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Libertá di Parola 3/2011 —— IL TEMA ILPROGETTO INVIATI NEL MONDO PANKAROCK APPROFONDIMENTO Pordenonelegge.it a pag. 16 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) L' EDITORIALE Parole, strade e storie… che appartengono alla città di Pino Roveredo continua a pagina 4 a pagina 13 a pagina 6 a pagina 2 NON SOLO SPORT "Assalti urbani di poesia" sottopasso stazione Pordenone Una decina di anni fa mi chiamò il Sert di Trieste, e mi offrì una docenza per un corso di scrittura con gli uten- ti del Servizio. Ricordo che sorrisi, ringraziai e respin- si l’offerta. E non lo feci per mancanza di tempo o per snobbare il progetto, quan- to, per l’imbarazzo di chi è consapevole di non avere il titolo e l’altezza morale per interpretare la parte del do- cente. Ma niente, la richiesta continuò a bussare sul mio imbarazzo, e quasi per sfini- mento, riuscì a convincere la mia enorme perplessità. Ricordo come fosse adesso, l’emozione della mia, chia- miamola prima “lezione”. Io, con addosso un’eviden- te sudorazione ansiosa, che entro in una grande stanza, e trovo intorno a un’enorme tavolo dodici ragazzi in atte- sa. Poi, dopo le presentazioni, vedo un’operatrice che distri- buisce dodici fogli e dodici matite, e subito dopo sento la pesantezza di ventiquat- tro occhi puntati su di me. E adesso che faccio? Gli dico di mettere la data, gli do il ti- tolo di un tema, gli propongo un argomento e li spingo a scrivere una fila di pensieri e pensierini? Seguirono cinque minuti di silenzio, e in quel- la pausa capii che se avessi proposto quella forma didat- tica, avrei firmato la condan- na di quella mia breve, mi- nima “docenza”. Così, come quando ti devi salvare, mi passò per la mente la fortu- na di una soluzione: via fogli e matite, e iniziamo un corso di “scrittura parlata”. “Scrittura parlata” che vuole dire usare la parola per muovere una voglia di comunicare, e il bi- sogno di costruire un dialogo buono, d’incrociarsi, scontrar- si, e diventare il protagonista di un’attenzione. Da quegli incontri, e dalla mia docen- za instabile, sono nati molti testi teatrali, ma soprattutto sono diventati il motivo per dare vita a un giornale, “Vo- lere Volare”, che ancora oggi è riconosciuto come il più Dal 14 al 18 settembre torna pordenonelegge.it, la 12° Festa del Libro con gli Autori che è tra i più prestigiosi festival italiani del libro, letto, scritto e parlato. L’evento è promosso dalla locale Camera di Commercio, con il sostegno di Regione, Provincia, Comune, Fondazione Crup, Pordenone Fiere, Banca Popolare FriulAdria e Cinemazero. Come nel 2009, anche I Ragazzi della Panchina hanno voluto dare il loro personale punto di lettura. a pagina 7 Pietro Mennea "Campione è chi vince senza doping" Montagna terapia per condividere le salite Serbia, tu che mi hai rubato il cuore Ben Harper, cuore e istinto in scena al No Borders Festival a pag. 16 Il falco, che passione IL LABORATORIO Teatro, buona la prima a pagina 14

LDP 03/2011

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Libertà di Parola il trimestrale di informazione de I Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Libertá di ParolaN°3/2011 ——

IL TEMA

ILPROGETTO

INVIATI NEL MONDO

PANKAROCK

APPROFONDIMENTO

Pordenonelegge.it

a pag. 16

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDITORIALE

Parole, strade e storie… che appartengono alla cittàdi Pino Roveredo

continua a pagina 4

a pagina 13

a pagina 6

a pagina 2

NON SOLO SPORT

"Assalti urbani di poesia" sottopasso stazione Pordenone

Una decina di anni fa mi chiamò il Sert di Trieste, e mi offrì una docenza per un corso di scrittura con gli uten-ti del Servizio. Ricordo che sorrisi, ringraziai e respin-si l’offerta. E non lo feci per mancanza di tempo o per snobbare il progetto, quan-to, per l’imbarazzo di chi è consapevole di non avere il titolo e l’altezza morale per interpretare la parte del do-cente. Ma niente, la richiesta

continuò a bussare sul mio imbarazzo, e quasi per sfini-mento, riuscì a convincere la mia enorme perplessità. Ricordo come fosse adesso, l’emozione della mia, chia-miamola prima “lezione”. Io, con addosso un’eviden-te sudorazione ansiosa, che entro in una grande stanza, e trovo intorno a un’enorme tavolo dodici ragazzi in atte-sa. Poi, dopo le presentazioni, vedo un’operatrice che distri-buisce dodici fogli e dodici matite, e subito dopo sento la pesantezza di ventiquat-tro occhi puntati su di me. E adesso che faccio? Gli dico di mettere la data, gli do il ti-tolo di un tema, gli propongo un argomento e li spingo a scrivere una fila di pensieri e pensierini? Seguirono cinque minuti di silenzio, e in quel-la pausa capii che se avessi

proposto quella forma didat-tica, avrei firmato la condan-na di quella mia breve, mi-nima “docenza”. Così, come quando ti devi salvare, mi passò per la mente la fortu-na di una soluzione: via fogli e matite, e iniziamo un corso di “scrittura parlata”. “Scrittura parlata” che vuole dire usare la parola per muovere una voglia di comunicare, e il bi-sogno di costruire un dialogo buono, d’incrociarsi, scontrar-si, e diventare il protagonista di un’attenzione. Da quegli incontri, e dalla mia docen-za instabile, sono nati molti testi teatrali, ma soprattutto sono diventati il motivo per dare vita a un giornale, “Vo-lere Volare”, che ancora oggi è riconosciuto come il più

Dal 14 al 18 settembre torna pordenonelegge.it, la 12° Festa del Libro con gli Autori che è tra i più prestigiosi festival italiani del libro, letto, scritto e parlato. L’evento è promosso dalla locale Camera di Commercio, con il sostegno di Regione, Provincia, Comune, Fondazione Crup, Pordenone Fiere, Banca Popolare FriulAdria e Cinemazero. Come nel 2009, anche I Ragazzi della Panchina hanno voluto dare il loro personale punto di lettura. a pagina 7

Pietro Mennea"Campione è chi vince senza doping"

Montagna terapia per condividere le salite

Serbia, tu che mi hai rubato il cuore

Ben Harper, cuore e istinto in scena al No Borders Festivala pag. 16

Il falco, che passione

IL LABORATORIO

Teatro, buona la primaa pagina 14

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IL TEMA

“Cerca di recuperare, recupe-ra - recupera - recuperaaa… Ha vinto! Ha vinto! Straordi-naria impresa di Mennea”. Ancora ci risuona nella me-moria la voce di Paolo Rosi, indimenticato telecronista Rai che in un crescendo di enfasi accompagnava il rush finale del barlettano (come lui stes-so amava chiamarlo) nella finale olimpica di Mosca, del 1980, nei 200 metri piani. Pie-tro dopo una disgraziata par-tenza, seppe dare vita nel ret-tilineo finale ad un recupero che non ha eguali nella storia dei 200 metri. Fu una gara di quelle che fanno sentire fieri di essere italiani. Su quella pista, in quel fantastico finale, un popolo intero ha palpitato serrando ranghi e pugni da-vanti all’impresa che lenta, ma inarrestabile, si consuma-va splendidamente sotto gli occhi di tutti fino all’ovazione finale della vittoria. Così forte e liberatoria che sembrava spingesse Pietro a macinare ancora la pista dopo l’arrivo, con il suo emblematico indi-ce dritto, ancora una volta alzato al cielo in un ennesi-mo inequivocabile “uno”. Per vent’anni questo signore ci ha regalato il piacere di essere italiani, e in uno sport spesso fatto di atleti meteore che si “consumano” in poche stagio-ni. Che il mondo vedesse i suoi muscoli in azione duran-te la corsa, il suo volto detur-pato da smorfie di cattiveria agonistica mentre da solo braccava avversari e risulta-to, ci piaceva tanto quanto le sue imprese. Ed era un piace-re esclusivo per noi, di quelli semplici e puri, perché mai nessuno ha dubitato delle doti del barlettano: classe cri-

Vent’anni è durata la para-bola di Pietro Mennea nel grande circuito dell’atletica mondiale, in specialità così violente come sono le gare di velocità che si consumano in pochi secondi. Ha appeso le fatidiche scarpette al chiodo

stallina, serietà e ostinazione nel raggiungere gli obiettivi così ostinata da sconfinare nella cocciutaggine. In un periodo storico in cui le positi-vità al doping balzavano da un grande caso all’altro (per non parlare dei sospetti), in un momento sportivo carat-terizzato da atleti che inspie-gabilmente scomparivano dalle piste per poi ripresentar-si ai blocchi di partenza con strabilianti “nuove” possenti corporature, lui, il barlettano bianco, era per tutti un simbo-lo di acqua e sapone. Pietro Mennea è considerato l’atle-ta al mondo che si è allenato di più. Lo stesso Valery Borzof, l’ucraino suo storico rivale di allora, dice che Mennea era un atleta ben allenato. Eppu-re in vent’anni di attività ha guadagnato solo pochi etti di massa muscolare. Tra i suoi segreti dunque vanno ricer-cati, senza timore di smentita, l’impegno di essersi dedica-to completamente alla sua causa, ed un carattere mai domo. Prima dell’intervista mi chiedevo che fine avesse fat-to questo temperamento che così bene lo aveva portato a fare nello sport, se c’era an-cora o se era sparito assieme al campione con la fine del-la sua carriera sportiva. Chi è ora Pietro Mennea nella vita di tutti i giorni? E come si ci-menta in quello che fa? Vi posso anticipare che più volte, nel corso della nostra chiac-chierata, mi sono sentito dire: “Io quello che faccio lo faccio bene”. Allora dopo doverosi ringraziamenti per tutto quello che ci ha regalato, posso dire che il campione non è morto, esiste ancora. Ha solamente cambiato specialità.

Avvocato, commercialista, studioso di diritto, Pietro Pao-lo Mennea, è anche scrittore prolifico. Tra i suoi libri l'in-dimenticato campione dei 200m con un record mondia-le durato qualcosa come 17 anni, importanti sono quelli che danno un contributo sul fronte del doping: "Il doping nell'Unione europea", "Il do-ping nello sport" e l’ultimo in ordine di tempo “La storia del doping”. E' questo infat-ti un tema che l'ex sprinter sente in modo particola-re: trascurato dai più negli anni recenti e sottovalutato soprattutto perché relega-to nell'ambito dello sport maggiore, quello agonistico e professionistico. Il doping invece rappresenta oggi un

problema sociale e di salute pubblica proprio per la sua diffusione a macchia d'olio fra giovani e giovanissimi di tante discipline, arrivando ad interessare perfino bam-bini e adolescenti dagli 8 ai 17 anni. Il volume. Tutti i libri di Mennea sono acquistabi-li rivolgendosi alla “Fonda-zione Pietro Mennea Onlus” www.fondazionepietromen-nea.it. E’ una delle più attive del paese e - piccola gran-de curiosità - annovera tra i suoi numeri anche un re-cord: è infatti la Fondazione che dona più libri ovunque nel mondo. Un altro primato “alla Mennea”, il barlettano bianco che non ha perso il vizietto dei record, neanche nella vita.

Scrivere di doping

dopo aver partecipato alla bellezza di cinque Olimpiadi: da Monaco 1972 a Seul 1988. Pietro Paolo Mennea non ha dubbi nel raccontare del suo ventennio di agonismo, come della miglior prova antido-ping. “Il campione lo si vede

Con il dito puntato al cieloPietro Mennea, serietà e ostinazione di Guerrino Faggiani

Vent'anni da campione, la migliore prova antidoping "Non sono nato predestinato. Tut-to ciò che ho costruito è il risulta-to del lavoro e dell'impegno" di Guerrino Faggiani

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dalla continuità del rendimento e dalla longe-vità - afferma -. Ci sono degli atleti invece che dopo un grande appun-tamento scom-paiono. Pensi che nelle quattro finali olimpiche che ho disputato, in sole due edizioni ho incontrato lo stesso avversario: Don Quar-rie, nel 76 a Montreal e nell’80 a Mosca. Per il re-sto gli avversari sono sem-pre cambiati”.

