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ARCIDIOCESI di LUCCA Lucca 2009 Le tappe del cammino di fede Introduzione alla lettura del Libro dell’Esodo In capite libri scriptum est de me C entro B iblico D iocesano

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ARCIDIOCESI di LUCCA

Lucca 2009

Le tappe delcammino di fede

Introduzione alla letturadel Libro dell’Esodo

In capite libri scriptum est de me

CentroBiblicoDiocesano

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Centro Biblico Diocesano

Il desiderio di riflettere sull’iniziazione cristiana, le sue modalità e i suoi percorsi, ha indotto la nostra Chiesa a scegliere per quest’anno il Libro dell’Esodo, come sua lettura continuata.

Racconto fondatore della nascita di un popolo, narrazione dei suoi primi passi sotto la pedagogia di Dio verso una piena maturità di fede, racconto del suo pervenire all’Alleanza con il suo Dio, il Libro dell’Esodo offre una luce per non solo per comprendere il senso del nostro cammino di fede, ma anche per riattivare in noi le energie per riprenderlo e proseguirlo.

Con questo fascicolo il Centro Biblico offre una sintesi introduttiva ed alcune schede di lettura di testi scelti per sostenere la riflessione delle comunità, invitate a riscoprire come iniziare oggi alla fede in Cristo Signore.

Hanno collaborato con il sottoscritto (curatore dell’introduzione e delle schede III, IV e VII) alla realizzazione di questo strumento di lettura la prof. Elisabetta Urbano (schede I e V), don Francesco Bianchini (scheda II), don Claudio Francesconi (scheda VI) e don Franco Raffaelli (schede VIII e IX).

Affidiamo al Signore questo lavoro perché possa servire, per sua bontà, al cammino della nostra Chiesa. Lucca, 23 ottobre 2009

Luca Bassetti

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Parte I

Note introduttive

Tra tutti i testi dell’Antico Testamento il Libro dell’Esodo occupa senza dubbio un posto di primissima importanza. Per Israele esso rappresenta il cuore della Torah (il Pentateuco), la parte principale della Scrittura santa, che i profeti ed i sapienti non hanno mai cessato di rileggere, ascoltare e commentare, riconoscendovi il fondamento sempre vivo ed attuale della loro fede. Sullo stesso fondamento storico-salvifico gli autori del Nuovo Testamento non hanno potuto fare a meno del racconto dell’Esodo per comprendere la persona, la missione e l’opera del loro Signore Gesù, che con la sua autenticità di vita ha ripercorso tutta la vicenda del popolo, portandola a compimento con la sua pasqua, sigillo della nuova ed eterna alleanza e del suo comandamento nuovo. Sulla base dell’indicazione dello stesso Gesù, che ha incessantemente modellato la sua vita sulla parola delle Scritture ed ha insegnato a riconoscere la sua voce nella parola di Mosé e dei Profeti (Lc 4,21; 9,30s; 24,27.44s), le successive generazioni cristiane hanno ripetutamente riletto ed interpretato la sua persona e la sua vicenda alla luce dei racconti e delle figure delle antiche Scritture, soprattutto del Libro dell’Esodo. Tanto per i figli di Israele quanto per i rigenerati dalla Chiesa il racconto esodico ha costituito, di generazione in generazione, il punto di riferimento per comprendere il cammino e l’identità dei credenti, lo specchio nelle cui immagini riconoscere il senso della loro storia e del cammino loro aperto dall’amore di Dio. La narrazione dell’Esodo, con i ripetuti interventi di Dio, nella vita del suo popolo, con la potenza del suo braccio che libera e salva i poveri e gli oppressi, con gli appelli di fiducia spesso non corrisposti e con le tappe faticose di un cammino incerto, ma carico delle sorprese di una misericordia sempre rinnovata, ha costituito lungo i secoli il luogo interpretativo e la chiave di lettura dell’esistenza dei credenti. Tutti i figli di Dio possono dunque riconoscere nel secondo libro della Legge il principio, le tappe e il senso del loro cammino di fede, sino alla consumazione dell’alleanza, adesione di fiducia libera e piena al loro Dio che offre il suo amore, chiedendo di essere corrisposto. La lettura dell’Esodo si offre a tutti i credenti nel Dio di Israele e nel Signore Gesù Cristo come invito a riscoprire gli inizi, le tappe ed il senso complessivo del loro cammino guidato dalla pedagogia provvidente di Dio, sino all’approdo ad un patto di alleanza come atto di amore gratuito e senza riserve. Ecco l’importanza di ritornare ripetutamente alla lettura di un testo fondatore.

1. L’importanza di un testo fondatore

Se il Libro della Genesi affonda nella memoria delle radici dei figli di Israele nell’elezione di Abramo e, a ritroso, nella comune discendenza universale da Adamo, è il Libro dell’Esodo che narra delle origini di Israele come popolo di Dio, che risponde all’elezione con la libera adesione dell’alleanza. Il Libro dell’Esodo racconta dunque come una massa di schiavi, senza diritti né dignità diventa un popolo libero, che accoglie l’amore del suo Dio, si fida di Lui nella difficoltà delle prove e gli si consegna con un patto stabile di alleanza. Il libro, nella sua forma ultima, è il frutto tardivo di una lunga tradizione memoriale. Il tramandamento degli avvenimenti originari (schiavitù, uscita dall’Egitto, cammino nel deserto, alleanza al Sinai), invece, comincia già con le prime generazioni degli schiavi liberati che, in forza di un precetto divino, consegnano di padre in figlio la memoria viva di eventi salvifici, resi attuali dal racconto di fede e dalla celebrazione rituale che lo accompagna. Nella ricorrenza annuale dell’uscita-liberazione dall’Egitto, che prende il nome di Pasqua-passaggio, l’intero popolo, famiglia per famiglia racconta, in modo costantemente riattualizzato, la memoria dell’amore misericordioso e liberante del Dio dei padri. Tale memoria deve avere molto presto assunto la forma di un racconto scritto, molto breve ed essenziale, incentrato sull’intervento di Dio nei confronti dell’Egitto e sulla liberazione di Israele attraverso il sangue dell’agnello e il passaggio del mare. La narrazione di base della Pasqua è divenuta il nucleo originario di tutte le narrazioni successive, arricchite dalla memoria di nuovi eventi dell’eterna misericordia di Dio (Sal 136), tutti compresi nella luce dell’evento fondatore della liberazione dell’Egitto. La narrazione allargata successiva ha interpretato tutto il seguito della storia di Israele, sino all’esilio e alla promessa del ritorno (la storia deuteronomista e cronista, da Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele e 1-2 Re, fino 1-2 Cronache, Esdra e Neemia e 1-2 Maccabei), nella luce della narrazione di base dell’Esodo. I profeti, da parte loro hanno cercato di riproporre in modo vivo ed attuale per il loro tempo la forza dell’appello di Dio alla conversione e le esigenze più profonde che scaturivano, dall’alleanza mosaica, facendo risuonare nell’oggi la stessa voce di Mosé. I loro oracoli, raccolti soprattutto dopo l’esilio, insieme con le narrazioni storico-teologiche sempre più allargate,

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hanno assunto progressivamente la forma del libro biblico. I testi di Mosè e dei Profeti, letti incessantemente nella sinagoga in epoca post-esilica, hanno generato i Libri Sapienziali e i testi Apocalittici, nei quali una comunità per lo più dispersa ha mantenuto viva la fede dei padri, cercando di guardare al futuro con occhio di speranza e gridando la sua attesa di un nuovo intervento di Dio nei confronti del suo popolo, come agli inizi. In modo analogo a quanto è accaduto per il Nuovo Testamento, dove la brevissima narrazione dell’annuncio (kerygma) della morte-risurrezione di Gesù (ad es. 1Cor 11 e 15), ha generato le testimonianze attualizzate degli apostoli (lettere paoline) le memorie allargate degli evangelisti e le riflessioni teologico-sapienziali della successiva letteratura epistolare ed apocalittica, la narrazione di base dell’Esodo rappresenta il nucleo generatore di tutto l’Antico Testamento. Ad indicare con una significativa metafora tutto l’insieme della Scrittura veterotestamentaria si potrebbe identificare l’Esodo con il tronco di un albero di cui la Genesi descrive la radice più profonda, mentre i testi successivi (storici, profetici e sapienziali) presentano lo sviluppo dei rami.

Ecco l’importanza del Libro dell’Esodo, nella sua natura di testo fondatore della fede di Israele: esso contiene la narrazione kerygmatica dell’amore elettivo di Dio, a cui il popolo è dovuto incessantemente tornare per riaccendere la speranza e mantenere fedeltà al patto originario di alleanza, anche in tempi difficili. Per meglio comprendere il messaggio di questo fondamentale scritto è necessario individuare la sua struttura letteraria e cogliere, subito dopo, il senso della sua successione narrativa.

2. La struttura letteraria

Per scoprire una possibile e coerente articolazione interna del libro si può partire dalle variazioni di contesto geografico in cui si svolge la vicenda: l’Egitto, il deserto, il Sinai. Il luogo della schiavitù è (con la breve parentesi dei capp. 3-4) il grande scenario della prima parte del libro (1,1-15,21). Con la fine del capitolo 15 si apre il cammino del deserto, con una breve sequenza di episodi che termina al capitolo 18, a formare una sezione letterariamente omogenea i cui cinque episodi presentano una struttura fondamentalmente analoga (15,22-18,27). Il percorso nel deserto approda ai piedi del Sinai, la santa montagna nella quale il Signore scende e si manifesta con l’offerta di un patto di amore, sigillato nel dono della legge e nel rito del sangue. L’ultima parte del libro, la più lunga, che occupa almeno la metà dell’intera narrazione (19-40), si rivela a prima vista anche la meno omogenea; in realtà anch’essa presenta dei legami interni che ne segnano l’unità di fondo, facendone emergere, dal punto di vista letterario, una composizione bipartita (19,1-24,11 e 22,12-40,38) Il Libro dell’Esodo può considerarsi dunque formato da quattro parti, ciascuna con una sua precisa e coesa articolazione letteraria.

2.1 L’Egitto, luogo di schiavitù: la prova e la salvezza (Es 1,1-15,21) La prima parte è segnata da una grande inclusione che fa da cornice a tutto il racconto: dal gemito della

schiavitù, che si innalza fino a Dio, al canto della liberazione, oltre il Mar Rosso; dallo sterminio dei bambini ebrei alla morte dei primogeniti egiziani; dalla fuga di Mosè per ottenere salvezza alla fuga di Israele per conseguire la liberazione. Ai capp. 1-2 vengono così a corrispondere i simmetrici capp. 12,1-15,21.

Anche nella sezione intermedia della prima parte è possibile scorgere una corrispondenza incentrata sui protagonisti Mosè e Aronne: la vocazione di Mosè, con la missione assegnatagli da Dio, e la funzione di Aronne vengono riproposte in 3-4 e in 6,1-7,5.

I passi rimanenti presentano anch’essi un parallelismo di tipo antitetico: la piaga rappresentata dal dominio dispotico del faraone sul popolo oppresso si rovescia nelle piaghe con cui il Signore Dio colpisce l’Egitto ed il faraone per liberare il suo popolo.

Ecco dunque una possibile strutturazione letteraria della prima parte: a) Es 1-2: Oppressione e sterminio dei bambini ebrei. Nascita e fuga di Mosè. Gemito e lamento del

popolo oppresso b) Es 3-4: Vocazione-missione di Mosè; funzione di Aronne c) Es 5: La piaga inflitta al popolo dal faraone ed il suo confronto con Mosè e Aronne b’) Es 6,1-7,5: Vocazione Missione di Mosè: funzione di Aronne c’) Es 7,6-11,10: Le piaghe inflitte da Dio al faraone e all’Egitto attraverso Mosè e Aronne

a’) Es 12,1-15,21: Sterminio dei primogeniti Egiziani; fuga-nascita del popolo; canto di liberazione

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Il movimento della prima parte risulta in tal modo abbastanza chiaro: la situazione di oppressione in cui versa il popolo da parte degli Egiziani si ritorce contro gli stessi sudditi del faraone, mentre la situazione degli Ebrei si rovescia anch’essa, da popolo di schiavi sfruttati e senza dignità, che grida la propria miseria, a popolo libero capace di cantare, sotto la mano benefica di Dio, la gioia della sua salvezza, il mistero di una nuova nascita. L’intreccio della parte centrale, con il parallelismo tra l’azione di Dio su Mosé e Aronne e quella, attraverso la loro mediazione, sul faraone e sull’Egitto, mostra efficacemente il crescendo di uno scontro, il prodursi di un progressivo indurimento che infrange la situazione in atto. 2.2. Il deserto, luogo della crescita: la tentazione e il dono (Es 15,22-18,27) Liberato dall’Egitto, il popolo si ritrova immesso nel difficile cammino del deserto. Brusco appare il passaggio narrativo dall’esultanza sulla riva del mare (15,1-21) al lamento di Mara (15,22-27), a denotare uno scenario completamente mutato. Israele è libero dai suoi oppressori, ma dovrà ancora imparare che cos’è la vera libertà al servizio del suo Dio e nell’affidamento totale a lui: il deserto è il luogo tipico di tale apprendistato, la scuola della fiducia incondizionata nel Signore Dio, la pedagogia paziente che forma alla capacità di amare, alla libertà di una gratuita adesione al patto di alleanza.

I cinque episodi che scandiscono il cammino tra l’Egitto e il Sinai si presentano come tappe progressive di un cammino di rivelazione-affidamento, in cui la prova e la tentazione preparano l’accoglienza del dono di Dio. Ognuno di essi si apre e si chiude con formule di viaggio il cui scenario costante è il deserto. Il primo e l’ultimo presentano un’inclusione nel comune riferimento a leggi e comandi dati dal Signore (15,25-26) e nella necessità di farli conoscere ed applicarli mediante l’istituzione di un’autorità che affianchi Mosè a tale scopo (18,16-26). Anche il 2° e il quarto contengono un riferimento al comandamento di Dio, che sembra collegarli: dalla legge del sabato che è memoria dei benefici di Dio creatore-salvatore al comando di scrivere un libro-memoria della salvezza dal nemico perenne, per ricordare che, come si resta permanentemente sotto l’azione benefica di Dio creatore, così si rimane sempre esposti all’intervento distruttivo di un nemico vile, che prende alla sprovvista, per cui occorre costantemente ricordare, anche attraverso la scrittura che si è sempre nel bisogno di essere salvati. Tenendo conto di questi particolari richiami interni, anche questa sezione potrebbe articolarsi in modo concentrico:

a) 15,22-27 – Mara: prova della malattia attraverso l’acqua amara poi risanata e dono di una legge da

osservare Dio è il «Medico» b) 16,1-36 – Deserto di Sin: prova della fame e dono della manna e delle quaglie, con la legge del sabato Dio è il «Saziatore»

c) 17,1-7 – Refidim: prova della sete-assenza di Dio e dono del suo intervento Dio è il «Presente in mezzo a Israele»

b’) 17,8-16 – Refidim: prova dei nemici e dono della vittoria-liberazione con la legge della memoria-scrittura del libro Dio è il «Vessillo»

a’) 18,1-27 – Refidim: prova di una giustizia insufficiente e dono dei giudici per osservare le leggi Dio è il «più grande di tutti gli dèi»

Ogni episodio presenta generalmente lo stesso schema, segnalando una mancanza vitale (oggetto della

prova-tentazione) risolta da Dio attraverso la mediazione di Mosè (esperienza del dono): 1) Cammino e insorgere del problema 2) Contestazione-lamento del popolo (manca nel 4° e 5° episodio) 3) Intercessione di Mosè (manca nel 2° episodio) 4) Intervento di Dio Negli ultimi due episodi, dove il problema insorge per cause umane, la contestazione sparisce: nel primo di

essi la soluzione è suggerita da Dio; nel secondo da Jetro, senza intervento divino. Ogni tappa si configura come prova: all’inizio è Dio che mette alla prova Israele (15,25; 16,4), poi è Israele che mette Dio alla prova (17,2.7). La reazione del popolo è «mormorazione» (15,24; 16,2.7.8; 17,3) «accusa» e «protesta» (17,2.7). Essa si concentra nei primi tre episodi, mentre scompare negli ultimi due. L’attrazione regressiva per l’Egitto è la costante nostalgica dei primi episodi, sino a scomparire negli ultimi. Mosè è il portavoce mediatore di Dio, l’intercessore, pastore, legislatore, profeta interprete, giudice, attraverso il quale passa l’azione di Dio; nell’ultimo episodio la sua mediazione perde un po’ della sua unicità a motivo dell’istituzione dei giudici. Dio appare dietro le quinte del racconto, con il suo potere di Creatore provvidente ed educatore paziente, che lo rende padre e madre per il popolo. Il suo intervento si nasconde costantemente dietro le mediazioni umane. Ad ogni tappa la prova-tentazione sembra avere il carattere di una preparazione pedagogica ad accogliere il dono di Dio, sino al dono supremo dell’alleanza sul monte Sinai.

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2.3 Il Sinai, luogo dell’Alleanza: il dono della Legge (Es 19,1-24,11) Anche questa terza parte del libro può considerarsi letterariamente strutturata in modo concentrico, con le

scene disposte come segue: a) 19,1-8a: Arrivo al Sinai ed offerta di Alleanza

b) 19,8b-15: Istruzioni per la teofania c) 19,16-25: Teofania

d) 20,1-17: Le leggi del «Decalogo» c’) 20,18-20: Teofania

d’) 20,21-23,19: Le leggi del «Codice di Alleanza» b’) 23,20-33: Istruzioni per l’ingresso nella terra

a’) 24,1-11: Solenne stipulazione dell’Alleanza

L’insieme dei capitoli 19-24 appare così, già a prima vista, ben strutturato in modo concentrico: gli elementi iniziali e finali si corrispondono e si richiamano, incorniciando ed evidenziando la parte centrale. Alla prima scena (19,1-8a), in cui il Signore ricorda la sua assistenza premurosa nel cammino appena compiuto ed offre l’invito all’Alleanza, con la risposta pronta del popolo ad obbedire alla sua voce, corrisponde l’ultima (24,1-11), in cui gli impegni dell’Alleanza scritti nel libro che Mosè legge al popolo sono consapevolmente accolti nella stipulazione del patto sigillato nel rito del sangue.

La seconda scena, così come la penultima, contiene invece alcune istruzioni in preparazione rispettivamente alla manifestazione incontro con Dio sul monte e all’ingresso-possesso della terra promessa, la cui effettiva ereditabilità risulta così strettamente legata all’adempimento degli impegni presi nell’Alleanza.

La parte centrale (c-d; c’-d’) alterna invece in due tempi il racconto della teofania con le istruzioni del Decalogo prima e del Codice dell’alleanza poi. La posizione del Decalogo emerge così per la sua centralità, nella cornice della teofania, tra l’invito di Dio, corrisposto anticipatamente dal popolo, e la stipulazione liturgica del patto, attraverso il rito della lettura del libro e dell’aspersione del sangue.

Il contesto così marcatamente celebrativo nel quale il narratore inserisce la rivelazione di Dio ed il suo incontro con il popolo nel patto di Alleanza, manifesta chiaramente come il racconto dei capitoli 19-24 non sia il risultato di una memoria-cronaca puramente storica dei fatti accaduti, ma il frutto di una loro rielaborazione successiva, nella quale tutto è sinteticamente riletto nell’orizzonte di quella duplice attualizzazione celebrativa della comunità credente, liturgico-sinagogale (il riferimento allo scritto delle tavole e finalmente del libro) e sacrificale-cultuale (il rito del sangue), che perverrà a pienezza di senso ed intensità efficace nella celebrazione eucaristica della Chiesa. Il clima liturgico-cultuale nel quale si compie la stipulazione dell’alleanza si prolunga, sino a diventare una stabile modalità di presenza di Dio in mezzo al suo popolo, nei capitoli successivi, nei quali viene esposto e realizzato il progetto della dimora mobile del Signore con i figli di Israele.

2.4 Dal Sinai in avanti: il dono della «presenza» (Es 24,12-40,38)

L’ultima parte del libro è in gran parte occupata dalle istruzioni sulla costruzione della dimora. Un primo blocco di capitoli ne indica la modalità di realizzazione; un secondo blocco, di lunghezza più o meno uguale, ne descrive l’effettiva esecuzione, quale luogo di permanenza di Dio con il suo popolo, che può così riprendere con fiducia il cammino. Tra i due blocchi dedicati al progetto del santuario mobile si trovano tre capitoli centrali in cui si descrive l’alleanza infranta per il peccato di idolatria e subito ricostituita con le nuove tavole donate da Dio a Mosè. Anche l’ultima parte del libro presenta dunque un’evidente struttura concentrica:

A) 24,12-31,18: IL PROGETTO DELLA DIMORA Prologo (24,12-14): La promessa delle tavole di pietra a) 24,15-18: La nube e la gloria sul monte Sinai b) 25,1-31,11: Le istruzioni per la costruzione del Santuario c) 31,12-17: Il riposo del sabato Epilogo (31,18): Il dono delle tavole di pietra B) 32-34: LA ROTTURA ED IL RINNOVAMENTO DELL’ALLEANZA a) 32,1-35: L’immagine del vitello d’oro, falso volto di Dio (tavole infrante) b) 33,1-23: L’inafferrabile volto di Dio a’) 34,1-35: L’immagine radiosa di Mosè, vero volto di Dio (tavole ridonate)

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A’) 35-40: LA COSTRUZIONE DELLA DIMORA c’) 35,1-3: Il riposo del sabato b’) 35,4-40,33: L’allestimento del Santuario a’) 40,34-38: La nube e la Gloria sulla dimora

La Gloria del Signore, manifesta sul Monte a Mosè, si trasferisce alla fine in mezzo al popolo, ma soltanto dopo che questo ha rinunciato ad ogni falso tentativo di afferrarla nell’idolo. Dio non vuole che coloro che egli ha riscattato dalla schiavitù dell’Egitto tornino succubi del potere subdolo dell’idolo, della presunzione di catturare il divino per la propria sicurezza e i propri scopi. Dio non si può afferrare solo perché Egli ha deciso di donarsi, in quel rapporto autentico di amore gratuito che è sigillato nel patto di alleanza. Il suo volto non si può vedere come brama di conoscenza possessiva perché è nel volto trasfigurato dell’uomo che Egli ha deciso di rivelarsi. La vera dimora di Dio non può essere costruita come luogo della presenza stabile, se non dopo aver rinunciato a costruire in proprio l’immagine idolatrica di Dio.

