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Le antichità di Capodistria e il Civico Museo di Storia ed Arte Aldo Cherini Autoedizioni 1993

Le antichità di Capodistria e il Civico Museo di Storia ed ... Museo.pdf · lorizzata in seno all’Accademia dei Risorti. Durante la sosta nella città natale nel luglio del 1750,

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Le antichità di Capodistriae

il Civico Museo di Storia ed Arte

Aldo Cherini

Autoedizioni1993

✍ Aldo Cherini 27.2.93stampa:

ristampa 19.3.2011 — www.cherini.eu

Una città sia pur piccola ma che per oltre quattro-cento anni è stata, quale capoprovincia, sede governativadell’Istria Veneta dando i natali a personaggi illustri —quali Monaldo, i due Vergerio, Muzio, Santorio, gli Zarot-ti, i Trevisani, i Carli, i Tarsia, i Gavardo, i Gravisi — nonpoteva non lasciare una fulgente traccia nella storia civiledelle nostre terre.

Una città che, tuttavia, poco ha badato a rivestirsidi splendide architetture mantenendo inalterata nei se-coli l’urbanistica medioevale fatta di case per lo piùmodeste, addossate le una alle altre, ma che non hadisdegnato il culto delle arti, del bello, di quelle cose chehanno reso confortevoli e accoglienti le residenze: mobi-lio, suppellettili, quadri, ceramiche, vetri, bronzetti, stof-fe, merletti, gioielli, antichità, pietre sculte e ferri battuti.

Molte delle antichità, per lo più d’epoca romana,erano note fin da tempi remoti, ma pochi sono statidapprima coloro che se ne sono occupati con cognizionedi causa, pochissimi quelli che si sono preoccupati dellaloro conservazione. Poi, grazie al fervore di studi archeo-logici e alla passione dei raccoglitori, specie nel 1700, si

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risvegliava nuovo e generale interesse anche a Capodi-stria.

Tra i primi, dedicavano le loro fatiche in studi degnidi attenzione Gian Battista Manzioli (1611) e il vescovoPaolo Naldini , padovano, autore della nota “Corogra-fia”(1700). Molti dei vescovi titolari della cattedra capodi-striana, anzi, si sono rivelati competenti nella valutazionedelle antichità curandone la raccolta e la conservazione.Ma talora, come nel caso di Giovanni Ingenerio (1576-1600), è prevalsa in essi la preoccupazione di cancellarein qualsiasi modo le testimonianze del paganesimoestrinsecate, nella nostra zona, nei culti di Iside, Cibelee Priapo. Andarono così disperse le dirette testimonianzedi tali culti: talune di esse emigrarono a Padova presso

Il Palazzo Tacco dal Piazzale di San Domenico

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i Rannufi, dalle mani dei quali passarono in Este pressoi Contarini; alcuni pezzi finirono in Inghilterra, a Cam-bridge.

Prospero Petronio (1608-1688), uno dei primi, ave-va messo insieme una raccolta di cimeli tramandandocicome il vescovo Francesco Zeno avesse dato inizio allacostruzione di un “nobil Museo”, opera interrotta forsedalla morte del presule, che era valente cultore di epigra-fia e che si teneva in relazione con altri studiosi scam-biando con essi i testidelle epigrafi che veni-va raccogliendo. For-tunatamente la rac-colta non andò disper-sa per la cura che adessa dedicò il vescovoAgostino Bruti (1733-1747), al quale GianRinaldo Carli tributa-va pubblica lode.

È grazie a questointeressamento sem-pre più diffuso che ciè pervenuta notiziadel ritrovamento disingoli pezzi negli an-ni 1719, 1734, 1735,1737, 1743, 1747, ri-trovamento che altri-menti sarebbe passa-to inosservato o nonsarebbe avvenuto.

Ma è con l’operadi Gian Rinaldo Carli

L’ingresso al museo

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(1720-1795) e del cugino Girolamo Gravisi che questanuova coscienza veniva appieno risvegliata e meglio va-lorizzata in seno all’Accademia dei Risorti.

Durante la sosta nella città natale nel luglio del1750, il Carli, che già aveva dato alle stampe l’operetta“Delle antichità di Capodistria” (1743), non perdeva tem-po ad esortare il cognato Gian Battista Manzioli a curarela raccolta delle epigrafi, dei sarcofagi e degli altri cimelisparsi per Capodistria e dintorni al fine di costituire il

primo nucleo di un museo da siste-mare nella Loggia.

Nel novembre dello stesso an-no, al cognato che gli aveva manda-to notizie in merito, il Carli scriveva:“Mi consolo che la Raccolta cammi-ni bene e che molte iscrizioni sienoormai poste in sicuro a pubblicobenefizio e decoro”. Dopo aver datoistruzioni sulla maniera di accomo-dare i frammenti di un’epigrafe, ilCarli così continuava riferendosi alcatalogo: “Può essere che la vanitàoperi più dell’esempio; e però fate il

libro di cui v’ho parlato essendo costà; e questo abbia pertitolo Museo Giustinopolitano col catalogo di tutti quelliche hanno cooperato o con l’opera e col dono d’iscrizionialla facitura d’esso. Indi in principio del libro dirassi lastoria di questo Museo, cioè come essendo io nel mese diLuglio in Capodistria, l’ho proposto e ho dato eccitamentoed esempio con qualche contribuzione di soldo. Che vis’interessarono i Signori Sindici e fra i Cittadini i tali etali. Qui si trascriveranno esattamente ad una ad una leiscrizioni e d’ognuna si dirà la storia, cioè dove fosseprima, come e da chi posta in Loggia; e questo libro sarà

Il conte Jacopo del Tacco

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la migliore cosa del mondo. Alla fattura d’esso destinateil Marchese Girolamo Gravisi, ch’egli certamente faràonore a se e alla Città”.