Il doping al giorno d’oggi è una piaga diffusa o piuttosto circoscritta?“È sempre stato una piaga e sempre lo sarà, non è debel-labile perché il mondo è fat-to di furbi, così è anche nello sport che è un settore sociale in cui i furbi vogliono emer-gere. Ma questo non ci esi-me dal mettere ugualmente in campo contro di loro una lotta molto dura, perché que-sto modo di comportarsi va a ledere la credibilità di un settore che si basa su deter-minate regole. È sempre stato una piaga, il furbo c’è sempre stato”. Quale può essere il messag-gio adatto a trasferire moti-vazioni giuste ai ragazzi af-finché seguano concetti sani nello sport e nella vita? “Io dico che bisogna prova-re nella vita, qualsiasi cosa

si faccia: sport, studio, lavoro. Bisogna provare. Poi può an-dare male, ma bisogna ri-provare ancora. Io non sono nato predestinato a diventare campione, tutto quello che ho costruito l’ho costruito attra-verso il lavoro e l ’ im- pegno. M i a l le -

n a -vo

5 o 6 ore al gior-no per 350 giorni all’anno, gareg-giavo da maggio a settembre, ho sempre parteci-pato ai grandi eventi, non ne ho mai saltato uno, e non ho mai sofferto di strappi muscolari. Tutto questo è stato

possibile proprio gra-zie alla bontà dello

stile di vita e del lavoro che svolgevo. Con que-

sto impegno e dedizione sono arrivato dove altri

hanno fallito. Lo sport inse-gna che la superficialità non paga”. Mennea quando ha smesso la carriera sportiva aveva le idee chiare su cosa fare nel-la vita?“Si, mi ero già preparato le basi per fare quello che ora sto facendo: svolgo attività professionale. Sono avvocato e dottore commercialista”. Ma come ci è riuscito a lau-rearsi, quando ha trovato il tempo per studiare?“Mentre ero in attività, nei campi di atletica portavo an-che i libri e quando potevo mi mettevo a studiare. Ho conse-guito il diploma Isef e poi pia-no a piano, strada facendo, mi sono laureato: prima in Scienze politiche, poi in Leg-ge, in Scienze motorie ed in Lettere. Per cui ora svolgo libe-ra professione. Ho pubblicato anche dei libri, l’ultimo uscirà in questi giorni: si intitola “La

grande storia del doping”. Preceduto nel tempo da saggi e opere giuridiche inerenti ai diritti e doveri dello sport”. Se fosse al Coni cambiereb-be qualcosa?“No guardi, lasciamo stare il Coni, faccio molto di più con la mia Fondazione. È un orga-nismo che risponde ancora ai vecchi modi di fare politica, è un carrozzone sempre con la stessa gente che assorbe dai contribuenti 470 milioni di euro l’anno, è una truffa. È l’or-ganismo sportivo più ricco al mondo, più ricco della Cina e degli Stati Uniti. Io viaggio molto e quando vado all’e-stero mi chiedono se siamo rimasti in pochi nel nostro pa-ese perché vedono sempre le stesse facce”. Quando è nata l’idea della Fondazione?“Si può dire che di beneficen-za ne faccio da sempre, ora con la fondazione partecipo con contributi a cause enormi. Con mia moglie, avvocato anche lei, curiamo l’aspetto giuridico e operiamo a 360 gradi ovunque possiamo es-sere utili. Ma noi in qualsiasi campo ci mettiamo, quello che facciamo lo facciamo bene, con grande responsa-bilità e grande impegno, e ne siamo orgogliosi. Proprio in questi giorni abbiamo contri-buito a favore di una associa-zione di medici che aiutiamo da anni, che sono in Libia ad intervenire chirurgicamente su bambini rimasti deturpati dal-la guerra”.

Lotta al doping, ovvero lotta all’uso e abuso di sostanze o medicinali con lo scopo di aumentare artificialmen-te il rendimento fisico e le prestazioni dell'atleta, in particolare in sport di re-sidenza. Su questo fronte sono impegnati il Ministero alla Salute e le Federazio-ni sportive, in sinergia con l’Agenzia mondiale anti-doping (Wada), istituzione del Comitato olimpico inter-nazionale, al cui protocollo il nostro paese ha aderito. Anti-doping significa nella pratica una complessa pro-cedura di controlli sanitari sugli atleti effettuati da par-te di istruttori antidoping con funzioni di pubblici ufficiali,

cui fa capo il Ministero stesso e alle quali accedono per lo più le Federazioni, con costi non indifferenti. Alla luce di ciò, interrogarsi sul fenomeno doping nella nostra realtà di piccola provincia, al momen-to priva di squadre sportive professioniste, subisce gioco forza un ridimensionamen-to sull’originale intenzione di tracciare una fotografia tanto realista, quanto completa di tutto lo sport locale. “Si può comunque e tranquillamen-te dire che lo stato di salute del nostro mondo sportivo – è il quadro che traccia per noi il dottore Ferdinando Agrusti, presidente del Comitato del-la Federazione Medico spor-tiva del Friuli Venezia Giulia

La nostra isola felicedi Milena Bidinost

– è sostanzialmente sano. Ad oggi infatti a Pordenone non sono stati riscontrati casi di atleti implicati in doping”. Por-denone è quindi un isola feli-ce, nella misura in cui entra in gioco il sistema antidoping. “I controlli – spiega Agrusti che è anche a capo dell’As-sociazione medico sportiva di Pordenone - vengono chiesti dalle Federazioni a fronte di casi sospetti e l’autorizzazio-ne è data dal Ministero della Salute, che nomina gli istrut-tori scegliendoli all’interno di una lista di medici sportivi opportunamente formati. Si capisce quindi come tutto ciò finisca per interessare lo sport professionale dei maggiori nomi, per lo più nazionali, e lasci fuori il resto”. Unica ec-cezione la fa il ciclismo dove l’antidoping, anche da noi, è entrato in gioco anche per atleti non professionisti. “Qui

a richiedere in un certo sen-so una maggiore attenzione da parte delle società – fa notare Agrusti – è la tipo-logia della disciplina, sport per sua natura di resisten-za fisica”. Lotta al doping, ovvero lotta all’uso e abuso di sostanze è anche lotta alla dipendenza. A restar-ne fuori, poiché sta al limite tra sport e società e poiché soprattutto è esterno ai cir-cuiti istituzionali, è piuttosto il mondo delle palestre, che della prestanza fisica fanno spesso più un culto che non un’etica. “E’ impossibile dare dei dati – dice il presidente – in quanto in queste struttu-re private è difficile arrivare con i controlli. Gli anaboliz-zanti entrano nelle palestre attraverso il mercato virtua-le di internet, che non chie-de prescrizioni mediche, né piani terapeutici”.

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CELOX

Obiettivo lavoro: è questo un problema di non poche persone, dato che riguarda tutte le fasce d’età. Chi oggi si trova tuttavia in maggiore difficoltà sono le persone tra i 45 e 60 anni, che incontrano seri problemi nella ricerca di un lavoro. L’avvento di operai stranieri ha saturato il mer-cato da un lato e svalutato dall’altro le conquiste fatte in

Contrariamente a come può far credere il titolo non è una fiaba e non c’è nessun lieto fine; è solo un doveroso cen-no ai fatti di luglio 2001 ed il G8 di Genova. Una delle pagine più tristi e nere degli ultimi decenni, per l’Italia e credo per le democrazie in

generale. Ancora oggi, a di-stanza di dieci anni, ci sono un sacco di punti oscuri, col-pevoli che sono stati protetti e innocenti che hanno subi-to. Per l’occasione sono stati dedicati degli speciali alla tv su Rai 3, ma ovviamente in fasce orarie un po’ lontane

dal grande pubblico. Ancora una volta sono emersi punti oscuri, palleggio di respon-sabilità e tutta una serie di atteggiamenti e meccanismi che ben poco han a che fare con la democrazia. Ma cosa voleva essere il G8? A par-te l’incontro tra potenti della terra per decidere e stabilire (ma chi glielo ha chiesto? E per fare l’interesse di chi?) cosa significava il G8 per i tanti gruppi che erano ar-rivati lì a manifestare il loro dissenso? Perché le cose hanno preso una determina-ta direzione invece di mante-nersi su un piano di semplice contestazione? Partiamo col dire che molte cose non sono andate come avrebbero do-vuto; la tensione era già alta prima che tutto avesse inizio. Il fatto che alcuni avessero promesso di violare la zona rossa (le zone della città pre-cluse ai manifestanti) non ha certo contribuito a portare se-renità; che tutto fosse un bluff o verità poco importa. Le “forze dell’ordine” (o del di-sordine?) erano mal assortite e non molto ben coordinate (sto usando un eufemismo). Secondo l’intervista rilasciata da uno dei capi coordina-tori della polizia, avevano mandato lì troppi giovani che di solito prestano servizio allo stadio e sono abituati a tutt’altro clima; questi hanno una visione un po’ limitata dell’altro e lo percepiscono come un nemico ed agi-scono di conseguenza. Che

C'ERA UNA VOLTA IL G8 DI GENOVAA dieci anni dal vertice dei potenti della Terra ancora poche le luci e troppe le ombredi Emanuele Celotto

L'OBIETTIVO

passato in termini di salaria-to e di dignità operaia. Negli anni Settanta, in tempi di lot-ta di classe, il sindacato tute-lava i diritti degli operai. Ora sembra che tutto questo sia svanito. La disoccupazione la fa da padrona, la nostra classe politica è allo sfascio, più propensa agli scandali rosa che non a governare con utilità il paese. La gen-

Lavoro, avere 50 anni nel tempo della crisiQuando si è vecchi per lavorare ma non per andare in pensione di Giuseppe Micco

importante giornale di strada di Trieste. Dopo alcuni anni, grazie alla frequentazione con i Ragazzi della Panchi-na, e grazie alla bellezza dei messaggi lasciati sul compu-ter o attaccati sulla parete della sede di via Grigoletti, nacque l’idea di costruire un giornale di strada anche a Pordenone. A dire il vero, qualche tempo prima c’era già stato un tentativo malde-stro da parte di un respon-sabile del Servizio, tentativo che, senza l’umiltà dell’ascol-to e della parola, si vide co-stretto a chiudere l’intenzione per mancanza del contribu-to di scritture parlate e scrit-te. Però, tre anni fa, con la convinzione di poter essere i narratori della propria pelle, con tutto il bagaglio di fatica e sofferenza che si è costretti a trascinarsi dietro, ci siamo decisi e abbiamo proposto la nostra urgenza all’allora sindaco Sergio Bolzonello. L’incontro, mi ricordo, è du-rato dieci minuti: cinque per esporre l’ipotesi, quattro per discutere la sua importanza, e uno per incassare l’assenso e il contributo. Ecco, e lì, gra-zie all’entusiasmo dei ragazzi, la volontà di Ada e Guerri-no, e al sostegno essenziale della giornalista Milena Bidi-nost, che è nato “Ldp” (Liber-tà di Parola). E sono tre anni che “Ldp” vive, si racconta, cresce. Tre anni importan-ti dove i ragazzi e gli amici della Panchina raccontano agl’occhi della gente, gli spi-goli della vita, i saluti senza fine, i risvegli, le cadute, e la gioia delle piccole grandi vittorie. Tre anni con anche il prestigio di essere riconosciuti nei passaggi delle Bibliote-che, nell’attenzione di eventi come quello di “pordenone-legge.it”, ma soprattutto nella bellezza di vedere l’orgoglio delle nostre scritture infilate nella curiosità della gente, e di pagine che girano nel-le scuole, nelle sale d’aspet-to, per strada, in treno… Tre anni per non dimenticare, e per non essere dimenticati, e per scrivere, parlando, le storie che appartengono alla città. Grazie ragazzi e grazie Pordenone.

te è stufa. A Pordenone ab-biamo appena concluso le elezioni politiche. Tante le promesse: più lavoro, meno tasse, avanti tutta. Il proble-ma per chi come me, in que-sti tempi di crisi, ha 50 anni, un lavoro precario e una pensione ancora lontana, è l’umiliazione di chi è vecchio oramai per il mercato del la-voro, ma troppo giovane per fare il pensionato. Una situa-zione di limbo dalla quale è difficile tirarsi fuori, senza che qualcosa nel nostro siste-ma sociale, di assistenza e di collocamento professionale, cambi rispetto all’attuale. Il presente secondo me non è affatto confortante: io alme-no mi ritengo fortunato di aver vissuto gli anni miglio-ri in un ambiente naturale e umano per così dire “meno inquinato”, dove i valori era-no più sentiti e gli anziani,

L' EDITORIALE

Parole, strade e storie… che appartengono alla cittàdi Pino Roveredo

segue dalla prima pagina

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DICONO DI NOI

Pordenone, viale Grigoletti numero 11: qui è iniziata un’espe-rienza di vita che mi ha portata a conoscere il mondo del-la tossicodipendenza e soprattutto loro, i tossicodipendenti. Mi piace definire questa esperienza come “il gioco della soprav-vivenza”: o reagisci o sei fuori! Non è un gioco che ha delle regole precise, richiede tempo, studio dei partecipanti e una veloce reattività. Qui sei messo alla prova prima da loro e poi da te stesso, è un gioco strano che mi ha permesso di essere una persona diversa da quella di sempre; è un gioco che, una volta capito, mi rendeva "serena". Così ho iniziato a piano a piano ad instaurare delle piccole conversazioni con gli utenti che frequentavano la sede: mi hanno aiutato a comprendere i loro dolori, le loro paure e le loro bugie. Dopo quest’esperienza credo fortemente che un tossicodipendente sia una persona che, come tutti, è in grado di scegliere liberamente e autono-mamente lo stile di vita da seguire e che, quindi, non debba essere “etichettato” necessariamente come una persona debo-le. E credo, ancora, che non ci sia risposta alla domanda: “Chi è un tossicodipendente?”. Ognuno ha la sua storia, la sua vita, il suo punto di vista che lo rende tanto diverso da tutti gli altri da farmi sembrare così banale e ingiusto il giudizio a priori nei suoi confronti. Se dicessi che ho conosciuto tossicodipendenti che hanno scritto un libro o che hanno vinto premi di poesia quanti mi crederebbero? Forse qualcuno, ma sono sicura che la mag-gior parte delle persone rimarrebbe sbalordita. Si resta sbigottiti scoprendo che un “tossico” può scrivere un libro o può vincere premi di poesia. Accade spesso, dunque, di relazionarsi prima con l’etichetta “tossico” che non con la persona in quanto tale: in questo modo i nostri pensieri e comportamenti non cambie-ranno mai di fronte a due, tre, dieci soggetti che ai nostri occhi saranno sempre dei “tossicodipendenti”. Inconsapevolmente “schiavi di questo meccanismo” scriviamo anticipatamente un futuro che non conosciamo e riportiamo il soggetto entro certi schemi o barriere mentali che difficilmente verranno superate. A Pordenone, viale Grigoletti numero 11, ho scoperto che è di-verso il motivo per cui ognuno si avvicina al mondo della dro-ga: c’è chi lo ha fatto per compensare un grande dolore o chi per il puro piacere di farlo. Inoltre sono diverse anche le droghe utilizzate, tanti, ad esempio, accostano anche l’alcol alla droga. Ci sono così tante dinamiche differenti, contrastanti e complesse da non permetterci di definire “il tossicodipendente”. Le emo-zioni che si provano “giocando” non le posso descrivere. Non ho parole nemmeno per raccontare ciò che ho provato l’ultimo giorno di tirocinio di fronte ad un cartellone con su scritto “Sei stata preziosa per noi”. In una realtà come la sede de I Ragazzi della Panchina dove ero arrivata con l’obbiettivo di “cercare di tollerare” fino alla fine quel tirocinio, quelle parole scritte nero su bianco sono state per me un successo inaspettato che non potrò dimenticare. Grazie, dunque, a Stefano, Chiara, Ada, Gigi e a tutti i Ragazzi della Panchina per quanto hanno fatto per me e per il chiaro esempio di sensibilità, coraggio e forza che danno alla società intera.

