenticato leader liberal

quale John F. Kennedy. Questi

due Presidenti, considerati (a

torto) tanto diversi, ebbero in

realtà un ruolo molto simile

non solo circa la guerra fredda

e l'espansione

dell'americanismo a livello

mondiale, ma anche riguardo la

gestione dell’economia, non

avendo Reagan mai sconfessato

in definitiva il welfare state,

spauracchio dei suoi ideologi

libertarian. Malgrado questi,

appunto, il cold war liberalism

degli anni Sessanta è potuto

riverberarsi nel

neoconservatism degli anni

ottanta mutando poco o nulla

del suo abito mentale.

A dispetto del reaganismo, il

thatcherismo nasce invece dal

goldwaterismo. E’ la Lady di

ferro a realizzare infatti, più

compiutamente del suo

omologo americano, il portato

intellettuale di un economista

liberista misconosciuto negli

anni Cinquanta quale Friedrich

von Hayek. Considerato eretico

durante l’apogeo del New Deal,

Hayek rappresentò il principale

riferimento culturale per il

governo conservatore inglese

della Thatcher, la cui eredità,

per un curioso gioco di scambi

tra i due lati dell’Atlantico, è

oggi presente nei circoli dei Tea

Parties che hanno dato vita ad

un post-thatcherismo

ovviamente americanizzato (si

veda a proposito la scelta di

Michele Bachmann di

presentarsi sulla scena

nazionale quale “nuova

Thatcher”).

Circa gli anni Ottanta, poi, è

opinione diffusa che siano stati

questi il decennio conservatore

per eccellenza, l’epoca della

deregolamentazione e del

liberalismo più sfrenato. Ma

questo perché si guarda

sempre troppo alle forze che

detengono il potere e sempre

troppo poco a quelle che nel

frattempo agiscono sul piano

sociale e culturale. In verità

l’età reaganiana conobbe in

letteratura la scena

“minimalista” dei McInernay e

Leavitt; in arte i graffiti

metropolitani di Keith Haring;

mentre nella società del tempo

si affermava la presa di

coscienza dei gays così come

l’onda pacifista e

antinuclearista che animava il

nascente movimento

ambientalista. Ambientalisti

come i Gruenen tedeschi che,

affacciatisi nella Germania

democristiana di Kohl, di lì a

vent’anni saranno i primi

artefici di un generale

rinnovamento politico e sociale

grazie alla generazione degli

Schroeder e dei Fischer, artefici

di un’inedita alleanza rosso-

verde.

E il nostro Berlusconi? Sarebbe

sbagliato collegarlo

univocamente alla precedente

stagione del craxismo. In realtà,

essendo il Cavaliere non un

politico di professione ma un

imprenditore, le ragioni della

sua “discesa in campo” e la

natura del berlusconismo

vanno piuttosto collegate alla

nascita di Telemilanocavo nei

più lontani anni Settanta,

artefice di quel rilancio del

"privato" contro il "pubblico"

che dovette realizzarsi

massimamente in Italia

attraverso le televisioni. Allo

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stesso tempo il berlusconismo

realizzato ha piantato un seme

che lentamente si sta

trasformando nell’area

neoconservatrice o

liberalpopolare che ora fa capo

ad Angelino Alfano.

Diversamente, l’avvento di

Mario Monti al governo è da

considerarsi da un lato un mero

"incidente storico", frutto di

un'operazione gestita

dall'esterno, e dall’altro la fase

terminale di quella Terza Via

centrista, a suo modo liberale e

riformista, preconizzata dal

laburista Anthony Giddens

all’inizio degli anni Novanta.

Questi esempi (e tanti altri se

ne potrebbero fare ancora) ci

mostrano quindi come sia

sbagliato soffermarsi su ciò che

si manifesta in superficie,

minimizzando ciò che si agita in

profondità. Per cui, tenendo

presente ciò che è stato e

osservando ciò che accade ai

vari livelli possiamo anche

provare ad immaginare come

evolverà il futuro e al tempo

stesso svelare i meccanismi che

si celano all'interno della

nostra società. Tra questi, il

venire a galla di "nuove classi"

che si sostituiscono alle

“vecchie”, le quali, avendo

esaurito la loro funzione,

lasciano alle prime il compito di

popolarizzare e massificare

quanto era stato

precedentemente pensato e

vissuto solo entro marginali ma

influenti gruppi.