Il Gravisi (1720-1812) doveva rivestire anche lacarica di direttore, persona questa indubbiamente capa-ce e adattissima per le vaste cognizioni di epigrafia,araldica, archeologia e storia da lui acquisite nel corso dilunghi e severi studi.

In quell’epoca molteantichità giacevano non solopresso case private ma an-che nelle chiese e sulla pub-blica via. Furono viste dalCarli e da altri studiosi, finoai tempi più recenti, in casaManzini, nella vecchia casaBruti, nelle case Vidacovich,Belli, Petronio, Grisoni, De-rin, Luis, nell’atrio dell’Ar-meria, nella chiesa di S.Cle-mente, davanti a S.France-sco, sul Piazzale di PortaOgnissanti e a Porta Isolana.

Nelle campagne si tro-vavano numerosi resti etracce di fattorie e di villeromane, a Canzano, Cerè, S.Nicolò d’Oltra, Lonche, Pau-gano, Monte, S.Sergio e ai piedi del Monte Sermino.

Il Carli stesso non trascurava diligenza e lavoro per“ragunare, disporre e illustrare — com’egli scrisse — queipochi ma bensì preziosi frammenti di lapidi e di docu-menti che, sicuro indizio dell’antichità di Capodistria,superarono le ingiurie del tempo pervenendoci speciedall’antichità romana”. Ma pochi veramente non erano se

Picchiotto in bronzo del portaled’ingresso, opera di

Tiziano Aspetti

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lui stesso altrove diceva: “È senza dubbio incredibile laquantità di frammenti di tegole e di fabbriche che scor-gonsi nelle vicine colline, siccome indizio di una dimorade’ Romani e de’ Greci”.

Anche in questo dopoguerra, prima dell’esodo, ilprof. Benedetto Lonza e Francesco Stradi hanno raccoltosulle pendici orientali del Monte S.Marco e in zone piùinterne tessere di mosaico pavimentale e frammenti ditegole.

Il progetto del museo patrocinato con tanto caloredal Carli non trovava attuazione malgrado che nuoviritrovamenti venissero nel 1782 ad aumentare il numerodei vecchi. Nel 1792, due anni prima della morte, ilbenemerito cittadino di Capodistria si rammaricava di

Portale del giardino

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questa mancanza scrivendo, tra l’altro, al cugino Gravisi:“Se io avessi potuto ottenere i miei attrassi, che monta-vano a Scudi 20 mila, ci sarebbe a quest’ora una Fabbri-ca, con un portico dove si sarebbero raccolte tutte leantichità e iscrizioni della Città e Provincia”.

Un po’ alla volta veniva a formarsi un notevolelapidario presso l’Episcopio, dove rimasero conservatianche alcuni frammenti venuti alla luce nella demolizio-ne dell’antico edificio episcopale e delle mura cittadine.

Un secondo nucleo formato dai pezzi più notevolirimase, per molti anni ancora, sotto il riparo della Loggia,da dove, verso la metà del secolo scorso, passava nell’atriodel Ginnasio Superiore.

Un terzo nucleo, raccolto a cura della Civica Com-missione di Archeologia, finalmente costituita nell’agostodel 1850, trovava asilo nell’atrio del Municipio.

Verso la metà dell’Ottocento, l’ingegnere provinciale

Mostra delle antichità presso la Prima Esposizione Provinciale Istrianadel 1910

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Benedetto Petronio, incaricato prima dal cesareo governoaustriaco e poi dalla successiva amministrazione italo-francese di provvedere alla demolizione e rifabbrica dimolti edifici pericolanti, trasportava in una sua villa diVal d’Oltra un non piccolo numero di stemmi e di pietreletterate dell’epoca veneta ed alcuni pezzi d’archivolto configure gotiche, ricuperati da qualche chiesetta trecente-sca.

Importanti antichità lapidee venivano donate allacittà, quali i leoni stilifori del portale laterale dell’anticacattedrale, salvati da Andrea Tommasich, e il sarcofagoromano di Julia Septimina già di Giovanni Sandrin(1877).

Tuttavia non pochi marmi lavorati ed epigrafi im-portanti andarono disperse o trovarono sistemazione a

Il lato orientale dell’orto lapidario

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Trieste, a Padova, comein passato nelle case dimolti nobili venezianiche erano venuti a Ca-podistria quali podestàe capitani, e perfino inVaticano e a Vienna.

Non sarebbe statodifficile l’istituzione diun buon museo lapida-rio, che avrebbe potutoaccogliere una cin-quantina di lapidi ro-mane, frammenti di arevotive e funerarie, sta-tue, sarcofaghi e fram-menti musivi. Di questeepigrafi, sedici non esi-stono più e una decinaè stata esportata. Sicontavano inoltre, nelperimetro cittadino,335 epigrafi medioevalie moderne datate dal1268 al 1798, un’ottan-tina delle quali non piùesistenti. Non si trovatraccia delle numerosepietre tombali inseritenell’impiantito del Duo-mo, levate nel corso deilavori di rimoderna-mento dello stesso (pri-ma metà del ’700) non-

La Colonna Infame col motto«Giustizia porta in alto mia figura».

Distrutta nell’agosto del 1949, portava inbassorilievo un Leone Marciano in mole-ca, lo stemma cinquecentesco del pode-stà e capitano Cicogna e lo stemma col

sole raggiante di Capodistria

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ché di quelle che furono levate dalle altre chiese, special-mente da quella di S.Francesco, soppressa nel 1806.

