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Leonardo Parri LE ISTITUZIONI NELLE SCIENZE ECONOMICO-SOCIALI: UNA TORRE DI BABELE CONCETTUALE 1. Introduzione ................................................ pag. 3 2. Alcune formulazioni classiche del concetto .... " 5 3. Da Selznick al neoistituzionalismo americano . " 15 4. Istituzionalismo metodologico ed individualismo metodologico ............................................... " 23 5. La istituzioni come vincoli all'azione strategica. " 27 6. Conclusioni: le questioni che restano aperte..... " 32 Bibliografia ......................................................... " 39 DSS PAPERS SOC 3-95

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Leonardo Parri

LE ISTITUZIONI NELLE SCIENZE ECONOMICO-SOCIALI: UNATORRE DI BABELE CONCETTUALE

1. Introduzione ................................................ pag. 32. Alcune formulazioni classiche del concetto .... " 53. Da Selznick al neoistituzionalismo americano . " 154. Istituzionalismo metodologico ed individualismo

metodologico ............................................... " 235. La istituzioni come vincoli all'azione strategica. " 276. Conclusioni: le questioni che restano aperte..... " 32Bibliografia ......................................................... " 39

DSS PAPERS SOC 3-95

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Le istituzioni nelle scienze economico-sociali 3

«Uno dei nostri principali obiettivi saràquello di mostrare che la maggior parte delleregole di condotta che governano le nostreazioni, e la maggior parte delle istituzioni cheemergono da tali regolarità di comportamento,sono adattamenti all’impossibilità, in cuiciascuno si trova, di conoscere consapevolmentein dettaglio tutti i fatti particolari che influenzanol’ordine della società.»

Friedrich August von HayekLegge, legislazione e libertà, p. 20

1. Introduzione

La nostra rassegna critica non pretende di dar conto di tutte le definizioni diistituzione presentatesi di volta in volta nelle scienze economico-sociali e nellasociologia in special modo1. Daltronde, il carattere politetico del temineistituzione (Lopez Novo, 1994) renderebbe assai arduo questo compito.Seguiremo invece un percorso concettuale che ha origine, da un lato, con il piùistituzionalista dei sociologi classici, Émile Durkheim e, dall’altro, con leriflessioni degli istituzionalisti sociologici ed economici americani di iniziosecolo, i secondi dei quali riprendevano più o meno consapevolmente lecritiche della vecchia scuola storica tedesca nei confronti della teorianeoclassica. Il primo Talcott Parsons costituisce il punto di incontro tra questidue filoni e la sua riflessione sulle istituzioni è per certi aspetti ancorainsuperata a livello di teoria sociologica. Tra le più significative filiazioniteoriche degli approcci summenzionati vi è il cosidetto nuovo istituzionalismo.Esso ha come antenato l’approccio «naturale» di Philip Selznick alleorganizzazioni (anni quaranta-cinquanta), ripreso con lena e nuova linfa dallagenerazione di sociologi organizzativi neoistituzionalisti americani degli annisettanta-ottanta.

Vi è però anche un’altra strada maestra lungo la quale seguire il concetto diistituzione, quella dell’individualismo metodologico. La matrice intellettuale èqui la teoria dell’homo oeconomicus, opportunamente arricchita da Weber eproblematizzata da Menger. Mentre la succitata via istituzionalista tende adoscurare il soggetto e a privilegiare, sino alla reificazione, le strutture sociali, lavia individualista si pone come centrale il quesito: in che rapporto stannol’azione e gli interessi individuali con l’emergere ed il mantenimento delleistituzioni? Importanza centrale assumono allora la nascita ed il perpetuarsidelle norme istituzionali intese come vincoli all’azione individuale, nonché lemodalità di composizione interattiva dell’agire dei singoli (rapporto micro-macro). Nel secondo dopoguerra, questo percorso si arricchisce delle riflessionidella teoria dei giochi e dell’azione razionale per giungere poi, con Boudon, 1 Un simile approccio lo si ha nelle voci di enciclopedie o dizionari di sociologia, si

veda ad esempio quanto riportato in Gallino (1981) sotto il concetto «istituzioni».

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4 Le istituzioni nelle scienze economico-sociali

Elster, Coleman e North, ad una spiegazione delle dinamiche istituzionali inparte alternativa e in parte complementare a quella dell’approccioistituzionalista.

Al di là delle differenti impostazioni teoriche e metodologiche, la domandafondamentale che, dietro la riflessione sulle istituzioni, si pongono sial’approccio istituzionalista che quello individualista è sempre la stessa: come èpossibile l’ordine sociale?

Facendoci aiutare da Hayek, possiamo intendere l’ordine in senso sistemicocome:

«[...] uno stato di cose in cui una molteplicità di elementi di vario generesono in relazione tale, gli uni rispetto agli altri, che si può imparare, dallaconoscenza di qualche particolare spaziale o temporale dell’intero insieme, aformarsi aspettative corrette sulle altre parti di quell’insieme, o, almeno,aspettative che hanno una buona possibilità di dimostrarsi corrette.»

(Hayek von, F.A., 1973-1986, vol. 1, p. 49)

Riguardo all’ordine sociale vero e proprio, Hayek afferma che:

«Vivendo come membri di una società, e dipendendo per la soddisfazionedella maggior parte dei nostri bisogni da qualche forma di cooperazione congli altri, noi dipendiamo chiaramente, per l’efficace perseguimento dei nostridesideri, dalla corrispondenza tra ciò che effettivamente accadrà e le nostreaspettative circa le azioni altrui - aspettative sulle quali si fondano i nostripiani. Questa favorevole corrispondenza tra aspettative e intenzioni chedeterminano le azioni dei diversi individui, è una delle forme in cui l’ordine simanifesta nella vita sociale; e il nostro immediato interesse verterà sul comeesso viene a formarsi.»

(Hayek von, F.A., 1973-1986, vol. 1, p. 49-50)

Per l’economista e filosofo politico austriaco, la risposta alla questione dellapossibilità dell’ordine sociale è tutt’altro che scontata, confrontandosi duescuole di pensiero. La prima si basa sul mito del legislatore, secondo il quale leistituzioni che ordinano la società sono generate da una «sistemazionedeliberatamente attuata da qualcuno» e si basano su una struttura gerarchica«in cui le volontà dei superiori, e in ultima istanza di qualche singola supremaautorità, determinano ciò che ciascun individuo deve fare»(Hayek, 1973-1986,p. 50). La domanda cruciale che ci si deve porre verte allora su quali siano lecondizioni che portano gli individui ad un contratto sociale che fornisca allegislatore i poteri istitutivi di cui disporrà nella sua opera costruttiva. Laseconda scuola si basa sulla tradizione di pensiero iniziata da Mandeville, poiproseguita dall’illuminismo scozzese di Ferguson e A. Smith,dall’evoluzionismo giuridico di Hume e von Savigny, sino alla chiaraesplicitazione del marginalista austriaco Menger. Secondo questo approccio, leistituzioni alla base dell’ordine economico e sociale emergono spontaneamentedal ventre della società stessa, attraverso processi endogeni di interazione

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strategica ripetuta tra i suoi componenti2. Per questa visione, la domandacruciale che si devono porre le scienze economico-sociali, e che sta alla base diquello che Elster (1989-1991, p. 250) chiama il «programma di Hayek», è:

«How can it be that institutions which serve the common welfare[Gemeinwohl nel testo originale, ndr] and are extremely significant for itsdevelopment come into being without a common will [Gemeinwellen, ndr]directed toward establishing them?»

(Menger, C., 1883-1956-1985, p. 146)

Se poi ci volgiamo al pensiero sociologico ed economico più recente,vediamo come lo sventagliamento teorico e metodologico delle risposte allaquestione dell’emergere, mantenersi e decadere dell’ordine sociale e dellerelative istituzioni aumenta ulteriormente. Nelle pluriparadigmatiche scienzeeconomiche e sociali abbiamo risposte varie e solo parzialmentecommensurabili: una Torre di Babele concettuale nella quale cercheremo diportare un poco di chiarezza.

2. Alcune formulazioni classiche del concetto.

Cominciamo con le definizioni di istituzione legate alla fase adolescenzialedello sviluppo della sociologia, ove essa cerca di affermarsi come paradigmaforte ed alternativo a quello delle altre scienze sociali, soprattutto psicologia edeconomia. Nel proporre un’impostazione teorica che gli individualistimetodologici alla Boudon chiamerebbero oggi sociologistica, Durkheim (1901-1988) e Parsons (1935-1990) vogliono affermare la sociologia come scienzadelle istituzioni, indipendentemente dall’ambito sociale concreto in cui questesiano radicate (cultura, economia, politica, ecc.).

Durkheim mette l’accento sulle istituzioni come fatti sociali, creati sìdall’azione di individui interagenti, ma capaci di assumere una propriaautonoma esistenza, la quale agisce poi costrittivamente sugli attori comequalcosa ad essi esterno e relativamente immodificabile.

«[...], c'est que les manières collectives d'agir ou de penser ont une réalitéen dehors des individus qui, à chaque moment du temps, s'y conforment. Ce

2 »In effetti, è possibile che le istituzioni, pur essendo in un certo qual senso prodotto

dell’uomo, e cioè esclusivamente il risultato di azioni umane, non siano tuttaviaprogettate da alcuno e non siano quindi il prodotto intenzionale di queste azioni.Da questo punto di vista lo stesso termine ‘istituzione’ risulta abbastanzafuorviante, in quanto dà l’idea di qualcosa che si istituisce deliberatamente.Sarebbe forse meglio impiegare questo termine esclusivamente per designare certidispositivi di natura particolare - come, ad esempio, determinate leggi e organismi- che sono stati istituiti per uno scopo specifico, e usare un termine più neutro,come ‘formazioni’ (in un senso simile a quello in cui lo usano i geologi e checorrisponde al tedesco Gebilde), per indicare quei fenomeni che, come la moneta eil linguaggio, non sono creati in questo modo.» (Hayek, 1942-1988, p.185)

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sont des choses qui ont leur existence propre. L’individu les trouve toutesformées et il ne peut faire qu’elles ne soient pas ou qu’elles soient autrementqu’elles ne sont; il est donc bien obligé d’en tenir compte et il lui est d’autantplus difficile (nous ne disons pas impossible) de les modifier que, à des degrésdivers, elles participent de la suprématie materiélle et morale que la société asur ses membres. Sans doute, l'individu joue un rôle dans leur genèse. Maispour qu'il y ait fait social, il faut que plusieurs individus tout au moins aientmêlé leur action et que cette combinaison ait dégagé quelque produit nouveau.Et comme cette synthèse a lieu en dehors de chacun de nous [...] , elle anécessairement pour effet de fixer, d'instituer hors de nous de certaines façonsd'agir et de certains jugements qui ne dépendent pas de chaque volontéparticulière prise à part. [...], il y a un mot qui, [...], exprime assez bien cettemanière d’être très spéciale: c'est celui d'institution. On peut en effet, [...],appeller institution, toutes les croyances et tous les modes de conduite instituéspar la collectivité; la sociologie peut alors être définié: la science desinstitutions, de leur genèse et de leur fonctionnement.»

(Les règles de la méthode sociologique. Préface de la seconde edition)(Durkheim, É., 1901-1988, pp. 89-90).

Come maniere collettive di agire e di pensare, per Durkheim le istituzioni:a) possono vincolare la libertà d’azione degli individui in quanto regoleregolative proscrittive e prescrittive che impongono dall’esterno sanzioniquando non siano rispettate (certe azioni o non-azioni sono punitedall’ostracismo sociale o dalla legge); b) plasmano l’agire umano indeterminati modelli di azione, corrispondenti ad altrettante modalità di operareed identità condivise e riconosciute. Esse sono cioè anche regole pratiche chedefiniscono costitutivamente sfere di attività sociali e che, se non seguite, sonosanzionate internamente dall’insuccesso nel raggiungere i fini prepostisi: unimprenditore che non bada ai costi è fatto fallire dalla concorrenza; se parloitaliano in Danimarca non sono compreso dai danesi; se non sono un avvocatoè improbabile che possa aver successo come difensore in un processo, ecc.(Mulligan e Lederman, 1977: Lopez Novo, 1994).

Se questi sono i due tipi di regole che sostengono le istituzioni in quantofatti sociali, la sociologia deve essere per Durkheim la scienza delle istituzioni,della loro genesi come del loro funzionamento. Se la seconda prospettiva haaperto la strada alla famiglia delle spiegazioni funzionalistiche delle istituzionida parte di antropologi e sociologi, con la prima il pensiero di Durkheim apparealmeno compatibile con un approccio individualista metodologico: la

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spiegazione della nascita delle istituzioni attraverso effetti attesi o inattesi dicomposizione di una pluralità di azioni umane3.

Prima di passare alla seconda concettualizzazione sociologicamentepregnante delle istituzioni, quella di Parsons, conviene ricordare chi, suomaestro negli anni venti ad Amherst, lo fece imbattere tra i primi nel concetto(Camic, 1990). Si tratta dell’economista istituzionalista americano WaltonHamilton, un critico della teoria neoclassica ed un sostenitore dello studio delleistituzioni economiche (il mercato, il commercio, il contratto, le proprietà, laconcorrenza, ecc.) e della loro variabilità storica. La concezione di W.Hamilton delle istituzioni fu influenzata da quella di Veblen (1919), che ledefiniva «settled habits of thought common to the generality of men» (p. 239),ma anche da altre nozioni tipiche di un periodo di forte interesse per il tema intutte le scienze sociali4. Il sociologo MacIver darà nelle sue opere tra gli annidieci e trenta un’ulteriore definizione del concetto. Per MacIver le istituzionisono: «forms of social activity»; «forms in accordance with which men enterinto social relations»; «established forms or conditions (i.e. rules) ofprocedures characteristic of group activity», egli aggiungeva, poi, che ogniistituzione serve la funzione vitale del controllo sociale (citaz. tratte da Camic,1990, p.316).

