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Cristina Rocca
Le Sirene dalla coda blu
La vendetta della Strega
Isbn: 978-88-6882-398-6
Copyright Lettere Animate 2015
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Buona Lettura!
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Capitolo 1
Negli abissi del mare, c’era una città piena di vita: era la città
delle sirene, chiamata Seilonda.
Lì, vivevano le sirene dalla coda blu, chiamate così per la loro
coda caratteristica. Esse, infatti, si distinguevano per il colore
della coda: ogni razza ne aveva uno diverso.
Il loro colore era il blu, che rappresentava la loro freddezza di
cuore. Loro non erano in grado di provare sentimenti per le
altre razze, al di fuori della loro. Ma, tra di loro, erano un
gruppo unito e compatto, pronto a proteggersi l’una con l’altra.
I maschi della loro specie: i tritoni, stavano di guardia ai
confini della città. La loro coda era un po’ più scura di quella
delle sirene femmine, il che gli dava un tono più spaventoso,
così da tenere alla larga le altre specie marine che si
avvicinavano alla città.
La città sottomarina era formata da una serie di grotte collegate
da gallerie. Non erano molto illuminate, ma erano abbellite con
fiori, alghe e coralli coloratissimi appesi alle pareti rocciose,
che davano un tocco di vivacità e di luminosità al buio degli
abissi. In particolare, c’era una grotta molto speciale, incantata
dalla magia, che nonostante fosse situata a migliaia di km di
profondità nel mare, era priva d’acqua e l’ossigeno si
riproduceva continuamente in modo autonomo.
Quella grotta veniva usata come una sorta di palestra dalle
sirene, che ci tenevano molto alla loro forma fisica e
necessitavano di allenarsi non solo in acqua, ma anche fuori,
per mantenere il loro corpo giovane e flessibile. Perché, questa
loro ambivalenza pesce-uomo, faceva sì che per essere nelle
migliori condizioni di forma fisica, le sirene dovessero allenare
sia la loro parte di pesce che quella umana, per il semplice
motivo che allenare le gambe le aiutava a muovere la coda con
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maggior flessibilità e velocità, e i polmoni ad avere maggior
resistenza durante il nuoto.
Così, avendo bisogno di allenarsi in un posto dove non ci fosse
acqua, ed essendo pericoloso andare sulla terraferma a causa
degli umani, le sirene avevano creato quella grotta, grazie alla
loro magia, per allenarsi in tutta tranquillità.
La grotta rifletteva la luce del laghetto sottostante, da cui vi si
accedeva, che emanava una luce azzurra fluorescente, grazie ai
luminosi coralli situati nelle sue profondità. Quell’effetto di
luce bastava a illuminare l’intera area, tanto che le sirene non
avevano necessità di abbellire le pareti rocciose, com’era d’uso
fare.
Nella grotta, in quel momento, c’erano due sirene: Dipsy e
Stensy, mutate in forma umana, che si allenavano andando
avanti e indietro e facendo degli esercizi per sgranchire le
gambe. La loro forma fisica era impeccabile: addominali
scolpiti sottilmente e raffinatamente.
Dipsy, la più piccola delle due, era una giovane di venticinque
anni. La sua lunga chioma di capelli color castano chiaro, le
nascondeva le spalle e ondeggiava fino a coprire poco più di
metà schiena. I suoi occhi azzurri brillavano grazie al riflesso
del laghetto.
Sua sorella Stensy era più grande di lei di cinque anni. Le due
sorelle si somigliavano. Erano snelle e alte. Avevano i capelli
dello stesso colore e la stessa pettinatura ondeggiante. Stensy si
differenziava dalla sorella, solo per il colore degli occhi, che
erano verde chiaro, e per la sua statura. Era di poco più alta di
Dipsy.
Loro, come tutte le altre sirene, ci tenevano molto alla forma
fisica e alla bellezza esteriore. Amavano i colori. Gli piaceva la
grande varietà che trovavano nei petali dei fiori e andavano alla
ricerca di tutte le tonalità. E con quei fiori e con le conchiglie
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amavano abbellire il loro corpo, con l’aiuto delle alghe che
servivano da collante per tenerli fermi.
Ed era così che si erano ricoperte la pelle quel giorno, con fiori
e conchiglie coloratissimi, che gli circondavano il petto e si
attorcigliavano dietro le scapole. Le gambe erano circondate da
una lunga gonna di fiori di tutte le tonalità di colori, che
arrivava fino alle ginocchia. Lungo il fianco avevano una
specie di laccio fatto di un’alga verde, che gli circondava la
vita, come una cintura. Alla cintura era appesa una piccola
sacca fatta con lo stesso tipo di alga molto resistente. Sui polsi,
le due sirene, avevano dei braccialetti di fiori.
Dipsy e Stensy stavano camminando, quando dal laghetto
azzurro emerse una lunga chioma di capelli bionda: era Fridia,
la migliore amica e coetanea di Stensy.
Le due sirene si fermarono di colpo, quando la sentirono
arrivare.
La loro amica emerse dal laghetto e si diresse verso di loro. Dal
suo viso gocciolava l’acqua gelida, che le scivolava via lungo
tutto il corpo. Il suo fisico era atletico e statuario. Lei era una
tra le più alte fra le sirene. Aveva gli occhi verde smeraldo e,
come le altre, indossava il vestiario tipico delle sirene. E come
loro, anche lei portava appesa alla vita la solita sacca d’alga
verde uguale a quella delle due amiche. Anche se le sirene ci
tenevano allo stile, non si differenziavano nel vestire, perché
amavano essere vestite in modo simile. In questo modo, si
sentivano un gruppo più unito.
Dipsy e Stensy le andarono incontro.
«Ci sono novità?» chiese Stensy preoccupata.
Fridia camminò con schiena dritta e si fermò di fronte a loro.
Poggiò le mani sui fianchi e scosse la testa amareggiata «No.
Ancora, niente. Abbiamo perlustrato la zona, ma non siamo
riuscite a trovare niente. Non riusciamo a capire da dove
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provenga il veleno. Abbiamo seguito altri umani usciti in barca,
ma non ci hanno portate da nessuna parte».
Stensy sospirò sconfortata «Gli umani sono furbi. Cos’altro
possiamo fare per fermarli? Non abbiamo molto tempo. Se non
li fermiamo subito e non troviamo una cura per il veleno,
piano, piano moriremo tutte».
Fridia provò a rassicurarle «Troveremo il modo di fermarli. Io
non mi arrenderò. Sono già morte tre di noi e non lascerò che
ne muoiano altre» disse in tono deciso e determinato. Ma, vide
che i volti delle sue amiche erano perplessi. Le sue parole non
erano riuscite a rassicurarle. Allora, insistette fiduciosa
«Continueremo a controllare ogni movimento degli umani.
