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Leggere il silenzio. Lavorare con i bambini autistici

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L’autismo negli ultimi anni sembra diffondersi in maniera iperbolica e con esso la correlata ricerca eziologica e di intervento. Un’opportunità di riflessione, dalla analisi della stessa definizione di disturbo “pervasivo dello sviluppo”, passando per il concetto di diagnosi e di intervento, su un modo di essere, di “funzionare”, tipico dello spettro certificato, atipico rispetto alla norma, tanto affrontato nella letteratura scientifica, quanto dal pensiero comune dei libri e delle pellicole, ma forse non così diverso da una componente di ognuno di noi. Riconoscere per curare, é il motto per poter intervenire con un bambino affetto da autismo, riuscire empaticamente a comprendere e scorgere un potenziale per lo piú celato, per alimentarlo e coltivarlo, proponendo attività motivanti e diffondendo consapevolezza tra chi vive o lavora con il piccolo, primi tra tutti i genitori incatenati ed imprigionati dalla visione diagnostica del proprio figlio e per questo poco speranzosi e fiduciosi

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Antonio Rinaldi

Leggere il silenzioLavorare con i bambini autistici

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Prima Edizione Ebook (PDF): 2015 ISBN 9788898037797 Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037186 © 2013-2015 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: [email protected] Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: [email protected] I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Aprile 2013 in Italia da Atena.net Srl - Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline ® Srl)

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INDICE

Introduzione

CAPITOLO 1 - L’autismo1. Defi nizione, tra storia e pensiero comune2. La percezione3. Convenzioni e regole sociali4. Autismo ed iper-logica5. Verbale o non verbale6. Egocentrismo e consapevolezza di sé7. Schemi fi ssi e ripetitivi8. Oggetto transizionale versus oggetto autistico9. Contatto fi sico

CAPITOLO 2 - Intorno al bambino1. Esser genitore2. La Motivazione3. Livello cognitivo e ritardo4. Educazione e interventi scolastici5. Network, lavorare in rete

CAPITOLO 3 - Approcci, strategie e considerazioni1. L’intervento in acqua2. “Disautizzare” la vita del bambino3. Insegnare ad un bambino autistico4. Rifl essioni

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INTRODUZIONE

Vorrei sussurrare un grazie...a ogni piccolo grande saggio

che ho incontrato sino adesso sulla mia strada...... a tutti coloro che vedono oltre una parola, al di là

di un abito, trovando forza per dar voce all’essenza...

In acqua mi guardavo spesso attorno, scoprendo una visuale insolita di posti conosciuti, riuscivo a scorgere anfratti nascosti all’occhio delle strade, mi sentivo al di quà di una linea invisibi-le, che era la riva, confi ne di quel mondo cui non volevo appar-tenere, fatto di intese e circostanze, di sorrisi assassini di lacri-me. Avevo scoperto un nascondiglio dove proteggermi e portare chiunque amassi, non mi sembrava vero, a pochi metri da dove mille passi al giorno passavano inconsapevoli, io urlavo la mia estasi al cielo e nessuno ci faceva caso.

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CAPITOLO 1 L’AUTISMO

1. Defi nizione, tra storia e pensiero comune

L’autismo per defi nizione è una sindrome comportamenta-le, in quanto un quadro diagnostico per esser riconosciuto sotto tale etichetta deve rispettare quei criteri dettati dai manuali di riferimento che vedono come primo aspetto identifi cativo una particolarità comportamentale nella sua ripetitività ed ossessione apparentemente immotivata nei riguardi di circoscritti interessi e nella presenza di stereotipie e manierismi tipici.

Da anni lavoro con bambini affetti dalla sindrome autistica ed ogni giorno che entro in contatto con chi vive questi piccoli, nei vari contesti, quali l’asilo o la scuola, il centro di riabilitazione o lo stesso nucleo familiare, sembro ritrovare nel suo esprimer-si perfettamente tale defi nizione, ricalcando quei semplici ma altrettanto pericolosi luoghi comuni che entrano a far parte del “sapere comune”, attraverso i fi lm, i libri, le espressioni popolari.