È sullo sfondo di questo panorama intellettuale, in cui era immersoprofondamente anche il giovane Parsons, che W. Hamilton redasse la voce«institution» per il vol. 8 della Encyclopaedia of the Social Sciences (1932):

«Institution is a verbal symbol which for want of a better describes a clusterof social usages. It connotes a way of thought or action of some prevalence andpermanence, which is embedded in the habits of a group or the customs of apeople. In ordinary speech it is another word for procedure, convention orarrangement, in the language of books it is the singular of which the mores orthe folkways are the plural. Institutions fix the confines of and impose formupon the activities of human beings. The world of use and wont, to whichimperfectly we accomodate our lives, is a tangled and unbroken web ofinstitutions.»

(Hamilton, W.H., 1932, p. 84).

3 Nel quinto capitolo de Les règles Durkheim esplicitamente afferma che: «Faire voire

à quoi un fait est utile n’est pas expliquer comment il est né ni comment il est cequ’il est» (Durkheim, 1901-1988, p.183). La nascita di un fenomeno sociale va peresso spiegata in base alla causa efficiente che lo produce, causa che può essereindipendente dai fini che il fenomeno servirà (p.184). È pur vero che il sociologoloreno afferma anche che, dopo la causa efficiente, va ricercata anche la funzioneche un fenomeno sociale assolve (p. 188), funzione che, se utile, contribuisce al suomantenimento nel tempo e dunque alla sua istituzionalizzazione (p. 189). Nonbisogna però dimenticare che Durkheim asserisce che un fatto sociale può persistereper la sola forza dell’abitudine anche se non è mai servito a nulla o se ormai haperso ogni utilità (p.184).

4 Camic (1990, p. 316) ricorda le definizioni di istituzione di altrettanti maestri diParsons ad Amherst negli anni venti: quella di C.H. Cooley del 1909 e 1918, diW.G. Sumner del 1906, di L.T. Hobhouse del 1924.

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Istituzioni dunque come prassi sociali consolidate, come regole praticheche impongono forma ed identità alle attività umane e che sono sanzionatedall’interno, ma anche come regole regolative che vincolano l’agire fissandonei confini e applicando sanzioni dall’esterno. La nozione dell’autore è arricchitaverso la conclusione della voce enciclopedica, ove egli afferma:

«[...] an institution is an imperfect agent of order and of purpose in adeveloping culture. Intent and chance are alike share in its creation; it imposesits pattern of conduct upon the activities of men and its compulsion upon thecourse of unanticipated events.»

(Hamilton, W.H., 1932, p. 89).

Per W. Hamilton le istituzioni sono dunque strumenti di riduzionedell’entropia sociale e di diminuzione dell’incertezza e la loro creazione è allostesso tempo conseguenza sia di azioni intenzionali che di pura casualità. Comeabbiamo appena visto, la possibile origine non intenzionale delle istituzioni(istituzioni organiche piuttosto che pragmatiche) era già stata sottolineata da C.Menger nel suo fondamentale Untersuchungen über die Methode derSocialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere del 1883.Tradotta solo nel 1956 in inglese5, non sembra che gli istituzionalisti americanidegli anni dieci-trenta conoscessero l’opera metodologica di Menger e la suamagistrale argomentazione sulle «spiegazioni basate sulla mano invisibile»(Nozick, 1977) come modalità d’origine di molte istituzioni sociali,economiche e politiche. È dunque probabile che l’intuizione sia giunta a W.Hamilton dagli illuministi scozzesi del 1700 e dalle teorizzazioni giuridichesulla common law.

Se Durkheim battagliava con psicologi ed economisti per affermare ladignità della sociologia come nuova disciplina, il primo Parsons perseguiva lostesso obbiettivo attraverso schermaglie con gli scienziati politici ed inparticolare con gli economisti suoi colleghi ad Harvard. Questi, infatti, nonlesinavano affatto giudizi sprezzanti verso la dignità scientifica dei sociologi diallora (Camic, 1987, 1989, 1992). Anticipando parte dei temi che avrebbesvolto ne La struttura dell’azione sociale del 1937, ma anche dopo laconversione allo struttural-funzionalismo degli anni cinquanta, il saggioProlegomena to a Theory of Social Institutions del 1935 (pubblicato postumonel 1990) getta le fondamenta della riflessione parsonsiana sulle istituzioni.Anche se non riconosciuto da Parsons per motivi di opportunità accademica(Camic, 1992), l’influsso degli istituzionalisti americani sulla suaconcettualizzazione è decisivo, influsso che egli sa abilmente fondere conquello dei classici sociologici europei.

5 Nella sua introduzione alla traduzione inglese del 1956 delle Untersuchungen di

Menger (1883-1956-1985), L. Schneider (p.3) ricorda che il solo A. Small si erainteressato nel mondo anglossassone all’opera, traducendone e riassumendonealcune parti a partire dal 1924.

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Nel suo Prolegomena, Parsons distingue tra un approccio soggettivo ed unooggettivo alle istituzioni: il primo opera dal punto di vista dell’individuo cheagisce in relazione con esse, il secondo è lo studio di queste da parte di unosservatore sociologico. Fedele alla sua metodologia di ascendenza kantiana,Parsons afferma poi che le istituzioni vanno viste non come una classe difenomeni concreti, per cui esisterebbe una sociologia delle istituzioni, ma comeuna categoria analitica: una teoria delle istituzioni è una teoria di tutta la vitasociale sotto un certo aspetto. Qual’è l’aspetto in questione?

«[...] I should concentrate on those uniform modes of behavior and forms ofrelationship which are ‘sanctioned’, that is stand in some kind of significantrelation to normative rules to a greater or lesser degree approved by theindividuals subject to them.»

(Parsons, T., 1935-1990, p.320)

Le «normatives rules» in questione sono solo quelle sociologicamenterilevanti, ovvero quelle che hanno una relazione più o meno diretta con i fini ovalori ultimi condivisi degli attori coinvolti. Scatta qui la relazione tra le normeregolative e pratiche che regolano l’azione degli individui e l’ordine socialecomplessivo, relazione il cui approfondimento è tipico della riflessioneparsonsiana sulle istituzioni (come pure di quella di Durkheim, anche se inmodo analiticamente meno raffinato). Le catene mezzi-fini lungo le quali sisvolgono le singole azioni intenzionali - siano queste «tecnologiche»,«economiche» o «politiche» - possono trovarsi nella situazione di essereorientate verso fini intermedi o ultimi che variano casualmente e/o sono inconflitto tra loro. Queste incongruenze porterebbero la società in un caoticostato di natura hobbesiano. La relazione tra l’azione intenzionale individuale e ifini ultimi può infatti essere immediata, ovvero un wertrationales Handelnweberiano, oppure mediata, nel senso che ci si trova ancora nella zonaintermedia della catena mezzi-fini, ove i fini contingenti non hanno relazionediretta con quelli ultimi. Affinché il sistema di azioni come tutto sia integrato econgruente è necessario che norme istituzionali portino ad indirizzare l’azionedirettamente orientata al valore (wertrational) verso uno dei fini comunicondivisi e ad orientare l’azione situata nel mezzo della catena fini-mezzi inmodo da non confliggere indirettamente con i fini ultimi.

«Thus, while in the case of wertrationales Handeln the ultimate ends (orsome of them) form an integral part of the particular action as viewed in termsof means-ends relationship, in this latter case [quello di un’azione nonorientataal valore, ndr] their relation to the particular action element is, [...], ‘external’.Thus, the ultimate ends, or rather the value attitudes underlying them of whichends are an expression, are related to the specific actions not in the forms ofends, but of regulatory norms defining limits within which the choice both ofimmediate ends and of means to their attainment is permissible. This system ofregulatory norms, of rules governing actions in pursuit of immediate ends interms of their conformity with the ultimate common value-system of thecommunity, is what I call its institutions approached from the subjective point

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of view. Thus, in the concrete reality of custom and law it is the normative ruleitself which constitutes the institutional element, not the total concrete complexof relatively uniform behavior.»

(Parsons, T., 1935-1990, p. 324).

Nella visione parsonsiana, l’osservanza delle norme può essere garantita siadal coinvolgimento morale dell’individuo, che dunque le segue in modo nonconsequenziale, sia dal timore di sanzioni, facendo dunque appello al suointeresse personale.

Una volta definite come sopra le istituzioni dal punto di vista soggettivo,per Parsons la sociologia si pone come lo studio analitico dei vincoliistituzionali all’azione individuale orientati a garantire che tra le proprietàemergenti dei sistemi d’azione sociale vi sia l’integrazione dei valori comuni.Le altre due scienze sociali analitiche, l’economia e la scienza politica, sioccupano di ulteriori tipi di proprietà emergenti dei sistemi di azione sociale,quelle riguardanti gli aspetti dell’azione che concernono l’allocazione dellerisorse tra usi alternativi e quelle che hanno a che fare con gli aspettidell’azione governati da rapporti di coercizione o di potere tra i singoli(Parsons, 1935-1990, 1937-1987).

Ricapitolando il ragionamento parsonsiano: a) le istituzioni si occupanodelle norme sociali che vincolano i comportamenti individuali in modo darenderli congruenti con i valori ultimi condivisi; b) la sociologia si occupadelle proprietà emergenti dei sistemi di azione sociali in merito alla coerenzadei valori ultimi condivisi, coerenza che impedisce il caos hobbesiano. Neconsegue che, per il sociologo nordamericano, si giunge a conclusioni nontanto diverse da quelle di Durkheim sulla sociologia come scienza delleistituzioni:

«[...], I conceive the theory of institutions to be one of the principalbranches of general sociological theory, hence the theory of all social life inone aspect, not the theory of one particular concretely separable department ofsocial life.»

(Parsons, T., 1935-1990, p. 320)

A conclusioni simili Parsons giunge anche seguendo il percorso analiticodelle istituzioni dal punto di vista oggettivo6, percorso che lo allontana dallateoria dell’azione e lo avvicina allo strutturalismo della scuola degliistituzionalisti economici e sociologici americani degli anni dieci-venti. Se sitiene conto dell’evenienza di vari individui che operino all’interno dello stessoambiente, si considera implicitamente la possibilità che essi interagiscano. Inquesto caso: 6 La distinzioni tra analisi soggettiva e oggettiva delle istituzioni non si sovrappone a

quella delle regole istituzionali intese come regolative oppure come pratiche: laprima distinzione riguarda l’aspetto del punto di vista dell’osservatore, la secondaquello del tipo di indicazioni fornite all’attore. Come le regole che fondano i fattisociali di Durkheim, anche le regole istituzionali di Parsons sono (o hanno aspetti)di volta in volta sia regolative che pratiche.

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«[...] the norms which regulate the actions of individual will at the sametime, as one of their most important functions in performing this regulation, laydown norms of what these relations ought to be. And in so far as these normsare lived up to they will define what some at least of the relations actually are.Thus, institutions, in so far as they regulate the relations of individual to eachother, become a fundamental element of social structure which consistprecisely in such a set of determinate relations of individuals. [...]. Thisrelation of institutions to social structure does not appear prominently in the‘subjective’ analysis since its full import is only brought out by considering allthe individuals in the community in relation to each other.»

(Parsons, T., 1935-1990, p. 327).

Alla luce di ciò, per Parsons le strutture sociali concrete (aziende, banche,burocrazia, ecc.) assumono questa o quella forma o natura non solo in ragionedi fattori di volta in volta tecnologici, economici, politici, ma anche in seguito afattori collegati ai valori ultimi e alla loro integrazione, ovvero in seguito alleistituzioni. In un esempio Parsons afferma, facendoci ricordare argomentazionicomuni tra gli istituzionalisti economici tedeschi e americani a cavallo tra ottoe novecento, nonchè gli assunti fondamentali dell’istituzionalismo economicodi K. Polanyi7:

«[...], in economic analysis the division of labor and exchange are thoughtof as resultants of the various economies of specialization. But in so far asinstitutional norms are ‘external’ to the individual acts, they operate to specifyrelationships still further. They constitute a ‘form’, a ‘mold’ into which theseindividual acts fit.»

(Parsons, T., 1935-1990, p.327)

in conseguenza di cio:

»The fact that we speak of economic institutions, religious institutions, etc.,does not mean that the institution in question constitute an economic element inthe causal sense. On the contrary, the whole position here taken up implies thatthe institutional element constitutes a causal factor in its own right, distinctfrom each of those formulated in these functional categories.»

(Parsons, T., 1935-1990, p. 331).

L’aspetto dell’integrazione dei fini ultimi e quello relativo ai rapporti dicoercizione-potere concorrono con l’aspetto dell’allocazione delle risorse trafini alternativi alla configurazione della realtà economica in questo o quelmodo a seconda, ad esempio, del contesto-paese: il neo-istituzionalismo

7 Il versatile ungaro-britannico rientra a pieno titolo tra i classici dello studio delle

istituzioni economiche. Per brevità, abbiamo qui trascurato il suo apporto, anche inconsiderazione della disponibilità dei recenti contributi su Polanyi da parte di Cella(1985, 1992) e di Martinelli (1986).

