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Pag.13 – Brianza – Le terre lombarde nei secoli di Roma - FP Le Terre lombarde nei secoli di Roma Immaginiamo di percorrere la nostre terre guardando con gli occhi degli uomini antichi; conosceremo un territorio di insediamenti di origine celtica, a poco a poco popolati da coloni romani, portatori delle tradizioni e della cultura dell’urbe. Non scopriremo un’identità “brianzola” quale si è costituita nel corso dei secoli, fino a imprimersi nel cuore della nostro gente. Esiste certo la terra, ma non esiste ancora una Brianza esattamente definita; quando fu calcata dal piede romano, come tutte le terre di quello che diverrà uno dei più vasti imperi del mondo antico, sarà parte integrante di una complessa e articolata compagine cui immancabilmente offrirà peculiari contributi. La Storia tuttavia porta in questi secoli un unico grande nome; quello di Roma. Dalla prima sconfitta dei Galli alla caduta dell'Impero romano trascorsero più di sei secoli. Secoli nei quali nacque, si espanse e si consumò l'avventura straordinaria di un popolo che dalle campagne del Lazio a poco a poco si fece padrone della penisola italiana, poi del Mediterraneo e quindi del mondo allora conosciuto. Al culmine della gloria di Roma, Orazio poteva ben scrivere che "tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma". Anche la Brianza dunque come tutti i territori lombardi come tutto il mondo antico, fu partecipe delle vicende politiche e sociali dell’età romana, dalla gloria al lento declino, alla tragedia della caduta. E nelle nostre terre, come dovunque, le popolazioni si sottomisero alla lingua e ai costumi, ma soprattutto all'ordine e alla legge della potenza egemone. Un ordine imposto all'inizio con le armi, perfezionato quindi con il trasferimento di cittadini romani, militari e funzionari che creavano il primo nucleo statale nelle nuove colonie, stabilizzato infine con la lingua, l'obbedienza alle leggi e l'associazione mediante federazione e cittadinanza. Questo ovunque, dal sud al nord, da est a ovest. A poco a poco i popoli soggetti diventavano cives, o cittadini romani, dopo essere stati federati

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Le Terre lombarde

nei secoli di Roma

Immaginiamo di percorrere la nostre terre guardando con gli occhi degli

uomini antichi; conosceremo un territorio di insediamenti di origine

celtica, a poco a poco popolati da coloni romani, portatori delle tradizioni

e della cultura dell’urbe.

Non scopriremo un’identità “brianzola” quale si è costituita nel corso dei

secoli, fino a imprimersi nel cuore della nostro gente.

Esiste certo la terra, ma non esiste ancora una Brianza esattamente

definita; quando fu calcata dal piede romano, come tutte le terre di

quello che diverrà uno dei più vasti imperi del mondo antico, sarà parte

integrante di una complessa e articolata compagine cui immancabilmente

offrirà peculiari contributi. La Storia tuttavia porta in questi secoli un

unico grande nome; quello di Roma.

Dalla prima sconfitta dei Galli alla caduta dell'Impero romano

trascorsero più di sei secoli. Secoli nei quali nacque, si espanse e si

consumò l'avventura straordinaria di un popolo che dalle campagne del

Lazio a poco a poco si fece padrone della penisola italiana, poi del

Mediterraneo e quindi del mondo allora conosciuto. Al culmine della gloria

di Roma, Orazio poteva ben scrivere che "tu non vedrai nessuna cosa al

mondo maggior di Roma".

Anche la Brianza dunque come tutti i territori lombardi come tutto il

mondo antico, fu partecipe delle vicende politiche e sociali dell’età

romana, dalla gloria al lento declino, alla tragedia della caduta.

E nelle nostre terre, come dovunque, le popolazioni si sottomisero alla

lingua e ai costumi, ma soprattutto all'ordine e alla legge della potenza

egemone. Un ordine imposto all'inizio con le armi, perfezionato quindi con

il trasferimento di cittadini romani, militari e funzionari che creavano il

primo nucleo statale nelle nuove colonie, stabilizzato infine con la lingua,

l'obbedienza alle leggi e l'associazione mediante federazione e

cittadinanza.

Questo ovunque, dal sud al nord, da est a ovest. A poco a poco i popoli

soggetti diventavano cives, o cittadini romani, dopo essere stati federati

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e soci. A poco a poco perdevano la memoria di quando erano Osci,

Etruschi, Galli, Greci, o Iberici e tutti si sentivano parte di un comune

universo culturale e giuridico.

