36

Le arance di dubai

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Mainstream, Cristina Costa

Citation preview

CRISTINA COSTA

LE ARANCE DI DUBAI

www.0111edizioni.com

www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it

LE ARANCE DI DUBAI Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-447-5 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Luglio 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

A Francesco Fausto, Claudia e Adriano

le pagine più belle della mia storia

A Giuseppe per tutta la strada che abbiamo percorso insieme

e per quella ancora da percorrere.

“La Sicilia e i suoi dotti vivevano all’ombra di una fresca vita di delizie

la sicurezza vi aveva disteso i suoi veli, e la fama di lei

andava per il mondo in carovane; temuti i suoi guerrieri,

rinomati i suoi uomini di penna. Ma essi non furono grati a Dio

della grazia loro concessa e in cambio dell’acqua dolce

ebbero il sale”

(Yahya Ibn Al-Katani)

5

CAPITOLO 1 Stiamo per raggiungere l’aeroporto Falcone Borsellino di Palermo; ad annunciarlo è una voce metallica e monocorde, in francese dapprima, perché è su una linea francese che voliamo, in arabo poi, in italiano in-fine. Una sola lunga emissione di fiato; parole, che si susseguono senza pause né inflessioni, annunciano che la temperatura è di ventisette gra-di, il cielo limpidissimo e che fra meno di cinque minuti saremo a terra. Istintivamente guardo fuori dall’oblò in cerca di un lembo di costa sici-liana. Ma tutto ciò che vedo è il mare estendersi a perdita d’occhio. A-spetto di scorgere all’orizzonte lo scorcio di litorale roccioso che da Punta Raisi corre verso Palermo, declinando dolcemente per lasciar po-sto a lunghi tratti sabbiosi. Sono nato e ho vissuto la mia adolescenza in questo pezzo di Sicilia. Ma è stato tanto tempo fa. Siamo sospesi a pelo d’acqua, una distesa scura e immensa poco sotto di noi, nessuna traccia della pista. Una certa inquietudine attraversa ra-pidamente il mio intestino, ma è una sensazione inafferrabile che pochi istanti dopo si dilegua in un rassicurante ricordo: l’atterraggio a Paler-mo è sempre così, quando l’impatto con il mare sembra inevitabile e la paura si insinua nella mente foggiando fantasmi catastrofici, puntuale compare la pista di solido asfalto grigio, compatto e meravigliosamente vitale. Mi giro a guardare mia moglie. Sul suo volto i miei stessi sospiri, i ri-cordi intatti come se non fossero passati che pochi giorni dall’ultimo nostro volo sopra questo mare. Marco e Giuliana, i nostri figli, due file più avanti, sembrano eccitati dalla vista del nulla sotto di loro. È la loro prima volta in Sicilia. Con le mani intorno alla bocca a disegnare un megafono, Giuliana continua a ripetere ridacchiando: «Qualcuno dovrebbe avvertire il comandante che stiamo precipitando.» Lo dice nel suo francese perfetto, impeccabile per la pronuncia, per la erre arrotondata e dolce, per l’intonazione delicata. Una purezza che manca al mio francese, miscellanea di lingue e intonazioni che ho fatte mie negli anni. Marco, a mani strette sui braccioli del sedile, le dice: «Zitta scema, guarda che c’è davvero qualcosa che non va. Vola troppo basso, dov’è la pista?»

6

L’assistente di volo, che li ha sentiti parlare, si avvicina e con un sorriso da manuale li rassicura. «È tutto sotto controllo, potete stare tranquilli. È la prima volta che ve-nite a Palermo?» Il suo è un francese di linea, come il sorriso, come la divisa e tutto il re-sto. «Sì. È la prima volta.» Con la stessa disinvoltura della madrelingua, Giuliana adesso parla in italiano, in modo altrettanto delicato e fluido ma prepotentemente fran-cese, e poi riprendendo a ridere aggiunge: «Sempre che ci arriviamo!» Marco le piazza un gomito sul fianco e con un secco “ora piantala” mette fine alla breve conversazione. L’assistente, il sorriso di linea an-cora sul volto, si avvicina per rivolgermi un ringraziamento; poco dopo il decollo un passeggero ha avuto un malore e quando l’equipaggio ha chiesto se c’era un medico a bordo, diligentemente mi sono fatto avanti per gestire l’emergenza. Dolore improvviso e acuto al braccio e al petto in settantenne iperteso; sono un cardiochirurgo e il lavoro mi segue an-che ad alta quota, a quanto pare. Uno steward ci raggiunge e mi informa sulle attuali condizioni del mio paziente. «C’è un’ambulanza che aspetta il signor Catalano a bordo pista, fortu-natamente le sue condizioni si sono stabilizzate e adesso è più sereno.» Si allontanano entrambi, nelle loro divise senza grinze, per adempiere alle ultime procedure prima dell’atterraggio: controllare le cappelliere, sorridere qua e là, ricordare di allacciare le cinture di sicurezza, far spe-gnere qualunque dispositivo e così via. Infine spariscono dietro alla tendina che ci separa dalla cabina di comando. A quel punto ho la cer-tezza che stiamo atterrando anche se, a guardare fuori, non si direbbe ancora. Teresa ha chiuso gli occhi e con la testa appiccicata allo schienale a-spetta di sentire la terra sotto i piedi, per così dire. Detesta l’atterraggio, l’impatto duro con la pista, lo stridio della frenata, gli scossoni, la sen-sazione che l’aereo acceleri la sua corsa piuttosto che rallentarla. Mi tiene la mano senza rendersi conto dell’intensità della stretta, poi quan-do l’aereo comincia a fermarsi e la tensione si dissolve, lei allenta la presa e si giustifica. «Scusami, è incontrollabile.» Poi svanisce dietro ai grandi occhiali da sole con le lenti scure che la mettono al riparo dall’imbarazzo, perché non ama mostrarsi debole.

7

Tanti anni fa, quando un aereo atterrava a Palermo, nel momento stesso in cui il carrello sfiorava l’asfalto, un applauso liberatorio dissolveva l’ansia dei passeggeri in una sorta di rituale collettivo.Lo so dai racconti di mio nonno; già ai tempi in cui ero un ragazzo non c’era più traccia di questo rituale. Non l’ho mai riscontrato in nessuno dei numerosi scali in cui ho transitato nella mia vita. Era un attimo di festa, un rito aggregan-te, un primo assaggio di folklore siciliano, genuino, festante, chiassoso. Tutti partecipavano, chi batteva le mani con forza dicendo “bravo il comandante”, chi invece, per non dare a vedere che aveva avuto paura, si limitava ad annuire, ringraziando chi c’era in cielo e chi aveva ada-giato l’aereo a terra. Oggi non ci sono applausi per il comandante dopo questo atterraggio, ma un chiacchiericcio composto e multilingue. Finalmente ci siamo; l’equipaggio disarma gli scivoli e si prepara al sa-luto finale. Il comandante è pronto per il rito di commiato, le assistenti di volo dispensano gli ultimi sorrisi per tutti. Quando è il mio turno, il comandante in persona mi ferma e come ha già fatto almeno la metà del suo equipaggio, rinnova i ringraziamenti per il soccorso prestato al pas-seggero. «Mio dovere» sento uscire dalla mia bocca. Ma sono distratto, sto già pensando al mio cielo che mi aspetta oltre il portellone e alla mia aria che fra poco respirerò, dopo trenta lunghi an-ni. Ed eccoli comparire intorno a me, a catapultarmi nel mio vecchio mon-do. Il cielo è di un azzurro talmente intenso da mortificare tutto il resto, il sole mi dà il benvenuto avvolgendomi in un caloroso abbraccio e lo stesso mare che fino a pochi minuti fa incuteva timore adesso aleggia nell’aria trasportato da un venticello leggero che sa di salato. Sono di nuovo a Palermo! Un barelliere, in fondo alla scalinata, aiuta il signor Catalano a sedersi su una sedia a rotelle che lo conduce fino all’ambulanza che sosta sotto l’ala sinistra dell’aereo. Prima che gli sportelli si richiudano su di lui, vedo il mio paziente agitare una mano verso di me con un sorriso. C’è sofferenza sul suo volto pallido e rugoso. L’anziana moglie, al suo fian-co, si unisce al saluto, sventolato con le dita gonfie di cortisone come tutto il suo corpo. Ha un volto molle, olivastro, incorniciato da capelli posticci troppo compatti e scuri, che la rendono ridicola. È una masche-ra deprimente. Immagino siano di ritorno da un viaggio della speranza, in cerca di cure specialistiche per il suo cancro. Leggo preoccupazione e dolore sul volto di quel povero uomo, la stessa che comprime il volto dei genitori dei miei piccoli pazienti. Fare coraggio, fingersi sereni, ir-