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economico contemporaneo ha ripreso in modo forte questa argomentazione(Parri, 1993a), estendendola con Orrù, Biggart e Hamilton (1991), Streeck(1992b) e North (1990) anche alla comprensione delle differenti prestazionidelle economie nazionali.

Sia che le istituzioni siano avvicinate dal punto di vista soggettivo che daquello oggettivo, per Parsons il loro ruolo è chiaro:

«The function of institutions is always the same - the regulation of action insuch a way as to keep it in relative conformity with the ultimate common valuesand value-attitude of the community.

[...].[...] there is in every society a more or less coherent system of common

ultimate value-attitudes, and [...] institutions are primarily an expression ofthese attitudes in certain particular relations to action. It follows that theinstitutions themselves will constitute a system - that is, a system of regulativenorms.»

(Parsons, T., 1935-1990, p. 331).

Proseguiamo con una definizione di istituzioni che introduce una novitàrispetto a quanto visto sinora, quella di MacIver e Page nel loro «Society: AnIntroductory Analysis» del 1950. MacIver recupera qui le sue definizioni deglianni dieci-trenta (vedi sopra), lasciando sullo sfondo la generica definizione diistituzioni come forme di attività sociale e approfondendo quella più ristretta diistituzioni come procedure caratteristiche dell’attività di un gruppo e distintedalle organizzazioni sociali concrete, le cosidette associations.

«Institutions defined as established forms of procedure. It is sometimes thepractice to refer to anything which is socially established as an institution. [...].But we shall gain a clearer view of the social structure if we make a distinctionbetween institutions and associations. [...] we shall always mean by institutionsthe established forms or conditions of procedure characteristic of a groupactivity.»

«Institutions and associations. When men create associations they mustalso create rules and procedures for the dispatch of the common business andfor the regulation of the members to one another. Such forms are distinctivelyinstitutions. Every association has, with respect to its particular interest, itscharacteristic institutions. The church, [...], has its sacraments, its modes ofworship, its rituals. The family has marriage, [...]; it has the home, the familymeal and so forth. The state has its own peculiar institutions, such asrepresentative government and legislative procedures.»

(MacIver R.M., Page, C.H., 1950-1961, p.15)

Per essere ancora più chiari, MacIver e Page aggiungono:

«We belong to associations but not to institutions. Sometimes a confusionarises between institution and association because the same term, in adifferent reference, may mean either one or the other. There is no difficulty in

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Le istituzioni nelle scienze economico-sociali 13

deciding, according to our definition, that the church is an association andcommunion an institution, that the trade union is an association and collectivebargaining an institution, that the familiy is an association and monogamy aninstitution. But which term shall we apply to a hospital, a parliament. a prison,a college. When we speak of a hospital we may be thinking of a building for thecare of the sick, a system of medical service, a provision publicly or privatelyestablished to meet certain social needs - in other words we may be thinking ofit as an institution. But we may also think of it as a body of physicians, nurses,attendants - in other words as an association. This suggest the simple clue bywhich we can find an answer to our question. If we are considering somethingas an organized group, it is an association; if as a form of procedure, it is aninstitution. Association denotes membership; institution denotes a mode ormeans of service. When we regard a college as a body of teachers and students,we are selecting its associational aspect, but when we regard it as aneducational system, we are selecting its institutional features. We cannotbelong to an institution. We do not belong to marriage or property systems orsolitary confinement, but we do belong to families, to states, and sometimes toprisons.»

(MacIver R.M., Page, C.H., 1950-1961, p.15-16)

Da un lato, MacIver e Page fanno chiarezza sull’ambiguità del concetto diistituzione tipico del linguaggio comune, intesa cioè sia come organizzazioneconcreta che come azione regolata da norme e/o consuetudini; dall’altro lato,introducono nella concettualizzazione un maggior grado di applicabilitàempirica, dandole una precisione operativa che mancava alle altre definizioni.Queste parlavano di istituzioni come modi collettivamente riconosciuti esanzionati di pensare, agire, porsi in relazione, mentre MacIver e Page cercanodi recuperare la nozione parsonsiana di istituzione dal punto di vista soggettivo- come sistema di norme regolative - calandola però dall’astrattezza analitica diParsons all’interno della realtà ora di questo ora di quel gruppo socialeconcreto, definiti come associazioni.

Va notato come MacIver già nel suo Society del 1931 avesse introdotto ladistinzione tra associations e institutions e come sempre di quel fecondoperiodo americano fosse un’altra definizione che implicava unacaratterizzazione simile. L’istituzionalista economico J.R. Commonsdistingueva infatti tra Going Concerns e institutions: con i primi intendevadelle organizzazioni concrete, come le associazioni industriali di settore, isindacati, le aziende, i partiti politici, la famiglia, lo stato; mentre:

«[T]he short definition of an institution is collective action in control ofindividual action, the derived definition is: collective action in restraint,liberation, and expansion of individual action.»

(Commons, J.R., 1934, p.73)

L’azione del singolo soggetto economico è limitata e potenziata dallapresenza delle regole (sia regolative che pratiche) e delle risorse che sonoattivate all’interno dei (e tra i) vari Going Concerns: l’azione del singolo

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14 Le istituzioni nelle scienze economico-sociali

operaio è allo stesso tempo vincolata e fortificata nei suoi effetti dal suoappartenere al sindacato; lo stesso si può dire per un’azienda che appartiene adun’associazione imprenditoriale; un artigiano o un contadino che appartienealla sua famiglia estesa; un ingegnere che opera in un laboratorio aziendale diR&S. Ognuna di queste organizzazioni (Going Concerns) è stata creata ed èefficacemente funzionante grazie all’azione collettiva di tutti i suoi membriindividuali. Questa azione collettiva garantisce il sanzionamento delle regoleistituzionali (working rules, per Commons) che governano la sua vita interna(relazioni intraorganizzative) ed esterna (relazioni interorganizzative), nonchél’attivazione delle risorse disponibili.

Una adeguata comprensione della concettualizzazione commonsiananecessita due parole sul dibattito dell’epoca. Come e meglio degli altriistituzionalisti economici americani, Commons rimproverava all’economia, daA. Smith sino ai neoclassici, di aver considerato esclusivamente l’azioneeconomica individuale, trascurando od addiritura demonizzando l’azioneeconomica collettiva. Se l’economia classica e neoclassica si occupava di«individual action without collective control» (inteso solo come il controllo daparte del mercato e le limitazioni dovute ai diritti di proprietà), la institutionaleconomics doveva occuparsi delle sempre più importanti forme di «collecitiveaction in control of individual action» (citaz. di Commons da Vanberg, 1989-1993, p. 344, n. 15) che operavano tramite i Going Concerns e le loro regoleistituzionali (working rules). In questo senso, l’economia istituzionale diCommons non ripudia l’economia ortodossa a base individualistica,semplicemente la integra, considerando il ruolo delle regole istituzionali basatesull’azione collettiva ogni qual volta esse fossero rilevanti nel vincolare e/opotenziare l’azione del singolo. Mentre gli istituzionalisti economici americanie la scuola storica tedesca avanzarono le loro critiche all’economia ortodossapassando all’olismo ed al determinismo, Commons non ripudiòl’individualismo metodologico come base teorica dell’economia, siaistituzionale che non (Vanberg, 1989-1993). Ciò non stupisce, se si pensa chead esempio il M. Weber di Economia e società fu capace di considerare le piùdiverse forme istituzionali di condurre l’attività economica senza maiabbandonare la teoria dell’azione (Weber, 1922-1980)8.

È interessante infine notare come la distinzione di MacIver e Page traassociazioni e istituzioni e quella di Commons tra Going Concerns e istituzionisiano ricalcate da quella più tarda di North tra organizzazioni e istituzioni,necessaria per poter svolgere una analisi empirica di storia economica. North(1990, pp. 4-5) afferma che le organizzazioni e le istituzioni sostanzianoentrambe la struttura dell’interazione umana, le seconde però corrispondonoalle regole del gioco, le prime ai giocatori. Le seconde sono costituzioni,legislazioni, statuti, regolamenti e qualsiasi varietà di regole formali edinformali; le prime sono partiti politici, aziende, agenzie statali, associazioni

8 Bromley (1994, p. 390) sottolinea l’importanza di Commons per la nascita negli

Stati Uniti di approcci capaci di conciliare individualismo metodologico esensibilità istituzionale come saranno la public choice, le teorie dei club e dei benipubblici, il costituzionalismo economico, ecc.

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sindacali ed imprenditoriali, ecc. Le istituzioni influenzano l’azione delleorganizzazioni e le organizzazioni agiscono per mutare le istituzioni in modo aloro favorevole9.

3. Da Selznick al neoistituzionalismo americano

Il neoistituzionalismo americano10 ha come proprio padre intellettualel’opera di Philip Selznick, la cui summa ritroviamo in Leadership inAdministration: A Sociological Interpretation del 195711. Selznick metteva quiin discussione l’approccio razionale alle organizzazioni, richiamandosi alledinamiche informali, adattative, valoriali, di identità e di leadership che davanoloro la dimensione di sistemi naturali o istituzioni; i neoistituzionalisti, dalcanto loro, contestano la teoria delle contingenze e le teorie della sceltarazionale come basi del discorso sulle organizzazioni, sottolineandol’importanza per la comprensione della realtà organizzativa dei simboli, dei«miti moderni», dell’azione routinaria e non calcolativa, dei quadri cognitivi,della legittimazione interna ed esterna, delle normative professionali, di tuttociò che è «dato per scontato» (taken for granted) (DiMaggio e Powell, 1991).Concetti come istituzionalizzazione, opposta a progettazione razionale, e come 9 La distinzione di North (1990) tra istituzioni e organizzazioni non corrisponde a

quella di Selznick (1957-1984), sempre tra istituzioni e organizzazioni. North vuoleidentificare due realtà empiriche diverse, mentre Selznick (p.6), su cui torneremopiù avanti, stabilisce due approcci analitici differenti ad una stessa realtà empirica:un’azienda può essere studiata come istituzione («organizzazione naturale» nelsenso di Gouldner) oppure come organizzazione («organizzazione razionale»). Aconferma di ciò, North non cita mai Selznick, anche se non cita né MacIver e Pagené tantomeno Commons (forse scomodo come riferente intellettuale?). Quantoall’approccio di Williamson, che pur si chiama Nuova economia istituzionale, nonvi viene mai fornita una distinzione tra organizzazione ed istituzione, i terminivengono usati intercambiabilmente: mercato, ibridi e gerarchia aziendale sono treistituzioni del capitalismo, ma la borsa di Tokio, un laboratorio nato da una jointventure a Palo Alto e la General Motor sono allo stesso tempo organizzazioniconcrete e istituzioni regolative.

10 Ci riferiamo qui alla prospettiva di studio delle organizzazioni come entitàsottoposte a processi di istituzionalizzazione e confrontate ad ambienti istituzionaliche ha avuto il via con quattro fondamentali articoli: Meyer e Rowan, 1977-1991;Zucker, 1977-1991; DiMaggio e Powell, 1983-1991; Scott e Meyer, 1983-1991.Questi contributi, assieme ad altri più recenti e ad un’interessante introduzioneteorica, sono riportati in Powell e DiMaggio (a cura di, 1991). La scuola neo-istituzionalista non rivendica tra i propri referenti teorici gli istituzionalistieconomici americani, mentre ha degli appigli con gli istituzionalisti sociologici diquel paese.

11 Maturata tra gli anni quaranta e cinquanta, l’opera di Selznick non risentedirettamente per quanto ne sappiamo dell’influsso degli istituzionalisti economici esociologici americani degli anni dieci-trenta. È però impensabile, dato il tipo ed ilperiodo della sua formazione, che Selznick non ne conoscesse almeno le tesifondamentali.

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ambiente istituzionale, opposto ad ambiente tecnico, diventano centralinell’approccio alle dinamiche organizzative12.

Nelle teorie organizzative sia di Selznick che dei neoistituzionalisti, illegame con le definizioni classiche di istituzione passa attraverso una minoreenfasi sull’azione razionale ed autointeressata ed una maggiore su quellaorientata da norme di volta in volta morali, comunitarie, simbolico-identitarie,professionali, politico-rappresentative, ecc., privilegiando inoltre le regolepratiche rispetto a quelle regolative. Agire all’interno di ambienti istituzionalivuole allora dire operare defocalizzando i propri interessi personali ed ilcalcolo delle conseguenze attese (DiMaggio, 1988), in favore degli interessiistituzionali, garantiti da un sistema di norme.

Sia Selznick che la gran maggioranza dei neoistituzionalisti non offrono unadefinizione di istituzione, cosa comprensibile in quanto il loro è piuttosto unapproccio istituzionale alle organizzazioni che non una teoria delle istituzionivera e propria; un approccio che considera l’aspetto istituzionale delleorganizzazioni, degli ambienti organizzativi, dell’agire strategico dei membri edella coalizione dominante.

Dopo aver delineato le caratteristiche classiche di un sistema razionalechiuso , Selznick equipara questo modello al concetto di organizzazione eaggiunge:

«The term ‘organization’ thus suggests a certain bareness, a lean, no-nonsense system of consciously coordinated activities. It refers to anexpendable13 tool, a rational instrument enginered to do a job. An ‘institution’,on the other hand, is more nearly a natural product of social needs andpressures - a responsive, adaptive organism. This distinction is a metter ofanalysis, not of direct description. It does not mean that any given enterprisemust be either one or the other. While an extreme case may closely approacheither an ‘ideal’ organization or an ‘ideal’ institution, most living associationsresist so heavy a classification. They are complex mixtures of both designedand responsive behavior.»