Florian

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Ungheria 2012

Di Eric Draven

La crisi dell'Unione Europea da

qualche settimana contempla

un nuovo protagonista,

l'Ungheria.

Primo paese dell'est europeo

coinvolto nel turbine del

debito, a differenza dei PIIGS

Budapest non sembra voler

seguire la linea tenuta altrove,

ad esempio Atene.

Nessun governo tecnico

guidato da un eurocrate

,nessuna votazione anticipata.

Il governo di Voktor Orban

sembra più semplicemente

rifiutare di riconoscersi in

debito con FMI e BCE. Mossa

populistica e folle? le ultime

notizie parrebbero far

propendere per il sì.

Il premier ungherese Viktor

Orban si è deciso a chiedere

aiuto al Fondo Monetario

Internazionale, dopo aver

realizzato che il Paese, di cui è

primo ministro dal 2010, è

ormai sull'orlo del secondo

default in quattro anni. Ma non

è detto che lo otterrà. Ieri l'asta

dei titoli di Stato magiari a 12

mesi ha vistosamente mancato

il target di 45 miliardi per

collocarne solo 35 miliardi, con

rendimenti al 9,96%. Il fiorino

ungherese è sceso ai minimi

contro la moneta unica europea

(a quota 324 fiorini per un

euro) ma anche contro franco

svizzero e dollaro. Il mercato

insomma diffida Viktor Orban,

il premier-dittatore che

secondo il popolo ungherese

minaccia la democrazia del

Paese con la sua nuova

costituzione fortemente

personalistica, e che secondo

l'Unione Europea minaccia la

stabilità finanziaria dell'Europa

rifiutando di assoggettare la

banca centrale magiara alla

BCE. "La dipendenza della

banca centrale ungherese da

quella europea è un

prerequisito fondamentale per

ottenere gli aiuti

internazionali", ha osservato

ieri il portavoce dell'Unione

Europea. Il governo ungherese

è pronto a trattare e chiede

risposte rapide, forse già per la

prossima settimana.

La vera soluzione alla crisi del

debito in corso nell’eurozona.

Necessario che venga

abbandonato il piano che

prevede la partecipazione dei

privati al debito della Grecia.

Questo è il problema di fondo,

che continua a minare la fiducia

degli investitori. Ne è convinto

Athanasios Orphanides,

governatore della Banca

centrale di Cipro, membro del

consiglio direttivo della Banca

centrale europea.

Tale decisione andrebbe

sicuramente a pesare sulla

Grecia, portando in rialzo i

rendimenti dei bond, ma

beneficerebbe tutti gli altri

paesi dell’eurozona,

rassicurando gli investitori e

dunque riducendo il costo di

finanziamento.

Nonostante i vari sforzi

intrapresi dai leader europei

per rassicurare il mercato sullo

stato di salute dei rispettivi

paesi, questa possibilità di

perdita continuerebbe a

giocare un ruolo negativo che

impedirebbe il miglioramento

del sentiment.

"Ritirare la decisione sulla

partecipazione dei privati al

debito greco porterebbe in

rialzo i rendimenti dei titoli di

debito ellenici, ma ridando

fiducia nell’eurozona andrebbe

a ridurre il costo dei

finanziamenti per gli altri paesi

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L’Argonauta

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del Blocco", ha detto

Orphanides.

Tale decisione, per una riuscita

ottimale, dovrebbe essere

accompagnata a un prestito di

30 anni a tassi di interesse

contenuti, dai vari paesi alla

Grecia, per garantire che il

costo del debito rimanga in

linea con i piani di

consolidamento fiscale.

Come si vede, le opinioni

continuano a divergere,su cosa

si dovrebbe fare per risolvere il

problema. Ma nel caso

ungherese,non c'è solo un

problema di visione e di

sovranità economica. Chè pure

sarebbe gran cosa,visto che

anche l'Italia viene messa sotto

pressione per salvare una

banconota.

Al governo magiaro viene

anche contestato il fatto di

stare approfittando della crisi

per limitare la democrazia in

riva al Balaton.

Il vicepresidente del gruppo

S&D, il tedesco Hannes

Swoboda, ed il leader dell'Alde,

il belga Guy Verhofstadt, hanno

chiesto che venga applicato

l'art.7 del Trattato di Lisbona

che si applica in caso di

violazioni ai principi fondanti

della Ue in tema di democrazia,

liberta' fondamentali e diritti

dell'uomo.

