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Le notti di San Francisco

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Le notti di San Francisco, Antonio Manfuso - Sentimentale - 0111edizioni

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Antonio Manfuso

Le notti di San Francisco

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LE NOTTI DI SAN FRANCISCO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Antonio Manfuso ISBN: 978-88-6307-307-2

In copertina: immagine di Davide Fiorello e Dario D'Orazio. La foto dell'autore è di Giuliana Mondauto.

Finito di stampare nel mese di Luglio 2010 da

Digital Print Segrate - Milano

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On a warm San Francisco night

old child, young child feel alright.

On a warm San Francisco night

angels sing, leather wings.

Old angels, young angels feel alright

on a warm San Francisco night. *

(Eric Burdon, San Franciscan Nights)

* “In una calda notte di San Francisco / vecchi ragazzi, giovani ragazzi si sentono bene. / In una calda notte di San Francisco / gli angeli cantano, ali di pelle. / Vecchi angeli, giovani angeli si sentono bene / in una calda notte di San Francisco.” N.d.A.

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PROLOGO L’amore entra a passo lento nel suo ricordo più vivido e struggente, il volto per metà nascosto dallo stipite della porta. Sorride e lo fa con gli occhi scuri e lucidi. I riccioli neri, disordinati e bellissimi, contornano il viso bambino e immacolato. La luce rischiara la pelle olivastra, creando suggestivi chiaroscuri sulle linee esili e seducenti. Lo pervade una grazia estasiante. Gli si fa vicino, stendendosi accanto al suo corpo che riceve tutto il calore possibile. S’infila sotto il lenzuolo che disegna pieghe scultoree sulla gamba magra, rimasta parzialmente scoperta. Un lembo si posa provvidenzialmente sul piede, avvolto fino alle dita dal tessuto bianco che scorre fino ai capezzoli. Sembra un dio che nasce da una conchiglia. È una giornata cupa, ma nuvole intenerite concedono a un timido raggio di sole di farsi strada nel cielo per illuminare la loro stanza. Allora lui pensa che Kevin è come quel raggio di sole: piccolo, confuso, indifeso che però illumina e scalda come la più bella delle stelle, in mezzo al gelo della vita.

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UNO L’alcol scende adagio, bruciandogli le viscere a ogni sorso. Il fuoco che si sta mettendo dentro, prosciugherà tutte le sue lacrime per una notte ancora. Per un’altra notte ancora. O almeno spera che lo faccia. Non distingue più le ore che si susseguono sempre uguali in un’intollerabile noia, una paranoia, un inferno che non arriva mai, un abisso dal quale riesce appena a scorgere l’orlo senza che le fiamme o il buio lo avvolgano mai del tutto. Quello è il vero tormento. Il limbo. L’oblio. Si augura in ogni istante d’impazzire o morire, ma nessuno ascolta le sue preghiere. Tutto è così chiaro, maledettamente chiaro, nonostante le bottiglie di whiskey che anche oggi sono state le sue uniche amiche. Kevin non c’è più. È passato un mese. Soltanto uno. E un mese non è nulla paragonato a un’intera vita senza di lui. Nulla. Eppure deve svegliarsi ogni mattina, vivo e con una disperata voglia di riprendere il suo lavoro e le sue abitudini. Merda, è passato solo un mese. «Ryan, fammi tornare. Sono pronto. Non ho bisogno di altro tempo.» «Mark, non credo sia una buona idea». Niente della sua voce al telefono gli ha fatto intendere che Mark stesse meglio di come ha dichiarato. Riconosce bene quel tono pastoso, quel tremolio incontrollato nelle parole, quel suono freddo. È un misto di alcol e lutto. A quel punto c’è stato un lamento nervoso e stridulo dall’altra parte, di quelli che i bambini capricciosi fanno quando sbattono i piedi per terra. Ryan pensa alla forza devastante di quel dolore, di quella ricerca disperata di qualcosa che viene continuamente negata.

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«Mark, sai di essere l’anima di quest’azienda, ma io credo che dovresti farti aiutare, dovresti pensare a seguire… un programma». Ha tentato di formulare quella frase nella maniera più neutrale possibile, ma non è facile dire al suo migliore amico che è un alcolizzato e che per questo ha bisogno d’aiuto. Se esiste una cosa che Mark detesta con tutto se stesso, è quella di essere trattato come uno stupido. E Ryan, naturalmente, lo sa. L’ha imparato fra le altre cose nei loro vent’anni d’amicizia. «Smettila di ripetere il mio nome ogni volta che ti rivolgi a me, “Ryan”. So dove vuoi andare a parare». A quel punto si è sorpreso a pensare alle loro sbronze adolescenziali, al Mark di allora che non riusciva a scolarsi neppure una confezione di birre da sei, che puntualmente vomitava anche l’anima. Dov’è finito ora quel ragazzo? «Dimmi quanto alcol ingerisci al giorno!» ha incalzato con una punta di decisa irritazione, ma stando attento a non pronunciare di nuovo il suo nome. «Che cazzo vuoi?!». Ryan è consapevole che la conversazione si sta dirigendo su un terreno pericoloso. Ma se farsi odiare è il prezzo da pagare per portarlo in salvo, correrà quel rischio. Lo ama come un fratello. «Non fare così e stammi a sentire per favore. Stai assumendo anche qualche tipo di… farmaco? Devo saperlo». Uno schianto l’ha interrotto bruscamente. Qualcosa come un fracasso di piatti, stoviglie e chissà cos’altro. «Smettila, cazzo! Non ho bisogno di fottuti babysitter! Tu, Meredith! Tutti pronti a dirmi come devo vivere la mia merda di vita, a darmi consigli per risolvere il “problema”, a cercare di trovarmi stupidi motivi per andare avanti, ma non sapete un cazzo: non l’avete perso voi, l’amore della vostra vita!». Non è Mark quella voce rotta, rauca, che riesce a malapena a gridare. La vita lo sta abbandonando e Ryan se n’è accorto, prima ancora che la discesa verso il nulla avesse realmente inizio. E in quel baratro nero, una cosa cieca, rabbiosa e crudele ha preso il suo posto. «Ti ho fatto una semplice domanda, Mark. Questo non ha a che fare con Kevin. Dimmi solo se…» «NON – PRONUNCIARE – IL – SUO – NOME!». Sono state le sue ultime parole. Poi, lo snervante suono di una telefonata interrotta, ha messo fine a quella conversazione. Ryan tira un sospiro, consapevole di doversi rivolgere a lei il prima possibile.