La struttura letteraria appena delineata offre importanti indicazioni per meglio comprendere lo sviluppo narrativo del Libro dell’Esodo.

3. Lo sviluppo narrativo

Il racconto dell’Esodo muove da un contesto di schiavitù e di oppressione verso una situazione di libertà, che si esprime nel servizio di Dio; inizia con la faticosa costruzione della dimora del potere, statico ed oppressivo, e si compie nella edificazione della dimora mobile e rassicurante di Dio.

Il Dio liberamente scelto e corrisposto, nel suo amore preveniente e nella sua iniziativa gratuita, con il patto di alleanza, si impegna non solo ad essere guida verso l’eredità promessa della terra, ma ad essere lui stesso eredità del popolo, attraverso la sua stabile dimora con i figli di Israele. Questi devono, da parte loro, rimanere fedeli all’Alleanza, che li impegna a non tornare più in Egitto, ad evitare qualunque forma di possesso idolatrico e di autosicurezza che finirebbe per generare inevitabilmente nuova schiavitù.

La liberazione è preceduta dal grido di oppressione e dalla libera iniziativa di Dio. Essa esige tuttavia la fiducia del popolo che accetta il distacco di una partenza che lo espone comunque ad un’insicurezza. Tra la decisione di una fiducia accordata all’inizio e l’ingresso nel patto di alleanza è necessario un percorso pedagogico ad apprendere la gratuità, un cammino paziente che insegni, attraverso la prova, ad accogliere il dono.

Tra l’Alleanza offerta, accolta e stipulata e la possibilità di una dimora stabile del Signore in mezzo al popolo si colloca invece l’atto sincero di conversione da ogni tentativo idolatrico di pervertire il dono di un Dio nascosto, ma intensamente presente, nella vuota immagine dell’idolo, vano ed impotente, ingannevole figura dell’assenza. Ecco così delineata la direzione del percorso narrativo del Libro dell’Esodo.

3.1 Il potere all’opera: dalla prosperità all’oppressione, dalla morte al grido (Es 1-2) I figli di Israele, scesi in Egitto, diventano un popolo numeroso e prospero. Il paese accogliente ed ospitante

diventa sfruttatore ed oppressore: la convenienza e la paura agitano insieme il potere e lo spingono alle sue ambigue decisioni: se il bisogno spinge a sfruttare una crescita, la paura tende invece ad ostacolarla. La contraddizione intrinseca al potere è il segno inequivocabile della sua debolezza. Nel suo interstizio segretamente si incunea l’iniziativa di Dio.

3.1.1 La prepotente debolezza del regime (Es 1) La forza di Israele conviene al potere come gratuita manovalanza, ma la sua crescita preoccupa e deve

essere arrestata. Tre sono i rimedi progressivamente adottati: 1) l’intensificazione del lavoro, che genera tuttavia inattesa fecondità; 2) l’azione delle levatrici ebree, che tuttavia temono Dio e si fanno beffe del potere; 3) l’uccisione sistematica dei bambini nel Nilo, nella quale si apre tuttavia lo spiraglio di una salvezza.

3.1.2 Il liberatore salvato ed il richiamo del popolo oppresso (Es 2) L’obbedienza al comando del faraone affida un bambino alla minaccia del fiume verso una paradossale

salvezza. Questa passa nello spiraglio di umanità di una donna, nell’appello creaturale di una vita precaria. Neppure il potere è del tutto insensibile; non si può del tutto soffocare l’anelito posto dal creatore nel cuore dell’uomo. La forza della debolezza è il pegno della vittoria sulla potenza umana. Tale anelito urge nel cuore di Mosè ad intervenire per la giustizia contro l’oppressione: è la legge creaturale che vuole in ogni modo preservare la vita, anche se finisce paradossalmente per toglierla. La segreta vocazione di Mosè già si fa manifesta: egli si sente chiamato ad intervenire contro ogni ingiustizia, non solo quella del potente contro l’oppresso, ma anche quella del povero contro il proprio fratello e poi, fuggito in Madian, quella del debole contro il prepotente. Tale percorso di

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autenticità, di genuino, ancorché irruento e forse troppo sicuro di sé, senso della giustizia porta Mosè nella terra della lontananza e dell’estraneità, come indica il nome dato al figlio. Un lungo tempo dovrà ancora trascorrere prima che Mosè sia adatto per l’opera di Dio.

3.2 L’incontro con il Dio dei padri e la missione verso i fratelli (Es 3-4) Quaranta sono gli anni di Mosè quando fugge dall’Egitto; altri quaranta ne trascorrono in Madian, la «terra

di mezzo» tra l’Egitto, che più non gli appartiene, e la terra dei padri, ancora lontana. Quando gli ardori giovanili sono ormai placati, i grandi progetti di fatto accantonati, e la vita si dispone nel suo fluire tranquillo e senza sorprese, la novità di Dio squarcia gli orizzonti. Il Signore non ha dimenticato il grido del suo popolo, né colui che molti anni prima già l’aveva udito.

3.2.1 L’incontro nel roveto ardente (Es 3,1-4,17) Qualcosa di insolito e totalmente nuovo si presenta sulla strada del tranquillo pastore e ne attira

l’attenzione. Un fuoco divampa, illumina e riscalda, ma senza distruggere, immagine della potenza rispettosa e mite dell’amore, che attrae nel timore. Il nome sussurrato, due volte, come essere da sempre conosciuti nell’interiorità più intima. La perdita dei sandali: l’avanzare che spossessa di pretese e consegna all’altrui iniziativa. La gioia mista a timore: il volto che si vela nel pudore. La voce si fa parlare antico – il Dio dei padri! – quale eco di realtà segretamente già udita nella lunga catena testimoniale di un’appartenenza reale, ancorché sconosciuta. Il desiderio di conoscere il nome, che cede alla pazienza dell’attesa, di un’intimità possibile solo nello scorrere del tempo, nell’intervallo del differimento, che è il tempo vero della fede. Al momento soltanto la garanzia di una presenza sempre attuale, che è e che sarà, la cui rivelazione chiede la fiducia.

Il compito affidato. La fatica di accettare il nuovo, che corrisponde all’antico ormai rimosso (liberare i fratelli dall’oppressione), ma che esula da una vita ormai segnata dalla quiete e rassegnata nella rinuncia, forse anche pacificata. Solo la caduta della progettualità propria ed autosufficiente, la disillusione dell’inutilità accettata, la solitudine di un’estraneità riconosciuta, plasmano strumenti adatti per l’opera d Dio. La balbuzie, segno forse di una duplice appartenenza mancata (né ebreo né egiziano), di uno sradicamento troppo precoce per consegnare una solida identità, da ostacolo si fanno potente risorsa per insegnare e consegnare la fiducia ad un altro, che è anche, ma non solo, il fratello Aronne.

3.2.2 L’ulteriore sradicamento: il distacco dalla famiglia (Es 4,18-32) Il dolore del distacco, il coraggio di partire, nella benedizione di Jetro. Il bastone di pastore, segno povero e

muto della potente, ma nascosta, compagnia di Dio, continuità e cambiamento insieme per chi sarà pastore del suo popolo. Il distacco è progressivo, nuove esigenze lo radicalizzano; la moglie e i figli devono restare, lasciati indietro da colui che deve andare: è il prezzo del sangue da pagare per rispondere all’amore; è l’esperienza di una morte alla potenza di futuro nascosta nella propria prole, per annunciare con verità la fine della prole dell’iniquo potere. Nessun distacco accettato nell’amore ci consegna all’assoluta solitudine: si apre piuttosto alla scoperta del fratello (Aronne), posto a consolazione e sostegno nel cammino. Nella sua progressiva debolezza l’inviato è pronto ad affrontare il potente.

3.3 La resistenza del faraone e l’aggravarsi dell’oppressione (Es 5) Ragionevole richiesta al faraone quella di Mosé e Aronne. Liberare il popolo per un culto a YHWH di tre

giorni nel deserto: un lungo sabato a spezzare il giogo pesante dell’oppressione. Richiesta minima che il faraone non vuole esaudire. Resistenza la sua che si farà sempre più acuta ed ostinata, pegno di una liberazione più radicale e definitiva dal suo iniquo potere. L’azione di Dio è però soltanto annunciata e promessa. Nell’intervallo c’è l’attesa provata della fede: il giogo del faraone si fa più duro sui figli d’Israele. Questi si lamentano con Mosè e Aronne, la cui parola ritorna in preghiera a Dio.

3.4 La chiamata rinnovata (Es 6,1-7,5) Alla prova immediata a cui Mosè ed Aronne sono sottoposti segue una chiamata rinnovata. Al primo

apparente fallimento di una missione il Signore non abbandona i suoi inviati, ma li rafforza, facendoli più certi della sua volontà di amore e d salvezza: devono soltanto continuare a fidarsi di lui, che opererà attraverso di loro. L’indurimento del faraone è soltanto il preludio alla manifestazione potente di Dio; è la reazione violenta ed impaurita del potere ormai giunto alla fine.

3.5 La lotta del Signore contro il faraone (Es 7,6-11,10) Mosè ed Aronne riprendono il decisivo confronto con il faraone, senz’altra sicurezza che la fiducia in Dio.

Proprio il loro strumento familiare, il semplice bastone del pastore sarà il primo mezzo attraverso il quale la potenza di Dio si rivelerà. Dieci piaghe o «colpi», in progressiva intensità come per una pedagogia paziente,

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puntano alla conversione ed ottengono l’indurimento di una libertà irriducibile: l’uomo nella prosperità non comprende e la pedagogia si converte nel suo contrario.

Dal Nilo insanguinato alla morte dei primogeniti, l’Egitto dovrebbe prendere coscienza del suo peccato che, proprio nella relazione tra prima ed ultima piaga, si manifesta con tutta evidenza: aver dato la morte, attraverso il grande fiume alle primizie del popolo di Dio. I colpi non sono repentina distruzione, ma castigo misericordioso e paziente, volto al ravvedimento vanamente atteso, sino a piegare la superbia dell’uomo. Da essi i figli di Israele impareranno diversamente ad accettare le prove del deserto quale luogo della fiducia e dell’abbandono, della crescita e del dono. Il braccio potente di Dio si prepara a compiere la loro salvezza, mediante l’obbedienza della fede alla parola di Mosè.

3.6 La pasqua di salvezza: la vita attraverso la morte (Es 12,1-15,21) Obbedienti alla parola, disposti al distacco, pronti a partire, i figli di Israele si sentono salvati nel sangue di

un agnello, simbolo di fragile mitezza, cifra di vita donata, segno di amore: ecco come Dio libera e salva, prefigurazione del dono che egli stesso farà del suo Figlio primogenito, tutta la sua vita. Non gode del dono se non chi si rende disponibile a cambiare, a partire, nel riconoscimento di una povertà che si lascia ormai guidare, con invincibile fiducia, per vie provvidenziali e sconosciute (Es 12).

L’amore esige risposta: dai propri figli uccisi nel Nilo, ai primogeniti d’Egitto colpiti dall’Angelo, perché tale sterminio cessasse, all’offerta generosa dei propri primogeniti, con un’appartenenza ormai dichiarata al Dio che ama (Es 13).

Il Mare attende minaccioso, segno di potenza sovrumana che inghiotte inesorabile, morte sicura di chi cerca di sfuggire alla morte. Soglia decisiva, passaggio da morte a vita nel grido della supplica che cede al semplice atto di fiducia. La prova non è grande se non in proporzione al dono che la segue, alla potenza di amore che rivela a distruggere il potere della morte (Es 14). Il grido della supplica si converte nel canto della lode: un popolo nuovo è nato e nella lode del suo Dio salvatore è finalmente unanime (Es 15,1-21).

3.7 La pedagogia del deserto: la tentazione e il dono (Es 15,22-18,27) Il canto di lode ha breve durata; il passaggio è brusco: oltre il mare si apre il deserto, passaggio necessario

prima di giungere al monte dell’Alleanza. Il popolo deve imparare, proprio attraverso la prova, la fiducia abbandonata capace di accogliere il dono: il deserto è una scuola di gratuità. I cinque episodi del cammino nel deserto sono i passaggi obbligati di una crescita della fede, di un’iniziazione all’Alleanza.

3.7.1 Colui che guarisce (Es 15,22-27)

L’acqua avvelenata di Mara ha il sapore della beffa: Dio provvidente sembra farla trovare, disponibile a placare la sete; la facile sicurezza si converte in amarezza. Occorre ancora imparare a non cadere nelle piaghe che afflissero l’Egitto; per questo, anticipatrice del Sinai, una legge viene data, ma è vuota, anzi è tautologica: comanda solo di obbedire, di affidarsi all’amore,di fidarsi del Signore, colui che guarisce. Mara insegna la fiducia del ricorso al medico celeste: dire a Lui ogni amarezza, per avere la ricetta; osservare i suoi comandi, ancor non definiti, non è altro che guardare al suo modo di guidare, al suo amore che è paziente, che è rimedio all’amarezza e la muta in sua dolcezza.

3.7.2 Colui che sazia (Es 16) Manca il pane nel deserto ed il cibo si fa scarso, scoraggiando nel cammino chi non può da sé darsi la vita.

Altra prova che sgomenta, chi non ha ancora compreso l’assoluta dipendenza. Proprio questa è liberante solo se si fa fiducia, che rinnova ogni mattina l’accoglienza della vita. Aprire la bocca perché sia riempita (Sal 81), di un cibo celeste del tutto donato e quotidianamente rinnovato. Un altro precetto qui vien dato: solo il sabato può insegnare la confidenza liberante, che si fa riposo e attesa, senza ansie né oppressioni, segno vano e menzognero di illusoria sufficienza, che converte i figli in servi e in Egitto riconduce. Chi guarisce è anche Colui che sazia.

3.7.3 Colui che è presente (Es 17,1-7)

Manca l’acqua per la sete, c’è la morte che s’avanza, e Colui che provvedeva sembra ormai fattosi assente. Egli c’è, ma si nasconde, perché i figli d’Israele possan crescere in fiducia e comprendan che l’Egitto soltanto la morte colpì, accecato dall’orgoglio della propria sufficienza e incapace di discerner a suo tempo la presenza. La presenza abituale può diventare scontata e l’azione ordinaria non è più compresa: si vuole di più. Se prima era Dio a mettere alla prova ora è il popolo che tenta il suo Dio, piegandolo ai suoi tempi, piegando la fiducia in ricatto, rimpiangendo, ma per l’ultima volta l’Egitto lasciato. Ma chi già guarì e saziò, paziente ancora si fa vicino, perché essi più non dubitino che Egli rimane con i suoi.

3.7.4 Il vessillo di vittoria (Es 17,8-16)

L’avversario è già in agguato, vile, attacca chi è indifeso, taglia in due la carovana nella parte posteriore, dove con le loro madri i più piccoli marciavan, per maggiore protezione. Questa volta è evitato il vano mormorio:

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le parole prima buttate contro Dio, ma dirette verso il basso, segno di relazione negata, ora finalmente son capaci di elevarsi, convertendosi in supplica. All’intercessione di Mosè è affidata la vittoria. Il nemico tornerà; è sconfitto, ma non distrutto.

L’avversario di ogni tempo solo l’umiltà lo vince: povertà fatta preghiera, che confida nel suo Dio, nell’amico che soccorre ed i suoi non abbandona. Una legge ancora è data, e nel libro viene scritta, legge di fragilità, da accettare con pazienza, per un’umiltà più pura, che si nutre di preghiera e nella propria debolezza trova forza di vittoria, con lo sguardo fiducioso alle braccia allargate, al legno posto in alto. Si impara che Egli è il «vessillo» da seguire per camminare, guardando verso l’alto, dove Lui conduce, sino all’incontro, ai piedi della montagna.

3.7.5 Il più grande di tutti gli dèi (Es 18) Là da dove è partito Mosè fa ritorno. Alle sue radici familiari egli ritorna, a cercare consiglio, a rassicurarsi

della buona strada. Il racconto delle gesta salvifiche di Dio apre alla gioia il cuore di Jetro. Il consiglio di Jetro apre alla fiducia il cuore di Mosè, che più non teme altri consiglieri e ne accetta l’aiuto, a condividere il compito, a spartire il peso del popolo.

Il popolo, ormai capace di preghiera fiduciosa in luogo di mormorazione sterile, di sequela pronta, con gli occhi alzati al suo vessillo, in luogo di abbattimento e diniego, può esprimere collaboratori dell’opera di Dio. Camminando secondo Dio nuove risorse si generano, a rimedio della debolezza di chi conduce. Israele si manifesta sempre più come popolo uno, capace di aderire unanime al suo Dio. L’insufficiente ministero di giustizia e giudizio ha l’ausilio di nuovi saggi: sono pronti gli strumenti per far conoscere la legge e custodire l’Alleanza.

Il primo tratto di strada nel deserto ha già presentato le sue prove e svelato una fede ancora incerta, esposta al dubbio e alla ribellione. Il cammino nel deserto riprenderà, dopo la grande tappa del Sinai, al capitolo 11 del Libro dei Numeri, descrivendo prove molto simili a queste dell’Esodo, ma con una differenza fondamentale. Mentre infatti queste prime ribellioni e mancanze di fede non intervenute prima dell’Alleanza non sono soggette ad alcuna punizione di Dio, l’incredulità descritta nel Libro dei Numeri, dopo l’impegno di Alleanza, subirà il castigo del Signore.

In sintesi, ogni prova-tentazione è stata narrata come preparazione pedagogica ad accogliere un particolare dono di Dio e a comprendere qualcosa di Lui. Essa si caratterizza, in generale, come intervallo attesa non sopportata, che richiede la fede di chi impara ad appoggiarsi solo a Dio e si prepara così al grande atto di fede del patto di Alleanza.

3.8 Il patto di Alleanza (Es 19,1-24,11) Al Sinai il patto di alleanza è insieme proposto ed accolto, offerto e corrisposto, donato e celebrato.

L’importanza dell’evento sinaitico, in cui l’informe moltitudine di schiavi divenuta popolo finalmente libero e pieno di dignità è posta davanti alla libera accoglienza dell’amore del suo Dio salvatore, è indicata anche dall’ampiezza della sua narrazione. Essa occupa almeno la metà dei capitoli dell’Esodo e prosegue, inglobando le norme del Levitico, sino al decimo capitolo dei Numeri, formando un blocco centrale e quantitativamente assai ragguardevole al cuore dell’intero Pentateuco. L’Alleanza al Sinai è dunque una mèta decisiva per Israele, ma non un traguardo definitivo. Il cammino del deserto che la precede continua anche dopo, verso il compimento della promessa di Dio nel possesso della terra. L’evento del patto è comunque l’approdo solenne di una relazione che diviene stabile, di una decisione fiduciosa non più solo incipiente o occasionale, di un’appartenenza reciproca finalmente durevole, radicata nella piena libertà di poter disporre totalmente di sé per l’altro. Israele non può rimanere un bambino guidato passo passo dalla pedagogia di Dio: YHWH lo chiama, al contrario, attraverso un paziente percorso di iniziazione alla libertà ed alla responsabilità, a quella relazione di amore piena e matura con lui che si instaura proprio ai piedi della santa montagna.

Se il racconto del Sinai abbraccia tutto il resto del libro dell’Esodo e prosegue addirittura fino alla prima parte del libro dei Numeri, la sezione di Es 19-24, nella sua stretta coesione ed unitaria articolazione, ne riferisce il momento culminante e decisivo: dall’appello all’adesione in Es 19, all’impegno reciprocamente assunto dalle parti in Es 20-23, sino alla solenne stipulazione rituale e liturgica in Es 24.

3.8.1 L’invito del Signore a Israele (Es 19)

Il Signore prende finalmente l’iniziativa di rivolgersi ad Israele: Egli, nel suo amore pudoroso, è sempre rimasto nascosto dietro i gesti e le parole di Mosè, tanto in Egitto quanto nel deserto, volontà sublime di preservare intatta la fragile libertà dell’uomo. Anche ai piedi del monte il Dio rinuncia ad una manifestazione diretta della sua presenza, che il popolo mostra di non sopportare e che comunque potrebbe interferire sulla libertà della risposta. L’invito iniziale ed il dono della Legge riceveranno risposta col suggello del rito finale: il tutto attraverso la mediazione di Mosè e degli anziani di Israele.

Ai piedi del Sinai il Dio paziente attende i suoi figli e li interpella, attraverso la mediazione di Mosè, che sale sulla montagna (19,1-3). La parola di YHWH fa memoria del passato (19,3-4), diventa appello nel presente (19,5a) ed apre infine al futuro (19,5b-6).

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Il passato è narrato nei termini di un amore carico di premura e tenerezza: i figli di Israele non sono stati liberati dalla schiavitù per essere consegnati all’incertezza del deserto, ma sono stati addirittura sollevati e portati su ali di aquila, quasi neppure a sentire la fatica del cammino (Dt 8,1-3). Non è bastato che YHWH si facesse loro vicino quale liberatore: Egli li ha dovuti portare a sé. Dio ha raggiunto il popolo in Egitto perché questo potesse, con la sua guida sapiente, incontrarlo al Sinai.

La memoria della bontà di Dio si fa appello nel presente. Il Signore chiede semplicemente l’ascolto della sua voce; non domanda prestazioni a suo favore, né contraccambio per quanto Egli ha fatto: richiesta povera la sua, solo di relazione basata sull’ascolto, con volontà di custodire un’amicizia. Modo discreto il suo, che vuole risposta pienamente libera, senza far pesare, come costrizione o obbligazione, i benefici del passato («Se vorrete ascoltare...»).