Tra le sanzioni previste

dall'art.7 c’è anche la

sospensione del diritto di voto

in Consiglio per il paese che ne

viene colpito. Un portavoce

della Commissione europea ha

ricordato che tale articolo non è

mai stato utilizzato nella storia

dell'Unione europea,

affermando che esso sarebbe

una "ultima risorsa", "ma non

siamo ancora a questo punto".

"Siamo dalla parte del popolo

ungherese che viene messo

sempre più sotto pressione dal

governo Orban. L'applicazione

dell'art.7 deve essere

seriamente presa in

considerazione se Orban

continuerà a sfidare

deliberatamente le leggi ed i

valori europei" ha detto

Swoboda che ha anche

auspicato che il Ppe sospenda il

premier ungherese dal ruolo di

vicepresidente del partito.

Anche secondo Guy Verhofstadt

la situazione in Ungheria e'

degenerata al punto tale che

"non e' piu' tempo di scambio

di lettere", ma "e' giunto il

momento di avviare sanzioni

legali e politiche" sulla base

dell'art.7. "E' tempo di

applicarlo - ha detto

Verhofstadt - per proteggere la

democrazia ed i diritti

fondamentali in Ungheria e

nella Ue, ma anche per evitare

di stabilire un pericoloso

precedente e dare un cattivo

esempio ai paesi che aspirano

ad entrare nell'Unione".

La questione Ungheria figurera'

ovviamente nell'agenda del

Collegio" dove si terra' una

"discussione politica

sull'Ungheria e le leggi

recentemente adottate" ma, ha

aggiunto il portavoce di

Bruxelles, "non si può dire se

sarà già presa una decisione"

sull'eventuale apertura di una o

più procedure d'infrazione nei

confronti del paese.

L'Ungheria non è riuscita a

vendere l'intero ammontare di

titoli di Stato nell'asta di oggi e

il fiorino ha toccato un record

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negativo: 324 per un euro. Il

rischio insolvenza non è mai

stato così alto e i negoziatori

chiedono con urgenza un

pacchetto di assistenza al Fmi e

all'Ue.

In cosa consistono queste

contestate limitazioni?

leggiamo assieme questo

articolo:

L’Orbán di oggi e l’Orbán di ieri

sono due persone diverse.

Irriconoscibili. Le idee del

primo ministro ungherese sono

cambiate profondamente, nel

corso degli anni. Viktor Orbán

all’inizio della sua carriera era

un giovane liberale, vicino a

posizioni progressiste. A

distanza di vent’anni lo

ritroviamo conservatore,

intento a promuovere una

“rivoluzione costituzionale” che

sta suscitando perplessità e

riserve in Europa. Abbiamo

chiesto allo storico Federigo

Argentieri, docente della John

Cabot University, autore di

numerosi studi sulla storia

magiara e in particolare sulla

rivoluzione del 1956, di

spiegarci la situazione in corso

a Budapest, anche alla luce

della biografia orbaniana.

Autoritarismo,

conservatorismo, fascismo di

ritorno. Le definizioni si

sprecano. Secondo lei come si

qualifica il progetto Orbán ?

Si sta un po’ esagerando,

nell’inquadrare lo scenario.

Certo, il progetto di Orbán è

quello che è. Ma non è eversivo.

Vedo sostanzialmente due

principi ispiratori, uno di

natura economica, l’altro che

riguarda l’identità politica. Da

una parte c’è la volontà di

“ungheresizzare” il capitalismo

nazionale. La finanza magiara è

in mano ai grandi investitori

internazionali e il desiderio del

primo ministro è quello di

riportare nelle mani dei

concittadini beni e risorse, così

che si crei quella classe

borghese ungherese e cristiana

– qui l’accento va più posto sul

discorso nazionale che sulla

religione – che dovrebbe

rappresentare la linfa della

“nuova” Ungheria, secondo il

progetto di Orbán .

Accanto a questo c’è la voglia di

esautorare completamente gli

ex comunisti. Il preambolo

della Costituzione, se analizzato

attentamente, squalifica il

Partito socialista, considerato

l’erede della tradizione

comunista. Le nuove leggi

prevedono altresì la possibilità

di istruire processi contro chi,

in epoca comunista, s’è reso

responsabile di crimini. Non

credo, tuttavia, che ci saranno

“purghe” in grande stile. Vero è,

però, che in questo emerge

l’intenzione di “purificare” il

Paese dall’eredità del

comunismo, nella convinzione

che essa si sia trascinata fino ai

giorni nostri. Da storico vedo

una sorta di parallelo con la

situazione del 1921.