Il gioco della sopravvivenza

dire dei black bloc? Giovani scontenti ed incazzati? O an-che infiltrati dell’ultima ora come suggerisce qualcuno? Di sicuro non è stato fatto alcun filtro e non vi è stata nessuna collaborazione con le polizie di altri paesi per fermare le “teste calde” che venivano da oltre confine. Mentre i black bloc si orga-nizzavano strappando il pe-rimetro di ferro che circonda le aiuole, i “nostri” stavano a guardare. Quando sono pas-sati all’azione, rapidi e spie-tati, per poi dileguarsi, non hanno trovato di meglio che caricare la folla inerme e pa-cifica che manifestava lì vici-no. Scene che si sono seguite per un paio di giorni con una escalation di violenze e sono culminate con la morte di Carlo Giuliani e le tristi pagi-ne della caserma Bolzanetto e le manganellate assortite ed i fatti della Diaz. Cariche,

pestaggi, lacrimogeni e tutto il repertorio che può offrire una dittatura del Sudameri-ca stile anni ’70, cioè sospen-sione totale dei diritti di uno stato democratico. Dopo die-ci anni esatti, ancora poche le responsabilità accertate, pochi i colpevoli che hanno pagato, tante le domande senza risposta e tanti i brutti ricordi per molta gente. Chi era andato a Genova vole-va solo manifestare in modo pacifico e dire che un altro mondo, oltre all’interesse dei potenti e del danaro, è pos-sibile. Davvero è stata colpa dei black bloc, se le cose sono degenerate? Oppure tutte quelle persone mosse da un ideale un po’ più alto avevano spaventato i poten-ti? Purtroppo le risposte non ci sono nè (molto probabile) le avremo mai. Si! C’era una volta il G8….e speriamo che non ci sia più.

ad esempio, insegnavano la vita. Oggi non mi sembra più così: la crisi occupazionale poi ha enfatizzato ed accele-rato tutto, per molte cose in peggio. Personalmente non so cosa mi riserva il futuro: a 50 anni, con lavori precari, con ancora voglia di essere utile e bisogno di guada-gnare, ma con sempre più difficoltà a trovare lavoro mi

riduco a vivere solo per il presente. Vivo tuttavia sen-za abbandonare l’idea che la vita non può essere solo lavoro, o a voler contestualiz-zare il tutto nel presente, solo preoccupazione per il lavoro. E quindi con la speranza che, passato il peggio, il lavoro torni ad essere una delle tan-te parti della vita di ciascuno di noi.

Le mie 250 ore di tirocinio con RdPdi Serena Filieri

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Da alcuni anni la montagna sta diventando uno strumento attraverso il quale recuperare abilità perse o mai costruite. Sono state condotte esperien-ze nell’ambito della salute mentale, sia in Italia che in altri paesi europei, che hanno dimostrato come la frequen-tazione dell’ambiente mon-tano possa rappresentare un fattore di equilibrio e di adat-tamento. All’interno della così detta “montagna terapia”, una sezione del Cai (Club al-pino italiano), l’attività escur-sionistico/alpinistica condot-ta da operatori competenti, sia in ambito psico-sociale sia in ambito alpinistico, può promuovere un’integrazione mente/corpo e l’acquisizione di competenze sociali e re-lazionali. Per questo motivo sono state contattate tutte le sezioni Cai della provincia di Pordenone. Alla nostra pro-posta hanno aderito solo le sezioni di Sacile e di Spilim-bergo che qui ringrazio per il grande apporto che stanno dando al progetto e in gene-rale a tutta la cittadinanza. La nostra sfida è utilizzare lo stru-mento “montagna” per agire a tre livelli rispetto al proble-ma della dipendenza da sostanze psicoattive. Il primo riguarda gli adulti, incidendo

É il percorso di "montagna terapia" del Dipartimento Dipendenze di Pordenone, in collaborazione con i Cai di Sacile e Spilimbergo

LEGATI MA LIBERI, PASSO DOPO PASSO

dott.ssa Roberta Sabbion, dirigente del Dipartimento Dipendenze

IL PROGETTO

sulla corretta informazione e quindi cercando di modifica-re il pregiudizio che si ha nei confronti della tossicodipen-denza. Tale pregiudizio deri-va dall’immagine che questi soggetti presentano al mon-do, immagine che non sem-pre riflette la vera sostanza degli stessi. Il secondo livello interessa i giovani tra i 18 e i 25 anni, promuovendo sa-lute e quindi la prevenzione rispetto alla possibilità di ricor-rere a sostanze psicoattive per affrontare o risolvere momenti difficili della vita. Infine il terzo, quello dei soggetti con pro-blemi di sostanze psicoattive con un obiettivo più terapeu-tico-educativo. In questo caso la grande opportunità che il progetto offre sta nel fatto di poter imparare, attraverso la realtà della montagna, come

superare momenti difficili della vita senza ricorrere ne-cessariamente alle sostanze stupefacenti; di sperimentare emozioni forti senza l’uso di sostanze e di stare con gli al-tri senza alcuna mediazione chimica. Per questi soggetti è una opportunità per conosce-re persone fuori dal solito giro, persone però che conoscono in maniera corretta il proble-ma e non sono manipolabili a fini diversi da quelli offerti dall’esperienza che si sta fa-cendo in montagna. Se que-sta esperienza, inoltre, viene offerta a chi sta rientrando da un percorso fatto in comunità terapeutica, consente di con-solidare un percorso attraver-so un reinserimento guidato, risorsa che fino ad ora manca in questo territorio ed è spes-so fonte di ricaduta nell’uso di

sostanze. Per adulti e giovani adulti verrà fatta una forma-zione specifica. La formazione degli adulti avverrà in due giornate consecutive ripetute due volte, fatte in una casera con lezioni frontali e con lavo-ri di gruppo sui temi elenca-ti nella prima fase. I docenti saranno operatori dei servizi socio-sanitari, del Cai e non. La formazione dei giovani adulti invece si svolgerà sem-pre in ambiente montano e prevederà una giornata per tema previsto. Il tema sarà oggetto di formazione anche per gli adulti. Le lezioni saran-no tenute da personale com-petente del Cai e del settore socio-sanitario e affronteran-no una parte teorica riguar-dante l’argomento del giorno, sia rispetto alla montagna, sia rispetto alla “vita” di ognuno di noi cercando di trasferire quanto avviene in montagna (sia essa parete di roccia sia un sentiero nel bosco) alla vita quotidiana. L’obiettivo è l’identificazione di strumenti personali in grado di aiutarci a superare le difficoltà della parete e della vita. La parte terapeutica con i soggetti di-pendenti da sostanze viene gestita prevalentemente dagli operatori del Dipartimento di-pendenze. La presenza degli adulti e dei giovani, riguarda l’esperienza pratica in mon-tagna e la possibilità di poter condividere quanto appreso dalla formazione con chi ha un problema di dipendenza. Per partecipare al progetto è obbligatoria, per ragioni assi-curative, l’iscrizione al Cai di residenza.

Ho faticato anni a costruirmi una corazza di sicurezze per difen-dermi dalle paure e dai rischi. In poche ore invece ho comin-ciato a mettere tutto in discussione vivendo un bellissimo fine settimane in montagna. Certe parole mi erano già passate per le orecchie, ma forse non ero ancora pronto per coglierle. Seguen-do le prime regole del gruppo mi son trovato a chiacchierare con sconosciuti senza paura del giudizio altrui, senza preconcetti

ma con molta sincerità. In un attimo parole già sentite son entrate e han sostato dentro di me: Serve che mi perda per ritrovarmi, Se voglio migliorarmi devo mettermi in gioco, rischiare! E io che pen-savo di essere pronto ad affrontare nuove sfide protetto dal mio scudo. Ero sicuro di poter cogliere mille opportunità senza do-vermi esporre. Invece una breccia si è immediatamente aperta ascoltando chi, con molta passione, ci parlava di arrampicatori che mettendosi in gioco riescono a superare passaggi impossibili o scalatori che compiono imprese eroiche conoscendo e rispet-tando i propri limiti. Aggiungete a queste semplici picconate un sorriso di un compagno, una pacca sulla spalla di Gigio, la con-divisione di un vissuto o un bel gioco di gruppo e capirete come la mia corazza si sia sciolta come burro al sole. Tutto questo è sta-to possibile grazie ad una bella atmosfera che si è creata fin da subito. La condivisione della fatica durante le camminate, l’adat-tamento di tutti alle “comodità” della montagna, il divertimento di una pausa di gruppo e soprattutto il privilegio, una volta rientrati in casera, di recuperare forze e sorrisi con una deliziosa grigliata, un sano bicchiere di vino e una schitarrata sotto le stelle. Il di-spiacere è arrivato nel pomeriggio di domenica al momento dei saluti. Sarebbe servito un bel lunedì di Pasquetta per continuare la magica escursione. Due le impressioni che si sono fissate in me: la figata di non essere concentrato sulla meta, ma di poter godere del camminare assieme. Quindi il fatto che abbiamo fa-ticato, ci siamo confrontati e divertiti, qualcuno era stonato e altri hanno russato ma eravamo comunque tutti cotti ma felici . Che è più o meno l’obiettivo del progetto. Chi ben comincia......

Condividendo la salitadi Luca Fornasier

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L'APPROFONDIMENTO

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L'APPROFONDIMENTO

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IL PIACERE DI UN LIBROdi FRANCA MERLO

Quando scrive il Decameron nel 1350, Giovanni Boccaccio pen-sa alle donne e a loro dedica il suo capolavoro. Si tratta di donne della borghesia, che non si limitano alle faccende domestiche ma sanno leggere e sono in grado di apprezzare un romanzo. Sono il suo pubblico ideale in quanto, come donne, vivono pro-fondamente il sentimento amoroso ma nella società hanno una serie di limitazioni e non possono uscire di casa e svagarsi. E se la vita riserba loro la delusione d’amore, la soffrono con maggiore intensità rispetto all’uomo e vivono la loro pena tutte chiuse in se stesse, non potendo contare sulle distrazioni della politica, del commercio, della caccia, del gioco con gli amici. Ecco allora il romanzo, quasi una realtà virtuale, parallela a quella reale ma altrettanto ricca di avventure, di intrecci strani ed imprevisti, di passioni e sentimenti a volte corrisposti a volte no, di soluzioni trovate grazie all’ingegno e all’inventiva. La lettrice è presa per mano e condotta fuori dalle quattro mura domestiche, a visitare un mondo più vasto e interessante. Oggi le donne non sono relegate in casa, ma la lettura rimane sempre un modo di co-noscere il mondo. E’ un viaggio fatto con l’immaginazione e con l’intelligenza, che a volte ci mostra un reale più vero del reale. Ci permette di conoscere la psicologia dei personaggi, sviscera le situazioni nelle loro dinamiche interne e ne mostra risvolti a cui da soli forse non arriveremmo. Il libro è un “tu” con cui con-

frontarsi: leggere e farsi leggere. Tu leggi il libro ma anche il libro legge te, perché muove sentimenti e riflessioni sulla vita, sul mondo, sull’uomo e ti rivela aspetti di te stesso che forse non pensavi di avere. Si legge, oggi? O la lettura è stata sostituita dalla televisione, dal computer, dai giochi elettronici? Sì, fortuna-tamente si legge ancora ed anzi qui da noi pordenonelegge.it dimostra, anno dopo anno, che l’incontro con gli autori è gradito e atteso. C’è speranza per l’Italia, finché c’è qualcuno che ama confrontarsi col libro. Sono esagerata in questo giudizio? Mah. Penso alla pseudo-cultura che da parecchi anni ci è instillata attraverso i mass media, quotidianamente, ad offuscare la nostra intelligenza, a spegnere la nostra dignità. La vita sentimentale e sessuale dei vip, la cronaca nera dettagliata e ripetuta fino all’os-sessione, s’impongono ed oscurano l’interesse per la vita politica e civile. La paura del diverso, anziché essere combattuta, viene alimentata. Anche nei giornali, la passione per il grande scoop e le indagini approfondite sembra essere svanita.Ma allora, i lettori sono stati addomesticati? Non tutti, fortunata-mente e la varietà di libri molto letti lo dimostra: romanzi, ma anche saggi e scritti di politica, di ecologia, di vita civile. Un vivo grazie a pordenonelegge.it e a chi lo promuove: è un soffio di cultura che entra tra la gente in modo nuovo, attraverso l’incontro personale e lascia in mano un libro come oggetto di piacere.

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YASMINA KHADRA

Quel che il giorno deve alla notteMondadori, 2010

"A ottant’anni il nostro futu-ro è dietro le spalle. Di fronte c’è solo il passato”. Ho imma-ginato, sfogliando le ultime pagine di questo libro, di non averlo letto affatto ma di aver ascoltato per tutto il tempo la voce di un uomo che, ormai vecchio, esordisce con questa frase, riattraversa la sua storia frugando tra i ricordi e dopo una corsa tra i campi di grano dell’infanzia decide di fermarsi e iniziare a raccontare. Younes è un bambino di 9 anni che vive in Algeria; il mondo stretto tra i confini della famiglia e di quell’universo biondo, al qua-le il padre, contadino instan-cabile, dedica ogni attenzione e fatica. Una notte divampa l’incendio; Younes e la sua famiglia lasciano la propria casa e si incamminano verso una nuova città: Orano. Qui li attende lo zio, farmacista be-nestante, che offre loro il pro-prio aiuto; il padre di Younes inizialmente rifiuta e sceglie di trasferirsi a Jenane Jato, quar-tiere malfamato alla periferia della città. Dopo l’ennesimo fallimento, egli si vede costret-to ad affidare il figlio alle cure del fratello e della moglie Ger-maine. Per una semplice diffe-renza di accento, Younes da quel giorno diventa Jonas; è un dettaglio che sancisce, per il protagonista, il passaggio ad una nuova esistenza. Poi anco-ra la guerra in Algeria, la ribel-lione del popolo algerino che si batte per l’indipendenza dai coloni, due culture apparente-mente conviventi che si affron-tano per rivendicare una terra che entrambe chiamano casa, e che ad entrambe appartie-ne di diritto. Quel che il giorno deve alla notte è un libro den-so, coinvolgente, dal qualedi-venta impossibile distogliersi, in cui la maestria dell’autore nel comunicare e descrivere, rende le parole illustrazioni, e i contorni di personaggi, luo-ghi e vissuti prendono volume come sagome di carta, emer-gendo dalla pagina.