Quando la costruzione dell’Impero fu conclusa, iniziò l'inevitabile declino.

Troppo vasti i confini, perché un solo Stato potesse controllarli e

governarli, troppo acute le rivalità, troppo grandi gli interessi privati.

I Transpadani vogliono la cittadinanza di Roma L’acquisizione della cittadinanza romana fu per secoli l’obiettivo di molti

popoli assoggettatati o confederati, in particolare di quelli della

Traspadania, che, come sappiamo, non avevano ricevuto un trattamento

particolarmente favorevole da parte di Roma.

Gli autoctoni si sentivano discriminati, anche se dalle loro terre

provenivano ricchezze agricole che andavano a nutrire molti cittadini

romani, e anche se alcuni villaggi erano diventati città di residenza per

funzionari civili e militari, che per di più si erano accaparrati le terre

migliori.

Gli abitanti della Transpadana, peraltro, non stavano in una situazione

diversa da quella degli altri popoli italici assoggettati e legati dal

cosiddetto "patto sociale" che attribuiva loro la qualifica di "soci"

appunto, e li

obbligava a contri-

buti per le guerre e

il mantenimento

dell'esercito, sen-

za dar loro ade-

guati diritti ed

autonomia.

I comandanti

militari ed i

funzionari pubblici infatti erano sempre e solo romani.

Nel corso del tempo il malcontento andò crescendo sino a sfociare in una

vera guerra, la guerra sociale; gli alleati si ribellarono e combatterono

per tre anni, dal 91 all'89 a.C..

In quell'anno venne emanata la Lex Pompeia che concedeva ai

Transpadani lo Ius Latii cioè il diritto latino. Con questa legge, gli

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insediamenti maggiori della Transpadana diventavano così coloniae

latinae. Così riferisce lo storico Ascanio Pediano: "Gneo Pompeo

Strobone, padre di Gneo Pompeo Magno, dedusse colonie nella regione

transpadana, ma non le formò con nuovi coloni; conferì la cittadinanza di

diritto latino ai vecchi abitanti che vi rimanevano".

I Transpadani tuttavia non si accontentarono di questo compromesso e

continuarono a chiedere che venisse concessa loro la piena cittadinanza

romana. Le rivendicazioni transpadane trovarono ascolto a Roma presso

gli esponenti della fazione democratica, che

stavano riorganizzando le loro file dopo la

sconfitta subita da Mario a opera di Silla, e la

breve dittatura di quest'ultimo.

Così, nel 78 a.C. Lepido chiedeva nel suo

programma di riforme la cittadinanza romana

per i Transpadani e dieci anni dopo un

personaggio di ben altro rilevanza si sarebbe

interessato a queste popolazioni.

Parliamo di Gaio Giulio Cesare che, come

scrive Svetonio, nel 68 a.C, "partito innanzi

tempo, si recò nelle colonie latine che si agitavano per ottenere la

cittadinanza e le avrebbe incitate a osare qualche cosa se i consoli,

appunto per ciò, non avessero (ivi) trattenuto le legioni che erano state

arruolate per essere mandate in Cilicia".

Nel 65 a.C. un amico di Cesare, Licinio Crasso (che con Cesare e Pompeo

avrebbe formato il primo triunvirato, nel 60 a,C.), in quell'anno censore,

tentò di iscrivere i Transpadani nelle liste di cittadinanza romana, ma la

sua azione venne bloccata dal veto del collega,.

Nel 63 a.C., infine, Cesare accusò di abuso davanti al magistrato Curione il

console Pisone per aver inflitto un suppliciun iniustum a un transpadano.

Cesare favorisce i Transpadani Nel pieno della sua marcia verso il potere, Giulio Cesare sembrò aver

compreso che l'amicizia e la collaborazione dei transpadani erano

assolutamente necessarie e mostrò nei fatti quanto gli stessero a cuore.

Nel 59 a.C., anno del suo primo consolato, venne approvata la Lex Vatinia

che promuoveva la creazione dell’insediamento coloniale di Novum Comum

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(Como), sul sito di un più antico villaggio gallico nel quale Pompeo

Strabone aveva fatto insediare popolazioni retiche e un certo C.

Scipione aveva trasferito 3.000 coloni.