La parola stessa “autismo” sembra portarci a leggere, in ma-niera associativa, ogni particolarità di un bambino con questo disagio, come qualcosa che abbia a che fare con l’automatizza-to, “l’automatico”, ovvero dalla modalità computerizzata e pro-grammato nel compiere qualcosa per noi spesso indecifrabile.

Il termine “autismo” coniato nel 1911 da Eugene Bleuler, uti-lizzato come sintomo comportamentale nell’ambito della schi-zofrenia e ripreso decenni più tardi da Leo Kanner per indicare un disturbo a sè stante, voleva invece descrivere un aspetto di “auto-centrazione”, un amplifi cato egocentrismo che porta come conseguenza diretta un drastico evitamento dell’altro ed una for-

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te chiusura all’ambiente, ai contesti e alle situazioni di condivi-sione e relazione.

I criteri identifi cativi di questo disturbo sono infatti, come i manuali diagnostici di riferimento “DSM-IV” e “ICD-10” inse-gnano, oltre alla sopra nominata forte presenza di interessi cir-coscritti ed attività stereotipate, una compromissione grave e generalizzata nell’interazione sociale reciproca e nella comuni-cazione.

Pensando ad un simile quadro, è abbastanza semplice di-scriminare alcuni comportamenti tipici dello spettro autistico immediatamente per noi tutti riconducibile alla tendenza all’i-solamento e alla chiusura, come il tapparsi le orecchie con le dita, l’evitamento del contatto oculare e l’estrema resistenza al contatto fi sico.

Altra peculiarità della sindrome autistica è l’estrema diffi coltà ad affrontare cambiamenti inaspettati, relativi all’ambiente, alle persone di riferimento, alle quotidiane abitudini; una eventuale modifi ca in qualsiasi degli ambiti elencati, è direttamente impli-cata nel possibile rafforzamento di una chiusura, se non di una forte crisi caratterizzata da stereotipie e manierismi.

Direttamente correlabile al quadro sintomatico-comporta-mentale è l’idea del bambino autistico come di un bambino in-decifrabile, che “vive in un mondo tutto suo”, dalla volontà an-tisociale, tendente per sua natura alla ripetizione di manierismi e dalla povera se non nulla espressività emotivo-comunicativa.

Parlando di autismo si parla spesso di anaffettività, ovvero del non riuscir a provare ed esprimere emozioni; provare un’emozio-ne, saperla comunicare e riconoscere su un volto altrui son però cose ben differenti tra loro.

Sarebbe alquanto presuntuoso dire che una persona che non manifesta nella mimica facciale o che non sa leggere l’espressio-ne di chi ha di fronte, non provi o non conosca quell’emozione, è come se identifi cassimo chi ha gradito il pranzo solo in chi verbalmente fa degli espliciti apprezzamenti, così pensando an-dremmo sicuramente in un altro campo, quello del buon gusto e dell’educazione ma non certo della logica.

Personalmente, ritengo invece che un bambino autistico abbia un “sentire” di gran lunga superiore alla media, grazie infatti al suo essere introspettivo, alle sue continue rifl essioni interiori, di-viene un grandissimo conoscitore dell’animo umano.

Come ben sappiamo, poco tempo viene dedicato da parte di

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un bambino autistico al guardare in faccia gli altri, risultando nel crescere non molto bravo nel riconoscimento delle espressioni mimiche facciali; conoscere l’espressività comunicativa non ver-bale, presuppone infatti l’aver memorizzato sin da piccoli nelle varie circostanze “emotive” le espressioni e la mimica di chi ci circonda, in modo da ricordarsi, ad esempio, che il viso della rab-bia è come quello che aveva mio padre quel dato giorno.

2. La percezione

Percepire signifi ca conoscere attraverso i sensi, ovvero attra-verso i canali che sin dalla nascita ci connettono al mondo: l’udi-to, la vista, il gusto, il tatto, l’olfatto.

Sin dalla nascita, conosciamo così, che cosa ci circonda, chi è il nostro “caregiver” (colui che fornisce cure e attenzioni), di-stinguendo i volti familiari da quelli estranei, la nostra cameretta, la voce di chi ci ama, il suo odore, il gusto della pappa, il suo-no della canzoncina nella culla, il calore e la morbidezza di un abbraccio; possiamo quindi considerare la percezione come la nostra porta sul mondo, per conoscere e per farci conoscere.