Giulia Salvador

LORETTA NAPOLEONI

MaonomicsRizzoli, 2010

Guardare la mappa del mon-do da un nuovo punto di vista, mettendo al centro la Cina, non più l’Europa né gli Stati Uniti. È questa la chiave di lettura del libro di Loretta Napoleoni, “Maonomics”, edi-to da Rizzoli nel 2010. Scrive l’autrice: «È giunto il momento di porci di fronte a questa na-zione, che ancora rappresenta un enigma, con l’umiltà di chi vuole capire e soprattutto non giudicare».Napoleoni smonta stereotipi e pregiudizi sulla Cina, evi-denziando le contraddizioni dell’Occidente. Pensiamo ai diritti umani, che noi accusia-mo la Cina di calpestare: die-tro l’intervento armato in Iraq non c’era una menzogna? E, sottolinea l’economista, la guerra è illegale per il diritto internazionale, ma il tutto av-viene in nome della democra-zia. Al contrario, i fatti di piazza Tienanmen sono - giustamen-te - deplorati come atto di re-pressione. Ma quel sangue è

MARIAPIA VELADIANO

La vita accantoEinaudi, 2011

Bello come una favola, lieve come le mani della protago-nista sui tasti del pianoforte: Rebecca, il cui nome viene ri-velato a un terzo del romanzo come a volerla nascondere. Vive rinchiusa in quella casa sul fiume: le scure torbide ac-que del Retrone (il cui scorrere fangoso ricorda i drammi di T. Williams), sul cui fondo vengo-no seppelliti i misteri oscuri che coinvolgono i protagonisti del-la Vicenza grigia, resi tali per-ché mai chiariti, misconosciuti. Bello perché al femminile; la resurrezione è solo femminile. Per questo Rebecca neonata, fanciulla, adulta, ma sempre brutta. “Un mostriciattolo pelo-so”, anche se alla fine qualche

servito per capire che c’era bi-sogno di un cambiamento ai vertici del governo cinese. Negli anni 70 le crisi energeti-che evidenziano che è neces-sario cambiare rotta a livello globale. In Occidente Marga-ret Thatcher e Ronald Reagan lanciano lo slogan: “Lo Stato non è la soluzione, è il proble-ma”, per ridurre all’osso l’inter-vento statale, lasciando il resto alla mano invisibile del mer-cato. In Cina invece succede qualcosa di sorprendente per un regime comunista. Nasce il marxismo in salsa capitalista: “Lasciamo che qualcuno di-venti ricco prima degli altri e poi li aiuti a fare altrettanto”. Trent’anni dopo, la crisi attuale rende evidente che in Occi-dente, a dettare le regole del gioco non è più lo Stato, sono le banche. E in questa crisi non solo noi abbiamo salvato le banche ritrovandoci più po-veri, ma queste si stanno arric-chendo a nostre spese. Per capire quanto abbiamo perso la bussola, secondo Na-poleoni, dobbiamo guardare alla Cina, dove le cose stanno all’opposto e la crescita è an-cora legata all’economia rea-le. Si chiede l’autrice: è forse la paura di vedere rispecchiate nell’originalità cinese le falle del nostro sistema? Perché la nostra democrazia ha fallito? Perché sembra così sorda ai bisogni della collettività?

Elisa Cozzarini

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ritocco chirurgo-estetico la mi-gliorerà (perché non prima?, ci si chiede, considerando la levatura della famiglia) e ri-comporrà come in un mosaico la sua vita, la sua storia. Bello come una fiaba, lieve come una accarezza. Smuove emo-zioni sin dall’inizio. Accanto a Rebecca si profilano le bio-grafie d’altri personaggi come angeli custodi. La madre che si rinchiude in se stessa diven-tando autistica; Maddalena la tata saggia che ama il mo-striciattolo peloso di un bene vero; Lucilla la sua compa-gna delle elementari che con la sua logorrea, estroversione, golosità è esattamente al suo posto; la maestra Albertina; la vecchia pianista signora De Lellis: angeli che la aiuteranno e le faranno scoprire la bellez-za della musica e i segreti del-la sua vita, grazie ai quali riu-scirà a riscattarsi. Da leggere.

Anonimo

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CLARA SÀNCHEZ

Il Profumo delle foglie di limoneGarzanti, 2011

Per mancanza di spazio, leg-gendo questo libro e pen-sando alla sua recensione, giocoforza, ho dovuto far pre-

ZOFF, IL FRIULANO CHE PORTò L'ITALIA SUL TETTO DEL MONDOScartato da giovane dal Pordenone calcio, nel 1982 fu il portiere della Nazionale che vinse la coppadi Guerrino Faggiani e Fabio Passador

“Ma parlate friulano a Porde-none?” ci chiede nel salutarci. “Si? Bene, allora la prossima volta facciamo l'intervista in furlan!”. Dino Zoff di Pordeno-ne, città che lo ospiterà in oc-casione della presentazione del libro biografico “Tra i pali. I voli taciturni di Dino Zoff” scritto da Giuseppe Manfridi per le edizioni Limina, non conosce molto. “Ho un ricor-do di gioventù – ci confessa al telefono - quando venni a sostenere un provino per il Pordenone, che all’epoca era considerata una società satel-lite della Juventus. Poi non si concretizzò il passaggio e dal-la Marianese passai subito all’Udinese”. Nato a Mariano del Friuli, oggi è nonno due volte e vive a Roma: ha in-dossato le maglie di Udinese, Mantova, Napoli e Juventus (con la quale ha vinto tutto) e della Nazionale italiana, aggiudicandosi il titolo eu-ropeo nel 1968 a Roma ed il Mondiale del 1982 in Spa-gna, all’età di quarant’anni. Una doppietta che nessuno è ancora riuscito ad eguagliare con la maglia azzurra.

L'INTERVISTA

Partiamo dalla ragione che a settembre la porterà in cit-tà in occasione di pordeno-nelegge.it. Com’è la biogra-fia che le hanno dedicato e qual è stato il rapporto con quanti, giornalisti in primis, hanno scritto di lei durante la sua carriera?Manfridi, che è un dramma-turgo, interpreta e racconta in maniera libera la mia vita, cioè senza numeri e statisti-che. Riguardo al mio rappor-to con la stampa, è logico che qualcuno scrivesse an-

che male, è normale. Forse qualche problema in più l’ho avuto proprio a Udine, viste le aspettative che c’erano su di me che ero del posto. Ma non sono di certo uno che vive di rancori.

Un ragazzino dei giorni d’oggi sogna di emulare i campioni in circolazione. Lei quando era giovane, avreb-be mai pensato di raggiun-gere tanto successo?Non sognavo di arrivare in serie A, figuriamoci in Nazio-

nale. Oggi la media tecnica dei giocatori è molto più ele-vata, mentre una volta spic-cavano gli assi: già in serie C si vedevano giocare dei feno-meni. Noi si pensava solo a giocare e chi era bravo an-dava avanti per gradi. Ora è diverso: con la comunicazio-ne, le televisioni che danno tutto, sembra tutto più facile da raggiungere. E’ un errore, ciò che dovrebbe importare è la passione per questo sport. Non ho mai puntato a dei tra-guardi, perché ho cercato di fare sempre al meglio il mio lavoro e ho cercato di mi-gliorare e imparare, avendo sempre i piedi per terra.

Calcio mercato: secondo lei la scarsa valorizzazione dei nostri vivai, a favore di quelli stranieri, è dovuta alla mio-pia delle società o alle stra-tegie economiche?E' prima di tutto una que-stione economica dovuta alla globalizzazione. Oggi le squadre comprano laddo-ve c'è un buon prodotto e a prezzi buoni, i vivai sono allar-gati al mondo intero. Anche la nostra regione fatica ad esprimere dei talenti: quan-do ero a Napoli ricordo che quasi ogni squadra aveva uno o più friulani in organico, mentre da qualche anno a questa parte in tutta la serie A ce ne sono pochissimi. Un gio-vane deve avere motivazioni nel fare, nel migliorare e non deve fare la vittima rispetto agli altri, perché gli alibi na-scondono sempre una scarsa voglia di applicarsi.

valere l’aspetto storico: dopo una lettura molto paziente mi sono infatti chiesto il per-ché della superficialità utiliz-zata dall’autrice nel trattare una tematica che è in realtà complessa e delicata come lo sterminio di quelle che ve-nivano considerate “razze in-feriori” da parte dei Nazisti e dei loro fiancheggiatori, fra i quali, non lo dimentichiamo, vi fu anche lo stesso Franci-sco Franco. Protagonisti del-la storia scritta dalla scrittrice Clara Sàncez, sono Juliàn, cacciatore di nazisti, e San-dra, una giovane donna ca-pitata casualmente ad avere a che fare con un gruppo di esuli hitleriani implicati con le stragi nei campi di concentra-mento tedeschi. Il filo condut-tore storico potrebbe far pen-sare quantomeno ad un libro accattivante ed interessante. Il punto è tuttavia questo: il libro non solo non aggiunge nien-te a quello che già si sapeva sull’argomento, ma anzi smi-

nuisce lo scopo che l’autrice forse voleva raggiungere. La superficialità nella caratteriz-zazione dei personaggi e del modo di affrontare la temati-ca fanno pensare ad un buio storico che già la storia stessa ci tramanda. Ciò a mio pa-rere spiegherebbe il perché del grande passa parola fra i giovani studenti spagnoli che hanno, di fatto, decretato in Spagna un’ottima vendita del libro. Per il resto, fuori dai con-fini spagnoli, per noi e da noi, questa storia dice ben poco. Peccato, perché è una buona occasione mancata per far conoscere ai ragazzi spagnoli la tristezza e solitudine di chi è riuscito a superare i momenti storici in cui la Vita, negativa-mente, si è presentata a loro. Giusto per fare un confron-to, il libro scritto da Ildefonso Falcones "La Cattedrale del mar" ambientato nel XVI se-colo, seppur esatto nelle ri-costruzione storiche, non ha avuto quel successo edito-

riale che, a mio parere, me-ritava. Del resto gli spagnoli, almeno i giovani, a parte la serale movida, a scuola sono rimasti storicamente sempre al Cid de Guadalquivir o alla morte di Carlo Magno a Ron-cisvalle. Confidiamo quindi che questa parte della storia mondiale si concretizzi presto in un nuovo libro, meno noio-so di quello recensito.

Franco De Marchi

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MAURO CORONA

La ballata della donna ertanaMondadori, 2011

In libreria il commesso ti porge il libro e qualche dubbio ti as-sale. Poi inizi a leggere, in che lingua è scritto? Passi qualche secondo a leggere le pagine che si lasciano sfogliare alla tua sinistra e pensi di aver sba-gliato, autore, titolo. Poi appog-gi lo sguardo a destra e trovi la traduzione, ti rilassi e nello stesso tempo ti costringi alla let-tura: inizia il viaggio. Viaggio finito. E’ un lampo, non alzi la testa e ti accorgi che l’inchiostro e la carta sono mezzi necessari alla distribuzione, nulla di più. Quello che affronti è fiato e lacrime, espressioni del viso e del corpo, corpo piegato dal-la stessa vita che si racconta. La vita raccontata scorre negli anni ’50 a Erto, e finisce il 9 ot-tobre 1963: qui tutto finisce in quella data. Poi ri-inizia ma è altra storia, non la nostra, non in questo libro. “E’ la storia di una donna - scrive Mauro Co-nona nel suo La ballata della donna ertana - che dalla vita non aveva avuto niente, peg-gio, la sorte le aveva nascosto la luna e distrutto la famiglia come fosse niente. E lei venne annientata dal dolore che l’a-veva pettinata ogni giorno di più, finché alla fina le si rup-pe il cuore e disse: Basta, non ne posso più.” Per chi conosce la vita di montagna di quegli anni, per chi ha avuto nonne capaci di raccontarla, per chi ha trovato orecchie e tempo per ascoltarla e tenersela nel cuore questa ballata danza senza musica. Ci sono lacrime che trattengono una dignità svanita tra le urla disperse e senza ritorno. Ci sono solitudi-ne e fierezza, c’è stanchezza e necessità di non mollare, di andare, verso il poco e nien-te ma in cammino, lo stesso che dà senso all’esserci, senza tante domande. Io ho avuto la fortuna di avere orecchie e tempo davanti a mia nonna e ai suoi racconti e questo libro è anche lei, potente perché umile, potente perché non c’è sbrodolatura, sentimentalismo o retorica, potente perché scor-re crudo, feroce, lucidissimo, come mia nonna, come le al-tre, lassù.