Cesare vi inviò 5.000 Coloni, fra i quali 500 Greci di nobili origini che

avevano ricevuto la cittadinanza ed erano stati iscritti fra i coloni. Lo

stesso Cesare, nel De bello gallico, riferisce in terza persona che

“l'arrivo di Cesare fu accolto da tutti i municipi con incredibili

manifestazioni di onore e di affetto".

Una decina di anni dopo, divenuto dittatore dopo la sconfitta di Pompeo,

egli concesse ai Transpadani la cittadinanza optimo iure, ovvero a pieno

diritto. La risoluzione venne sancita nella Lex Roscia del 49 a.C., che

attribuì a Milano lo status di municipium; nel 47 Bruto, figlio adottivo di

Cesare e suo futuro assassino, diventò propretore della regione

transpadana. Nel 42 a.C. infine, tutti i popoli italici entrarono

nell'organismo statale romano con la Lex Rubria; per quanto riguarda in

particolare la Transpadana Como da colonia diventò municipium.

La cittadinanza romana segnò senza

dubbio una conquista importante e di

grandi conseguenze per la storia italica.

Così con esaltata retorica, scrive il

Marimonti:"... chi liberolla dai proconsoli,

dai pretori, dai presidi, chi le concesse la

perfetta cittadinanza di Roma chi di

tutta l’Italia fece un corpo solo di

nazione, un sol popolo, una sola città, fu

Giulio Cesare il primo anno della sua

dittatura. Fu allora che tutti gli abitanti

della penisola dall'estremo Siculo al

montanaro dell’Alpi, dimentichi del

fraterno sangue versato, formarono una

sola famiglia, e tutti con gioia esclamarono: “Io son Romano!”.

Tuttavia, dopo la morte di Cesare - pugnalato com'è noto alle idi di

marzo del 44 a.C., in seguito a una congiura - sembrò stranamente che la

Transpadana parteggiasse per i cesaricidi soprattutto per Bruto.

Cicerone, del partito senatoriale e avversario di Cesare, chiama infatti la

Galia Transpadana "fiore dell’Italia sostegno del popolo romano" e

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Svetonio riferisce che a Milano restava una statua di Bruto anche dopo

l'uccisione di Cesare.

Dopo Cesare, e dopo la guerra fra Antonio e Ottaviano, che vide

quest'ultimo vincitore e primo imperatore con l'appellativo di Augusto, si

conobbe una lunga pace, la Pax Augustii. Negli anni di Augusto e degli

imperatori della sua dinastia, la Giulio-Claudia, la legge di Roma si estese

a tutti i popoli conquistati.

Anche la Transpadana, iscritta nella IX Regione, godette di pace e

prosperità; Milano e Como iniziarono allora a diventare centri rilevanti e

tutta la regione venne dotata di una fitta rete di comunicazioni poiché

apparve chiaro che lì, fra le due città. si trovava uno dei nodi principali

del traffico e del commercio verso l'Europa.

Le vie della Brianza In base alle testimonianze di Plinio ed epigrafiche, il territorio brianteo

ero compreso fra le colonie, poi municipi, di Como e Milano, secondo il

confine rettilineo tracciato dal Seveso e dal Lambro, e che dal Lambro

puntava poi verso nord dirigendosi alla volta dell’Adda.

In entrambe le zone i centri abitati erano numerosi, con elevata

popolazione e intense colture.

Quando Milano divenne città importante il territorio fu ricoperto da un

fitto reticolato di strade che ponevano in comunicazione i centri rurali a

nord della città fra loro e con le vie di grande traffico che si snodavano

ai suoi margini.

Le maggiori di tali vie erano la Mediolanu-Comun,

la Mediolanum-Bergomun e la via che nella parte

settentrionale della Brianza collegava Como e

Lecco con le città della Venetia.

L'arteria Mediolanun-Comun divenne molto

importante per i traffici che portavano a Chiavenna

e di qui, tramite lo Spluga, a Coira e quindi ai

mercati renani e danubiani. Era uno dei passaggi

transalpini obbligati, ma attualmente è quasi

impossibile ricostruirne esattamente il tracciato e

la lunghezza, anche se gli studiosi concordano nel

ritenere che passasse per Cantù e Galliano.