Supponiamo anche solo per un attimo di aver questi canali sensoriali alterati, avremmo certamente una percezione altrettan-to alterata della realtà, in tal caso ciò che probabilmente faremmo è comportarci diversamente dagli altri ma soprattutto dalle loro aspettative; una musica per tutti piacevolmente ritmata potrebbe esser assordante per le nostre orecchie, la semplice vista di una serie di libri colorati all’entrata di una stanza potrebbe esser per noi un’inondazione di stimoli visivi insopportabile e dolorosa da sostenere all’interno di una relazione con l’altro o di un’attività.

La ricezione degli stimoli esterni attraverso i sensi viene ana-lizzata a livello corticale attraverso una selezione ed elaborata in informazione; le persone affette da autismo hanno una percezio-ne alterata di tutto ciò che le circonda, spesso son iper-stimolate a livello sensoriale e sembrano non riuscir a far selezione, così che le informazioni da dover elaborare divengano una quantità impensabile per qualsiasi calcolatore.

Considerando questa inondazione di input, come valuteremo ad esempio il tapparsi le orecchie nell’entrare in una stanza con altre persone? Continueremo ancora a pensare che sia dovuto al non voler relazionarsi all’altro o possiamo riconoscere tale stra-

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tegia comportamentale come una soluzione effi cace ed imme-diata da parte della persona autistica, per preservare il proprio cervello da una estrema confusione e sofferenza?

Immaginiamo di esser al telefono in una conversazione dalla linea disturbata, e che nel cercar di captare alcuni dati per noi essenziali, dedicando ogni nostra attenzione a quel messaggio, qualcuno cercasse di avvicinarci per dirci qualcosa di diverso ar-gomento o di abbracciarci o scherzare con noi; ad un primo ten-tativo faremmo solo un minimo gesto per allontanare l’altro, per non perder alcun dato della telefonata, ad una ulteriore insistenza ci allontaneremmo cercando la solitudine e la tranquillità.

È ormai cosa ben nota che le persone autistiche diano estre-ma dominanza al visivo rispetto all’acustico, si dice infatti che il pensiero delle persone autistiche vada per immagini, (“Thinking in pictures” Temple Grandin 2006), ovvero che l’elaborazione di un insieme di concetti avvenga per associazione di immagini.

Ciò che potrebbe chiarire quest’ultimo concetto è il presuppo-sto per cui ciò che domina la mente autistica sia una “iper-logica” estrema, la ricerca di un’ordine e di una coerenza cognitiva, per-cettiva e comportamentale a rimedio di una sovrastimolazione cerebrale e di un caos di segnali esterni ambientali.

Una ricerca di coerenza ed ordine fa sì che un’immagine chia-ra di un concetto rimanga fi ssa, immutabile e inequivocabile; più il bisogno sarà di fi ssare un concetto, più il cervello allenato a dover discriminare all’interno di una quantità enorme di input diverrà un simil-scanner al fi ne di identifi care e denominare nel più breve tempo possibile, attraverso il riconoscimento di alcune peculiarità, l’oggetto, la persona, l’ambiente che si pone dinanzi.

Uta Frith parla di coerenza centrale per indicare la tendenza di ogni persona non autistica a prediligere una visione di insie-me rispetto all’attenzione al particolare, tipica invece dei soggetti autistici; capita molto spesso, se avete dinanzi a voi un bambino autistico, che questi si fi ssi su un particolare che spicca nel vo-stro abbigliamento o nella vostra acconciatura dei capelli o in un orecchino, ma ciò che è incredibilmente palese è che nessun par-ticolare passerà inosservato, sarà come se la visione globale non avvenisse come per noi normotipici attraverso una vista generale ma come la somma di infi nitesimali particelle di singoli elemen-ti, sino a raggiungere l’intero mosaico fi nale, il tutto in un tempo impensabilmente breve.

Per questo motivo è estremamente necessario far conosce-

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re preventivamente attraverso immagini o accurate descrizioni l’ambiente che andremo per la prima volta a far vivere alla per-sona autistica e la necessità successivamente di far rimanere co-erenti i contesti per come son stati conosciuti, mantenendo ad esempio una modalità nell’entrata o un solito rituale.