Vedrete, prima o poi qualcuno ci porterà nel luogo in cui
avviene la contaminazione, ne sono sicura. Ce la faremo» disse
con convinzione.
Ascoltandola, Dipsy s’illuminò in volto. La sua determinazione
l’aveva convinta a sperare che sarebbe andata così.
Stensy, invece, non ne era molto sicura. Si perse nei suoi
pensieri, che vedevano un futuro negativo per loro.
Fridia le osservò entrambe e attese un momento. Sapeva bene
che non era facile convincere Stensy. Allora, tentò di farla
reagire, chiedendole di entrare in azione.
«Stiamo scegliendo i turni, voi ci siete?» le chiese, pensando
che se avessero provato a combattere, anche Stensy avrebbe
iniziato a sperare in qualcosa di positivo.
Quest'ultima fu colta di sorpresa, mentre era sovrappensiero.
Guardò il volto di Fridia come per capire bene cosa avesse
detto e poi, si voltò perplessa verso la sorella. La osservò per
un attimo.
Dipsy non disse nulla e attese la risposta della sorella. Lei
voleva entrare in azione e sperava che Stensy glielo
permettesse. Ma, dal suo sguardo impenetrabile non riusciva a
capire cosa la sorella stesse per rispondere.
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«Io ci sono. Ma, Dipsy no, è ancora inesperta» rispose, infine,
Stensy.
Dipsy sbatté le palpebre sorpresa e irrigidì la mascella. Non
sopportava quando sua sorella la trattava ancora come fosse
una bambina. Prese Stensy per un braccio e la trasse a sé,
facendo sì che lei la guardasse negli occhi «Io posso farcela!
Non è un compito difficile. Devo solo osservare gli umani,
come facciamo sempre» la implorò.
La sorella la guardò duramente «Questo non è un gioco. È una
cosa seria, ne va delle nostre vite. C’è bisogno di sirene esperte
e tu ancora non lo sei, Dipsy!».
«Non lo sono, perché nessuno mi fa mai fare un po’ di
esperienza!» sbottò Dipsy. Ma, non aveva voglia di litigare.
Sapeva che Stensy non avrebbe cambiato idea. Allora, per
evitare una discussione e per far sbollire la rabbia, corse verso
il laghetto.
Ma, Stensy la fermò, chiamandola per nome. Dipsy si bloccò.
La sorella sapeva che Dipsy ormai era cresciuta, ma non
riusciva a non sentirsi responsabile per la sua vita. Da qualche
tempo, Stensy era rimasta sola a prendersi cura di lei, da
quando i loro genitori erano morti. Non era preparata a fare le
loro veci e sentiva forte il peso di questa responsabilità. E
Dipsy non le dava una mano, era sempre contraria alle sue
decisioni e non riusciva a capire che lei lo facesse per
proteggerla.
Stensy tentò di usare un tono morbido ma autorevole allo
stesso tempo «Dipsy, sei l’unica persona cara che mi sia
rimasta, non posso perdere anche te».
Dipsy sentì un colpo al cuore e non trovò il coraggio di
guardarla negli occhi.
Stensy, vedendo che non si era girata verso di lei, cercò di
spiegarle «Dipsy, se ti dovesse accadere qualcosa, io non lo
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sopporterei. Sai quanto è dura perdere delle persone care e non
voglio rischiare di perdere anche te».
Dipsy rimase paralizzata. Il ricordo del dolore provato quando
morirono i loro genitori la pervase. Ormai, erano rimaste solo
loro due, e sapeva che Stensy aveva ragione a volerla
proteggere. Ma, non riusciva a capire perché tutte le altre
potessero rischiare la vita per salvare le persone che amavano e
lei invece no. Si voltò di scatto verso la sorella e cercò di
spiegarle «È inutile che ti preoccupi per me. Moriremo tutte lo
stesso, se non collaboriamo. Serviranno tutte le nostre forze per
trovare la cura».
«Ce ne occuperemo noi!» ribatté Stensy duramente.
Dipsy le voltò di nuovo le spalle e strinse i pugni, emise un
lamento di rabbia e si tuffò in acqua.
Stensy strinse un pugno ed emise un urlo di rabbia soffocato in
gola «Ma, perché non capisce?» sbottò tra sé e sé.
Fridia le poggiò una mano sulla spalla per calmarla «Stensy,
ormai Dipsy è cresciuta e non potrai proteggerla per sempre».
Stensy, arrabbiata e delusa dal comportamento di Dipsy, non le
rispose, pur sapendo che Fridia aveva ragione.
Poi, Fridia si tuffò nel laghetto e la incitò «Dai, Stensy,
andiamo in superficie! Abbiamo degli umani da controllare».
Stensy la seguì e si avviarono insieme.
Le sirene si riunirono e stabilirono i turni per controllare i
movimenti degli umani.
Molti umani uscivano con le barche. E tra queste, una, più
piccola, galleggiava distante dalla riva.
Da lontano, si poteva vedere l’isola di Pandeste. La luce del
sole, ancora debole del mattino, rifletteva sull'imbarcazione,
che era quasi interamente bianca con dei disegni blu ai lati.
Quei disegni rappresentavano dei delfini che giocavano.
Una lunga scritta, anch'essa di colore blu, percorreva la
fiancata: ORIZZONTE BLU.
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A bordo, c’era Leonardo Coralli, detto Leo, un uomo alto,
robusto, di ventisei anni, con degli occhi azzurri e i capelli, a
spazzola, di un colore nero non molto scuro.
La barca non era la sua, era della sua migliore amica Sara
Antini. I due erano amici dall’infanzia e vivevano nell’isola di
Pandeste. Era stato Leo a regalarle la barca e a battezzarla con
quel nome. L’aveva comprata con i soldi che aveva ereditato
dai suoi genitori, per sdebitarsi dell’aiuto che gli avevano dato
Sara e la sua famiglia, quando era rimasto solo.
Il nome, orizzonte blu, era per ricordare a Sara che lei gli aveva
fatto vedere un nuovo orizzonte blu, quando lui vedeva il suo
mondo solo di colore nero. All'età di diciotto anni, la morte
improvvisa dei suoi genitori l’aveva fatto sprofondare nella
depressione, per la quale, senza Sara e la sua famiglia, lui
avrebbe finito per impazzire.
Leo, quel giorno, si trovava sulla barca in mare aperto, perché
Sara gli aveva chiesto di fare un lavoro per lei. Lui la aiutava
spesso nel suo lavoro, perché non era ancora riuscito a trovare
un posto fisso. Sara gli aveva chiesto di portarle dei campioni
d’acqua di mare da analizzare, perché stavano succedendo
delle cose strane in mare. Alcuni pesci stavano morendo e lei
non riusciva a scoprirne la causa.