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Simile a quello attuale doveva essere invece il tracciato della

Mediolanun-Bergomum passava a sud del territorio brianteo e da esso si

dipartiva una strada che penetrava in Brianza attraverso Cologno

Monzese e Monza; tramite questa strada i centri briantei comunicavano

con Milano e potevano immettersi lungo la linea di traffico per la Venetia.

Sulla riva destra del Lambro si estendeva un'altra strada di collegamento

fra Milano e Monza dove il ponte de Arena collegava le rive del fiume.

Da Monza la strada confluiva da una parte a Olginate, immettendosi sulla

via che metteva in comunicazione i centri veneti con Lecco e Como;

dall'altra sfociava nell'alta Brianza più o meno presso Erba

Alle due arterie principali facevano capo senza dubbio strade secondarie

che collegavano i villaggi, “vici”, di campagna, lungo le quali si

raccoglievano e si convogliavano i prodotti agricoli e si svolgevano intensi

traffici locali.

Civitas, Pagus, Vicus Le campagne briantee, come tutta la terra lombarda, erano suddivise

amministrativamente per civitas, pagus e vicus, nomi latini che

definivano tuttavia strutture fondamentalmente celtiche.

La civitas infatti indicava non tanto la città quanto l'appartenenza

tribale. Il nome del clan maggiore; il pagus era il distretto territoriale

della civitas e il vicus una sottodivisione del pagus.

Questo dimostra come nel contado

sopravvivesse l'antica struttura per clan

e per fondi comunitari tipica della

cultura celtica, una cultura che non

conosceva il fenomeno urbano e si

fondava sui legami di sangue.

Milano e i centri briantei appartenevano

alla civitas degli lnsubri; il foedus equum

stipulato nel 191 a.C. permise la

sopravvivenza di tali strutture anche in

età imperiale. Una sopravvivenza documentata dalla persistenza di antichi

culti. come quello delle matronae, delle vicanae e delle adganae, divinità

femminili della terra, dei boschi e delle acque tipiche del druidismo, e

dalla scarsa presenza del latifondo, caratteristico invece della cultura

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romana, a favore della proprietà comunitaria attribuita ai “vicani” gli

abitanti dei vici.

Galliano: Centro di Culto ininterrotto Fra i centri rurali sicuramente strutturati per pagi e vici citiamo in primo

luogo Galliano dove sono venuti alla luce reperti dedicati ai Braecores

Gallianates, e Monza, dove è stata rinvenuta una dedica ai Juvenes

Modiciates.

Numerose sono le località che hanno fornito prove archeologiche degli

antichi insediamenti da Desio a Meda da Lentate a Cantù, da Agrate a

Concorezzo, Cernusco, Vimercate, Olginate, Agliate, Erba, Montorfano.

Ma il centro più importante dal punto di vista delle antichità romane e

preromane è senz'altro Galliano. Qui nel sito dell'attuale basilica di San

Vincenzo, furono ritrovate epigrafi dedicate alle Matronae Braecorium

Gallianatum a Mercurio, alle matronaee alle adganae, a Giove, a Minerva

e a Diana.

Come si vede, accanto a divinità del pantheon romano si veneravano anche

quelle di indubbia origine celtica come le matronaee le adganae, mentre

Mercurio è trasposizione latina del dio celtico Theutates.

Poiché sullo stesso suolo si sono succeduti nel tempo edifici votivi celtici,

romani e cristiani. fino alla

basilica attuale, capolavoro di

architettura e di pittura

romana, vien da pensare che

Galliano fosse un centro di

culto di grande rilevanza, cui

dovevano affluire fedeli

provenienti anche da lontano,

conferendo alla comunità

gallianate, abitata da quei

Braecores dei quali non

abbiamo altre attestazioni, una posizione assolutamente preminente nel

territorio.

Gli stessi Romani resero omaggio a Galiano, riconoscendone il ruolo di

santuario; qui infatti un vir clarissimus Flavius Valens sciolse un voto a

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Giove Massimo Conservatore ex prae missa fulguris potestate, vale a

dire sancito dal potere della folgore.

Il vicus Modiciatum Monza, che vanta origini risalenti all'epoca dei primi insediamenti gallici

al tempo della conquista romana e della piena fioritura imperiale conobbe

una fortuna sempre crescente.