La risposta positiva del popolo apre alla promessa, posta nel futuro: essi saranno proprietà esclusiva di Dio (il suo tesoro particolare) nella terra già sua; formeranno un regno tutto di sacerdoti ed una nazione santa. Se tutta la terra appartiene a Dio ed ogni popolo è a buon diritto suo, Israele lo è a titolo tutto speciale, con una missione particolare di mediazione universale: ogni figlio di Israele e l’intero popolo eletto avranno un compito sacerdotale verso gli altri popoli, un compito di testimonianza rivelatrice dell’opera salvifica universale di Dio. L’Alleanza da osservare sarà per Israele essere essenzialmente popolo siffatto.

All’invito del Signore prontamente Israele risponde, sempre attraverso la mediazione, estesa agli anziani del popolo, di Mosè, che sale di nuovo sul monte per riferire: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo» (19,8). La disponibilità del popolo a fare la volontà di Dio precede addirittura l’ascolto delle sue parole, ad indicare la prontezza fiduciosa di un’obbedienza che non chiede garanzie né condizioni previe. La parola dovrà essere tuttavia ascoltata prima che il patto possa essere sigillato. Ascolto che chiede preparazione, disposizione aperta, cuore purificato (19,9-25).

3.8.2 L’impegno di una relazione di amore (Es 20,1-21)

Colui che interpella si presenta; mirabile «Io» espropriato di sé, diventato ormai «tuo» nel legame elettivo di un amore senza pentimento, che chiede appartenenza. Il suo amore Egli lo racconta, fresca ed infantile, intensa narrazione che chiede amore; amore che è osservanza dei suoi comandamenti, perché il racconto possa continuare. È il Dio geloso, e perciò vulnerabile, il cui fuoco mite illumina e riscalda o, altrimenti, divampa e distrugge, prima di farsi fiamma purificatrice di perdono (20,1-6).

Amore chiede amore, senza vane parole, amore intenso e radicale, fedele ed esclusivo, l’amore che risponde, lasciando padre e madre, per aderire all’Unico, senz’altra garanzia che la sua stessa umile potenza. Amore che fa spogli, privi di pretese, sulla vita, sul corpo, sui beni dinanzi ai fratelli, scendendo fino al cuore, alle profonde radici di un desiderio ambiguo, malato di possesso, da convertire in dono (20,7-17).

Amore appassionato, che si fa fuoco sul monte, lampo che squarcia la tenebra, nella voce del tuono, anch’essa tremante e trepida, in attesa di risposta (20,18-21).

3.8.3 Il codice dell’amore che pervade l’esistenza (Es 20,22-23-33) Il patto dell’Amore, sancito nel decalogo si estende ad ogni luogo, si allarga ad ogni tempo, formando i

mille rivoli nei quali è irrigata ogni più piccola espressione della vita. Il cosiddetto Codice dell’Alleanza (Es 20,22-23,33) non va considerato come arida casistica di norme, per lo più datate e superate, ma come ampliamento del Decalogo stesso, la cui funzione è far cogliere le implicazioni che le «dieci parole» originano e fondano, in modo multiforme, per ogni aspetto della vita.

Una introduzione (Es 20,22-26) ed una conclusione (Es 23-20-33) incorniciano la successione delle norme ed offrono il quadro fondamentale in cui essi vanno collocate. L’introduzione pone il fondamento della legge nella memoria di una relazione ricercata da Dio sotto forma di parola proveniente dal cielo: è tale misericordiosa iniziativa che fonda qualunque capacità di obbedienza. La conclusione lascia intravedere, con uno sguardo al futuro, i frutti dell’obbedienza: la legge è la traccia del cammino sicuro per conseguire la promessa di Dio. Nell’introduzione il Signore chiede ad Israele un culto fedele, conforme all’esclusività di un rapporto di amore e adeguato alle condizioni di una reciproca libertà di dono: la fedeltà di Israele è richiesta solo come risposta a quella divina. Nella conclusione è il Signore stesso che dichiara la sua fedeltà, impegnandosi sotto forma di promessa: Egli accetta in tal modo di limitare la sua libertà sovrana ad una promessa di amore fedele, che chiede corrispondenza nel mantenere, anche e soprattutto a seguito del possesso della terra, il servizio esclusivo di Dio.

Le leggi esposte nel Codice riguardano anzitutto il diritto degli schiavi (Es 21,1-11), a garanzia di non tornare al regime oppressivo dell’Egitto; poi si trovano applicazioni del «non uccidere», esteso ad ogni forma di violenza fisica, tendente a ferire, o ad ogni forma di prepotenza rispetto alle cose ed al possesso altrui, a partire dal primo prossimo rappresentato dai genitori (Es 21,12-22,14). Poi si trovano indicazioni normative circa il rapporto tra un uomo ed una vergine (Es 22,15-16), precisazioni tendenti a coprire il vuoto legislativo sulla materia sessuale, lasciato dal comandamento «non commettere adulterio». Poi ancora leggi riguardanti il diritto dei più deboli,

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forestiero, orfano e vedova, anch’essi estensione del non uccidere (Es 22,17-30) intrecciati a norme antiidolatriche sul divieto della magia (Es 20,17), sulla necessità di custodire la santità del proprio corpo-immagine di Dio (Es 20,18) e di osservare un culto puro e onesto nel mettere a disposizione del Signore le proprie cose (Es 22,28-30). Di seguito ancora norme riguardanti la materia processuale e l’imparzialità che le conviene, estensione applicativa del precetto generale sulla «falsa testimonianza» (Es 23,1-9); norme sul lavoro della terra e la gestione dei suoi frutti e, infine, sulle celebrazioni festive, in applicazione più dettagliata del precetto del sabato (Es 23,10-19).

Il Codice di Alleanza rivela lo sforzo compiuto da Israele di comprendere le esigenze del Decalogo e, dunque, dell’Alleanza, nelle differenti e circostanziate situazioni dell’esistenza, a testimonianza del carattere non rigido e fissista, bensì dinamico e vitale, della legislazione del Sinai. Non c’è patto di amore che non chieda successivi e continui adattamenti, volti a ritrovare e rinnovare l’autenticità della relazione. Il regime del culto e l’osservanza del sabato rappresentano il perno di tutto il sistema, capace di preservare l’ordine della relazione con Dio e gli altri, a garanzia anche del perpetuarsi dell’ordine cosmico voluto dal creatore, e di costituire il fattore di sintesi e coagulo di ogni aspetto dell’esistenza, nel suo procedere dalla liturgia e del suo culminare in essa.

L’Amore è dichiarato, gli impegni definiti, l’ascolto effettuato: il Libro testimonia. Non resta che il sigillo del patto da sancire, nel sangue che accomuna le esistenze, nella buona e nella cattiva sorte.

3.8.4 Il patto racchiuso nel libro e sigillato nel sangue (Es 24,1-11) Mosè rivolge ancora al popolo l’invito di Dio. Come in 19,8 l’obbedienza di Israele si dimostra pronta (24,3).

YHWH vuole tuttavia che l’adesione sia preceduta dal suo impegno, che è posto, nel sangue versato sull’altare, ancor prima della lettura del Libro. Solo dopo la lettura solenne della legge, ormai scritta nel Libro (nel quale le generazioni successive conservano la memoria viva degli evento fondatori della loro fede, che possono così rivivere nel tempo), anche il popolo viene asperso con il sangue, ad indicare una piena comunione con Dio, la condivisione della stessa vita in un’alleanza nuziale in cui l’essere dell’uno sarà indissolubilmente legato a quello dell’altro. Lo spargimento del sangue delle due vittime (dell’olocausto tutto bruciato in offerta a Dio e del sacrificio di comunione destinato in parte alla consumazione nel banchetto che seguirà) sembra indicare che il sacrificio non verte tanto sulle vittime quanto sull’offerta della loro vita segno del mettersi in gioco della vita di Dio e di quella di Israele.

La stipula finale dell’Alleanza è dunque un atto chiaramente liturgico e solenne, che si articola sostanzialmente in tre momenti: 1) la lettura del Libro, come una «liturgia della Parola»; 2) l’assenso del popolo con una disposizione all’obbedienza e alla fedeltà talmente incondizionata da prevenire addirittura l’ascolto («faremo e ascolteremo»); 3) l’aspersione del sangue, quale sigillo ultimo (con la duplice valenza simbolica di indicare la consanguineità ormai raggiunta tra Dio e il suo popolo e di significare insieme un atto di consacrazione analogo a quello dei sacerdoti in Es 29,20-21 e Lv 8,22-30).

Sigillato il patto sono ormai poste le condizioni per una stabile ed intima dimora di Dio in mezzo al suo popolo: il matrimonio si fa progetto per la costruzione di una casa.

3.9 La vera «presenza» nascosta, l’idolo appariscente e vuoto (Es 24,12-40,38) Il Dio della montagna inaccessibile, che si fa prossimo nel patto di alleanza, decide di restare vicino con la

realizzazione della «dimora». Progettata da Dio stesso, e da Lui illustrata quale desiderio di amorevole compagnia al suo popolo nei capp. 25-31, essa è corrispondentemente realizzata nei capp. 35-40, nonostante l’intervenuta infedeltà dei figli di Israele, narrata nei capp. 32-34. Il dramma del peccato, che vuole un’altra presenza, visibile, immobile, sicura, ma falsa ed illusoria, non distoglie Dio dal suo progetto. Egli tenacemente lo compie, nei confronti di un popolo peccatore, come all’inizio non ha abbandonato la sua creazione, dopo la caduta.

Due riferimenti al sabato, al segno del riposo comunionale e del godimento relazionale, chiudono rispettivamente il primo blocco sulla progettazione (31-12-17) ed aprono il terzo sulla realizzazione (35,1-3), ad indicare lo scopo ultimo di tutta l’opera di Dio, come al momento della creazione: entrare nel riposo di una perfetta comunione e di una stabile relazione con l’uomo da Lui creato e salvato. Due riferimenti alla nube a alla Gloria, infine, aprono (24,15-18) e chiudono (40,34-38) tutta questa quarta parte del Libro dell’Esodo, ad indicare il significativo trasferimento della «Presenza» dalla temibile inaccessibilità della montagna alla familiare vicinanza della «dimora».

3.9.1 Il progetto di amore di una nuova creazione (Es 24,12-31,18) Mosè è sul monte, solo. La nube lo avvolge, lo nasconde. Divampare del fuoco, non più dal roveto a

distanza, innanzi all’uomo esitante, scalzo e prostrato, a volto coperto e timoroso di guardare. Bruciare della fiamma nell’intimità inaccessibile di chi entra nel cuore di Dio, confidente dei suoi desideri. Desideri di amore e vicinanza, di stabile e amabile compagnia, alla quale dare casa: trasferirsi della «Presenza» dall’alta solitudine del monte all’umile dimora del deserto, tenda viaggiante con il popolo in cammino (24,12-18).

Il Dio innamorato, e ormai sposato in alleanza indissolubile, progetta la sua casa con i suoi, dimora di legno e pelli, opera dell’umana arte, casa che la sposa Israele dovrà arredare, conformemente al gusto dello sposo (25,1-9). Anzitutto l’arca, contenitore povero e vuoto, fatto per essere riempito con i segni della premurosa presenza, con

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gli elementi della relazione vitale: parola che illumina, pane che sostiene, bastone che guida, ma nel vuoto dell’arca, che si oppone alla falsa e vuota consistenza dell’idolo, pieno soltanto di sé e delle vane speranze in lui riposte (25,10-22). E poi la tavola coi dodici pani della Presenza, comunione conviviale tra Dio e i suoi (25,23-30); il candelabro, albero di luce, occhio vigile di Lui sui figli amati e chiarore sicuro davanti ai loro passi (25,31-40).

Inoltre la dimora vera e propria, legno e pelli, aperta verso oriente, pronta sempre all’accoglienza di colui che viene, come sole che si leva (26,1-30). Poi il duplice velo a separare l’interno dall’esterno, e ancora, nell’interno, il luogo intimo, lo spazio dell’amore confidente, che si dà, con pudoroso rispetto, solo ritraendosi: spazio santissimo, raccolta intensità di segreta presenza (26,31-37). Nello spazio anteriore, un po’ di lato, l’altare degli olocausti, il luogo dell’offerta generosa di ciò che si possiede e non si vuole in proprio, il segno dell’amore fatto sacrificio, a spandere in alto il suo profumo (27,1-8). Il tutto circondato da recinto, segno non di chiusura che separa, ma messo a protezione, gelosa custodia che preserva ciò che è caro, e lo sottrae all’abitudine profana che svilisce, all’uso quotidiano che consuma anche ciò che nella vita è più prezioso e puro (27,9,19). La casa è pronta e il focolar s’accende, con olio puro, di olive vergini spremute, calore e luce a rischiarare il luogo, dove oramai scende l’Amor fatto persona (27,20-21).

La sposa stessa ora si prepara, nel sacerdozio santo si fa bella, avvolta in vesti splendide e di preziosi adorna, pronta con gioia ad incontrar l’Amato (28,1-5). Efod alle spalle con i nomi incisi di tutti i figli in lei rappresentati (28,6-14) e davanti il pettorale, a dire che non solo alle sue forze, ma al suo cuore gli amici del Signor sono affidati (28,15-30); e tutt’attorno il manto, amor che copre la nudità fragile ed esposta, che sol l’intimità lascia scoprire: sonagli d’oro posti alle sue frange, ritmico tintinnio di festa all’avanzar gioioso dell’incontro (28,31-35). Il diadema sul capo a dire santità nel ricordar le colpe, supremo ornamento, dignità regale, eppur ferita, a ricordare la povertà d’un tempo, memoria santa d’amore che perdona, e che non lascia ormai più spazio alla vergogna (28,36-39). Cinture, tuniche e berretti, calzoni in lino, a trasformare la nudità dell’uomo in dignità divina (29,1-3); purificati, rivestiti ed unti, altre persone sono ormai costoro (29,4-9), abilitati a presentare in alto le offerte sante, grazie a cui ricade amor dall’alto, in benedizione. Aronne ed i suoi figli, già unti d’olio sacro, son poi di sangue cosparsi insieme con l’altare e tutti gli accessori della casa, ad indicare l’unità del tutto, pervaso ormai di divino effluvio (29,10-21).

Poi le offerte elevate in alto nel rito dell’agitazione, ad indicar passaggio verso colui che vuole relazione (29,22-30). Abilitati a compiere il servizio di mediazione, che sale in offerta e scende in benedizione, accedono al pasto sacro, segno di comunione. La loro vita vive dell’amore di chi riempie le loro mani, e questo stesso amore su di loro ricade, mentre le mani si fan vuote nell’offerta: vivono di ciò che donano per la bontà di chi sta in alto, ed anche di coloro che sono in basso, tramite misterioso di divina comunione (29,31-37). Ed ogni giorno l’offerta di espiazione a fare santo l’altare e gradito il sacrificio quotidiano, oblazione e libazione, profumo gradito per Colui che dall’Egitto li trasse, per abitare sempre in mezzo a loro (29,38-46). Completa il tutto l’altare dell’incenso, il cui profumo è come la preghiera che sale, per rallegrare il cuore di Colui la cui presenza dietro il fumo si nasconde (30,1-10).

Ogni figlio di Israele, grazie al censimento, con la sua vita partecipa al servizio, a fare della tenda il luogo vivo di una famiglia che nessuno esclude (30,11-16). Conca di rame per le abluzioni, come acqua primordiale che tutto ricrea, perché mai si deteriori ciò che egli vuole sempre rinnovato (30,17-21). Olio dell’unzione (30,22-33) e incenso profumato (30,34-38) opera preziosa di artigiano ingegno, ad indicare come il dono discendente non sia espressione unilaterale di chi donando umilia chi solo riceve, ma presupponga e chieda collaborazione. Artisti saggi, in cui il divino Spirito incontra menti generose e pronte, offrono a Dio casa tra gli uomini, ad indicare la forza di una comunione che prima d’aver luoghi passa dentro i cuori (31,1-11). Tutto è progettato, il desiderio ormai ha trovato forma nel cuore e nella mente del Signore, che a Mosè infine ormai può dire lo scopo ultimo di tutto il suo parlare: riportar l’uomo al sabato iniziale (31,12-17). E il suo volere vuole in scritto sigillare (31,18).

3.9.2 Il tradimento e la rottura dell’amore (Es 32-34)

Tarda Mosè sul monte ed il popolo impaziente vuole la sicurezza di un dio alla sua portata, l’immagine del Signore fatta a sua misura, solida e ferma, visibilmente lì a sua disposizione a soddisfare le sue aspettative, metter pace nelle sue paure. L’offerta preziosa per la casa progettata viene versata in prezzo di prostituzione per la creazione misteriosa e del tutto inaspettata di un nuovo Egitto, eco di una colpa antica. L’aureo vitelli li dovrà guidare, gente senza più fede e ormai seduta, pronta a mangiare, bere e divertirsi, sbandata e priva di riferimento, il cui percorso non sarà che regressivo, nostalgico ritorno a ciò che si è lasciato, al peso antico prima intollerato, che d’improvviso appare seducente (32,1-6). Il Dio d’amore già ferito vede, prima che Mosè si renda conto; il suo dolore amaro al caro amico svela, con volontà di distruzione pronta per salvar solo colui che gli è fedele (32,7-10). Mosè lo prega di non dare corso al suo dolor di gelosia ferita. Tre motivazioni egli adduce: vanificare la fatica già compiuta; suscitar beffe nel nemico vinto; venire meno alla promessa antica fatta ad Abramo e rinnovata ai figli, di dare loro discendenza e terra. La terza si rivela quella decisiva: ed il Tradito del suo stesso amaro dolore giunge a pentirsi, insondabile mistero del suo amore (32,11-14)!

Mosè discende, tavole alla mano, fino ad udir la musica ed i canti, e la scrittura del dito divino straziato in cuore con un gesto infrange. L’idolo distrutto ognuno in pasto avrà, offerta di gelosia fino all’ordalia, a smascherare fino in fondo l’adulterio, ed a sorbirne ogni minuta conseguenza (31,15-20). Chiede conto Mosè del

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gesto insano; tentenna Aronne e scarica la colpa sul popolo dalla pronta ribellione, mentre i leviti, con divino zelo, si privano ciascuno del fratello pur di restare con Colui al quale hanno promesso eterna fedeltà (32,25-29). Mosè intercede, prega, espone la sua vita in prezzo di riscatto, figura di chi un giorno il prezzo finalmente pagherà, e la sua offerta allora sarà accolta (32,30-35).

Il Signore ancora il popolo incoraggia a ripartire verso la sua mèta, ma egli ormai se ne starà a distanza, rinuncerà al suo progetto di «Presenza». Solo a Mosè sarà concessa udienza, nella più modesta tenda del convegno, sostitutiva della santa dimora, luogo d’amore reso inopportuno (33, 1-11). Prega Mosè a chiedere perdono perché il Signore resti in mezzo ai suoi e non li lasci soli a camminare, per una mèta non più ambita senza Lui (33,12-17). Sul monte ancora Mosè pronto risale, desiderando di vedere il volto di Colui che, sempre attento, ogni preghiera sua sempre ha esaudito, mostrando amore di misericordia molto al di sopra d’ogni aspettativa. Il volto si nasconde per mostrare solo l’umile traccia di un passaggio, segno di vicinanza ancor più intensa di ciò che appare solo esternamente (33,18-23).

Tavole nuove deve preparare l’ambasciatore del divino volere, sulle quali l’Amante non amato possa ancora rinnovare l’amore, sempre intatto nel suo cuore (34,1-4). Misericordioso e benigno, tardo all’ira, ricco in bontà e fedeltà Egli conclude una nuova alleanza: l’idolatria è ormai prostituzione, scatenerebbe grande gelosia (34,6-28). Scende Mosè dal monte e reca lieto in viso l’impronta radiosa della divina gloria: l’immagine che non potè vedere nel suo stesso corpo si rivela e si nasconde, segno di un Dio che trova identità solo nell’altro, l’uomo peccatore, col quale senza veli vuole intimità (34,29-35).

3.9.3 La dimora dell’Alleanza rinnovata (Es 35-40) Il blocco dei capitoli finali a prima vista appare pura ripetizione, insieme ridondante di quanto già detto

come descrizione del progetto (25-31). E in certo senso anche lo è, con quello stile del Sacerdotale, in cui il ripetere ha lo scopo di aiutare la memoria e di mostrare scrupolosa l’obbedienza. Qui tuttavia c’è altro. Raccontare la minuziosa descrizione che, puntuale, esegue il divino progetto, significa soprattutto affermare che il grande peccato non ha interrotto la volontà d’amore del Signore, che la sua casa vuole edificare per rimanere coi suoi lungo il cammino.

Come all’inizio la caduta fu la fine dell’Eden, ma non della creazione e dell’amore del Signore per l’uomo peccatore, così, vicino al monte, l’infausta scelta di sostituire l’idolo pieno e inerte, opera dell’uomo, ma non di Dio, alla dimora vuota che Egli ha scelto, per riempirla di sé vicino ai suoi, non pose fine ad una relazione d’amore così forte da durare quanto tutta la creazione. I capitoli finali dell’Esodo sono carichi di grande speranza: il Signore rimane coi suoi, anche dopo il peccato, come e ancor più di quanto fece agli inizi.

Forti sono in questa parte i richiami alla creazione: come essa è durata dopo il peccato, così il progetto della dimora. La sua costruzione sembra richiamare il progetto dell’arca, anch’essa dall’uomo giusto con scrupolo eseguita, conformemente al divino disegno, dimora mobile per sopravvivere al diluvio, così come questa nel mortale deserto. Forti gli agganci con l’azione divina che dispiegò la sua forza creatrice; Spirito che riempie i cuori degli artisti come al principio aleggiava sulle acque; sette passaggi, come agli inizi scandiscono il procedere dell’opera e il tutto si conclude col riposo, vera mèta d’amore a cui Dio vuol riportare chi all’iniziò vi entrò, ma volle presto uscirne. Opera in progresso la creazione, all’uomo affidata nel suo continuare, così come la tenda santa, dalla fatica dell’uomo realizzata, secondo la parola del Signore. Nel tabernacolo Dio si dà, ma si nasconde, come dietro lo schermo dell’opera iniziale, a differenza del vitello d’oro che subito vuol vederlo, con l’illusione poi di possederlo. Solo da dietro Dio si fa vedere, ma c’è e rimane più vicino di quanto lo si possa immaginare. Nella creazione spazi sono ritagliati con opera precisa di separazione, così come la tenda ha ben delineati i luoghi diversi della relazione. Poi gli arredi, a fare da ornamento agli spazi circoscritti, come al principio: tavola coi pani di «Presenza», occhio sempre vigile al sostentamento dell’opera creata, che attende compimento; il candelabro d’oro che illumina all’intorno come i grandi luminari del quarto giorno, ad indicare tempo ed alternanza con ritmi uguali in cui ogni cosa ha il suo momento. Altari diversi ad indicare il dono che Dio si attende come gratitudine, per ciò che Egli stesso ha già donato. Poi abiti solenni, non più foglie, né provvisorie pelli, a ricoprir la nudità dei deboli, ma dignità eterna ridonata, riveste l’uomo in modo permanente.