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Meredith arriva in tarda serata. Ha la chiave dell’appartamento, in modo da avere libero accesso all’abitazione. È un insulto alla privacy di Mark perché – nonostante il profondo legame che li unisce fin da piccoli – nessuno di loro ha mai invaso in modo tanto prepotente la vita dell’altro. Ma questo era prima. Prima che la morte invadesse la loro esistenza, prima che portasse con sé aria di distruzione. È come vivere in una dimensione parallela. Nulla è più uguale. Quell’incidente d’auto ha capovolto bruscamente ogni cosa, ha distrutto la loro felicità. E Mark è troppo accecato dalla sua sofferenza, per vedere che anche il mondo attorno a lui è sconvolto dalla morte di Kevin. Per quanto il dolore più grande e intollerabile sia il suo, quella falce nera e affilata aveva colpito anche gli altri. Meredith gli posa una mano sulla spalla con delicatezza, ma quel gesto ha come risposta un sussulto violento, una sorta di convulsione. Il corpo di Mark ondeggia, ansimando. Dura un attimo. Subito si ricompone, stringendosi le braccia intorno alle spalle. Lei si sente morire di tenerezza. Mark indossa un giubbotto invernale: le finestre sono spalancate, lasciando entrare l’aria ventosa e frizzante del gennaio notturno di San Francisco. È seduto sul gradino che conduce dall’atrio in salotto. Il parquet è un disastro: ci sono cocci di bottiglie varie, fetide macchie d’alcol spaventosamente appiccicose, difficili da mandar via. L’odore dei mozziconi di sigaretta, proveniente dal posacenere in cucina, si diffonde in tutto l’ambiente combinandosi a quello dell’alcol e creando una miscela nauseante. Meredith arriccia il naso notando che i riscaldamenti, d’altronde, sono spenti. «Mark, ti prenderai qualcosa! Perché non provi a stenderti in camera tua? Qui ci penso io… do una ripulita e ti raggiungo in un attimo, ok?». Sono giorni che Meredith fa così: arriva a casa sua dopo il lavoro, pulisce quel macello e lo ritrova la sera successiva. Qualcosa, però, non le permette di spazientirsi o stancarsi. Qualcosa le dice di continuare a pulire, riordinare, e farlo ancora, e ancora, e ancora. Una voce insistente nella testa le suggerisce che quella spinta maniacale verso l’ordine e la pulizia, è l’unico modo possibile per evitare a un dolore informe di prendere il sopravvento. Di giorno è più semplice: c’è il lavoro nella galleria che non le consente di pensare. Non più di tanto, perlomeno. Ogni volta che sente l’impulso di piangere, le basta tuffarsi in quei quadri, confondendosi con quel

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misto di forme e colori che le oscurano il ricordo di Kevin. Solo così riesce a non crollare. Prima ovviamente di quel maledetto quadro. Due giorni prima è arrivato in mostra un olio su tela, raffigurante un ragazzo dai capelli ricci con un cappello, che fa pensare a quegli emigranti d’inizio novecento. Si chiede quale stupido scherzo del destino sia, e mentre Dean Chase descrive l’opera con il suo puntiglio da direttore, quel viso, quella macchinazione diabolica la scruta implacabile, confondendole le idee. Sente una vertigine violenta, la testa rimbombarle come un macigno, le viscere ribellarsi a quel dolore immane. Deve allontanarsi. Deve scappare. «Scusatemi… p-posso… andare… al b-bagno…?». Non attende la risposta, gira sui tacchi e si allontana verso la freccia verde illuminata dal neon che indica la toilette. Tenta goffamente di mantenere un passo deciso, a testa alta: la camminata sinuosa e raffinata con la quale ha conquistato James due anni prima, durante l’inaugurazione di una mostra d’astratto. Tempi lontani, tempi spensierati e felici. Sente a malapena i commenti sottovoce che provengono dai colleghi raccolti attorno a quel dannato quadro, quel viso così somigliante a lui. «Dev’essere per quel suo amico… Povera ragazza… È stata una morte violenta… Così, all’improvviso… Al funerale era distrutta… Effettivamente il giovane del quadro gli somiglia parecchio…». Le voci sono diventate sempre più confuse, grazie a Dio. È arrivata al bagno, raccogliendo i capelli biondi dietro la nuca. Si sporge sulla tazza e vomita tutto il suo male. Esce asciugandosi le labbra con la carta igienica. Ha pregato di non trovare nessuno ad attenderla fuori e così è stato. Allora, lasciando scivolare la schiena lungo la porta principale dei bagni, si è rannicchiata sul pavimento di marmo e ha pianto tutte le sue lacrime. Ancora una volta ha pulito e riordinato ogni angolo dell’appartamento, indossando la salopette di jeans che ormai lascia nell’armadio di Mark – e Kevin accidenti! – da più di due settimane. Solo dopo aver finito si accorge del significato delle finestre aperte. Il tanfo che ha avvertito entrando nell’appartamento quella sera è meno forte del solito, perché il freddo congela gli odori, per poi portarli via. Che sia una reazione? Una prima, piccola reazione?

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Si dirige nella camera, sorprendentemente in ordine e pulita rispetto agli standard a cui si è abituata durante quel periodo. Si stende accanto a lui, abbracciandolo alle spalle. «Giornataccia, eh?». Mark sembra non aver udito nulla, a parte il suono della sua voce. «Lo sai che è stato… per evitare un cane? Un cane! La macchina è scivolata sull’acqua, pioveva a dirotto e quel furgone… Glielo dicevo io che doveva indossare sempre la cintura di sicurezza!». Meredith lo sa, certo. Sa come quel furgone ha accartocciato l’auto di Kevin, sa del suo viso irriconoscibile, stampato brutalmente nel vetro. Sa tutto, anche di come Mark rivive quella velenosa storia di dolore giorno dopo giorno, tentando di stabilire un ordine qualsiasi in quel caos maligno di sofferenza, cercando qualche significato ancora celato ai suoi occhi perennemente colmi di lacrime. Meredith lo stringe a sé, sussurrando nel suo orecchio: «Mark, so che hai telefonato a Ryan per tornare al lavoro. Me ne ha parlato oggi durante la pausa pranzo… Mark, vogliamo tutti che torni, ma per farlo… devi curarti.» «Curarmi…» le fa eco, quasi in trance. «Curarmi… non si può. Non posso guarire… Kevin prima c’è, poi non c’è più. Punto». Meredith è stremata. Non solo per la fatica di quei giorni, ma soprattutto per la consapevolezza di non riuscire più a contenere il dolore di Mark. È troppo grande, e tra l’altro c’è anche il suo a cui pensare. Sente che dentro di lei non c’è più spazio per altra energia. Lo bacia frettolosamente, raccoglie le forze rimaste e si solleva, afferrandolo per un braccio. «Ok, tesoro. Che ne dici di un bel bagno caldo? Credo tu ne abbia bisogno. Poi ti preparo una tisana e anche un sandwich minuscolo, basta che tu metta nello stomaco qualcosa che non abbia una gradazione alcolica.» «Non voglio fare nulla di tutto questo.» mormora lui affondando la testa nel cuscino. «Meredith, lasciami in pace ti supplico...». Quella voce disperata è un pugno nello stomaco. Lei lo capisce. Da qualche parte immagina cosa possa provare e ogni volta la percorre un brivido gelido. Dev’essere un inferno senza tregua. Ma cosa può fare, se non provare a riportare un soffio vitale dentro di lui? Ricorre alla sua rabbia, per quanto palesemente simulata: «Ah, davvero?! Dici di voler tornare al lavoro, alla tua vita! Come pretendi di farlo? Ubriaco fradicio e puzzolente?! Se pretendi di essere