Scrive lo storico Giuseppe Marimonti: “Da due lapidi che veggonsi

tuttavia sul muro della facciata della chiesa di S. Maurizio possiamo con

molta verosomiglianza congetturare essere stata Monza destinata da

Cesare Augusto per onorevol riposo di quei cittadini romani, che in

Magonza città della Germania militarono al servizio della loro repubblica.

forse fu stabilita a Monza questa colonia militare di veterani perché

servisse come da presidio alla vicina Milano...".

Secondo lo storico monzese, quindi, il nome di Monza verrebbe da

Magontia, Magonza, ma si tratta di un'ipotesi priva di ogni attendibilità

filologica.

In realtà, il nome latino di Monza, Modicia, non si trova

nelle fonti romane di età repubblicana e imperiale, ma

soltanto nell'alto Medioevo, in Paolo Diacono e in

Ennodio. Troviamo invece il termine etnico Modiciatum in

una dedica degli Juvenes Modiciates a Ercole.

Monza in età romana non era municipio autonomo e

dipendeva da Milano, tuttavia doveva essere un centro

importante, posto com'era allo snodo delle vie che da

Milano portavano verso l'alta Brianza, e collegato con

l'arteria Bergamo-Como.

Ricostruire la Monza romana è quasi impossibile; quel che resta sono

soprattutto iscrizioni, lapidi sepolcrali e dediche, per la maggior parte

concentrate nella zona del Duomo e della contrada Arena, che nel

Medioevo designava un'intera zona del Lambro. Qui confluivano le due

strade che si congiungevano al ponte de Arena

Quanto alle epigrafi, si tratta per lo più di iscrizioni funerarie o dediche

alle divinità, offerte soprattutto da militari, piccoli proprietari e

commercianti. In due iscrizioni del I secolo d.C. vengono menzionati C.

Sertorio Tertullo, veterano della legione XVI, curator civium

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Romanorum Mogontiaci e L. Sertorio, pure veterano. Quanto alle

iscrizioni dedicate da piccoli proprietari commercianti notiamo che si

tratta quasi sempre di nomi celtici romanizzati, quasi mai completi dei tre

nomi secondo l'uso latino, più spesso composti di due o addirittura di un

solo nome.

L'iscrizione monzese più interessante è quella che presenta l'etimo del

vicus Herculi Modiciates Joveni. Si tratta di una dedica da parte di un

"collegio" giovanile. ovvero di un tipo di organizzazione paramilitare a

scopo di leva assai diffusa in età severiana, cui affluivano rampolli della

piccola aristocrazia locale.

Sembra che tra le funzioni del "collegio" di

Monza, oltre a quella addestrativa, ci fosse

anche quella di culto e cura dei morti, e

questo collegherebbe l'istituzione a una

preesistente struttura sociale celtica. Inoltre

Ercole, cui l'epigrafe è dedicata. sarebbe la

romanizzazione di un dio celtico.

Per quanto riguarda il ruolo politico e

commerciale di Monza in età romana, la sua

importanza iniziò a crescere alla fine del III

secolo d.C., con l'ascesa di Milano. Nella zona

urbana e limitrofa cominciarono ad affluire

funzionari e militari, sorsero “villae” e si

crearono complessi di abitazione residenziale.

Questo tuttavia non mutò essenzialmente il carattere agricolo

comunitario delle campagne intorno; fondi di proprietà imperiale

compaiono nelle fonti molto più tardi.

Soltanto con il dominio longobardo Monza da virus agricolo, sarebbe

diventata centro urbano e commerciale di grande rilevanza.

Padania fertile Già Plinio e Strabone celebrarono le ricchezze agricole del territorio

lombardo, abbondante di miglio, di frutteti, di boschi di querce che

davano ghiande per allevare maiali in quantità. Varrone celebra il vino

come maggior prodotto locale e Plinio ricorda che le rape sono “dopo il

vino e il frumento il terzo frutto della Transpadana". Come si vede, non si

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fa distinzione fra Padania in generale e territorio brianteo, ma

probabilmente i boschi di quercia si trovavano lungo il Lambro, e anche gli

antichi Briantei dovevano coltivare ortaggi e granaglie. Non è da

escludere che anche in Brianza ci fossero estensioni di terreno a pascolo;

sembra anzi che l'unica attività manifatturiera diffusa allora fosse la

lavorazione della lana, che presuppone ovviamente l'allevamento di

pecore.

Plinio fu uno dei grandi proprietari terrieri della zona e a lui dobbiamo la

testimonianza di quanto allora produceva la terra briantea. Così infatti

scrive all'amico Calvisio: “Le terre sono fertili, grasse, acquose: sono

costituite da campi vigne, selve, che offrono prodotti e redditi modici ma

sicuri”.