8

ragionevolmente ottimisti pur portando nel cuore una verità senza spe-ranza, è il duro compito che spetta ai familiari. La maggior parte ci rie-sce abbastanza bene, diventano abili a mentire per proteggere, ma poi un improvviso cedimento, come il malore del mio passeggero, fa vacil-lare l’instabile impalcatura svelando il tremendo peso dell’indicibile. “La malattia è ormai giunta a uno stadio terminale; purtroppo non c’è più molto da fare, se non intraprendere una terapia del dolore per alle-viare la sofferenza di sua moglie”. Sono certo che è questo ciò che il povero signor Catalano si è sentito dire dall’oncologo di turno. Ed è sotto l’eco di queste parole che il suo cuore precario ha avuto un cedi-mento. Allo stesso modo, dieci anni fa, i medici parigini hanno parlato a mio padre. Nel suo caso a cedere furono le gambe, procurandogli una bella caduta dalle scale del padiglione di oncologia e una frattura alle costole. C’è un gran vociare dei compagni di volo intorno a me, ma sono voci indistinte che percepisco senza prestarvi ascolto. L’unica voce chiara viene da dentro. “Bentornato a casa Paolo.” Vacillo fra la curiosità di scoprire i cambiamenti di questo mondo a cui sono appartenuto e il desiderio di girare le spalle e andare via, senza impelagarmi in questa avventura incerta. Molte cose sono cambiate dall’ultima volta che sono stato qui. Miglioramenti, secondo molti, ma non tutti sono d’accordo. Io ho preferito serbare intatti i miei ricordi, interponendo migliaia di chilometri di distanza fra me e il mio passato, tagliando ponti, interrompendo contatti. Ho sigillato una porta, creden-do che non l’avrei più riaperta; l’ho fatto perché ero un giovane alla conquista del mondo, perché ho anteposto il mio futuro a quello del mio paese, perché per poter arrivare lontano dovevo abbandonare la nave prima che colasse a picco con tutto il suo equipaggio. Ritorno oggi, or-mai cinquantenne, da turista, da straniero in patria. Lo sono da quando, esattamente trentadue anni fa, la Sicilia è uscita politicamente e geogra-ficamente dai confini dello Stato Italiano, venduta al miglior offerente. Continuo a seguire la fila ordinata di passeggeri in discesa dall’aeromobile, desiderando che altrettanto ordinati siano i miei pen-sieri, che invece si confondono a ogni passo, oscillando fra la voglia di andare avanti e quella di tornare a Parigi alla svelta. Che ci faccio qui dopo tutto questo tempo? Cosa mi aspetto? Cosa mi aspetta? La risposta è tutta in un nome: Teresa.

9

Si è data un gran da fare per organizzare questo viaggio. Ha cominciato quasi un anno fa. In segretezza, per altro. Voleva farmi una sorpresa. Tra qualche giorno, infatti, compirò il mio primo mezzo secolo. «Come regalo, dato che non ci concediamo una bella vacanza da tempo, potremmo fare un viaggio. Tutta la famiglia insieme» ha detto una sera di settembre la mia Teresa. Eravamo nello studio di casa nostra, io intento a preparare il discorso di apertura per il convegno annuale sul trattamento delle cardiopatie con-genite nei prematuri. Pur senza dimenticare la mia agenda stracarica di impegni, l’idea mi aveva molto allettato. Viaggio spesso per lavoro, ra-ramente per piacere; mia moglie a volte mi accompagna. Mentre io so-no ai convegni, lei fa la turista. Ci lasciamo al mattino, dopo una rapida colazione, ci ritroviamo quasi all’imbrunire, esausto io, carica di rac-conti lei, di luoghi eccitanti da descrivere, di felpe e t-shirts per i nostri figli. Conosce tutte le capitali europee molto meglio di me, che pur es-sendoci stato tante volte, per lo più ne ho visitato aeroporti, hotel e sale congressi. Mi piace la sua vitalità; quando ci ritroviamo in hotel mi concede giusto il tempo di una doccia e poi mi porta a cena in un ristorante che ha a-docchiato in centro durante i suoi giri. Comunque è vero; da troppo tempo non si viaggia tutti insieme per una vera e propria vacanza. L’ultima volta è stata quando Marco aveva sei anni, Giuliana due in più di lui. Teresa sognava da tempo di andare a Mosca. «Vorrei passeggiare nella Piazza Rossa, pattinare sulle piste di ghiac-cio, respirare il freddo gelido dell’inverno moscovita.» A parte quest’ultimo aspetto, che ci mise in seria difficoltà, fu una bella vacanza per tutti. E così lo scorso settembre, con notevole anticipo, mia moglie si affaccendava a organizzare un viaggio per festeggiare i miei cinquant’anni. «Potremmo scegliere un viaggio organizzato in giro per le principali capitali europee. Potrebbe essere utile per Giuliana che da tempo si è messa in testa di voler andare a vivere in Giappone, chissà perché poi. Magari conoscendo meglio l’Europa, scoprirebbe che anche qui ci sono città di tutto rispetto dove potersi formare adeguatamente e consumare in modo soddisfacente la propria esistenza.» Eccola qui la mia Teresa; era partita dall’idea di organizzare qualcosa per me, ma non ha resistito alla tentazione di ritagliarla sulle esigenze dei nostri figli. Accade sempre così. Quando glielo faccio notare, tenta una rettifica:

10

«È solo che mi piace mettere tutti d’accordo, lo sai come sono fatta.» Lo so, eccome; siamo sposati da troppo tempo per non essermene reso conto. Tralascio la mia relazione e avanzo una debole proposta: «Potremmo andare al mare, senza stress, né orari, visite o code este-nuanti.» Pensavo che la mia idea sarebbe stata liquidata in tutta fretta, invece mia moglie sembrava aspettare queste mie parole, per sciorinare un pi-ano attentamente preparato. «Ti avevo detto che sono su facebook, vero?» Ho annuito. «Ti ricordi Anna Marino?» Mi sembrava di avere smarrito il filo conduttore della nostra conversa-zione, ma lo avrei ritrovato poche frasi più avanti. «Anna chi?» L’espressione sul mio volto doveva averle comunicata molta incertezza, perché cominciò una descrizione dettagliata nella speranza di evocare in me qualche ricordo. E in effetti, mentre lei parlava, riccioli rossi e lentiggini diffuse su un corpo un po’ goffo si affacciavano alla mia mente. Una diciassettenne timida, un po’ impacciata, con gli occhi sempre bassi, raramente puntati dentro ad altri occhi. Ma in classe era un mito, la migliore, insieme a me, modestamente. È Anna, la ricordo! Liceo scientifico Galilei di Palermo, negli anni dal 2011 al 2016, prima fila centrale, sempre in pole position davanti ai professori. «Bene» mi dice Teresa in un crescendo di entusiasmo «l’ho trovata su facebook, grazie all’aiuto di Giuliana, perché, come sai, non sono molto brava a districarmi nelle reti virtuali. È stato emozionante. Mi è venuta nostalgia dei vecchi tempi, dopo tutto era la mia compagna di banco, eravamo grandi amiche. E così è nata l’idea.» «Quale idea?» le ho chiesto con la mia più professionale delle intona-zioni. Mi sono messo in ascolto con la massima concentrazione, la stessa che presto ai miei colleghi quando vengono a sottopormi qualche nuovo ca-so. Quando mia moglie dice che le è venuta un’idea so che è meglio non sottovalutare la cosa. «Un giorno le ho detto che mi sarebbe piaciuto incontrarla, dopo tutti questi anni, e così ci siamo messe a fantasticare, sai come siamo noi donne, e la nostra idea ha preso forma. Dapprima abbiamo pensato di contattare tutti i compagni che, come noi, non vivevano più a Palermo. Sai che non amo molto facebook ma devo dire che in questo caso è sta-to una risorsa irrinunciabile. Si è innescata una specie di catena e alla

11

fine, sebbene non sia stato facilissimo, abbiamo trovato quasi tutti. L’idea di una sorta di rimpatriata è piaciuta a tanti, così abbiamo pensa-to che fosse meglio stabilire subito una occasione, prima che l’entusiasmo si allentasse. Ma non appena si è trattato di decidere quando, più degli altri il vero problema eravamo tu e io perché con i tuoi impegni di lavoro è difficilissimo programmare una partenza.» Fa una pausa nella quale scorgo l’intento di sottolineare la perenne dif-ficoltà della mia famiglia a fare qualunque tipo di programma a causa delle mie continue assenze. «Così, dal momento che a maggio fai cinquant’anni, ho pensato che po-teva essere l’occasione giusta, e forse l’unica fattibile.» Si è fermata e mi ha guardato con aria interrogativa. Puntini di sospen-sione piovevano su di me in un silenzio che esigeva una qualunque rea-zione da parte mia. «Dottore, che ne pensi?» È stata lei a rompere il silenzio, mentre io, occhi calati sul monitor del mio portatile, non sapevo cosa rispondere. Non ero ancora del tutto soddisfatto della stesura della mia relazione; da giorni avevo in mente una serie di modifiche da apportare, ma non riuscivo mai a trovare il tempo per farlo. Quella sera avevo cenato in tutta fretta per potermi mettere subito al lavoro e non avevo contempla-to interruzioni. Potremmo riparlarne domani, pensavo, ma i suoi occhi non accettavano rinvii; non può sempre sostare in lista d’attesa. E io me ne rendevo perfettamente conto. «Ma il mare, il relax sotto l’ombrellone? Mi sembra che stiamo parlan-do di tutt’altro.» «Forse dimentichi che la Sicilia è bagnata dal mare e dunque non sarà difficile trovare una spiaggia, vero dottore? Possiamo andare a Torre. So che la spiaggia è molto più bella di come tu la possa ricordare. È tut-to diverso, adesso. Ti piacerà.» È tutto diverso, lo sapevo. Ed era proprio questo il motivo per cui te-mevo questo viaggio. Ho lasciato la mia casa, la mia gente, il luogo in cui sono cresciuto, la mia nazionalità. Mio padre sosteneva che la vita è un percorso a senso unico, pertanto non si può tornare indietro sui pro-pri passi. Sarebbe come tentare di rimettere indietro un orologio. Non si vive lo stesso momento una seconda volta. Ma mia moglie mi inondava di informazioni, convinta che non sarei rimasto deluso, mi travolgeva di racconti, coinvolgendo anche Giuliana che si diceva curiosa di sapere di più sulla storia della nostra famiglia. Figurarsi! Mi sentivo compresso fra le loro chiacchiere e la relazione

12

che aspettava di essere completata in tempo per il convegno ormai im-minente. Così mi sono ritrovato a darle mandato per organizzare il tutto. Facesse pure; mi fido delle sue proposte, sono quelle che hanno sempre dato struttura e indirizzo alla nostra famiglia. Ed eccomi, otto mesi dopo, su questa scaletta, a pochi giorni dal mio compleanno e a pochi chilometri da Torre dell’Isola, il mio paese nata-le, a chiedermi se quella sera di fine settembre non avrei fatto meglio a chiudere il file e a valutare meglio la proposta di Teresa.