Ce la spieghi.

In quell’anno il regime

dell’ammiraglio Miklós Horthy,

che non era di natura fascista,

ma conservatore con forti tratti

autoritari, fece un accordo con

il Partito socialdemocratico,

che era stato alleato dei

comunisti di Béla Kun durante

la (breve) stagione della

repubblica dei consigli, di

ispirazione sovietica. Il primo

ministro István Bethlen e il

numero uno dei

socialdemocratici Károly Peyer

stipularono un’intesa che

permise ai socialdemocratici di

correre alle elezioni nelle città

(anche se il voto era segreto),

ma di tenersi fuori dalle aree

rurali, bacino di consenso del

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regime. Il significato era chiaro.

Horthy faceva delle concessioni

agli ex alleati di Béla Kun e

legittimava una certa loro

presenza nella sfera politica,

con l’obiettivo di bandire il

comunismo e di annientarne

l’eredità. Ecco, facendo i dovuti

paragoni lo stesso vale oggi:

Viktor Orbán vede nel

comunismo e nei suoi eredi

un’entità nefasta e punta a

delegittimarli. Questo

approccio è dettato anche da

spirito vendicativo, dettato

dalle sconfitte elettorali

rimediate nel 2002 e nel 2006,

che diedero il potere al Partito

socialista.

Nel preambolo della

Costituzione si riconosce alla

rivoluzione del 1956 un valore

fondante. Perché? Non è vero

d’altronde, come lei ha sempre

sostenuto, che quella fu

un’esperienza di sinistra?

La mia tesi è questa, appunto. Il

revisionismo comunista, la

socialdemocrazia e la

tradizione contadina di sinistra

si amalgamano nell’ultimo

governo di Imre Nagy, prima

della repressione sovietica.

Volevano cancellare lo

stalinismo e costruire una

nuova forma di democrazia, da

sinistra. La Costituzione targata

Orbán sposta la lettura sui

elementi civici e nazionali della

rivoluzione. Mi sembra che ci si

rifaccia al celebre discorso

radiofonico che il cardinale

József Mindszenty, liberato nel

1956 dopo una lunga prigionia,

pronunciò il 3 novembre di

quell’anno. «Questa non è una

rivoluzione, ma una lotta per la

libertà», disse il cardinale, a

rimarcare l’aspetto nazionale

dell’insurrezione. È a questo

che Orbán dà peso, quando si

ricollega all’eredità del 1956.

Orbán era inizialmente un

liberale progressista. Com’è

arrivato alle posizioni di oggi?

Orbán era una delle personalità

di spicco della Fidesz, l’Unione

Civica Ungherese della prima

ora, formazione liberale,

progressista, impegnata sui

diritti civili. Volendo trovare un

esempio nell’Europa attuale,

potremmo dire che ci sono

analogie con i libdem

britannici. Nel 1990 la Fidesz

rimase all’opposizione,

criticando aspramente il

governo capeggiato da József

Antall, una sorta di

democristiano europeo, un po’

De Gasperi, un po’ Kohl.

Quattro anni dopo, quando i

socialisti vinsero le elezioni e si

allearono con i

liberaldemocratici, Orbán

scelse ancora la via

dell’opposizione. Ma nel

frattempo aveva iniziato a

mutare le sue posizioni. Antall,

prima di morire (1993), lo

investì della sua eredità

politica, convincendolo a

staccarsi dal progressismo –

elettoralmente limitante – e a

spostarsi nel campo del

centrodestra. Alcuni membri

della Fidesz non accettarono la

svolta e lasciarono il partito. Ma

la maggioranza seguì Orbán,

che nella prima esperienza di

governo (1998-2002) ha

cercato di mettere in pratica le

sue nuove idee, senza però

riuscirci, a causa delle ripetute

mediazioni a cui l’hanno

costretto gli alleati di governo.

Il nuovo Orbán s’è formato

durante gli otto anni passati

all’opposizione. È in questo

arco di tempo che il progetto a

cui oggi stiamo assistendo,

favorito dalla maggioranza

schiacciante ottenuta dalla

Fidesz nel 2010, ha preso

forma.

Pensa che il fenomeno Orbán

sia frutto del fatto che

l’Ungheria non ha fatto ancora

tutti i conti con la storia?