Come al principio tutto si è compiuto, per entrare infine nel sabato di nozze, riposo santo da cui sempre ripartire, per ritornare ancora, fino a quando, il deserto superato, la terra si aprirà davanti agli occhi, e la promessa si farà compiuta, del Dio-con-noi, a noi per sempre unito.

E intanto occorre riprendere il cammino tracciato tra nube e fuoco, luce e tenebre alternate, secondo i ritmi sapienti del creato, lasciandosi umilmente dal proprio Dio condurre a divenire il popolo sognato.

4. Narrazione e comandamento

Due fondamentali generi letterari si intrecciano continuamente nelle pagine bibliche, particolarmente nel Libro dell’Esodo. Essi traggono la loro importanza non soltanto o non tanto se singolarmente presi, ma nella loro

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stretta correlazione. L’Esodo è un caso particolare di una modalità comunicativa costante dei testi biblici, fino allo stesso Nuovo Testamento.

4.1 Narrazione e comandamento nel Libro dell’Esodo Il Libro dell’Esodo si compone di un intreccio tra sezioni narrative e sezioni legislative: i due generi

letterari del racconto e del comandamento sembrano intrinsecamente collegati e capaci si sussistere solo nel reciproco rimando. Nei preliminari dell’uscita dall’Egitto frequenti parentesi legislative si aprono nel racconto; così pure nel cammino del deserto. La parentesi più larga dell’inserzione della legge si ha nei capitoli relativo al Sinai, dove il racconto sembra sospendersi. Qui sono piccole riprese della narrazione a fare da parentesi alla lunga esposizione legislativa. Il punto d’incontro e di maggiore interazione tra narrazione e precetto si ha proprio nella grande sezione dell’Alleanza al Sinai. Se nei capitoli 19-40 tale rapporto si fa particolarmente stretto ed evidente, tuttavia anche nelle altre parti del libro, dell’intero Pentateuco, e di tutto l’insieme dei cosiddetti libri storici dell’AT, sino a toccare lo stesso NT, legge e racconto sono reciprocamente implicati.

4.2 Racconto e comandamento nel Pentateuco Nel Pentateuco, in specie, un particolare balza subito agli occhi. Il racconto, che inizia con Gn 1 e si

prolunga fino ad Es 18, ha una lunga interruzione in Es 19-40, dove prevale il genere legislativo. L’interruzione prosegue lungo tutto il Levitico e fino a Nm 10. Solo a quel punto riprende la narrazione della marcia nel deserto, praticamente interrottasi in Es 18. L’identificazione di una sezione con un particolare genere è valida, naturalmente, non in assoluto, ma in termini comunque di netta prevalenza: anche in Es 1-18 si trovano infatti, come già osservato, piccole interruzioni del racconto, con l’inserzione di anticipi legislativi (ad es. in Es 12-13 sulla legislazione della pasqua o in Es 16 sul precetto del sabato); così pure in Es 19-40 vi sono evidenti riprese narrative, che interrompono la lunga successione legislativa (ad es la stipulazione dell’Alleanza in Es 24 o l’episodio del vitello d’oro con la rottura e ristabilimento della stessa Alleanza in es 32-34).

La disposizione dell’insieme dei quattro libri da Esodo a Deuteronomio, tralasciando la grande introduzione di Genesi, fa emergere con chiarezza tale rapporto-intreccio. Essa potrebbe configurarsi in questo modo:

A) Es 1,1-7,5 – Prologo: Il popolo in Egitto; la vocazione e missione di Mosè

B) Es 7,6-15,21 – L’uscita dall’Egitto: le opere di Dio, le sue leggi, la liberazione pasquale, il canto della lode che guarda alla terra promessa.

C) Es 15,22-18,27 – Il cammino nel deserto: Le prove e i doni, le leggi e le istituzioni date da Dio.

D) Es 19-24 – Leggi: Decalogo e Codice di Alleanza; stipulazione del patto E) Es 25-31 – Costruzione del Santuario: il progetto F) Es 32-34 – Peccato-castigo; perdono-nuova Alleanza E’) Es 35-40 – Costruzione del Santuario: la realizzazione D’) Lv 1,1-Nm 10,36 – Leggi: Disposizioni etico-religiose e cultuali; il Codice di Santità

C’) Nm 11-12 – Il cammino nel deserto: Prove e doni; istituzioni B’) Nm 13-36 – Contatti con la terra promessa: da Paran al Neghev, alle steppe di Moab; alcune leggi cultuali

A) Dt 1-34 – Epilogo: la terra insieme dono di Dio e frutto dell’osservanza della legge. Si racconta nuovamente il racconto dall’Egitto a Moab, per bocca di Mosé, e si ricapitola la legge nel suo nucleo decisivo dell’ascolto osservanza e dell’amore. Il Deuteronomio è ricapitolazione generare: racconto del racconto e legge della legge sono profondamente intrecciati. Il racconto torna su se stesso a condensarsi, come pure la legge ribadisce se stessa, comandando la sua osservanza.

Dall’insieme risulta con evidenza il profondo legame tra narrazione e comandamento. Esso nasconde una

struttura fondamentale della vita di fede. Una riconsiderazione del decalogo aiuta a farla emergere. 4.3 Storia e legge nel Decalogo Il Decalogo potrebbe apparire a prima vista una semplice successione di precetti, una pura e semplice

disposizione legislativa affidata alla buona volontà e alle risorse interiori dell’uomo. Non si deve invece dimenticare che, non soltanto tali precetti sono inseriti nella cornice relazionale di un’amicizia offerta dal Signore Dio al culmine di una serie di atti di amore premuroso (Es 19,1-8a) e di una solenne azione celebrativa che impegna prima di tutto YHWH (Es 24,1-11), ma addirittura i precetti stessi sono intrecciati ed intercalati dalla memoria-racconto delle azioni benefiche di Dio verso Israele.

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Il Decalogo stesso è intrecciato di elementi narrativi, già dalla sua formula introduttiva: «Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto». Il precetto non ha fondamento su se stesso né si sorregge sulla forza morale dell’uomo: è piuttosto risposta povera all’amore di Dio attestato nella narrazione. Il racconto, declinando storicamente la concreta e premurosa donazione di Dio al suo popolo (Io sono il Signore tuo Dio, con accentuazione sul possessivo, indicante la donazione radicale di un Dio che non si appartiene più e lega il suo destino a quello di Israele), chiede e fonda la risposta di Israele ad un patto di appartenenza totale al suo Dio, mediante il precetto. Il precetto antiidolatrico dell’unicità di Dio è risposta all’amore che ha impegnato Dio per il suo popolo in una storia iniziata con la creazione stessa: da sempre. Il racconto della creazione (e in Dt 5 quello dell’uscita dall’Egitto) fonda il precetto del sabato. Nel giorno del riposo Israele pregusta il compimento della promessa, si impegna a non tornare ad alcuna forma di schiavitù, e a non imporla agli altri. In questa chiave il Decalogo assume i tratti della risposta fiduciosa dell’uomo all’amore del suo Dio, sperimentato nella concretezza della storia.

4.4 Una struttura fondamentale della vita di fede Narrazione e precetto costituiscono la dualità fondamentale che struttura l’Alleanza: la prima contiene

l’iniziativa dell’amore di Dio creatore e salvatore; il secondo manifesta la risposta libera dell’uomo all’invito di Dio all’Alleanza. Solo se legata alla narrazione la legge non rischia una deriva puramente teorica e astratta, né la riduzione a strumentalizzazioni moralistiche, ma assume il suo pieno significato in termini relazionali di risposta all’amore. L’obbedienza umana si dà solo come risposta all’iniziativa di Dio. D’altra parte la presenza del precetto accanto al racconto fa appello ad una responsabilità umana che chiede di essere onorata, ed alla quale Dio stesso non può sostituirsi. La narrazione modella l’applicazione della legge su ciò che Dio stesso ha operato e ne fonda la motivazione di osservanza. D’altro canto la legge ha la funzione testimoniale di mostrare il frutto di ciò che Dio ha fatto, facendo di un’esistenza un canto di lode al Signore.

La narrazione affonda nel passato dei benefici di Dio, approdando al presente dell’appello all’obbedienza alla legge. Quest’ultima apre il futuro di una nuova narrazione che Dio continuerà a scrivere con il popolo ormai a lui unito. Nel Deuteronomio, dove il rapporto narrazione-precetto, si fa sempre più stretto, emerge con forza come il racconto ricapitoli tutto il passato fino al presente, legando le generazioni dei padri a quelle dei figli all’interno di un’unica storia di amore, guidata da Dio. Nell’oggi delle steppe di Moab il racconto termina facendosi appello all’alleanza-osservanza della legge. Sono con tale risposta di amore da parte del popolo all’amore di Dio, il racconto può proseguire aprendo al futuro del compimento della promessa. La stessa cosa accade ai piedi del Sinai, in Es 19,1ss.: il racconto del cammino si fa richiesta di adesione personale al Signore, che promette, sulla base dell’Alleanza-osservanza di aprire il futuro della prosecuzione del racconto, verso il pieno compimento della sua promessa di amore.

Separare narrazione e precetto è dunque fare del racconto una semplice evocazione lontana, producendo una teologia (memoria-riflessione su Dio) vuota, che non fa appello alla conversione del cuore, mentre è ridurre la legge a mera osservanza estrinseca, elusiva anch’essa della conversione. I profeti hanno cercato di rendere nel loro tempo attuale e viva l’Alleanza, mostrando nell’attualità della narrazione della misericordia di Dio le implicanze più profonde di un’obbedienza realmente convertita. Lo stesso Gesù opera in questa direzione nel suo richiamo profetico agli scribi (teologi della narrazione senza l’osservanza) e ai farisei (pragmatisti dell’osservanza consegnata alla presunzione dell’uomo, senza riferimento alla narrazione, capace di convertire il cuore).

5. Genesi e scopo di un libro composito

Ad una lettura attenta il Libro dell’Esodo mostra non poche disomogeneità, con punti evidenti di discontinuità, che manifestano un complesso iter di composizione, con successive riscritture delle primitive tradizioni. Già da tempo la critica ha ravvisato in questo testo fondatore una pluralità di voci che, evidentemente, le redazioni successive hanno integrato in un unico disegno narrativo, senza tuttavia fonderle in assoluta omogeneità. In questo testo polifonico è dunque possibile riconoscere alcuni passaggi essenziali della sua genesi, con gli adattamenti successivi nei quali ogni epoca ha cercato di riscrivere la sua fede in relazione alle mutate esigenze della sua situazione. Il libro presenta dunque le cicatrici dei passaggi a volte traumatici del suo sviluppo attraverso le epoche di una storia dolorosa, così come una pianta porta in sé i segni della sua crescita nel tempo. Gli studiosi, muovendo dalle ripetizioni, da alcuni doppioni e da talune contraddizioni presenti nella trama testuale, hanno individuato almeno quattro tradizioni principali, quattro voci differenti, corrispondenti ai passaggi fondamentali della composizione.

5.1 La «memoria ufficiale» dell’epoca monarchica: la tradizione Jahwista Il livello redazionale più antico sembra risalire alla prima parte dell’epoca monarchica. A partire da Davide

e Salomone le memorie degli eventi fondatori e la loro primitiva narrazione di base (prevalentemente kerygmatica e

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confessante), hanno trovato una loro forma scritta e si sono progressivamente strutturate in narrazione allargata. L’epopea, arricchita di elementi storico-teologici per una sua ricomprensione, quale fondamento dell’istituzione monarchica, doveva costituire la solida base di giustificazione per il difficile passaggio epocale della nascita del potere regale e della legittimazione della dinastia davidica.

Gli studiosi hanno introdotto la denominazione di Jahwista a motivo dell’impiego del nome Jahweh a cui tale tradizione primitiva ricorre. La tradizione Jahwista è particolarmente riconoscibile laddove si manifesta con forza la signoria di Dio sulla storia, il suo incontrastato dominio, insieme alla sua liberalità che lo colloca dalla parte dell’Israele povero ed oppresso. Mosè vi è presentato come condottiero, figura esemplare dell’istituzione regale nel suo lasciarsi condurre da Dio ad assumere con coraggio e fermezza la guida del popolo. Tra i punti cardine della teologia Jahwista in tema dell’elezione libera e gratuita di Israele, nato come popolo, dopo la lunga gestazione dell’epoca patriarcale, con l’uscita dall’Egitto e l’alleanza del Sinai. Dio nella sua bontà chiede soltanto la fede come risposta al suo amore che, all’occorrenza, manifesta con forza la sua gelosia verso Israele. Lo schema teologico dal dono al perdono, attraverso il peccato e il castigo, mostra l’amore del Signore per i suoi, amore che il peccato non può annullare e che, proprio attraverso l’esperienza dolorosa del peccato, esprime con forza ancora maggiore la gratuità del dono rinnovato.

5.2 La memoria «alternativa» della testimonianza profetica: la tradizione Elohista Un livello redazionale quasi coevo è rappresentato dalla tradizione cosiddetta Elohista, a motivo della

designazione di Dio con il nome di Elohim. Probabilmente sviluppatasi, dopo la divisione dei regni, tra i circoli profetici del Regno del Nord essa deve probabilmente la sua remota paternità alla testimonianza di grandi figure come Elia, Eliseo e Osea che hanno operato soprattutto al Nord. Il loro severo richiamo all’alleanza, contro ogni tentativo idolatrico di sostituirsi a Dio o di affrancarsi dalla sua legge e dal suo giudizio, trova eco in alcuni fondamentali passaggi dell’Esodo, dove Mosè appare come il primo grande profeta del Signore, che richiama ad un’obbedienza fatta anche di rispettoso timore per colui che, nella sua sovrana trascendenza, non si lascia catturare dall’uomo, ma gli propone un rapporto di amore indissolubile, fatto di reciproca fedeltà.

Nei passaggi attribuiti a questa tradizione viene in genere salvaguardata la trascendenza di Elohim, evitandone descrizioni antropomorfiche, per accentuare il senso del mistero, a cui corrisponda un amore rispettoso ed un timore fedele. Nell’Elohista più severa è la critica all’arroganza del potere che travalica rispetto alla funzione assegnatagli da Dio e finisce per trasformarsi in forza di oppressione.

5.3 La memoria «riformatrice» della tradizione Deuteronomista In tarda epoca monarchica, forse attorno alla testimonianza profetica di Geremia, si avvia un grande

movimento riformatore, che si prefigge di affrontare il generale decadimento politico-sociale ed etico-religioso con una radicale riforma della struttura religiosa e cultuale capace di coinvolgere anche l’istituzione politica. Il re stesso sembra riscoprire la Legge di Dio come realtà da lungo tempo dimenticata, facendosi promotore di una conversione strutturale, imperniata su due obiettivi fondamentali: la centralizzazione del culto, ad evitare derive idolatriche o tendenze secessioniste; la centralità della parola della Legge ad evitare un culto soltanto formale o inutilmente materiale, che non coinvolga il cuore nell’obbedienza, spingendolo alla conversione.

Tale tradizione si concentra nel Deuteronomio, con i suoi frequenti richiami all’ascolto, all’osservanza, all’apertura del cuore, ad un’obbedienza più preziosa di qualunque sacrificio, che coinvolga tutta la persona, corpo e anima e che raggiunga tutto il popolo, di padre in figlio. Essa si prolunga nella narrazione allargata della cosiddetta storia deuteronomista, fino ai Libri dei Re, offrendo, proprio in tali atteggiamenti dell’obbedienza alla parola di Dio e della fedeltà alla sua alleanza, i criteri di giudizio dell’ambiguo operato dell’istituzione politica e religiosa. Lo schema teologico che vede la ciclica successione di benessere-infedeltà, castigo e pentimento è assunto a criterio di comprensione di tutto il movimento della storia.

Svariati passaggi dell’Esodo rivelano in modo esplicito una chiara impronta deuteronomista, soprattutto in relazione all’alleanza sinaitica, presentata come patto gratuito di Dio con Israele, ma in un certo senso condizionato all’obbedienza del popolo alla legge del suo Dio. Anche nel Deuteronomista, come nell’Elohista, Mosè ha i tratti prevalenti del profeta, del profeta spesso sofferente ed incompreso, alla maniera di Geremia. Per tale tradizione la sussistenza di Israele sarà condizionata alla custodia dell’Alleanza e della Legge ricevuta sull’Oreb (termine deuteronomista per indicare il Sinai), grazie al prolungarsi nella storia della mediazione di Mosè, attraverso i profeti-come-lui (Dt 18) e al duplice ruolo della mediazione familiare dei padri e di quella liturgica che attua nell’oggi il passato della salvezza di Dio. Sviluppi post-deuteronomisti porteranno alla nascita del culto sinagogale, con il quale, nella difficile epoca post-esilica Israele manterrà la sua identità attorno al Libro, scommettendo sull’obbedienza piuttosto che sul sacrificio.

5.4 La memoria universalistica della tradizione Sacerdotale La perdita dell’istituzione politico-monarchica e, soprattutto, di quella religioso-cultuale è alla base della

grande rilettura sacerdotale, sotto l’influsso ideale della grande figura di Ezechiele. Essa sembra animata da un

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duplice scopo: da un lato conservare l’identità dell’Israele disperso mediante la ricostruzione del suo sviluppo diacronico (genealogie ed elenchi di nomi che mirano al radicamento dell’oggi in una memoria capace di legittimarlo e sostenerlo); dall’altro allargare l’orizzonte del disegno divino a misura universale, per far emergere a tutto tondo il ruolo provvidenziale della mediazione universale di Israele.

L’allargamento procede a ritroso ad affondare nelle radici della comune derivazione degli uomini in Adamo e della loro comune destinazione nel disegno provvidenziale del creatore. In un’epoca di dispersione fra le genti Israele scopre la sua vocazione di mediazione universale e, nel crollo della grande istituzione cultuale, si riposiziona all’ombra del tempio cosmico della creazione e dei suoi ritmi celebrativi, con il loro decisivo culmine nella divina istituzione del sabato. L’orizzonte si dilata anche in avanti, dove il sogno di una società teocratica, con una nuova terra ed un nuovo tempio ideale (Ez 40-48; 1-2Cr) in cui dimori stabilmente la presenza di Dio e in cui il sacerdozio sostituisca i re (si veda in proposito il ruolo particolare di Aronne accanto a Mosè, proprio della sensibilità sacerdotale), ha una portata di fatto solo escatologica, mentre si riscopre in modo più decisivo quella presenza mobile di Dio accanto ai suoi, della sua Gloria in esilio (Ez 1) efficacemente descritta nel progetto e nella costruzione della dimora dell’Esodo (25-31; 35-40).

Il grande racconto sacerdotale rilegge, come narrazione allargata, la storia esodica, ritrovando le sue radici patriarcali e originarie ed intravedendo il compimento del destino di Israele nel segno di una mediazione universale, quale manifestazione stabile della Gloria di Dio e luogo dinamico della sua dimora in mezzo agli uomini. Con la grande rilettura sacerdotale, nel contesto del dramma post-esilico, un’unica storia di amore e di salvezza, capace di snodarsi da Adamo ai patriarchi, attraverso Mosè e i suoi «successori», sino al sogno di una vocazione universalistica di orizzonte escatologico, l’Israele disperso rilegge in modo inglobante tutte le sue tradizioni e ritrova il senso più profondo della sua identità ferita.

6. Indicazioni bibliografiche

6.1 Introduzioni J.-L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per il interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia, EDB (Collana Biblica), Bologna 2000 (rist. 2008). 6.2 Sintesi teologico-bibliche L. ALONSO-SCHÖKEL, Salvezza e liberazione: l’Esodo, EDB (Epifania della Parola), Bologna 1997 6.2 Commenti patristici ORIGENE, Omelie sull’Esodo, Città Nuova (Collana testi patristici 27), Roma 1981. 6.3 Commenti esegetico-teologici M. NOTH, Esodo. Traduzione e commento Paideia (Antico Testamento 5), Brescia 1977 G. AUZOU, Dalla servitù al servizio. Il libro dell’Esodo, EDB (Lettura pastorale della Bibbia 25), Bologna 1976 (rist. 2008). B.S. CHILDS, Il libro dell’Esodo. Commentario critico-teologico, Piemme (Collezione Teologica), Casale Monferrato 1995. T.E. FRETHEIM, Esodo, Claudiana (Strumenti – Commentari 18), Torino 2004. A. NEPI, Esodo (capitoli 1 – 15), Messaggero (Dabar-Logos-Parola), Padova 2002. A. NEPI, Esodo (capitoli 16-40), Messaggero (Dabar-Logos-Parola), Padova 2004. 6.4 Commenti teologico-spirituali D. BARSOTTI, Meditazione sull’Esodo, Queriniana (Bibbia e Liturgia 5), Brescia 19916.

Luca Bassetti

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Parte II

Schede di lettura

I. Il potere e la sua logica oppressiva (Es 1,1-22) Per la lettura

1,1-7. E’ la presentazione di Israele in Egitto, in forma molto schematica, nella totalità delle dodici tribù, legate al patriarca Giacobbe di cui costituiscono la discendenza, secondo la promessa divina a suo tempo fatta ad Abramo, il capostipite (cfr.Gen.12,1 e ss.). Il v.7 sottolinea la crescita dei figli di Israele che “prolificarono, crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ricolmo”, sigillando la storia dei clan e dando inizio a quella del popolo di Dio.