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trattato come una persona normale, allora comportati da persona normale! Alzati da quel letto e seguimi in bagno!». Silenzio interminabile. Meredith rivaluta le sue ultime battute, come fa sempre da quando frequenta le lezioni di teatro. Le hanno insegnato a fermarsi di tanto in tanto per ponderare i toni, l’espressività, la postura. In quel momento si ripromette che appena possibile darà un bacio al vecchio maestro Finley, che ripete sempre quanto sia importante imparare a stare sul palcoscenico per potersi rapportare agli altri. Fino a quel momento non ci aveva creduto più di tanto. Tuttavia, data l’assoluta indifferenza di Mark alle sue esortazioni, si chiede se non abbia esagerato. Forse è prematuro pretendere una reazione del genere da lui. «Non mi farò vedere nudo da te, scordatelo». Improvvisa, dolce e del tutto inaspettata, una battuta di spirito. Lei ha voglia di piangere, perché quello è il modo di Mark per dirle che ha fatto centro. Le si velano gli occhi, ma sorride tirando su col naso. «La cosa non mi sconvolgerà, credimi». L’acqua sembra averlo rigenerato. Meredith si sorprende per un attimo nel riconoscere il suo Mark, i muscoli rilassati, l’odore della pelle fresca. Sembra di nuovo lui. Gli rimbocca le coperte come farebbe con un bambino, poi indossa nuovamente il tailleur scuro e il soprabito invernale. James le ha appena telefonato, si vedranno a casa loro di lì a poco. Per la prima volta si sente serena e in pace, nonostante la tristezza infinita che ha occupato ogni momento di quella giornata. Ripercorre il perimetro dell’appartamento, visualizzando i più bei ricordi che quel posto conserva per loro: tutti insieme attorno a quel tavolo basso in salotto, a sorseggiare birra e divertirsi con un gioco di società, con il karaoke o uno stupido film dell’orrore. Gli eterni, incorreggibili adolescenti di San Francisco. Tutti insieme a formare una sorta di famiglia alternativa, a compensare quella che – in un modo o nell’altro – è stata negata a ognuno di loro. Si avvicina alla foto di Kevin che sta sul caminetto, racchiusa in una cornice di legno che lei stessa gli ha regalato. Percorre con i polpastrelli il suo viso luminoso e sorridente. E mentre una lacrima scende sul colletto della camicia bianca, gli dice con un filo di voce: «Mi prenderò io cura di lui. Te lo prometto».

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DUE L’auto sfrecciava veloce. I suoi occhi erano fissi sulla strada, due fessure bagnate da lacrime di rabbia. La ferita che aveva sulla tempia contrastava con la delicatezza che lo pervadeva a ogni movimento. Nonostante la collera, la sua grazia non svaniva mai. Mark gli accarezzò la gamba, lui ricambiò il gesto lasciando una sola mano sullo sterzo. «Ti amo.» gli disse. «Non permettere alla rabbia di farti dimenticare quanto ti amo». Lo guardò intenerito, gli sorrise con dolcezza. Poi l’ombra si abbatté nuovamente sul suo volto e Mark, a quel punto, ebbe la certezza che a pulsargli dentro non era soltanto quella ferita. «Ti amo anch’io. Ma questo non m’impedisce di odiare lui». Mark sapeva di non poter competere con quel rancore antico e profondo. Sapeva che Kevin avrebbe tenuto sempre separati quei due sentimenti così opposti e che non avrebbe permesso, né a lui né a nessun altro, di entrare in merito alla faccenda. Decise di restare in silenzio per il resto del tragitto. Una volta tornati a casa, gli avrebbe disinfettato la ferita, lo avrebbe coccolato cercando d’invadere d’amore quell’astio che gli rodeva l’anima. Non avrebbe potuto fare altro. Animale. A Mark non era mai piaciuta l’idea di mettere Kevin contro i suoi familiari, per quanto gli fosse chiaro che, in effetti, l’avrebbero meritato. Ma aveva sempre giocato pulito, in questo senso. Aveva assecondato Kevin in ogni occasione, anche quando era consapevole che per l’ennesima volta, lui si stava illudendo che le cose potessero cambiare. «Mamma ci ha invitato a pranzo domenica!» aveva esordito qualche giorno prima, abbracciandolo alle spalle. «Che te ne pare? Puoi fare questo sacrificio per me?». Mark gli aveva preso le mani intrecciate sul suo torace, baciandole con forza.

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«Beh, si può fare. A patto che ci sia Steve. Lo sai, adoro giocare con lui». Kevin sorrise entusiasta. «E dove vuoi che vada così piccolo?!». Il fratellino di Kevin era molto affezionato a Mark. Kevin sosteneva che in qualche modo Steve avesse compreso la vera natura del loro rapporto. Un giorno aveva detto al fratello, sorprendendolo, di sapere quanto lui volesse bene a Mark e che per questo anche lui gli voleva bene. I bambini – aveva pensato in quell’occasione – non vanno tanto per il sottile quando si tratta di sentimenti. Ed è questo che li rende straordinari. Mark non avrebbe voluto dargli un dispiacere neppure in quell’occasione, ma non aveva potuto fare a meno di tirare in ballo l’argomento in tono cupo. «Suppongo ci sarà anche lui, giusto?». Kevin aveva sospirato profondamente. «Non è un tuo problema, se mio fratello fa fatica a capire che io e te ci amiamo.» «L’ultima volta è stato orribile…» gli aveva rammentato Mark, alzandosi e prendendo una birra dal frigorifero con pochi gesti abitudinari. «Non voglio scocciature, tutto qui». Kevin lo aveva raggiunto in cucina, sbottonandogli la camicia di lino con malizia. «Ti prego, fallo per me!». Mark, percorso da un fremito di piacere, aveva lasciato che Kevin gli baciasse il collo. «Così sei scorretto!» «Lo so!» aveva risposto lui con un filo di voce, che era bastato a Mark per essere percorso da un incontrollato desiderio. Così lo aveva portato a letto, lasciando lungo il percorso una scia di vestiti. Erano a tavola. Jennifer si accomodò al suo posto, gettando uno sguardo imbarazzato alla sedia vuota accanto alla sua. Il signor Connelly si ostinava a offrire del vino a Mark, che lui rifiutava con cortesia ogni volta. Avrebbe tanto voluto bere, ma preferiva restare lucido e all’erta. La situazione lo richiedeva. Kevin continuava ad accarezzargli la gamba sotto il tavolo con una mano che ogni tanto Mark afferrava e stringeva, per scaricare la tensione. Kevin ne era ovviamente divertito. Lilian Connelly faceva il giro del tavolo con una scodella di vetro, chiedendo pazientemente a ognuno la quantità d’insalata che desiderava.