(Selznick, Ph., 1957-1984, pp. 5-6)

Per Selznick, studiare ad esempio il ministero dell’agricoltura o un’aziendapetrolifera come istituzioni, significa conoscerne la storia, l’influenza chel’ambiente sociale e i centri di potere esterni hanno avuto su di essi e come vi sisono più o meno consciamente adattati, come giustificano la loro esistenzaideologicamente, tra quali categorie sociali reclutano la leadership, ecc.Significa studiare l’organizzazione come sistema naturale, cogliendone le

12 Il neo-istituzionalismo organizzativo è affiancato da approcci simili in economia

teorica (Nelson e Winter, 1982), economia applicata (Hamilton e Biggart, 1988;Orrù, Biggart e Hamilton, 1991; Orrù, 1991) e scienza politica (March e Olsen,1989-1992).

13 Ndr, expendable: not regarded as worth preserving or saving; not normally reused;unimportant; that may be sacrificed to gain one's ends. - Oxford ConciseDictionary.

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regole e le dinamiche informali, nonchè il mondo sociale interno, oltre cheesterno.

Per questo studioso delle organizzazioni, un’azienda o un’agenziagovernativa intese come istituzioni sviluppano «naturalmente», persopravvivere e riprodursi, un’ideologia, dei valori, delle immagini di sé stessecome mezzo di comunicazione, autodifesa e motivazione. Sviluppano inoltredei meccanismi di creazione e protezione delle élites dirigenti per garantirsiuna leadership, nonché conflitti tra gruppi di potere interni, come mezzo perliberare ed assorbire energie umane, ecc. Quando emergono queste tendenze èin corso un processo di istituzionalizzazione dell’organizzazione, processo cheassume tanta più forza quanto meno precisi e tecnici sono i fini e le procedureorganizzative. L’istituzionalizzazione apre spazi all’azione della leadership eall’influenza dei valori di appartenenza, in questo senso:

«[...] ‘to institutionalize’ is to infuse with value beyond the technicalreequirements of the task at hand. [...]. Whenever individuals become attachedto an organization or a way of doing things as persons rather than astechnicians, the result is the prizing of the device for its own sake. From thestandpoint of the committed person, the organization is changed from anexpendable tool into a valued source of personal satisfaction.»

(Selznick, Ph., 1957-1984, p. 17)

«[...]:organizations are technical instruments, designed as means to definitegoals. They are judged on engineering premises; they are expendable.Institutions, whether conceived as groups or practices, may be partlyengineered, but they have also a 'natural' dimension. They are products ofinteraction and adaptation: they become receptacle of group idealism; they areless readily expendable.»

(Selznick, Ph., 1957-1984, p. 21-22)

La presenza di questi aspetti istituzionali può rendere l’organizzazionerecalcitrante nei confronti di ristrutturazioni e mutamenti dovuti a puri fattoritecnici od economici, fatto che ne può mettere in pericolo la sopravvivenza dalpunto di vista dell’efficienza e dell’efficacia. Allo stesso tempo però, gli aspettiistituzionali facilitano il perdurare dell’organizzazione rafforzandone lacoesione interna e portandola a cercare nuovi compiti o risorse pur di nonrischiare la propria liquidazione.

«There is a close relation between ‘infusion with value’ and ‘self-maintenance’. As an organization acquires a self, a distinctive identity, itbecome an institution. This involves the taking on of values, ways of acting andbelieving that are deemed important for their own sake. From then on self-maintenance becomes more than bare organizational survival; it becomes astruggle to preserve the uniqueness of the group in the face of new problemsand altered circumstances.»

(Selznick, Ph., 1957-1984, p. 21)

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L’approccio selznickiano, pur considerando con attenzione l’azioneindividuale ed enfatizzando il ruolo della leadership, ha un sapore fortementeolistico: l’organizzazione come istituzione acquisisce identità e diventadepositaria di valori, è capace di adattarsi plasticamente ed in modo nonnecessariamente intenzionale alla natura dell’ambiente circostante.Quest’ultimo è a sua volta inteso non solo dal punto di vista tecnico-economico, ma anche da quello sociale, politico e culturale, ovvero l’ambientenel suo aspetto istituzionale. Scompare in Selznick la prospettiva delleistituzioni come elemento costrittivo sostenuto da sanzioni presente nelleargomentazioni di Durkheim e Parsons, mentre si insiste sull’aspetto morale,ideale, consensuale ed integrativo delle norme istituzionali, l’altra dimensioneenfatizzata dagli stessi Durkheim e Parsons.

Venendo ai neoistituzionalisti contemporanei, notiamo che essi pongonosotto accusa l’idea che le organizzazioni siano sistemi i cui partecipantiagiscono secondo una razionalità consequenziale che appronta i migliori mezziper raggiungere fini dati. Essi recuperano la critica simoniana alla razionalitàorganizzativa, radicalizzandola ulteriormente sino a quasi sposare le tesi diCyert, March, Olsen e Cohen sull’ambiguità, il caos organizzato, le routine ela logica dell’appropriatezza come fenomeni centrali della vita delleorganizzazioni. Già Thompson (1967-1988) aveva sottolineato come i processidi decisione e valutazione organizzativa non possano più poggiare su strategierazionali di calcolo e di controllo dell’efficienza quando viga incertezza circale credenze sulle relazioni causa-effetto e le preferenze a proposito deirisultati. In questi casi, subentrano infatti strategie di decisione e valutazione incui gli elementi cognitivi, valoriali, normativi, professionali, relativi a gruppisociali di riferimento prendono il sopravvento: contano cioè gli elementiistituzionali piuttosto che quelli tecnico-economici.

A detta dell’approccio neoistituzionalista, gli attori organizzativi e lecoalizioni dominanti si troverebbero in molti frangenti in situazioni diambiguità dei fini, ambiguità della comprensione dell’ambiente e dellerelazioni con esso, ambiguità della comprensione del passato organizzativo(March e Olsen, 1976). Si viene così a verificare una situazione di radicaleincertezza che per Hayek (1967; 1973-1986, vol. 1; 1976-1986, vol. 2, cap. 7) èil fondamento dell’emergere di un’azione guidata prudenzialmente da normepiuttosto che da rischiosi calcoli razionali massimizzanti o anche solo«soddisfacenti»14; si palesa quel gap competenza difficoltà (C-D gap) che portaall’emergere di agire governato da regole istituzionali (Heiner, 1983) operanticome meccanismo per ridurre l’incertezza parametrica e quella strategica(Elster, 1989-1993). Le norme istituzionali emergono dunque in modo

14 »L’uomo ha sviluppato le norme di condotta non perché conosce, ma proprio perché

non conosce quali saranno tutte le conseguenze di un’azione»(Hayek, 1976-1986,vol. 2, p.206).

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spontaneo e/o programmato come guida per attori organizzativi in baliadell’incertezza sulle proprie preferenze e sulle relazioni mezzi-fini15.

Secondo i neoistituzionalisti, quanto detto rappresenta solo un punto dipartenza. La necessità di ricorrere a regole istituzionali è da essi fondata anchesu un’altra base: la presenza, accanto ad ambienti tecnico-economici, diambienti istituzionali, peraltro sempre più rilevanti con il progredire dellamodernità. Cerchiamo allora di vedere più da vicino la loro argomentazione.Anzitutto una definizione di istituzione:

«[...]: institutions are socially constructed, routine reproduced (ceterisparibus), program or rule systems. They operate as relative fixtures ofconstraining environments and are accompanied by taken-for-grantedaccounts.»

(Jepperson, R.L., 1991, p. 149).

Da notare in questa formulazione che il sistema istituzionale di regoleagisce ed è considerato come ambiente vincolante nei confronti di attori edorganizzazioni. Non si può allora prescindere dalla distinzione analitica traambiente tecnico ed ambiente istituzionale .

Gli ambienti tecnici sono quelli in cui un’organizzazione produce un bene oun servizio che è scambiato in un mercato più o meno competitivo, cosicchèl’organizzazione è ricompensata per una prestazione efficiente ed efficace.Dalle organizzazioni che operano in questo tipo di ambiente ci si attende checoncentrino le loro energie nel coordinare, controllare e proteggere dall’esternoi processi tecnici fondamentali (nel senso di Thompson). In questo tipo diambienti opera al meglio la razionalità tecnica, intesa come accoppiamentoefficace o persino efficiente di mezzi e fini (Scott e Meyer, 1983-1991). Leimprese manifattutiere e di servizio sono le organizzazioni che maggiormentesono esposte agli ambienti tecnici16.

«By contrast, institutional environments are characterized by theelaboration of rules and requirements to which individual organizations mustconform in order to receive legitimacy and support. [...] in the extreme case, ininstitutional environments organizations are rewarded for the institution ofcorrect structures and processes, not for the quantity and the quality of theiroutputs. Organizations operating in institutional environments include schools

15 Per Selznick sono principalmente i motivi identitari e valoriali alla base

dell’emergere di norme istituzionali nelle organizzazioni, egli però considera anchela valenza adattiva all’ambiente esterno dei processi di istituzionalizzazione. Ineoistituzionalisti, considerando l’azione guidata da norme istituzionaliprincipalmente come veicolo di riduzione dell’incertezza, enfatizzano ulteriormentel’aspetto adattivo appena menzionato.

16 Il fatto che gli ambienti tecnici siano caratterizzati da relativa certezza circa lerelazioni mezzi-fini, con tutto quello che ciò implica per l’azione organizzativa,permette a nostro avviso di immaginare la loro esistenza anche non inseriti nelleistituzioni del mercato, ma in istituzioni di pianificazione socialista, di politichepubbliche ad alto contenuto tecnico, di offerta di servizi collettivi, ecc.

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20 Le istituzioni nelle scienze economico-sociali

and mental hospitals, where resources do not depend primarily on evaluationsof their outputs in a competitive market.»

(Scott, 1987, p.127)

Negli ambienti istituzionali:

«The requirements may stem from regulatory agencies authorized by thenation-state, from professional or trade associations, from generalized beliefsystems that define how specific types of organizations are to conductthemselves, and similar sources (see Meyer and Rowan, 1977[-1991];DiMaggio and Powell, 1983-[1991]). Wathever the source, organizations arerewarded for conforming to these rules or beliefs.»

(Scott e Meyer, 1983-1991)

Piuttosto che la strategia di calcolo ed i test di efficienza tipici degliambienti in cui domina la componente tecnica, negli ambienti prevalentementeistituzionali17 dominano decisioni e valutazioni organizzative basate sustrategie di giudizio e test sociali orientati a gruppi di riferimento (Thompson,1967-1988). Domina, in altre parole, quella che March e Olsen (1989-1992)hanno chiamato logica dell’appropriatezza, che definisce quali sono i ruoli e leprocedure adeguate ad una certa situazione, risolvendo eventuali incertezze noncon il calcolo razionale ma con ulteriori criteri istituzionali capaci di meglioidentificare gli accoppiamenti situazione-norme.

Per i neoistituzionalisti la razionalità istituzionale o di appropriatezza noncomporta azione intenzionale nel senso pieno della parola, ovveroidentificazione di desideri ed opportunità, mobilitazione di risorse,approntamento di un piano strategico. L’agire istituzionalizzato si basa suassunti dati per scontati cui ci si conforma senza processi espliciti dicomprensione e di intelligenza, quanto piuttosto attraverso meccanismicognitivi, espressivi, imitativi, routinari e quant’altro possa garantire unarapida diminuzione della problematicità della propria condotta (Jepperson,1991). Anzi, gli ambienti istituzionali e le organizzazioni istituzionalizzatepossono essere messi in pericolo dall’azione razionale consequenziale,individuale o collettiva che sia: questa può portare infatti a valutare

17 Essendo la distinzione di tipo analitico, nella realtà ogni organizzazione è posta di

fronte ad ambienti operativi con degli aspetti tecnici e degli aspetti istituzionali,tanto che è possibile immaginare una tabella a doppia entrata che presenti: a)ambienti tecnici ed istituzionali entrambi forti (ospedali, banche, certi servizi); b)ambienti forti tecnicamente e deboli istituzionalmente (le imprese manifatturiere,anche se in alcuni settori le normative raggiungono tali livelli da palesare forticontesti istituzionali, si pensi al farmaceutico, al medicale, al nucleare, ecc.); c)ambienti deboli tecnicamente e forti istituzionalmente (cliniche psichiatriche,scuole, università, chiese, studi legali, ecc.), d) ambienti deboli sia tecnicamente cheistituzionalmente (ristoranti, fitness club, ecc.) (si veda Scott e Meyer, 1983-1991,p. 124).

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Le istituzioni nelle scienze economico-sociali 21

criticamente gli assetti consolidati preesistenti e tentare di modificarli, magaricon l’intervento di un nuovo imprenditore istituzionale (Eisenstadt, 1968)18.

Mentre nel confrontarsi con un ambiente tecnico un’organizzazione scambiacon esso flussi di risorse, personale, informazione ed opera una trasformazionedegli input in output; le relazioni con un ambiente istituzionale comportano,oltre allo scambio di informazioni, un processo di incorporazione deglielementi istituzionali, i quali non vengono trasformati, quanto assimilati e resiil più possibile visibili dall’esterno. Si pensi ad un’università che si doti di unnuovo metodo didattico, ad un’amministrazione che stabilisca nuove modalitàoperative, ad un’azienda che adotti una nuova politica del personale, adun’associazione imprenditoriale che ristrutturi i propri processi decisionaliinterni o le modalità di erogare servizi. Prendono insomma forma processi diisoformismo istituzionale19, piuttosto che quelli classici di isoformismocompetitivo studiati, con le debite differenze, dall’economia, dalla teoria dellecontingenze e da quella delle popolazioni organizzative. Mentre l’isoformismocompetitivo fa sì che le organizzazioni assumano forme simili alle loroavversarie che hanno maggior successo nell’adattarsi ad ambienti altamenteconcorrenziali come il mercato o la lotta per la sopravvivenza nella natura,l’isoformismo istituzionale va piuttosto alla ricerca di legittimità nei confrontidelle altre organizzazioni presenti nel proprio ambiente. Nel loro classico

18 La forte defocalizzazione del concetto di interesse e di azione consapevole che

l’approccio neoistituzionalista ha portato con sé tende ad oscurare le posizioni dipotere che si nascondono inevitabilmente dietro determinati assetti istituzionali,privandosi così di uno strumento utile per comprenderne i processi di emergenza emutamento (DiMaggio, 1988; Knight, 1992).