La certezza di una conoscenza precedente infatti fa sì che si limiti di gran lunga il materiale informativo in entrata, ogni cosa sarà già scannerizzata o immaginata preventivamente al fi ne di limitare il livello di ansia nel dover gestire novità.

Correlato ad una novità c’è il non saper che attenderci e per un bambino consapevole di non esser compreso nei suoi bisogni, il dover affrontare situazioni nuove comporterà sicuramente il dover preoccuparsi rispetto a ciò che sarà posto di fronte a lui, alle intenzioni i desideri e le volontà degli altri,

A proposito di questo aspetto particolarmente identifi cativo e defi citario dello spettro autistico, Uta Frith parla di capacità di “mentalizzare” intendendo il riuscire a capire la mente altrui, rappresentare i propri e gli altrui stati mentali, ovvero l’intenzio-ne, il pensiero, l’aspettativa; a tal proposito nel suo libro “Auti-sm: Explaining the enigma”, l’autrice riporta il famoso test sulla “Falsa credenza” di Perner e Wimmer , conosciuto meglio come “Sallie-Anne Test” che consiste nel valutare attraverso la presen-tazione di un gioco di fi nzione ad alcuni bambini la loro capaci-tà metarappresentazionale, lo sviluppo della teoria della mente (TOM: theory of mind).

Per teoria della mente si intende la consapevolezza che i com-portamenti altrui siano direttamente determinati da stati mentali interni e due son i processi che la costituiscono:

1. la decodifi ca degli stati mentali;2. capacità di predire gli stati mentali altrui o saperli spiega-

re.

I risultati del test sulla falsa credenza dimostrarono che so-litamente dai 5 anni i bambini iniziano ad avere la capacità di rappresentarsi gli stati mentali altrui senza proiettare i propri, in una sorta di empatia cognitiva, riuscendo a prevedere ciò che può pensare una persona diversa da loro; i bambini autistici invece nel crescere continuano a dimostrare grossi defi cit in tale capaci-tà metarappresentazionale.

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3. Convenzioni e regole sociali

Poco prima di entrare in una scuola elementare gremita di ge-nitori per un incontro di formazione sul disturbo autistico, pensai un esempio chiarifi catore per far rifl ettere ognuno dei presenti su ciò che defi niamo “normalità” e quale sia il limite al di là del quale si possa parlare di “a-normalità” o “handicap”; mi venne di colpo questa immagine: una persona attende l’autobus alla fer-mata in piena solitudine , ad un tratto si mette un dito nel naso come per istinto seguendo un bisogno, ma al sopraggiungere di una persona lungo il marciapiede, si interrompe.

Se noi fossimo la persona che sopraggiunge e vedessimo in-vece che il signore continua a tenersi le dita nel naso incurante del nostro arrivo, penseremmo dapprima che sia solamente una persona maleducata, poi vedendo una insistenza nel gesto, pen-seremmo probabilmente che non sia tanto in sé, che abbia dei problemi.

Ciò che quindi risulta esser criterio per defi nire problematica una persona non è tanto il tipo di comportamento messo in atto, come il mettersi le dita nel naso, ma quanto l’infl uenza che la presenza di un’altra persona possa avere sul continuare a metter-lo in atto.

Questo aspetto in psicologia sociale in particolare con la fi -gura di Lewin e la sua “Field theory”, è studiato per descrivere appunto quanto la presenza altrui possa determinare un cambia-mento nel nostro modo di essere o di fare.

Se rifl ettiamo su tale concetto, riusciremmo ad ammettere che diviene fondamentale conoscere le regole sociali del dover esse-re e dover fare in società, tutti quei “non si fa” che ognuno di noi si ricorda aver caratterizzato la propria crescita, per esser consi-derato “a norma”, convenzionato.

Per convenzione si intende una presa di consapevolezza con-divisa, raggiunta con un accordo tra più persone, al fi ne di stabi-lire uno schema al di là del quale possa esser considerato “fuori norma o legge” qualsiasi comportamento, atto, modo di essere.

Rispettare una convenzione signifi ca conformarsi per divenire parte di un tutto, di una società che ti riconosce come proprio membro nel momento in cui ti allinei, riconoscendo come giusti criteri, certi canoni comportamentali, estetici, comunicativi.