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«Tesoro, siediti pure» le suggerì il marito accarezzandosi i piccoli baffi. In realtà più che un suggerimento, aveva tutta l’aria di un ordine. «Sono certo che nessuno morirà di fame, se si serve da solo». Poi si rivolse a Mark che gli sorrise, rigido e imbarazzato. «Quando ero in guerra, ogni soldato aveva il turno di servire e…». Kevin sbuffò, scocciato: «Papà, non ricominciare con la storia del reggimento in Vietnam, per favore!» «Beh, esistono persone che forse sono interessate alla storia del nostro paese, Kevin!» replicò Thomas Connelly, irritato. Sembrava uno di quegli attori di sit-com da caserma, la caricatura di un soldato patriottico, prigioniero delle sue stesse regole. «Non tutti si basano soltanto sui film che guardi tu, per farsi un’opinione sulla guerra!». Indicò la finestra con le tende bianche. «Lì fuori c’è una realtà che si fa ancora fatica a raccontare per quella che è. Oggi più di ieri.» «Faccio il grafico pubblicitario, papà!» borbottò Kevin, intrecciando le mani sul mento. «Di locandine cinematografiche sulle guerre che il nostro Paese si ostina a combattere, ne ho viste a bizzeffe. E credo si tratti di storie più realistiche di ciò che pensi tu, considerando che non porti mamma al cinema più o meno dai tempi di Clarke Gable!». Lilian sorrise, ma nei suoi occhi c’era qualcosa di più simile alla tensione, che non al divertimento per un consueto battibecco tra padre e figlio. Mark si ritrovò a paragonare la sua famiglia a quella di Kevin. Le stesse incomprensioni, lo stesso scarto generazionale, ma affrontati in maniera del tutto differente. In casa sua c’era una calma apparente, fatta di cose mai dette, che serpeggiavano fra le mura come un cancro silente. Nella famiglia di Kevin, invece, si parlava fin troppo. E tutti i dissapori erano affrontati con aspre discussioni, fondate persino sul più banale degli argomenti. Si augurò che le ore passassero in fretta, mentre Thomas decise di deviare la sua attenzione sul posto vuoto accanto alla fidanzata di suo figlio. «Dove diavolo è finito Ethan?». Lei balbettò qualcosa, impacciata: «Oh, lui mi sa che…». A quel punto a passi veloci e rumorosi, la vivacità del piccolo Steve irruppe nella sala da pranzo. Mark ebbe la netta sensazione che la ragazza, voltatasi di scatto nella sua direzione, non fosse mai stata così felice di vederlo. I capelli lunghi e biondi del bambino saltellavano

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allegri, finché non furono fermati da una vigorosa carezza da parte del signor Connelly che invitò il figlioletto a sedersi al suo fianco. «Lo so io dov’è: gioca ai videogiochi in camera sua! E non vuole pranzare.» «Trent’anni, ed è ancora alle prese con quell’affare infernale!» imprecò Thomas, mettendosi le grosse mani fra i capelli brizzolati. «Non vuole mangiare qui…» proseguì Steve puntando gli occhi azzurri in quelli di Mark. «E io so anche perché!». Mark deglutì, inquietato dall’atteggiamento del ragazzino evidentemente istigato nei suoi confronti. Si alzò d’impulso, spostando la sedia all’indietro con la pressione delle gambe tese. «Scusatemi». Non fece in tempo a captare le reazioni che il suo gesto aveva scatenato. In un attimo era fuori dalla casa, stringendo quasi a sangue le chiavi del suo pick-up. «Mark, aspetta!». La voce di Kevin era ovattata, resa poco chiara dal ronzio nervoso che gli rimbombava nelle orecchie. Non riusciva neppure a guardarlo. «Kev, mi dispiace, ma non ce la faccio. Non ce la faccio proprio! Perdonami…». Stava per aprire la portiera quando Kevin lo afferrò per le spalle, costringendolo a voltarsi. «Mio fratello è una merda, lo so. Ha perfino messo Steve contro di te, ed è imperdonabile. Ma non pensare a lui: la mia famiglia è contenta di averti qui e persino Jennifer se ne frega della sua opinione! Tutti sanno quanto sei importante per me e ti rispettano per questo. Tutti!». Avrebbe voluto credergli, avrebbe tanto voluto credergli. Ma non poteva tornare dentro, sarebbe stato un disastro. Troppe volte aveva sopportato quella tensione e non ne era più capace. Lo baciò sulle labbra imbronciate e si sentì un verme, ma ciò non gli impedì di salire in macchina. «Tu resta. Passo a prenderti più tardi». Mentre il pick-up strideva sull’asfalto, un volto duro lo guardò allontanarsi dietro la tenda della camera al piano di sopra. Ethan Connelly sospirò soddisfatto. Ora sì che sarebbe sceso di sotto.

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TRE Il telefono squilla insistentemente. Erano giorni che non succedeva. Ha espressamente detto che Ryan e Meredith potevano essere gli unici a bussare alla sua porta e telefonare e tutti, con suo sommo piacere, avevano rispettato questa volontà. Ciononostante, ora spera che non si tratti neppure di loro. Non ha alcuna intenzione di litigare con Ryan e non lo alletta neppure far finta di stare ad ascoltare i monologhi di Meredith. Prega con tutto il cuore che sia un sondaggio telefonico o qualcosa del genere, in modo da tagliare corto il prima possibile. Si alza dal letto e si trascina assonnato fino al tavolino vicino alla porta d’ingresso, stiracchiandosi la t-shirt bianca. Almeno è tutto pulito, pensa per un attimo. Sia lui che l’appartamento emanano un buon odore e a giudicare dalle circostanze è già una gran cosa. Si ravviva i capelli, lunghi e incolti. Passando davanti allo specchio del corridoio, nota che sono più scuri del castano a cui è abituato da ventotto anni. Dev’essere una di quelle lozioni che Meredith gli sta applicando, con la malsana convinzione che quella roba schifosa da venticinque dollari, eviterà ai capelli di sfibrarsi a causa dello stress. Sbuffa all’idea di non essere ancora in grado di riprendersi la sua vita. Si liscia la barba nera e senza alcun vigore solleva la cornetta del telefono. Non si preoccupa minimamente di adottare un tono gentile: chiunque sia, deve sapere quanta seccatura gli sta procurando. «Sì, pronto?». Un respiro lungo e profondo è la prima risposta che ottiene. Dev’essere stato davvero sgarbato, per spiazzare il suo interlocutore in quel modo. «Tesoro…». È peggio di quanto si era aspettato. Molto, molto peggio. Tenta in ogni modo di dare alla sua voce un minimo di cordialità. «Ciao, mamma». Funziona, perché la madre di Mark a quel punto si sente già meno minacciata. «Tesoro, come stai?». Lui emette un sospiro nervoso. «Mamma, una domanda migliore, magari? Su, un po’ di fantasia: ne hai sempre avuta in fondo».