19 Con il termine isoformismo le argomentazioni di ecologia umana intendono unprocesso costrittivo che forza un’unità all’interno di una popolazione adassomigliare ad altre unità che fronteggiano lo stesso set di condizioni ambientali(DiMaggio e Powell, 1983-1991).

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22 Le istituzioni nelle scienze economico-sociali

contributo su questo tema, DiMaggio e Powell (1983-1991) distinguono traisoformismi istituzionali di tre tipi: coercitivo, mimetico, normativo20.

La scelta di una strategia di isoformismo istituzionale è comunque a nostroparere qualcosa di difficilmente spiegabile in base ad una mera logicadell’appropriatezza tutta tesa alla ricerca della legittimità da parte degliinterlocutori interni ed esterni e senza nessuna preoccupazione per efficienza edefficacia dell’agire organizzativo. Ad esempio, la scelta di adottare modalitàorganizzative simili a quelle giapponesi da parte di imprese europee può essereuna «moda mimetico-isoformistica» oggi, ma è stata sicuramente una sceltaimprontata a razionalità consequenziale da parte delle aziende che per primehanno voluto seguire questa nuova via nel nostro continente. Appare allorafallace intendere gli ambienti tecnici e le strategie consequenziali come luoghiesclusivi dell’efficienza e gli ambienti istituzionali e le strategiedell’appropriatezza come luoghi unici della legittimazione. Vale a questoproposito quanto già osservato da chi scrive in altra sede (Parri, 1993a, p. 329):la razionalità tecnico-economica non è di per sè sufficiente a determinarecompletamente le strutture e le strategie di successo sui mercati: ciò, non soloin quanto la gran parte delle variabili tecniche sono a loro volta intrise dielementi istituzionali, pena l’astrattezza (si pensi ai vari concetti di efficienzaesistenti); ma anche perché, ragionando sui soli fattori economico-tecnici, lestrade aperte restano ancora troppe ed un ipotetico sistema di equazioni restasottodeterminato. Ad un ragionamento esclusivamente tecnico-economico,come rimane per ampia parte anche quello della Nuova economia istituzionaledi ascendenza williamsoniana, si può imputare quanto già Durkheim (1893-1986) e Parsons (1934/1935) rimproveravano a Spencer e agli economisti:l’incapacità di fondare l’ordine economico nella sua dimensione sia pre- chepostcontrattuale. In questo senso, gli elementi istituzionali provenienti dalcontesto politico, culturale, sociale, religioso, ecc. sono d’indispensabile aiuto 20 Con l’isoformismo coercitivo, altre organizzazioni (stato, professioni, ecc.), la

legislazione, climi culturali più o meno costrittivi, portano quasi inevitabilmente adadottare certe caratteristiche istituzionali (si pensi alla necessità di licenze,permessi, bilanci certificati, procedure antiinquinamento); l’isoformismo mimetico -per certi aspetti assimilabile a quello competitivo - porta a cercare di superare il C-D gap (Heiner, 1983) e/o l’ambiguità organizzativa (March e Olsen, 1976) e/o laliability of newness (Stinchcombe, 1965) attraverso l‘assunzione di certecaratteristiche che hanno già dimostrato di avere successo in situazioni simili (sipensi al diffondersi dell’organizzazione di frabbrica giapponese o dellacertificazione dell’impresa) - per inciso, osserviamo che non è detto che gli aspettiistituzionali imitati garantiscano il massimo di efficienza ed efficacia, possonogarantire anche soltanto la sopravvivenza, essere dei massimi locali e non globali(raggiungibili solo tramite scelta razionale); l’isoformismo normativo va di paripasso con la professionalizzazione, intesa come lotta collettiva dei membri diun’occupazione al fine di definire con regole pratiche le condizioni di determinateattività (ad esempio un’università dovrà presentare un ampio ventaglio di corsi, unmedico specialista possedere certe tecnologie, ecc.). Ovviamente i tre tipi diisoformismo sono categorie analitiche ed ogni ambiente istituzionale può vederliattivi contemporaneamente nei confronti di ogni singola organizzazione (DiMaggioe Powell, 1983-1991).

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Le istituzioni nelle scienze economico-sociali 23

nel scegliere una via alle modalità di relazionarsi tra attori produttivi e alsuccesso tecnico-economico piuttosto che un’altra. Detto altrimenti, anche larazionalità dell’homo oeconomicus non è immune da elementi sociologici diposizione e di disposizione (Boudon, 1987), nonché orientati al valore (Webere Parsons). Vi è anzi di più, alcuni contesti istituzionali sembrano, fondendosicon gli elementi tecnico-economici, dare luogo a delle miscele di particolaresuccesso, nel senso che alcuni aspetti non economici tipici di una data realtàfavoriscono prestazioni economiche elevate, altrimenti probabilmenteirraggiungibili in base sia alla pianificazione economica che all’ingegneriasociopolitica (Hayek, 1988). Tra queste miscele di successo si possonoannoverare: la Terza Italia (Bagnasco, 1988; Parri, 1993b), il ModellDeutschland (Streeck, 1992a), le Piccole democrazie europee (Parri, 1984;Katzenstein, 1985), il Giappone (Hamilton e Biggart, 1988), Taiwan (Orrù,1991)21.

Importante è a questo proposito rilevare come gli elementi istituzionali incui l’azione economico-tecnica si trova ad essere immersa non sianodispensabili o plasmabili a piacimento a seconda dei mutamenti tecnico-economici (Parri, 1993a, p.328): in quanto fatti sociali, routines date perscontate, quadri cognitivi, elementi orientati ai valori ultimi, essi posseggonouna propria robustezza interna che li rende «less readily expendable», per dirlacon Selznick. Diversamente da ciò, sulla base della nota discriminatingalignment hypothesis williamsoniana (Williamson, 1991), l’approccio dellaNuova economia istituzionale legge la variabilità delle istituzionidell’economia come mero adeguamento delle regole della vita produttiva allesue sempre mutevoli esigenze tecniche e strategiche. In questo approccio, leistituzioni economiche appaiono completamente expendable, non oppongonoresistenza e sono magicamente rimodellate secondo il nesso immediato «primamuta il bisogno - poi muta la forma regolativa». Si cade così in unragionamento di tipo funzionalistico che dà persino per scontata l’efficienzaistituzionale (Granovetter, 1992).

4. Istituzionalismo metodologico ed individualismo metodologico

Come accennato in apertura, nelle scienze sociali esiste un’altra tradizionedi pensiero che si è occupata diffusamente delle istituzioni, quelladell’individualismo metodologico: sinteticamente, essa segue un fil rouge cheparte dall’illuminismo scozzese (Ferguson, A. Smith), prosegue con la Scuolaaustriaca antica, moderna e contemporanea (Menger, von Mises, Hayek,Lachmann, O’Driscoll e Rizzo) e, incrociando la teoria dei giochi, si dirama ainostri giorni nelle opere di M. Olson, J. Buchanan e gli studiosi di publicchoice, Boudon, Elster, Sugden, M. Taylor, Nozick, l’ultimo North, Vanberged altri ancora.

21 Gli ambienti tecnici e quelli istituzionali fondendosi danno vita a diversi possibili

sistemi di incentivi al lavoro e all’imprenditorialità, sistemi che possono dar vita acircoli ora virtuosi, ora viziosi, ora inerti (North, 1990).

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24 Le istituzioni nelle scienze economico-sociali

Uno dei fatti curiosi è che questa tradizione di pensiero, pur avendo fattodella comprensione dei fenomeni istituzionali uno dei fulcri del proprioprogramma di ricerca, è stata accusata senza posa dagli appartenenti al filoneistituzionalista economico e sociologico di trascurare atomisticamente eriduzionisticamente le istituzioni22. In realtà, questa incomprensione può esseredovuta al fatto che gli individualisti metodologici si pongono una domanda cheraramente si pongono gli istituzionalisti: «come originano, si sviluppano, siconsolidano ed eventualmente decadono le istituzioni?». Mentre i seconditendono a dare per scontate o a fondare in modo funzionalistico le istituzioni,concentrandosi su come queste influenzino interessi, cognizioni e strategiedell’azione individuale; i primi fanno delle istituzioni un problema di azionecollettiva. Si chiedono, anzitutto, come sia possibile per i singoli attori superarel’opposizione tra interessi individuali e collettivi connessi al formarsi,mantenersi e mutarsi delle istituzioni. Indagano, poi, attraverso qualimeccanismi di composizione delle azioni individuali si riescano a costituiredelle strutture interattive relativamente stabili ed accompagnate da normesanzionate come sono le istituzioni. Questa insistenza sulle azioni individualinon porta però ad affermare che l’azione individuale inizi e prosegua partendoda una tabula rasa aistituzionale. Anche per gli individualisti metodologici, leistituzioni contano, pur se in modo diverso rispetto agli istituzionalisti: adesempio, tutta la Scuola austriaca - da Menger a von Mises, ad Hayek, sino aRizzo - rifiuta l’immagine neoclassica dell’attore Robinson Crusoe e presentaattori plasmati dalle istituzioni e dalla cultura, pur senza per questo rinunciaread una metodologia individualista (Zamagni, 1982; De Vecchi, 1990; Galli,1991).

Onestà intellettuale impone comunque di affermare come non esista uncriterio metodologico a priori per decidere se lo studio delle istituzioni debbaessere affrontato sulla base di un individualismo metodologico o, piuttosto, diun istituzionalismo medodologico (Nozick, 1977). L’unico criterio accettabile èdi tipo euristico (Harsanyi, 1968, pp. 343-344; Galeotti, 1988, pp. 103-107): unapproccio può essere in grado di rispondere, oltre che a tutte le domande cuirisponde quello concorrente, anche ad altre questioni; oppure può essere ingrado di rispondere alle questioni che il ricercatore ritiene più importantisecondo il proprio programma di ricerca. Seguendo gli austriaci vecchi e nuovi,Harsanyi, Elster, Boudon e l’ultimo North, la nostra preferenza euristica vaall’individualismo metodologico: esso ci appare più facilmente accomodabilecon l’ammissione di un’influenza delle istituzioni sulle azioni, di quanto non siaconciliabile l’istituzionalismo metodologico con l’influenza delle azioni sulleistituzioni, che viene eccessivamente compressa. Osservando, inoltre, gli studidegli individualisti metodologici sul tema delle istituzioni, corrisponderaramente al vero l’accusa mossa loro da Hodgson (1988-1991) di nonconsiderare l’influenza istituzionale sull’azione (Boudon, 1987; Ostrom, 1990,1991; Galli, 1991). Vi sono oggi sempre più individualisti metodologici i quali

22 Un vizio, questo, inaugurato da Schmoller contro Menger nell’ottocento e perpetuato

sino ai giorni nostri, si pensi ad esempio a certe disinvolte argomentazioni diG.Hodgson (1988-1991).

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pensano che sia possibile realizzare quadri concettuali a base individualistica incui l’inconciliabilità dei due approcci sia in gran parte superata (Vanberg,1988-1993; 1989-1993; Scharpf, 1990, 1994; Ostrom, 1986, 1990, 1991;Granovetter, 1990, 1992; Dowding, 1994, nonché molti dei lavori apparsi sulJournal of Institutional Politics)23.

Dove invece la posizione degli istituzionalisti metodologici è da rigettaresenza appello è quando fa ricorso a spiegazioni di tipo funzionalista24 per darconto dell’emergere di istituzioni e norme sociali. Vedremo comunque piùavanti come pure alcuni individualisti metodologici, mutatis mutandis, cadanonella fallacia funzionalista.

Trascurando per brevità Durkheim, sul cui vero o presunto funzionalismo siè ampiamente discusso, l’accusa più comune ad una spiegazione funzionalistadelle istituzioni è quella mossa a Parsons25. Come osservato da Harsanyi(1968), non basta affermare che le istituzioni e le norme che le reggonoemergono in risposta al bisogno sociale di integrazione delle molteplici azionidegli individui, è necessario anche individuare il meccanismo sociale attraversoil quale le necessità funzionali sono tradotte in norme e relative istituzioni. PerHarsanyi questa risposta è possibile solo utilizzando l’approccio dell’azionerazionale, rinvigorito dalla teoria dei giochi. In una nota redatta a commentodella pubblicazione postuma dei Prolegomena to a Theory of SocialInstitutions, Coleman (1990a) parla della necessità, non soddisfatta da Parsons,di mostrare come e sotto quali condizioni si passi dal bisogno di una normaistituzionale alla sua realizzazione attraverso una costellazione di azioniindividuali.