Numerosi anche gli stemmi gentilizi in basso, medioe altorilievo, circa 320, tredici dei quali dispersi dopo il1745 e nel 1812, quando il generale austriaco Laval de

Nugent faceva le-vare dalla facciatadel Palazzo Preto-rio quelli chesembravano peri-colanti. In tale oc-casione prese lavia della terrafer-ma anche il gran-de Leone marcia-no dell’Armeria,che oggi si trovaall’ingresso del ca-stello di Tersatto,presso Fiume, iviposto dal Nugent(una pratica av-viata dal Munici-pio nel 1941 per lasua restituzionenon ebbe seguitoper il disastrosoesito della guerra).A proposito di Leo-

ni marciani, va notato che Capodistria vanta il maggiornumero di esemplari dell’Istria, tra i quali il più antico ecaratteristico, sicuramente datato (1317) e, caso unico,coronato.

Verso la fine del 1700 molte delle casate gentilizie,

Gli artefici del museo Ranieri Cossare Antonio Alisi

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di pari passo con lo sca-dere della città, andaro-no in rapido decadi-mento e, per far frontealla necessità di denaro,ricorsero alla venditadel mobilio e delle sup-pellettili non necessa-rie, ritirandosi in abita-zioni più ristrette e rele-gando nelle soffitte og-getti ed archivi di fami-glia ritenuti di nessunvalore economico.

Verso la fine delsecolo scorso eranoestinte o emigrate granparte delle antiche ca-sate, dei Baseggio, Bel-gramoni, Bratti, Bruti,Carli, Fini, Grisoni, Lu-gnani, Manzioli, Tacco, Tarsia, Verzi, Vida, Vittori, Za-rotti. Alcune di esse (Barbabianca, Bocchina, Sabini)avevano lasciato i loro averi o il nudo titolo nobiliare adaltre famiglie (la dispersione ricevette infine il colpo digrazia nel 1945, con l’esodo che è sciaguratamente se-guito con la fine della guerra).

Antiquari, rigattieri e speculatori hanno approfitta-to largamente di tale situazione: c’è ancora chi ricorda gliimbarchi sui trabaccoli di vecchio mobilio, di casse dianticaglie, di oggetti d’arte. Nel 1902, per entrare neldettaglio, alcuni antichi rosoni di pietra con teste inbassorilievo, levati dal cosiddetto “Teatro Vecchio”, furo-

Ingresso del lapidario medievale con ileoni stilifori provenienti dal portale late-

rale dell’antica cattedrale.

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no comperati da alcuni mercanti triestini per 100 fiorinied asportati.

Giuseppe Caprin ne “L’Istria Nobilissima” (1905-1907) e Antonino Santangelo nell’“Inventario degli oggettid’arte d’Italia – Provincia di Pola” (1935) danno buoneindicazioni di quanto si potesse trovare. L’arte dell’inta-glio in legno, dal mobilio alle cassepanche e alle cornici,l’arte del ferro battuto, i bronzi artistici dalle statuine aipicchiotti, i quadri e le stampe, il cuoio lavorato e i ricami,le armi antiche, i vetri, le terracotte e le maioliche eranola passione dei nostri avi che, nei tempi migliori, neadornavano a profusione le case più ricche.

Dopo la metà del secolo scorso si determinava unnuovo risveglio di studi e di ricerche in funzione, spesso,di difesa del patrimonio culturale minacciato dallo slavi-smo favorito dal governo austriaco in funzione antirre-dentistica, e nuove pietre romane venivano alla luce nel1857, 1861, 1882, 1898.

In occasione della Prima Esposizione ProvincialeIstriana, tenuta a Capodistria dal maggio al settembre del1910, riscuoteva grandissimo successo una grande mo-stra d’arte antica allestita dalla Sezione per le Belle Artiin una grande aula di S.Chiara. In quell’occasione ilgrosso pubblico ebbe, forse per la prima volta, la rivela-zione degli autentici tesori artistici sparsi anche nellelocalità più insospettate, esposti quasi tutti ai pericoli diuna difettosa conservazione ed alla incontrollabile possi-bilità dell’asporto e del furto. La Sezione, presieduta dallostorico Bernardo Benussi e costituita da personaggi illu-stri quali il musicista Antonio Smareglia, Attilio Tamaro,Andrea Amoroso, i pittori Guido Grimani e Pietro Fragia-como, e per Capodistria dai professori de Petris, Majer,Bondi, Vidossi, fece veramente un buon lavoro.

Con materiale tanto disponibile e tanto apprezzato,

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tornava d’attualità la costituzione di un museo civico. Itempi erano maturi, il podestà Bortolo Sardos e l’avv.Felice Bennati, esponente di primo piano della vita poli-tica e sociale, raccoglievano questa volta l’antica aspira-zione complice, forse, l’euforia del momento. Nel febbraiodel 1911 veniva pubblicato lo statuto organico, che nel-l’Art.1 recitava: “Il Museo è istituito per raccogliere econservare anzitutto quanto riguarda storicamente odartisticamente la città ed il distretto di Capodistria, ed ingenerale l’Istria, e ciò a scopo di studio e di utilitàpubblica”.

Conviene, a questo punto, passare la parola ad unodegli artefici principali, ad Antonio Alisi.

“Nel 1909 mi sono trasferito a Capodistria per lasalute del mio secondogenito Sergio e ogni giorno partivocol vaporino delle 6 (capitani prima Scopinich, poi Naza-rio Sauro) per Trieste, con qualsiasi tempo, per lavorareal mio ufficio. A Capodistria feci varie conoscenze ed

Lato occidentale del grande atrio. La porta di fondo dava ingresso alla Bi-blioteca Civica.

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amicizie, per cui mi affezionai alla città e cominciai astudiarne la storia frequentando l’archivio comunale equello dei frati di Sant’Anna.