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Se guardiamo ancora il

preambolo della Costituzione,

nella parte in cui si spiega che il

Paese fu privato

dell’indipendenza dal ’44

(occupazione nazista) al ’91

(ritiro definitivo dei sovietici),

vediamo delle carenze,

soprattutto sul primo punto.

Diversi ungheresi sostennero

infatti il regime filonazista. Ma

è anche vero che l’Ungheria,

che sul piano del confronto con

la propria storia non è che sia

così indietro, è in buona

compagnia. Che dire della

Francia dove Vichy è ancora un

ingombrante macigno

storiografico, per non parlare

dell’Italia, dove sia il fascismo

che la resistenza sono ancora

trattati senza il necessario

distacco…

Considero questo articolo

abbastanza equilibrato.

Leggendolo, la considerazione

che viene da fare è che

l'Ungheria forse sta utilizzando

i metodi sbagliati, ma sta

indicando una via.

L'elemento più sottaciuto di

questa crisi non è il modello

"capitalista" o "liberista" (cosa

ci sia di liberale e libertario

nell'accentrare tutta la politica

monetaria, fiscale ed

economica nelle mani della BCE

non è ancora dato sapere),

quanto la violenza con cui ci

viene propalata come unica via

il continuare a dipendere dalle

istituzioni europee.

Quando invece l'UE sempre più

si sta dimostrando non la

soluzione, ma il problema.

I dubbi sulla svolta autoritaria

del governo ungherese sono

legittimi; ma rischiano

seriamente di fare scuola. Non

so Orban alla fine si risolverà a

chiedere di mettere l'Ungheria

sotto l'ombrello dell'FMI.

Ma il fuoco continua a covare

sotto la cenere.

Ci domandiamo quanto tempo

ancora dovrà passare prima

che venga messo in dubbio il

dogma europeista in modo

profondo. Ma soprattutto,

quando questo avverrà, ci sarà

ancora spazio per una

soluzione pacifica?

Eric Draven

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L’antifascismo mitico

della sinistra italiana

di Florian

Quando il 30 dicembre scorso il

sito web de Il Fatto Quotidiano

ha commemorato la scomparsa

di Mirko Tremaglia - una vita

nel Msi, poi deputato di An ed

infine di Fli -, i commenti dei

lettori non sono stati teneri con

un uomo che fino a quando è

stato vivo, e ancora da morto,

ha scontato presso una non

piccola parte di italiani

l’imperdonabile colpa d’essere

stato fascista.

Questa circostanza può indurci

a riflettere su quella che è vera

natura della sinistra italiana e

parimenti della destra che le si

oppone. E’ opinione diffusa che,

malgrado gli innesti e le

revisioni successive, queste

aree contrapposte da noi

riflettano ideologie

novecentesche “dure a morire”

quali il comunismo e il

fascismo. Ma siamo sicuri che

quanti ancora si disprezzano

vicendevolmente siano gli eredi

diretti di Togliatti e Mussolini,

di Gramsci e di Gentile? Per

davvero il comunismo e il

fascismo rappresentano due

poli inconciliabili della politica

e dunque irriducibilmente

alternativi?

Ad essere onesti, che in Italia

fascisti e comunisti non siano

nati per farsi necessariamente

la guerra ce lo ricordano ancora

diversi fattori. Bersaglio dei

fascismo non era il comunismo

in sé ma l’internazionalismo e il

pacifismo delle

socialdemocrazie. Mentre

l’anticapitalismo rivoluzionario

di Mussolini è confermato dalle

origini socialiste dell’uomo che

gli valsero l'apprezzamento di

Lenin, il filosofo Gentile

considerava i suoi oppositori

comunisti alla stregua di

“corporativisti impazienti”.

Senza tirare qui in ballo tutto

l'armamentario ideologico del

cosiddetto "fascismo di

sinistra", si può sottolineare

senza timor di smentita che tra

estrema destra ed estrema

sinistra, prima dell’entrata

italiana in guerra, ci fosse più

concorrenza che aperta

contrapposizione.

Naturalmente l’attacco nazista

alla Russia comunista cambiò

radicalmente i rapporti tra i

fascisti e i comunisti italiani. Ma

anche a chiusura del conflitto

che i vecchi rapporti non

fossero stati del tutto

dimenticati lo dimostra il

provvedimento varato nel 1946

dal segretario del PCI, Togliatti,

allora ministro della Giustizia

del governo De Gasperi, volto

ad amnistiare i reduci di Salò –

a dispetto della volontà

contraria del Partito d’Azione –,

per intercettare umori e voto

contro la Democrazia Cristiana.