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Jodie Highwood a quel punto inizia la sua ennesima arringa. In fondo è stata lei, avvocata e fervida repubblicana a insegnare a suo figlio come se ne fa una come si deve, quand’è necessario: «Capisco che non hai la benché minima voglia di sentire nessuno di noi, ma ci preoccupiamo per te. Se questo ti disturba, non è un nostro problema, perché ci manchi. Manchi a tutti noi, Mark. Non puoi ignorare la tua famiglia in questo momento. Ora che lui non c’è più». Come se fossero loro a passare un periodo di merda! Mark cerca di mantenere un tono pacato, apparentemente mansueto. «Mamma, non voglio essere sgradevole, per questo ho chiesto...» «Lo so, Mark.» ribatte lei agguerrita. «So cosa hai chiesto: avere accanto a te Ryan e Meredith e non i tuoi parenti. Questo è un “fatto”». La detesta quando inizia a blaterare con il gergo tribunalesco. «Non metterli in mezzo, non c’entrano e lo sai che…» «Certo, adoro quei due ragazzi, sono praticamente cresciuti in casa nostra!». Ecco un altro lato di sua madre che non gli va a genio nemmeno un po’. Usa quel tono come a sottolineare che ha accolto i poveri Meredith e Ryan nella sua grande casa vittoriana a Pacific Heights, durante la loro adolescenza. Meredith con il padre ubriacone e la madre depressa nella sua roulotte fatiscente e Ryan, il ragazzino di Tenderloin, il quartiere più malfamato della città. Certo, tutto come al solito. È la buona, cara Jodie che prende tutti con sé nel suo grande castello fatato. Fino a quando non scopre che suo figlio è perdutamente innamorato di un ragazzo che, grazie al cielo, è morto e che quei due sono sempre stati suoi complici, in questo abominio della natura. Ha più di un motivo per avercela con la sua famiglia, su questo non c’è alcun dubbio. «…Ma non mi piace l’idea che tagli me, tuo padre e tuo fratello dalla tua vita, adesso che hai bisogno di noi più che mai!» «Certo, ora che il diavolo tentatore non è più fra noi, il figliol prodigo può tornare a casa, è questo che mi stai dicendo, vero mamma?! Ma dov’eravate, negli ultimi cinque anni?! Dov’eravate, quando senza un soldo ci siamo trasferiti in centro per trovare uno straccio di casa e un lavoro per sopravvivere?! Dov’eravate quando dovevo finire i miei studi e nel frattempo mantenermi?!». È una valanga di rabbia. In un attimo sua madre gli ha fatto riaffiorare tutto quanto: la storia della famiglia perfetta che mostra il suo lato oscuro, non appena si accorge che qualcuno di estraneo e diverso è lì

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fra loro. Allora lo rinnegano, lo allontanano come un appestato. E fanno finta che non sia mai esistito. Questa è la famiglia Highwood. E a lui non piace per niente. Jodie si paralizza in un gelido silenzio. Mark non ha la forza di continuare ma vuole finirla una volta e per tutte con quella farsa. Raccoglie quel po’ di forze di cui ancora dispone. «Mi dispiace, mamma. Ma non me la sento più di fingere, non dopo…». È più forte di lui. Inizia a singhiozzare. È successo anche troppo tardi considerando che si sveglia già con le lacrime agli occhi da due mesi a quella parte. È riuscito a metter via il whiskey, l’ha fatto istintivamente. Ha trangugiato un ultimo sorso e il resto l’ha regalato al lavandino due settimane prima. Ma di piangere non avrebbe mai smesso. E forse quella sua fragilità è la più tragica e irrisolvibile delle dipendenze. Dall’altra parte del telefono ci sono solo gracchianti rumori di fondo. Mark riesce a essere abbastanza lucido da trarre un profondo respiro e tranquillizzarsi, almeno per il tempo necessario a terminare la conversazione. «La cosa più triste, mamma, sai qual è? Non è questa tua freddezza, no. Ma il fatto che nonostante tutto, non riesci ancora a pronunciare il suo nome». Non attende una risposta. Riaggancia e piange ancora.

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QUATTRO In origine, la ferita alla tempia era stata un pugno infame. Mark era corso a riprenderselo, l’aveva visto uscire a grandi passi dalla casa dei Connelly a Russian Hill marciando come un soldato e con la bocca serrata. In quell’attimo, suo malgrado, ammise quanto Kevin ricordasse suo padre nonostante l’innegabile, oggettiva somiglianza con Lilian. Il soldato rabbioso intanto aveva aperto lo sportello e s’era accomodato in macchina. «Andiamo via di qui. Ora.» ordinò perentorio. Non è Kevin. È un ammasso di furia cieca. Mark lo fissò sbigottito. Non l’aveva mai visto così adirato. «Anzi, guido io. Ho bisogno di distrarmi.» «D’accordo…» si limitò a rispondergli cedendogli il posto guida. E fu a quel punto che notò la ferita sanguinante sul lato sinistro della fronte. «Che è successo, Kev?» «Niente.» «Kevin?». Lui si voltò di scatto, incendiandolo con occhi iniettati di sangue. «Te ne parlo quando ce ne andiamo via da questo dannato posto». Mark si lasciò andare contro la testiera del seggiolino, indossando pigramente la cintura di sicurezza. Sapeva cos’era successo. Sapeva di chi era opera quel segno sulla sua faccia. Ma Kevin non gli avrebbe permesso di fare nulla, come al solito. Kevin voleva sbrigarsela da solo. Kevin era quello forte; lui poteva limitarsi a consolarlo di tanto in tanto, senza operare alcun intervento concreto. Il pick-up intanto stava percorrendo i tornanti di Lombard Street, tremendi da attraversare. Mark concentrava ogni volta lo sguardo sulle graziose aiuole di ortensie che li circondavano per evitare la nausea. Poi interruppe coraggiosamente il silenzio: «Perché non me l’hai detto al telefono?» «Non era necessario e comunque non lo è neppure adesso». E a quel punto tastò la ferita con una smorfia di dolore. Mark appoggiò un braccio sullo schienale. «Perché avete fatto a botte, stavolta?»