Nella stessa lettera lo scrittore latino si

lamenta della cattiva conduzione del fondo da

parte dei fittavoli e suggerisce l'idea di

pagarli non in denaro ma con prodotti; così,

invece di lasciar marcire i frutti sul ramo, si

sarebbero dati da fare per raccoglierli.

Da Plinio deduciamo che i terreni erano dati

da coltivare a fittavoli che operavano una

sorta di divisione del lavoro, con un miglior sfruttamento delle capacità

produttive del suolo. Si consolidava così un ceto contadino attivo e capace

che avrebbe garantito per secoli la fertilità della terra lombarda.

Alla buona produzione agricola lombarda si accompagnava una efficace

rete commerciale, favorita dalle vie di comunicazione; la Padania divenne

così una tappa obbligata per il commercio da e per l'Europa centrale.

Anche la Brianza, tramite l’arteria Milano-Como, partecipò a questo

sviluppo, almeno fino all'epoca della decadenza.

Virginio Rufo

Un Brianzolo che non volle farsi imperatore Dopo la tragica morte di Nerone (68 d.C) si aprì in tutto l'impero un

periodo di disordini e instabilità. Capi militari si disputavano il potere, e

intanto le colonie si ribellavano e l'Oriente era in fiamme.

Nel 69 d.C., l'impero era conteso fra Vitelio Otone e Vespasiano e la

lotta si giocò su vari teatri di guerra, compresa la Transpadana. Qui,

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infatti, a Bedriacum, (Betriacum o Bedriacum è un antico vicus romano nei

pressi del comune di Calvatone CR) Vitellio scese in campo contro Otone,

sconfiggendolo. Alla vittoria seguì il saccheggio del territorio, e certo non

sarebbe stato l'ultimo...

In questo quadro difficile e confuso emerse la figura di un nobile soldato

delle nostre terre, Virginio Rufo. Originario di Valle Guidino, proveniente

da una famiglia del ceto equestre, aveva

acquisito grande fama come vincitore dei Galli

guidati dal capo ribelle Vindice. Al tempo della

contesa fra Vitellio, Otone e Vespasiano, i

soldati della legione germanica lo acclamarono

imperatore, ma Rufo rifiutò la porpora per ben

due volte, dicendo ai suoi soldati che si

sarebbe sottomesso soltanto alla volontà del

Senato e del popolo.

Fu però poi onorato con tre consolati l'ultimo

dei quali insieme al futuro imperatore Nerva,

che lo associò a sé nel 97 d.C., quando era

ormai vecchissimo. Fu il riconoscimento della

fedeltà di Rufo allo Stato e al Senato, del quale Nerva era il maggior

rappresentante politico. Dieci anni dopo la sua morte, Plinio deplorava

l'oblio nel quale ero lasciato il suo sepolcro: "Giacevano senza uno scritto,

senza un nome le reliquie e la cenere abbandonata di un uomo la cui

memoria era diffusa con gloria in tutto il mondo". Lo stesso Rufo aveva

dettato l'epigrafe per la propria tomba: "Qui giace Rufo il quale,

sconfitto Vindice, rivendicò l'impero non per sé ma per la patria".

La lotta per il potere venne vinta da Tito Flavio Vespasiano, imperatore

dal 70 al 79 d.C.

Onesto, capace e deciso, Vespasiano avviò il riassetto politico-

amministrativo del l'impero e condusse una politica difensiva ai confini.

Associò al regno il figlio Tito, risolvendo così il problema della

successione.

Dal punto di vista della politica economica, garantì i piccoli proprietari

mediante il protezionismo sui loro prodotti e questo assicurò una lunga

prosperità ai coltivatori lombardi. Sotto il suo regno Milano divenne città

di grande importanza anche culturale.

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La situazione politica, economica e sociale sembrò assestarsi; la pace

regnava all'interno dell'impero, il commercio era florido e tutto l'urbe

romano si riempiva di monumenti insigni, testimonianza della gloria di

Roma.