La convenzione ci dice che una cosa non la si fa, senza dar un reale motivo a sostegno di tale istruzione, non la si deve fare e

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basta, perchè non sta bene; per esempio, togliersi le scarpe quan-do si è seduti in luogo pubblico come in una classe scolastica non è adeguato, però il togliersi le scarpe appena entrati a casa propria, non è da rimproverare, anzi spesso è consigliabile dal genitore stesso per insegnare al bambino che è importante mante-nere un ambiente pulito, per cui magari meglio togliersi le scarpe appena si entra.

Cosa risulta se non un illogico meccanismo alla base di una convenzione sociale?

Ciò che distingue infatti il poter togliersi le scarpe a casa ri-spetto alla scuola, non è una reale differenza ambientale o di ne-cessità che potrebbe render chiaro a qualsiasi persona il dover rispettare tale regola, ma solo il dire comune che a scuola non si tolgono le scarpe.

Nel porsi in relazione sia con un adulto sia con un bambi-no è fondamentale, al fi ne di consigliare, educare o insegnare, prediligere sempre uno stile “autorevole” rispetto ad uno stile “autoritario”; la semplice differenza tra i due modi di rivolgersi è l’associazione di una logica motivazione all’istruzione.

Esser autorevoli nel chiedere di fare, signifi ca motivare lo-gicamente il perchè sia meglio farla, dando modo a chi dovrà rispettare l’istruzione di comprendere che ciò che farà avrà un senso , uno stile autoritario invece eviterà di porre un “perchè” a seguito di una richiesta, che sarà di conseguenza letta come un mero comando da eseguire, solo per la volontà di chi lo ha stabilito a priori.

Premessa per cui una frequente illogicità di base ad una con-venzione sociale, diverrà consequenzialmente naturale la dif-fi coltà per una persona dotata di una mente dal funzionamento iper-logico, riconoscerne l’utilità, apprenderla per farla propria e divenirne rispettoso utente e ambasciatore.

4. Autismo ed iper-logica

Come dicevamo poc’anzi riguardo alla percezione, ciò che caratterizza l’esistenza di una persona autistica è un continuo schermarsi dalla moltitudine di input sensoriali al fi ne di non en-trare in una angosciante confusione e in una eventuale crisi.

Come rimedio a tale stato di cose, la mente autistica sembra prediligere situazioni dai meccanismi chiari o resi chiari perché

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ripetuti allo sfi nimento, al fi ne di divenire logici per familiarità.Un gioco descritto verbalmente da una maestra o da una edu-

catrice non susciterà mai lo stesso interesse per un bambino au-tistico rispetto ad un gioco su uno schermo di una console, di un computer o di un telefono smart phone, questo evidentemente perché la coerenza e la chiarezza espositiva di una persona che cerca di spiegare verbalmente un’attività, sarà sempre più sog-getta a dubbi e diverse interpretazioni cognitive rispetto ad un programma dettato da un software.

Le variabili intervenienti all’interno di un gioco compute-rizzato, sono comunque previste e espresse in un menù iniziale per cui l’effetto sorpresa verte solo sull’abilità del giocatore; le variabili invece che intercorrono in un gioco concreto, dettato e creato dall’uomo, sono infi nite, tra cui una differente visione degli strumenti, una differente percezione delle diffi coltà per rag-giungere lo scopo del gioco.

Come già espresso precedentemente, la netta preferenza di un pensiero per immagini porterà a prediligere una presentazione di un gioco o di una attività su un display rispetto al dover ascoltare o veder solo oggetti con i quali condurre l’attività, porterà ad un’immediata scelta per la prima situazione rispetto alla secon-da; quella atipica visione di insieme, che nei paragrafi precedenti avevamo menzionato, rende probabilmente il bambino autisti-co avvantaggiato nell’approccio al gioco computerizzato ove i comandi e le istruzioni da eseguire appaiono da subito evidenti tutte allo stesso modo e dove l’attenzione al particolare diverrà fondamentale e vincente al fi ne di una buona performance.

Tutto ciò che appare in uno schermo, da un fi lm di anima-zione ad un documentario educativo è circoscritto al perimetro dello stesso, senza esser contaminato da interferenze esterne di persone ed oggetti, riducendo la situazione descritta nel display ad una sorta di bidimensionalità, potenzialmente riascoltabile e revisionabile ogni qualvolta il bambino voglia.