La sua amica era convinta che la morte fosse causata da
qualche veleno. Ma, sia sui corpi dei pesci morti e sia sui
campioni d’acqua prelevati, non c’era traccia di sostanze
velenose e non riuscivano neanche a trovare pesci ammalati,
ancora vivi, per poterli analizzare. Per approfondire la
situazione, Sara aveva chiesto a Leo di prelevare l’acqua
andando più a largo in mare aperto.
Lui, in quel momento, era accovacciato su un fianco della
barca, intento a tenere una corda sott’acqua. Indossava una
camicia celeste, con le maniche rialzate e un pantalone blu
scuro. Ai piedi portava delle scarpe da ginnastica bianche.
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Quando capì che era giunto il momento, issò la corda
lentamente.
Alla fine di questa, c’era agganciata una boccetta riempitasi
d’acqua fino all’orlo. Continuò a issare la corda, cercando di
non farne rovesciare il contenuto. Prese la boccetta nelle mani
e la sganciò dalla corda. Vide che era stracolma d’acqua e ne
gettò un po’ di nuovo in mare prima di chiuderla. Poi, mise la
boccetta nella borsa rossa che aveva accanto, vicino ad altri
cinque campioni che aveva prelevato prima, riuscendo a
riempire il porta boccette.
Tutto a un tratto, udì in lontananza un rumore che richiamò la
sua attenzione. Sentì un’onda scuotere la barca. E lui, ancora
accovacciato, perse l’equilibrio e cadde seduto sul pavimento
dell'imbarcazione. Facendo leva sulle braccia, si alzò di scatto
e guardò in mare. Notò che c’era qualcosa non lontano da lui.
Vide una pinna. Sì, era una pinna! Una pinna di squalo! Guardò
verso il motore della barca e con un’altra rapida occhiata, tornò
a fissare lo squalo.
Senza accorgersene, si morse il labbro dall’agitazione. Non
sapeva che fare. Lo squalo era veloce e sarebbe arrivato su di
lui, in poco tempo, travolgendo la barca.
Tentò di restare calmo e di valutare la situazione, quando,
improvvisamente, si accorse di un cambio di direzione. Lo
squalo non era interessato a lui. Stava inseguendo qualcosa: ma
cosa? C’era qualcosa davanti a lui. Vide qualcosa di squamoso.
Poteva essere un pesce? Ma, no! Vide un braccio e una lunga
chioma di capelli spuntare in superficie. Una donna? Gli occhi
dell'uomo si dilatarono dalla paura. Devo aiutarla pensò.
Iniziò a guardare a destra e a sinistra per la barca. Poi, si
avvicinò alla cassetta di emergenza e la aprì. Prese una pistola
spara razzi e tornò a guardare in mare.
Lo squalo stava girando intorno, avvicinandosi
pericolosamente alla barca. Leo prese la mira e sparò un razzo
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luminoso in mare, stando attento a non mandarlo troppo vicino
allo squalo e alla donna. Doveva solo spaventarlo, per farlo
andare via. Attese un momento con il fiato sospeso e subito
dopo vide lo squalo allontanarsi.
A quel punto, riprese fiato. Ma vide la donna ferma in mezzo al
mare, immersa in una pozza di sangue, con la faccia rivolta in
acqua. Non si muoveva. Lui sperò con tutto il cuore che non
fosse morta. Il sangue copriva tutta la zona e lui riusciva a
vedere solo la lunga chioma di capelli castani intrisa di sangue.
Calò giù la scaletta dell'imbarcazione e si tuffò in acqua.
Nuotò verso la donna, le afferrò prontamente la testa e gliela
rivolse verso l’alto, sorreggendola con un braccio sotto la nuca.
Immediatamente, le poggiò due dita sulla gola e fece un po’ di
pressione. Sentì che c’era battito e si accorse, dal leggero
movimento del petto verso l’alto e poi verso il basso, che
respirava ancora. Leo fece un sospiro di sollievo. Ma, il sangue
della donna si stava espandendo fino a ricoprire anche lui.
Doveva fermare l’emorragia o sarebbe morta.
Mise un braccio sotto la vita della donna, ma appena la sfiorò,
ritrasse la mano. Qualcosa di squamoso lo fece rabbrividire.
Poteva essere un’alga, pensò. Ma, non poteva farsi fermare da
un’alga. Per quanto fosse viscida, non era il momento di fare
gli schizzinosi. D’altronde, lui era abituato a toccare di peggio,
avendo studiato medicina e aiutando Sara nel suo lavoro con
gli animali marini. Cinse nuovamente la vita della donna e
sentì la stessa cosa viscida di prima.
Non c’era tempo da perdere, il sangue continuava a scorrere e
la donna non dava segni di essere cosciente. Leo si fece forza e
la prese in braccio. La portò vicino alla scaletta della barca e si
assicurò di tenerla ben salda, prima di arrampicarsi. Si
aggrappò con una mano alla scala e si spinse su al primo
gradino. Ma, quando vide la parte inferiore del corpo della
donna, strabuzzò gli occhi. Non era possibile… Non poteva
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essere vero… Al posto delle gambe, ci stava una coda: una
lunga e squamosa coda rossa intrisa di sangue.
Leo perse l’equilibrio e scivolò dal gradino. Finì in acqua
trascinando giù anche lei e la liberò istintivamente. Era confuso
e intontito. La sua mente era bloccata, non riusciva a pensare.
Rimase lì per un po’. Non riusciva a voltarsi verso di lei. Restò
impietrito a fissare la scaletta della barca.
Quando, d’un tratto, la donna ebbe un sussulto e questo lo fece
tornare alla realtà. Leo la osservò. Lei era ancora in stato
d’incoscienza, nonostante la convulsione. Aveva bisogno di
aiuto. E lui non poteva lasciarla lì.
La prese in braccio e la salì sulla barca. La sdraiò su di un
tavolo di legno posto al centro della barca, e prese a guardarla.
Non poteva essere… Sembrava proprio… una sirena! Il cuore
gli batté all’impazzata, non sapeva neanche che le sirene
esistessero veramente. Per lui, erano solo delle leggende. Pensò
a uno scherzo. Ma, la donna era ferita sul serio. Lo squalo
l’aveva morsa, le aveva procurato un taglio profondo sulla coda
e la sirena stava perdendo molto sangue. La sua coda, infatti,
era rossa, ma osservandola bene, Leo capì che il suo colore
reale doveva essere il blu.
Valutò la ferita e non si perse d’animo. Aveva studiato
medicina ed era un medico a tutti gli effetti, anche se non aveva
ancora trovato un posto di lavoro per esercitare la professione.
Ma, aiutare gli altri era sempre stata la sua missione nella vita.
Questa passione gli era stata trasmessa dai genitori. Suo padre
era un medico anche lui e sua madre faceva l’assistente sociale
e aiutava le persone in difficoltà. Era stato educato in quel
modo e per lui aiutare la gente era un bisogno fisiologico. Così,
prese la cassetta del pronto soccorso e si mise a lavoro per
fermare l’emorragia e cucire la ferita, mentre la sirena rimase
priva di sensi per tutto il tempo.