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«Avanti, Mark!» sbottò Kevin inasprito. «Lo sai perché!» «Kevin, non voglio questo. Ne abbiamo già parlato. Tuo fratello non lo accetterà mai». A quel punto la rabbia di Kevin gli esplose in faccia, come una bomba a orologeria. «Beh, se tu ti sforzassi un minimo, Mark, non dovremmo arrivare a questo!». Si indicò la ferita con veemenza. «Se solo tu la smettessi una buona volta di fare il superiore e l’offeso, prendendotela per ogni cosa che viene detta o fatta nella mia famiglia! E comunque – gli puntò il dito contro come un inquisitore – il mondo non gira intorno a te!». Mark lo guardò sgomento. «Stai dicendo che tuo fratello ti pianta un colpo in faccia e che la colpa è mia?!». «No, sto dicendo che quell’animale tiene mio padre per le palle e tutta la mia famiglia in pugno!» rispose lui con la voce lacerante. «Sto dicendo che per una dannatissima volta non avrebbe vinto lui se tu fossi rimasto al tuo posto!». Mark si voltò dalla parte del finestrino, spiazzato da quell’insolita aggressività. Avevano percorso un lungo tratto di strada a una velocità impressionante. La discussione con Kevin l’aveva distratto per un po’, ma ora il suo corpo gli ricordava di soffrire il mal d’auto. Decise di aprire il finestrino per guardare meglio ciò che la vista gli offriva da quel punto. Il vento della baia di San Francisco lo colpì in pieno viso e fu una goduria pazzesca che lenì immediatamente la sua nausea. Sporse la mano che sfidò l’aria, ne sentì tutta la pressione e chiuse gli occhi in estasi. Per un momento dimenticò l’amarezza di poco prima. Quando la sua vista tornò alla realtà, il Bay Bridge si ergeva all’orizzonte maestoso e bellissimo sulla tavola d’acqua del Pacifico, giocando con i colori del pomeriggio cupo di quella domenica. Il pick-up procedeva rumorosamente lungo la strada, ed era l’unico suono a far da sfondo a quella scena, fino a quando Kevin non posò una mano sulla sua guancia impanata di barba. Mark si scostò infastidito. «Scusami tanto, se proprio non reggo quel suo atteggiamento del cazzo, eh!» esclamò polemico. Poi arrabbiato: «Avrei voglia di sbattergli quella testa ottusa nel muro!» «Mi dispiace» disse Kevin insistendo nell’accarezzarlo e finalmente l’amabilità tornò nella sua voce. «Lo sai, non sopporto l’idea che qualcuno possa considerarti negativamente. Non sopporto che sia lui a farlo. È l’ultima persona ad averne diritto. Lui, che nella vita ha già commesso qualche errore di troppo.» «Sssh…».

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Mark si lasciò andare alle sue carezze invitandolo al silenzio e muovendo la testa al ritmo della sua mano. La pioggia di novembre iniziò a cadere, disegnando piccole cascate sul vetro del pick-up. Kevin accostò d’improvviso su quella strada semideserta, baciandolo con passione. L’auto era un’isola lampeggiante nella città bagnata dal temporale. Fecero l’amore lì. Il suono dell’acqua scrosciante ad avvolgerli, il crepuscolo a proteggerli dagli occhi indiscreti di un mondo impietoso.

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CINQUE «Chi è?» domanda a voce alta, stupendosi della sua raucedine. È sveglio da due ore ormai, ma il volume stenta ad alzarsi. Immagina un’assurda legge evoluzionistica, secondo la quale una voce umana può anche scomparire, se non si comunica verbalmente per più di un’ora. Sono tre mesi, che non sostiene un dialogo decente con qualcuno. Più che altro ha a che fare con i soliti soliloqui di Meredith – che lui si limita a completare con qualche disinteressato mugolio – e poche frasi sparse qua e là con Ryan. Parole frammentate che muoiono sul nascere, senza alcuna speranza di sopravvivenza. Non riceve risposta dall’altra parte della porta d’ingresso. Punta l’occhio nello spioncino, ed è in quel momento che lo vede. Il mostro. Merda! Impreca fra i denti. Non può affrontarlo, non ne ha la forza. Cosa ci fa lì? Cosa ci fa lui, lì? Si appoggia alla parete per un attimo, prima che il campanello suoni un’altra volta. Respira profondamente e apre la porta. «Ciao…» farfuglia, la mano intrappolata nei capelli scompigliati. Ethan lo fulmina con gli occhi verdi e accesi di un odio senza limiti. «Salve». Non c’è nulla di educato e gentile in quel saluto. È un’immagine paradossale, quella che gli si presenta agli occhi. Mai e poi mai, Ethan Connelly, metterebbe piede in casa sua se non per un motivo ben preciso che in quel momento, a dirla tutta, gli sfugge. «Cosa c’è? Non lavori?!» gli chiede Ethan sarcastico e muovendo bruscamente la testa nella sua direzione, come a indicarlo. Mark vorrebbe rifilargli un pugno, ma si limita a rispondere garbatamente e con una punta di palese freddezza: «Tornerò al lavoro la settimana prossima. Mi sono messo in aspettativa». Ancora immobile sulla soglia della porta, Ethan storce la bocca in un ghigno di soddisfazione: «Beh, il mondo continua a girare, giusto? Prima o poi anche i più… debolucci tornano sul ring».

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Di’ pure froci mollicci, stronzo di un marines nazista. Mark ignora quel commento al vetriolo, ma non si risparmia di caricare d’irritazione le sue prossime parole: «Non so, vuoi entrare?». Lui avanza lentamente, ma il suo indugio non ha nulla a che fare con la timidezza. Tiene le braccia tese e le mani unite dietro la schiena, le spalle larghe, i capelli corti e chiari, la pelle dorata dal sole californiano. Procede come uno di quegli ufficiali arroganti che perquisiscono con falsa discrezione le camerate dei subalterni, alla ricerca del misfatto. Ha una barba rada e ispida, di un biondo appena accennato che, deve ammetterlo, si sposa bene con il colorito olivastro della sua pelle. I suoi colori chiari sono l’esatto opposto di quelli di Kevin. La corporatura, snella e massiccia al contempo, invade il salotto con un leggero profumo di acqua di colonia. Per un attimo pensa che in un mondo parallelo, in un’altra vita, avrebbe potuto persino provare attrazione per lui. Scaccia quel pensiero come una mosca molesta. Si volta, le sopracciglia sollevate in un’aria superba. Non si scompone minimamente e dal suo atteggiamento, Mark deduce che non si accomoderà da nessuna parte. «Puoi immaginare che la mia non è una visita di cortesia...» Certo che no, schifoso figlio di puttana. «Già» taglia corto Mark. «Bene» replica l’altro. «Chiarito questo, volevo dirti che entro stasera riceverai un invito a cena per domani da parte di mia madre. Lei ha questa… “fisima” – e allora scrolla le mani in un gesto dispregiativo – di riunire la famiglia in un momento difficile. Naturalmente sai come la penso a riguardo, perciò non sognarti neppure lontanamente di accettare». Mark si limita a guardarlo senza proferir parola. Vorrebbe tanto sbattergli quella testa ottusa nel muro, prenderlo a calci e mandarlo via. Ma quel cinismo lo raggela, gli tronca le parole e i gesti sul nascere. Con che coraggio si è presentato lì e con quel tono? Solo una mente malata sarebbe capace di tanta cattiveria. Ha sempre pensato che l’arruolamento di Ethan in Iraq fosse stato il suo lasciapassare per l’inferno. Quell’esperienza ha restituito alla famiglia Connelly un giovane avvelenato dalla guerra, un automa arrabbiato che con gli psicofarmaci ha voluto eliminare ogni ricordo ed emozione legati a quel periodo della sua vita. Poi, l’improvvisa guarigione. Il pericolo della follia è stato sventato, ma ne è venuto fuori un uomo arido, rigido, senza alcuna comprensione degli altri e dotato di un assoluto,