L’immagine riuscirà ad esser impressa nella mente all’inter-no di quel setting con la quale viene presentata, ovvero con una musica di sottofondo, un suono o la stessa voce dei protagonisti, rimanendo coerente a quel sistema di riferimento video che ser-virà al bambino per apprendere associando dapprima il visivo all’acustico, poi attraverso un processo di generalizzazione ad applicare anche fuori dal display in prima persona ciò che ha conosciuto attraverso il video, così prima per imitazione diretta

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poi indiretta, confrontando ciò che fa, con la memoria visiva per prove ed errori.

Per confrontare ciò che riesce a fare in base alla sua memo-ria visiva e ciò che realmente il bambino ha visto nel video, il piccolo può ricercare morbosamente, in maniera ossessiva, la sua immagine rifl essa nel rimettere in pratica il comportamento appreso o ripetere il messaggio ascoltato nel video, in uno spec-chio a casa, in una fi nestra a scuola, negli occhiali da sole di una persona che gli si avvicina, in un fi nestrino di una macchina par-cheggiata lungo la strada.

La ripetizione comportamentale portata all’eccesso di certi ristretti interessi è, come prima accennavamo una strategia co-gnitiva al fi ne di render familiare e quindi logica e coerente una procedura, una serie di azioni o una espressione verbale facendo sì che divenga competenza acquisita una volta entrata nel circui-to del loop e del riproporsi spontaneamente.

Un’attenzione fondamentale da parte del bambino autistico è rivolta alla coerenza tra verbale e non verbale, sia riguardo alla mimica facciale o al comportamento non verbale in genere e la parola, sia riguardo al rapporto tra il dire e la realtà delle cose che spesso non corrisponde letteralmente a ciò che diciamo.

Tipico del linguaggio comune di ognuno di noi è l’uso modi di dire come “perder la testa per qualcuno”, espressioni dettate spesso da omissioni, da immagini che stanno a signifi care tutt’al-tro rispetto a ciò che letteralmente esprimerebbero, da scorciatoie di pensiero che generalizzano un concetto dando per scontato che si intuisca a senso e che vada applicato al contesto in cui al mo-mento ci troviamo; usiamo ad esempio fi gure retoriche come la metonimia, nelle espressioni “bere un bicchiere”, “mangiare un piatto”, che se analizzate letteralmente non son per niente chiare né logiche.

Il bambino autistico ha una comprensione logico-letterale del linguaggio che non tiene conto assolutamente di queste conven-zioni linguistiche e del loro valore metaforico, ovvero dire “ho saltato la lezione”, se per lui saltare è chiaramente il balzare, di-viene un’espressione incomprensibile in quanto le immagini che saranno sommate saranno un verbo motorio ed una attività che magari niente ha a che fare con un salto, oppure “facciamo un giro”, non sarà per lui una passeggiata ma più un girotondo.

La ricerca di concretezza è a livello cognitivo la prima sele-zione che la mente autistica mette in atto, per cui l’attenzione di

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chi si vuol rivolgere con una richiesta ad un bambino autistico dovrà evitare concetti troppo astratti, come nel riferirsi al tempo, dicendo “dopo” o “alla fi ne” senza specifi care il “di cosa”, cioè “dopo che cosa?”, “alla fi ne di che cosa?”.

È necessario sempre utilizzare qualcosa di concreto come ri-ferimento al quale confrontarsi, come ad esempio, la fi ne della canzone che stiamo ascoltando o dopo che il nostro amico Brian si è tuffato.

5. Verbale o non verbale

È scontato dire quanto tutti noi diamo un’enorme dominanza al verbale su qualsiasi altra forma comunicativa, basti pensare all’equazione che solitamente in maniera automatica avviene nel pensiero comune tra il non riuscir a parlare e esser disabile o co-munque il non saper comunicare.