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Quando ebbe finito, le lavò il corpo, levandole il sangue, che le
si era attaccato. Infine, si mise accanto a lei a fissarla, come se
fosse un’opera d’arte da studiare.
Ora, la sua coda si vedeva molto bene, era di un colore blu
intenso. Leo cercò di cogliere ogni singolo particolare di quella
creatura. Non sapeva neanche come definirla. Rimase colpito
dalla sua pelle gelida e dal suo battito cardiaco molto lento.
Pensò che fosse così perché stava riposando ed era debole. Poi,
d’un tratto, l’ondeggiare della barca gli fece venire in mente un
pensiero che lo distolse.
Si ricordò dell’onda che aveva scosso l'imbarcazione e pensò di
controllare se i campioni d’acqua che aveva prelevato avessero
subito qualche danno. Lasciò riposare la sirena e si avvicinò
alla borsa rossa. La aprì e vide che i campioni d’acqua erano
rimasti intatti. Sospirò sollevato e richiuse la borsa. Poi, rimase
lì, sul bordo della barca, a pensare, a osservare il mare, ma la
sua testa pensava a ciò che gli era accaduto: Una sirena? È
impossibile! È come le storie la descrivono: bella, affascinante.
Chissà quali altre parti delle storie sono vere: sarà buona o
malvagia?
Mentre pensava questo, la bellissima creatura si svegliò, ma
lui, immerso nei pensieri, non se ne accorse.
Dipsy aprì gli occhi e vide il cielo azzurro sopra di sé. Si voltò
in cerca di qualcuno e si paralizzò quando vide che si trovava
su di una barca. Non sapeva cosa fare. Si sentiva persa. Gli
umani dovevano averla catturata. Ansimò preoccupata. Si
guardò intorno con cautela, ma non vide nessuno. Si accorse di
essere sdraiata su di un tavolo di legno. La coda le faceva male
e lei si sentiva un po’ stordita. Controllò, di nuovo, se ci fosse
qualcuno e quando capì di essere sola, si eresse in posizione
seduta. Vide la sua coda fasciata, ma notò che lei era libera e
che nessuno l’aveva legata. Tornò a guardare se ci fosse
qualcuno nei paraggi e quando vide l’umano ebbe un sussulto.
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Si coprì la bocca per non far uscire l’urlo di paura che le stava
per sfuggire. Si accorse che l’umano era rivolto di spalle, stava
osservando il mare e non si era accorto che lei fosse sveglia.
Capì che quella era la sua occasione per scappare, altrimenti
l’uomo le avrebbe fatto del male. Controllò la via di fuga e
ancora una volta, si voltò a guardare l’umano. Quando si sentì
sicura, si mutò in forma umana e al posto della coda le
spuntarono due gambe. Poggiò i piedi a terra e si alzò,
cercando di non fare rumore. La gamba sinistra le faceva male
e con la mutazione, la fasciatura si era allargata, tanto che le
bende caddero a terra.
Dipsy vide, però, che la ferita era stata cucita e per fortuna i
punti non si erano aperti. Camminò piano, piano, zoppicando, e
andò dall’altro lato della barca, quello opposto a dove stava
l’umano. Controllò ancora una volta indietro. Lui era ancora
rivolto di spalle. La sirena sospirò sollevata e si tuffò in acqua.
Durante il tuffo, tornò a mutarsi in sirena, e al posto delle
gambe spuntò la sua lunga coda blu.
Appena Leo udì il tonfo, si voltò di scatto verso il tavolo su cui
aveva operato la sirena. Lei era sparita! Corse preoccupato
dall’altro lato della barca e guardò in mare. Vide dei cerchi
bianchi allargarsi nell’acqua. Rimase a guardare con gli occhi
spalancati. Cercò con lo sguardo la sirena, ma non la scorse.
Però, vide del sangue tornare in superficie. Ansimò
preoccupato. La ferita della sirena si era riaperta. Subito dopo,
sentì il suono delle bollicine che si formavano in acqua, come
se qualcosa stesse tornando a galla. Infine, vide risalire il corpo
della sirena.
Dipsy era debole, la ferita le faceva male. Tornò a galla e si
poggiò una mano sulla ferita per arrestare la fuoriuscita del
sangue. Il dolore non le permetteva di nuotare. Preoccupata,
guardò verso la barca e vide la figura dell’uomo che la fissava
da lì sopra. Sussultò terrorizzata e si preoccupò ancora di più,
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quando si accorse che lui stava andando a riprenderla. Tentò
ancora di nuotare, ma sapeva che era inutile. Mise la testa in
acqua e aprì la bocca. Emanò una richiesta di aiuto verso i suoi
simili. Ma, nessuno le arrivò in soccorso.
Leo scese dalla scaletta e nuotò verso di lei. La sirena tentò di
difendersi, agitando le braccia e la coda. Ma, quel gesto non
fece altro che aumentare il dolore alla ferita.
Lui cercò di tranquillizzarla, ma lei continuò ad agitarsi in
preda alla paura. Urlava dal dolore. Leo sentì le sue urla
penetrargli nelle orecchie e cercò di coprirsele con le mani, per
attutire il suono. Ma, erano talmente potenti, da non riuscire a
contrastarle. Gli entravano nel cervello, come un trapano e quel
dolore gli faceva perdere le forze e anche la ragione.
«Tranquilla! Non voglio farti del male! Voglio solo curarti!
Puoi fidarti!» le urlava lui.
Leo sentiva che stava perdendo le forze. Il dolore lo stava
facendo impazzire. Ma, con l’ultimo barlume di lucidità, riuscì
ad afferrare Dipsy e a darle un colpetto sulla ferita.
A quel punto, il dolore fu così acuto che alla sirena le si mozzò
il fiato in gola e non ebbe più la forza di urlare.
«Mi dispiace» sussurrò Leo ansimante, mentre cercava di
riprendersi. Le insopportabili urla cessarono e lui tornò ad
avere lucidità di giudizio. Ma, il dolore alle orecchie ancora
persisteva. Dipsy non ebbe più la forza di emettere alcun
suono, il dolore le tolse la parola e ogni energia dal corpo.
Rimase immobile alla mercé dell’uomo.
Una volta che Leo si ristabilì completamente, prese la sirena in
braccio e la riportò sulla barca. Riuscì ad adagiarla sul tavolo.
Lei era cosciente, anche se non riusciva a muoversi, se non con
qualche sussulto.
Lui avvicinò il proprio volto a quello di Dipsy e le accarezzò la
guancia con una mano «Tranquilla. Non voglio farti del male.
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Voglio solo aiutarti, se tu me lo permetti. Puoi fidarti» le disse
delicatamente.