Inizia il declino In realtà la grandiosa costruzione romana era minata, sia all'interno sia

all'esterno. Ai confini infatti premevano popoli nuovi e ostili, spinti dalla

miseria a cercare di penetrare nelle terre ricche e civili dell'impero,

mentre all'interno cresceva a dismisura la corruzione, e l'avidità dei

grandi proprietari terrieri spogliava le campagne. Per il momento, però,

pochi sembravano presagire il crollo rovinoso che sarebbe avvenuto.

Nel 166 d.C. si fece avanti la minaccia dei Quadi e dei Marcomanni, feroci

tribù germaniche tacitati a fatica e con non pochi compromessi.

E fu proprio la minaccia germanica a rendere Milano e la Padania terra di

confine, avamposto italico contro i popoli transalpini via via più

incombenti. A sottolineare il ruolo strategico di Milano, fra il II e il III

secolo gli imperatori soggiornarono spesso nella città, tanto che sembra

che qui sia nato il secondogenito di Settimio Severo, Geta.

Nel 253 d.C. una pestilenza si abbatteva sull'Italia settentrionale e gli

Alamanni, un'altra bellicosa tribù germanica, si davano a rovinose

scorrerie nella valle padana; nel 270 infine si ripresentavano i

Marcomanni, con altre razzie e devastazioni.

Insomma, alla fine del III secolo l'impero scricchiolava paurosamente e

appariva ormai necessaria una radicale

trasformazione politica, militare e

amministrativa.

Fu questa l'opera di Diocleziano, che nel 292

divise l'impero in due parti, Oriente e

Occidente, sotto il governo di due Augusti

coadiuvati da due Cesari. Era il sistema detto

della Tetrarchia cioè governo dei quattro.

Sappiamo che tale sistemazione non resse a

lungo, anzi, incoraggiò le guerre fra Augusti e

Augusti, fra Cesari e Cesari per impadronirsi del potere assoluto.

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Quando fu instaurata la Tetrarchia Milano, sede dell’Augusto

d'Occidente Massimiano, divenne una delle città più importanti

dell'impero e centro degli avvenimenti politici.

L'alta Brianza, e il territorio circostante, però, continuarono a mantenere

caratteristiche tradizionali. Di fatto, le successive lotte fra i tetrarchi e

la promulgazione dell'Editto di Costantino nel 313 non dovettero

scuotere più di tanto i piccoli proprietari e i mercatores dell'agro

brianteo.

In questi secoli convulsi, fra guerre civili e invasioni barbariche, un nuovo,

grandioso fenomeno stava crescendo nelle terre dell'impero, anche se il

suo significato rivoluzionario sarebbe emerso chiaramente soltanto molto

tempo dopo. Parliamo del diffondersi del Cristianesimo che proprio agli

inizi del IV secolo, nel 313, veniva finalmente riconosciuto come culto

legittimo e legale da Costantino.

Il cristianesimo in Lombardia La nuova religione. inizialmente fede di poveri e di schiavi, a poco a poco

penetrò nelle classi più elevate, dal Mediterraneo sali fin nelle fredde

contrade del Nord, dalla Padania alla Gallia, fondando comunità di fedeli e

una rete di mutua solidarietà che si sarebbe rivelata preziosa quando il

grande impero crollò rovinosamente.

Una storia della Chiesa redatta nell'VIII-IX

secolo attribuisce a san Mona, vescovo di Milano

nel III secolo, la diffusione della nuova religione

nelle campagne del Milanese. Ma si tratta di una

pia leggenda. In realtà, qui perdurò a lungo la

tradizione pagana, a lungo vennero onorati gli dei

latino-celtici, anche quando dopo l'Editto di

Costantino del 313, nella grande Milano il culto di

Cristo aveva sopravanzato le altre religioni.

L'assoluta mancanza di vestigia cristiane anteriori

al V secolo conferma questo ritardo delle zone

rurali nei confronti della fede cristiana. La vera

edificazione della Chiesa lombarda si deve quindi a

una fra le maggiori figure di questo periodo

oscuro, il vescovo di Milano Ambrogio, vissuto nel IV secolo, al tempo di

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Teodosio. l'ultimo grande imperatore, colui che volle riunificare l'impero

diviso da Diocleziano.

Dal 379 al 395 Teodosio cercò in ogni modo di riunire le sparse membra

dei territori imperiali rafforzò l’esercito e si appoggiò alla Chiesa per

tentare di pacificare i popoli d'Oriente e d'Occidente che sempre più

numerosi sfuggivano al controllo romano.