«Nel maggio 1910 mi colse una grave polmonite(abitavo in casa Vida) e fui curato dal dott. Luigi Longo,che mi salvò. Da ciò ulteriore affetto per Capodistria e icapodistriani, e interesse per la sua storia come per il suosviluppo futuro. Il professor Francesco Majer, che dirige-va la biblioteca e l’archivio comunali, mi volle nelladirezione delle “Pagine Istriane” col consenso dei profes-sori Pellis, Volpis e Lorenzoni, divenuti miei buoni amici.Incoraggiato dall’altro amico, padre Giacinto, biblioteca-

Salone del primo piano. Il grande quadro rappresenta la cerimonia diingresso nel duomo del podestà e capitano Sebastiano Contarini (1517) edè opera di Vittor Carpaccio. I due quadri più piccoli, ai lati, rappresentanola Madonna col Bambino di Alvise Vivarini (1489) e la Madonna colBambino attribuita a Nicolò Rondinelli.

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rio del convento di Sant’anna, compilai in fretta, senza lasufficiente preparazione, purtroppo, una breve monogra-fia sul convento di S.Anna, che fu pubblicato a mie spesedal Priora in occasione della Esposizione provincialeistriana del 1910.

«In quest’ultima non ebbi nessuna parte, però vidiche già diversi antiquari e rigattieri trattavano con levecchie famiglie capodistriane per acquistare loro cimelied oggetti d’arte. Ne parlai subito all’On. Felice Bennatie al podestà Bortolo Sardotsch, proponendo loro di for-mare un museo cittadino. Entrambi accettarono conentusiasmo la proposta e la portarono nel ConsiglioComunale. Autodidatta, non cittadino capodistriano, po-vero in canna, io mi tenni in disparte, felice d’essere statoascoltato e di avere contribuito a salvare molti cimeli eopere d’arte, se si fossero associati anche quei pochi chea Capodistria s’interessavano seriamente di ricerche estudi storici.

«Nell’ottobre 1910 fui chiamato in Municipio e mi sicomunicò ch’era stato deciso di fondare il museo, cui invia provvisoria si assegnavano quale sede due sale nelconvento di Santa Chiara, che all’istituzione si destina-vano una volta tanto 800 corone nell’attesa di vederel’esito. Inoltre mi si comunicava che alla direzione sareb-be stato posto il bibliotecario e archivista comunale prof.Majer, segretari il maestro Cossar ed io, consiglieri didirezione il prof. Musner e il prof. Babuder.

«Già dalla prima seduta della direzione del museocompresi che:

1) il notaio Petris e il maestro Cossar, raccoglitoriessi stessi di antichità, non avrebbero collabo-rato che a parole,

2) il prof. Musner, dottissimo nella storia dell’arte,

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non aveva alcuna esperienza pratica nel giudi-care e valutare le cose d’arte,

3) il prof. Babuder, ottimo patriota, dotto, ma senzaalcuna preparazione storico-artistica e abulico,sempre titubante,erano tutte forze negative.«Occorreva tenersi buono il prof. Majer per poter

ottenere innanzitutto quanto possedeva già il Municipio,le tele di Benedetto Carpaccio, alcune seggiole seicente-sche, cinque alabarde ecc., onde formare un nocciuoloper la nuova istituzione, poi mettersi a girare per le case,a fare propaganda, a raccogliere oggetti, o in dono, o incustodia (almeno per cinque anni). Ma non meno acqui-

stare quanto si poteva,ed al più presto procu-rarsi delle vetrine. In-somma ci voleva co-stanza, abnegazione,energia. La più doloro-sa delusione mi atten-deva: nulla ho potutoottenere dalle famigliepatrizie; quanto pote-rono, invece, a miogrande conforto, ot-tenni dai piccoli edumili cittadini, chespesso mi cedevano leloro cose senza preteseesagerate.

«Le vetrine ebbidal falegname .... (nonricordo il nome), che leaveva comperate in

Statuto organico, edizione del 1911.

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blocco da una mostra marittima e coloniale di un paiod’anni prima. Feci stampare i registri, poi anche cartolinee una guida-ricordo.

«Nell’aprile 1912 dovetti lasciare il museo (che pos-sedeva ormai 800 oggetti) perché nominato capo-ufficiodella direzione della Riunione Adriatica di Sicurtà delCairo, e al mio posto subentrò il signor Cossar, cui spettail merito di aver trasportato il museo nella sede stabile,nel palazzo Tacco.

«Da notare è che non ho mai avuto un compensoper il mio lavoro, non solo, ma che per affrontare le spesedi qualche acquisto (urna a cesto di Oltra, acquistata dalsig. Spagnol) ho ottenuto un contributo dalla Soprinten-denza di Trieste, poi ho venduto il mio orologio d’oro concatena. Appunto per ristrettezza di mezzi non ho potutosviluppare la collezione preistorica e romana. La meda-glia di S.Elena del Calafati, sparita misteriosamente, hodovuto rimpiazzarla concorrendo ad un’asta a Parigi (oraanche questa è sparita!).

«Ritornato dopo la guerra del 1914-18 (cui parteci-pai) da Tolmino (gennaio 1919) mi stabilii a Trieste econtinuai i miei studi di storia e di storia d’arte, nonimmischiandomi affatto nelle faccende del museo capo-distriano fino a che il podestà Piero de manzini non michiamò (1925 o 26?) per invitarmi a riprenderne la dire-zione. Da allora fino al gennaio 1930 riordinai le singolesale, tenendo presente che il museo di Capodistria deveriflettere l’influenza di Venezia nell’Istria, deve rimanerenell’ambito della vita provinciale veneziana, quindi rac-cogliere quanto l’arte ed i costumi veneziani avevanolasciato, non Giorgioni, o Tiziani, o Michelangeli ....

«Nel 1930 fui nominato Commissario prefettizio delMuseo di Bolzano e con grande dolore dovetti distaccarmidalla mia cara Capodistria.»