8-14. Dopo l’esperienza iniziale di libertà, tracciata dallo scrittore sacerdotale, lo jawista introduce il sospetto dell’oppressione ad opera del potere (vv.8-12) commentata anche dal sacerdotale (vv.13-14). Un testo interpolato in Gen.15 (vv.13-16) presenta due visioni antitetiche dell’Egitto: in una (cfr.vv.13a.14b.) l’Egitto è un luogo dove si vive pacificamente, uscendone con grandi ricchezze; nell’altra (cfr.vv.13b.14.a) è la terra della schiavitù da cui Dio libera con un giudizio. Dovevano esserci,quindi, diverse tradizioni confluite, poi, nella redazione finale in cui prevale il tema della schiavitù e della repressione: gli ebrei sono costretti ai lavori forzati e devono costruire città deposito per il faraone (v.11). La storia egiziana registra un mutamento dinastico, per cui ad un regime più tollerante, si sostituisce un potere aggressivo: questo avviene nel 1550 con la XVIII dinastia, dopo la cacciata degli Hyksos, data però difficilmente conciliabile con la cronologia generale dell’esodo, e successivamente con Sethi I° nel 1306 (XIX dinastia).Per questa seconda collocazione storica, la narrazione dell’esodo offre un indizio significativo. I nomi, infatti, delle due città deposito (o di “vettovagliamento”) Pitom e Ramses significano: la prima “casa del dio solare Aton”, la seconda “casa di Ramesse” forse Avaris, l’antica capitale degli Hyksos ricostruita da Ramesse II° (1290-1224). I figli di Israele sarebbero stati oggetto delle corvées di questo durissimo faraone che li avrebbe poi costretti a procurarsi da soli i materiali senza ridurre i lavori a cottimo(cfr.5,6-23).

15-21. Il progetto del faraone procede in crescendo: in un primo tempo si è pianificata l’oppressione mediante il lavoro forzato, ora si procede alla soppressione materiale delle persone. L’ordine del faraone è quello di sterminare ogni figlio ebreo al momento del parto: ma le due levatrici disobbediscono e vengono, per questo, ricompensate da Dio con una famiglia numerosa.

22. La logica del potere non conosce ostacoli: il faraone ordina “a tutto il popolo” l’eliminazione di ogni ebreo maschio che dovrà essere gettato nel Nilo. Per la meditazione Il primo capitolo dell’Esodo si collega alla storia di Giuseppe (Gen.37-50) e riprende a narrare la vicenda di Israele che si è trasferito in Egitto. Il luogo in cui si apre la storia rappresenta simbolicamente la schiavitù e l’oppressione, dalle quali Israele uscirà grazie al potente intervento di Dio che lo libererà e lo legherà a sé con un patto di amore e fedeltà. Fin dall’inizio appare chiaro il contrasto tra due progetti: quello del faraone che rappresenta il potere umano schiavista ed oppressore e quello di Dio che è per la vita e la libertà degli oppressi. 1.La logica del potere: oppressione, soppressione, eliminazione. La sequenza che sta alla base della logica del potere umano è un crescendo dettato dalla paura: il faraone è preoccupato che i figli di Israele diventino troppo numerosi così da costituire un pericolo per il suo regno. Non si tratta del timore di un’eccessiva penetrazione di culture estranee a quella egiziana, quanto della paura di potenziali soldati che, in caso di guerra, potrebbero schierarsi con il nemico così da poter giungere a sovrastare e distruggere lo stesso regno. Le categorie mentali del faraone sono quelle militari: contare soldati ed armi, vantarsi delle proprie forze militari e della propria superiorità. La presenza dei figli di Israele diventa un incubo che egli cerca di allontanare, impartendo ordini sempre più duri ed aggressivi, mascherati come “agire per garantire la sicurezza”.

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A ben guardare, il ragionamento dei potenti rivela un contrasto di fondo: se, infatti, è determinato, al suo interno, da paura,insicurezza e fragilità, si manifesta,all’esterno, con atteggiamenti roboanti, violenti ed oppressivi che pretendono di giustificare il proprio agire agli occhi del mondo. Questa tensione che appare chiara nelle prime righe dell’Esodo, è la stessa che serpeggia in ogni tipo di dominio, sia esso politico, economico o di altro tipo; è, alla fine, la dimostrazione evidente che il potente non è libero, ma schiavo del suo stesso potere che deve difendere continuamente dai possibili attacchi dei nemici. Questo tipo di logica, è esattamente opposta a quella evangelica. Quando Gesù si rivolge alla folla ed ai suoi discepoli insegnando le condizioni necessarie per seguirlo (cfr.Mc.8,34-38), fa comprendere qual è la contrapposizione tra la logica del mondo e quella del vangelo: si tratta di due diversi modelli di esistenza. Il primo fondato sul possesso, cerca di avere sempre di più per compensare la propria debolezza; il secondo invece, accoglie tutto come dono gratuito dell’amore di Dio. Il primo modo di stare al mondo conduce al fallimento non solo della vita futura, ma anche di quella presente; il secondo non solo è un guadagno della vita eterna, ma anche una pienezza del presente. Il faraone è prigioniero di se stesso e del suo potere ed è votato al fallimento sia come re che come uomo: l’esito finale della sua vicenda sarà, infatti, la distruzione della sua forza militare e la morte. 2. Sifra “bellezza” e Pua “splendore”: la logica della vita. Fin dall’antichità le vecchie sagge presiedono l’entrata e l’uscita dalla vita, aiutano le nascite e accompagnano con i lamenti funebri i decessi: sono le “custodi delle porte”. In questo sono “potenti” collaboratrici dell’opera creatrice di Dio. Il faraone ha la pretesa di estendere il proprio dominio sulla vita e sulla morte, eliminando i potenziali nemici in vista della sua assoluta sicurezza e della sua immortalità. Ma per portare a termine il suo progetto, ha bisogno di aiuto e deve ricorrere alle due levatrici, donne assolutamente sconosciute, di nessuna fama. Esse, che lavorano in coppia come in ogni buona tradizione femminile, hanno potere nei confronti della vita e della morte e conoscono i problemi ad esse legati; forti di questa sapienza, ignorano l’ordine del faraone compiendo un atto di disobbedienza civile, in nome della logica della vita che le lega indissolubilmente a tutte le donne oppresse ed alla parte di Dio che è creatore e custode dell’esistenza umana. E quando il faraone chiede conto del loro operare, Pua e Scifra non controbattono esibendo il loro potere, ma rispondono con una sottile ironia(cfr.1,19) che ricorda quel detto evangelico: “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt.10,16b). Non servirebbe a nulla mettere in mostra se stesse e creare conflitti: quanto alle donne ebree sono forti, il loro corpo è robusto, il loro spirito pronto. E Dio che è sempre dalla parte della vita, benefica le levatrici e concede loro una grande famiglia (cfr.vv.20-21), poiché esse “avevano temuto Dio”. A proposito del timor di Dio dice S. Simeone il nuovo teologo: “Chi è sostenuto dal timore di Dio, non ha paura di vivere in mezzo ad uomini malvagi. Possedendo il timore di Dio, portando l’invincibile corazza della fede, è forte in ogni impresa e riesce a compiere cose che agli altri sembrano impossibili. Cammina in mezzo a loro come gigante tra piccole scimmie, come leone ruggente tra cani e volpi; confidando in Dio li riempie di stupore con la forza del suo intelletto, soggioga le loro menti, con parole di saggezza simili a scettro di ferro”. Per continuare la riflessione Sugli stili di vita: Mc.8,34-38;Mt.10,37-39;Lc.14,25-27;Col.3,1-17. Per la preghiera Le sue fondamenta sono sui monti santi; il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose stupende, città di Dio. Ricorderò Raab e Babilonia tra quelli che mi conoscono; ecco Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: «L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda». Il Signore scriverà nel libro dei popoli: «Là costui è nato». E danzando canteranno:/”Sono in te tutte le mie sorgenti”. (Salmo 87)

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II. La vocazione e la missione di Mosè (Es 3,1-22) Per la lettura

La narrazione della vocazione di Mosè al c. 3 è scandita in tre momenti: l’incontro al roveto (3,1-

6); la missione di Mosè (3,7-15), il programma di Dio per Mosè e per il popolo (3,16-22). 3,1-6 Il capitolo 2 era terminato con la residenza di Mosè in Madian, all’inizio del nuovo capitolo

veniamo a sapere che è diventato pastore. In uno dei suoi spostamenti quotidiani con il gregge del suocero, giunge alla montagna, dove Dio decide di manifestarsi a lui. In un momento della vita ordinario, in un luogo come un altro per Mosè, Dio si rivela. L’angelo del Signore, che è Dio stesso, appare in un roveto che brucia ma senza consumarsi. Si tratta di un’esperienza assolutamente nuova per Mosè che segna anche un nuovo inizio della sua esistenza: finisce la vita di pastore e comincia quella del liberatore. D’altra parte, Dio utilizza un fenomeno naturale come strumento e occasione per la sua rivelazione. Tale rivelazione si esplicita per Mosè in una visione e in una parola, con l’interazione tra l’iniziativa di Dio e quella di Mosè. In effetti, Mosè, lo scopritore di Dio, si trova come scoperto da Dio che lo chiama per nome. Siamo di fronte ad un vero incontro che apre al dialogo tra i due interlocutori, grazie alla parola che Dio comincia a rivolgere a Mosè. L’accento è posto sull’iniziativa divina, visto che Mosè non si prepara all’incontro, né lo cerca, egli è semplicemente sorpreso da un Dio che lo affronta e lo chiama. Questi non è un Dio sconosciuto, ma il Dio che camminava con i patriarchi di Israele e con i quali ha costruito una storia segnata da un profondo legame, storia che ora intende continuare attraverso lo stesso Mosè.

3,7-15 I tratti stupefacenti della teofania vengono ben presto relegati sullo sfondo, mentre le parole di Dio sulla condizione del suo popolo mostrano in maniera profonda la verità della sua Persona. Infatti si dice che Dio vede l’afflizione del suo popolo, ode il suo grido e conosce le su sofferenze. Egli si inserisce così in questa storia di dolore e di umiliazione per intervenirvi a salvare coloro che sono già oggetto della sua elezione senza pentimento a partire dai padri. Dio è presentato come personalmente coinvolto nelle sofferenze del popolo, pienamente partecipe della sua situazione di oppressione. Mentre il Signore geme insieme al suo popolo, egli non è però impotente ma promette loro una liberazione e l’approdo a una terra in cui possano vivere pienamente. L’invio di Mosè diventa funzionale a questo progetto divino. A questo incarico, il prescelto oppone resistenza attraverso alcune obiezioni. Dio non si rivolge ad un essere privo della sua personalità, ma ad un uomo con le sue domande e con le sue paure. Nel dialogo con il prescelto, il Signore il Signore lo rassicura sulla sua continua presenza e offre a lui un segno per superare i dubbi e le paure, un segno che si realizzerà nel passaggio dalla schiavitù dell’Egitto al servizio di Dio proprio sullo stesso monte. Ma Mosè, non accontentandosi, vuol conoscere l’identità dell’interlocutore divino, il quale afferma di essere «Io sono colui che sono». Con questa formula, Dio rivela di essere il Dio vicino e fedele che, sin dall’inizio della storia patriarcale, si è preso cura dei suoi eletti. Inoltre dando il suo nome e quindi lasciandosi chiamare, il Signore rivela la sua disponibilità ad un incontro profondo e a un dialogo intimo con il suo popolo.

3,16-22 Dopo aver superato le obiezioni di Mosè, ora Dio intende spingerlo all’azione, mostrando a lui il programma di ciò che accadrà: il popolo presterà fede, Faraone si indurirà, gli Egiziani saranno afflitti da piaghe, arriverà la liberazione e, infine, il popolo oppressore sarà spogliato dagli stessi oppressi. Da parte di Dio tutto appare chiaro, anche gli ostacoli che gli Israeliti troveranno sul loro cammino fanno parte integrante del suo piano che si dischiude verso un futuro pieno di speranza. Di questa insperata apertura Mosè dovrà essere portavoce nei confronti del popolo che si trova in una situazione senza apparente via d’uscita. Infatti solo Dio con la sua visita può cambiare questa condizione ed intervenire a salvezza. Di nuovo, il testo ribadisce che Dio viene incontro ai suoi che sono nella sofferenza e che l’iniziativa è tutta di Dio, non essendo l’uomo ad andare per primo verso Dio e raggiungerlo, ma l’uomo essendo raggiunto per grazia da Dio e accogliendo la sua venuta. L’ostinazione colpevole di Faraone e degli Egiziani darà modo al Signore di dimostrare la sua potenza salvatrice nei confronti di Israele, cosicché il popolo considererà sempre l’uscita dall’Egitto la manifestazione più sorprendente della potenza divina, di cui si dovrà gelosamente preservare la memoria di generazione in generazione.

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Per la meditazione Il messaggio più importante del testo è costituito dalla rivelazione di Dio a Mosè, rivelazione già manifestata ai padri nel passato e che aveva promesso di portare a compimento nel futuro la sua volontà salvifica nei confronti di Israele. Questa rivelazione data a Mosè, secondo il Nuovo Testamento, è ancora parziale perché è finalizzata a quella piena e definitiva che risplende sul volto di Cristo (Gv 1,18). All’interno di questo contesto di teofania il testo racconta della vocazione di Mosè seconda una tipica modalità biblica: 1. l’apparizione divina (vv. 1-4a); 2. parole di introduzione (vv. 4b-9); 3. l’affidamento della missione (v. 10); 4. l’obiezione del chiamato (v. 11); 5. la rassicurazione (v. 12a); 6. il segno di conferma (v. 12b). Il dialogo tra Dio e Mosè rappresenta un ampliamento di questo schema. Così Mosè è chiamato per essere un messaggero della parola di Dio, dal punto di vista del canone, egli è il primo ad essere chiamato secondo questa modalità.

Proprio attraverso il rapporto dialogico con Mosè, Dio rivela la sua identità. Un’identità non statica ma dinamica che si mostra nella storia, segnata dalla relazione con coloro che egli ha scelto. Inoltre Dio mostra se stesso non soltanto attraverso la propria iniziativa, ma, come con Mosè, nell’interazione con un interlocutore umano. Non solo le domande e i dubbi del suo servitore sono occasione della sua rivelazione, ma anche le sue debolezze sono un mezzo attraverso il quale Dio entra nella storia e lì si mostra. Mosè, in tutta la sua umanità, costituisce il mediatore designato dal Signore per attuare la liberazione del suo popolo oppresso. Dio stesso si prende un rischio, non agendo direttamente, ma fidandosi di lui e chiede a Mosè di fare altrettanto prendendo la sua responsabilità di fronte a tutto Israele. Tale scommessa risulterà vincente quando il popolo si renderà conto, al momento dell’alleanza del Sinai, di essere passato dal servizio opprimente e disumano reso al Faraone, al servizio liberante e appagante reso al suo Dio. Per continuare la riflessione Gen 12,1-9; Is 6,1-13; Ger 1,4-10 Per la preghiera Ho sperato: ho sperato nel Signore ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido. Mi ha tratto dalla fossa della morte, dal fango della palude; i miei piedi ha stabilito sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi. Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, lode al nostro Dio. Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore. Beato l'uomo che spera nel Signore e non si mette dalla parte dei superbi, né si volge a chi segue la menzogna. Quanti prodigi tu hai fatto, Signore Dio mio, quali disegni in nostro favore: nessuno a te si può paragonare. Se li voglio annunziare e proclamare sono troppi per essere contati. Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: «Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore». Ho annunziato la tua giustizia nella grande assemblea;

vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai. Non ho nascosto la tua giustizia in fondo al cuore, la tua fedeltà e la tua salvezza ho proclamato. Non ho nascosto la tua grazia e la tua fedeltà alla grande assemblea. Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia, la tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre, poiché mi circondano mali senza numero, le mie colpe mi opprimono e non posso più vedere. Sono più dei capelli del mio capo, il mio cuore viene meno. Degnati, Signore, di liberarmi; accorri, Signore, in mio aiuto. Vergogna e confusione quanti cercano di togliermi la vita. Retrocedano coperti d'infamia quelli che godono della mia sventura. Siano presi da tremore e da vergogna quelli che mi scherniscono. Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano, dicano sempre: «Il Signore è grande» quelli che bramano la tua salvezza. Io sono povero e infelice; di me ha cura il Signore. Tu, mio aiuto e mia liberazione, mio Dio, non tardare.

(Salmo 40)

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III. La partenza ed il distacco di Mosè (Es 4,18-31)

Per la lettura Il brano descrive un significativo ed importante momento di passaggio nella vita di Mosè, tra la

terra di Madian, dove da ormai quaranta anni si è stabilito, ha trovato moglie e avuto figli (Es 2,15-25), e il paese d’Egitto, dove il Signore lo ha inviato, parlandogli dal roveto (Es 3,1-4,17) e al quale egli giunge con il fratello Aronne (Es 4,27-31). Il passo acquista particolare importanza per il fatto che si colloca subito dopo la fine del colloquio con Dio sul monte, colloquio carico di resistenze da parte di Mosè, che non intende accogliere la missione affidatagli da Dio. Il colloquio si conclude con l’ennesima insistenza di Dio, senza indicare una risposta affermativa da parte di Mosè. Questi tuttavia, giunto dal suocero, manifesta il suo intento di partire incontro ai suoi fratelli in Egitto, con la moglie e i figli. Per strada un misterioso e pericoloso evento lo separa dalla moglie e dai figli e lo prepara all’incontro con il fratello Aronne. Che cosa è accaduto a Mosè tra la sua discesa dal monte e il suo incontro con Aronne? Ecco la questione a cui il testo sembra voler così velatamente rispondere.

Il passo si compone di cinque piccole sequenze disposte in modo concentrico:

a) 4,18-19: Congedo da Jetro e partenza di Mosè da Madian. b) 4,20-23: Comando di Dio a Mosè – obbedienza di Mosè – istruzioni date da Dio. c) 4,24-26: L’evento misterioso nella notte b’) 4,27-28: Comando di Dio ad Aronne – obbedienza di Aronne – istruzioni date da Mosè.

a’) 4,29-31: Arrivo di Mosé e Aronne in Egitto e incontro con gli anziani di Israele. Si raccontano i passaggi della transizione di Mosè, appena sceso dall’Oreb da Madian all’Egitto in cinque successive scene, il cui nucleo è rappresentato dall’evento misterioso e temibile che colpisce Mosé nella notte.

I scena (4,18-19): Anzitutto l’incontro con il suocero Jetro. Il lettore non sa ancora che Mosè ha deciso di obbedire a Dio e di partire per l’Egitto: lo apprende insieme a Jetro. Mosè tace tuttavia al suocero del suo incontro con il Signore su monte e della particolare missione che gli è stata affidata: la nasconde dietro la più banale motivazione di una visita ai suoi fratelli ebrei per vedere come stanno. Jetro comprende tali motivazioni affettive e volentieri vi acconsente. Altre più profonde ragioni non le avrebbe forse al momento comprese.

II scena (4,20-23): Solo dopo la decisione di partire il Signore rivela a Mosè alcuni particolari della sua missione, prima taciuti. Già sul monte Egli aveva considerato l’eventualità di una resistenza del faraone, rassicurando Mosè con la promessa del suoi ripeturi interventi. Qui invece il Signore afferma esplicitamente che indurirà il cuore del faraone fino alla morte del suo primogenito per aver salvo Israele, primogenito di Dio. C’è una pedagogia di Dio nel manifestare progressivamente la sua volontà: solo cominciando ad acconsentire se ne comprendono meglio i risvolti.

III scena (4,24-27): Mosè ha lasciato la terra ormai familiare e il suocero, ma non la moglie e i figli. Un fatto misterioso nella notte lo costringerà a proseguire da solo il cammino. L’episodio resta alquanto oscuro. Il testo afferma che il Signore si fa incontro a Mosè per farlo morire; egli scampa dalla morte per l’intervento della moglie che circoncide il figlio toccando con il suo sangue «i piedi» (eufemismo per indicare i genitali) di Mosè. Questi, riscattato dal prezzo del sangue dovrà tuttavia proseguire da solo.

L’intervento notturno di Dio, a somiglianza della lotta notturna con Giacobbe (Gn 32), procura una qualche morte. L’uomo scampa, nel caso di Giacobbe esce vincitore, ma sciancato, diminuito, tale da non poter più lottare, da doversi egli stesso arrendere al Signore rimettendosi con più fiducia a Lui. Anche Mosè evita la morte fisica, che non era certamente nell’intenzione di Dio, ma non la morte come diminuzione di sé, rimenendo solo nel distacco totale dalla famiglia, per essere totalmente affidato al suo Dio. La circoncisione del figlio ha forse valore sostitutivo rispetto a quella di Mosè. Tale segno indica una riduzione della propria potenza maschile, fonte di promessa per il futuro, per lasciare che il domani sia soltanto dono e opera della potenza di Dio. Mosè accetta di perdere il suo futuro sicuro (la moglie e il figlio) per il futuro offerto dalla promessa di Dio. In tal modo egli sembra vivere anticipatamente quanto accadrà all’Egitto, con la perdita dei suoi primogeniti.

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IV scena (4,27-28): Aronne riceve da Dio l’ordine di andare incontro a Mosè. Colui che ha lasciato casa, sicurezze e affetti ora trova un fratello con cui confidarsi: quello che non potè rivelare al suocero può dirlo al fratello, con la certezza di essere capito e di trovare qualcuni che Dio ha preparato a condividere la sua missione.