Ma il suo impegno si rivelò tardivo e inefficace. La decomposizione era

andata ormai troppo oltre e tutto sembrò precipitare quando, alla sua

morte, il governo venne diviso fra i suoi due figli, Arcadio e Onorio.

Ad Arcadio andò l'Oriente, con sede a Costantinopoli, a Onorio

l'Occidente, con sede a Milano.

L'ultimo atto e l'inizio della barbarie Era la definitiva separazione dei due mondi un tempo uniti; da quel

momento Costantinopoli sarebbe stata la grande capitale imperiale

d'Oriente, destinata a durare ancoro per un millennio; Roma invece

cadeva nella prostrazione più angosciosa mentre Milano saliva

all'effimera gloria di capitale di un impero occidentale che nei fatti non

c'era più.

Effimera gloria, diciamo, perché ben presto Milano venne abbandonata

per un'altra sede. Nel 402 infatti la città ambrosiana e la Padania intera

subivano il saccheggio dei Goti di Alarico e nel 404 Onorio trasferiva la

sede imperiale a Ravenna, situata in posizione più favorevole dal punto di

vista difensivo.

Intanto la situazione precipitava e l'imbelle Onorio non era in grado di

farvi fronte. Nel 405, nuovamente, i Goti guidati da Radagaiso invadevano

l'Italia settentrionale.

Queste due incursioni vennero respinte dall'ultimo difensore dell'impero,

il generale “barbaro" di origine vandala Flavio Stilicone, magister militum

sotto Teodosio, tutore dei suoi figli Arcadio e Onorio e ora al servizio di

Onorio.

Integerrimo servitore dello stato, venne però accusato di usare una

politica troppo generosa nei confronti dei barbari e per questo fu

osteggiato dal Senato, pallida sopravvivenza dell’antica istituzione e

tuttavia ancora abbastanza potente da rendere il generale sospetto agli

occhi di Onorio.

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Così, nel 408, quando tutto crollava intorno a lui, Onorio non seppe far

altro che accusare il suo fedele tutore e generale, il quale cadde in una

rivolta militare abilmente orchestrata dallo stesso imperatore.

Morto Stilicone l'ultimo defensor

Romae, la fine dell'impero era ormai

prossima. Nel 410 i Visigoti di Alarico si

riaffacciarono in Italia dilagando fino a

Roma, dove compirono un atroce

saccheggio.

Nel 450 le orde mongole di Attila

espugnavano Aquileia e devastavano il

Veneto; Attila si ritirò poi senza

combattere, non sappiamo perché, anche

se una leggenda vuole che a convincerlo

sia stata la santa parola di papa Leone I.

Il dittico di Stilicone; conservato

nel tesoro di Monza

Nel 476 si compiva l'ultimo atto. Romolo Augustolo, imperatore fanciullo,

veniva deposto dal suo generale barbaro, Odoacre, della tribù degli Eruli

che si proclamò re d’Italia riconoscendo la supremazia dell'imperatore

d'Oriente.

Gli anni che seguirono la fine dell'impero furono tragici e oscuri. Dal 489

al 493 la terra padana fu contesa fra Odoacre e Teodorico, re degli

Ostrogoti. Vinse quest'ultimo, che si proclamò a sua volta re d’Italia e

fece di Verona una delle sue sedi preferite. ma, come vedremo, si

interessò molto anche a Monza.

Dal 535 al 553 tutta la penisola fu

devastata dalla cosiddetta guerra gotica,

causata dalla volontà di Costantinopoli di

riconquistare l’Italia muovendo guerra ai

vari principati goti che vi si erano

insediati. Fu una guerra atroce e

crudelissima durante la quale intere zone

del Paese, e in specie il Nord, caddero

nella miseria più nera. Nessuno più

coltivava i campi, nessuno più lavorava e commerciava: una crisi senza

speranza.

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La guerra fu vinta dalla superiorità militare e strategica dei Bizantini che

rioccuparono molte zone e fecero di Ravenna la splendida capitale del

loro regno.

Infine, il colpo di grazia. Nella penisola devastata da quasi trent'anni di

guerra, nel 568 giunse dal Nord un popolo guerriero e affamato, alla

ricerca di terre e ricchezze.

I Longobardi guidati dal feroce Alboino, dilagando dalle Alpi nella Padania

e in parte dell’Italia centrale, mettendo la parola fine alla storia

"antica" d’Italia.

Monza - Ponte dei Leoni