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Felicissima lasistemazione definiti-va della sede musealea Palazzo Tacco, de-corosa costruzione diinteresse artistico instile tardo rinasci-mentale, la più cospi-cua della città. Laquale, però, aveva bi-sogno di restauri e diadattamento, per iquali si ottenne unpronto contributo delgoverno italiano e ilconcorso volontariodi non pochi cittadini.I lavori iniziavanonell’agosto del 1921,venivano eliminate lemanomissioni che

deturpavano la chiara quadrifora della facciata, fu ripri-stinato l’ampio atrio che correva da una facciata all’altradel grande edificio, fu provveduto alla recintazione delgiardino ampliato con l’abbattimento di certe casupolealzate in tempi andati a ridosso della facciata meridiona-le.

Il prof. Ranieri Cossar (ispettore onorario per imonumenti, scavi, oggetti d’antichità e arte) provvedevaalla sistemazione del giardino raccogliendo in esso icimeli lapidei più grandi, tra i quali meritevole di menzio-ne la ricostruzione della Colonna Infame (agosto 1922)che, smembrata, da moltissimi anni era stata abbando-nata a ridosso della facciata dell’ex chiesa di S.Francesco,

Bacco giovinetto in un bassorilievo delLapidario Romano

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la ricostruzione del portale del magazzino del sale con ilLeone marciano, lo stemma e l’epigrafe del podestà ecapitano Zaccaria Bondumier (1628), alcune arcate goti-che con figure in bassorilievo provenienti da una chieset-ta di Val d’Oltra, tutta una serie di palle da bombarda inpietra, di varie misure, ricuperate tra il 1921 e il 1923.

Il grande atrio accoglieva la mostra araldica edepigrafica dal 1269 al 1700 con 48 stemmi lapidei e 19epigrafi; ai lati del portale, che dava sulla scalinata delprimo piano, si aprivano il lapidario romano e il lapidario

Saletta con antichità provenienti dal 1500 al 1700. Da notare, in particolare,la bandiera della galea “Leona con mazza”, che ha partecipato alla battagliadi Lepanto (1571) e, in primo piano, la bandiera del Collegio della Sanità,con il Leone che impugna sette lance, emblema unico nell’iconografiamarciana.

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medioevale, con altre epigrafi e stemmi, il tutto ordinatoin quattro sezioni.

Al primo piano, il salone centrale accoglieva le telepiù grandi, pale d’altare e i quadri più preziosi d’artesacra e profana, una piccola pinacoteca alla quale confe-rivano lustro i prestigiosi nomi di Vettor e BenedettoCarpaccio, Alvise Vivarini, Nicolò Rondinelli, Girolamo daSanta Croce, il Padovanino e altri pittori di scuola veneta.Il salone dava accesso a sei salette laterali, in una dellequali veniva ricostruita un’antica cucina con grandecappa decorata da cornice intagliata (ricuperata in unacasa di S.Pieri) e mostra di un notevole numero di rami,lumi, stoviglie e accessori. Notevoli i cimeli d’epoca napo-leonica (1806-1813), tra i quali un autografo di Napoleo-ne e una fascia con il tricolore italico, il primo di Capodi-stria, appartenuta ad un esponente della famiglia deBaseggio.

Saletta con cimeli vari del 1700 e del 1800.

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In un’altra saletta venivano esposte le memoriestoriche delle guerre dell’indipendenza e dell’irredenti-smo, fino alla redenzione, alle quali la città aveva dato uncontributo sostanziale (1848-1918): era, significativa-mente, la saletta Nº6, già sede del Fascio GiovanileIstriano fondato da Pio Riego Gambini nel 1909.

In tutto diciotto sezioni. Altro materiale in via diordinamento si trovava nel secondo piano, non ancoraaccessibile. Il curatorio era formato da Piero Almerigogna,professor Pio Ba-buder, notaio Gia-como Biscontini,segretario comu-nale Elio Longo,architetto Giovan-ni de Madonizza,professor Giovan-ni Majer.

Ne risultò«un singolare mu-seo — come ebbe ascrivere IgnazioDomino su “I Qua-derni delle Tre Ve-nezie” — e degnodi tutta lode; edauguralmente diimitazione daquante altre pic-cole città italiane enon istriane sola-mente possono opotrebbero fareper una sforzo af-

Saletta Napoleonica. Notasi il diploma di Ufficia-le Aquila d’Oro della Legione d’Onore ad AngeloCalafati con firma autografa di Napoleone e lafascia del primo tricolore italico di un Baseggio.

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fine. Sorto quasi dal nulla, e in un modesto centro diprovincia, il Museo di Capodistria riunisce manifestazio-ni storiche ed artistiche le più varie, e quasi di ogni tempoe civiltà.»

Molti furono i visitatori illustri e molti i consensi.

La prima Mostra del Risorgimento con cimeli e documenti riguardanti lapartecipazione di Capodistria. L’armadio in primo piano contiene, tra l’altro,cimeli di Nazario Sauro.

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Nel 1935, per le cure dell’architetto Giovanni deMadonizza, in concomitanza con il riassetto cittadino inpreparazione delle cerimonie per lo scoprimento del mo-numento nazionale a Nazario Sauro, il museo subiva unatrasformazione radicale.

Veniva costruita una comoda scala dal primo alsecondo piano, reso così utilizzabile; si riassettava ilgiardino con lavoro divenuto necessario dopo che laDirezione di Artiglieria di Trieste ebbe ritirato i duecannoni, cimeli della guerra 1915-18, per molti annirimasti in deposito (non proprio pertinente) in un angolodel giardino stesso; la mostra del Risorgimento capodi-striano riceveva più ampio respiro mentre qualche altramostra veniva eliminata. La cosa non piacque ad AntonioAlisi, che ha scritto: “Il riordinamento ha scompigliatotutto. La signora de Madonizza (l’Alisi vedeva nella fac-cenda il suo zampino) ha fatto eliminare la collezione dipizzi francesi donata dalla mia prima moglie al museo e

La Mostra del Risorgimento ristrutturata nel 1935.