V scena (4,29-31): Mosè e Aronne incontrano il popolo e riferiscono quanto il Signore ha detto e operato. Il popolo crede manifesta evidenti segni di consolazione, esprimendo poi la sua fiducia con l’atto dell’adorazione di Dio. A questo punto Mosè è veramente certo della sua missione divina ed è pronto per affrontare il faraone. Per la meditazione Che cosa è dunque accaduto a Mosè tanto da trasformare il suo atteggiamento interiore dal monento della rivelazione di Dio al suo incontro con Aronne e con il popolo? Il testo cerca di rispondere con alcuni essenziali passaggi. Il punto di partenza è la situazione di Mosè a Madian. Egli sentiva forte l’appello a liberare il suo popolo dall’oppressione in Egitto ed aveva tentato con alcuni gesti di farsene carico, ma non riuscì e dovette fuggire. Il Signore allora sembrò non appoggiarlo. Solo dopo quaranta anni di vita e di sistemazione familiare a Madian il Signore si vivo: la sua richiesta coglie nel vivo il sentire di Mosè, risveglia il suo forse mai del tutto sopito desiderio di allora; Mosè però non se la sente più: le suo insicurezze sono aumentate e forse anche il suo desiderio di una vita tranquilla sembra prevalere. Egli a Dio non dà direttamente alcuna risposta finale. Scendendo dal monte forse tuttavia egli ripensa all’appello del Signore, lo sente bruciare dentro come un desiderio anche suo. Al suocero non se la sente tuttavia di rivelare qualcosa che non è sicuro neanche per lui; tace sulla rivelazione di Dio ed anche sulla missione: forse Egli non ha ncora deciso sulla missione, ma solo su una semplice visita ai fratelli in Egitto, qualcosa che si possa fare con tutta la propria famiglia al seguito, come una sorta di gita. È nella notte misteriosa che le cose cambiano. Mosè si sente come perso in un profondo smarrimento. Sua moglie si accorge di stare per perderlo: l’intervento di Dio è troppo forte, non è possibile un compromesso, perché il cuore si sta dirigendo altrove. La donna è forte e accetta la privazione, ella stessa taglia, accetta il distacco sapendo di ferire il figlio e sopporta di pagare un prezzo di sangue. Mosè è salvato da una morte: la resistenza della Zippora e del figlio o avrebbero straziato. Essi invece, con la loro rinuncia di sangue e la loro diminuzione lo hanno liberato per il Signore, sollevandolo dallo smarrimento. Anche Mosè è tuttavia diminuito da una circoncisione vicaria, che lo ferisce, privandolo della sua sicurezza per il futuro, per lasciarlo povero nelle mani di Dio. L’incontro con Aronne solleva quest’uomo ormai povero e solo. Ora egli è più sicuro della sua missione e può, a differenza di quanto accadde col suocero, raccontarne ad Aronne. Il fratello condivide e perciò dà conferma dell’opera di Dio e conforta il chiamato. Il popolo in Egitto sigilla il faticoso discernimento di Mosè: non solo crede, ma si sente subito consolato fino all’adorazione di Dio. Già questo è pegno di missione riuscita. Il popolo che nella sofferenza crede, è consolato e adora, gusta già la liberta dall’impero del faraone; è ormai sotto la sicura signoria di Dio, confermando Mosè dell’autenticità della sua chiamata. In ogni autentica chiamata la volontà di Dio si manifesta con gradualità, in proporzione dell’accoglienza disponibile dell’uomo. Le resistenze non sono subito vinte: il Signore rispetta la libertà anche a costo di un fallimento dei suoi progetti. La sua chiamata non è mai tuttavia contro il sentire più profondo dell’uomo, ma ha tempi diversi dai nostri. Il giovane e prestante Mosè avrebbe voluto subito intervenire, quarant’anni prima, ma non era ancora pronto: forse allora avrebbe prevalso la fiducia in se stesso, nelle sue forze. Il popolo lo avrebbe visto come un altro padrone: egli era ancora troppo dalla parte della sicurezza dell’Egitto. Dio sceglie il tempo della calma, di una maturità più spoglia di progetti umani e di ardori ideali, per rivelare il suo progetto, nel quale il chiamato sente comunque l’eco profonda del suo antico desiderio. Tale rivelazione non deve essere subito comunicata. La decisione può restare nascosta agli altri, ai familiari, forse, in un certo senso anche a se stessi: solo dopo l’incontro notturno se ne avrà chiarezza

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pacificata. Si ha bisogno tuttavia di un qualche incoraggiamento a proseguire anche se la chiarezza non è ancora piena: ecco il valore della benedizione di Jetro. Una spogliazione dà reale chiarezza del volere divino e abilita al suo compimento. La ferita sopportata dai familiari e dagli amici solleva dal peso ed incoraggia a proseguire diminuiti, per essere in una povertà totalmente disponibile. È in tale situazione, in cui si accetta il deserto della solitudine, che si scopre la presenza di fratelli, compagni di viaggio e sostegno nell’opera. Conferma l’autenticità del tutto non il successo immediato ed il risultato appariscente, ma la fede povera di qualcuno che accetta di credere e sperimenta consolazione e gratitudine al Signore: qui la missione è già in quanche modo compiuta. Si può confrontare tutto questo con la vocazione «resistente» di Geremia (Ger 1) o con quella «trepidante» di Isaia (Is 6), per approdare alla perfetta disponibilità di Gesù, che comprende tuttavia solo gradualmente la via della croce, cercando il conforto dei discepoli-amici (Mc 8,27ss). Per la preghiera Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo. Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno l'oscurità mi copra e intorno a me sia la notte»; nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce. Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo.

Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno. Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora. Se Dio sopprimesse i peccatori! Allontanatevi da me, uomini sanguinari. Essi parlano contro di te con inganno: contro di te insorgono con frode. Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano e non detesto i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile come se fossero miei nemici. Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri: vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita.

(Salmo 139)

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IV. La pasqua del Signore e la partenza del popolo (Es 12,1-20)

Per la lettura

Il testo è parte integrante di un contesto di cinque passi, ben articolato, che va considerato nel suo insieme. Questo manifesta al suo interno alcune corrispondenze che fanno supporre una struttura circolare: a) 12,1-20: Istruzioni del Signore a Mosè sul rito della pasqua: il sangue dell’agnello, gli azzimi e il comando del memoriale. b) 12,21-28: Instruzioni di Mosè al popolo sulla pasqua e loro esecuzione. c) 12,29-42: Passaggio del Signore, morte dei primogeniti, partenza degli israeliti. b’) 12,43-51: Istruzioni del Signore a Mosè e al popolo sulla pasqua (modalità e partecipanti) e loro esecuzione. a’) 13,1-16: Istruzioni del Signore a Mosè sul rito della pasqua: azzimi e consacrazione dei primogeniti.

La particolare disposizione del testo, in cui il racconto è intrecciato con le istruzioni-disposizioni per la pasqua e queste sono, a loro volta, in tensione tra il presente di ciò che Mosé comanda per i suoi quella notte e il futuro delle generazioni che dovranno celebrare come memoriale lo stesso rito, indica una sovrapposizione tra l’evento e la sua celebrazione, tra la storia e la liturgia. Il racconto è già declinato in una luce liturgica; è già assorbito dalle successive generazioni come fonte continua della loro attuale pasqua esistenziale grazie alla celebrazione memoriale.

Tale intreccio di racconto e rito, di storia e liturgia, tanto da trasfigurare i fatti narrati come eventi già celebrati, si estende fino al cantico di Maria, dopo il passaggio del mare. L’intera sezione 12,1-15,21 si presenta dunque come realtà storica già narrata in contesto celebrativo in cui si succedono come due eventi pasquali intrinsecamente legati: prima la pasqua del Signore, che colpisce il paese d’Egitto e risparmia Israele per il sangue dell’agnello; poi la pasqua di Israele che consegue la piena libertà attraverso il mare. L’azione liturgica memoriale rilegge e modella il racconto storico. Nel testo il rito liturgico precede lo stesso avvenimento storico; redazionalmente il rituale è collocato addirittura prima che l’evento abbia luogo. Forse un rito nomadico, di carattere stagionale e di valore apotropaico, precedeva addirittura la fede nel Dio dei padri ed è stato in certo modo riespresso nella luce di questa fede. È sicuro tuttavia che qui è in gioco qualcosa di radicalmente nuovo e fondante l’identità del popolo, che deve essere oggetto di memoria viva. Un continuo gioco di rifrazioni attraversa il testo: il racconto nel suo intreccio con le disposizioni normative manifesta una tensione tra il presente di quella notte e futuro del comando memoriale di generazione in generazione; in realtà, dal punto di vista del redattore la tensione è tra il passato dell’evento fondatore ed il contesto liturgico attualizzante in cui egli si muove. Coloro che, nel suo tempo e in tutte le generazioni successive, osserveranno la celebrazione della pasqua, saranno intimamente partecipi dell’amore salvifico di Dio.

Lo sviluppo dell’intera sezione 12,1-13,16 mostra un certo sviluppo. In 12,1-20 si annuncia un nuovo inizio: primo mese, novilunio, primavera, annunciano un cambiamento della storia che sembra ricominciare, nell’obbedienza alla Parola di Dio, come nella creazione. Il tutto è qui incentrato sul sangue sostitutivo dell’agnello. Seguono alcune istruzioni sull’uso del sangue a cospargere le porte delle case (12,21-28), quasi ad anticipare il sangue che cospargerà il popolo nel rito di alleanza (24,1-11), a ricordare che la pasqua sta a fondamento dell’evento sinaitico. Al centro della sezione troviamo ancora il sangue, quello dei primogeniti egiziani: l’Egitto è colpito e spogliato dei suoi beni (12,29-42). Poi, nelle successive istruzioni per la pasqua da celebrare, c’è ancora un riferimento al sangue, quello della circoncisione, condizione perché si possa partecipare all’evento liturgico (12,43-51). Infine, nell’ultima scena relativa alle norme sui primogeniti, si trova ancora ricordato il sangue: ogni primogenito di animale deve essere ucciso, mentre il primogenito dell’uomo viene riscattato da un sangue animale sostitutivo (13,1-16).

Si assiste ad uno sviluppo attorno al motivo del sangue: prima il rito, in cui il sangue ha il valore di simbolo della vita effusa sostitutivamente e di segno di protezione sulle case; poi il dispiegarsi storico di una forza di cambiamento, attraverso il sangue dei primogeniti egiziani; infine l’iscrizione di tale

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evento nel corpo di ogni ebreo che, nella circoncisione e nel riscatto dei primogeniti, porta la memoria viva di ciò che lo ha generato, la ferita da cui è nato, come da cordone ombelicale reciso. Per la meditazione

Israele celebra la sua pasqua, il suo continuo rinnovamento come ricreazione divina, ogni anno. Il rito comprende un racconto memoriale, dal padre al figlio, in forma di confessione grata della misericordia di Dio, di generazione in generazione (Sal 136). Nel racconto il padre muove dall’evento fondatore della pasqua in Egitto e giunge sino all’oggi della sua famiglia, attraverso tante pasque, tanti passaggi di Dio a liberare, guarire, salvare, ridonare vita. Al racconto si accompagna il rito del pasto dell’agnello, memoria di un sangue che, anche senza essere più sparso sulle porte, continua misteriosamente a salvare i peccatori, a dare speranza agli oppressi. Poi il pane azzimo, sostegno nel cammino di liberazione dal lievito vecchio di malizia e perversità (1Cor 5,7-8). Frutto del lavoro e simbolo perciò della vita donata dal padre al figlio, vita del padre che si fa storia del figlio, generatrice di futuro e di speranza, vita di Dio donata nel Figlio che si offre, anticipo reale del Regno escatologico di Dio (Lc 22,14-20), che consente al racconto pasquale di progredire (...fate questo in memoria di me...) fino alla sua consumazione eterna.

Non si può celebrare tutto ciò da incirconcisi. La pasqua liturgica non si va viva memoria dell’evento, e non diventa pasqua esistenziale, senza che il sangue tocchi la carne, senza subire una riduzione una perdita di sé che realizza il mistero di una rinuncia alla fecondità in proprio, all’autosalvezza, per essere fecondi solo nell’amore di Dio ed essere da Lui salvati.

Non si può celebrare la pasqua che da poveri, coscienti di essere stati già salvati e bisognosi di esserlo ancora, debitori della propria vita come primogeniti riscattati ed internamente obbligati a riscattare dal sopruso e dalla miseria la vita degli altri: il forestiero, l’orfano, la vedova, tutti colori rispetto ai quali il rito non è esclusivo, se accettano di entrare nel mistero dell’amore, accettando la riduzione di sé della circoncisione del proprio cuore (Ger 4,4). Per la preghiera Lodate il Signore perché è buono: * eterna è la sua misericordia. Lodate il Dio degli dèi: * eterna è la sua misericordia. Percosse l'Egitto nei suoi primogeniti: * eterna è la sua misericordia. Da loro libero' Israele: * eterna è la sua misericordia. Con mano potente e braccio teso: * eterna è la sua misericordia. Divise il Mar Rosso in due parti: * eterna è la sua misericordia. In mezzo fece passare Israele: * eterna è la sua misericordia. Travolse il faraone e il suo esercito nel Mar Rosso: * eterna è la sua misericordia. Guidò il suo popolo nel deserto: * eterna è la sua misericordia. Percosse grandi sovrani: *

eterna è la sua misericordia. Uccise re potenti: * eterna è la sua misericordia. Seon, re degli Amorrei: * eterna è la sua misericordia. Og, re di Basan: * eterna è la sua misericordia. Diede in eredità il loro paese: * eterna è la sua misericordia. In eredità a Israele suo servo: * eterna è la sua misericordia. Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi: * eterna è la sua misericordia. Ci ha liberati dai nostri nemici: * eterna è la sua misericordia. Egli dà il cibo ad ogni vivente: * eterna è la sua misericordia. Lodate il Dio del cielo: * eterna è la sua misericordia

(dal Salmo 136)

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V. La gioia di un popolo libero e salvato (Es 15,1-21) Per la lettura Dopo il racconto della liberazione di Israele attraverso il passaggio del Mar delle Canne, tradizionalmente noto come Mar Rosso (Es 14), il cap. 15 è un inno che ha lo scopo di celebrare l’evento appena accaduto. La prospettiva è quella della guerra santa (herem) in cui Jawé combatte a fianco del suo popolo con tutte le forze del creato: è la figura del «Signore degli eserciti» (Jahweh Sebaot) classica dell’innologia religiosa e militare ebraica (cfr.1Sam 17,47; 2Sam 8,10; Is 42,13).

15,20-21. È il primo livello di formazione dell’inno: il cantico di Maria, la sorella di Mosè. Il nome Maria deriverebbe secondo alcuni dall’egiziano mara’ «sazia» ,«bella» e «formosa»; secondo altri dall’ugaritico rwm «elevata» o ancora dall’egiziano meri «amata», ma qui viene chiamata nebiah «profetessa» cioè colei che è capace di leggere la storia con gli occhi di Dio. Il ritornello del canto, infatti, celebra il trionfo del Signore sui nemici.

15,1-12. Il secondo livello della formazione dell’inno, è una grandiosa descrizione epica della liberazione datata variamente dal XIII al V sec. a.C. Dopo l’invitatorio (vv. 1-3) segue una lunga strofa poetica(vv. 4-12) nella quale campeggia il Signore guerriero, che oppone alle forze degli uomini la sua destra e la sua collera alla quale ubbidiscono le forze della natura da lui stesso create. Domina in questa strofa il Tu del trionfatore: la tua destra, la tua destra, i tuoi avversari, il tuo furore, il soffio della tua ira. Al ragionamento del nemico («inseguirò», «raggiungerò», «spartirò», «mi sazierò», «sfodererò», «conquisterò») si indirizza l’ira di Dio rappresentata dal suo soffio implacabile. Le grandi gesta compiute dal Signore portano all’entusiastica acclamazione dei vv. 11-12.

15,13-18. È il terzo stadio di elaborazione dell’inno, nel quale sono presenti i popoli pietrificati dalla paura del braccio potente del Signore. Vengono ricordati Filistei, Edom, Moab, Canaan quasi a voler identificare i quattro punti cardinali di tutta la popolazione mondiale; in mezzo a loro passa Israele che viene condotto da Dio verso la terra, addirittura verso Sion, la sede che il Signore si è scelto. Il canto si conclude con un’acclamazione liturgica tipica dei salmi (cfr. Sal 10,16; 29,10; 93,1; 96,10; 146,10). In questo ultimo brano è presente la teologia di Sion, il luogo delle presenze di Dio sulla terra: il tempio, che è lo spazio in cui Egli risiede e la casa di Davide, che si estende nel tempo. Un tema, quello di Sion, che si ritrova in molti altri testi sia profetici (cfr. Is 2,1-5) sia liturgici (cfr. Sal 46; 48; 76; 84; 87; 122). Per la meditazione Il canto della vittoria

Davanti al miracolo del mare con cui Dio lo ha messo al sicuro e alla rovina dell’esercito del faraone, Israele innalza un inno di ringraziamento e di gioia. Il Signore è stato grande, ha compiuto cose incredibili ed ora il popolo non può fare altro che esprimere con canti e danze tutta la sua gioia e la sua gratitudine senza limiti.

Jahwé ha trionfato sull’arroganza dei nemici svelandone l’inconsistenza e la nullità. Essi avevano allestito un esercito con carri, cavalli e combattenti scelti pensando di avere facile vittoria su un insieme di tribù prive di armamenti e non organizzate: ora giacciono sul fondo degli abissi come pietre sprofondate e sommerse. Al Signore degli eserciti è stata sufficiente la forza della sua destra per annientare gli avversari.

Il canto celebra Jawé che si è dimostrato eccelso e magnifico ed ha affermato la sua supremazia scagliandosi contro tutti i superbi della terra e facendo trionfare gli umili che ne riconoscono la potenza e a lui solo si affidano. Per questo Israele può dire: «Mia forza e mio canto è il Signore/Egli mi ha salvato», parlando come un solo uomo che ha fatto esperienza di essere stato salvato dalla morte quando ormai tutto sembrava perduto. La coscienza della salvezza si traduce in un inno che è una celebrazione dell’evento, ma anche una preghiera profetica, cioè un’interpretazione del presente e dei suoi segni alla luce della fede in Dio. E’ un’esperienza possibile per quanti si lasciano condurre dallo Spirito a riconoscere quotidianamente la vittoria di Dio sui propri nemici e l’avvenuta liberazione.

Anche oggi, infatti, ci sono nemici che minacciano l’esistenza con la pretesa di costituire il tutto della vita: la ricerca del denaro, del potere, della vita facile anche se disonesta, del successo come status symbol, senza il quale niente sembra aver valore. L’uomo si attrezza per raggiungere questi obiettivi, dimenticando che la sua è un’esistenza fragile e inconsistente se non è centrata sulla fede in Dio, se non è animata dall’interno dal soffio potente dello Spirito Santo. Non riconosce la forza e la potenza del suo creatore ed innalza il suo canto di vittoria personale ed individuale,dettato dal raggiungimento dell’obiettivo che si era proposto: ma è un canto breve e già privo di gioia, perché dominato da un nuovo desiderio che incalza. Così la vita è sempre inquieta ed insoddisfatta, incapace di stupore davanti alle meraviglie di Dio, talvolta triste e cupa, priva, com’è, del senso del limite.

Scriveva l’arcivescovo Giuliano Agresti: «Sembrerà strano alla mentalità del nostro tempo, ma se vuoi trovare uno che canta fra le battaglie della vita lo troverai nell’uomo che ha il senso del limite. Ho visto ragazzi screanzati con le loro chitarre al vento cantare dicendo parole di disperazione con viso disperato. Ho visto uomini di potere

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comandare e dominare, ma nei tratti del loro volto c’era il segno dell’angoscia interiore. Canta davvero chi si è liberato dalle dismisure ed è quello che è, misurato e libero, nella propria statura. Egli ha intanto compiuto il primo paradossale “canto” che è quello delle lacrime. Le lacrime di una purificazione, di una lotta per la libertà interiore,di una accettazione di sé secondo il proprio limite…Ma il canto del limite è anche quello di sentirsi una nota tra le note della sinfonia della creazione…sentirsi accanto agli altri, stimare, come dice S. Paolo, gli altri più di se stessi, convivere dando spazio a tutti, proprio come avviene nell’orchestra sinfonica che risulta stupenda dal limite attivo di ogni strumento. L’inquietudine tormentosa, l’infelicità quotidiana vengono dall’usurpare un suono che non è nostro. E la vita diventa amara. Infine il canto del limite viene dal comprendere il “servizio”, nel senso più dignitoso, amante e grande della parola, come espansione e ricchezza della nostra vita…“come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28). Solo chi ha inteso questa buona novella, umanissima, e la fa propria, ha compreso fino in fondo il canto del limite e, mentre lo sperimenta, si assimila a Cristo, diviene pacifico e pacificatore…Sono gli uomini del servizio e non del dominio a fare anche un mondo più umano». Battete i timpani, ballate e non abbiate paura!: un’esegesi femminista dell’inno per la danza di Miriam.

I vv 20-21 vengono riconosciuti come la prima redazione, la più antica, dell’inno di Es 15. Miriam canta la distruzione delle armi, è una donna che mette in relazione con Dio la propria esperienza di liberazione e di salvezza ed intona il più antico inno di lode a Jawé che è intervenuto in favore degli oppressi, contro coloro che usano la violenza. Le donne che seguono l’esempio di Miriam hanno tutte le ragioni per essere riconoscenti e ballare, cantare e battere i timpani: nel caso di una sconfitta sarebbero cadute nelle mani dei vincitori per essere violentate, rese schiave ed obbligate a fare ritorno alla “casa di servitù” dell’Egitto. Il cavallo e il cavaliere non rappresentano soltanto il potere militare, ma indicano anche l’illusione e l’aspirazione maschile ad assoggettare la terra e l’umanità, ed in particolare la donna, per dominarla e sfruttarla. Miriam e le altre donne cantano la loro gioia perché questa immagine è stata inghiottita dal mare e celebrano non un Dio della guerra e nemmeno quello di un popolo acerrimo nemico di altri popoli, ma un Dio che annienta le armi e si adopera per porre fine al dominio di uomini su altri uomini e donne. «I rabbini insegnano che gli angeli vollero cantare un inno di lode a Dio assieme agli uomini e alle donne d’Israele dopo la liberazione dall’Egitto: “Guarda, o Signore: i tuoi figli sono salvi!”. Ma Dio si corrucciò e disse: “I miei figli d’Israele sono salvi, ma i miei figli egiziani muoiono!”. E il coro degli angeli tacque».