13

CAPITOLO 2 L’assoluta mancanza di vitalità degli adolescenti mi irrita parecchio, soprattutto se i soggetti in questione sono i miei figli. Sono abituato a trattare piccoli pazienti che lottano per sfruttare al massimo una pompa guasta che batte nel loro petto, perciò tollero poco quella gioventù cli-nicamente sana che per strada si trascina pesantemente, come fosse ma-laticcia, e con tanta disinvoltura fa di qualunque punto di appoggio un bivacco. Purtroppo Giuliana e Marco non costituiscono una confortante eccezione. Un’ora e mezza circa di volo sembra aver consumato la loro linfa vitale. Sono due serbatoi in rosso fisso. Così, appena usciti dall’aeroporto sembrano ingaggiare una gara per il primo che sprofon-derà, disfatto, nel sedile posteriore dell’auto che abbiamo noleggiato. “Comoda e con aria condizionata” è stata la loro richiesta quando si è trattato di sceglierla. “Forse li dovremmo mettere più spesso a confron-to con le difficoltà!” ha detto Teresa, la chioccia, che si è sempre pre-murata di rendere la loro vita più comoda e meno problematica possibi-le. Marco guarda fuori con la sua solita aria un po’ assente, perso in chissà quale pensiero, i capelli scomposti appiattiti dal peso della nuca com-pletamente abbandonata sul poggiatesta. Giuliana è quella delle mille estenuanti domande; scarica nel corpo, ma sempre attiva nella mente. Ha diciassette anni, anche se ne dimostra qualcuno in più per via della sua bellezza che già sa di donna. È lumi-nosa come sua madre, stessi gusci di castagna a dar colore ai suoi occhi, stesso sorriso sincero, stessa capacità di disarmare con uno sguardo. Sua madre ha acquisito questa dote nel tempo, lei è nata così, mi ha se-dotto sin da quando occupava appena lo spazio di una culla. Oggi, all’improvviso, sembra voler sapere tutto di quel mio passato di cui quasi mai abbiamo il tempo di parlare, presi ciascuno dai propri im-pegni quotidiani. Mi ritrovo a rievocare un me stesso bambino, cresciu-to in questa terra ormai straniera. Le racconto della casa dei miei geni-tori nel cuore del paese, una palazzina indipendente disposta su due li-velli con una bella terrazza dove, d’estate, un lungo tavolo di resina bianco era il luogo delle nostre cene, consolatedalla fresca brezza del

14

mare anche nelle giornate più afose. La fila ordinata di lampioni lungo porticciolo, lo scintillio della luna sulla superficie oscura del mare not-turno, il luccichio delle lampare, le candele al centro della nostra tavola sono le luminarie della mia memoria. Ho custodito gelosamente tanti dettagli, anche se non capita spesso che la mia mente vi faccia ritorno. Scorgo un non so che di unico nei miei ricordi, inafferrabile dalle paro-le. Mi riscopro nostalgico. Giuliana mi ascolta con curiosità divertita. Suo padre bambino le è quasi inimmaginabile, abituata a conoscere di me la veste del professionista serio e inossidabile. Le racconto dei suoi nonni, i miei genitori. Li ha conosciuti poco, pove-ra piccola. Se ne sono andati troppo presto, prima di poterla amare quanto avrebbero voluto. Quanto avevano saputo fare con me. Nessuno dei due era originario di Torre, sebbene fossero entrambi nati e cresciuti in quel paese. I genitori di mio padre erano di Palermo, ma si erano trasferiti in provincia in fuga dal caos cittadino. I miei nonni ma-terni, invece, erano di Marsala ma lavoravano a Palermo, prima della nascita di mia madre. Antonio, mio padre, era un farmacista; insieme a mia madre gestiva l’unica farmacia del nostro piccolo paese. Non c’era persona, a Torre, che non conoscesse il dottor Manfredi. Quando ero bambino, passeg-giare con lui mi faceva sentire importante; salutato e ossequiato da tutti, sembrava quasi una celebrità. Io vivevo di quella luce riflessa. Il che aveva i suoi vantaggi, perché ovunque andassi sentivo che il fatto di es-sere suo figlio mi garantiva un riguardo speciale. A scuola, per esem-pio, notavo che le maestre avevano sempre una inclinazione benevola nei miei confronti e non avrebbero mai osato lamentarsi del mio com-portamento con i miei genitori. Dal canto mio, non sono mai stato un ragazzino che desse problemi. Per non parlare poi di quando entravo in un qualunque negozio; la pa-nettiera mi regalava un biscotto o un bocconcino di pane appena sforna-to e si complimentava con mia madre per questo figlio “così a modo”. Il gelataio mi riempiva il cono di più gelato di quanto ne potesse conte-nere, il macellaio mi regalava manciate di caramelle e così via. Era il loro modo di contraccambiare la disponibilità di mio padre che, non poche volte, veniva chiamato anche di notte o nei giorni festivi per qualche farmaco da somministrare con urgenza a un compaesano. In un piccolo centro, dove ci si conosce tutti, c’è una gestione pressoché fa-miliare di qualunque cosa. Lo svantaggio per me, tuttavia, stava anch’esso nella notorietà, perché niente di ciò che facevo poteva passare inosservato. Non ho mai potuto

15

suonare a un citofono e scappare in tutta fretta, o lanciare dal balcone acqua o pinze da biancheria, come facevano tanti miei amici che vive-vano in città. Antonella, mia madre, era più giovane di papà di una decina d’anni. I suoi genitori si erano trasferiti a Torre quando lei era molto piccola. Era asmatica e l’aria di mare avrebbe giovato alla sua salute più dell’inquinamento cittadino. Quando ero bambino pensavo che fosse la donna più bella che esistesse al mondo. Lo è sempre stata, da giovane come nella sua breve vita da nonna; era la luce di casa mia. I capelli nerissimi raccolti in uno chignon, una postura elegante, che la distingueva fra tante, la figura sottile, scolpita nell’abito bianco del giorno delle nozze: era la foto che per anni ha dominato sulla credenza del salotto, a casa dei miei genitori. È la stessa che tengo sulla scrivania del mio studio domestico, accanto a quella di Teresa e dei ragazzi. Lavorava con papà in farmacia, ma non era quella la sua vera vocazio-ne. Laureata in lingue straniere, traduceva testi e riviste di settore in lingua inglese per i giovani laureandi di Torre e paesi limitrofi. A volte veniva chiamata come interprete nei convegni e questa era la parte del suo lavoro che le piaceva maggiormente. Di pomeriggio, mentre io stu-diavo in cucina, spesso lei si sedeva al tavolo, proprio di fronte a me, e cominciava a picchiettare rapidamente sui tasti del suo pc portatile per ore. Si fermava giusto per rispondere a qualche mia richiesta di aiuto, poi ritornava a martellare sulla tastiera. Vedo ancora quelle dita affuso-late e forti battere a ritmo sostenuto sui tasti neri e sottili di un pianofor-te senza melodia che produceva un ticchettio rapido e preciso di unghie ben arrotondate che imprimevano caratteri. Quando mio padre le chiese aiuto in farmacia, a malincuore cominciò a tralasciare molte delle commissioni che le arrivavano, fino a rifiutarle tutte, perché dopo una giornata intera in negozio, la sera non le restava-no molte energie per dedicarsi a un altro lavoro. Nei periodi in cui papà trovava un aiutante affidabile per la farmacia, lei tornava alle lezioni private di francese e inglese per i liceali del paese. Anche lei era molto conosciuta in quel nostro piccolo mondo, innanzitutto come moglie del dottore. Non avevo fratelli né sorelle e, anche se non lo ammetterei mai con i miei figli, per me è sempre stata una benedizione essere figlio unico perché ero il re indiscusso della mia casa. Essendo l’unico bambino in tutta la famiglia allargata, sono stato al centro delle attenzioni di genito-ri, nonni e zii. A ripensarci adesso, non so se sia stato davvero un bene, ma allora aveva i suoi indiscutibili vantaggi.

16

Giuliana commenta che per me deve essere stato bello godere dei privi-legi della notorietà della mia famiglia in paese. Non ha mai sopportato che la mia fama di chirurgo non abbia avuto per lei risvolti vantaggiosi, specie a scuola. Frequenta un liceo dove la maggior parte degli alunni appartengono a famiglie di professionisti prestigiosi, di uomini della classe dirigente e persino figli d’arte. Perciò non c’è nulla, da questo punto di vista, che la renda speciale rispetto ad altri. Inoltre noi viviamo a Parigi, una metropoli dove ciascuno è solo uno dei tanti, affatto para-gonabile al paesino in cui io sono cresciuto, dove la posizione sociale e professionale dei genitori conferivano un prestigio particolare a tutta la famiglia. Teresa interrompe la conversazione richiamando la mia attenzione sul paesaggio intorno a noi. «È tutto così diverso» dice«stento a trovare dei punti di riferimento fa-miliari. Mi sembra di non esserci mai stata prima!» In effetti nulla di ciò che vedo, al momento, sembra appartenere ai miei ricordi. L’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo è costeggiata per un lungo tratto dal mare, e questo sembra essere l’unico elemento coerente con il passato. Per il resto tutto è diverso, proprio come dice mia moglie. Non c’è più alcuna traccia di quell’abusivismo edilizio che per anni ha deturpato la costa, ostruendo la visuale sul lito-rale e causando inquinamento e degrado. Adesso tutto il lungomare è costeggiato da una fitta distesa di verde: prati curatissimi, pontili in le-gno chiaro, piste ciclabili, terrazzamenti panoramici. A perdita d’occhio il paesaggio è rigoglioso e lussureggiante; c’è uniformità nelle costru-zioni, un evidente intento di creare edifici armoniosi, che gradevolmen-te si fondono tra di loro e con l’ambiente naturale secondo un criterio razionale, piuttosto che arbitrario. È l’intensità dei colori del mare e del cielo a darmi la garanzia di essere tornato nella mia terra, che per il re-sto sembra come riscritta. «È bellissimo!»continuano a ripetere Teresa e Giuliana. «C’est incroyable!» è l’assolo di Giuliana«non mi avevi detto che fosse così bello, qui!» «È un po’ cambiato, in effetti» è l’unica cosa che riesco a dire. Mi sento confuso, disorientato. «Da quando hanno venduto la Sicilia»spiega Marco «vero papà?» Mi era sembrato completamente disinteressato alle nostre chiacchiere, fino a questo momento.Invece quanto stava per dire avrebbe dimostrato che era stato più attento di quanto sembrasse:

17

«È accaduto trentadue anni fa.L’Italia versava nel più profondo dissesto economico. Il debito pubblico era alle stelle, non c’erano più soldi per qualunque tipo di finanziamento, l’economia era paralizzata, erano a rischio persino i salari dei dipendenti statali. Il caos totale, insomma. Non restavano molte alternative: dichiarare bancarotta o provare a sal-vare il salvabile. Così ai politici di allora, che per altro erano responsa-bili di quanto stava accadendo, venne l’idea di vendere parte del patri-monio dello Stato per recuperare capitali, liberandosi delle regioni me-no produttive. Sicilia e Sardegna furono le prime a essere dichiarate pa-trimonio vendibile.» Ero stupefatto. «Dove hai imparato tutte queste cose?» «A scuola. La professoressa di storia ci ha fatto fare una ricerca sui cambiamenti politici e geografici dell’Europa negli ultimi anni per ap-profondire il tema degli effetti della crisi economica che ha investito il pianeta all’inizio del millennio. Io dovevo approfondire la questione italiana. Ho relazionato in aula magna a un pubblico di più di mille per-sone.» «Non me ne avevi mai parlato.» «Non c’eri mai.» E dopo queste parole ripiega nel silenzio. Teresa mi guarda con la coda dell’occhio per vedere come ho incassato il colpo. Mi fingo particolarmente assorbito da un sorpasso; non ho vo-glia di esibire le mie ferite. L’autostrada ha fine poche centinaia di metri prima della rotatoria che immette al primo ingresso in città. C’è un intenso traffico di auto che si dirama in ogni direzione. La segnaletica è bilingue; ci sono i segni incomprensibili dell’arabo e poi, a carattere ridotto, c’è la scritta in italiano. La popolazione, a quan-to ne so, è ormai equamente divisa fra siciliani (almeno tali erano un tempo) e arabi. Mi chiedo quali siano da considerare stranieri; a mio avviso, lo sono tutti. La Siqillya, così si chiama adesso, è diventata un crogiolo di genti, e, per un verso o per un altro, nessuno appartiene veramente a essa. O for-se, come sostengono altri, vi appartengono tutti. Era nel nostro destino, credo, tornare agli arabi, che un tempo ci hanno conquistati con la for-za, e a distanza di secoli legittimamente acquistati senza spargimento di sangue.

18

Il cielo sopra la città è limpidissimo e intenso; i raggi del sole surriscal-dano l’aria, penetrano nella pelle, colorano le parti del corpo già scoper-te. C’è una lunga colonna di auto ferme al semaforo rosso che luccicano sotto i raggi cocenti del sole; un istante dopo la comparsa del verde, l’intera colonna sta già scampanellando furiosamente il clacson contro la vettura capofila. «Perché suonano tutti in quel modo?» mi chiede Giuliana. «A Palermo si usa così. Il clacson ha sempre avuto un significato che va ben oltre la segnalazione di un pericolo incombente. È un vero e proprio linguaggio, con miriadi di sfumature, che ogni guidatore usa per regolare la marcia altrui, partendo da una sollecitazione amichevole (dai che è verde!) passando per un avvertimento (levati che passo io) fino a una vera e propria invettiva (vai a quel paese, figlio di…) dalle mille coloriture. Ricevere un colpo di clacson crea sempre nervosismo nel palermitano proprio perché quel linguaggio è universale, pertanto si capisce subito che non si tratta di un complimento.» La colonna di auto lentamente si dirama nelle due direzioni principali e noi con loro. Quelle che svoltano a sinistra entrano in Viale Strasburgo, la via che frequentavo da ragazzo. In una traversa non lontana da qui, infatti, era situato il nostro liceo. Noi proseguiamo in direzione opposta, verso il centro della città. Oltre il finestrino, alla visione di quanto ci circonda si sovrappongono fotogrammi di vecchi ricordi: il tragitto per arrivare al Galilei, il bar che fungeva da punto di ritrovo del sabato po-meriggio, la gente che si affollava per i negozi di viale Strasburgo. Molti di quei negozi probabilmente non sono più gli stessi, ma la via mi sembra sostanzialmente come la ricordo. È ampia e trafficata, delimita-ta da entrambi i lati da alti palazzi. «Io abitavo proprio laggiù» dice Teresa indicando il palazzo che vedo rimpicciolire nello specchietto retrovisore. I ragazzi si voltano seguen-do la direzione del suo indice allungato. Trent’anni fa questa era una zona residenziale rilevante, dove la quota-zione degli appartamenti era alta nonostante le condizioni complessive dei palazzi, in cui la maggior parte dei balconi indossavano un mutan-done contenitivo verde, volto a scongiurare la caduta di pezzi di intona-co sui passanti. Era quello il modo sbrigativo con cui si poneva rimedio a un’edilizia scadente, controllata da interessi mafiosi, che crollava mi-seramente a pezzi rivelando il vero volto di una città cadente. Eppure quelle vesti indecorose erano tollerate da tutti, così come i cassettoni dell’immondizia stracarichi e maleodoranti, il rumore continuo del traf-fico e l’aria inquinata dai gas di scarico. La gente era disposta a pagare

19

centinaia di migliaia di euro per sentirsi proprietaria di un pezzo di quel degrado. Con entusiasmo Teresa gesticola impazzita per mostrarmi tutti i cam-biamenti che scorrono davanti ai suoi occhi attoniti. «È tutto così rigorosamente ordinato e regolare adesso, mi pia-ce!»commenta con una certa meraviglia. E così questa nuova Palermo incassa il primo punto a suo favore.In lon-tananza, dietro alle cime di alcuni palazzi, scorgo le punte di una co-struzione recente. «Cos’è?»chiedo ad alta voce. «Dovrebbe essere un minareto» dice Marco «in città sono sorte parec-chie moschee.» E a sua sorella che lo guarda,aggiunge compiaciuto: «Mi sono documentato ulteriormente prima di partire. La professoressa vuole una relazione su questo viaggio.» «Una moschea a Palermo? Le cose sono proprio cambiate, allora» commenta Teresa «chissà come l’ha presa la gente!» «Sembra una grande novità, ma in realtà è solo un ritorno al passato perché ai tempi della dominazione araba, a Palermo come nel resto dell’isola, ce n’erano parecchie.» «Mi piacerebbe visitarne una» dice ancora Teresa. «Wow, è bellissima!» commenta Giuliana mentre costeggiamo con l’auto l’imponente costruzione dai volumi geometrici leggeri. «Se è vero che chiunque faccia ritorno in un posto dopo tanti anni è de-stinato a sentirlo un po’ estraneo per via dei cambiamenti, nel nostro caso questa sensazione è amplificata oltre ogni misura» commenta Te-resa che guarda fuori dal finestrino con un’espressione di incanto stam-pata sul volto. Con quell’immagine ancora negli occhi facciamo ingresso in via Liber-tà, dove c’è una vegetazione lussureggiante di palme altissime e leggia-dre; hanno preso il posto dei platani spogli e malaticci di un tempo. La voce monotona del navigatore satellitare ci guida verso l’hotel. Sono passati troppi anni perché io possa orientarmi da solo, anche perché a quel tempo non guidavo e la mia frequentazione del centro era limitata all’asse viario compreso fra i due maggiori teatri cittadini, il Politeama e il Massimo. Inoltre molte vie sono state rinominate, specialmente quelle che facevano riferimento alla storia d’Italia. Il tragitto fino all’hotel è tutto un alternarsi di sorprese e vecchi ricordi. Il traffico è intenso in questa ora che si approssima al pranzo e lo strombazzare dei clacson fa ridere i miei figli, che a ogni “piiipiii” si

20

divertono a far corrispondere una imprecazione di cui chiedono a me la giusta intonazione palermitana. Costeggiamo il porto, dove sostano due grosse navi da crociera, una delle quali batte bandiera degli Emirati. «Ho letto che si tratta di una delle crociere sul Mediterraneo più costose ed esclusive. L’interno della nave è un sogno; una città galleggiante, dove ci sono tutti i servizi di lusso più disparati e impensabili» dice Te-resa, che è una fedele spettatrice di un programma televisivo che pro-pone viaggi da sogno in ogni parte del mondo. Lasciato il porto alle nostre spalle, percorrendo tutta la via Crispi arri-viamo al Foro Italico, dove il panorama è incantevole non soltanto lun-go il litorale, ma anche dal versante opposto dove si ergono antichi pa-lazzi, tutti restaurati e riconsegnati al loro antico splendore. L’auto pro-cede ad andatura lenta, per consentire a tutti noi di registrare avidamen-te ogni dettaglio, quando una costruzione elevata e ultramoderna com-pare dritta davanti a noi. «È il nostro hotel» dice Teresa, lasciando i ragazzi senza parole. È una imponente torre di acciaio e vetro azzurro, avvolta su se stessa come una spirale, con una lunghissima passerella che da uno dei primi piani si allunga per decine di metri sopra la strada come un lungo brac-cio proteso fino alla spiaggia. In tempi molto remoti questa era una zo-na di mare prestigiosa per la città, nella quale sorgevano rinomati stabi-limenti balneari, ma all’epoca dei miei genitori era già da tempo un’area inquinata e interdetta alla balneazione. Un giovane ragazzo africano in divisa da grand hotel mi fa segno di fermarmi. Mi indica dove posteggiare. L’auto scivola dentro a un posteggio sotterraneo; il contrasto fra la luce naturale del giorno, che è intensissima, e il buio della discesa che im-mette all’autoparco è prepotente, tanto da rendere pallidi i numerosi ne-on che puntellano il soffitto. Due fattorini ci accolgono indicando il nostro posto numerato, poi prendendo in consegna i numerosi bagaglici accompagnano alla hall per la registrazione. Pochi minuti più tardi un ascensore panoramico ci proietta venticinque piani sopra la città, in una imponente suite familiare: un lussuoso salot-to in cui il color crema domina su pareti, tappezzeria e tutto l’arredamento, amplificando la luce che dalla grande vetrata entra nella stanza. Una opposta all’altra si aprono le camere da letto, ciascuna do-tata di tv, linea telefonica, collegamento wireless, frigobar, poltrona re-