Tuttavia questo

riavvicinamento tra fascismo e

comunismo doveva subire un

duro colpo a causa della

propaganda stalinista, la quale

nell’immediato dopoguerra

pensò bene di agitare il

fantasma del nemico “fascista”,

ormai battuto, contro gli

americani e i loro alleati nella

Guerra Fredda. In ragione di ciò

vennero additati a “fascisti”

non solo i conservatori e i

liberali, ma gli stessi riformisti

anticomunisti ad ovest del

muro di Berlino, che si meritò

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la qualifica di “barriera di

protezione antifascista”. Fu così

che anche la sinistra italiana si

eserciterà in una surreale lotta

politica “antifascista” pur in

mancanza di un reale pericolo

fascista. Col paradosso finale di

riuscire persino a risuscitare il

morto.

Secondo il filosofo marxista

Costanzo Preve, “la

prosecuzione dell’antifascismo

in assenza manifesta di

fascismo ha rappresentato (e

rappresenta) il minimo comun

denominatore di correnti

disparate, il comunismo

(l’antifascismo è più prestabile

della dittatura del proletariato

e del dispotismo staliniano),

l’azionismo (il fascismo

rivelazione dei difetti atavici

degli italiani, popolo delle

scimmie corrotto dai gesuiti),

ed infine l’americanismo (no ai

dittatori, non importa se rossi o

neri). È evidente – dice ancora

Preve - che una simile risorsa

ideologica, per di più gratuita,

non poteva essere

abbandonata, e doveva essere

spremuta come un limone fino

all’ultima goccia”. E “chi avesse

osato contestarla poteva

aspettarsi accuse di

antisemitismo, di rosso-

brunismo, eccetera”. (1)

Dall’altra parte, per volontà

degli americani e per sfuggire

alla ghettizzazione sociale ed

esercitare un ruolo sulla scena

politica postbellica, il

neofascismo giunse a

considerarsi specularmente

“anticomunista” dando luogo a

quella contrapposizione che

provocò un’insensata scia di

morti e stragi tra gli anni

settanta e ottanta.

Ecco dunque come, sullo sfondo

della Guerra Fredda e in virtù

di condizionamenti esterni,

andarono ad operare, dietro le

maschere del fascismo e del

comunismo, due partiti del

tutto diversi e che sarebbe

legittimo chiamare

“anticomunista” e “antifascista”

in quanto si caratterizzarono

più per l’odio antropologico che

per tesi politiche negli anni

annacquatesi fino ad essere

rinnegate del tutto.

Ed è dunque dall’inconsistenza

politica dell’anticomunismo e

dall’antifascismo che sono nati i

due poli bipolari della Seconda

Repubblica, talmente fasulli da

essersi presto mimetizzati

nell’ancor più farsesca guerra

civile tra berlusconiani ed anti.

Risultato inevitabile quando, a

fronte di una classe politica

senza più identità politica e per

questo oggi felicemente schiava

di nuovi poteri tecnocratici,

l’”antifascismo mitico” trovi

ancora riscontro presso una

base sconcertata e confusa che

nell’artificiosa sovrapposizione

del populismo xenofobo col

fascismo storico si illude di

mantenere ancora salva la

propria anima.

(1) Costanzo Preve, Le lacrime

della signora Fornero

http://www.antimperialista.it/ind

ex.php ... =78:italia

Florian

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Un metro e mezzo di

statura

di Fulvia

I malati di nanismo

acondroplasico hanno in virtù

del loro aspetto fisico una

storia, anche a tratti morbosa,

che si rintraccia fin dall’epoca

degli Egizi. La statua calcarea

raffigurante il dignitario e

sacerdote Seneb, ritratto con

grande dignità insieme alla sua

famiglia, e che fu al servizio dei

faraoni Cheope e Gedefr,a risale

circa al 2500 a. C. Era un dio

minore il nano Bes, protettore

della casa e dei bambini,

particolarmente nel momento

critico della nascita, e questo

ruolo ne diffuse l'immagine in

molti oggetti della vita

quotidiana, come ad esempio i

poggiatesta, da cui vegliava sul

sonno degli inermi dormienti.

Una delle sue statue si trova al

Museo Egizio di Torino e

proviene dal Tempio di Amon, a

Tebe.