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ch’erano stati donati dall’imperatrice Eugenia alla suanonna (valenciennes e altri pizzi preziosi, come la cuffiet-ta del principe Lulù, figlio di Napoleone III). Sono stateeliminate tutte le armi, di cui alcune di grande valore, egettate nel solaio!” Riferimento questo, ai due rarissimiarchibugi da posta, provenienti dal castello di Pisino, chel’Armeria di Castel Sant’Angelo di Roma avrebbe volutole venissero ceduti. “Si truccò il museo — ha scrittoancora l’Alisi — ho visto un tavolinetto Cheappendale dilegno lucidato, laccato in verde e con fiori per ridurloall’aspetto goldoniano! Stile Cocever! Non ci sono statoche una volta nel 1942 .... e non vi tornerò più!”

La nuova sistemazione non fu accolta senza pole-

Ricostruzione di una cucina con una ricca raccolta di utensili e stoviglie.

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miche anche tra i cittadini: si mosse l’osservazione checol dare la preminenza a poche tele d’autore, sia pure divalore inestimabile, si era voluto creare un “bel museo”sacrificando il colore ben definito del museo capodistria-no senza una concreta contropartita.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale l’istitutoentrava in quella stessa crisi che colpiva anche gli altrimusei. Nel giugno del 1940 arrivava la disposizione dellosgombero delle opere d’arte e degli oggetti di valore persottrarli al pericolo delle incursioni aeree. Molta parte deicimeli entrava così in alcune delle casse che la Sovrin-tendenza delle Belle Arti di Trieste faceva uscire dallenostre terre.

Un altro lato della cucina.

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Tali casse venivano sistemate, con tutte le cautelerichieste, nella Villa Manin di Passariano, tra Udine eCodroipo. Quivi i cimeli rimanevano sotto buona custodiafino al tragico settembre 1943 quando, per sottrarli aiTedeschi, furono dispersi nella provincia e riparati inedifici non appariscenti.

Fu una vera fortuna perché le opere d’arte e leantichità vennero salvate non dai bombardamenti, chenon ce ne furono, ma dall’equivalente calata slavo-comu-nista. È facile immaginare, ad esempio, la fine che avreb-bero fatto i cimeli e i documenti della Mostra del Risor-gimento Capodistriano.

Il pianoterra del Palazzo Tacco veniva requisitadall’amministrazione militare tedesca che vi sistemava il

magazzino di un repartodi sussistenza, compresauna scorta di carbone,invadendo anche un lo-cale della Biblioteca Civi-ca (che aveva sede nellostesso Palazzo). Una doz-zina di vecchie caratteri-stiche ceramiche venivaprelevata arbitrariamen-te da Giuseppe Borisi peradornare la mensa delreparto di marina acca-sermato al Porto e non fupossibile trovarne, poi,traccia. Il giardino veniva

affidato al proprietario dell’adiacente albergo “Alle Ban-diere” che, per la verità, ne ebbe cura.

Terminata la guerra, una parte della requisizioneveniva mantenuta dai nuovi occupatori slavi mentre il

Saletta riordinata per la riaperturadel museo (1948)

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grande atrio finiva per es-ser adibito a disordinatodeposito comunale, e cosìpure il Lapidario Romano,ingombro di cavalletti dilegno e di paglia.

Alla fine del 1945 lanuova amministrazionecivica del “potere popola-re” sollecitava il curatorio,formato di fatto dall’archi-tetto Giovanni de Mado-nizza e dai professori Be-nedetto Lonza e Pio Babu-der, a riaprire il museo.Nel gennaio del 1946 iniziavano i lavori di rimozione deimateriali estranei, di revisione dell’inventario e di riordi-no. Malgrado i continui solleciti, nessun aiuto concretoveniva concesso. Soltanto per lo sgombero dell’archiviodella pretura, che da anni era finito ad ingombrare illapidario medioevale subendo dei danni a causa di certevene d’umidità, furono messi a disposizione due o tredetenuti comuni, con relative guardie, col compito ditrasferire l’archivio nelle soffitte. Venivano controllaticirca 2500 numeri d’inventario con il riscontro di gravimancanze, guasti e rotture talvolta irreparabili e nonsempre imputabili a caso fortuito. Il salone centrale delprimo piano appariva sgombro, con solo cinque tele dipoco valore e le cornici, vuote, di quelle asportate permetterle al sicuro; la Sala del Risorgimento era ingombradi casse e mobili, con le vetrine vuote; ingombra anchela Cucina Istriana con le raccolte in cattivo stato diconservazione; unici ambienti senza disordini la SalettaNapoleonica e la Saletta del Settecento, con le vetrine a

Saletta del Settecento Capodistriano,riaperta nel 1948

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posto ma il tutto sotto polvere. Il secondo piano si pre-sentava in uno stato ancor peggiore e indescrivibile pergli oggetti ammonticchiati nel modo più eterogeneo, ri-dotti per lo più in cattivo o pessimo stato. Il lavoro venivacondotto e portato a termine grazie alla buona volontà dialcuni studenti, tra i quali Ricciotti Giollo, che, eseguitele più urgenti manutenzioni ai serramenti e all’impiantoelettrico, si sobbarcava anche il compito di riordinarecome meglio poteva i lapidari e le mostre predisponendoper il pubblico cinque sale al primo piano ed una alsecondo. Le statue bronzee del monumento nazionale aNazario Sauro (smontato dai Tedeschi durante la guerra),il Marinaio, la Madre e l’Eroe, opera dello scultore AttilioSelva, adagiate lungo una parete dell’atrio, venivanoalzate e ricomposte in un gruppo dignitoso e significativo;restaurata e ricomposta anche l’erma marmorea di PioRiego Gambini, opera dello scultore Rovan, abbattutadurante una manifestazione antitaliana e ricuperata astento. Sono stati gli ultimi lavori curati dal prof. Bene-detto Lonza prima del suo esodo, con l’aiuto del tecnicocomunale Snaier Salvi.