La comunicazione invece, come la letteratura insegna è di due tipi, verbale e non verbale e ciò che realmente ci riporta quoti-dianamente a tale dicotomia è una possibile discrepanza di tali aspetti; se una persona si rivolgesse con parole estremamente gentili, ma con la mimica facciale e con il comportamento di-mostrasse invece una esplicita mancanza di rispetto, si presente-rebbe in noi una immediata discrepanza cognitiva nel ricevere i due messaggi incongruenti. Il comportamento non verbale è pur sempre comunicazione, la prossemica, ovvero la posizione che occupiamo nello spazio, la postura e le posizioni che assumiamo rispetto alla presenza e alle parole dell’altro ne sono un chiaro esempio; veder il nostro interlocutore distogliere lo sguardo dal nostro e sbuffare non sarà per noi motivante per una nostra ri-chiesta di intima confi denza.

Chi come i bambini autistici non predilige invece il verbale ri-spetto al non verbale, diviene giorno dopo giorno così attento ed esperto nel “sentire” l’altro nel silenzio, che ci stupirà per quanto riesca ad esser in sintonia con i nostri stati d’animo senza che neanche questi siano del tutto consci a noi stessi.

Non sentir il bisogno di ascoltare parole per capire gli altri è una cosa fondamentale dell’esser empatici, la parola è per lo più scelta, fi ltrata dal pensiero e la valenza sociale di ciò che possia-mo dire ricade sull’idea che gli altri si fanno di noi, per cui per-chè un bambino autistico dal sentire chiaro nel silenzio dell’altro,

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dovrebbe pensare che per esser compreso debba necessariamente parlare?

L’attenzione alla parola a cui siamo abituati nella società è per il signifi cato che essa assume nel contesto in cui siamo, per il destinatario a cui ci rivolgiamo, per il valore che per noi stessi riveste.

La parola diviene importantissima per ognuno di noi al mo-mento in cui si diviene consapevoli che parlando possiamo far-ci capire, far arrivare un messaggio chiaro al destinatario, per soddisfare un bisogno, in una richiesta di aiuto, nel soddisfare una volontà, nell’opporsi e nell’allontanare ciò che non gradia-mo, diviene automatico il voler comunicare attraverso il verbale quando lo si vede realmente utile e comune canale.

Durante lo sviluppo, il pianto verrà sostituito da un linguaggio appreso per imitazione e prove di errori attraverso ecolalie con le prime parole, espressioni di bisogni primari come “pappa” o “mamma”, accompagnate dal grande entusiasmo del genitore e nonni, per divenir sempre più ricco ed articolato in frasi dappri-ma molto strumentali per divenir con la crescita più “meta-co-municative”, ovvero caratterizzate dal piacere e dall’attenzione al comunicare.

Percorso completamente diverso è quello invece dei bambini con marcate diffi coltà comunicative come nello spettro autistico, dove il riuscir a verbalizzare avviene solitamente con più diffi -coltà per una poca attenzione al “verbale altrui”.

Quà nasce l’esigenza da parte di chi vive e segue il bambino di motivare e premiare ogni suo tentativo di verbalizzazione.

Nel concreto, nel caso in cui il bambino per ottenere qualcosa che non vogliamo che prenda, sforzandosi, riuscisse a verbaliz-zare, da parte nostra lo sbaglio più grande sarebbe opporsi alla richiesta senza dimostrare che il messaggio sia arrivato a desti-nazione; l’effetto immediato sul bambino sarebbe infatti il non riconoscere come funzionale la parola e automaticamente rinfor-zeremmo il suo non parlare.

Il riconoscere funzionale uno strumento è la condizione per dar maggior rilievo emotivo alla motivazione che sta dietro il suo utilizzo, generando a tal punto un ciclo autorinforzante che vedrà come inversamente proporzionali sacrifi cio e motivazione.

Nel disagio autistico il verbale è molto spesso caratterizzato da un uso ripetitivo di alcuni termini che apparentemente non hanno alcun legame con il contesto spazio temporale nel quale

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son pronunciati, ciò che Uta Frith defi nisce “espressioni idiosin-cratiche”.

Se cerchiamo però con attenzione di capire ciò che un termine vuole esprimere per quella persona, non fermandoci al signifi ca-to letterale, scopriremo che niente è mai detto “a caso”.