Certo, il Parsons dei Prolegomena (1935) crede ancora nella teoriavolontaristica dell’azione: egli svolge la sua argomentazione a proposito dellanecessità delle istituzioni partendo dalle possibili conseguenze negative cui leazioni individuali porterebbero se non limitate da norme sociali. È consapevoleche le diversità di interessi tra gli attori sono una condizione consueta nellasocietà: non per niente la sua definizione soggettiva di istituzioni mette 23 La stessa capacità di parziale superamento dell’opposizione tra le due scuole non ci

sembra possibile per alcuni pur celebri contributi istituzionalisti più recenti: Marche Olsen (1989-1992) trasformano gli attori politici in automi istituzionalizzati;Streeck (1994) radicalizza certi suoi peraltro condivisibili assunti (Streeck, 1992b),sino a ricadere nel funzionalismo meno avvertito, facendo calare ideologicamentedal cielo istituzioni taumaturgiche per sanare i fallimenti di mercati e gerarchie.

24 Come già rilevato a più riprese da Elster (1982, 1983), non tutto il funzionalismonelle scienze sociali è inaccettabile. Se viene esplicitata l’azione di meccanismi diretroazione tra effetti e cause, anche spiegazioni funzionaliste delle istituzionipossono essere metodologicamente sane (Stinchcombe, 1968, cap. 3; Hardin, 1980),sino ad arrivare ad una riformulazione secondo più comuni schemi causa-effetto(Boudon, 1967). Per comodità, d’ora in avanti per spiegazioni funzionalisteintenderemo soltanto quelle che ricadono stricto sensu nella tanto deprecatafallacia funzionalista (Coleman, 1990a).

25 Selznick, anche a causa del suo diverso modo di definire le istituzioni, non èaccusabile di fallacia funzionalista; lo stesso si può dire per i neoistituzionalistiamericani, emersi peraltro in un periodo in cui il funzionalismo era al bando nellescienze sociali.

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l’accento sulla presenza di norme che governino le azioni operanti «in pursuitof immediate ends», in modo da evitare il caos hobbesiano. Ma a questaconsapevolezza di Parsons non seguono gli interrogativi appropriati: se è ovvioche ogni società non può esistere senza un certo livello di controlloistituzionale, non è altrettanto ovvio il meccanismo tramite il quale questo«bisogno» generi azioni individuali capaci di garantire l’emergere ed ilmantenersi di norme sociali efficaci. Perché al singolo conviene nondefezionare nel gioco della cooperazione? Parsons ci dice che il singolo èsocializzato e che teme inoltre le sanzioni efficaci, ma così facendo presupponequello che bisogna spiegare: le istituzioni! Quante volte nella società «cisarebbe bisogno» di norme condivise e di certe istituzioni efficaci, eppure dientrambe non vi è traccia. Parsons dà per scontato che un bisogno sociale,cetegoria già di per sé discutibile26, generi automaticamente le istituzioni che losoddisfino. Nei Prolegomena del 1935 e poi anche nella Struttura dell’azionesociale del 1937, egli parte fondando la sua spiegazione delle istituzioni su unateoria volontaristica dell’azione. Perchè poi egli abbandonò questa strada,optando per lo struttural-funzionalismo: «How and why did Parsons gowrong?», si domanda provocatoriamente Coleman (1990a, p. 338). Nella suarisposta di individualista metodologico egli afferma, tra l’altro:

«What he [Parsons, ndr] apparently failed to recognize was that the pathfrom action to system lies in the relation between different actors’ actions - it isthere that the complexities arise and generate different kinds of systems ofaction. The theory of individual actor’s may be simple; it is the differentrelations of different actors’ interests, and their different resources, thatgenerate the varieties of system functioning.

Parsons, however, saw the relations between different persons’ interests (orvalues) in a simplistic way. For him, action is social through the existence ofcommon values which generate norms. [...]. This concept, that common valuesleading to norms exhaust the social or relational aspect of action, ignores theinterdependence of which much social organization is composed: One personestablishes a goal for another, two persons engage in exchange, severalpersons compete for a scarce resource, an organization is held together by theinterdependence of incentives, and so on.»

(Coleman, J., 1990a, p.338)

La sottovalutazione dei molteplici effetti di composizione o proprietàemergenti delle relazioni tra gli attori ha impedito a Parsons di collegarel’aspetto micro dell’azione con quello meso o macro delle istituzioni: in questovuoto egli ha inserito la fallacia funzionalista. Cercare di capire cosa accade in 26 Il più categorico tra gli individualisti metodologici nel rifiutare, per motivi sia teorici

che ideologici, la nozione di sociale è Hayek (1957-1967; 1988, cap.7). Egli nonera un sociologo di formazione e riteneva che molta parte della sociologia fossecaduta sotto l’influsso del costruttivismo socialista (Hayek, 1973-1986, vol. 1, p.11). Coleman (1990a, p.336) che , pur non essendo socialista, un sociologo invecelo è, definisce l’uso del termine bisogno («need») applicato ad una collettivitàreificata come «the bane of theoretical analysis in sociology»!

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questo vuoto è invece stata la preoccupazione precipua della tradizione dipensiero individualista metodologica sulle istituzioni.

5. Le istituzioni come vincoli all’azione strategica

L’approccio individualista alle istituzioni indaga anzitutto le modalità delloro riuscire ad emergere, malgrado le complicazioni dovute ad effetti dicomposizione tra le azioni dei singoli ed i contrasti tra interessi individuali ecollettivi. Non stupisce, quindi, che le definizioni di istituzione avanzate dagliindividualisti metodologici insistano sulle capacità che queste hanno di attutire,prevenire, impedire il manifestarsi dei dilemmi dell’azione collettiva e diconflitti dirompenti tra i membri di un gruppo o della società.

Dato il taglio del presente lavoro, non approfondiamo oltre la tematicadell’emergere delle istituzioni27 e ci concentriamo su alcune definizionipresenti nella letteratura individualista metodologica sul tema. Rispettoall’approccio istituzionalista, gli individualisti in maggioranza28 escludono laconcettualizzazione delle istituzioni come consuetudini, comportamentiripetuti, routine date per scontate (siamo qui vicini alle regole pratiche) edenfatizzano invece l’aspetto normativo sia proscrittivo che prescrittivo delleistituzioni (siamo qui vicini alle regole regolative). Ripartono insomma da doveParsons si era fermato con la sua definizione soggettiva di istituzione.

Sia la visione delle istituzioni come prassi socialmente condivise che quelladi norme vincolanti implicano però una stessa preoccupazione di fondo: quelladi diminuire l’entropia sociale, il caos hobbesiano, l’anomia durkheimiana.Ciò avviene da parte delle istituzioni in due modi fondamentali: a) conl’esclusione di certi tipi di azioni in quanto dannosi per gli altri o per sé stessi;b) con la fornitura implicita di informazioni capaci di diminuire l’incertezzaparametrica e quella strategica, aumentando dunque la possibilità diraggiungere i fini ripromessisi (attenuazione del C-D gap, Heiner, 1983).Mentre la scuola istituzionalista ritiene che siano in primo luogo le prassicondivise (istituzionalizzate) a permettere la riduzione dell’entropia sociale,quella individualista mette l’accento sulle norme vincolanti (istituzionali).L’osservanza di quest’ultime è garantita per gli individualisti metodologici davari meccanismi: fondamentalmente dal riconoscimento che in un gioco iteratoindefinitamente la strategia della cooperazione (Hume) o della delega ad unLeviatano (Hobbes) si rivelano le più paganti; ad un livello intermedio, 27 Su questi temi, oltre alle opere classiche di Menger e Hayek, si vedano i contributi di

Olson, Buchanan, Boudon, Elster, Vanberg, nonchè una vasta letteratura cheutilizza come base concettuale la teoria dei giochi (Ulmann-Margalit, 1978; Runge,1984; M.Taylor, 1987; Witt, 1989; Sugden, 1989; E.Ostrom, 1990; Hetcher, 1990;Magri, 1994). Per una visione d’insieme si rimanda all’ottimo Knight (1992).

28 Fa eccezione ad esempio Schotter (1981, p. 11) che, partendo dai problemi legati asituazioni tipo dilemma del prigioniero, afferma: «[...]: A social institution is aregularity in social behavior that is agreed to by all member of society, specifiesbehavior in specific recurrent situations, and is either self-policed or policed bysome external authority.»

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28 Le istituzioni nelle scienze economico-sociali

dall’accettazione non consequenziale di certi valori (Elster); più in superficie,dal timore di sanzioni29.

Alla base delle definizioni individualiste metodologiche di istituzionepossiamo riportare la più vicina al significato hayekiano di regole come veicolodi informazione e base vincolante per fondare l’ordine sociale spontaneo(Hayek, 1973-1986, vol.1). Afferma infatti Heiner:

«[...], greater uncertainty will cause behavioral rules to be more restrictivein eliminating particular actions or response patterns to potential information.This will further constrain behavior to simpler, less sophisticated patternswhich are easier for an observer to recognize and predict. Therefore, greateruncertainty will cause rule-governed behavior to exhibit increasinglypredictable regularities, so that uncertainty becomes the basic source ofpredictable behavior.»

(Heiner, R.A., 1983, p.570)

«[...], Evolved institutions are social rule-mechanisms for dealing withrecurrent situations faced by agents in different societies.

(Heiner, R.A., 1983, p. 573).

Sempre in questa linea di pensiero, uno storico dell’economia come North,sottolinea che le istituzioni costituiscono, oltre che dei sistemi di vincoli(disincentivi all’azione, proscrizioni), anche dei sistemi di opportunità(incentivi all’azione, prescrizioni):

«Institutions are the rules of the game in a society or, more formally, are thehumanly devised constraints that shape human interaction. In consequencethey structure incentives in human exchange, whether political, social, oreconomic.»

(North D.C., 1990, p. 3).

Più concretamente egli identifica così le istituzioni:

«Institutions are the humanly devised constraints that structure political,economic and social interaction. They consist of both informal constraints(sanctions, taboos, customs, traditions, and codes of conduct), and formal rules(constitutions, laws, property rights).»

(North D.C., 1990, p. 97).

Riallacciandosi ai problemi di azione collettiva posti dalla teoria dei giochi,North afferma:

29 Di questi tre meccanismi solo il primo - pur con dei caveat - può essere assunto come

fondamento ultimo dell’emergere delle istituzioni a partire da una situazioneaistituzionale. L’accettazione di valori ed il timore di sanzioni e presuppongonoinfatti che già esistano delle istituzioni efficaci.

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«Effective institutions raise the benefits of cooperative solutions or the costsof defection, to use game theoretic terms. In transaction costs terms,institutions reduce transaction and production costs per exchange so thatpotential gains from trade are realizable. Both political and economicinstitutions are essential parts of an effective institutional matrix.»

(North D.C., 1990, p. 98).

Ottimisticamente, egli getta poi un ponte per estendere l’approccioindividualista dall’economia verso le altre scienze sociali:

«Defining institutions as the constraints that human being impose onthemselves makes the definition complementary to the choice theoreticapproach of neoclassical economic theory. Building a theory of institutions onthe foundation of individual choices is a step toward reconciling differencesbetween economics and the other social sciences.»

(North D.C., 1990, p. 5).

Venendo ad uno studioso del neoistituzionalismo economico, della publicchoice e della teoria dei diritti di proprietà, ci imbattiamo in questa definizionedi istituzioni, che traduciamo in nota30:

«Eine Institution im hier verwendeten Sinne ist ein auf ein bestimmtesZielbündel abgestelltes System von Normen einschliesslich derenGarantieinstrumente, mit dem Zweck, das individuelle Verhalten in einebestimmte Richtung zu steuern. Institutionen strukturieren unser täglichesLeben und verringern auf diese Weise dessen Unsicherheiten.»

(Richter, R. 1994, p. 2)

Passando ad approcci più marcatamente sociologici, rileviamo comeBoudon ed Elster nelle loro opere non presentino una definizione precisa dicosa siano le istituzioni. Concettualizzandole in maniera molto generale, essidimostrano di tenere maggiormente a comprendere la varietà dei processiinterattivi e delle regole ed effetti di aggregazione (o composizione) che nederivano.

Boudon e Bourricaud (1986-1991), nel loro Dizionario critico di sociologia,alla voce istituzioni si limitano ad una rassegna delle varie accezioni deltermine nella tradizione sociologica, mentre nei suoi scritti Boudon tende adevitare quasi del tutto di utilizzare il termine con una valenza teorica precisa. Sipotrebbe affermare che per Boudon le istituzioni sono effetti di aggregazione oemergenti dotati di un certo equilibrio e robustezza loro garantita da normeefficaci (si veda la voce «aggregazione» su Boudon e Bourricaud, 1986-1991,

30 »Una istituzione, nel senso qui utilizzato, è un sistema di norme indirizzato ad una

certa costellazione di fini, comprensivo degli strumenti di garanzia delle normestesse. Il suo scopo è guidare il comportamento individuale in una certa direzione.Le istituzioni strutturano la nostra vita quotidiana e diminuiscono in questo modo lesue incertezze» (Richter, 1994, p.2).

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pp. 19-24, oltre che Boudon, 1984-1985). Per Elster (1989-1993, p.177), leistituzioni sono meccanismi per far rispettare una regola quando essa agisca viasanzioni esterne e formali, escludendo dunque le prescrizioni interiorizzatelegate all’accettazione di certi valori sociali. Egli aggiunge poi (p.183) che leistituzioni possono migliorare la situazione di tutti risolvendo problemi legatiall’azione collettiva.

Maggiormente pregnante dal punto di vista della sociologia individualistametodologica è senz’altro la definizione avanzata da Knight nella sua rassegnacritica del concetto di istituzione:

«First, an institution is a set of rules that structure social interactions inparticular ways. Second, for a set of rules to be an institution, knowledge ofthese rules must be shared by the members of the relevant community orsociety.»