Il canto di liberazione di Miriam trova il suo contesto attuale in ogni parte della terra là dove uomini e donne decidono di non sopportare più il loro “Egitto” e si mettono in cammino, rinunciando alle comodità e alle convenienze di pigri compromessi. L’uscita dall’Egitto si ripete là dove uomini e donne si impegnano nella lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento, ed il cantico di Miriam rafforza in loro la speranza dell’intervento mirabile di Dio, come allora presso il Mar Rosso. Per continuare la riflessione Alcune riprese di Es.15 in Is 12,1-6; Sap 19,6-21; Ap 15,3-4 Per la preghiera Tu che abiti al riparo dell'Altissimo e dimori all'ombra dell'Onnipotente, dì al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio, in cui confido». Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne sotto le sue ali troverai rifugio. La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza; non temerai i terrori della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra; ma nulla ti potrà colpire. Solo che tu guardi, con i tuoi occhi vedrai il castigo degli empi.

Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell'Altissimo la tua dimora, non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda. Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede. Camminerai su aspidi e vipere, schiaccerai leoni e draghi. Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura, lo salverò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli mostrerò la mia salvezza (Salmo 91)

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VI. Il pane dal cielo sostiene nel cammino (Esodo 16,1-36) Per la lettura

La pericope si presenta come un’unità delimitata in base al tempo, al luogo, all’azione e ai personaggi. Si apre con la formula ricorrente del v. 1: levare l’accampamento/arrivare, e si chiude con un sommario (vv. 35-36).

Questa nuova tappa ha luogo nel deserto di Sin, si svolge nell’arco di una settimana, imperniandosi in un’unica azione: Dio nutre Israele nel deserto. Si può articolare il testo come segue:

I. LA MORMORAZIONE D’ISRAELE E LA PROMESSA DI JHWH (VV. 1-12) a) La crisi: Israele mormora contro Mose’ e Aronne, desiderando carne e pane (2-3)

b) Programma di JHWH per ogni giorno e per il sesto (4-5) a’) Denuncia della mormorazione e promessa della visione della Gloria, della carne e del pane (6-12)

II. LA REALIZZAZIONE DELLA PROMESSA: QUAGLIE E MANNA PER IL POPOLO (VV. 13-14) III. L’USO DELLA MANNA E IL PRECETTO DEL SABATO (VV. 15-34)

a) identificazione della manna e ordine di raccolta (15-16) b) raccolta nei primi cinque giorni: obbedienza e disobbedienza (17-21)

c) raccolta doppia nel sesto giorno e il precetto del sabato; obbedienza (22-55) b’) raccolta della manna nel settimo giorno; obbedienza e disobbedienza (26-30)

a’) identificazione della manna e ordine di conservazione (31-34)

IV. SOMMARIO FINALE (VV. 35-36)

La struttura concentrica fa emergere con chiarezza, nel quadro II, la centralità del dono promesso da Dio e addirittura sovrabbondante rispetto alle attese del popolo: I quadri cornice I e III sono anch’essi incentrati sul dono del nutrimento, prima promesso poi realizzato, ponendo in evidenza il precetto del sabato, segno di fiducia in Colui che provvede ed invito alla priorità della relazione con Lui.

v.1: Dopo circa un mese e mezzo dalla loro uscita dall’Egitto, gli Israeliti, arrivano al deterto di Sin.

In effetti la promessa fatta da Dio dei «tre giorni di cammino nel deserto» (3,18) sembra essere una beffa: il popolo sta vivendo un viaggio interminabile. Dopo la crisi della sete (le acque amare di Mara), esplode quella della fame.

vv. 2-3: E come avvenuto poco prima a Mara (15,24), puntualmente tutta la comunità «mormora». Questa lamentela diventa nostalgia della schavitù egiziana ed accusa contro i capi, Mosè ed Aronne.

vv. 4-5: La mormorazione del popolo arriva direttamente alle orecchie di Dio, non nella forma di invocazione (cfr. 3,9), ma come ribellione contro di lui (vv. 7.12). Nel suo «eccomi» (v. 4), il Signore si coinvolge in modo totale nella vicenda del popolo; egli farà piovere «cibo» dal cielo. L’elemento nuovo dell’annuncio divino è una rivelazione misteriosa, effettutata in due tempi, scanditi dalla tipica formula: «E voi saprete…» (vv. 6.12.). Si tratta di un’esperienza della presenza salvifica di JHWH, pari a quella vissuta nel passaggio del mare (14,17-18.24). In forza di essa, successivamente Aronne ingiunge alla comunità di avvicinarsi al volto di Jahweh, nel senso più profondo di prestargli ascolto e obbedienza, atteggiamenti antitetici alla mormorazione, che consentono la visione della Gloria.

vv 13-14: La promessa di Dio si realizza. È davvero un dono, senza fatica né sudore, per per gli Israeliti. vv. 15-34: Mosè identifica la manna con il pane che il Signore ha dato loro in cibo e detta le

condizioni poste dal Signore per la raccolta. Ognuno viene autorizzato a raccogliere la razione di un omer (pari a circa 4 litri). C’è in questo una splendida uguaglianza, per cui ciascuno, pur raccogliendo di più o di meno, riceve esattamente ciò di cui ha bisogno. In osservanza al comando di Dio (v. 5), nel sesto giorno gli Israeliti devono raccogliere una razione doppia di cibo. La reazione allarmata dei capi della comunità permette a Mosè di ribadire l’ordine di Dio e di decretare per la prima volta l’osservanza del

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«sabato». Questo termine viene fatto derivare la verbo riposare, cessare e designa il settimo giorno della settimana come giorno di assoluto riposo, in quanto giorno consacrato al Signore. C’è una sottile ironia nel contrasto tra la mormorazione del popolo, che rimpiange il sedersi attorno alla pentola mangiando a sazietà il cibo d’Egitto nella condizione di schiavitù, e questo riposo del settimo giorno, segno della pienezza di vita donata da Dio, che va oltre le necessità materiali, in una condizione di piena libertà. Manna e sabato sono dunque legati assieme. Non di solo pane, infatti, vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.

vv 35-36: Il sommario finale chiude il racconto, rilevando la continuità del dono della manna fino al momento in cui il popolo entrò nella terra promessa e fu in grado di sostenersi con i frutti della terra. Per la meditazione

Nel mondo orientale, tra i vari nomi che lo designano, il pane viene chiamato vita, in quanto costituisce il nutrimento essenziale. Anche nel linguaggio bibilico il pane non ha la semplice funzione di accompagnare gli altri alimenti: sono piuttosto questi che servono per mangiare il pane. La legge del nutrimento del resto, non risponde soltanto un bisogno biologico fondamentale, ma è cifra della fame più radicale della vita, che cerca ed esige prepotentemente una propria pienezza. Acquista così un più profondo spessore il rfiferimento di Gesù al Deuteronomio nel tempo della tentazione nel deserto (Mt 4,4).

Nel deserto gli Israeliti rivivono l’esperienza di un Dio che viene percepito come un avversario, esperienza gia’ vissuta da Mosè (4,24-26), mentre Egli si comporta come un padre che vuol condurre i suoi figli ad una crescita piena, che li faccia capaci di entrare nell’Alleanza.

Non ci può essere autentica crescita senza il passaggio della prova, contesto nel quale i figli sono corretti (Eb 12,4-11) dal loro Dio e Padre e condotti alla pienezza del servizio del Signore (Sir 2,1-18).

Il Deuteronomio ricorda il dono della manna come un’esperienza negata ai patriarchi, sacramento

di quel nutrimento ancor più prezioso che è la Parola di Dio (Dt 8,3.16). Il pane, fonte di vita è completamento della creazione, prolungata ed amorevole sussistenza delle creature a cui il creatore provvede (Gn 1,29-30, dove compare il termine lechem: pane). Esso è anche fonte di storia, di progresso verso il compimento, come attesta l’uso di spezzare l’azzimo nella cena pasquale mentre si pronuncia il racconto memoriale (il padre testimonia ai figli la premura di Dio di generazione in enerazione, mentre egli stesso offre attenta continuità a tale assistenza nel dono del pane, segno della sua vita donata per amore.

Gesù offre se stesso come pane disceso dal cielo (Gv 6), che a differenza della manna donata nel deserto, è fonte della vera vita, che non ha fine e pegno, carico di speranza del suo godimento escatologico. Egli, la sera della sua passione ripetè il racconto confessante delle opere salvifiche di Dio mostrando come il tutto veniva a riassumersi e compiersi nel pane del suo corpo tenuto tra le sue mani per essere donato a tutti. Per la preghiera Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda il tuo Dio, Sion. Perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte, in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli. Egli ha messo pace nei tuoi confini e ti sazia con fior di frumento. Manda sulla terra la sua parola, il suo messaggio corre veloce. Fa scendere la neve come lana,

come polvere sparge la brina. Getta come briciole la grandine, di fronte al suo gelo chi resiste? Manda una sua parola ed ecco si scioglie, fa soffiare il vento e scorrono le acque. Annunzia a Giacobbe la sua parola, le sue leggi e i suoi decreti a Israele. Così non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato ad altri i suoi precetti.

(Salmo 147)

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VII. L’impegno di una relazione d’amore (Es 20,1-17)

Per la lettura

Il passo occupa una posizione centrale nella sezione dell’arrivo al Sinai, momento culminante di tutto il racconto dell’Esodo: il popolo riceve finalmente l’invito di Dio ad un patto stabile di amore, di cui il Decalogo manifesta la sostanza. Ecco l’articolazione della sezione di Es 19-24:

a) 19,1-8a: Arrivo al Sinai ed offerta di Alleanza b) 19,8b-15: Istruzioni per la teofania

c) 19,16-25: Teofania d) 20,1-17: Il Decalogo

c’) 20,18-20: Teofania d’) 20,21-23,19: Il Codice d’Alleanza

b’) 23,20-33: Istruzioni per l’ingresso nella terra a’) 24,1-11: Solenne stipulazione dell’Alleanza

Si può cogliere con facilità la posizione centrale del Decalogo, inserito in una cornice teofanica, la quale è a sua volta collocata entro un quadro liturgico, che vede all’inizio l’invito a contrarre l’Alleanza (19,1-8a) e alla fine il rito della stipulazione del patto, liturgia della lettura del Libro e dell’aspersione del sangue tra i contraenti.

Il testo del decalogo presenta anch’esso, al suo interno, una struttura concentrica:

A 3 Non avrai altri dei di fronte a me. 4 Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. 5 Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io sono il Signore tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei PADRI nei FIGLI fino alla terza e alla quarta generazione per coloro che mi odiano, 6 ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi. 7 Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano. B

A’

13 Non uccidere. 14 Non commettere adulterio. 15 Non rubare. 16 Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. 17 Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.

La particolare disposizione fa emergere una simmetria tra la parte iniziale (A) e quella finale (A’),

collocando in posizione centrale (B) quello che sembra essere il cuore del Decalogo: gli unici due precetti formulati in modo positivo. La quantità dei precetti in forma negativa dà una prima fondamentale indicazione sulla funzione liberante della legge: essa non comanda restrittivamente qualcosa da fare, ma

8 RICORDATI DEL GIORNO DI SABATO PER SANTIFICARLO: 9 sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; 10 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: TU NON FARAI ALCUN LAVORO NÉ TU, NÉ TUO FIGLIO, NÉ TUA FIGLIA, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.11 Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro. 12 ONORA TUO PADRE E TUA MADRE, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il Signore, tuo Dio.

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offre un riferimento estremo all’esercizio di una libertà che non è dispensata dalla fatica di un discernimento maturo e responsabile.

Osservando il primo ed il terzo blocco si nota dunque una significativa corrispondenza nella quantità dei precetti in forma negativa, con una ripetizione del verbo «pronunciare» (sottolineato), prima riferito al nome di Dio, poi alla testimonianza falsa del prossimo. Un’ulteriore corrispondenza la si può ravvisare nell’elenco di ambiti in riferimento ai quali non farsi idolo né immagine, così come nell’elenco di cose da non desiderare. Tali indizi fanno supporre che si possano trovare altre corrispondenze, meno evidenti, più nascoste tra le righe del testo, ma non meno significative.

Il primo blocco (A) norma atteggiamenti che riguardano il rapporto con Dio, mentre il terzo (A’) entra nell’ambito dei rapporti intraumani. Il Signore Dio chiede un rapporto esclusivo, una relazione unica e perciò fedele e indissolubile: Egli vuole stabilire con il suo popolo un’alleanza nuziale. A ciò sembra corrispondere, nel terzo blocco, il divieto dell’adulterio, sin nella sua radice più profonda, che investe il desiderio della donna altrui. Nessuna presunta divinità può sostituire YHWH come oggetto di amore e di fiducia dell’uomo, il quale deve vigilare che nella relazione con il suo Dio non si insinui un meccanismo sostitutivo, di lento scivolamento nel possesso e nella volontà di controllo di Colui da cui si dovrebbe attendere tutto come dono e a cui ci si dovrebbe donare senza riserve. L’idolatria non sempre si dà come formale rifiuto del Signore: più frequentemente è ingannevole presunzione di essere suoi, avendo tuttavia trasformato lui in possesso proprio, con la pretesa di ridurre la sua sovrana libertà e gratuità a bieca aspettativa di prestazione rassicurante.

Il divieto dell’omicidio, dell’adulterio e del furto tendono, in modo corrispondente, a limitare le proprie pretese sulla vita altrui, secondo relazioni libere e gratuite, mai trasformabili in possesso personale, né strumentalizzabili a finalità soggettive. Ha statuto di idolo tutto ciò che illude di lasciarsi possedere come oggetto di sicurezza, mentre esso stesso finisce per possedere e schiavizzare chi pensa di servirsene (perciò si proibisce di prostrarsi davanti alla falsa divinità). È idolatrica qualunque pretesa di rassicurazione o di autosalvezza nella quale si pretende di disporre di Dio, di manipolare a fini personali di autogiustificazione la sua parola, il suo comandamento, la sua volontà (1Sam 15,22-23), di utilizzare il suo nome santo a fini di efficacia mondana, a copertura di progetti menzogneri o a giustificazione di scopi peccaminosi. Il raffronto con il terzo blocco porta similmente a concludere che è manifestazione idolatrica qualunque violazione del volto altrui, della dignità del prossimo nel suo intrinseco valore di autentica immagine e somiglianza di Dio. L’adesione all’idolo riporta in Egitto chi la compie, mentre questi, a sua volta, finisce per sostituirsi al Faraone nei confronti dei fratelli.

Nel blocco intermedio (B) sono presenti gli unici due precetti in forma positiva: dal momento che il primo chiude la prima tavola, circa i precetti riguardanti la relazione con Dio ed il secondo apre la seconda tavola, con i comandamenti che regolano i rapporti con gli altri, essi sono come la cerniera, il fulcro dell’intero Decalogo.

Il precetto della memoria del sabato, come indica il richiamo al figlio ed alla figlia, è rivolto ai padri, mentre il successivo è destinato ai figli nella loro relazione ai genitori. Essi sembrano dunque da considerarsi in modo simmetrico. Ai padri è consegnato il precetto del sabato, che è forse quello più specifico dell’identità di Israele, in quanto legato al suo rapporto con il Dio creatore e salvatore dall’Egitto (Dt 5,12-15). Tale disposizione tende a vietare l’accanimento nel lavoro, illusione che la propria vita dipenda dalla forza delle proprie mani, e lo sfruttamento del lavoro altrui, regressivo verso la schiavitù dell’Egitto. Si impedisce di tornare schiavi del faraone e di assoggettare i propri fratelli a qualunque forma di sfruttamento, dall’esito imperialistico analogo al dominio del Faraone.

È tuttavia in direzione dei figli che i padri hanno il dovere di trasmettere e far osservare il precetto. Il figlio che ha l’obbligo di assoggettarsi nel lavoro quotidiano all’autorità paterna, nel sabato è libero da tale soggezione, è affrancato dalla stessa obbligazione che gli deriva dall’essere sottoposto alla patria potestà. Con il comandamento sabbatico i padri fanno valere l’obbligazione paradossale di esigere dai figli la libertà da ogni obbligo, affrancandoli dalla loro stessa autorità: essi, mentre insegnano ai figli la legge e li introducono nell’alleanza, cercano di spingerli all’autonomia di esseri liberi, capaci di contrarre e vivere responsabilmente l’alleanza con il loro Dio.

Il precetto simmetrico chiede ai figli di onorare i genitori, onore che consiste non solo nel soccorso da prestare loro in caso di necessità, di malattia o di vecchiaia, ma che si esprime più decisamente nel portare a compimento, con la capacità di rispondere liberamente e responsabilmente all’alleanza, la loro faticosa dedizione educativa. Mentre i padri, con il precetto del sabato hanno

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l’obbligo di spingere i figli all’autonomia, senza strumentalizzarli ai loro disegni con una falsa e distorta soggezione, i figli devono onorare i genitori assumendo con riconoscenza il dono di amore ricevuto che li spinge a libertà, senza rivoltarsi all’indietro ad afferrare nei genitori una falsa sicurezza per il loro domani. Se il precetto del sabato scaturisce dalla memoria del passato, delle origini dell’atto creatore e salvatore di Dio (Dt 5), per garantire il non ritorno nel caos o nella schiavitù, il comandamento dell’onore ai genitori guarda invece al futuro, al possesso della terra promessa da Dio: il futuro autentico dell’uomo non sta nel lasciarsi risucchiare dall’autorità paterna, né nella tentazione contraria di asservirla a sé per paura del domani incerto; sta invece nell’accettare la libertà imposta dai padri come fiducia responsabilizzante che consente di camminare in proprio nelle vie dell’alleanza per conseguire l’oggetto autentico della promessa. Per la meditazione

Gesù stesso sembra anch’egli stabilire un collegamento tra i due blocchi A e A’ proprio nella sua

interpretazione radicale dei comandamenti all’interno del discorso della montagna (Mt 5,21-48): non soltanto non uccidere, ma neppure usare violenza, fosse anche verbale, né covare l’odio verso il prossimo, naturale gestazione dell’omicidio; non soltanto non commettere adulterio, ma neppure desiderare, essendo il desiderio la fonte naturale dell’atto, la sua radice ultima, posta nel profondo del cuore. Con questo suo modo di leggere il decalogo nella duplice direzione di una interiorizzazione e radicalizzazione del precetto, Gesù sembra voler esplicitare e percorrere sino in fondo il movimento che scorre tra le righe della stessa legge. Nella sua logica così nitida e profonda, la seconda tavola non va letta solo a divieto di atteggiamenti estremi, ma a tutela contro tutto ciò che ferisce e sfigura l’immagine di Dio posta nell’uomo, in corrispondenza al divieto della falsa immagine di Dio rappresentata dall’idolo. Il suo mite rigore capace di quella verità semplice ed onesta che va al centro di ogni questione e al cuore di ogni discernimento, lo induce ad una interpretazione profonda e radicale, ma al tempo stesso rispettosa del decalogo, che ne percorra il tragitto pedagogico interno, senza attribuzioni estrinseche: dall’atto materiale (uccidere, commettere adulterio, rubare) alla sua espressione verbale (pronunciare il falso), sino alla sua radice nell’attività desiderante, l’uomo è invitato a quel tragitto di radicalizzazione e interiorizzazione che risale dall’atto materiale esterno all’intenzione del cuore. Dai frutti è necessario riconoscere l’albero (Mt 7,15-20; 12,33-37): finché non si risale umilmente alle radici del proprio peccato mettendone a nudo ogni ambigua perversione non lo si estirpa nell’autentico pentimento.

Riguardo al blocco centrale Gesù ha offerto una sua interpretazione antilegalistica del sabato, anche con la sua prassi di anteporre sempre la situazione dell’uomo alla pratica del precetto: il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato. Proprio operando di sabato egli intende porre non una provocazione, ma il senso genuino dell’intenzione divina: Dio ha istituito il sabato per godere della sua opera, della relazione con l’uomo, fonte massima del suo compiacimento. Il peccato attenta alla creazione stessa erompe la relazione comunionale e appagante goduta nel sabato. Dio deve allora ricominciare ad operare: dal sabato deve ripartire la sua opera misericordiosa di recupero all’amore dell’uomo peccatore. «Il Padre mio opera sempre (anche di sabato), e anch’io opero» (Gv 5,15-18). Se il peccato rende l’uomo incapace di operare il bene e lo costringe ad un sabato forzato rispetto alle opere dell’amore, allora occorre che l’azione redentrice e liberatrice di Dio ricominci proprio dal sabato (Mc 3,1-6).

Riguardo all’onore da rendere ai genitori Gesù lo mette in evidenza, citando i comandamenti all’uomo ricco (solo questo precetto del Decalogo è messo fuori posto nella serie, in evidenza, per attirare su di esso l’attenzione). All’uomo ricco (Mc 10,17-22) è posta implicitamente la domanda sull’onore reso ai suoi genitori, dai quali ha ereditato la fede, l’alleanza ed i comandamenti, sempre da lui osservati, ma dai quali ha pure ricevuto i beni materiali, da cui non riesce a staccarsi. L’onore ai genitori è pieno solo nel distacco da loro, nella piena assunzione della propria responsabilità, per la quale essi si sono prodigati, e che l’eccesso di sicurezze sembra impedire. Gesù offre all’uomo uno sguardo carico di amore, che si pone sullo stesso piano di efficacia dell’amore di un uomo verso una donna. Come questo rende capaci di lasciare il padre e la madre (Gn 2,24; Mc 10,7) per un’unione di amore indissolubile ad un’altra carne, così l’amore di Gesù è una relazione affidabile per la quale è necessario e possibile lasciare-donare i propri beni per seguirlo (Mc 10,21).

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Il decalogo viene dunque interpretato da Gesù come compimento di quel movimento di interiorizzazione e radicalizzazione che è già in esso contenuto: in tal modo esso traccia in cammino verso la vera libertà, interdicedo la via del ritorno in Egitto. Per la preghiera

I cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola. Là pose una tenda per il sole che esce come sposo dalla stanza nuziale, esulta come prode che percorre la via. Egli sorge da un estremo del cielo e la sua corsa raggiunge l'altro estremo: nulla si sottrae al suo calore. La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice.

Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi. Il timore del Signore è puro, dura sempre; i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti, più preziosi dell'oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante. Anche il tuo servo in essi è istruito, per chi li osserva è grande il profitto. Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo. Anche dall'orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato. Ti siano gradite le parole della mia bocca, davanti a te i pensieri del mio cuore. Signore, mia rupe e mio redentore.