Stefano Venuto

PAOLO GIORDANO

La solitudine dei numeri primiMondadori, 2008

Il libro ha per protagonisti due ragazzi che da bambini han-no subito un trauma. Lei ha avuto un incidente di sci che l’ha lasciata zoppa; lui invece abbandonò la sorella, disabi-le mentale, al parco per an-dare ad una festa di amici e da quel giorno la bambina non fu più trovata. Questi fatti segneranno i due protagonisti negli anni a venire, facendoli sentire soli e diversi, portandoli ad avere un carattere schivo e una vita sociale ai minimi ter-mini. Quando i due si incontra-no sembra che la storia evolva verso una condizione di felici-tà; due “simili” che si trovano ed intrecciano le loro vite. Tra loro gli incontri si fanno più frequenti ed entrambi sentono l’altro come la persona con cui confidarsi, sicuri di essere ca-piti. Ma all’improvviso le cose cambiano. Lui riceve un’offer-ta di lavoro all’estero che, in un primo momento, è indeciso se accettare o meno; lei trova un corteggiatore che le piace. Lui, per l’abitudine a “tenersi a distanza”, sceglie di partire e lei finirà per sposarsi con l’uomo che la corteggiava. I due sembrano legati da uno speciale canale di comunica-zione, inaccessibile agli altri. Le loro esperienze d’infanzia sono come un filo che li lega in qualche modo, ma entram-bi capiscono che le loro vite sono come due rette parallele e non avranno punti di contat-to. E il tutto viene confermato quando si rivedranno dopo svariati anni. La storia è un po’ amara, ma narrata in modo piacevole, senza concessioni strappalacrime. L’aspetto che mi ha sorpreso maggiormente è che nei protagonisti non c’è rabbia o serena accettazione per quel loro “essere diversi”, ma una sorta di passiva rasse-gnazione, qualcosa che rasen-ta il menefreghismo.

Emanuele Celotto

TIZIANO SCARPA

Le cose fondamentali Einaudi, 2010

Leonardo e Mario. Un uomo e un bambino. Un padre e un

Andrea - Heilà! Anche quest’anno ci tocca girare come gli stornelli per porde-nonelegge.Ramiro - E anche per il pun-to it.A - Io lo faccio volentieri, eh? Mica è un sacrificio.R - A me lo dici? Io non ve-devo l’ora di finir le ferie per arrivare prima a settembre.A - Ti credo; quest’anno poi, con il programma che c’è… quasi mille appuntamenti in quattro giorni… una pacchia!R - Una birretta o sei di corsa?A - Una birretta di corsa me la faccio tranquillamente; ho un paio di minuti liberi…R - Velocissimi; alle undici ho cinque appuntamenti in con-temporanea cui partecipare.A - Solo cinque? Io e mia moglie dovremmo arrivare a otto. Sempre che non ci sia troppa gente nel tragitto da una sala all’altra.R - Caspita! Auguri!A - Un massacro. Fortuna che la notte il ritmo diminuisce un po’, sennò quest’anno non ne usciamo vivi…R - Anche noi dovremmo cor-rere: la mia signora partecipa alla Coppa Letteraria; sai la raccolta dei timbri di presen-za per ogni incontro?A - Certo che la conosco: noi partecipiamo alla Coppa At-tivamente Letteraria, quella in cui devi anche descrivere

l’aspetto degli ospiti e ripor-tare almeno uno scambio di battute per ogni incontro.R - Cavolo, devi anche ascol-tarli! Da uscire pazzi!A - Ci facciamo aiutare dalla tecnologia, eh? Videocamere e registratori portatili ma in-somma, dovremmo farcela.R - Ti dirò, io son qui soprat-tutto per mia moglie; ci tiene molto a vedere Mario Tozzi che mima l’eruzione di un vulcano.A - Ah sì… Ci voleva andare anche la mia, ma io preferi-sco andare in Corso a sentire il reading di Antonio Chiu-miento ricoperto di cioccolato che legge il menù di Perato-ner.R - Sai che al pub del Corso c’è Giancarlo De Cataldo che frigge patatine fritte appeso al neon della cucina?A – Lo so, lo so; anzi, potrem-mo prenderci la birrà là, così passiamo per il centro; a quest’ora ci dovrebbe essere Mario Giordano che regala sanguisughe ammaestrate a chi gli recita almeno un para-grafo del suo ultimo libro. Ci sarà un po’ di fila ma ne vale la pena.R – Ecco, se proprio devo trovare una pecca, l’idea di vestire Dino Zoff da portiere d’albergo e fargli presenta-re il libro nella hall dell’Hotel Moderno non mi sembra sia

L'INTERVISTA

figlio. Il primo alle prese con la neo paternità, il secondo con il mondo sul quale è appena “atterrato”. “Le cose fondamen-tali” è il racconto della Vita: quella di Mario che è occhi aperti, vocalizzi, bolle di saliva, malattia; e quella di Leonardo, che attraverso la scrittura di un quaderno che consegnerà al figlio per il suo quattordicesimo compleanno, cerca di trasmet-tergli le proprie conoscenze ri-guardo l’amore, i soldi, il pote-re, la malattia, la morte, ovvero le cose fondamentali della vita, per evitargli dolore e sof-ferenza. “Gli adulti mi teneva-no nascosta la verità sulle cose

LIBERTÀ DI PAROLA, LIBERTÀ DI PAPURiflessioni semiserie del duo comico por-denonese conduttore del Fight reading e del Fight writingdi Andrea Appi e Ramiro Besa

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ALICIA GIMÉNEZ-BARTLETT

Il silenzio dei chiostriSellerio, 2009

Storia di omicidi in terra consa-crata, “Il silenzio dei chiostri” di A.G.Bartlett, porta la protago-nista, l’ispettore Petra Delicado della polizia di Barcellona, a contatto con il ritirato e spiritua-le universo della vita conven-tuale, ove silenzio e pace pre-servano dai pericoli del nostro mondo di legni storti e diavoli tentatori: ovviamente, nel con-testo del romanzo, le cose non stanno proprio in questi idilliaci termini. A partire infatti dall’o-micidio del frate incaricato di una “ricognizione” sulle spoglie mummificate del Beato Aser-cio di Montcada, la vicenda prenderà una surreale piega storico-mistica e Petra , con l’a-iuto del suo vice Garzon, sarà impegnata a dipanare una matassa che lei stessa avrà contribuito a rendere più ag-grovigliata. Nel contempo, tra birre in locali di fortuna e cene lasciate a metà, dovrà preoccuparsi anche di come tenere insieme il suo nuovo matrimonio con l’architetto Marcos e una truppa di figli sparsi tra ex-mogli e soggiorni all’estero. Parte di una saga or-mai longeva (mi si dice però non tra gli esiti migliori), questo romanzo ha molto zucchero e poco pepe: le questioni pri-vate di Petra Delicado sover-chiano e appesantiscono la vicenda, mortificando spesso l’aspetto puramente “giallo”, tanto che gli eventi sembrano in realtà svolgersi da sé soli e la conclusione delle indagini è raggiunta quasi per forza d’inerzia dopo un fortuito –e tutto sommato eccessivamente casuale- colpo di scena. L’a-spetto storico appare certo in-teressante, ma rimane troppo in lontananza per poter esse-re considerato diversamente da un mero fondale di carto-ne per rendere più appetibile una storia altrimenti, seppure tragicamente, banale.

Andrea Russo

stata una grande idea.A - Scenograficamente hai ragione, forse era meglio la-sciarlo a Villa Ottoboni, ma tieni conto che quella è roba da bagno di folla da tre-quattrocentomila persone… Il Moderno ha molti più spazi.R – Il vero bagno di folla è stato quello di Arrigo Cipria-ni; mettersi a sparare spritz con l’autopompa dei vigili del fuoco è stata una genia-lata.A - Chapeau! Peccato per tut-to il ben di dio andato spre-cato.R - A proposito di peccato; tu sei andato all’happening or-ganizzato dalla nuova casa editrice di Melissa P.?A - Il crazy party? NoR - Peccato per te, allora. Io sì; ha voluto conoscere i suoi fans uno per uno in un modo davvero originale: location eccellente, partecipazione ri-servata ai maschi, tutti in fila indiana, non più di un minu-to a testa… bello, veramente bello… Sì ma lì l’organizzazio-ne non ha meriti; è lei che ha voluto che tutto si svolgesse in una toilette.

A - Dispiace per Mughini piut-tosto…R - Ho sentito… Però, se ci pensi, se l’è cercata. Se giochi alla roulette russa in Piazza Venti Settembre per farti pub-blicità qualche rischio lo corri, no?A - Già… magari sarà stata la casa editrice ad obbligar-lo, chissà… R - Mestiere difficile quello dello scrittore, al giorno d’og-gi…A - A proposito di scrittori; hai sentito di Faggiani?R - Chi?A - FaggianiR - Fagiani, le bestie? Gli uc-celli?A - Ma non Fagiani, Faggia-ni, con due g.R - Maurizio?A - Noo, quello è Maggiani. Faggiani Guerrino. E’ Capo Redattore di una nuova rivi-sta, una specie di libercolo che assieme ad altri ha co-minciato a pubblicare circa tre anni fa…R - Ha cominciato a far cosa?A - A pubblicare… cioè lui ha scritto delle cose, altre le ha fatte scrivere; ha impaginato

il tutto e lo ha fatto stampare.R - Un testo da leggere quin-di.A - Esatto; da leggere e vede-re perché ci sono anche delle immagini. Si intitola Libertà di Parola e raccoglie scritti e te-stimonianze di vita. Al Ridotto del Teatro parla della scrittu-ra come riscatto sociale.R - Ma come parla? Parla e basta?A - Sì.R - Senza neanche una in parte che mostra le tette?A - No, ne parla assieme a Pino Roveredo, conosci?R - Conosco un Pino da Rove-redo ma è senza tette.A - Pino Roveredo, un uomo; è il Direttore Editoriale della rivista.R - E parlano di scrittura?A - Scrittura come riscatto so-ciale, ma ascolti o no quan-do ti parlo?R - Ti ascolto ma sono esterre-fatto: uno scrittore che parla di scrittura senza farsi sparare in aria o almeno correre su di una biga trainata da sei cavalli bianchi ormai è una perla rara.A - Di Guerrino lo puoi dire forte!R - E ‘sta rivista dove si trova?A - Sssstttt, parla piano che qui, se sentono che c’è in giro qualcuno che scrive, il pros-simo anno lo caricano sullo shuttle e lo sparano in orbi-ta per la prima lettura senza gravità! Vieni questa notte alle quattro in punto dietro il porticato dell’ex chiostro di San Francesco. Infilati un cap-puccio nero, tieni un cero con la mano destra e dieci pagi-ne strappate da un qualsiasi libro di Giorgio Faletti con la sinistra. Durante il successivo falò ti farò avere una copia di “Libertà di Parola”.R - D’accordo. A questa notte.A - Ora spostiamoci da qui; passa Lina Wertmuller in pro-cessione che declama tutto d’un fiato i titoli dei suoi film.

importanti – scrive Leonardo - Mi sono messo a scriverti per non rifare lo stesso sbaglio”. C’è molto dell’autore in questo libro: Leonardo di cognome fa Scarpa e il suo migliore amico si chiama Tiziano. E sarà pro-prio Tiziano, con la sua ironia e il suo sarcasmo poco gradito a Leonardo, a cercare di al-leggerire le paure e i continui dubbi dell’amico durante la scrittura del diario. Alla fine Ti-ziano lo aiuterà ad affrontare, senza retorica e sdolcinatezza, l’evento che più lo sconvol-gerà. Il libro è forte e delica-to allo stesso tempo, carico di immagini e sentimenti che po-

che volte si associano ad un padre. Spesso, non si capisce quanto il protagonista scriva per amore del figlio o quan-to per la propria sensazione di inadeguatezza nei confronti di quella creatura che un gior-no potrà rinfacciargli il fatto di non essere stato poi un gran genitore. I dubbi e le paure di Leonardo, il suo continuo giu-stificarsi con un figlio che guar-da come neonato, ma che im-magina già quattordicenne, l’usare parole con il terrore che vengano fraintese e che im-plicano ulteriori scuse, spiega-zioni e dimostrazioni, rendono il testo un po’ faticoso da por-

tare fino alla fine. Per fortuna c’è Tiziano, che sdrammatizza le angosce dell’amico facen-dogli notare che “la vita è già troppo complicata così com’è, non occorre aggiungerci an-che le cose che non esistono”.

Chiara Zorzi

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Gli autori che scrivono grandi libri per piccoli lettori...

“The frozen boy”, il ragazzo del ghiaccio, è un libro scritto da Guido Sgardoli. Parla di un bambino di 11 anni che per un naufragio viene travolto assieme a una nave. Cent’anni dopo quel bambino viene trovato ibernato in Groenlandia dal professor Robert Warren. Assieme scappano in America, dove abita Susan, la ex moglie di Warren, per scappare dagli agenti dell’FBI. Beth (amica di Susan) li aiuta a nascondersi e sfuggire di nuovo dagli agenti, che vogliono fare degli esperimenti sul bambino. Decidono di andare in Irlanda, ma Jim (nome del ragazzo) muore. La cosa che mi è piaciuta di questa storia è che quest’uomo, che si chiama Robert Warren, dopo la morte del figlio (Jack), trova il coraggio di continuare a vivere grazie a Jim. Ma la cosa che mi ha sorpreso è che Jim riesce a sopravvivere dopo cento anni chiuso nel ghiaccio. La cosa che non mi è piaciuta è che purtroppo Jim muore, ma però muore nel suo paese. Farouk, 10 anni

A me è piaciuto quando Warren trova Jim, il ragazzo del ghiaccio, perché il professore ha dimostrato di avere tanto coraggio. Infatti se avesse avuto paura non lo avrebbe aiutato. Questo è successo proprio quando Warren voleva uccidersi, così ha trovato un motivo per vivere, perché a Warren questo ragazzo ricordava suo figlio Jack, che è morto. Al ragazzo del ghiaccio Warren può dare l’affetto che non è riuscito a dare a Jack. La storia finisce quando anche Jim muore, ma secondo me il messaggio di questo libro è positivo perché il ragazzo del ghiaccio può morire nel suo paese. Quando muore Warren torna in America e non vuole più suicidarsi. Alexandru, 12 anni

A me è piaciuto quando Warren trova Jim, il Questo libro mi è piaciuto perché racconta una storia molto particolare. La parte che mi è piaciuta di più è quando il professor Warren trova Jim nel ghiaccio. È bella anche la parte in cui gli agenti dell’FBI cercano il ragazzo a casa di Beth, perché c’è molta suspence: non si sa come Jim e Warren riusciranno a salvarsi. Davide, 14 anni

GUIDO SGARDOLI

The frozen boySan Paolo, 2011

a cura di Elisa Cozzarini Quest’anno, tra le attività estive del Centro di aggregazione giovanile “Spazio X” del Comune di Pordenone, abbiamo inserito la lettura collettiva del romanzo “The frozen boy” di Guido Sgardoli. Ha partecipato un gruppo di ragazzi di età diverse, dai 6 ai 14 anni. Al termine della lettura ciascuno ha commentato e rielaborato a suo modo il testo. Ecco alcune recensioni:

TIMOTHÉE DE FOMBELLE

VangoSan Paolo, 2011

Vango è un romanzo d'av-ventura scritto da Timothée de Fombelle. E' ambientato durante la Seconda Guer-ra Mondiale. Il protagonista, Vango, è un ragazzo cresciuto nelle Isole Eolie, in Sicilia, dalla bambinaia di cui non sappia-mo il nome. Diventato grande, Vango scopre un monastero invisibile e da allora la sua vita cambia completamente, perché Vango scopre il mon-do fuori dall'isola. Il suo sogno è diventare monaco e inizia i suoi studi a Parigi, ma proprio

quando sta per diventare mo-naco succede un imprevisto che lo porta a fuggire sui tetti di Parigi, dove incontra un di-rigibile guidato dal suo amico Hugo Eckener. Qui inizia la vita avventurosa di Vango, tra fu-ghe e inseguimenti, finché non incontra Ethel, una ragazza scozzese e ricca, che vive in un castello. I due si innamorano e alla fine stanno assieme in felicità. Questo libro mi è pia-ciuto perché attorno a Vango ruotano tanti personaggi, stori-ci e inventati, e l'autore tiene viva l'attenzione del lettore con molti flashback e continue sor-prese.

