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L'azione è una estroversione del corpo - Rosati

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Opera Prima, poesie

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Titolo: L’azione è un’estroversione del corpo

Autore: Sofia Demetrula Rosati

Fonti: Collana “Opera Prima”, n. 25, Anterem 2011

A cura di: Luigi Bosco e Poesia2.0

In copertina: Opera di Alessandra Bonoli

Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro.

Tutti i diritti riservati all’autore.

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OPERA PRIMA

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SOFIA DEMETRULA ROSATI

L’AZIONE È UN’ESTROVERSIONE

DEL CORPO (Poesie Scelte)

Anterem, 2011

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L’AZIONE È UN’ESTROVERSIONE DEL CORPO

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l’azione è un’estroversione del corpo

sorretto da ossa silenziose e

meditabonde in

un’ora di sole tarda

mentre i falchi cavalcano il

vento sazi della giornata

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la calda mano si posa

sul volto per

sollecitarne la nervatura

il corpo estroverte in

un movimento agitato che

scuote l’amaca appesa ai

tralicci della luce e

sulla quale poggia

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il movimento sembra sconnesso

tanto che il corpo è scrollato verso

direzioni opposte e le ossa

perdono concentrazione

sembra ma l’oscillazione dell’amaca

riporta lentamente equilibrio

i falchi tornano ai loro nidi sulle

rocce e fissano il vento fieri

la mano si è distaccata dal volto

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l’aria è calda e calma

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ODIO QUESTO RESPIRARE NEL VUOTO

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odio questo respirare nel vuoto

il cursore sullo schermo batte a

intermittenza ma non

produce suono

il silenzio è denso e

devo ingoiarlo continuamente per

farmi spazio

il suono rifratto

produce singole note fastidiose

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pensavo di poter

restare seduta ad

attendere

consolando gli spigoli e

le curve dello spazio

intervenuto

tra gli oggetti

invece mi ritrovo a gettare

continuamente tessuti

per non restare soffocata

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la possibilità è un errore sottolineato in rosso

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ALLORA PREVALE LA RAREFAZIONE

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allora prevale la rarefazione

il peso specifico ha denunciato

la legge di gravità

la vastità dello spazio

è la misura giusta per me

per contare i passi sul rettilineo verticale

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non ho più paura ora

l’appagamento dilata le pareti dello stomaco e

lo spasimo non è più stretto dall’angoscia ma

fluttua appeso a un ombrello

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posso conoscervi ad occhi chiusi

senza temere che mi vediate cieca

posso imparare ad amare mentre raccolgo

la frutta matura caduta dagli alberi

senza fretta seduta ad aspettare quella

ancora acerba

perché la vita è lunga per chi

ha esaurito le domande

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Un corpo e la sua domanda di senso

Postfazione

di Tiziano Salari

Nella sua nota al testo, Sofia Demetrula Rosati ci invita a leggere le

poesie che compongono l’azione è un’estoversione del corpo come un

unico testo drammatico in “dodici atti, dodici quadri”. L’azione è un

atto che modifica un determinato stato di cose, facendolo passare da

una condizione a un’altra. L’estroversione è un termine della

psicologia junghiana, che individuò due tipi psicologici fondamentali,

l’introverso e l’estroverso, il primo chiuso in se stesso, ripiegato sul

proprio intimo, il secondo rivolto verso il mondo esteriore. Più che a

questa dimensione psicologica, l’estroversione del corpo di cui qui si

parla sembra riferirsi a un elemento ancora più primordiale, anteriore

a ogni socializzazione, e cioè al corpo nelle sue tensioni, qualità

fisiche, relazioni, azioni e passioni con corrispondenti stati di cose.

Ma qual è l’azione che porta il corpo a uscire da se stesso, cioè a

modificare uno stato di cose, a sviluppare una tensione che ne

solleciti, appunto, l’estroversione? Il punto iniziale è uno stato di

relativa quiete, verso il tramonto (un’ora di sole tarda) in cui le ossa

silenziose e meditabonde paiono in attesa di un evento che colmi un

vuoto accresciuto dalla visione di falchi in cielo che cavalcano il/

vento sazi della giornata.