La sua voce era rassicurante e la sua mano emanava un calore
mai sentito prima. Solitamente, Dipsy, come tutte le sirene non
amava il calore, che contrastava con la sua pelle fredda. Ma,
questo calore era diverso, la faceva sentire meglio: calma,
rilassata, le dava sicurezza. Si lasciò curare dall’uomo. Ma,
mentre lui la curava, il dolore fu così acuto che le fece perdere i
sensi, di nuovo.
Finito di curarla, Leo la lasciò riposare. Ma, questa volta restò
fermo lì a guardarla: “Era la cosa più bella che avesse mai
visto”. Si accorse che il battito cardiaco della sirena era rimasto
sempre molto lento, anche quando lei era agitata. Quindi, pensò
che fosse una caratteristica delle sirene avere la pelle gelida e il
battito cardiaco lento. D’altronde, per resistere in fondo al
mare, a quelle basse temperature, il corpo doveva pur adattarsi
in qualche modo.
Leo non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Era affascinato
da lei e da ciò che poteva scoprire sulla sua specie. La
osservava talmente incantato, da non accorgersi che Fridia,
Stensy e un gruppo di sirene erano salite sulla barca senza fare
il minimo rumore, fin quando non fu aggredito alle spalle.
Fridia gli cinse la gola con un braccio e Leo perse il respiro.
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Capitolo 2
Le sirene furono talmente veloci, che Leo non riuscì a capire
cosa stesse succedendo e non ebbe neanche il tempo di reagire.
Mise le mani sul braccio di Fridia per allentare la stretta. Ma,
altre due sirene lo immobilizzarono, finché lui perse tutto il
fiato e cadde in ginocchio.
Stensy vide Dipsy distesa sul tavolo di legno e si precipitò
accanto a lei. Rimase pietrificata nel vederla in quello stato. La
sorella sembrava morta! Allora, si fece forza e le poggiò due
dita sulla gola. Deglutì impaurita. Quando, tutto a un tratto,
riuscì a sentire il suo battito. Dipsy era ancora viva!
Stensy poté tirare un sospiro di sollievo. Prese Dipsy per le
spalle e la scosse forte. Ma, lei non diede nessun segno di
risposta. Stensy la scosse nuovamente e la chiamò a gran voce.
Ma, fu inutile. Preoccupata, fece cenno con la testa a una sua
amica sirena. Insieme presero Dipsy e la portano in acqua. Al
loro seguito, anche Fridia e le altre due sirene trascinarono Leo
in acqua, dove lui perse i sensi.
Stensy portò sua sorella in una grotta sottomarina, sommersa
interamente dall’acqua. Sulle pareti rocciose c’erano alghe,
fiori e conchiglie colorate che le davano luce all’interno.
Quella grotta apparteneva da tempo alla famiglia di Dipsy e
Stensy, era la loro casa. Loro due avevano aiutato la madre ad
abbellirla con tutte quelle decorazioni quando erano piccole, e
continuavano a rinnovarla ancora oggi, per renderla più
luminosa e accogliente.
Stensy distese Dipsy su un misto di terra e sabbia e si sedette
accanto a lei. La osservava preoccupata. La sorella sembrava
fosse caduta in un sonno profondo, dal quale non riusciva a
svegliarsi. Quindi, attese, finché arrivò una sirena anziana ma
ancora molto bella, che iniziò a prendersi cura di lei. L’anziana
sirena dagli occhi blu e i capelli biondi, si chiamava Alia.
18
Stensy ansimò agitata «Alia, mia sorella non si sveglia. Ho
provato in tutti i modi a scuoterla, ma non ci sono riuscita. Ti
prego, salvala».
Alia le sorrise affettuosamente «Non preoccuparti» le disse.
Srotolò il lungo lenzuolo d’alghe, che teneva sotto il braccio, in
cui conservava i suoi attrezzi. Osservò la coda di Dipsy, le tolse
la fasciatura che le aveva messo Leo e si concentrò sulla ferita.
«Chi ha curato questa ferita?» chiese a Stensy.
Questa spalancò gli occhi preoccupata «Dev’essere stato
quell’umano che abbiamo catturato!». Deglutì impaurita
«Perché? Che cosa le ha fatto?».
L’anziana sirena la tranquillizzò «Niente, tranquilla. Anzi, è
stata ricucita bene. E il suo corpo sta reagendo bene». Alia
prese una boccetta di pietra e versò il contenuto sulla ferita di
Dipsy, poi, le tamponò la ferita con delle alghe facendo un po’
di pressione. Dalla ferita uscì un liquido bianco.
Stensy la osservò perplessa. E Alia le poggiò una mano su un
braccio «Fra un po’ si riprenderà, non preoccuparti» le disse
con un sorriso materno.
Stensy tirò un sospiro di sollievo.
«Ora, scusami, ma ho altri pazienti da curare» si congedò Alia.
Stensy fece un cenno di assenso con la testa e le sorrise.
L’anziana sirena avvolse il lungo lenzuolo, in cui vi erano delle
alghe, che usava come bende, alcuni piccoli coltelli fatti di
pietra, che utilizzava per fare delle incisioni e altre cose che
utilizzava per curare, lo arrotolò e lo mise sotto il braccio.
Diede un’ultima carezza sulla testa di Stensy e nuotò via
agitando la sua lunga coda.
Stensy rimase accanto alla sorella e la guardò dormire,
dolcemente. Si sdraiò accanto a lei e le accarezzò i lunghi
capelli, la guancia e le sussurrò implorandola «Sorellina mia, ti
prego, riprenditi». Poi, le strinse la mano fra le sue, se
l’avvicinò alla bocca e gliela baciò.
19
Dopo un po’ di tempo, Dipsy si svegliò. Era stordita. Sentiva
che qualcuno le teneva la mano, e quando la riconobbe ne fu
felice. Vide la sorella sdraiata accanto a lei e si tranquillizzò
«Che cosa è successo?» le chiese. Tentò di mettersi seduta, ma
Stensy la colse di sorpresa con un abbraccio.
Poi, però, la aiutò a mettersi in quella posizione «Tranquilla, è
tutto finito. Sei al sicuro, adesso» la confortò.
Dipsy era ancora confusa, ma si strinse forte a Stensy. Sentiva
di aver bisogno di quell’abbraccio. Ricordò che poco prima
aveva rischiato di morire e ora gli serviva il conforto della
sorella. Si lasciò cullare. Ma, d’un tratto, quella sensazione di
sicurezza sparì improvvisamente.
Stensy si era staccata dall’abbraccio, le aveva posato le mani
sulle guance e la fissava duramente. Dipsy conosceva quello
sguardo. Stensy la fissava così, ogni volta che doveva sgridarla,
cioè quasi sempre.
Sua sorella aggrottò la fronte «Mi hai fatta preoccupare! Che
cosa ti è saltato in mente di fare?» la rimproverò. La sua voce
non voleva essere grossa. Ma, la paura di perderla aveva fatto
sì che succedesse.