Il museo veniva riaperto nel maggio del 1948 sottola direzione del pittore Leondino Stradi. Riprendeva timi-damente il flusso dei visitatori ma subentrava presto unanuova direzione, non più cittadina, che mutava radical-mente l’indirizzo originario dell’istituto cambiandone an-che il nome. Eliminate le statue superstiti del monumen-to Sauro (fatte a pezzi per la fonderia) e l’erma Gambini(smontata e relegata in uno scantinato), il grande atrioveniva rivestito, per lunghi periodi, con pannelli di legnoche nascondevano le epigrafi e i numerosi stemmi lapideidei podestà e capitani veneti e dei patrizi murati sullepareti, precludendo anche il libero ingresso al pianosuperiore, per far posto alle mostre fotografiche e propa-

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gandistiche del “potere popolare”, dietro il quale si celavail nazionalismo slavo, mentre i lapidari romano e medioe-vale passavano all’ufficio di retrobottega degli elettricisti.L’orto lapidario restava requisito dai militari, che man-davano in frantumi la Colonna Infame e si liberavanodelle palle di cannone in pietra facendole rotolare fuori.

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Appendice

La decorazione muraria interna di Palazzo Tacco

Il secondo piano presentava alcune stanze dell’aladi sinistra con una singolare e interessante serie didecorazioni pittoriche.

Prima stanzaLa prima stanza era decorata con una fascia, a

contatto delle travature in vista del soffitto, con soggettimilitari: corazze, moroni, balestre, alabarde, celate, selle,tamburi, cannoni, trombe, lance, vettovaglie, mazze, ar-mi turchesche, fiaschette da polvere, bandiere, colubrine,faretre, ferri da cavallo, lanterne, utensili da fabbro,cornette, utensili da falegname, libri, bracciali. Di frontealla porta d’ingresso appariva un Leone marciano inmoleca e lateralmente, fronte a fronte, uno stemma Ga-vardo con cimiero e svolazzi ed uno stemma Tacco,parimenti con cimiero e svolazzi.

I parapetti di ciascuna delle quattro finestre dellastanza erano laboriosamente decorati con scene, in cor-nici barocche, ispirate alle imprese dei Tacco e dei Ga-vardo al servizio della Repubblica Veneta.

Prima finestra: Motto figurato HÆC REGNA HÆCREGES HÆC LEGES GENTIBUS ADSUNT, con accompagna-mento di motivi militari, in svariata gamma di tinte.

Seconda finestra: Battaglia navale tra sei galee euna barcaccia armata, con tonalità azzurre, brune edarancione; probabilmente un episodio della battaglio diLepanto, quando la galea di Domenico del Tacco catturala galea turca.

Terza finestra: Scontro di cavalleria in riva al mare,in tonalità azzurre ed arancione.

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Quarta finestra: Assedio o azione militare sotto lemura di una città turrita, con tonalità viola ed arancione;trattasi probabilmente della presa di Candia da parte diSanto Gavardo.

Tutte queste pitture sono state restaurate, forse nonmolto felicemente, dal pittore Ermenegildo de Troy.

Seconda stanza.A contatto della travatura in vista del soffitto corre-

va una fascia decorativa con mensolette reggenti busti dipersonaggi eseguiti ingenuamente con tonalità grigie conritocchi gialli, in numero di 32, la maggior parte dei qualicol nome del soggetto rap-presentato. A partire da si-nistra della porta d’entrata:Flavio Vespasiano, Tito Ve-spasiano, Flavio Domiziano,-, Ulpio Traiano, Publio Elio-gadel, Anton Pio, M.AurelioAntonino, Comodo, PublioElio Per Ina, -, -, -, Macrino,M.Aurelio Antonino, Ales-sandro Severo, Ulio Massi-mino, Gordiano, M.GiulioFilippo, Decio Traiano, -, -,-, Romolo Augustolo, JulioCesare, Cesare Augusto, Cesare Tiberio, Cesare Nerone,Aulo Vitellio, -, -, -.

Anche questa seconda decorazione, come la se-guente, sarà stata restaurata, probabilmente, dal pittoreErmenegildo de Troy, che s’era prestato a ritoccare anchealcune altre tele .

Schema della decorazione

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Terza stanza.A contatto della travatura in vista del soffitto corre-

va, anche qui, una fascia decorativa intercalata da men-solette tra spazi occupati da volumi riposti come su diuna libreria, sulle schiene dei quali si leggeva il nomedegli autori: Servius, Vossius, Villa, Perottus, Alvarus,

Sidopus, Bebelius, VerniusFlacus, Anacreion, Aratus,Asianus, Archilochus, Calli-machus, Euripides, Hesiho-dus, Homerus, Meleander,Ipianus, Nicomacus, Simoni-des, Thersichorus, Theocri-tus, Paulus, Terentius, T.Lu-cretius, Catulus, VirgiliusMar, Horatius Flacus,M.Martilius, Albius Tibullus,Ovidio Naso, Julius Monsa-

nus, L.Anneus Seneca, M.Anneus Lucanus, Pub. StatiusPapinius, Sillius Italicus, M.Val.Martialis, Claudianus,Ausonius, Prudentius, Demetr… Alekeus, Isocrates,Eschines, Aristides, Democrates, Sofocles, Drus Cicero-nus, Pitagorus, Herodes, Hyperides, …listrus, Pericles,Putheas, Pollænus, Demades, Cimbaous, Antiphorhans,S.Lucas Evang, S.Augustinus, Tertulianus, S.Thomas,Boetius, S.Gregorius, S.Ambrogius.