Caleb, 16 anni

Aicha 4 anni

GLI ANGELI DI PORDENONELEGGE.IT

Sono ragazzi e ragazze che nel corso delle giornate di pordeno-nelegge.it diventano angeli custodi. Con indosso la tradizionale T-shirt gialla con le ali d’angelo disegnate, presidiano i luoghi degli eventi, collaborano con la segreteria organizzativa di ConCentro e accompagnano gli ospiti. In foto gli angeli di una passata edizione.

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Da un annuncio alla radio, la mia amica Wally viene a sapere di un festival di mu-sica e danze tradizionali ser-be e di origine zingara che si svolge a Guca, in Serbia, un villaggio montuoso di cinquemila abitanti. Entram-be siamo affascinate dalla cultura di questo popolo e l’idea di partecipare ad un evento per noi esclusivo, ci mette quell’ansia gioiosa che fa vibrare le corde. È mer-coledì 7 agosto 2002. Dob-biamo essere lì fra 2 giorni. Oddio! Come organizzarsi in così poco tempo? Dove si va? Dove alloggeremo? Ci affidiamo alla buona sorte e con qualche perplessità saliamo sull’aereo che ci por-terà a Belgrado. Per una se-rie di coincidenze e incontri fortunati, arriviamo a Guca come “giornaliste televisive” di un’associazione culturale in visita al villaggio con lo scopo di allargare gli orizzon-ti in materia di musica e dan-ze balcaniche. È andata! Un sospiro di sollievo! Un addet-to ai lavori ci accompagna all’appartamento che ci ha procurato. A tanta gentilezza

e disponibilità rispondiamo a gesti, conditi da un misero inglese. Eccoci qui, dunque, nel villaggio di Guca, nella Serbia centrale, a 150 km a sud di Belgrado. Giriamo per le stradine del paese e respiriamo l’aria di festa che avvolge e stordisce. Musica, musica sempre, per 4 giorni, senza interruzioni. Sono suoni che adoro, che mi mettono i brividi. Ascolto da anni in Cd la musica balcanica, ma qui è vera, viva. È intensità di un mondo acceso nel quale mi immergo e sento di far-ne parte, quasi fossero qui le mie radici.In ogni angolo bande di suo-natori di ottoni, soprattutto trombe (trubaci) e strumenti a fiato sullo stile delle bande militari turche degli inizi del ‘900. Sfilano tra migliaia di persone (ne arrivano circa 300.000 per l’evento). I miei occhi si muovono instanca-bili, affamati di immagini di questo luogo così particolare. E la musica tiene alto il ritmo del cuore e dei sensi. Sotto innumerevoli tendoni si arro-stiscono allo spiedo maialini e capretti. “Cupus” è il nome

di una zuppa di verze e car-ne che borbotta in grandi pentole di terracotta. Assag-gio tutto con grande curio-sità e scopro che mi piace. Come sono belle le ragazze serbe! Ballano con sinuosa morbidezza e ci si incanta nel seguire quei corpi sposati alla musica delle fanfare, le stesse che suonano ai bat-tesimi, matrimoni e funerali. Ne giungono oltre 40 a Guca per il festival. Il sabato sera c’è un’atmosfera particolare. Tutta la gente si raduna allo stadio del paese e sul palco si avvicendano vari gruppi di suonatori. Si balla. Non puoi non ballare! Wally ed io ci uniamo ad un piccolo gruppo e ci lasciamo traspor-tare dalla magia delle note di chiaro sapore zingaro. Io sono felice. E Wally lo sa. Sono le 4 del mattino quan-do ci viene la rassegnazione al riposo. Ma la musica, quel-la no, non conosce pause.La strada, la gente, le fanfare ci richiamano e la domenica serba si carica di fermento per quello che sarà il giorno clou della manifestazione. I suonatori, sfiniti e sudati, loro, il cuore della festa, si spo-stano qua e là a richiesta di gruppi di persone che li vogliono, quasi in forma pri-vata, ad accompagnare le danze sui loro tavoli. Li chia-mano sventolando il denaro che poi infilano nelle trombe. Il capo della banda si incol-la al sudore della fronte una banconota: è il segnale per iniziare. Danza e musica di-

ventano vertiginose, irresisti-bili. Si torna allo stadio per il concorso tra le varie fanfare. Sul palco ancora spettacolo e infine una giuria declamerà la banda vincitrice: ad essa la tromba d’oro. Wally ed io balliamo sempre, vivendo in-gordamente quelli che, sap-piamo, sono i momenti finali della festa. Non voglio pen-sare alla partenza di doma-ni. Io resto qua. Io mi sento di qua. Le ore della notte si tra-vasano nel livore dell’alba. L’esuberanza si smorza e la-scia spazio allo strascico dei suoni più lenti, rari. Si torna in Italia. Lascio la festa e il cuo-re. Me lo ha rubato la gente serba, piena di passione e di orgoglio per le proprie tra-dizioni. Me lo hanno rubato quelle sonorità balcaniche, pregne di spirito zingaro. Un pezzetto mi hanno lasciato perché ci conservi Guca.

Nella Serbia del sud, fra migliaia di spettatori per l'annuale festi-val internazionale di musica e danze gitane

RITMI BALCANICI DI UN POPOLO FIERO

Testimonianza di Nilla Patrizio, a cura di Lorenza Poggioli

INVIATI NEL MONDO

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Come ogni santo giorno mi sveglio puntuale alle 6. Apro gli occhi e di fronte vedo il blindo. Mi alzo e mi faccio un caffè, fumo una sigaretta mentre le mie concelline dor-mono ancora. E penso: “Devo aspettare le 9.15 per la doc-cia. E intanto cosa faccio?”. Guardo un po’ fuori dalla fi-nestra a cinque sbarre e vedo la strada, via del Coroneo. Le persone che aspettano un autobus che li porterà chissà dove. Guardandoli, così liberi e presi dalla loro vita “fuori”, penso e so che per loro “noi” non esistiamo. Anche chi la galera l’ha vissuta spesso si di-mentica che ci siamo. Escono da questo maledetto cancello e chi si è visto si è visto. E noi qui aspettando il “fine pena” o chissà quale grazia divina. Per tirarmi un po’ su penso che almeno io un giorno usci-rò e c’è invece chi ha un “fine pena mai”. Qui il tempo per pensare non manca, anche per sognare, perché alme-no questa libertà non me la possono levare. La libertà di parola sì, me l’hanno tolta ma posso ancora scrivere. Ho im-parato ad apprezzare quelle libertà che, per chi non è ri-stretto, sono cose così normali e che non si rende conto di quanto invece siano impor-tanti: poter leggere, scrivere, pensare, sognare e sperare. L’esigenza che oggi provo gri-da già in libertà, sentendo in faccia un vento nuovo, una nuova possibilità.

L.S.

CODICE A SBARRE

IN VIA DEL CORONEO

All’inizio questa storia del la-boratorio teatrale in carcere sembrava un’iniziativa come altre, bella e accattivante certo, ma come altre. Ben presto però ci siamo accorti che lavorare in una struttura carceraria faceva la differen-za. Perché il contesto di un carcere è necessariamente un posto in cui vigono regole e divieti e gli addetti all’am-ministrazione in un modo o nell’altro vengono coinvolti in tutto quello che succede all’interno delle sue mura di cinta. Quindi la realizzazione del nostro progetto, latore di novità e cambiamenti rispet-to alla normale gestione del penitenziario, ha significato impegno ulteriore per molte persone e di questo porgia-mo un ringraziamento a tutti. Il primo incontro che assieme a Pino Roveredo abbiamo avuto con i ragazzi detenuti

Teatro in carcere, il giorno dopo la primaSuccesso per la commedia "La legge è uguale per tutti?". Il racconto del dietro le quintedi Guerrino Faggiani

nella Casa circondariale di Pordenone, alla fine di gen-naio, si è consumato tutto in parole: è successo in una stanza adibita a parlatorio con sedie e tavoli bloccati a terra. Nell’incontro successivo, nella sala polivalente che ci ha poi ospitato fino alla fine del progetto, abbiamo mes-so loro in mano il copione e siamo partiti con le prime battute. Colpo di scena: la lettura era veramente un pro-blema. Che fossero stranieri o italiani a leggere cambiava poco, non usciva una frase senza blocchi e strafalcioni. “Leggete leggete e ripassate”. Oltre alle canoniche strette di mano alla fine degli incon-tri, li salutavamo esortandoli: “Leggete”. Naturalmente mai nessuno lo ha fatto e noi già lo sapevamo, però lo diceva-mo lo stesso. Io per lo meno, Pino più navigato bypassava.

Ma le difficoltà non sono mai state fatte pesare, neanche inviti a darsi da fare ci sono stati. Si riceveva quello che a ognuno andava di dare, a volte più a volte meno, ma a noi è sempre bastato. È sta-to questo a mio avviso uno dei segreti del nostro lavoro. Il gruppo infatti piano a pia-no si è appassionato e calato nella parte, e alla fine è stato in grado di rappresentare la commedia. A detta di mol-ti, la prima della commedia trasmessa a giugno all’ex convento di S. Francesco di Pordenone, è stata una bella serata, chiaramente non fat-ta da professionisti, ma bella. Ora dopo il rompete le righe, a bocce ferme, a noi addetti che abbiamo seguito lo svol-gimento del progetto, resta dentro una sensazione che non sappiamo nemmeno definire, un miscuglio tra pia-cere e dispiacere, soddisfa-zione e amarezza. Il piacere e la soddisfazione di aver vi-sto la schiettezza e la serenità di persone che all’occorrenza sanno anche dimenticare tut-to. Il dispiacere e l’amarezza nell’aver visto nei loro volti la frustrazione di pensieri che tormentano dentro, di proble-mi, del vivere male anche al di là della detenzione. E dopo tanto fatto assieme, an-darcene e lasciarli di nuovo lì soli nel loro brodo non è sta-ta una sensazione piacevole. Per quel che ci riguarda, nel nostro piccolo, resta la sod-disfazione di aver dato vita ad un gruppo che ha saputo mettere in pratica quello che era solo un abbozzo di idea. Tutti insieme abbiamo dimo-strato che il lavorare tra per-sone dalla mentalità e cultu-ra diverse è possibile, e non è sinonimo di fallimento. È un dato di fatto dal quale si può trarre un prezioso insegna-mento: l’unione è una risor-sa, anche nelle modalità più strane e disparate. E come tale, detto in soldoni, anche una buona opportunistica via d’uscita alla dispendiosa guerra del bastone e dell’in-tolleranza contro il mondo.