La durezza della sua voce e del suo sguardo fece intimorire
Dipsy, che indugiò a rispondere e abbassò lo sguardo per non
doverla guardare negli occhi «Volevo aiutarvi a controllare la
zona» disse quasi con un sussurro.
Stensy le alzò la testa costringendola a guardarla negli occhi.
Doveva sfogare il terrore che aveva provato fino ad allora.
Aveva temuto di perderla e il modo più facile, ora, per sfogare
le emozioni che aveva trattenuto, era infuriarsi con lei. «Ti
avevo detto che non era un compito adatto a te! Hai visto cosa
ti è successo? Poteva andarti peggio! Per fortuna, abbiamo
sentito il tuo richiamo e siamo corse in tuo aiuto» la
rimproverò.
20
Dipsy si sentiva in colpa per aver fatto preoccupare la sorella e
non riusciva a guardarla negli occhi. E dall’agitazione, prese a
guardarsi le mani e a giocherellare con i bracciali che aveva ai
polsi. «Mi dispiace, volevo solo essere d’aiuto» si scusò.
Stensy si accorse che la sorella era realmente dispiaciuta e che
anche lei si stava comportando male. Sua sorella aveva
rischiato di morire. Chissà quanta paura aveva dovuto avere? E
lei la stava sgridando, invece di confortarla, invece di farla
sentire al sicuro. Questo non è quello che una buona sorella
dovrebbe fare, pensò. Allora, l’abbracciò di nuovo e la strinse a
sé. Tentò di allentare la tensione, ammorbidendo il tono di voce
«Non voglio che ti accada niente di male. Non sai quanto ho
temuto di arrivare troppo tardi e di non riuscire a salvarti» le
confessò.
Dipsy ricambiò l’abbraccio. Stensy sentì che la sorella stava
tremando e la cullò fra le sue braccia.
Dipsy si lasciò confortare da lei. Si stava tranquillizzando e
piano, piano stava smettendo di tremare. Che bella sensazione,
pensava. Anche se, c’era qualcosa che le mancava, qualcosa di
nuovo che aveva provato e che ora le mancava: il calore!
Questo pensiero le attraversò la mente improvvisamente.
Ciò che provava abbracciando sua sorella non era un calore
fisico, vista la loro pelle gelida. Invece, il calore che aveva
provato quando l’umano le aveva poggiato la mano sulla
guancia, era qualcosa di diverso: un calore completo, sia fisico
che mentale. E ora che aveva provato quel calore diverso, che
le penetrava la pelle fino a darle un brivido, sentiva che in
quest’abbraccio mancasse qualcosa.
E lì si ricordò «Dov’è l’uomo che era con me sulla barca?»
chiese.
Stensy la fissò interdetta. «Fridia lo sta interrogando» le
rispose. Le accarezzò la guancia per tranquillizzarla «Non
preoccuparti gliela farà pagare per quello che ti ha fatto».
21
«No!» Dipsy spalancò gli occhi e con uno scatto, nuotò subito
via.
Stensy aggrottò la fronte perplessa. Non riusciva a
comprendere il gesto della sorella. Però, la seguì.
Dipsy nuotava avanti a lei, ma stranamente andava sempre più
veloce. Stensy non riusciva a starle dietro, non riusciva a tenere
il suo passo. Poco dopo, si accorse che non era Dipsy che
andava troppo veloce. Ma, era lei che stava andando troppo
lenta. E allora, si fermò per capire. Si sentiva strana. Provò a
chiamare Dipsy. Ma, una fitta allo stomaco le mozzò il fiato. Si
premette le braccia contro lo stomaco, per calmare il dolore.
Ma, non ci riuscì. Senza accorgersene si morse il labbro
inferiore a causa del dolore. Guardò avanti in cerca della
sorella, ma le era sparita ormai dalla sua visuale. Stensy rimase
un po’ lì immobile. Ansimava. Attese impaurita e poco dopo, la
fitta sparì. Continuava ad ansimare, ma era sollevata che la fitta
fosse sparita. E una volta ripresasi, ripartì per raggiungere
Dipsy.
E nel frattempo, in una grotta a poca distanza da dove si
trovava Stensy, Leo aprì gli occhi. Si ritrovò sdraiato. La sua
schiena poggiava su qualcosa di duro e gelido. Il suo corpo era
intorpidito dal freddo. Si sentiva stordito. Non capiva cosa
fosse successo. Tossì ripetutamente. La sua vista era
annebbiata, ma piano, piano cominciò a schiarirsi.
Leo iniziò a tremare. L’aria era così gelida che faceva fatica a
respirare e il suo respiro ansimante creava delle nubi di vapore.
Staccò le spalle dal terreno e si sedette. Si abbassò le maniche
arrotolate della camicia e si sfregò le braccia con le mani,
cercando di riscaldarsi. Ma, i suoi vestiti erano inzuppati
d’acqua e gli sembrava di indossare delle lastre di ghiaccio
pesanti.
Quando la sua vista si schiarì completamente, cominciò a
guardarsi intorno. Nel posto in cui si trovava, era interamente
22
circondato da pareti rocciose. Capì di trovarsi dentro una
grotta. Cercò di delineare la zona con lo sguardo per trovare
un’uscita.
Vide un buco tra le rocce, ma all’interno era buio e si
meravigliò del fatto che nella zona in cui si trovava lui, ci fosse
molta luce. Notò qual era la fonte d’illuminazione. Era l’acqua
del laghetto che procurava tutta quella luce e illuminava la
stanza. Leo guardò il laghetto più intensamente. C’era qualcosa
all’interno, che rendeva l’acqua fosforescente: sembravano dei
coralli.
L’azzurro luminoso rifletteva sul suo volto. Quel colore era
talmente bello, che… La sirena! Leo si ricordò. Ero sulla barca
con la sirena! Che cosa è successo? Si guardò di nuovo
intorno, ma era da solo in quel luogo. Dove si trovava la
sirena?
Improvvisamente, sentì un suono provenire dall’interno del
laghetto e si voltò a fissarlo. Vide la sua immagine riflessa
nell’acqua muoversi e delle bolle allargarsi sulla superficie
dell’acqua. Trattenne il fiato.
«Buh!».
Leo sussultò e si spinse all’indietro.
Fridia salì in superficie e scoppiò in una risata maliziosa, che lo
fece rabbrividire.
Lui rimase immobile, seduto sul terreno ghiacciato, col respiro
affannoso, mentre Fridia uscì dall’acqua.
Quando la parte inferiore del suo corpo fu completamente
fuori, Leo inarcò le sopracciglia sorpreso. Aveva le gambe! La
donna aveva le gambe! Ma, dal vestito che indossava, simile a
quello che indossava la sirena che lui aveva salvato e portato
sulla barca, lei doveva essere una sirena. Invece, aveva le
gambe! Poteva essere vero, che le sirene potessero mutare in
forma umana? Poi, ricordò che nella confusione, un attimo
prima di perdere i sensi, era riuscito a vedere delle donne con
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le gambe, che si avvicinavano alla sirena che aveva salvato. E
questo confermò la sua tesi.