Gli ultimi otto nomi apparivano quasi cancellati,altri erano completamente sbiaditi e illeggibili. Il pittorede Troy avrà probabilmente storpiato, nel riscriverlo,qualche nome.

Una singolare nomenclatura, che torna a testimo-nianza del gusto di un’epoca, degli indirizzi culturaliancora imbevuti di classicità e della preparazione lette-raria dell’ignoto committente.

Schema della decorazione

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Antroponimi epigrafici

Dall’epigrafia romana (i no-

mi sono riportati al nomi-

nativo):

Tullia Septimina TulliaP.Elius VictorC.CalpurniusC.FrugiusAlexa (?)Sabinnaeus o SabinnieusVolumniaCerulaQ.CerviusSex BrinniariusUscus (?)OctaviaF.SenecaLucidaC.Lorentius TesifonDesmeholohios Dorozeos

Dall’epigrafia medioevale:Marinus Mauricinus (Moro-sini, 1269)S.PetrusS.BartolameusS.IacobusD.Maurocenus (Morosini,1480)Marco Memo (1429)Nicolaus Superantius (So-ranzo, 1439)Zanetto Calbo (1434)

Rainaldo GavardoBartolomeo Coleono (Colleo-ni)

Dall’epigrafia del Secolo

XVI:Marino Mauricinus (copiadell’epigrafe del 1269)Alvisius Mulla (da Mula)Ioannes Ingenerio (1527)Antonio Zaroto (1589)Leander Zar(otus) (id.)Io. Paulus (Zarotus) (id.)Roncadinus Spelatus (1576)Ioanes Maripet(rus) (Malipie-ro, 1581)Zar et Hieronimus Ga(var-dus) (id.)Leander Zarottus (Zarotti,1596)Alexander Zarotus (id.)

Dall’epigrafia del Secolo

XVII:Zaccaria Bondumerius (Bon-dumier, 1626)Laurentius Manzago (1631)Nicolaus Zarotus (Zarotti,id.)Octavius Pola (id.)Iacobus Gabriel (1645)Antonius Grimani (1646)Nicoleus Zarotus (Zarotti,1670)

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Franciscus Zar(otus) (id.)Laur(entius) Don(atus) (Do-nà, 1674)

Dall’epigrafia del SecoloXVIII:

Th(omasus) Maur(ocenus)(Morosini, 1706)Marcus Magno (1712)Io Baptista Basadona (1738)Maria, coniuge (id.)Augustinus de Brutis (Bru-ti, 1740)Bernardino Fracchia da Va-lenzia (1747)Vincentius Balbus (Balbi,1764)Ioannes Babtist(a) Manzo-lius (Manzuoli, id.)

Ioannes Antonius Gavardo(id.)Ludovicus Maurocenus (Mo-rosini, 1784)Zmaradga Otacia (Smeraldadel Tacco, 1787)Franciscus Tarsius (Tarsia,id.)Matheus Dandulus (Dando-lo, 1788)Iacobus Manzini (id:9Franciscus Innocens Gavar-do (id.)

Secolo XIX:Franciscus I (1814)Franciscus I (1816)B.Maria de Monte Carmelo(1862)

Antroponimi araldici

Tacco Morosini (Marino, 1269 e co-pia cinquecentesca)PetronioPolesiniMiani (Nicolò, 1608)Vitturi (Giovanni, 1481)LeporeDonato (A.1609)Benzon Donato (V e G,1618)Soranzo (Nicolò, 1439)Tarsia

Tarsia (Esmeralda)Bruti (Agostino, 1733-47)Nadalini (?)Contarini (Gabriele 1676 oPietro 1730) Zeno o ValaressoNaldini (Paolo, 1704)Donato (Lorenzo 1675 o Ni-colò 1771)Venier ( Gio Antonio 1579 oGabriele 1688)Tarsia Tacco (Esmeralda eFrancesco 1787)

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GrisoniBadoerOrdine dei Servi di MariaVerzi Valier (Ottaviano, 1568)VerziSantorioTiepolo (Alvise, 1639)Gavardo (Santo 1461)Rusconi (Girolamo 1620-30)VittoriGradenigo (Domenico 1553)MorosiniGabriel (Jacopo 1695)Valaresso (?)ManziniContarini (Tommaso 1585)GravisiBarbaro (Marino 1621)BarbabiancaLongo (Francesco 1510,?)Diedo (1532)VittoriDonato (Lorenzo 1674?)Musella (Fr 1733)Zeno (Francesco 1614)Cocco (Giustiniano 1724)BarbabiancaFrancesco da Cologna ?VergerioVerziMemo (Marco 1429)Minotto (Giovanni 1614)

SereniCaotorta (Cesare 1672 o Lo-renzo 1714)BaseggioTottoBarbabiancaLoredan (Giovanni 1390 ,1411)RemizioBenzon (Gio Batta)Magno (Marco 1712 o PietroAngelo 1739)Donato (Lorenzo 1674 o Ge-rolamo 1776)Donato (Nicolò 1771?)Santini (?) Candussio (?)Bondumier (Zaccaria 1628-91)ZarottiValentico (Adriano Beretti1566-72)Dandolo (Enrico 1752)Dandolo (Enrico 1752) fram-mentoBerrera (stemma spagnolo)Sole araldico della cittàCicogna (Francesco 1515 oGerolamo 1530)

Alcuni stemmi non sono

stati identificati.

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