21

lax, bagno privato con idromassaggio e vista sul mare che si estende a perdita d’occhio. «Ciascun piano è una specie di grande cubo indipendente che ruota at-torno a un perno» recita Giuliana riassumendo da uno dei dépliant di-sposti a ventaglio sul bianco lucidissimo del tavolo. «Ruota?» ripete Marco con stupore. «Proprio così» ribadisce la sorella lasciandosi andare su uno dei morbi-di divani al centro del grande salotto «in questo modo consente una vi-sione panoramica a trecentosessanta gradi. Siamo in una delle città più ricche del mondo, ragazzi!» Teresa e io davanti alla grande vetrata osserviamo silenziosi l’orizzonte che, in questa nuova Palermo, sembra essersi spostato parecchio più in là del possibile. Un pranzo veloce consumato nel ristorante panoramico dell’hotel, al ventesimo piano, poi scivoliamo sulla via Lincoln per la prima incur-sione in città. Alla nostra sinistra villa Giulia e l’Orto Botanico, poi la strada continua dritta fino alla stazione centrale, dalla quale si diramano arterie cittadi-ne importanti, prima fra tutte la vecchia via Roma. Mentre i ragazzi restano catturati dal fascino delle scritte incomprensi-bili sulle insegne dei negozi e nei manifesti pubblicitari, Teresa intrec-cia il suo braccio sinistro attorno al mio e mi cammina al fianco com-mentando ogni cosa. «Sono così contenta di essere qui con voi, che non mi sembra ancora vero. Mi fa uno strano effetto, però. Vivevo in questa città quando non era messa bene quanto a qualità della vita, e in effetti, nonostante fosse ricca di bellezza, troppe cose non andavano. Oggi è considerata una fra le più vivibili ed è talmente particolare da essere unica nel suo genere. A te che effetto fa?» «Sono contento di essere in vacanza con voi. Una pausa mi occorreva da tempo. Quanto all’essere qui… è difficile da spiegare… provo una certa estraneità.L’impressione è positiva, intendiamoci, ma ho la sensa-zione di essere da tutt’altra parte. Mi sento un turista in una città scono-sciuta. È ancora presto per dire di più, devo vedere per farmi un’opinione.» Teresa è andata a comprare i biglietti per l’autobus. Giuliana è incollata alla vetrina di un negozio ad ammirare borse Gucci, come se non ne a-vesse mai viste prima.

22

Teresa sventola per aria i biglietti da lontano e si affretta incontro all’autobus che sosta alla fermata vomitando un carico umano per in-gurgitarne immediatamente uno ancora più consistente. «Forse potremmo aspettare il successivo» azzardo mentre gli altri sono già in salita, ma Giuliana mi liquida con un “Dai papà, non perdiamo tempo” che non lascia spazio a repliche. In famiglia sono l’unico che affronta Parigi in automobile. Teresa e i ragazzi sono tipi da metropolitana; io ho bisogno di sapere che la mia auto sosti a pochi minuti da me, ovunque io mi trovi, perché quando devo andare, che sia in ospedale, a casa o da qualunque altra parte, vo-glio poterlo fare subito. Detesto i tempi morti, l’aria rarefatta dei tunnel sotterranei, l’idea di essere parecchi metri sotto terra, le teste inespres-sive appese a corpi flaccidi che ciondolano e sobbalzano al ritmo dei movimenti del treno. Pertanto il bagno di carne sudata e compressa alla quale non sono affatto abituato mi infastidisce non poco. Sento addosso gli occhi dei miei figli, percepisco un certo divertimento nel loro sguar-do. Non mi chiedono nulla, mentre cerco di sistemarmi al riparo dai corpi sconosciuti e maleodoranti che si affollano in questo tubo aran-cione carico ben al di sopra delle sue possibilità. «Palermo è una città ricca di monumenti. La zona in cui ci troviamo adesso è il nucleo storico, ed è tutta un susseguirsi di gioielli dell’arte. È interessante, no?» butta lì Teresa gettando lo sguardo oltre la vetrata che si apre sul panorama di chiese e monumenti del centro cittadino. «NoussommesParisiens!» dice Giuliana puntando lo sguardo verso l’alto, il collo allungato, gli occhi semichiusi, poi si sgonfia e sorride, e torna a guardare fuori. «Certo, per voi parigini la grandiosità è la norma» li canzona Teresa. «Mamma, ma dai, Parigi è una città bellissima, è raffinata ed elegante come poche, non teme confronti. E non le mancano certo i monumenti. Tuttavia… questa qui non mi sembra affatto male.» Incastrato nella minuscola fessura fra la macchina obliteratrice e il fine-strino, guardo i volti incantati di un gruppo di anziani turisti americani, le espressioni estatiche, la soddisfazione per un viaggio che riserva loro qualcosa di buono. Più in là mi cattura lo sguardo di un uomo della mia età, la fronte incol-lata alla vetrata in una posizione di abbandono, di resa. Non sembra guardar nulla, né accorgersi di ciò che accade intorno lui. È perso in chissà quali pensieri, un po’ come Marco. Mi chiedo che uomo sarà mio figlio, sicuro e soddisfatto di sé come me adesso, o confuso e de-presso come quello laggiù. La risposta, in entrambi i casi, mi fa paura.

23

«Papà? Papà?» Giuliana mi salva dai miei stessi pensieri«è davvero cambiata così tanto da allora?» «Parecchio, al punto che stento io stesso a riconoscere certi luoghi. È tutto molto… pensato. C’è una cura ossessiva dei dettagli; nulla sembra germogliare spontaneo in questo salotto di extralusso» commento laco-nico. «Questa città è una vetrina, ormai. È normale che ci sia tanta attenzio-ne, la stessa con cui si costruisce un buon biglietto da visita» dice Tere-sa. «Gli emiri non fanno investimenti a perdere. Hanno sborsato parecchi soldi per comprare tutta l’isola e naturalmente volevano guadagnarci» dice Marco. «Direi che ci sono riusciti. Grazie ai loro investimenti hanno fatto lievi-tare il valore di ogni cosa; c’è una ricchezza incredibile, impensabile un tempo» aggiunge Teresa. La via Maqueda è il crocevia dell’internazionalità, una folla multietnica sfila ordinatamente sui marciapiedi; difficile distinguere i turisti dai re-sidenti. Le gioiellerie si succedono a poca distanza, vetrine traboccanti di ori e pietre preziose, argenteria lucidissima spicca su grandi drap-peggi candidissimi di lino ricamato. Atelier di alta moda si alternano a grandi magazzini di lusso; sembra che non ci sia spazio per tenori di vita normali. La gente cammina a passo sostenuto, come nelle grandi città europee; anche la lentezza, tipica filosofia dello stile di vita propriamente meri-dionale, ha forse dovuto cedere il passo al ritmo frenetico di una città internazionale. Restiamo in silenzio con i nasi all’insù, volti a guardare, sullo sfondo, le vette dei modernissimi grattacieli, gare di potenza e ric-chezza fra Emiri. Non è certo la prima volta che ne vediamo, ma è il trovarli qui che sorprende me e mia moglie. Come dice lei, dobbiamo ancora abituarci a questa Dubai sicula. Ciò che mi stupisce più di ogni cosa, però, è la sapiente miscellanea di vecchio e nuovo, modernità e classicismo fusi in un gioco di accostamenti e contrasti dal risultato sorprendente. Giuliana e Marco vorrebbero visitare ciascuno dei grandi magazzini che incontriamo a ogni passo. Finiamo per trovare un compromesso; scen-deranno alla prossima fermata e da lì proseguiranno da soli. Così ci se-pariamo per qualche ora, con la promessa di ritrovarci per ora di cena. Teresa consegna a Giuliana la cartina della città e le ricorda di tenere vicino il cellulare in modo da restare in contatto. I ragazzi ci salutano