«Ti ho spaventato? Scusami, non volevo» gli disse Fridia, con
un sorriso che diceva tutt’altro.
Leo indietreggiò ansimante «Chi sei tu?». L’imponenza di
Fridia lo sconfortava ad alzarsi in piedi.
Lei non rispose e avanzò minacciosa verso di lui.
Leo capì, dal suo sguardo di ghiaccio, che le sue intenzioni non
erano buone e tentò di alzarsi. Ma, venne afferrato da due
tritoni, che gli strinsero i polsi e gli spinsero le spalle giù,
costringendolo a sedersi nuovamente. Leo non si era accorto di
loro e non riuscì a reagire in tempo.
Fridia, davanti a lui, lo guardava dritto negli occhi. I suoi occhi
grandi e gelidi incutevano timore.
Lui sentì una ventata gelida penetrargli nelle ossa. Ma, non era
solo per la paura, la temperatura in quel luogo era molto bassa
e i suoi vestiti bagnati, non lo aiutavano per niente a riscaldarsi.
Leo mantenne lo sguardo di Fridia «Dove mi trovo?» le chiese.
Fridia sorrise con un ghigno malizioso «In fondo al mare. A
migliaia di km in fondo al mare. Nessun umano può arrivare
fin qui senza il nostro aiuto… E nessuno può scappare»
puntualizzò.
Leo capì che quell’ultima frase era riferita a lui. Sentì dei
rumori intorno a lui e vide arrivare in successione altre sirene e
tritoni nella grotta. Alcuni arrivarono dai passaggi interni della
grotta e altri emersero dal laghetto. Ne uscirono così tanti che
gli sembrò non finissero più.
I tritoni avevano il petto nudo e portavano anche loro una sorta
di gonna, che gli arrivava fino alle ginocchia, come le sirene.
Ma, questa era diversa da quella delle sirene, era fatta solo
d’alghe di un colore scuro, per incutere timore. Ai polsi,
avevano dei bracciali fatti con la stessa alga scura. E sulla vita,
un laccio a cui era appesa una sacca verde.
24
Leo sentiva le mani dei due tritoni dietro di lui, stringergli i
polsi e bloccargli le spalle, costringendolo a stare seduto. La
loro forza lo immobilizzava.
Fridia lo guardava immobile.
«Che cosa volete da me? Perché mi avete portato qui?» gli
chiese Leo.
Fridia guardò intorno a sé, come per cercare gli sguardi degli
altri che erano lì. Sorrise compiaciuta e si voltò di spalle verso
di lui. Rientrò in acqua, lasciando fuori solo la parte superiore
del corpo e tornò a fissare Leo «Cosa stavi facendo alla nostra
amica?» gli domandò impassibile.
Leo era confuso, tutto ciò che gli stava accadendo gli aveva
bloccato la mente. Non riusciva a pensare. Poi, si ricordò «Parli
della sirena che era con me sulla barca?».
Fridia rimase immobile, senza fare nessun cenno, insieme a
tutti gli altri che lo guardavano. Ma, Leo riuscì a capire che
stava parlando proprio di lei.
«Era stata ferita da uno squalo, stava perdendo molto sangue e
l’ho portata sulla barca per curarla» le spiegò con calma.
Fridia alzò il tono della voce e ripeté più lentamente «Che cosa
volevi farle?».
Leo sentì la voce di Fridia rimbombare nella grotta. La stretta
sui suoi polsi da parte dei due tritoni si fece più forte. Però, Leo
non tolse lo sguardo dagli occhi di Fridia, per dimostrarle che
non stava mentendo «Ho visto che aveva bisogno d’aiuto e le
ho prestato soccorso» le spiegò un’altra volta.
Fridia fece un cenno con la testa ai due tritoni che tenevano
Leo e questi aumentarono la stretta.
Leo stava iniziando a perdere la sensibilità alle mani. I due
tritoni lo trascinarono vicino a Fridia e lo costrinsero a sdraiarsi
a pancia in giù. Gli premettero le loro ginocchia contro la
schiena e gliela schiacciarono con le loro gambe,
inchiodandolo a terra.
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Leo emise un lamento, ma cercò di soffocarlo in gola.
Fridia s’immerse ancora di più in acqua fino a lasciare fuori
solo la testa. Pose il suo viso di fronte a quello di Leo e gli
afferrò i capelli con la mano «Sulla tua barca abbiamo trovato
delle siringhe, delle boccette e delle corde. Che cosa stavi
facendo?». La sua voce rifletteva una calma che faceva terrore.
Leo sentiva il peso dei due tritoni schiacciargli la schiena e
comprimergli la gabbia toracica. Questo gli impediva di
respirare bene. Era immobilizzato. Quei tritoni non gli davano
margine di movimento ed erano grossi il doppio di lui.
Digrignò i denti dal dolore «Stavo analizzando l’acqua» le
confessò.
«Perché?» chiese Fridia.
Leo pensò che se le avesse detto che era stata Sara a chiedergli
di farlo, le sirene avrebbero potuto perdersela con lei, e decise
di non parlargliene. Doveva evitare di metterla in mezzo a
questa storia. «Temo che sia avvelenata» affermò.
«E chi la sta avvelenando?» gli domandò la sirena.
La mascella di Fridia si era irrigidita. Questo fece capire a Leo
che stava per perdere la pazienza.
«Non lo so» le rispose, tentando di convincerla.
Di colpo, lei spinse con la mano la testa di Leo e gliela calò in
acqua, costringendolo a tenerla sotto.
Lui provò a dimenarsi. Non aveva preso il respiro e non aveva
abbastanza fiato. Ma, non riuscì a contrastare la forza di Fridia,
che continuava a tenergli la testa sott’acqua, mentre i due
tritoni gli schiacciavano la gabbia toracica e gli trattenevano i
polsi. L’acqua era gelida. Pensò che per lui fosse arrivata la
fine. Quando, d’un tratto, Fridia gli tirò la testa fuori.
Leo sentì la sua faccia diventare un ghiacciolo. Gli doleva. Era
talmente fredda che la sentì bruciare. Pensò di non riuscire più
a muovere la mascella, mentre l’acqua gli colava dal viso, sul
collo e poi, sul petto.
26
Ansimava e tremava di freddo. Sentiva la mano di Fridia
tirargli i capelli, costringendolo a tenere la testa in alto. Quando
l’acqua scivolò via dai suoi occhi e questi smisero di bruciargli,
la sua vista tornò a schiarirsi e vide che Fridia lo fissava dritto
negli occhi.
I suoi occhi avevano cambiato espressione, erano colmi d’ira.