(Salmo 19)

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VIII. Il patto di alleanza (Es 24,1-11)

Dal c. 15 fino alla fine del libro dell’Esodo la storia si situa nella penisola del Sinai, dove il popolo avanza tra grandi difficoltà, ma dove sperimenta anche la presenza di Dio che interviene in suo soccorso. Il momento culminante di questi interventi è dato dalla manifestazione sfolgorante del monte Sinai, che culmina nella stipula dell’alleanza. Noi prendiamo in esame il breve testo 24,1-11 per coglierne la centralità in tutta la storia dell’A.T. È un testo che conosce due strati letterari diversi: nei primi due versetti e in 9-11 l’alleanza viene stipulata sulla montagna, nei vv. 3-8 ai piedi di essa. Il testo sembra mancare di unità che però si ritrova in qualche modo considerando il tutto in tre tappe: «un preludio alla salita di Mosè al Sinai (vv.1-2); la celebrazione rituale dell’alleanza ai piedi della montagna (vv. 3-8); l’incontro con Dio sulla vetta del monte (vv. 9-11)».

Per la lettura

vv. 1-2: è ripreso l’ordine che Dio ha dato a Mosè in 19,24 con l’ampliamento dei partecipanti alla salita sul monte: sono aggiunti Nadab, Abiu e i settanta anziani che sarebbero quelli di Es 18,21-26 e di Nm 11,16.24, ma che, con tutta probabilità, richiamano anche il numero dei capostipiti d’Israele (Es 1,5).

Si stabiliscono tre gradi di avvicinamento a Dio: il popolo che deve rimanere ai piedi del monte, i settanta che salgono con Mosè, ma devono rimanere a distanza, Mosè, il mediatore che si reca davanti a Dio. Cerchia che si ripete anche in Gesù: la folla, i discepoli, Gesù.

vv. 3-8: sorprende che l’avvenimento più importante di tutto l’A.T. sia descritto in soli sei versetti, ma la cosa non sorprende più di tanto se pensiamo che anche l’istituzione del sacramento della nuova alleanza occupa poco spazio. Ciò ci dice che non è mai decisiva la lunghezza o la brevità del racconto e che solo l’accostamento di altri testi ci danno la possibilità di scoprirne la ricchezza. In particolare sono significativi Dt 27,2-10 e Gs 24,19-28. L’uno riporta un discorso di Mosè che esorta il popolo a rinnovare l’alleanza una volta preso possesso del paese che Dio gli donerà; l’altro narra il rinnovamento dell’alleanza in Sichem.

L’alleanza del Sinai riguarda tutto il popolo, come è detto al v. 3: Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!».

Il rito dell’alleanza si svolge in momenti successivi tutti carichi di grande significato. Mosè scrive «tutte le parole del Signore» che con tutta probabilità comprendono tutto ciò che il Signore ha detto ed è stato trasmesso in forma orale. E’ il libro dell’alleanza. Viene costruito un altare con accanto dodici stele a significare le dodici tribù in cui si divideva il popolo. Dio (rappresentato dall’altare) e il popolo (le dodici stele) si trovano davanti, pronti per stipulare l’alleanza, atto che parte dall’iniziativa di Dio, ma che coinvolge tutto il popolo, diventando un’alleanza bilaterale.

Non essendo ancora costituita la classe sacerdotale vengono incaricati alcuni giovani perché offrano olocausti e sacrifici di comunione al Signore.

L’olocausto consiste nell’offrire tutto l’animale bruciandolo sull’altare, il sacrificio consiste nel bruciare alcune parti mentre le altre vengono mangiate.

L’alleanza viene stipulata in tre parti: la proclamazione della Parola del Signore, l’assenso del popolo, l’aspersione col sangue. Dobbiamo notare alcuni particolari: la singolarità dell’assenso del popolo: «quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7); egli promette di «fare e di ascoltare», invece di «ascoltare e poi fare». Noi avremmo detto così: «Quanto ha detto il Signore, lo ascolteremo e lo faremo». Però non è un caso che vi sia stata l’inversione dei verbi; per il momento ci basta notarlo, in seguito ne vedremo l’importanza.

La proclamazione della Parola e il consenso sono suggellati dall’aspersione col sangue: una parte sull’altare, l’altra sul popolo. «Una tale alleanza è una relazione di vita, riguardante l’essenziale e la totalità della vita. Quale può esserne il segno, il sacramento, se non il sangue?» (G. Auzou). Afferma, infatti, il libro del Levitico: «La vita di ogni carne è il suo sangue» (Lv 17,14). Dio e il popolo alleati nel sangue sono uniti da una stessa vita e vivono una medesima vita.

vv. 9-11: Mosè con i due figli di Aronne e i settanta anziani salgono sul monte quasi ad accogliere l’investitura di Dio.

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«Essi videro il Dio d’Israele». Dal momento che la Bibbia a più riprese afferma che chi vede Dio muore (Es 33,20), che cosa ha visto questo gruppo di privilegiati? Rifacendoci anche all’esperienza del profeta Isaia (Is 6,1-5) si può capire il significato di «vedere». Mosè e coloro che si trovano con lui descrivono ciò che è sotto i piedi di Dio a voler dir che non hanno osato alzare gli occhi. Anche Isaia vede il trono e i lembi del mantello di Dio. «Vedere», in questi casi, significa avere «la certezza di una presenza eccezionale di Dio, che forse si manifesta con qualche segno sensibile» (Auzou). E potrebbe essere preso anche come sinonimo di «contemplare», indicando che «si tratta non di una visione diretta, ma della percezione di una presenza, di una esperienza mistica, intuitiva che travalica il tempo» (Nepi).

L’espressione «non stese la mano» si oppone all’azione del «braccio» e della «mano tesa» con cui Dio ha sconfitto il faraone e indica la benevolenza di Dio che non fa sentire la sua potenza e non schiaccia i rappresentanti del popolo.

Un fatto particolare è dato dall’affermazione lapidaria: «e tuttavia mangiarono e bevvero». Il testo non indica alcun legame con i sacrifici dei vv. 5-8, ma si può presupporre che si siano portate alcune parti dei sacrifici e che abbiamo consumato la comunione con Dio sulla montagna. Per la meditazione

Prima di tutto dobbiamo fare alcune precisazioni sull’alleanza:

- L’idea dell’alleanza tra una divinità e un popolo non risulta in altre religioni e civiltà. Questo però non significa che sia impossibile che altri popoli abbiano avuto rapporti di alleanza con divinità. Comunque sia l’idea di alleanza come si trova nell’esodo è una caratteristica di Israele, perché solo in questa alleanza si esige una fedeltà assoluta escludendo la possibilità di rapporti con altri dei. E’ significativo, in questo senso, che i profeti descrivano questa fedeltà assoluta con l’immagine del matrimonio, definendo adulterio l’adorazione di altre divinità.

- Presso il Sinai non esiste ancora una classe sacerdotale e vengono incaricati dei sacrifici alcuni

giovani, ma il vero sacrificatore è Mosè. Nel N.T. è superata la classe sacerdotale dell’A.T. e il vero sacerdote è il nuovo Mosè, Gesù che tra l’altro è della tribù di Giuda e, quindi per nascita non può essere sacerdote. Al Sinai l’alleanza avviene tra Dio e il popolo, ma l’intermediario è Mosè. Nel N.T. l’alleanza avviene tra Dio e tutta l’umanità, ma il mediatore è Gesù che è vittima, sacerdote e altare.

- L’alleanza “essendo una relazione di vita, è viva come la vita, sempre nuova o da

rinnovare……. Come l’amore, l’alleanza è ricerca costante dell’«altro», insoddisfazione di sé, generosità sempre in risveglio, stupore ed invenzione instancabili. Perpetuo spirito di riforma e di superamento. Tutto il contrario dell’abitudine. In tal modo non sorprende che i grandi «rinnovamenti dell’alleanza abbiano avuto luogo in momenti particolarmente decisivi o critici della storia d’Israele, e in nome della comunità intera» (G. Auzou).

- Il commento più profondo dell’alleanza si trova nei profeti che riflettono su di essa nei momenti

di maggior crisi. Richiamano il suo vero significato e la proiettano nel futuro verso il suo compimento, strappandola dal tradimento di Israele. Essa, infatti era diventata «una regola e non più uno spirito, un’esattezza e non più un’avventura, un dovere e non più una relazione viva, un’assicurazione e non più l’amore» (G. Auzou). Stupendo è il modo con cui ne parla Geremia (31,31-34).

Fatte queste precisazioni cerchiamo di cogliere alcuni spunti che ci aiutino a rendere attuale ciò

che è accaduto al monte Sinai. - Con la venuta di Gesù si è modificata l’appartenenza al popolo: non più limitata solo ai

discendenti carnali di Abramo, ma si è estesa a tutti coloro che si fanno discepoli di Gesù: «se

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appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,29). Presso il Sinai eravamo già tutti presenti e siamo stati inseriti nell’alleanza. Però non era una alleanza definitiva e perfetta, ma era in vista della nuova alleanza che doveva essere stipulata in Gesù, che avrebbe sparso il suo sangue su Adamo e in Adamo avrebbe legato a sé tutta l’umanità salvandola dal peccato.

- L’alleanza è iniziativa e dono di Dio, ma coinvolge anche l’uomo che risponde: «Quanto il

Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo!». Un impegno che sembra rovesciare la logica del rapporto personale col Signore. Noi, infatti, avremmo detto: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo ascolteremo e lo faremo!». Il rovesciamento dell’atteggiamento del popolo indica una cosa profonda ed essenziale: il principio dell’alleanza è l’amore e quindi nella decisione di regolarsi sulla volontà dell’amato. È l’atteggiamento che dobbiamo assumere con Dio perché la nostra fede sia autentica.

- L’alleanza del Sinai è una relazione di vita piena e il sangue diventa il segno più vero per

poterla esprimere, «Poiché la vita della carne è nel sangue» (Lv 17,14). «Avere parte in qualche maniera ad uno stesso sangue, al sangue delle stesse vittime immolate, è prendere parte a una stessa vita, rendersi vitalmente solidali» (G. Auzou). I profeti Geremia ed Ezechiele, dopo l’esperienza traumatica dell’esilio, avvertivano la necessità di una nuova alleanza diversa per le modalità con cui sarebbe stata vissuta (Ger 31,31-34; Ez 36,24-28). Questa alleanza è stata ratificata nell’evento pasquale di Gesù: «Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”» (Lc 22,20). Poiché il sangue equivale alla persona, la novità è Gesù stesso.

- Il «sangue della nuova alleanza» non è più quello «dei tori e dei capri», ma il sangue stesso di

Gesù (Eb 9,12). Sarebbe opportuno leggere tutto il c. 9 della lettera a gli Ebrei. L’alleanza del Sinai divenne un’azione liturgica che si ripeteva come avvenne a Sichem, l’alleanza stipulata nel sangue di Gesù si perpetua nell’azione liturgica dell’Eucaristia, sacrificio di grazie e di comunione: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,54-56). Le parole «carne» e «sangue» significano la persona di Gesù che è la vita e comunica lo Spirito creatore.

Per la preghiera

Renderò grazie al Signore con tutto il cuore, nel consesso dei giusti e nell'assemblea. Grandi le opere del Signore, le contemplino coloro che le amano. Le sue opere sono splendore di bellezza, la sua giustizia dura per sempre. Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi: pietà e tenerezza è il Signore. Egli dá il cibo a chi lo teme, si ricorda sempre della sua alleanza. Mostrò al suo popolo la potenza delle sue opere, gli diede l'eredità delle genti.

Le opere delle sue mani sono verità e giustizia, stabili sono tutti i suoi comandi, immutabili nei secoli, per sempre, eseguiti con fedeltà e rettitudine. Mandò a liberare il suo popolo, stabilì la sua alleanza per sempre. Santo e terribile il suo nome. Principio della saggezza è il timore del Signore, saggio è colui che gli è fedele; la lode del Signore è senza fine.

(Salmo 111)

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IX. La costante minaccia dell’infedeltà (Es 32,1-35)

Questo capitolo è preceduto immediatamente dalle istruzione che Dio impartisce a Mosè per la costruzione del santuario, il luogo dove Dio si manifesterà in mezzo al suo popolo. Il legame tra il santuario e le «tavole di pietra» fa capire che la presenza di Dio è legata alla fedeltà del popolo all’alleanza. Mentre Mosè sta ricevendo le istruzioni per il santuario il popolo si costruisce il vitello d’oro che suscita la «gelosia» di Dio e ne pregiudica la presenza.

Il nostro capitolo poi è seguito dagli avvenimenti che culminano nel rinnovo dell’alleanza. Per la lettura

1) Il popolo, con la complicità di Aronne, fabbrica un vitello (Es 32,1-6) Mosè è sul monte da quaranta giorni e il popolo va in confusione perché pensa di essere abbandonato. Invece di rivolgersi a Dio che lo ha tratto fuori dall’Egitto, chiede di avere un vitello che si metta alla sua testa e lo guidi nella traversata del deserto. Aronne manca di fermezza e cede alle richieste. Con questo gesto gli Israeliti non vogliono rifiutare Dio, ma volevano poter toccare con mano la sua presenza. Non accettano che un Dio, pieno di premure, potente fino a sconfiggere il faraone e a spalancare il mare, rimanga nascosto e senza un volto. È il peccato che tende ad impadronirsi di Dio racchiudendolo in una immagine tra l’altro sminuita rispetto ai tori dei popoli d’Egitto e della Mesopotamia – un vitello. L’immagine immediatamente visibile e toccabile dà sicurezza rispetto a un Dio che si sa presente, ma non è palpabile. Un altro aspetto che sembra emergere dal testo è dato dalla traduzione letterale della seconda parte del v. 4: «ecco i tuoi dei, o Israele, che ti hanno fatto uscire dal paese d’Egitto». Nel gesto del vitello d’oro ci starebbe il ritorno al politeismo o per lo meno rivelerebbe che non tutti accettavano l’unico Dio. Ciò sarebbe confermato dall’appello di Mosè al v. 26: «chi sta per il Signore venga da me».

2) Dialogo di Dio con Mosè (Es 7-14)

Questi versetti contengono due parti con una conclusione. La prima parte riporta il processo che Dio fa al suo popolo che si è costruito il vitello d’oro (vv. 7-10). La seconda contiene una preghiera coraggiosa di Mosè (vv. 11-13). La conclusione riporta il nuovo atteggiamento che Dio assume nei confronti del popolo (v. 14). Vediamo brevemente questi momenti. Dio pronuncia un giudizio terribile che culmina nella decisione di distruggere il popolo. Il rimprovero che gli viene mosso è quello dell’allontanamento dalla via indicata da Dio, della perversione che si concretizza nella adorazione del vitello d’oro, nell’attribuire l’opera di Dio ad un vitello di metallo. In definitiva è un «popolo dalla dura cervice». Per tutto questo Israele non può essere più il suo popolo. Non rimane altro che farlo scomparire dalla faccia della terra e ricominciare da capo: fare con Mosè come ha fato con Abramo. Di fronte a questa dura presa di posizione di Dio Mosè non si arrende, ma cerca di «addolcirne il volto». Non tenta per niente di giustificare il popolo: ha peccato, non ci sono dubbi. Fonda la sua preghiera su Dio stesso portando tre argomenti: prima di tutto richiama ciò che Dio ha fatto, la liberazione che ha dimostrato la sua potenza e il suo amore per il popolo; in secondo luogo sembra toccare Dio nel suo “orgoglio”: non può abbattere questo popolo nel deserto, sarebbe riconoscere, davanti agli egiziani, di non essere riuscito a portare a compimento il suo proposito di liberazione; infine tocca un altro tasto più sensibile: la sua fedeltà. Ha promesso ai patriarchi di dare al suo popolo una terra. Non può venir meno alle promesse. La conclusione è drastica: «desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo». Forse Dio, nel suo amore paterno non attendeva altro da Mosè e «si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo». È il cambiamento (la conversione) di Dio nei confronti del suo popolo che fonda la grazia. La salvezza, infatti non è frutto della conversione umana, ma una decisione che Dio prende «da se stesso e su se stesso». La conversione dell’uomo è la risposta all’iniziativa divina che sempre offre il perdono.

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3) Mosè e il popolo: il castigo (vv. 15-20)

Mosè avvicinandosi all’accampamento si rende conto di persona di quanto Dio gli ha detto sulla montagna e spezza le tavole come segno della rottura dell’alleanza. Frantuma il vitello d’oro, ne sparge la polvere nell’acqua che da vitale diventa «acqua di maledizione». Il popolo beve quella che ha fatto, cioè si assume le conseguenze del suo peccato.

4) Il dialogo di Mosè con Aronne ( vv. 21-25)

Aronne di fronte alle proteste di Mosè non è capace di assumersi le proprie responsabilità e cerca di giustificarsi in un modo tragicomico e dimostrando una grande codardia: la colpa è scaricata addosso al popolo che è «incline al male», quasi avesse il tradimento inscritto nel DNA. Inoltre si dimostra preoccupato non tanto di placare Dio, ma di abbonire l’ira di Mosè per scansarsi l’eventuale punizione. Mosè constata la sfrenatezza del popolo che, nell’intento di costruirsi la sicurezza, è caduto nell’offesa di Dio e nel ridicolo.

5) Mosè e il popolo: il castigo (vv. 26-30)

Con una struttura concentrica il testo riprende i temi precedenti. In questi versetti non è detto se i leviti si erano dissociati da quanto compiuto dal popolo e da Aronne o se si sono pentiti e di conseguenza, dopo aver riconosciuto il loro peccato, accolgono l’invito di Mosè a riprendere un vero rapporto con Dio. Comunque siano andate le cose il testo vuole mettere in risalto il ruolo dei leviti che hanno assunto un compito importante nello svolgimento del culto. Non è facile capire questa scrematura del popolo; forse vuole indicare che i leviti, che ricevono l’investitura da Mosè - che equivale ad una consacrazione a Dio – sono chiamati a compiere uno scioglimento dei legami familiari. Dopo questa punizione severa Mosè torna sul monte per ottenere il perdono da Dio.

6) Dialogo di Mosè con Dio (vv. 31-34)

Mosè, sul monte, riconosce ancora davanti a Dio la gravità del peccato commesso dal popolo, ma chiede il perdono con insistenza offrendo se stesso facendosi solidale col popolo. Dio non rinuncia a mettere in atto il suo proposito,perché la colpa rimane sempre un fatto personale. Ma nonostante questo ordina a Mosè di rimettersi in cammino; ci sarà un angelo a guidarlo.

7) Dio castiga il popolo a causa del vitello fabbricato da Aronne (v. 35)

In questo versetto conclusivo del c. 32 possiamo vedere la chiave interpretativa di tutta la storia d’Israele, fatta di peccato (idolatria), di castigo e di perdono. Le sorti del Regno prima e dei due regni poi (nord e sud) seguono la stessa sorte del popolo nel deserto; del resto in questa chiave si possono leggere le varie deportazioni. Se in questo versetto il castigo è rimandato durante la peregrinazione nel deserto è proprio perché è il segno del castigo che si consuma lungo tutta la storia d’Israele.

Per la meditazione

1) Le due figure di Mosè e di Aronne incarnano due modi diversi di mettersi davanti a Dio e al popolo. Mosè è il profeta rigoroso, l’uomo di Dio che talvolta, per fedeltà, deve dimostrarsi intransigente. Aronne è il sacerdote che cerca di aggiustare le cose, che non vuole dispiacere al popolo ed è disposto a fare concessioni. Sono due modi di essere che devono fare riflettere anche oggi. Dio ha le sue esigenze e non possono essere disattese per nessun motivo.

2) Non bisogna pensare che l’idolatria non sia più attuale, ma quello che è più tragico è che, pur

attestando la fede in Dio, con facilità ci facciamo dei «vitelli d’oro» che in realtà sono degli insabbiamenti di Dio. Il peccato degli Israeliti non fu una vera e propria apostasia ma l’espressione di un’esigenza che li aiutasse ad accettare un Dio libero che non può essere

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circoscritto da nulla e da nessuno. E’ciò che impedisce di accogliere la continua novità a cui Dio chiama continuamente il suo popolo. Perfino la Scrittura diventa «vitello d’oro», quando è sottoposta ad una lettura fondamentalista.

3) Un aspetto importante ci è offerto da Mosè. Egli non solo intercede per il popolo, ma è disposto a

pagare di persona: «cancellami dal tuo libro che hai scritto». E’ la figura di Gesù che si è caricato dei peccati dell’umanità. La Chiesa ed ogni cristiano devono essere disposti ad offrirsi per la salvezza del mondo. Il mondo, infatti, può essere salvato non cedendo alle sue esigenze, ma offrendosi in unione al sacrificio di Cristo.

4) Il perdono di Dio non si ottiene per meriti propri, ma per dono gratuito. Il perdono precede sempre

il pentimento e il riconoscimento del peccato. Sarebbe opportuno che riflettessimo su questa verità per riscoprire il senso e la bellezza del sacramento della confessione.

5) Il castigo di Dio è soprattutto un atto pedagogico e di amore (Eb 12,7-11). D’altra parte

«castigando il suo peccato, tu correggi l’uomo» afferma il Sal 39,12. Per la preghiera Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dá gloria, per la tua fedeltà, per la tua grazia. Perché i popoli dovrebbero dire: «Dov'è il loro Dio?». Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole. Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida. Israele confida nel Signore: egli è loro aiuto e loro scudo. Confida nel Signore la casa di Aronne: egli è loro aiuto e loro scudo.

Confida nel Signore, chiunque lo teme: egli è loro aiuto e loro scudo. Il Signore si ricorda di noi, ci benedice: benedice la casa d'Israele, benedice la casa di Aronne. Il Signore benedice quelli che lo temono, benedice i piccoli e i grandi. Vi renda fecondi il Signore, voi e i vostri figli. Siate benedetti dal Signore che ha fatto cielo e terra. I cieli sono i cieli del Signore, ma ha dato la terra ai figli dell'uomo. Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba. Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e sempre.

(Salmo 115)

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ARCIDIOCESI di LUCCA

Lucca 2009

Le tappe delcammino di fede

Introduzione alla letturadel Libro dell’Esodo

In capite libri scriptum est de me

CentroBiblicoDiocesano