24

mentre l’autobus si allontana; vederli scomparire fra la folla ammutoli-sce Teresa. «Stai tranquilla» le dico «sono grandi.» «A Parigi si muovono da soli regolarmente, ma qui…» «Ma qui è più facile. Palermo sarà anche cambiata ma è comunque più piccola della grande Parigi.» Eppure anch’io mi sento come se li avessimo lasciati andare in piena notte nel cuore della giungla. Qualche fermata più avanti decidiamo di proseguire a piedi anche noi. Teresa si apre un varco muovendosi a slalom nel folto di schiene e braccia che si interpongono fra noi e l’uscita. Stretto nelle mie spalle la seguo trattenendo il respiro. Ci addentriamo nel percorso pedonale; siamo nel cuore della città, una zona artisticamente ricca dove chiese, antichi palazzi e cappelle si sus-seguono in un’area non molto estesa. Ovunque si posi, lo sguardo trova fascino e bellezza. Superati i Quattro Canti, arriviamo in Piazza Preto-ria, detta un tempo anche Piazza della Vergogna per via dei nudi mar-morei che incorniciano la monumentale fontana cinquecentesca. Teresa, che ama fotografare, sembra voler immortalare ogni dettaglio di questo scorcio della Palermo più autentica. «Un tempo quella era la sede del Municipio» le dico mentre rivolge l’obiettivo sul versante meridionale della piazza, dove sorge Palazzo delle Aquile. «Ancora oggi è sede della nuova amministrazione cittadina» aggiunge lei consultando la sua inseparabile guida. Pochi metri più avanti, dall’alto di una terrazza, due delle chiese che meglio ricordo di Palermo dominano una seconda piazza. S. Cataldo è un piccolo cubo sovrastato da tre cupole allineate che risplendono rosse nello sfondo nitido del cielo.Ripulite dalle macchie scure di muffa e smog, appaiono lucenti e oggi più che mai sottolineano la familiarità degli stranieri con la nostra storia.Essi hanno arredato la nostra città, lasciando profonde impronte e suggestioni, rendendo la nostra cultura già intrisa di oriente.Quello degli ultimi anni è solo l’ennesimo capitolo di un romanzo iniziato parecchi secoli addietro. Sulla stessa terrazza, in posizione più arretrata, si erge la Martorana, al-tro monumento simbolo della città. Con il braccio di Teresa avvolto in-torno al mio percorriamo la stretta e ripida scalinata che conduce alle due chiese. Dall’alto, appoggiati al parapetto in ferro, la fiancata di S.

25

Giuseppe dei Teatini davanti a noi, ci fermiamo a rispolverare i nostri sbiaditi ricordi. «La volontà umana è un’arma potente, può generare bellezza o distru-zione secondo il suo intendimento. E questa città dai mille volti, segna-ta da un così profondo cambiamento, ne è un esempio straordinario.» Sono le parole che sento uscire spontanee dalla mia mente, dove il pre-giudizio comincia a cedere il passo all’evidenza. «Non mi aspettavo di rivedere i monumenti storici e scoprire che tutto è intatto, tutto è ancora vivo, in questa città che credevo irrimediabilmen-te violata.» «Palermo è una città d’incanto» mi dice la guida turistica di S. Cataldo, una donna con i capelli di un rosso innaturale che armonizzano con le striature di un elegante tailleur a fondo bianco. Distribuisce dépliant ai visitatori e narra la storia della chiesa passando con disinvoltura attra-verso un ampio ventaglio di lingue. «La storia di Palermo» prosegue lei«è quella di una città che ha vissuto alterne vicende, momenti di grande splendore alternati a periodi bui, ma che in questi ultimi anni sta vivendo una nuova fioritura, che va oltre ogni aspettativa. È una città ricchissima, sebbene molti la considerino asservita a nuovi padroni. Ma c’è molta più dignità e rispetto nell’attuale condizione di quanto non ce ne venisse concesso quando ci sentivamo liberi. Questa è la nuova Palermo.» Risaliamo il corso Vittorio Emanuele. Anche qui è un susseguirsi di rievocazioni e nuove scoperte, che ci accompagnano fino alla Cattedra-le, prima, al Palazzo dei Normanni, poi. «Aveva proprio ragione quella donna» dico a Teresa «è tutto ancora qui, solo che adesso ha il rilievo che merita. È bello sapere che il futuro che avevamo immaginato difficile e in declino, è invece rigoglioso. La Sicilia sta meglio adesso, mentre l’Italia ha perso un immenso potenzia-le di ricchezza. Ma è triste per me pensare che sia dovuto accadere in questo modo.» Decidiamo di cenare in uno dei locali caratteristici del centro storico. Convinco Teresa a prendere un taxi per arrivare all’appuntamento con i nostri figli. Nell’auto c’è un odore acre, misto di sudore e deodorante per ambienti, che un po’ mi da la nausea. Il tassista è un uomo robusto, con le guance grassocce e le dita rese ancora più gonfie dal caldo. Sem-bra incastrato nel suo sedile, mi chiedo come faccia a uscirne a fine tur-no. Ha una cadenza palermitana appena accennata e una risata allegra e contagiosa; parla in continuazione e indovina subito che sono originario

26

della provincia palermitana, ma non ho il coraggio di chiedere da cosa lo abbia dedotto, nonostante abbia una grande curiosità di conoscere quale indelebile marchio io mi porti inconsapevolmente addosso. «Com’è stato vivere da siciliano all’estero? Non facile, penso. Noi qui abbiamo sofferto pure, ma almeno eravamo a casa. Gli arabi ci hanno aiutato, io sono grato a loro per quello che hanno fatto. Ora c’è una re-gola per tante cose che prima erano completamente sregolate. Ma non si illuda, anche loro hanno le loro anarchie; siamo più simili di quanto non si possa immaginare.» «Ma voi come vi sentite? Insomma, italiani non siete più, non siete ara-bi di nascita, come…» ma non mi lascia finire. «Liberi, non liberi. Questo è uno di quei discorsi che io non ho mai ca-pito. Sarà che sono un poco ignorante, che di scuola ne ho sempre volu-ta troppo poca, ma io questa cosa della libertà proprio non la capisco per niente. Ma perché? chi mi impedisce di vivere la mia vita ogni giorno a modo mio? Eravamo liberi con la mafia? Eravamo liberi con uno stato che ci ha sempre fatto tante promesse e non ne ha mai mante-nuta nessuna? La libertà è una parola che può significare tutto e niente. Per me infatti non significa niente proprio.» Teresa incrocia il mio sguardo rapidamente, prima di tuffarlo oltre i ve-tri scuri del finestrino. La conosco e so che vorrebbe aprire un dibattito estenuante, per dare uno scossone a un modo di ragionare che non rie-sce a tollerare. Ma sa anche che fra due minuti giungeremo a destina-zione, un lasso di tempo troppo breve per incidere significativamente su un modo di pensare così radicato. All’orizzonte appaiono i ragazzi, rivitalizzati nonostante la stanchezza. Giuliana racconta convulsamente di un paradiso artificiale del lusso nel quale si sono immersi. Nei rari istanti in cui si ferma per riprendere fia-to e per bere un sorso d’acqua, suo fratello ne approfitta per aggiungere qualcosa di suo al racconto. Mi sembra rilassato, meno cupo del solito. Ordiniamo spaghetti alla carbonara e ne mangiamo a volontà mentre Giuliana continua a decantare tutto ciò che di meraviglioso c’è intorno a noi. A turno Teresa e io rispolveriamo vecchi ricordi della nostra esistenza palermitana, mettendo a confronto le due facce di questa stessa città che finiamo per chiamare “Palermo pre e post vendita”.

27

CAPITOLO 3 Sono passate ventiquattro ore da quando abbiamo lasciato Parigi, e fino al momento in cui non ho messo piede al Charles de Gaulle non riusci-vo a immaginare me stesso in vacanza. Una vera vacanza, infatti, non la facevo da tanto tempo; una pausa vera, di quelle in cui il cellulare non squilla continuamente, la posta elettronica non richiede urgenti rispo-stee, come a volte è accaduto, non è necessario un rientro anticipato per indifferibili ragioni di lavoro. In genere mi sono sufficienti qualche let-tura e un po’ di riposo per farmi sentire in ferie, ma il resto del tempo mi è utile per studiare e stare sempre al passo. Sono un cardiochirurgo pediatrico anche durante le vacanze; non riesco a mettere un confine fra il mio lavoro e me stesso. Trascorro più tempo in ospedale che a casa, perché oltre che chirurgo sono anche docente universitario, nonché pe-rennemente in formazione. Questa mia devozione alla chirurgia pedia-trica è stata uno dei più frequenti motivi di discussione con Teresa nei primi anni di matrimonio,fino a quando si è rassegnata al fatto che ci sono persone la cui vita è segnata da una missione, che è il punto di convergenza di tutta la loro esistenza. Per me è più che un lavoro; è ciò che sono, è la sostanza senza la quale non saprei quale significato dare alla mia vita. E non è una vita facile; il caso più semplice è solo un po-chino meno disperato degli altri. Vedo figli malati di genitori disfatti dal dolore, dal senso di impotenza, dalla stanchezza. Da me cercano speranza, salvezza, persino il miracolo. Spesso ci riesco,ma non sem-pre. E quando un bambino muore, io invecchio un po’. Però ho impara-to a corazzarmi; è una capacità che ho appreso da uno dei miei migliori maestri. La gente scambia per freddezza la lucidità del chirurgo. Ma nel mio mestiere l’emotività è un rischio. La mano è ferma se lo è la mente. Fuori dalla sala operatoria so come sorridere al mio piccolo paziente, per infondergli quella fiducia in me che lo renderà collaborativo al momento giusto e che lo aiuterà ad affrontare la sua sfida. E so anche come stringere la mano di una mamma per darle coraggio, o battere la spalla di un papà per imprimergli la forza che ci si aspetta da lui in una situazione estremamente difficile. È importante che abbiano fiducia in