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sconfinato egoismo. Uno che si sente un eroe nazionale e che per questo spadroneggia in casa dei suoi genitori come un ufficiale di reggimento. L’esatta copia di suo padre, ma con meno diplomazia. «E cosa m’invento?» gli domanda Mark, gli occhi bassi e amareggiati. Ethan risponde gelido: «Questo è un tuo problema. Vedi solo di non fare la stronzata di presentarti a casa mia, Highwood. Perché te la faccio pagare». Mark si sente come al liceo quando, occhialuto e indifeso, era costretto a subire le prepotenze dei ragazzi più grandi che pronunciavano con disprezzo il suo cognome. Come può quell’individuo avere un simile potere su di lui?! Ethan si sporge nella sua direzione, stando ben attento a non toccarlo. Mark avverte sul viso il suo alito di birra e dentifricio. «Non c’è più alcun motivo valido per cui debba ancora sopportare la tua presenza. In verità non c’è mai stato. Tre mesi fa ho fatto finta di non vederti al funerale, solo per non dare di matto. E dopo oggi, mi auguro di non rivedere la tua faccia di merda mai più. Sono stato abbastanza chiaro?». Mark annuisce, ma stavolta sostiene il suo sguardo con fierezza. Socchiude gli occhi serrando la bocca già sottile. Indietreggiando, raggiunge la porta e se la apre alle spalle, lasciandolo passare. Non si dicono altro. Ethan esce con il passo di una pantera pronta all’agguato, guardandolo disgustato un’ultima volta.

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SEI Si vedono in un caffé italiano a North Beach. Lilian Connelly ha insistito per incontrarlo comunque, nonostante il suo rifiuto a unirsi a loro la sera successiva. Mark nota che è dimagrita in modo spaventoso e che attorno ai suoi occhi neri sono comparse borse e occhiaie di proporzioni allucinanti. Quando lei lo fissa con dolorosa consapevolezza, il ragazzo immagina cosa debba significare per una madre seppellire il proprio figlio di ventotto anni. Con sua sorpresa, Lilian allunga le mani rovinate e stringe le sue, picchiettandole affettuosamente. «Come stai, caro?». Quanto è diversa, quella domanda sulle sue labbra! Mark stima Lilian, forse è l’unica persona per la quale ha sempre evitato di scontrarsi con i Connelly. L’unica donna della famiglia, una madre forte, una moglie paziente, che con i suoi silenzi sopporta la vita da caserma a cui marito e figlio la costringono da anni. Nonostante l’aspetto evidentemente provato, Lilian Connelly mantiene una finezza magnifica, la stessa che contraddistingueva Kevin a ogni magico movimento. I lunghi capelli neri e ricci legati da un foulard violetto, un vestito a fiori dello stesso colore, e una grande borsa che Mark immagina debba contenere svariate fotografie del suo bambino. Si sforza disumanamente per mantenere gli occhi asciutti. «Inizio a lavorare lunedì.» risponde lui ricambiando la stretta delle sue mani. «È una fortuna che il capo della società sia quel tuo amico…» L’aiuta, notando la sua difficoltà a ricordare: «…Ryan.» «Già» dice lei schioccando un dito e lasciandogli le mani per un momento. «In questo modo hai avuto il tempo di… riprenderti». Non è per niente convinta che quella sia la parola giusta. È assurdo che il linguaggio umano non contempli vocaboli adatti alla morte, delle combinazioni abbastanza giuste per quel tipo di circostanze. Si finisce inevitabilmente per usare termini fuori luogo. “Riprendersi” non è la parola appropriata, ma in ogni caso non c’è un termine di mezzo che possa addirsi al suo stato d’animo.

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«So che non è così, Mark» si giustifica Lilian. «Perdonami, ma io per prima non riesco a definire le mie sensazioni in modo preciso. È tutto così strano: giorni che sembra andar meglio e giorni in cui tutto mi si frantuma addosso…». La donna fissa nel vuoto, come improvvisamente stordita. Mark poggia una mano sul mento, il gomito sul vassoio. «Non c’è problema, signora Connelly. Capisco bene ciò di cui sta parlando». Lei lo guarda di nuovo, abbandonando quell’espressione alienata e sostituendola con un sorriso spento. «Ti prego, Mark, lasciamo perdere la signora Connelly… Chiamami Lilian e dammi del tu». Mark ha un tuffo al cuore. È così simile a Kevin in tutto: quando sorride, quando parla… Trattiene ancora una volta la sua commozione e lascia che lei arrivi al punto cruciale. «Dimmi, Mark: perché non vuoi accettare l’invito di domani sera?». Ripensa alle parole taglienti di Ethan, appena poche ore prima. Si chiede cosa sia giusto fare. È escluso a priori accettare l’invito a cena, ma in ogni caso non c’è scusa che tenga. La guarda, sperando di essere abbastanza loquace con gli occhi. Lei prosegue con le argomentazioni già anticipategli al telefono. «Mio marito ti ha sempre trattato bene, da ciò che ricordo. Non è mai stato felice della vostra relazione e non ne ha fatto mistero, ma al contempo non vi ha mai ostacolato…». Già, ma lo scoglio più grosso è un altro Lilian. Mark continua a fissarla, ma lei è troppo immersa nelle sue parole per rendersi conto di ciò che le sta dicendo con lo sguardo. Deve ammetterlo, pronunciare quel nome in presenza di Lilian lo secca. Preferisce sia lei ad arrivarci. L’ultima cosa di cui ha bisogno è un’altra visita di Ethan Connelly che lo accusa di aver aizzato sua madre contro di lui. Ne farebbe volentieri a meno, anche se intrattenersi in quel ristorante con lei rappresenta già di per sé un grosso rischio. «Se non hai mai potuto beneficiare della nostra ospitalità in modo costante, è stato perché…». Si arresta di colpo, gli occhi bassi, roteando l’unghia priva di smalto sull’orlo della tazzina d'espresso italiano. «C’entra Ethan, non è così?». Mark abbassa lo sguardo a sua volta, consapevole di addentrarsi in un territorio rischioso. «Lilian, davvero, non voglio creare problemi…». Lei appoggia i gomiti sul tavolino di ferro battuto sporgendosi verso di lui, l’espressione attenta, la voce un sussurro, come in un dialogo