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Mi è stato richiesto di scrive-re un’impressione sull’espe-rienza che si è felicemente sviluppata all’interno dell’ex convento di San Francesco nella fine del mese di giu-gno con la messa in scena del testo di Pino Roveredo “La legge è uguale per tut-ti?” in collaborazione con le persone detenute nella Casa circondariale di Pordenone. Di regola esprimo quello che penso o, in alternativa, lo tac-cio: d’altronde, per un ovvio sentimento di buona educa-zione, non è così necessario e fondamentale per l’uma-nità che si conosca il mio pensiero. Non ho mai aderito alla sciocca presunzione, che mena vanto di dire sempre e comunque quel che si pensa, quasi fossimo tutti oracoli di Delfi! Non è, quindi, per mera circostanza che posso dire di aver maturato di quella sera-ta un’impressione positiva, ric-ca, carica di significati; e ciò, per vari motivi, il primo dei quali – come ho avuto modo di evidenziare prima della rappresentazione stessa – ri-guarda lo spirito con il quale è stato condotto il progetto, almeno per quanto attiene al coinvolgimento reale e non fittizio dei detenuti dell’istituto che dirigo. Ho visto durante le prove, e ne ho avuto con-

ferma a prodotto finale rap-presentato, di come non si sia assistito ad una proposta uni-laterale, di quelle che, come spesso accade, fanno bene soprattutto a chi le propone, piuttosto che ai loro destina-tari, ma all’instaurazione di una relazione reciproca (tra Pino, i detenuti, il personale, la regista, la psicologa e così via) da costruire attorno ad un tema che ha da sempre affascinato ed affannato gli

uomini, quello della Giustizia. La Giustizia è un’idea che viene prima delle leggi e nei cui confronti le leggi si pon-gono come un tentativo di attuazione. Tante sono state le leggi passate nella storia, tante sono finite nell’archeo-

logia giuridica, ma nessuna, nemmeno quella più bieca, ha mai inteso perseguire un ideale che non fosse quello di Giustizia, secondo la pro-spettiva di chi le scriveva. E cosa dire, di quelle leggi che apparentemente perfette, proprio perché specchio di un innata idea di Giustizia, quando affrontano il mare della realtà umana, legitti-mano quel punto di doman-da che sigla il titolo dell’ope-

ra di Pino Roveredo: la legge è uguale per tutti? È la lotta fra la società che le esprime e l’individuo, che di quel-la società fa parte; è quindi anche la lotta interiore fra l’uomo nella sua dimensione pubblica (colui che viola la

La Giustizia va in scenaNon è un progetto unilaterale, ma un lavoro che ha creto una rela-zione costruttiva con i detenutidott. Alberto Quagliotto, direttore della Casa circondariale

legge) e la sua dimensione privata (l’uomo che soffre, che aspira per se stesso a qualcosa di diverso, qualco-sa che, tanto più è indefinito e alto, tanto più è causa di tormento: vero supplemento di pena non scritto in alcun codice). E dietro questa lotta, vi è quella del Giudicante, i suoi dilemmi, di cui poco si parla, e che bene ha fatto Pino a proporre alla attenzio-ne di tutti. Quando si trattano questi temi, nulla è scontato e una riflessione fatta nel suo insieme dalla comunità dei cittadini, nella sua rude e du-plice composizione di chi “sta dentro” e chi “sta fuori”, può scardinare o confermare le nostre certezze: comunque le rimette in moto, le pone di nuovo sotto i fari della nostra ragione, della nostra capaci-tà di pensiero. Nessuno dei presenti a quella serata di inizio estate se ne può esse-re tornato a casa pensando di aver fatto semplicemente la buona azione quotidiana (“dar da bere agli assetati, dar da mangiare agli affa-mati, visitare i carcerati… “ ricordate? ). Ogni persona di buon senso non può non es-sersi imposta un pensiero in più, rispetto a quelli consoli-dati con i quali si sveglia ogni mattina, e con i quali ogni sera rincasa (come il giudi-ce della rappresentazione di Pino). Un pensiero in più, un dubbio in più, e - perché no? - magari anche una certezza in più: perché demonizzare tale conclusione di un pensie-ro logico? Almeno finché la certezza non diventi dogma improprio di una inesistente umana religione e sia pronta, quando sarà il momento, a rimettersi in discussione.

L'etica della recitazioneForte l'impatto emotivo che l'ope-ra ha avuto sul pubblicodott. Francesco Pedoja, presidente del Tribunale

“Teatro in carcere, ovvero il carcere in teatro”. Il gioco di parole nasconde una espe-rienza teatrale di grande valore e significato magi-stralmente voluta, scritta e diretta da Pino Roveredo con la collaborazione del diretto-re della Casa circondariale, Alberto Quagliotto. Indipen-dentemente dalla alta qua-lità dello spettacolo che si è tenuto all’ex convento di San Francesco in occasione della prima della commedia e il quale alternava la proiezio-

ne della registrazione delle scene recitate all’interno del carcere a espressioni teatra-li dal vivo (mimo, canzoni, balletto) teatrali, il significa-to sociale dello spettacolo è stato di enorme profilo etico ed emozionale. E’ stato so-prattutto l’occasione per un duplice cammino. Il primo, comunicativo, è stato quello di mettere in correlazione la cittadinanza con il problema carcerario, facendo compren-dere la realtà anche esisten-ziale e psicologica dell’essere detenuti mediante dramma-tizzazione teatrale, nonché i carcerati con il mondo dello spettacolo (regista, attori, altre figure espressive). Il secondo, introspettivo e catartico, di far riflettere i detenuti sulla loro realtà e sulle cause della loro attuale situazione detentiva. Il tutto è stato realizzato con un profilo non solo dramma-

tico (come nell’episodio della vedova del bancario suici-da), ma anche volutamente comico e caricaturale (come nei dialoghi dell’imputato re-cidivo). Il taglio volutamente “popolare” della recitazione ha poi reso più immediato il coinvolgimento del pubblico avvicinando i personaggi/de-tenuti nella loro umanità, per-ché stimolanti una maggiore comprensione/condivisione delle situazioni esistenziali di cui ciascun personaggio che era protagonista come per-sona reale. Direi conclusiva-mente uno spettacolo/mes-saggio che ha commosso il pubblico, il quale ha risposto con prolungati applausi. Uni-ca nota negativa “personale” quella per cui nel trambusto e saluti finali non ho più ritrova-to il mio ombrellino londinese cui per affetto e memoria ero molto legato.

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PANKAROCK

Per Ben Harper “Give till it’s gone” è il decimo album fir-mato Virgin. Per l’occasione, come già con “Welcome to the cruel world” che fu il primo prodotto con l’attuale etichetta alla quale l’artista americano è legato da un contratto di dieci dischi, Harper si ripresen-ta al pubblico da solo, senza la storica band degli Innocent Criminals e tanto meno con i Relentless7, con cui ha suona-to nell’ultimo album. Dopo la breve parentesi con il gruppo da lui fondato Fistful of Mercy, di cui facevano parte Joseph Artur e Dhani Harrison, figlio dello scomparso George, con il quale hanno inciso l’album “As I call you down” ecco che Ben Harper ci regala un disco istintivo, quasi liberato-rio. Arricchito dalla prestigio-sa collaborazione di un altro “Fab Four” Ringo Starr, amico dell’artista californiano, nei brani “Spilling faith” e “Get the-re from here” e del prestigioso cantautore Jackson Browne, proprietario del Los Angeles Studio in cui insieme hanno cantato l’intenso brano “Pray That Our Love Sees the Draw”, il disco è stato anticipato dal singolo “Don’t give up on me now”, scritto a quattro mani con Jason Mozersky, un bra-no in cui traspare l’amarezza della separazione tra il can-tautore e l’attrice Laura Dern. Ed è l’amore, con tutte le sue sfaccettature, il tema predomi-nante dell’intero album, come per esempio in “Feel love”, “Do it for you, do it for us”. Mentre

“Rock and roll i s free”, oltre che ad essere suonato come un inno, è l’omaggio all’ami-cizia con Neil Young, il cantau-tore fock-folk che in apertura del concerto di Londra di Ben Harper ha iniziato con il suo cavallo di battaglia “Keep on rockin in the free world”. Il nuo-vo album di Ben Harper non conterrà il calore di quelli re-gistrati con gli Innocent Crimi-nals, ne tantomeno la ruvidità di suono di quelli incisi con i Relentless 7, ma di sicuro è un lavoro sincero, che racchiude molto di ciò che è stato l’ultimo periodo artistico dell’autore,

Harper, cuore e istintoL'ultimo album dell'artista ameri-cano presentato al concerto al No Borders Festival di Tarvisiodi Fabio Passador

che comunque dà il meglio di sé nelle esibizioni live. A dir poco memorabile è stato il suo concerto a Tarvisio (Ud) di luglio, nell’ambito del presti-gioso “No Borders Festival”, ac-compagnato dalla band dei Relentless7, che hanno aper-to lo spettacolo con la hit del momento “Don’t give up on me now”, e che subito hanno acceso l’entusiasmo delle cir-ca tremila persone presenti in Piazza Unità, per poi spiazzare tutti con una versione acustica di “Diamonds on the inside” e dell’inedita “Masterpiece”. E’ bastato attenere poco per

vedere finalmente un Ben Harper accomodato su una sedia a sfoderare la magia della sua slide guitar con l’e-nergetica “Number with no name”. L’ecletticità dell’artista californiano nella sua tappa friulana si specchia anche nella scaletta musicale della serata, tanto che l’intimismo creato durante la prima par-te del concerto lascia il passo al rock sincopato di “Lay The-re & Hate Me”, all’energia di “Rock n’Roll Is Free” e “Born to shine”, che cresce fino all’api-ce di “Fly On Time” e “Amen Omen”. I virtuosi riff di chitar-ra della band lasciano spazio alla psichedelica di stampo Beatles del brano suonato in-sieme all’amico Ringo Starr nell’ultimo album “Spilling Faith”, per poi chiudere con le calorose ballate “Walk Away” e “Roses From My Friends”. Ma il momento più emozionan-te è stato quando l’artista ha abbandonato la sua chitarra e il microfono e, abbracciato dal silenzio del suo pubblico, si è lasciato andare nel canto a cappella di “Where could I Go”, dando voce al suono del suo cuore. Dopo di che, l’arti-sta e la sua band sembrano voler terminare questa me-ravigliosa serata ed i due bis culminano con il coro liberato-rio di “Better Way”, per conclu-dere con un’epica versione di “No Quarter” dei Led Zeppelin e ringraziando, emozionati quanto il pubblico presente, con la dichiarazione di Ben Harper: “You gave us the night of our lives”.

Non rischiare, soffiaAlla Festa in Piassa Rdp fa pre-venzione sull'abuso di alcoldi Stefano Venuto

Per il secondo anno si è rin-novata la collaborazione tra l’associazione Festa in Piassa e noi Ragazzi della Panchina. L’edizione 2011 dei festeggia-menti si è svolta dal 18 al 29 agosto, nel centro polisporti-vo comunale di Villanova di Pordenone. Noi siamo stati presenti da giovedì 18 a do-menica 21 e da venerdì 26 a lunedì 29. Abbiamo allesti-to un vivace e colorato stand presso l’Area Skate Park dove dialogare con la cittadinan-za, portare l'esperienza della nostra associazione, distribuire materiale informativo, discu-tere sulle problematiche dell'

Hiv (con la distribuzione gratu-ita di preservativi), proporre la lettura di passi del nostro gior-nale e dei libri da noi pub-blicati come spunto per un incontro e una riflessione con-divisa. Nello stand adiacente al primo, grazie alla forte col-laborazione decennale con il Sert di Pordenone, abbiamo preparato un’area all’interno della quale riflettere sull’uso e abuso di alcol: abbiamo of-ferto così la possibilità a tutti di compilare in forma anonima un questionario, attraverso il quale raccogliere dei dati si-gnificativi sull’uso e abuso di alcol e sulla percezione indi-

viduale e sociale dello stesso. Abbiamo avuto a disposizio-ne due etilometri professionali, attraverso i quali poter istanta-neamente misurare il tasso al-colico dei partecipanti e ave-re quindi immediatamente un raffronto tra percezione e dato reale. Il progetto è stato possi-bile grazie alla collaborazione con l'Alcologia di Pordenone.Essere a Villanova non è sta-to importante tanto per ogni singolo, quanto per il concetto del noi, abitanti in diversa mi-sura dello stesso mondo, mon-do che è la stanza del proprio appartamento o lo spazio più sconfinato possibile.

Numeri 2011Distribuiti gratuitamente:Giornale Ldp 100Materiale informativo 300Profilattici 1000Libro "Noi viviamo!!" 20Alcol test monouso 130

Questionari 121Alcol test eseguiti 250Contatti 400Operatori Rdp e Ser.T 5 Volontari e tirocinanti 6

Collaborazioni: Ser.T e Coop. Soc. Itaca

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ZIO FRANCO

EL CANTON DE GUERI

In giro par la Meduna-Gigi, cossa fatu qua a ste ore co sta brosa?--Spetavo un ch’el vignisi a domandarmelo- -Elo tant che te son rivà?- -Do sigarete fa- -Anca mi l’è da un fià che son in giro, no riusivo più a dormir e l’ora gò dita: peta che vado a far na girada pa la Medu-na co la cana da pesca, pos-so meterme qua anca mi?- -Se proprio no te pol far de manco..- -Grassie grassie, no credevo de trovarte qua, te avevi dita che no te vignivi a pescar oggi. L’è na fortuna alora che se semo trovai--Fortuna no l’è la parola giu-sta- -Ghe ha mancà poc che no vignissi neanca mi satu? La machina no la voleva pro-prio partir stamatina, tasi che dopo l’è vignua giù me fe-mena in vestaglia a sburtar senò..- -Insoma no l’è proprio gior-nata par mi, varia do parole anca par to femena--Gatu la luna storta oggi Gigi?-

-Co ti sempre!- -Perché cosa gaio fat de mal?--Te son nat!- -A ma se l’è cusì alora me meto qua in parte, così te dago manco fastidio- -Sempre masa- -E l’ora me meto la de quela pianta così semo ancora più lontani- -Sempre masa poc- -Ma vara che ho capio sa che te fa così solo par veder cosa che digo?--Ee l’è sodisfasion cio- -Me piase perché te ga sem-pre voia de schersar. Atu vist che gnoca stamatina li del bar de Rino? I l’ha appena assunta, me son mes anca a morosar un fia ma dopo l’è rivada gente e l’ora.. però saria restà volentieri la co ela al caldo - -E invece te son vignuo qua a romperme i coioni a mi- -Ah ah bona questa.. e ti Gigi a femene come vatu?-