28

me, mi affidano ciò che di più prezioso hanno. Non tralascio nulla, sono preciso, perfino maniacale; per questo godo della stima e fiducia dei colleghi e dei pazienti. Ho operato bambini provenienti da ogni parte d’Europa, la maggior parte sta bene, si godono gli ultimi scampoli di infanzia, vivranno a lungo, moriranno al momento giusto. I genitori mi venerano come fossi un santone, ma io mi sento solo un abile meccanico, curioso di superare i confini e di sperimentare nuove tecniche per dominare la natura, ag-giustandone i guasti. Ho studiato in America per anni, lì ho appreso gran parte di ciò che so, poi sono tornato in Europa, vari ospedali fino ad approdare a Parigi, dove ho messo radici. Adesso dirigo il mio repar-to. È stato un percorso difficile, ma non solitario. Accanto a me c’erano sempre i miei genitori, che hanno investito su di me senza riserve. Sono loro i primi nella mia personale lista di ringraziamenti, perché hanno creduto nelle mie capacità sin dall’inizio, e poi c’è Teresa, che mi ha sempre sostenuto, incoraggiato e aspettato con pazienza. A pensarci bene una quota di merito devo attribuirla anche alla storia, a quella con la esse maiuscola. La Storia di cui parlo è quella di un’isola nel cuore del Mediterraneo, per secoli oggetto di attenzioni e di contese, di domini e sottomissioni, di padroni diversi che l’hanno in parte arric-chita, e in parte violata, privandola di una propria identità indipendente. La Storia di cui parlo è quella di un’isola che, fatta l’Unità d’Italia, vi è entrata apparentemente dentro ma in realtà ne è sempre rimasta ai mar-gini, pezzo staccato da tutto il resto come è insito nella natura di un’isola. Sacco da cui prendere senza mai dare, forziere da depredare fino al fondo e poi buttar via o, meglio ancora, vendere per guadagnarci qualcosa fino all’ultimo. Se non ci fosse stata questa sua storia travagliata fino a quell’epilogo sconvolgente che ne ha fatto mercanzia, forse i miei genitori non si sa-rebbero mai mossi da Torre, forse io non sarei andato a studiare all’estero, forse oggi sarei il dottor Manfredi, farmacista di Torre, come mio padre. Forse. Ma la Storia ha voluto diversamente. «Ecco lo svincolo.» Teresa mi richiama dai luoghi della mente nei quali sono solito perder-mi quando guido. Oggi si va a Torre, e quella che sto per percorrere è la strada che mi immetterà nel mio passato. Due file di palme delimitano la carreggiata di una strada un tempo al-quanto anonima e sporca, che oggi sembra un boulevard di tutto rispet-to. Le auto la percorrono a velocità moderata, sembrano godersi

29

l’accoglienza di questo sontuoso ingresso. Un cartello indica la discesa verso il mare. La imbocco per fare subito un giro panoramico. Abbiamo appuntamento con Anna Marino proprio qui, allo svincolo autostradale a mezzogiorno e mezza; dato il notevole anticipo, c’è tempo per una prima esplorazione. I ragazzi sono rapiti dalla visuale. Con le braccia incrociate sullo spor-tello e la testa leggermente sporgente dal finestrino Marco ingoia ogni dettaglio con quei suoi occhi capaci di risucchiare silenziosamente il mondo. Giuliana incollata a lui per guardare nella stessa direzione con-tinua a ripetere i suoi “Wow” come un disco rotto. In effetti siamo tutti presi dalla bellezza che si estende intorno a noi; è un panorama nuovo, anche per Teresa e per me, che in questi luoghi ci abbiamo vissuto. Marco, che a quanto pare ha studiato a fondo l’argomento, ci illumina sulle tecniche di ricostruzione adottate una volta che la Sicilia è stata venduta. «Primo obiettivo è stata la riqualificazione totale delle coste: bonifica dei litorali, ridefinizione delle reti fognarie e implementazione degli impianti di depurazione per rilanciare il turismo marittimo, che era an-dato completamente in blocco. Le coste erano devastate dall’abusivismo sfrenato e dall’inquinamento. Diverse società straniere di costruzioni sono state chiamate a realizzare opere di architettura che dessero un’impronta inequivocabilmente araba al paesaggio urbano, non solo nelle maggiori città dell’isola, ma in tutti i centri abitati, persi-no i più piccoli. La Sicilia doveva diventare la residenza privilegiata degli arabi più ricchi oltre che un serbatoio di ricchezze naturali e pae-saggistiche da sfruttare per un turismo di élite a livello internazionale. Da fanalino di coda di un’Italia impoverita, a perla degli Emirati Arabi Riuniti. È stato il progetto più grandioso realizzato in questi ultimi de-cenni, che ha completamente rivoluzionato il volto di una terra abban-donata a se stessa.» Dallo specchietto retrovisore guardo mio figlio e mi sembra di non ri-conoscere più nemmeno lui. Quanto è cresciuto mentre non me ne ac-corgevo! Riccioli castani, occhi color miele, un collo forte piantato su un bel corpo da atleta. È un po’ sottopeso ultimamente, ma sta bene ed è bello da guardare. Non mi capita spesso di avere del tempo per fargli da padre, e Teresa mi rimprovera per questo. Dice che Marco ne ha sof-ferto molto, specie da quando mi è diventato impossibile seguire le sue esibizioni sportive. Pratica nuoto da quando aveva otto anni e a undici ha iniziato con i tuffi dal trampolino. L’anno scorso, a soli quattordici anni, ha vinto una competizione per i tuffi sincronizzati insieme al suo

30

inseparabile amico Pierre. Hanno eseguito in assoluto sincronismo un tuffo solo apparentemente semplice prima di sparire nell’acqua con grande eleganza. Primi classificati nelle gare del dipartimento dell’Ile de France; prossimo obiettivo le nazionali. Mia moglie ha filmato tutto, io l’ho visto l’indomani. Mi profusi in lodi e congratulazioni, che la-sciarono mio figlio del tutto indifferente, come se non gli importasse di aver vinto. “È il suo modo per punire la tua assenza. Ci teneva tanto che ci fossi-mo tutti…” mi rinfacciava mia moglie “hai idea di quanti sacrifici ha dovuto affrontare per prepararsi a questa gara? Ore e ore di allena-menti estenuanti, e poi la scuola, i compiti… a volte lo trovavo addor-mentato sul libro.” La voce di Teresa tremava emozionata. “Dopo la premiazione, Pierre è corso ad abbracciare i suoi genitori, Marco è venuto da me, abbiamo pianto insieme per la gioia. Giuliana ci abbracciava entrambi e piangeva anche lei come una bambina. È stata un’emozione irripetibile e te la sei persa. Poi Pierre si è fatto la foto con suo padre e lì il volto di nostro figlio è diventato cupo.” Mia moglie è molto tollerante nei miei confronti, sopporta le mie man-canze di marito, ma non perdona facilmente quelle di padre. Io tento di difendermi, di giustificarmi, ma da perdente consapevole. A parte le delusioni dovute a me, quello è stato un periodo d’oro nella vita di Marco. La vittoria gli aveva dato grande fiducia in se stesso, cer-tezza circa le sue potenzialità e una gran voglia di continuare a gareg-giare. Mi piaceva molto la sua determinazione; lo sentivo molto simile a me alla sua stessa età. Ma poi le cose sono cambiate. Dopo una breve pausa estiva gli allenamenti erano ripresi con più entusiasmo. In gioco c’era la qualificazione alle competizioni nazionali. Come diceva mia moglie, Marco e Pierre erano sincronizzati nel pensiero ancor prima che nel movimento. Teresa li chiama ancora “I gemelli mancati” a sottoli-neare quella loro sincronia mentale ancor prima che fisica. Ma poiché viviamo su equilibri molto fragili, basta un nulla a cancella-re per sempre ciò che si è costruito con gran fatica. Il nulla che ha spez-zato la sintonia dei nostri giovani campioni si chiama Martin Bernard, un giovanissimo neopatentato che, lanciato a tutta velocità in rue Saint Denis, ha travolto e ucciso sul colpo il povero Pierre Durand. È succes-so lo scorso dicembre, pochi giorni prima del Natale. Marco era in piscina per gli allenamenti; qualche chiacchiera con mon-sieur Vignon, l’allenatore, in attesa dell’arrivo del compagno, entrambi sorpresi per l’insolito ritardo. Dopo la prima mezz’ora Marco aveva i-

31

niziato il riscaldamento di routine e poi qualche tuffo per non perdere l’intera lezione. Immagino la scena. Sul trampolino Marco distende le braccia in alto stirandole il più possibile, poi fa un piegamento fino a toccare la punta dei piedi con le dita delle mani. Piega più volte il capo a sinistra e a destra, poi in avanti e all’indietro. Guarda il trampolino vuoto accanto al suo e si chiede che fine abbia fatto Pierre, che in gene-re è sempre il primo ad arrivare. Prima di tuffarsi guarda monsieur Vi-gnon per avere l’ok. Lui gli da qualche indicazione per correggere la posizione di partenza; stanno provando da poco un tuffo nuovo, più complesso e Marco ha tanta voglia di imparare. Il coach gli fa cenno che adesso va bene, la postura è perfetta. Marco esegue il suo avvita-mento e scompare in acqua mentre l’allenatore prende in mano il cellu-lare che sta squillando insistentemente. Quando Marco riemerge dall’acqua, il volto di monsieur Vignon non è quello di pochi istanti prima. È paonazzo, sembra quasi debba prendere fuoco, poi un braccio gli copre gli occhi. Marco vede quel corpo che trema convulso, gli sembra che stia piangendo. Con entrambe le braccia a coprirgli il volto, monsieur Vignon singhiozza come un bambino. Al funerale c’eravamo tutti. Marco portava il feretro insieme ai compa-gni di scuola e al fratello di Pierre. Monsieur Vignon camminava ac-canto ai genitori del ragazzo e durante tutta la funzione religiosa aveva tenuto una mano sulla spalla del papà del suo giovane allievo scompar-so, l’altra stringeva il braccio di mio figlio, che, barricato dietro a un paio di occhiali da sole scurissimi, sembrava impietrito. Al collo Marco portava la medaglia che avevano vinto insieme. Dopo il discorso fune-bre, alcuni familiari del ragazzo avevano voluto commemorare Pierre, ricordare la sua vita di ragazzo perbene. Anche Marco, raccolte le for-ze, si è fatto avanti per parlare. Lo ha fatto subito dopo l’intervento di un emozionantissimo monsieur Vignon, che ha fatto rivivere ai presenti gli attimi di grande felicità che Pierre aveva condiviso con lui dopo la vittoria. Non si è tolto gli occhiali per parlare, non è mai riuscito a sol-levare lo sguardo verso i presenti, il mio ragazzo. Tormentando la me-daglia che gli pendeva al collo, ha raccontato del grande amore che Pierre aveva per lo sport, una passione che li aveva uniti e ne aveva fat-to una squadra vincente. Con la voce rotta dall’emozione Marco era riuscito a rivolgersi direttamente all’amico sperando che potesse sentire il suo ringraziamento per tutto ciò che avevano condiviso in quei tre anni che definì magici. “…e che non ritorneranno” aveva aggiunto con un tono mesto ma secco al contempo.