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cinematografico fra spie governative: «Cos’ha combinato stavolta? Ti prego, Mark, dimmelo.» «Lui non ha combinato niente, davvero». Mark sorride nervosamente evitando ancora il suo sguardo. «Ma so cosa pensa di me, so che mi ha sempre considerato come quello che ha traviato Kevin e che ve l’ha portato via». Lei le posa una mano sul braccio e Mark avverte il suo affetto sincero, che lo convince a guardarla. «Sai che non è così. Io non la penso così. Se non ho potuto ospitarti quando tua madre ti cacciò di casa, fu proprio a causa di Ethan». A quel punto volta gli occhi verso la strada, come a visualizzare quegli spiacevoli ricordi. «Avrei convinto Thomas, ma non Ethan. Per di più stava seguendo il suo programma di recupero, era abbastanza volubile e violento. Sì, devo ammettere che Ethan è stato un problema per voi in più di un’occasione». Ancora un eufemismo. “Problema” è dire veramente poco. Ma a Lilian può perdonare qualsiasi cosa. «Non è più importante, ormai.» «Importa eccome!» replica lei stringendogli il braccio. «Per me fai parte della famiglia. Sei un Connelly. Avrei voluto dimostrartelo di più…». A quel punto si lascia andare a un pianto sommesso. Si mette una mano sulla fronte e respira a fondo. Poi prende un fazzolettino di carta dalla sua borsa enorme e si asciuga le lacrime. Non lascia mai il braccio di Mark, continua a tenerlo stretto per tutto il tempo come se avvertisse il dovere materno di consolarlo, di dargli forza nonostante tutto. Quella donna è una roccia vivente. Mark si rende conto di averla conosciuta veramente poco, quando Kevin era in vita. «Ascoltami...» Lilian tira su col naso, gli occhi neri nei suoi. «Due giorni fa mi sono svegliata con la chiara consapevolezza che Kevin non tornerà mai più da me. Non so come né perché, ma questo mi ha aiutato a non essere più devastata dal dolore, che in ogni caso porterò dentro fino alla tomba. Ora non chiedo altro che poter tenere unito ciò che resta della mia famiglia. E in questo discorso ci sei anche tu». Lui annuisce, ma al contempo rende chiaro con la sua espressione che non cambierà idea riguardo all’invito del giorno seguente. «Casa mia è sempre aperta per te, Lilian. Sempre. Ma se mi vuoi bene, accetta il mio rifiuto. Te ne prego». Lei abbassa lo sguardo, sospirando arrendevolmente. «Avrei dovuto aspettarmelo. Ethan è così…».

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Pronuncia quel nome in un tono che avvicina la collera e l’affetto come il sole e la luna durante un’eclissi. Mark si augura che lei non abbia capito niente, circa la capatina non molto piacevole del figlio nel suo appartamento. Quando sono di nuovo sulla strada, si abbracciano forte. Prima di voltarle le spalle, Mark le accarezza la guancia. Lei gli stringe la mano e lo saluta nuovamente, prima di perdersi nella folla.

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SETTE Adora il Pier 39. Il molo di legno che si allunga sulla baia nel Fisherman's Wharf, il quartiere di pesca più gremito di San Francisco. A quell’ora del pomeriggio, però, è meno affollato e a Mark piace percorrerlo lentamente, una mano in tasca, una sigaretta fra le dita. Quella mattina c’è più corrente del solito, il mare è particolarmente agitato. Rinuncia a fumare, quando si rende conto che la maggior parte del tabacco se l’è portata via il vento. Ha intenzione di tornare in tutti i luoghi che lui e Kevin frequentavano abitualmente e di farlo il prima possibile per non avere troppa paura di farlo in futuro. Non c’è un solo angolo di San Francisco che non abbiano attraversato insieme; vuole affrontare quei ricordi prima che sia troppo tardi. Meredith l’ha già accompagnato a Union Square nei pressi della galleria d’arte dove lei lavora. Hanno pranzato insieme, poi è tornata al lavoro, entusiasta che Mark abbia rivisto la città dopo mesi di clausura. Non è facile. Ogni centimetro di quel posto parla della loro storia, di com’è nata e cresciuta fra mille gioie e difficoltà. E un dolore incontenibile è sempre dietro ogni angolo, come un’ombra crudele. Quel pomeriggio è con Ryan. Devono parlare a voce piuttosto alta, per sovrastare il rumore del vento feroce che soffia su di loro, seduti sull’orlo del molo a pochi metri dall’oceano azzurro racchiuso nella baia. È fantastico. Entrambi fanno delle pieghe ai pantaloni, togliendosi le scarpe. La cosa non serve davvero, dato che non immergeranno i piedi nell’acqua gelida e, in ogni caso, troppo lontana. Quello rappresenta semplicemente un rituale che celebrano ogni volta che si recano in quel luogo magico. L’hanno fatto fin da piccoli. E ora che sono due uomini alla soglia dei trent’anni, ritornano ragazzini appena ne hanno l’opportunità, liberandosi per qualche ora dei ruoli che la società ha loro assegnato. «Ho visto Lilian Connelly, qualche giorno fa a North Beach. Mi ha chiesto di andare a cena da loro.» «E tu cos’hai risposto?» «Secondo te?!».

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Ryan gli sorride con intesa. «No, certo. Considerando “quel” Connelly». Lo dice con disprezzo. Ha sempre nutrito un affetto protettivo nei confronti di Mark, il quale sa bene che in presenza di Ryan è meglio dosare i resoconti. Non si azzarda neppure a immaginare cosa accadrebbe, se gli parlasse del confronto avuto con Ethan qualche giorno prima. Ryan guarda la baia estendersi dinanzi ai suoi occhi, dopo aver battuto affettuosamente la mano sulla spalla dell’amico. «A volte il mare è d’aiuto» osserva pensieroso con gli occhi rapiti dalle onde all’orizzonte. «Cosa?» «Dico, il mare!» ribadisce a voce più alta. «Il suo movimento perenne è una sfida contro il tempo. La sua pazienza, la sua tenacia, dovrebbero essere un esempio per noi». Mark lo guarda con dolcezza. Da quanto tempo si conoscono? Ne hanno combinate talmente tante assieme, che quei vent’anni sembrano molti di più. «Ma che stai farneticando?! Il mare, il tempo… E poi dite che sono io, quello che ha bisogno d’aiuto!». Scoppiano a ridere e Ryan se ne rallegra. Mark sta tornando. Leggerà per sempre un velo di malinconia nei suoi occhi, ma perlomeno sta imparando a convivere con il male di quella morte improvvisa e violenta, che s’è portato via per sempre un pezzo di lui. «Ne approfitto per scusarmi con te» esordisce Mark, quando le risate sfumano. «So di non essere stato molto amabile negli ultimi tempi…» «Ehi, non pensarla nemmeno, una cosa del genere!» esclama Ryan, accendendosi una sigaretta. Riesce a farlo dopo una serie di tentativi andati a vuoto, con il vento insistente alle calcagna. Tira una boccata, lasciando uscire il fumo che si confonde immediatamente con la corrente, tanto da non lasciare nell’aria il minimo aroma. «Forse dimentichi cos’ero io, durante il mio periodo nero». Mark gli cinge la schiena con un braccio imbottito dal giubbotto blu scuro. «Beh, soffrivi tanto. Fu una gran botta anche quella». FINE ANTEPRIMACONTINUA...