-In machina- -Iii ma alora.. o scusaa! No lo go visto Gigi. Ghe ho dat na pesada al careghin sensa vo-lerlo, noo.. l’è finio proprio in meso al canal, e ades?- -Scorese de ges. E ades cos-sa? Ara dove che l’è andà..- -Me despiase gigi scusa. te ne ciogo n’altro uguale, de che marca erelo?- -De la NOGAS-PLEASE--Va ben, e lora te lo cio.. sac-cramento la cana, te la go pestada Gigi, no la go pro-prio vista- -Ti bambin no te vedi massa robe, elo scuro stamattina?- -Varaa.. la se gà rotto proprio qua del mulinel, no se pol ne-anca più giustarla. E lè quela bela anca, quela che te gà vinto in gara a Vidulis.Fa veder.. l’è da butar via si. Te meriteria de ciapar un ba-ston e darte so finchè vien tutti steccadenti--Scusa Gigi. Ma anca ti però, te la meti li par tera..--No, la metarò par aria- -Va ben vorà dir che fasen tut un conto dai, fortuna che te ne ga altre qua. Ostia ma che fredo che fa stamatina, peta che me sero el giuboto. Te sa la bronchite che gavevo? El dotor el dise che devo star atento a no ciapar fredo senò

la pol anca tornarme- -Alora ghe gè ancora speran-se- -E pensar che me cognà l’è a lavorar alle maldive, l’è andà co l’aereo, co quei de la mola te sa?--Che mola? Elo andà co un aereo a mola?--Noo cossa ditu su!? Co un normale, quei grandi, come se ciameli quei la, quei de la mola?--Aaa.. i Boing, ma senti che robe, e mi che te vegno anca drio- -Si si co quel, e ades l’è la al caldo, beato lu. Ma perché te gà tutte ste carte de giornal dentro la cesta del pes? Peta che la svodo giù pa l’acqua, così me faso perdonar un fià. Porco bestia Gigiiii.. no gave-vo visto che ghe gera na truta dentro, ee ormai.. -Chel te vignisi un canchero de quei che’i dura diese ani!--Me despiaze gigi.. scusaa- -To nona sbusa--Cosa?--Un tantin de merda grosa--Te son proprio rabià cio. Peta va, forse l’è meio che vadi via--L’atu capia si!?-Bon vado--Sotu ancora qua?? -Ciao Gigi ciao-

Io il poeta Andrea Zanzotto erano anni che non avevo l’occasio-ne di incontrarlo. A parte l’anzianità del fisico, la mente è sempre lucida e pronta, sia nelle esternazioni che nel commentario di fatti, situazioni o persone. Anche per questo e non solo, penso a come nel 2008 quando tutti ce lo aspettavamo non si sia potuto assegnare un Nobel al Poeta. Ritornando alle prime righe, quan-do l’occasione mi si è ripresentata abbiamo discusso con lui di e su varie situazioni: da Leopardi di cui è un grande estimatore, alla politica contemporanea. Inutile sottolineare che di dialogo ve ne era ben poco, in quanto con un personaggio di quella levatura ci si pone in posizioni di ascolto, anche perché in ogni frase che costruisce vi è sempre materiale da meditarci sopra. E’ sopra le righe, criptico nelle sue poesie, ma chiaro, non sem-plicistico nell’esposizione delle proprie idee e nella maniera di fartele percepire. Già nel nostro libro: “I Ragazzi della Panchina” accennavamo all’importante input che il Poeta ci diede per farci sia da stimolo verso altre tematiche sia nella poesia che nella narrativa (che ci distogliessero dalle nostre “storie”) e soprattutto nell’aiutarci a cercare un aiuto reciproco. Era un periodo in cui cercavamo di mettere in pratica il progetto dei Ragazzi della Panka. Comunque questo nuovo incontro, che qualcuno dava

HO RIFATTO UN INCONTRONella sua casa a Pieve di Soligo il poeta Andrea Zanzotto mi ha ridato una grande lezione di vita, come negli anni in cui sostenne la nascita del nostro gruppodi Franco De Marchi

per scontato si è rivelato invece come un ulteriore situazione di stimolo. Questa volta l’abbiamo incontrato nel suo ambiente, nel-la sua casa di Pieve di Soligo, in cui tutto rispecchiava la sua spic-cata personalità. Non è la classico domus dannunziana che ci si aspetterebbe da un personaggio longevo sia fisicamente che mentalmente, anzi è un ambiente sobrio, all’interno della quale vi era quello che giustamente crea un ottimo connubio tra corpo e mente, niente di superfluo; di concreto e di importante vi è lui con le sue parole e coerenza di vita, dedicata sia alla poesia, ma non per questo divisa dalla realtà che lo circonda. Inutile sottolineare che al ritorno ci è rimasta impressa un’ottima traccia per pensare e molto su cui riflettere. Niente da dire, quando uno è grande è grande. Peccato che sia ancora troppo misconosciuto e ancora non gli sono stati attribuiti dal “sociale” i riconoscimenti che merita. Forse è anche questa una lezione di Vita, l’Umiltà dell’Uomo che non cerca il plauso, ma anzi fa sì che la miglior predica sia l’esempio. Non è mai andato a mendicare dei premi tipo lauree ad honoris causae, come fatto da altri personaggi minori ad esempio un corridore di moto od un ex presentatore televisivo. No, di questo non ne ha bisogno per sé, è il suo SE che scrive e parla e che ci aiuta a Vivere.

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"Tutti possono avere un Falco, ma pochi diventar Falconieri”. Lo diceva A.U.Filastori, autore di “Falconeria moderna”, uno storico trattato sulla falconeria edito nel lontano 1908. Le ori-gini dell’addestramento dei rapaci si perdono però nei tempi, sembra in quello de-gli antichi egizi nel 3000 a.C, quando si praticava anche una caccia simile con i feli-ni. Ma le prime testimonian-ze certe di addestramento di falchi alla caccia, provengo-no dalla Cina e risalgono al 2000 a.C. In Europa la falco-neria ebbe grande diffusione nel Medioevo, sotto il regno di Federico II imperatore del Sacro Romano Impero, che spesso nelle immagini che lo ritraggono è raffigurato con

il suo falco prediletto. La sua grande passione lo portava a dire che un giorno passa-to senza andare a caccia con il fal-co era un giorno perso. Nel XVII secolo, la falcone-ria era una attività elitaria e molto costosa: un falcone ad-destrato alla caccia poteva costare come un podere in-tero. Possederlo era indice di nobiltà e stato sociale; ogni gradino della società a se-conda della sua importanza aveva associate una precisa specie di falco, da quelle più nobili ad appannaggio di re e principi, per scendere via via di rango fino alle più umili riservate ai poveri. La falconeria ebbe una diffusio-

ne così stra-t i f icata c h e

si profilò la necessita di

legiferare in mate-ria e di mettere regole

e pene severe per chi le tra-sgrediva. Mai nella storia un animale ebbe una così gran-de importanza nel tessuto sociale. Dopo la rivoluzione francese, con il declino della nobiltà e la comparsa delle armi da fuoco, la falconeria subì un brusco tracollo. Nel XX secolo non era rimasto più niente dell’antica passio-ne tra uomo e falco, anzi i fal-chi erano considerati nocivi, perché visti come competitori nella caccia. Venivano uccisi, avvelenati e sistematicamen-

te si proce-deva alla d i s t ru z io -

n e dei nidi. Poi venne il tempo degli an t i c r i t - togamici in a g r i c o l - tura, che come tutti sappiamo vennero usati senza criterio, influendo in modo dramma-tico su molte popolazioni di falchi. Durante questi perio-di bui, dal 1700 ad oggi, gli unici strenui difensori degli uccelli predatori sono stati i falconieri, che con la loro smisurata passione hanno sempre difeso e protetto le varie specie selvatiche. Non disperdendo gli antichi sa-peri dell’arte della simbiosi uomo-falco.

NON SOLO SPORT

L'antica arte di adestrare i falchidi Guerrino Faggiani

Falconieri, non per caccia ma per passioneFondamentale è saper creare la simbiosi tra il cane e il falcodi Guerrino Faggiani

Da tempo mi ronzava in mente di saperne di più sul-la storica arte dell’addestra-mento dei falchi alla caccia. Incuriosito, ho perciò deciso di rivolgermi direttamente ad un gruppo di appassionati. In particolare ho contattato il Cir-colo Falconieri del Friuli Vene-zia Giulia (www.falconeriafvg.it) e ho finito per scambiare quattro chiacchiere con Chri-stian, falconiere da una dozzi-na d’anni. La prima cosa che mi ha detto è che in Italia si possono allevare solo falchi nati in cattività, il prelievo in natura è proibito in maniera assoluta in quanto specie par-ticolarmente protetta. Ed ecco nascermi in mente la prima domanda.

Christian, ma i falchi nati in cattività hanno forse qualco-sa in meno di quelli selvati-ci?“Se un falconiere sa fare bene il suo lavoro, i primi non han-no assolutamente niente in meno rispetto ai secondi. In-fatti la nostra stessa passione ci spinge proprio a sviluppare al massimo il loro istinto natu-rale, a renderli uguali. L’unica differenza sta nel fatto che i falchi d’allevamento instaura-no un rapporto con il falconie-re e con i cani, devono essere in simbiosi anche con loro”.

Come avviene la caccia con il falco?“Si svolge con il cane sciolto che a terra va alla ricerca del selvatico e lo stana, mentre

il falco già in quota assiste e picchia non appena la pre-da è costretta ad uscire allo scoperto. È difficile incontrare selvaggina e per questo uti-lizziamo il cane: facciamo in modo di provocare la caccia all’animale, piuttosto che affi-darci alla sola casualità”.

Ogni attacco si conclude ne-

cessariamente con la cattu-ra della preda?“No anzi, dipende da tanti fattori che entrano in gioco durante l’azione di caccia, dipende anche dalla preda stessa. Diciamo che gli attac-chi che vanno a buon fine sono sull’ordine del 30 per cento. Ma va detto che il fal-coniere non va a caccia per

riempire il carniere: la nostra soddisfazione è vedere un cane che lavora bene, un falco in forma e l’azione del-la caccia. Noi alla fine siamo solo degli spettatori”

So che i falchi vengono usati anche per bonificare zone da animali indesiderati, da piccioni ad esempio. Può es-sere anche un lavoro?“Certo. Nel nostro circolo ad esempio ci sono due persone che fanno questo di mestiere, a tempo pieno nell’aeroporto di Ronchi. Con una dozzina di falchi garantiscono, dal sorge-re del sole al tramonto, che le piste siano sgombre da gab-biani, uccelli e animali vari”.

Come siete considerati dai non cacciatori?“Già per il fatto che non usia-mo armi, siamo visti sotto una luce diversa rispetto ai caccia-tori tradizionali. I falchi inoltre sono animali molto belli, han-no un grande fascino, e va a finire che la gente si avvicina a vedere. Ma a questo propo-sito vorrei dire una cosa: por-tare a casa un falco solo per averlo non ha senso. Un falco deve volare, deve cacciare, deve sviluppare il suo istinto e va tenuto nel massimo del ri-spetto del suo temperamento. È un impegno giornaliero che richiede tempo e passione, e non uno sfizio momentaneo”.Grazie Christian cercheremo di tenerlo presente e lascere-mo il falco, come qualsiasi al-tro animale (se proprio li dob-biamo lasciare) a chi li merita.

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LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

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Capo RedattoreGuerrino Faggiani

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Hanno collaborato a questo numero

——————————————Guerrino FaggianiRinasce nel maggio 2006 all’ospe-dale di Udine. Da lì in poi è blog-ger (www.iragazzidellapanchina.it/gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche da-vanti al computer. “Cosa? Taglia-re?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. perchè si è ripresa la vita (www.milenabidinost.blogspot.com) e oggi, come un trionfo, il direttore " vive, parla, ride, si arrabbia, com-muove, annoia, risveglia…"

——————————————Franca MerloO Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia.ilcannocchiale.it

——————————————Pino Roveredo"La melodia del corvo" è il suo ulti-mo regalo letterario. Capriole in sa-lita, Caracreatura: Attenti alle rose, nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Con l'associazione ha da poco aviato un laboratorio di scrit-tura creativa coraggioso

——————————————Gino DainUn medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per sca-ramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta

——————————————Elisa CozzariniÈ riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. In-somma, Freelance Amstrong

——————————————Giuseppe MiccoBepi: secco come un terno, Mon-sieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.

——————————————Franco De MarchiFrate mancato, tra i fondatori de-gli RdP, poeta cambusiere per sua stessa ammissione si è lavato qual-che volta il viso con gli occhiali da sole su. Oltre agli occhiali c'è una cosa da cui è inseparabile: la... po-lemica

——————————————Andrea PiccoSu Fb alla voce orientamento reli-gioso ha scritto integralista juventi-no. Ora stiamo pensando di scrive-re a "chi l'ha visto?" per sapere che fine a fatto sia lui che la Juve. Ogni tanto ci arriva una mail che confer-ma la sua esistenza, come le poche

——————————————Emanuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, atto-re. Memorabili le sue performance nel ruolo del carcerato, con tanto di lancio della canotta al pubblico e pettorali in bella mostra. Per un po’ di tempo, purtroppo, si è dimentica-to di uscire dalla parte.

——————————————Chiara ZorziFinalmente una femmina tra tutti questi operatori maschi! Ci voleva! Sopranominata miss perfettina, non le scappa proprio niente. Ogni tan-to ti viene da azzannarle la giugu-lare, ma poi ti fermi e pensi: "Meno male che Itaca ce l'ha mandata!"

——————————————Fabio PassadorQuando si dice che nella botte pic-cola ci sta il vino buono! L'ultimo acquisto della squadra operatori ne è una conferma. In barba alla sua altezza, lo trovi ovunque: arte, sociale, impegno civile, politica ed ora è anche un Ragazzo della Pan-china.

——————————————Ada MoznichPer l'Unità è una dei nuovi Mille italiani che stanno rifacendo l'Italia, impresa ben più ardua di quella garibaldina. Se quelli avevavo la camicia rossa, a lei basta un fioc-co. Non ci resta che sperare che lei e gli altri 999 non la rifacciano uguale.

——————————————Andrea RussoA vederlo sembra un talebano ma se lo si conosce si scopre che è più dolce di uno cioccolatino. Laureato da poco in medici con 110 e lode, ma il suo cuore batte per la lette-ratura e ha implorato la redazione per poter scrivere su LDP. Intabto si sfoga su: www.paleozotico.it

——————————————Stefano VenutoIl nuovo operatore che si è insedia-to a febbraio, ha ricevuto il batte-simo da "Zio Franco" che appena visto lo ha insultato e lui gli ha ri-sposto: "un attimo che appoggio la borsa e poi ne parliamo" da quella volta sono amiconi.

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leggere non e' mai una perdita di tempoi ragazzi della panchina

campagna per la sensibilizzazione e integrazione socialeDei ragazzi Della pancHina con il patrocinio Del comune Di porDenone