32

Poi, sceso dal pulpito, si era piegato davanti alla bara e su di essa aveva deposto la sua medaglia. Con quel gesto mio figlio aveva messo fine al suo impegno sportivo che, a suo dire, era morto con Pierre. Anche la sua voglia di vivere sembra essere stata deposta lì, su quella bara candi-da di una vita rotta anzitempo. Da quel giorno sembra rassegnato a tra-scinarsi, silenzioso e paziente, senza più una meta da raggiungere. Anche adesso che è qui con noi, seduto in questa auto grigia abbagliata dal sole, con il mento di sua sorella affondato sulla spalla destra e la maglietta color cachi sbiadita come le sue emozioni, ci illustra tutto ciò che ha studiato, come un alunno modello sempre presente con la testa, ma mai coinvolto col cuore. Un dipinto restaurato. È questa la prima immagine che mi viene in mente mentre guido e osservo Torre. La seconda è quella dell’orologio a due facce, appeso nell’infermeria del mio reparto, fra il calendario e la lavagna tappezzata di post it gialli. Lo ha disegnato un paziente, un ragazzino di appena nove anni, trascorsi più a curarsi che a vivere. Cia-scuna faccia dell’orologio rappresenta una diversa scansione del tempo: da una parte, infatti, il giorno si consuma in un unico giro di lancetta sul percorso di dodici ore, dall’altro ci vogliono ben tre giri prima che la giornata sia conclusa. Corrispondono ai due diversi modi in cui scorre il tempo all’interno di un ospedale: pressante e frenetico per il personale medico e paramedico, dove la routine e l’emergenza si intrecciano all’infinito, rincorrendosi. Nell’altra faccia della medaglia, invece, la visione del paziente, che nell’ospedale sente il tempo dilatarsi a dismi-sura, oltre la sua stessa capacità di attendere, di essere paziente per l’appunto. Ma l’ospedale, in fondo, non è che una rappresentazione in scala. Oltre i cancelli del nosocomio, le cose vanno all’incirca allo stes-so modo. Ritmi frenetici, un’ora che rincorre e scalza l’altra e tutti che proviamo a correre più veloci del tempo, restando sempre parecchi passi indietro. Frenesia moderna che ci orchestra saturando spazi e tempi quotidiani, lasciando in noi quel desiderio di un tempo più lento da gustare, da vi-vere in un altro modo, ma del quale, in realtà, forse non sapremmo che fare. E poi ci sono i luoghi dove il tempo si dilata, lasciando ancora la speranza che si possa vivere a ritmi umani. Uno di questi luoghi è Tor-re, dove il tempo scorre lento e tranquillo. È percepibile nell’incedere lento, negli incontri casuali per i quali si trova il tempo di soffermarsi, di comunicare, di stabilire contatti. Nessuna trasformazione sarà mai tale da cancellare tale predominanza; è un’impronta genetica e cultura-

33

le. Le auto avanzano con lentezza, sebbene non ci siano ingorghi né co-de. È un modo di vedere la vita, e di affrontarla. Difficile resistere alla tentazione di sollecitare un passo più accelerato, per uno come me abi-tuato all’altra faccia dell’orologio. Anche qui a volte si corre, ma è un correre lento, a passo d’uomo. Molto bianco è stato consumato per restaurare questo dipinto; è il bian-co degli intonaci, candido come appena affrescato, è il bianco delle po-che capanne sul lungomare, del chiosco delle bibite, degli ombrelloni sopra i tavolini dei numerosi bar già affollati come in alta stagione. Sa di fresco, di pulito, sa di ordine e luce, sa di una Torre candida, dove sono state cancellate le tracce di ruggine e di crepe. «È incredibile!» esclama Teresa, anche lei avvolta nel bianco candido di un abito di lino «una trasformazione stupefacente. Era tutto diverso! È come avevamo sognato che fosse.» Si gira intorno, cattura ogni dettaglio per non perdersi nulla di una tale magnificenza. «Ricordo lo stato in cui versava questo litorale. Era desolante; sarebbe bastato così poco per cambiare le cose.» «Occorreva l’intenzione, e quella non è una cosa da poco!» ribatto io. «Un popolo è come un bambino; va allevato con cura, va amato ed e-ducato e ciò che gli si dà prima o poi lo restituisce diventando un adulto capace di prendersi cura con amore di ciò che lo circonda. Amore e cu-ra per un popolo significano legalità, rispetto, giustizia. Non c’è presen-te né futuro se manca questo.» «Sembri il mio insegnante di storia» si inserisce Giuliana mentre scatta l’ennesima foto. «Qui ne è morta di gente che ha creduto in questi principi» la riprendo io. «Chissà come la prenderebbero se sapessero che la Sicilia non è più ita-liana» sospira Teresa mentre si sofferma davanti alla vetrina di un bar«entriamo, ho voglia di una brioche con gelato» e prima che pos-siamo rispondere sparisce dentro al locale. Gaetana gestiva una merceria in via Palermo, la strada compressa fra un dedalo di palazzine cadenti, che dalla periferia immetteva al centro di Torre. Era una donna inespressiva, la pelle del viso grigia e indurita come cemento secco. Sepolta sotto pile di scatole di bottoni, gomitoli di lana, nastri di ogni misura e colore, rotoli di stoffa impolverati, preca-riamente sistemati nei vecchi scaffali in legno che ricoprivano le pareti della minuscola bottega, serviva i clienti con diffidenza, guardandoli

34

con i suoi occhietti piccoli e vigili, attenti a controllare la merce, come se ogni avventore fosse un potenziale ladro. Ancor più diffidava dei bambini, convinta che entrassero in negozio per combinare qualche di-spetto e poi ridere alle sue spalle. Parlava poco e male, in un linguaggio di difficile comprensione, emettendo una specie di fischio per via di una finestra aperta fra i denti superiori, troppo costosa da chiudere se-condo il suo modo di vedere. Passava l’intera giornata in quel minusco-lo magazzino, seduta su una sedia di paglia sfilacciata, vetusta come lei. Era quella la sua vera casa, e non riuscivo a immaginare un altro am-biente adatto a lei. Stava sempre lì, fino a tarda sera e la mattina presto era di nuovo lì, al punto che tutti dubitavamo che ne uscisse mai. Im-magino che non avesse nemmeno cinquant’anni quando accompagnavo mia madre a comprare rocchetti di filo e aghi da cucito. Eppure ho sempre pensato che fosse vecchia. Ero forse l’unico bambino a cui, sebbene con riserva, concedesse uno spiraglio di fiducia per via di mio padre, che ai suoi occhi era una garanzia di affidabilità. Mi rivolgeva parole stridule, serrate, in un dialetto incomprensibile; il sorriso sdenta-to e le mani grinzose che abbatteva sui miei capelli, con un gesto rapido e pesante, goffa esternazione di improbabile gentilezza, mi facevano paura. La mamma, uscendo dal negozio, rimproverava i miei tentativi di schivare quelle mani pesanti, diceva che era un gesto sgarbato da parte mia e che le persone andavano trattate con rispetto, senza distin-zione. Ma io avevo sei anni e a quell’età non si sente ancora l’obbligo di cedere a quei dettami dell’ipocrisia che da adulti chiamiamo buone maniere. Pochi metri più avanti, sul lato opposto del marciapiedi, c’era la tabac-cheria di Antonio. Nell’unica vetrina sulla strada principale mi fermavo a osservare i modellini di Burago, impilati in ordine nelle loro scatoline rosse accanto agli accessori per fumatori. Ai due lati dell’entrata due distributori, uno di gomme da masticare a forma di palline colorate, l’altro di piccoli portachiavi di plastica con i personaggi più in voga dei cartoni animati. L’interno era meno angusto della merceria e Antonio non aveva la stessa aria appassita di Gaetana, ma l’ambiente era ugual-mente sgradevole, per via di un insopportabile tanfo di fumo stantio e di mozziconi di sigarette pestati sul pavimento lercio. Vitoe io entravamo per acquistare una bustina di patatine o per reclamare la moneta ingoia-ta dal distributore ingeneroso di palline. Ma erano incursioni veloci, le nostre; scivolavamo fra i numerosi avventori che affollavano il locale angusto, per lo più squadre di operai in pausa pranzo che da Antonio facevano scorta di sigarette e sogni. E i sogni, in quella topaia puzzo-

35

lente che era anche una squallida ricevitoria, erano fatti di inchiostro impresso sui tondini numerati di schedine di vario tipo. La maggior par-te finivano presto, come l’inchiostro della biro che penzolava dal ban-cone, attaccata a un filo per evitare che qualcuno se la mettesse in tasca. Finivano appallottolati e buttati per terra, accanto alle cartoline già scorticate dei gratta e vinci, altri sogni di breve durata. Teresa ascolta i miei ricordi mentre camminiamo a passo rallentato lungo la via Palermo di trent’anni dopo. È aggrappata al mio braccio sinistro con entrambe le mani, sento la sua presa sicura come se volesse garantirsi che sono lì solo per lei, almeno per questa breve passeggiata a chilometri di distanza dalla nostra vita. I ragazzi sono andati in spiag-gia, lasciandoci alle nostre rievocazioni. Fina anteprima.CONTINUA...