(Knight, J., 1992, p 2).

«Social institutions are sets of rules that structure social interactions inparticular ways. These rules (1) provide information about how people areexpected to act in particular situations, (2) can be recognized by those who aremembers of the relevant group as the rules to which others conform in thesesituations, and (3) structure the strategic choices of actors in such a way as toproduce equilibrium outcomes.»

(Knight, J. 1992, p. 54).

L’accenno ad esiti di equilibrio fatto da Knight ci richiama al ruolo dellateoria dei giochi per la comprensione dell’operare delle istituzioni. A questoproposito, citiamo un istituzionalista di vecchia data come Scharpf, di recenteapertosi all’individualismo metodologico e alla teoria dei giochi, nel tentativodi conciliarli euristicamente con l’approccio istituzionale. Scharpf (1989,1990, 1994) vede le istituzioni come infrastrutture sociali relativamentevincolanti, sia in senso normativo che cognitivo. Se efficaci, le istituzioni sonoconsiderate capaci di portare a soluzioni cooperative una serie di situazionisociali interattive che implicano dilemmi di azione collettiva. Queste situazionisono esemplificate dai principali giochi non cooperativi: dilemma delprigioniero, gioco del pollo, gioco dell’assicurazione, battaglia dei sessi (per unapproccio simile si vedano anche Raub e Voss, 1986).

Riferendosi alla ricerca delle soluzioni che risolvano i problemi di raccoltae condivisione delle informazioni necessarie per poter evitare le situazionidilemmatiche di certi giochi non cooperativi, Scharpf afferma:

«In that search we must also cross the artificial dividing line betweenrational choice and conventional social science approaches. In trying to clarifythe preconditions of social order, social scientists working in the functionalist,institutionalist, or symbolic interactionist traditions have always focused onsocial, cultural, economic and political institutions, rules and conventions asdevices for limiting the range of arbitrary human choices and idiosyncraticworldviews. While these devices where ignored in institution-free neoclassical

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models, they are now increasingly recognized by rational choice theorists asessential informational mechanisms increasing the predictability andfacilitating the coordination of human action (Schotter, 1981, 109ff, 140ff;Heiner 1983). They do so by reducing the vast range of objectively feasiblestrategy options to much narrower subsets that actors can be expected toconsider in specific interactions and by substituting socially definedworldviews and 'common sense' interpretations [...] for potentially unlimitedvariety of subjective interpretations of situations and outcomes.»

(Scharpf, F.W., 1990, p. 483)

L’instistenza di Boudon e di Elster sulle istituzioni come effetti emergenti odi aggregazione spesso non prevedibili, unita al legame evidenziato da Scharpfe Knight tra assetti istituzionali e soluzioni di situazioni critiche di interazionestrategica, ci riportano a quanto accennato nell’introduzione circa l’emergerespontaneo e non pianificabile, piuttosto che progettato e prevedibile, di regoleed assetti istituzionali. Venendo al mondo reale, è certo possibile immaginareche le istituzioni esistenti in ambito sociale, economico e politico siano quasisempre frutto di un intreccio di processi spontanei e progettati intenzionalmenteche, nei casi virtuosi, si rafforzano l’un l’altro (Prisching, 1989). Ma se la parteprogettata è relativamente intelligibile, quella spontanea può essere opaca odambigua, al «razionale» si aggiunge il «naturale» (nel senso di Gouldner eSelznick) e l’istituzione e le sue regole cessano di essere una scatola aperta. Larealtà istituzionale si scontra qui con quelli che Hayek definisce i limiti delcostruttivismo, Simon la razionalità limitata, Thompson l’incertezza circa lerelazioni mezzi-fini, ecc. Nel par. 3 avevamo evidenziato come l’approccioistituzionalista metodologico sottolineasse la presenza delle dimensionivaloriale, cognitiva, simbolica e routinaria come elementi che rendevano leistituzioni non plasmabili e ristrutturabili a piacimento secondo le esigenzeambientali e/o dei diversi soggetti coinvolti. L’approccio individualistametodologico fa emergere un altro elemento di parziale non disponibilitàistituzionale. Si tratta della possibilità dell’emergere, in risposta ad interventi diprogettazione o riforma istituzionale, di effetti negativi non prevedibili comeconseguenza dello stato ineluttabilmente incompleto delle conoscenze adisposizione. Incompletezza, questa, dovuta sia all’incertezza sull’articolarsidei meccanismi interattivi e di composizione delle singole azioni 31(Boudon,1984-1985; Coleman, 1990b; Elster, 1989-1991), sia alla impossibilità diconoscere da parte dei decisori centrali tutte le circostanze particolari di tempoe di luogo concernenti i singoli attori coinvolti (Hayek, 1945-1988).

A questo proposito, è interessante l’opinione di uno studioso evoluzionistaparticolarmente sensibile a questa limitata disponibilità istituzionale al riordinotramite azione razionale32. Riferendosi agli aspetti spontanei (Menger direbbeorganici) della realtà istituzionale, Hayek affermava in pieno periodo di euforiapianificatoria delle istituzioni economiche e sociali:

31 Si ricordi, su questo punto, la critica di Coleman a Parsons evidenziata nel par. 4.32 Per un punto di vista decisamente opposto, ovvero più ottimista ed interventista, si

veda Hirschman (1991).

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32 Le istituzioni nelle scienze economico-sociali

«Nella misura in cui impariamo a capire come operano le forze spontanee,possiamo sperare di servircene e di modificarne il funzionamento conopportuni aggiustamenti delle istituzioni che costituiscono una parte delprocesso più ampio. Ma c’è una differenza abissale fra chi pensa di utilizzare einfluenzare in questo modo i processi spontanei e chi si propone di sostituirlicon un’organizzazione fondata sul controllo consapevole.»

(Hayek von, F.A., 1942-1988, pp. 186-187)

Unendo le nostre definizioni classiche con quanto visto nella discussionesvolta, le istituzioni appaiono come fatti sociali durkheimiani relativamentenon disponibili. Ciò appare però vero non solo dal punto di vista della lorovalenza simbolica, normativa e cognitiva (istituzionalismo metodologico),bensì anche da quello: a) della loro intrinseca problematicità nel regolare edaggregare le azioni che sono loro pertinenti; b) della loro limitata capacità diconcentrare in un unico punto organizzativo le conoscenze particolari di tempoe di luogo degli attori in esse coinvolti (individualismo metodologico).

6. Conclusioni: le questioni che restano aperte

La trattazione delle principali nozioni di istituzione ha, da un lato, chiarito lapresenza di differenti approcci possibili al tema, dall’altro, aperto una serie diquestioni di ordine teorico che ancora oggi sono piaghe aperte nel corpusdisciplinare della delle scienze economico-sociali. Per poter discutereesaurientemente questi punti controversi sarebbe necessario un intero articolose non un intero volume. Per fornire degli spunti al lettore, vogliamo almenofarvi accenno, pur senza pretese di completezza.

Una prima questione è quella del rapporto tra istituzioni ed azioni: gli attorisono durkheimianamente spinti dalle istituzioni a comportarsi in un certomodo, oppure sono weberianamente attirati ad agire in una data maniera daifini che si sono prefissati? Tradizionalmente, i paradigmi sociologici e quellieconomico-istituzionalisti propendono per la prima soluzione, i paradigmieconomici e della scelta razionale in sociologia propendono per la seconda(Vanberg, 1988-1993; Galeotti, 1988; Elster, 1989, 1989-1991). Il recenterifiorire della sociologia economica si è pure biforcato in due approcci di base,uno più istituzionale, l’altro più legato all’azione (Parri, 1993a).

Come abbiamo già accennato, ci troviamo in gran parte di fronte ad un falsoproblema: non esistendo criteri teorici di base per scegliere tra istituzionalismometodologico e individualismo metodologico (Harsanyi 1968; Nozick, 1977;Galeotti, 1988), gran parte della disputa slitta a livello euristico. Nelle attualiricerche sulle istituzioni economiche e sociali tutti gli studiosi tendono aconsiderare sia l’influsso delle istituzioni sulle azioni, sia quello delle azionisulle istituzioni, lo fanno però con accenti diversi, enfatizzando una serie difattori piuttosto che l’altra. È velleitario affermare, come fa Hodgson, che unapproccio a base individualista alle istituzioni è impraticabile perchè nonspiega l’origine di desideri e credenze e che per questo si deve optare per un

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approccio istituzionalista, in quanto l’unità analitica dell’istituzione è la giustavia di mezzo tra individualismo ed olismo metodologico. A parte il fatto che sipotrebbe facilmente replicare chiedendo lumi circa le microfondazionidell’unità analitica istituzione, la realtà è che gli individualisti metodologiciche praticano l’atomismo astratto robinsoniano di cui Hodgson si lamenta sonosolo bersagli polemici fittizi: gli economisti neoclassici più ortodossi. Gli altriindividualisti metodologici, a cominciare dalla Scuola austriaca nelle sue varieespressioni, sino ad Elster e Boudon, conciliano il loro approccio volontaristicocon la realtà istituzionale come fattore condizionante e rifiutano il problemadella primazia teorica dell’uovo piuttosto che della gallina (Nozick, 1977),badando invece a dare risposte plausibili a quesiti euristicamente validi. Mentrei lavori di molti neoistituzionalisti americani (vedi par. 2), di March e Olsen(1976; 1989-1992) e dell’ultimo Streeck (1994) ci parlano di automi, diistituzioni onnipotenti, di Dei ex machina che stritolano l’azione intenzionale ingabbie deterministiche, l’approccio individualista alle dinamiche istituzionalimeglio riesce a conciliare i corni del dilemma. Nella più recente generazione diindividualisti metodologici questo problema è esplicitamente preso inconsegna: le istituzioni condizionano negativamente e positivamente l’agire edinfluenzano le funzioni di preferenza. In questo modo esse limitano l’azionevolontaria anche se non la determinano, suggeriscono ma non impongono,strutturano i giochi strategici ma non ne predeterminano gli esiti, approntanoquadri cognitivi e mappe orientative ma non dettano esaurientemente le scelte(Boudon, 1984-1985, 1987; Elster, 1989-1991, 1989-1993; Coleman, 1990b;Scharpf, 1990, 1994; Ostrom, 1990; Friedberg, 1992a, 1992b; Knight, 1992;Dowding, 1994; Vanberg, 1994; Denzau e North, 1994)33 - si veda Mutti(1994) per una valutazione critica di questi contributi.

Gli istituzionalisti metodologici sottolineano come le istituzioni ovvino adincertezza ed ambiguità interne ed esterne all’attore offrendogli una guida perl’azione. Allo stesso modo va però considerato che esse non saranno mai ingrado di estirpare completamente l’indeterminatezza e l’equivocità dalla vitasociale, lasciando dunque degli spazi aperti per una entrepreneurial alertness(O’Driscoll e Rizzo, 1986). Questa, riempendo creativamente parte dei gapcognitivi e conoscitivi, è capace di innovare istituzionalmente in campoeconomico, sociale, politico, ecc. La stessa base della forza delle istituzioni neiconfronti dell’azione è perciò anche la base della loro debolezza nei confrontidelle capacità innovative dei singoli o di gruppi di essi.

Se non corrisponde al vero che gli individualisti metodologici sterilizzano laforza delle istituzioni, perchè allora tanto vigore polemico nei loro confronti? Ilnostro sospetto è che qualcuno si sia fatto prendere la mano dalle passioniideologiche e veda nell’individualismo metodologico il Cavallo di Troia delliberalismo per mettere i crisi il welfarismo e le sue presunte basi 33 È assai significativo che l’ultimo North (Denzau e North, 1994) abbia aperto

decisamente il proprio individualismo metodologico storico-economico agli effettiche i quadri cognitivi legati ai modelli mentali e alle ideologie hanno sull’azionedell’homo oeconomicus e sulle prestazioni degli apparati produttivi. Sui rapporti trastrutture istituzionale e azione individuale nella storia economica e nella sociologiastorica si vedano Kocka (1977-1983), Rusconi (1985) e Parri (1987).

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istituzionaliste. Anche in questo caso penso ci si trovi di fronte ad un falsoproblema. Nessuno vuole negare che nella realtà accademico-politica gliindividualisti metodologici siano spesso di orientamenti liberali e gliistituzionalisti siano spesso di orientamenti welfaristici. Ad uno Streeck chetuona contro il caos e l’inefficienza del mercato e delle gerarchie, ad un EnricoFerri che vedeva il socialismo come «punto di arrivo logico ed inevitabile dellasociologia», ad un Keynes che propugnava il miglioramento della societàattraverso la manipolazione ingegneristica delle variabili macroeconomiche;abbiamo in risposta un M. Olson che demonizza le coalizioni distributive tra igruppi di interesse, un Buchanan che individua nella reificazione dello stato labase intellettuale del Nuovo Leviatano. Per non parlare poi di Menger, per ilquale il pragmatismo interventista scalza le istituzioni organiche e conduceinevitabilmente al socialismo, e di Hayek, a detta del quale il collettivismometodologico conduce ineluttabilmente al collettivismo politico ed alla servitùdel singolo. Se non ci facciamo impressionare troppo da queste sacre unionipolitico-intellettuali, vediamo che non si può asserire in modo convincente lapresenza di implicazioni politiche, antropologiche e valoriali di un certo tipouna ed ogni volta si siano fatte certe scelte dal punto di vista sia teorico chemetodologico (Galeotti, 1987). Nella realtà, infatti, molte scuole teoriche hannocontenuto al proprio interno una gran varietà di posizioni politiche (si vedaPrisching, 1989, per la Scuola austriaca o Streit, 1992 e Vanberg, 1988, per laScuola di Friborgo; inoltre ognuno di noi pensi in ultima analisi ai propricolleghi!). Basta che unindividualista metodologico metta l’accento sullecontrofinalità dell’azione individuale piuttosto che sulla mano invisibile o sullanecessità di istituzioni forti per garantire la libertà d’azione dei soggetti; bastache un istituzionalista metodologico enfatizzi i pericoli legati alla sclerosidelle strutture politiche o sociali (oligarchie, inefficienza, burocratismo,immobilismo) ed il gioco è fatto. L’affinità elettiva che sussiste tra certiapprocci teorici e certe posizioni ideologiche deve allora trattenerci daindentificare una posizione scientificamente avversa con un avversario politicoo morale, creandosi dei bersagli di comodo e svilendo il dibattito intellettuale.Spesso non è purtroppo così!