Anche in Grecia i nani erano

considerati protettori dei

bambini, beneauguranti, in

grado di dispensare fertilità ed

erano presenti nei culti

dionisiaci. I più celebri nani

della mitologia greca furono i

Dattili Idei, non raramente

identificati con i Cabiri di

Lemno, discendenti diretti di

Efesto, con i quali condividono

le capacità metallurgiche.

La tendenza propria del mondo

ellenico, di attribuire grande

importanza alla perfezione

fisica rende conto della scarsa

sensibilità della cultura classica

nei confronti della diversità:

nella Repubblica di Platone le

irregolarità non devono

esistere e debbono essere

relegate in un luogo celato. In

età regia e repubblicana, a

Roma, i soggetti con

imperfezioni fisiche venivano

eliminati drasticamente. A

partire dall’età imperiale,

invece, poter esibire nani come

accompagnatori o consiglieri

divenne motivo di

compiacimento. Nei Saturnalia

Domiziano faceva combattere i

nani tra loro o contro donne, o

li faceva esibire nelle

venationes, forma di

divertimento negli anfiteatri

romani che implicavano la

caccia e l'uccisione di animali

selvatici. Le matrone li

tenevano con loro come buffoni

o accompagnatori, e si arrivava

a deformare appositamente

bambini sani per renderli simili

ai nani, in modo da averne un

guadagno vendendoli. E’ con

l’imperatore Alessandro Severo

che cresce l’intolleranza per il

costume di impiegare nani

nelle mura domestiche. Ma è la

diffusione del Cristianesimo a

modificare ancora il rapporto

con la diversità e a rendere

conto del radicale mutamento

degli atteggiamenti sociali nei

confronti dei nani. Il diverso è

altra res, altra manifestazione

del concetto di divino che

nell’organizzazione medievale

dell’universo sfugge alla

comprensione. Così l’anomalos

si identifica con l’anomos, il

senza legge e , per estensione,

con l’individuo privo di valore

sociale. Oltre a questo va

ricordato come nel Medioevo

pur se la morale cristiana

imponeva l’assistenza e la

carità nei confronti dei più

deboli, si considerava la

malattia come una forma di

espiazione e punizione dei

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peccati. Nel medioevo i nani si

mescolano in un coacervo di

figure che verranno poi definite

“giullari”, la cui storia è

mirabilmente trattata da

Gaetano Bonifacio nel suo

“Giullari e uomini di corte nel

200”. Nel Rinascimento i nani

ritornarono ad essere una

manifestazione del lusso delle

grandi corti e in virtù

dell’essere ritenuti dotati di

viva intelligenza, sono presenti

come consiglieri e confidenti di

potenti.

Moltissimi di noi non sanno di

conoscere Phineas Taylor

Barnum, che divenne famoso

per aver creato l'American

Museum nel 1842, e il circo

chiamato The Greatest Show on

Earth ("Il più grande spettacolo

del mondo"), dove venivano

ospitati anche nani

acondroplasici, oltre che altre

persone affette da quelle che

oggi chiamiamo malattie, come

i gemelli siamesi. In era

moderna i nani furono

orribilmente oggetto degli studi

di Josef Mengele e Otmar

Freiherr von Verschuer, come

altri disabili e non passati

attraverso i lager nazisti.

Il nanismo acondroplasico è

una malattia che colpisce le

cartilagini. L’aspetto fisico è

caratteristico, l’aspettativa di

vita normale se non si

verificano problemi respiratori

o neurologici nella prima

infanzia. L’intelligenza è

normale, lo sviluppo sessuale

normale. Non ci sono cure

specifiche, se non di tipo

ortopedico.

Ogni anno in Italia sono circa

3000 i neonati abbandonati, e a

volte sono ritrovati morti. Non

posso dimenticare che dodici

anni fa sul cassonetto dei rifiuti

sotto casa mia era applicato un

adesivo che inseriva nel cerchio

colla sbarra tipica dei divieti la

figura di un bambino con il

cordone ombelicale ancora

attaccato. Ogni volta che un

povero corpicino riemerge da

un cassonetto, una roggia,

quando si fa in tempo a salvarlo

e soprattutto quando non si fa

in tempo, credo che tantissimi

tra noi hanno detto o pensato

“Perché non lo ha lasciato in

ospedale?”.