Si noti: se ai falchi viene attribuita la sazietà, significa che il corpo

avverte in sé qualcosa di mancante, d’inappagato. La calda mano si

posa / sul volto per / sollecitarne le nervature”. Nei corpi, nella

profondità dei corpi, vi sono mescolanze: “un corpo penetra un altro e

coesiste con esso in tutte le sue parti, come la goccia di vino nel mare,

o come il fuoco nel ferro” (Gilles Deleuze). Una mano si è appoggiata

su un volto ed è avvenuta una mescolanza, determinato un

cambiamento. Il corpo viene scosso, agitato, scrollato in direzioni

opposte, le ossa paiono disgregarsi (perdono concentrazione) e

ritrovano lentamente l’equilibrio originario. Ancora i falchi fungono

da termine di confronto, e si attestano in una condizione di riposo nei

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loro nidi tra le rocce. la mano si è distaccata dal volto. “Un corpo si

ritira da un altro come il liquido da un vaso” (Deleuze). E l’aria calda

e calma, in cui il corpo riposa, ci parla di un riassorbimento in se

stesso, di un temporaneo appagamento. Ma se questo è il primo atto e

il primo quadro, non ci stupisce che il secondo atto si apra in uno stato

d’inquietudine: odio questo respirare nel vuoto. Chi odia il vuoto è l’io

che si ritrova dentro un corpo, o è il corpo stesso che si sente vuoto, e

avvolto dal silenzio, fino a ingoiare il silenzio per fare spazio dentro di

sé? Che cosa c’è di più intimo, si chiede Deleuze, di più essenziale al

corpo di eventi come crescere, rimpicciolire, essere tagliati? Ed è

puntualmente quanto accade nella sequenza di atti e di quadri di

questo poemetto. Dopo il vuoto e il silenzio del secondo atto, nel terzo

prevale la rarefazione. Va sottolineato che per il corpo esiste sempre e

soltanto il presente, che rassorbe in sé il passato e il futuro. Nella

rarefazione il corpo tende al proprio annullamento, a eliminare il

senso di pesantezza, a raggiungere uno stato di appagamento in sé,

senza mescolanze. E quel vedersi fluttuare appeso a un ombrello

ricorda certe immagini pittoriche di Folon di omini che prendono il

volo quasi liberando da se stessi il proprio doppio incorporeo. E un

doppio incorporeo sembra essersi liberato negli atti, quadri,

immediatamente successivi in cui il corpo diventa uno specchio

riflettente altri corpi, e altre contaminazioni (mescolanze) corporee.

Fino a esserne invaso (potete passeggiare tra le mie scapole, quanto

potere vi ho dato), constatando l’evento, ma senza chiedersi il senso

dell’evento stesso. Fino a identificare il sapere del corpo con il

significato del proprio nome (Sofia), soggetto al sapere, come se il

soggetto, un corpo di donna, non fosse altro che uno specchio concavo

riflettente in modo passivo un sapere preordinato, e che soltanto

ancorandosi al significato del proprio nome, abbia la possibilità di

attuare un rovesciamento copernicano e fissare il suo nome

sillabandolo / secondo un movimento labiale / soggetto al volere. Ha

scritto Luce Irigaray che il corpo della donna, per evitare il vuoto,

deve reinventare tutto. “Si torna a percorrere e scavare il luogo per la

stessa ragione di sempre, ritrovare le radici perdute del medesimo.” E

questo luogo, il luogo come un tutto, in cui lei può sapersi e

possedersi in quanto tale, è per Sofia Demetrula Rosati l’utero: ho

partorito un utero. “La donna resta questo niente di niente, tutto

l’ancora niente dove ciascuno viene a cercare altro cibo per nutrire la

somiglianza a sé (come)medesimo” (Luce Irigaray). ho partorito un

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utero / e / mi ci sono cucita dentro / cercano e non mi trovano /

tracciano perimetri della mia corporeità. L’utero, quale oggetto

parziale, è piuttosto separato da un insieme, dal territorio che esso

occupa e che lo limita. L’autrice ci ha invitato e leggere le sequenze

del poemetto in successione, quindi secondo uno sviluppo in cui ogni

azione sottende quella successiva, ma anche in cui ogni singola azione

mantiene la sua unicità. E conclude affermando che un’estroversione

del corpo ha in sé una natura consapevole, ma non razionale. Ma c’è

la versione del corpo e c’è la versione di chi lo cerca che, di fronte a

questa assenza, a questo vuoto, a questo utero, perviene alla

disperazione del senso. Chiediamo soccorso ancora a Luce Irigaray.