Un’altra questione tutt’altro che risolta nello studio delle istituzioni è quellarelativa alle differenze di potere tra gli attori e all’equilibrio tra interessiindividuali e collettivi. Le istituzioni vincolano e abilitano gli attori, spessoperò non lo fanno in modo omogeneo, favorendo l’azione interessata di questoo quello tra i coinvolti.

A questo proposito, lo studio della teoria dei giochi ha evidenziato come lapresenza di norme possa favorire la soluzione di problemi di coordinazione siapura che semplice in modo vantaggioso per tutti gli attori coinvolti. In questocaso siamo però di fronte a delle norme convenzionali piuttosto che a delle veree proprie norme istituzionali (Schotter, 1981, Scharpf, 1990). In situazioni ditipo dilemma del prigioniero, specialmente se iterato, la presenza di normeistituzionali efficaci previene la defezione e consente di beneficiare tutti gliattori coinvolti conferendo loro le ricompense dovute allo scambio o allacooperazione (non dimenticandoci però che la rapina o il free riding sarebberocomunque individualmente più paganti, almeno nel breve termine) (M.Taylor,

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1987; North, 1990; Elster, 1989-1991). La questione cambia decisamentequando ci si trova di fronte a giochi ad equilibri multipli, nei quali lacoordinazione (battaglia dei sessi) o la non coordinazione (parte degli esiti delgioco del pollo) sono preferibili per tutti gli attori rispetto a strategiealternative, ma a seconda della scelta fatta favoriscono un attore piuttosto cheun’altro. In questi casi, l’emergere di regole istituzionali di un tipo piuttostoche di un’altro ha l’effetto di favorire un attore. Si può dunque supporre che laparte che è dotata di maggior potere ed abilità negoziale riuscirà ad imporre leregole istituzionali ad essa più favorevoli attraverso un processo dicontrattazione più o meno esplicito (Rapoport, 1966; Elster, 1989-1991;Knight, 1992). Va da sé, che la nozione maggiormente compatibile con unavisione conflittuale-strategica delle istituzioni (Knight, 1992) è la concezionerelazionale del potere (Emerson, 1962; Crozier e Friedberg, 1977-1978; Parri,1985). Questa, spesso mal si accorda con l’approccio istituzionalistametodologico: si pensi ad es. alla defocalizzazione dell’elemento potere neineoistituzionalisti o al suo occultamento nel funzionalismo parsonsiano.

A trascurare la dimensione del potere istituzionale sono però anche gliindividualisti metodologici: per A.Smith e Hayek e in un certo senso anche perNorth le istituzioni emergono attraverso un processo di evoluzione storico-sociale che devitalizza o elimina quelle tra loro che troppo smaccatamentefavoriscono una parte, specialmente se a danno delle prestazioni economiche,militari o culturali dell’intero gruppo o dell’intera società in questione. Laquestione del potere cessa allora di porsi, in quanto risolta attraverso processiselettivi.

L’estensione alle istituzioni dei processi di selezione che sarebbero validiper le imprese (Alchian, 1950-1980) comporta però notevoli problemi.Anzitutto proprio l’elemento degli squilibri di potere può garantire che il piùforte sia in grado per lungo tempo di mantenere un quadro istituzionale ad essodistributivamente favorevole (North, 1990); in secondo luogo, la concorrenzatra istituzioni differisce da quella tra beni e/o imprese a causa delle minorialternative contemporaneamente presenti, dei più alti costi di passaggio da unassetto istituzionale ad un’altro, della presenza di dilemmi dell’azionecollettiva, dei più ambigui criteri di efficienza ed efficacia, dell’importanzadegli aspetti di legittimazione, ecc. (Knight, 1992; Streeck e Hollingsworth,1994). Pur con tutte queste differenze, sarebbe ingenuo nascondersi dietro undito: non si può negare che certi assetti istituzionali abbiano palesato minoreefficienza ed efficacia di altri, almeno dal punto di vista economico, e sianostati progressivamente soppiantati attraverso processi più o meno violenti dicrollo prima e di isofomismo istituzionale poi. È questa la tesi principale delvasto dibattito sul neocorporativismo degli anni settanta-ottanta (Streit,1988;Schmitter, 1989a), ripreso poi dalle ricerche sulla regolazione dei settori(Schmitter, 1989b; Hollingsworth, Streeck e Schmitter, a cura di, 1994). Alivello macrostorico, la tesi della selezione degli assetti istituzionalmenteinefficienti è stata portata avanti da Hayek (1988) nei confronti dellapianificazione socialista e da North (1990) riguardo alle economie postcolonialidell’America centrale e settentrionale. La differenza tra questi due ultimiapprocci è che Hayek, da economista istituzionale, riuscì a prevedere ex ante il

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crollo delle istituzioni della pianificazione socialista, mentre North, da storicoistituzionale, si è limitato a constatare ex-post il passaggio delle economie post-coloniali iberiche a forme di mercato più simili alle occidentali.

La questione di fino a che punto i processi di mutamento istituzionale sianodovuti a selezione competitiva resta dunque aperta e con essa un’altroimportante problema, quello dell’efficienza relativa ed assoluta delleistituzioni. Fino a che punto l’emergere di un certo assetto istituzionale da uncontesto interattivo aistituzionale o istituzionalmente diverso costituisce unmiglioramento paretiano? Si confrontano vari approcci.

Una risposta semplicistica è stata data dagli economisti legati alla welfareeconomics (Coase, 1960) e dal funzionalismo di Arrow in tema di interventismosocio-economico (Elster, 1989). Per costoro, ad ogni fallimento del mercato sicontrappongono ineluttabilmente norme e istituzioni statali o sociali capaci diristabilire l’ottimo paretiano o comunque di migliorare significativamente lasituazione. Queste ottimistiche teorie-del-prato-del-vicino-che-è-sempre-più-verde (Demsetz, 1969) dimostrano quando il mercato fallisce, ma postulanofideisticamente che gli assetti istituzionali pubblici o collettivi per rimediare aquei fallimenti saranno certamente più efficienti ed efficaci: si raggiunge senzaproblemi il Nirvana istituzionale (Demsetz, 1969), si sostanziamiracolosamente la razionalità collettiva (Elster, 1989). A queste troppodisinvolte teorie istituzionali ha risposto la scuola della public choice con la suacruda enfasi sui fallimenti dello stato e dell’azione collettiva (Olson, 1982-1984; Buchanan, 1979-1984)34 e le sue proposte di quadri istituzionalialternativi che regolino l’azione individuale.

Un’altro approccio all’efficienza delle istituzioni è quello hayekianodell’evoluzione culturale verso norme istituzionali sempre più perfezionate edadeguate alla Great Society nel senso smithiano del termine35. Secondo Hayek(1982-1986), si assisterebbe all’emergere spontaneo e più o meno casuale dinorme istituzionali che garantiscono agli attori che le usano il conseguimentodi vantaggi rispetto agli altri in situazioni di incertezza parametrica e strategica.Queste norme istituzionali di successo, emerse humianamente (Magri, 1994),verrebbero poi imitate isomorficamente dai singoli e col tempo sidiffondebbero e consoliderebbero. Il loro utilizzo garantirebbe alla comunità oalla società che le adotta delle prestazioni economiche, militari, culturali epolitiche superiori a quelle di altre entità concorrenti, ragion per cui le normedella società vincente verrebbero selezionate evolutivamente. Un simileprocesso si riprodurrebbe nel tempo attraverso le necessità di adattamento 34 Per un’opinione diversa da quella della public choice sul problema dei fallimenti

delle istituzioni dello stato e di quelle del mercato si vedano Stiglitz (1989-1992) eCella (1994).

35 L’evoluzionismo socioculturale di Hayek si rifà alle dottrine dello sviluppo socialeed istituzionale spontaneo dell’illuminismo scozzese del XVIII secolo (Ferguson,A.Smith) e nulla ha a che fare con Darwin. L’evoluzionismo biologico diquest’ultimo è tributario dell’evoluzionismo socioculturale ad esso stessoprecedente - anche se poi, rozzamente, il darwinismo sociale ha di nuovo invertitola relazione di paternità intellettuale, portando ad un indiscriminato discredito delleteorie evoluzionistiche applicate alle scienze sociali (Hayek, 1988, capit. 1).

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socio-culturale al continuo mutare ambientale (economico, tecnologico,geopolitico, ecc.). Le norme di cui disporrebbero oggi le Great Societiesoccidentali e orientali sarebbero le migliori, in quanto emerse da un lungoprocesso di adattamento-selezione-evoluzione interculturale che le ha portate aprimeggiare.

Al di là del suo fascino e della sua incontestabile capacità previsiva(l’anticipazione di cinquant’anni del crollo della pianificazione socialista), lateoria hayekiana dell’evoluzione culturale comporta non trascurabili problemimetodologici (Vanberg, 1986; Hodgson, 1991; Knight, 1992). Il più grande èquello dell’unità analitica a livello della quale si svolge il processo divariazione-selezione-ritenzione delle norme istituzionali. Se questa èl’individuo, ci troviamo di fronte all’obiezione che norme che consentonoazioni che avvantaggiano i singoli possono svantaggiare la società (si pensi alfree riding) e farla soccombere. Inoltre, norme che invitano ad attivitàaltruistiche che avvantaggiano la società possono svantaggiare i singoli,portando alla loro progressiva scomparsa come altruisti. Viceversa, se l’unitàanalitica è il gruppo, ci si domanda come sia possibile che, una voltacasualmente emerse36 certe norme che garantiscono una prestazione collettivadi successo, esse siano poi, per retroazione, perpetuate e fatte valere anchecontro le inevitabili tentazioni a defezionare da parte di singoli attori attirati dabenefici individuali superiori. La risposta più ovvia è che nelle società umanel’evoluzione ha disponibili meccanismi di sanzionamento e persitenza dellenorme, le istituzioni, che sono preclusi all’evoluzione dei gruppi animali.Mentre per la natura il problema della selezione di gruppo o individuale èaspramente dibattuto (Maynard Smith, 1976; Dawkins, 1989-1992), per quantoriguarda le società umane si può immaginare che, una volta identificatecasualmente37 alcune regole istituzionali benefiche a livello di gruppo, sia poipossibile creare delle istituzioni che siano in grado di sanzionarle e perpetuarleevitando il free riding. Mentre ciò non costituisce in generale un problema perle scienze sociali, lo è invece per Hayek, in quanto la sua enfasi sull’ordinespontaneo (cosmos) rende teoricamente implausibile che il successo dellaselezione di gruppo si trovi a dipendere da meccanismi di riconoscimento esanzionameto delle norme basati su un ordine costruito (taxis) (Vanberg,1986). Ciò, a meno che non si ammetta che i meccanismi in questione siano aloro volta emersi e mantenuti spontaneamente; fatto accettabile nelle piccolecomunità (M.Taylor, 1987), ma che nelle Great Societies presupporrebbe unanotevole dose di provvidenza divina (termine che nelle scienze sociali assumeil nome di fallacia funzionalista).

L’ottimalità delle istituzioni e delle loro norme non è quindi garantibile néda processi di scelta razionale che seguono una discriminating alignmenthypothesis alla Williamson (par. 3), né da processi storico-evolutivi spontanei 36 Hayek oscilla nei suoi scritti tra l’emergere casuale e l’emergere funzionalmente

necessario di norme benefiche per un gruppo od una società. Mentre la primaspiegazione è sociologicamente accettabile, la seconda incorre nella fallaciafunzionalista (Vanberg, 1986).

37 O anche tramite scelta razionale, via esclusa da Hayek, ma perseguita ad esempiodagli individualisti metodologici istituzional-contrattualisti come Buchanan.

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alla Hayek o spontaneo-razionali alla North. Non sono solo criteri univoci diefficienza ed efficacia a mancarci. Anche assumendo scontatamente alcuni diessi, sono i meccanismi sociologici dell’emergere, stabilizzarsi ed adattarsidell’efficienza e dell’efficacia istituzionale che restano ancora in gran parteoscuri. Le istituzioni e le norme che le fondano hanno un ruolo centrale nellarisposta alla domanda su come sia possibile l’ordine sociale; che esse siano ingrado di garantire l’ottimalità o anche solo un livello accettabile di questoordine è ben altra questione...

Non vogliamo aggiungere altro, né tentare di proporre una definizionesintetica o sincretica di istituzioni. Il tema è proteiforme, gli approcci teoricimultiformi, le metodologie pluraliste. Questa varietà necessaria di teorie econcetti è probabilmente una risposta inevitabile alla complessità delle realtà diinterazione ordinata tramite regole presenti nella vita associata dell’uomo.

Università di Brescia, aprile 1995

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