La sirena digrignò i denti e aumentò la sua stretta sui suoi
capelli. «Perché dovrei crederti?» gli chiese. Cominciò a
muovergli la testa, tirandogliela di qua e di là, e gli rivelò «Sai
cosa penso? Che secondo me tu stavi avvelenando l’acqua e
poi hai trovato una sirena, l’hai ferita e catturata!». Gli bloccò
la testa di colpo.
Leo si difese «No… ti prego». Cercò di riprendere fiato «Ti
prego, credimi… io stavo analizzando l’acqua…, poi…, poi, ho
visto la vostra amica che era inseguita da uno squalo e l’ho
allontanato. Quando ho visto che era ferita… l’ho portata sulla
barca e l’ho curata» cercò di spiegarle. Si sentiva la testa girare
e chiuse gli occhi per provare un po’ di sollievo.
Fridia sorrise beffarda e guardò gli altri che erano lì «Ah, allora
abbiamo un eroe, un eroe che protegge le sirene».
Le sirene e i tritoni intorno a lei lo derisero.
Fridia ributtò la testa di Leo in acqua, la trattenne un po’ e poi,
la fece riemergere. «Hai attaccato una di noi e stai avvelenando
la nostra città. Sei responsabile della morte di tre nostre
amiche. Non pensare di poterla passare liscia. Se si dovesse
ammalare qualcun’altra, ti torturerò all’infinito. Non mi
fermerò finché non mi avrai detto la verità!» lo minacciò.
Fridia andò avanti a torturare Leo, immergendogli ed
emergendogli la testa sott’acqua, più e più volte. Quando, d’un
tratto, Dipsy emerse dal laghetto azzurro «Fermi! Lasciatelo
stare» urlò.
Leo respirava a fatica e non riconobbe subito Dipsy, perché
l’acqua del mare gli faceva bruciare gli occhi. Poco dopo,
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riuscì a vederla e dalla bocca si allargò un leggero sorriso: era
contento nel vedere che stesse bene.
Fridia e gli altri presenti osservarono Dipsy sbigottiti.
Poi, Fridia nuotò verso di lei e le poggiò le mani sulle spalle
«Dipsy, stai bene?» le chiese sollevata.
Dipsy le diede poca retta «Sì, sto bene. E se sto bene è merito
suo» le riferì indicando Leo. «Lui mi ha salvato la vita.
Lascialo stare» le spiegò.
Fridia la fissò sconcertata. Diede una rapida occhiata a Leo e
glielo indicò con l’indice della mano «Dipsy, lui non ti ha
salvata per aiutarti, lui l’ha fatto solo perché voleva
analizzarti». Le poggiò nuovamente le mani sulle spalle e la
fissò negli occhi «Voleva portarti sulla terraferma come trofeo
e analizzarti, come fanno tutti gli umani con le altre specie» le
disse con calma.
Dipsy guardò Leo, che la fissava digrignando i denti dal dolore
che gli provocavano le torture a cui Fridia lo stava
sottoponendo, e scambiò quell’espressione per rabbia e odio.
Pensò che le parole di Fridia dicessero il vero e che l’uomo
volesse farle del male. Abbassò lo sguardo e sospirò delusa.
«No! Non è vero. Io volevo solo aiutarti» le urlò
immediatamente Leo.
Dipsy alzò lo sguardo verso di lui.
Fridia l’avvertì «Non farti ingannare. Sta mentendo! Lui e gli
altri umani stanno avvelenando il mare, ricordalo! Ci stanno
uccidendo!».
Dipsy osservò il volto di Leo. Sembrava sincero. Ma, non
poteva fidarsi di lui: di un umano. Fridia aveva ragione.
Mentre pensava ciò, tutto a un tratto, sentì una voce flebile
dietro di lei chiamare il suo nome «Dipsy?».
Si voltò indietro insieme agli altri presenti.
Stensy era al centro del laghetto, tremava e cercava lo sguardo
della sorella. «Dipsy?» ripeté con voce ridotta a un sussurro.
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Emise un ultimo lamento e poi, cadde in acqua di schiena. La
pesantezza del colpo provocò un rumore che echeggiò in tutta
la grotta. Stensy andò giù e poco dopo, il suo corpo ritornò su
galleggiando inerme.
29
Capitolo 3
Dipsy nuotò velocemente verso Stensy. Fridia la seguì.
Poi, Dipsy scosse la sorella «Stensy! Stensy!» la chiamò.
Stensy era cosciente, ma non riusciva a reagire.
Dipsy e Fridia la trascinarono fuori dall’acqua e la adagiarono
sul terreno.
Le altre sirene e i tritoni le si avvicinarono per vedere come
stava. I tritoni che tenevano Leo, anche loro preoccupati,
liberarono la stretta e Leo cadde con la faccia in acqua. I due
tritoni si avvicinarono al gruppo riunito in cerchio intorno a
Stensy.
Leo riuscì a togliere la testa dall’acqua e indietreggiò,
strisciando con le braccia e le gambe. Finalmente, aveva i polsi
liberi e non si sentiva più schiacciato dal peso dei due tritoni.
Ma, non riusciva ancora a respirare bene. Cadde, di nuovo,
faccia a terra e rimase in quella posizione cercando di
riprendersi.
Poco distante da lui, all’interno del cerchio formato dalle sirene
e dai tritoni, Stensy era adagiata sul terreno, immobile, con la
sua lunga coda squamosa distesa sul terreno.
Dipsy, seduta accanto a lei, la teneva fra le braccia preoccupata
«Stensy! Stensy! Cos’hai?».
Stensy faceva fatica a parlare «Dipsy, aiutami» implorò con
quel filo di voce che le usciva dalla bocca.
Dipsy aveva gli occhi spalancati dalla paura. «Stensy! Ti prego,
reagisci. Devi farcela. Non puoi lasciarmi!» la implorò.
Fridia, accovacciata, immobile, accanto a Dipsy, distolse lo
sguardo di lato e si morse il labbro inferiore «Il veleno ha
colpito anche lei!» esclamò con lo sguardo perso nel vuoto.
Tutti si rivolsero a guardarla e tra di loro calò un silenzio che
riempì la grotta.
Caro lettore! Ti ringrazio per la fiducia che hai mostrato nel leggere questo e-
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Timida e riservata, dà sfogo al suo essere, tramite la scrittura.
Durante una lezione universitaria di Storia della Magna Grecia,
sente parlare della Sirena Partenope, la cui leggenda è ambientata
nel Golfo di Napoli. E da lì, capisce che per trovare l’ispirazione
non deve percorrere luoghi lontani, ma rifugiarsi nella cultura ita-
liana: una delle culture più importanti e riconosciute al mondo.
Ispirata dalla vicinanza del luogo, che le fa respirare quell’aria
mitica, nel 2015, scrive il suo primo romanzo, intitolato “Le Sire-
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Cristina