“Ebbene, la donna non è né chiusa né aperta. Indefinita, in-finita, in

essa la forma non è completa. […] L’incompletezza della sua forma,

della sua morfologia le permette di diventare altra cosa, in ogni

momento, il che non vuol dire che sia mai univocamente niente.

Incapace di completarsi in una qualche metafora. Mai questo poi

quello, questo e quello… Sempre in divenire, in un’espansione di sé

che non è e non sarà in nessun momento un universo definibile.” E

infatti, come si dice nel prosieguo del poemetto, non esiste una

versione esatta dei fatti. Tutto si svolge allora in profondità, sotto il

dominio di questa indecidibilità del senso, ma di una consapevolezza

del corpo che ritrova solo nel movimento l’unica azione capace di

attingere l’intimo fondamento per sradicare la propria totalità dalla

parzialità dell’utero. l’utero rotola giù dalle rocce […] il corpo

fuoriesce e si distende in / cerca di umidità. Non vorrei aver attribuito

una coloritura eccessivamente fisiologica a questa radiografia di un

sapere corporale che si svolge nell’astrazione di dati fino a

presupporre domande e questioni che suppongono l’importanza di

attendere un / mese di luna nuova per impiegare / l’esercizio verbale.

Il penutilmo degli atti, quadri, s’intitola e la pagina non scritta, e

personalmente ritengo che tale pagina sia quella pagina non scritta dal

corpo, ma dall’io, dal soggetto consapevole di sé e degli altri, che ci

rimandi agli eventi presi nella loro complessità di relazioni, cioè nella

sostanza che li sottende indipendentemente dalla loro effettuazione

spazio-temporale in rapporto a uno stato di cose, sia pure riducibile a

un evento che altro non è che “l’identità della forma del vuoto”

(Deleuze). E quindi se il vuoto diventa il luogo del senso e la pagina

non scritta, la misura del tutto, non lasciando l’estroversione del corpo

tracce visibili, se non questo nulla di senso – ma questo nulla stesso

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come una cosa dura, splendente nei bagliori della cecità – non

sosprende che l’ultimo atto, quadro, testimoni che l’estroversione del

corpo non è stata altro che un processo di demolizione. l’estroversione

del corpo non ha più testimoni / e / l’azione volge le spalle al

demolito. Il corpo sembra essersi prosciugato e aver perso la capacità

di sentire. Il mondo pare offuscarsi (il vento non ha odori / la frutta

non è più nutrimento) e il corpo sparire senza lasciare tracce. Arrivato

a questa chiusura pessimistica, mi chiedo che cosa abbia voluto dire

Sofia Demetrula Rosati attraverso le sequenze drammatiche de

l’azione è un’estroversione del corpo. Va rilevato che non si parla mai

di desiderio, di piacere o dispiacere, ma solo, a tratti, di paura, di

angoscia, di pienezza e di vuoto, come a voler risalire alle strutture più

arcaiche di un meccanismo pulsionale, o forse, meglio ancora, a una

spinoziana geometria di corpi, in quiete o in moto, determinati alla

quiete o al moto da altri corpi, e dalle reazioni corrispondenti.

Basterebbe questo tentativo di andare oltre le convenzioni di una

narrazione fondata sul rapporto soggetto/oggetto, a rendere

interessante la lettura di un poemetto che, seguendo le istruzioni

dell’autrice, nella lettura ad alta voce, e nell’allungamento della pausa

tra una strofa e l’altra, può essere rivissuto in tutta la sua tensione di

ricerca, sia pure nella fragilità e provvisorietà di una domanda

fondamentale di senso, come si dice in un passaggio tra un atto e

l’altro: eppure la domanda impone importanza. E per la domanda

fondamentale l’estroversione del corpo non è una risposta né un

ambito in cui rispondere, ma ciò che è soprattutto degno di domanda.

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Sofia Demetrula Rosati vive a Roma. È ricercatrice. Collabora con

varie riviste, tra cui “Poesia”, Crocetti Editore. Ha pubblicato su varie

raccolte antologiche e ha partecipato a vari reading di poesia. Traduce

dal greco moderno.

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