La legge italiana permette alla

donna di partorire

nell'anonimato e di non

riconoscere il figlio, garantendo

allo stesso tempo al bambino il

diritto di crescere in una

famiglia. E’ una legge che tutela

due figure giuridiche, la madre

e il figlio. E’ una legge che io

vorrei pubblicizzata tramite i

mass media in tutte le lingue

del mondo, affinché quando

una madre non vuole o non può

riconoscere il proprio figlio

sappia che l’ospedale

garantisce l’anonimato del

parto. Io sono dell’opinione che

occorre ripristinare le ruote

degli esposti, in ospedale, con

termoculle e sensori che

rivelino la deposizione di un

bimbo, in aggiunta e non in

alternativa alla

pubblicizzazione del parto

anonimo.

A Roma sul circa 25.000 nascite

dello scorso anno ci sono stati

40 casi di mancato

riconoscimento di neonati. Per

la maggior parte dei casi la

motivazione era un grado di

povertà estrema mentre in un

piccolo numero il neonato non

è stato riconosciuto perché

malato. 10 bambini di età

diversa, portatori di patologie

sono ospitati nelle case-

famiglia di Roma e attendono di

essere adottati, alcuni sono in

età scolare e forse non lo

saranno mai.

Trovo stucchevoli le

dichiarazioni del vicesindaco di

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Roma Sveva Belviso e credo che

in certe sfumature sia legittimo

sospettare che stia speculando

su questo fatto per darsi un

poco di visibilità. Infatti si

affretta a auspicare il

ripensamento dei genitori

anche perché "All'apparenza

nulla lascerebbe pensare al

male di cui soffre". Signora

Belviso, l’aspetto di un neonato

affetto da acondroplasia è lo

stesso di un bambino normale.

Le stimmate fisiche

dell’acondroplasia (ribadisco

che parliamo di normalità

dell’intelligenza) si

manifestano con il mancato

accrescimento delle cartilagini.

Quindi basterebbe informarsi

un attimo prima su Wikipedia.

Un seconda istanza, se

l’apparenza invece avesse

svelato immediatamente il

male di cui il bambino soffriva

avrebbe sperato ugualmente a

un ripensamento dei genitori er

avere ancora migliore visibilità

fissa anche ora e luogo di

incontro coi cronisti, anche con

quelli che magari non avevano

preso in considerazione l’idea

di intervistarla "Abbiamo

appreso dalla clinica Nuova

Città di Roma che il bimbo ha

avuto una grave crisi

respiratoria ed è stato

trasferito a Villa San Pietro. Alle

15.45 mi recherò di persona

all’ospedale per accertarmi

delle sue condizioni di salute".

La Belviso dichiara inoltre che,

qualora i genitori non

riconoscessero il figlio neanche

in un momento successivo, "E

io come vuole la legge, ne

diventerò la mamma tutrice".

No cara vicesindaco. Lei ne

diventerà il tutore legale, forse,

perché la figura della legale

mamma tutrice semplicemente

non esiste. Esiste il tutore.

Metterci quel “mamma”, se lo

ha fatto, è almeno cattivo gusto.

Sempre la Belviso dichiara "È

triste pensare che oggi abbiamo

inaugurato il cimitero dei

bambini mai nati dove

andranno a pregare genitori

che volevano ma non potranno

più amare e stare accanto ai

loro figli, e invece qui c'è un

bambino, vivo, che vuole solo

essere amato». Gentilissima

signora, se c‘è un modo forse di

ridurre la mortalità infantile è

proprio quello di incentivare il

parto anonimo, che è una

garanzia civilissima di tutela di

madre e bambino. E reputo

stucchevole che pur di farsi un

poco di pubblicità lei approfitti

della notizia per rimarcare un

provvedimento, quello sul

cimitero per i feti, che sta

creando non poche polemiche e

che da più parti viene letto

come l’ennesimo tentativo di

colpevolizzare le donne che

ricorrono all’interruzione di

gravidanza.

Il nanismo acondroplasico è

una patologia che causa un

handicap fisico ma non

mentale, e spesso compatibile

con una vita perfettamente

normale. Queste persone

possono avere problemi

ortopedici che li porteranno a

dovere forse affrontare gli

interventi, ma sono persone

che hanno soprattutto la grave

“colpa” di avere un aspetto

caratteristico. Sono persone di

bassa statura la cui maggiore

difficoltà è quella di vivere in

un mondo di cosiddetti

normali, che hanno visto nei

millenni discriminazioni,

violenze e soprusi. Persone di

cui si deride in modo volgare la

sessualità, l’affettività, le

difficoltà. Sono persone per le

quali è legittimo l’aborto

terapeutico, che ha in questo

caso il sapore vero

dell’eugenetica.

Fulvia