Dentro ad una parola ci son profumi, ricordi di gioie o pau-re, ognuno di noi associa più o meno spontaneamente una can-zone ad un momento della propria vita particolarmente impor-tante dal punto di vista emotivo, altrettanto può avvenire con le parole soprattutto nel caso di un funzionamento cognitivo che da predominanza ad un “pensiero associativo”; la necessità di concretezza facilita l’associazione di tutto ciò che è “invisibile” come un’emozione, una sensazione, un ricordo ad una etichetta verbale, concreta, riconosciuta per prima cosa da noi stessi e così condivisibile.

Per questo motivo è facile sentire un bambino autistico no-minare un personaggio di un cartone animato mentre fa un tuffo ma anche solo uno slogan pubblicitario di eccezionali sconti e liquidazione, per esprimere la propria soddisfazione nell’esser riuscito a compiere un’impresa di coraggio o per contenere ed elaborare le forte emozioni in seguito ad essa.

Accade spesso che il bambino autistico attui un’inversione pronominale, ovvero scambi la prima persona con la seconda, oppure parli di sé in terza persona; ancora una volta affi nchè non sia l’ennesima occasione di etichettare e obbligatoriamente rico-noscere tratti sintomatici, dovremmo per una utile osservazione e comprensione far un passo indietro prima di varcar la soglia del giudizio e pensare a come noi ci rivolgiamo a lui.

Considerando infatti che un altro aspetto caratterizzante il lin-guaggio “autistico” è l’ecolalia (ripetere ad eco frasi o parole pronunciate da altre persone), potremmo facilmente dedurre che se in una fase di apprendimento del linguaggio verbale il bam-bino tende a ripetere, anche nella normalità dello sviluppo, le parole che noi gli rivolgiamo, a maggior ragione sarà così per un bambino autistico. Applicando quella che si defi nisce “ecolalia immediata” infatti, ripeterà il pronome che noi indichiamo nel parlare a lui, ad esempio chiedere “cosa fa Michele?” può far sì che inneschi una risposta in terza persona e così via per le altre persone.

Per questo motivo non dovremmo temere che il nostro modo di rivolgerci al piccolo divenga un potenziale danneggiamento

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del suo modo di esprimersi, rimanendo infatti consapevoli che il linguaggio lo si impara come ogni apprendimento dapprima per imitazione, diverrà per noi più semplice non cadere nelle solite correlazioni disturbo-tipicità.

Ciò che consiglio è cercare di non “fi ssarci” per primi in una immutabile modalità di rivolgersi ad un bambino autistico, sia nel verbale, sia nel non verbale, sia nel proporre attività nell’arco della settimana; rispettare le sue peculiari necessità non vuol dir rinforzarlo nel vivere un “mondo autistico”, presentandogli sti-moli e situazioni stereotipate e ripetitive.

La mancata espressione di parole invece si trova alla base di stereotipie motorie come l’agitare le mani, il girare in tondo, il correre improvviso, oserei dire in maniera inversamente propor-zionale, ovvero più l’uso della parola diviene acquisito in manie-ra funzionale all’espressione di una necessità ad esempio, più la consapevolezza di esser compresi ridurrà il livello emotivo e la conseguente attività motoria ad esso correlato.

Ogni stereotipia infatti ha due componenti, una prevalente, che ne dà origine, a carattere emotivo ed una “automatizzata”, poiché una volta acquisita come “espressione” o “compensazio-ne” diviene anche strumento di evasione, estraneamento ed iso-lamento e per cui facilmente ripetibile allo sfi nimento.

Il saper dar un senso accuratamente ad una stereotipia sta nel non fermarsi alla semplice lettura di essa come il disinteresse per gli altri o l’ambiente circostante o addirittura come una in-capacità di connessione a tale rete di realtà, ma nel riuscire ad interpretare queste forme comportamentali per la loro reale fun-zione. Se ciò non avvenisse non ci limiteremmo ad un errore di interpretazione di una richiesta o necessità espressiva, ma cosa sicuramente più grave, non riconosceremmo le strategie, l’au-tonomia gestionale di un individuo; accettarla nella sua logica e precisione e plasmarla a qualcosa di più facilmente riconoscibile da tutti è invece il giusto percorso da fare.

Continuare a non riconoscere il perchè un bambino gira in tondo in un contesto, soffermandoci a quanto ci sia di “autistico” in quel gesto, cercando conferme ad una diagnosi e ad un’eti-chetta, non fa altro che alimentare tale stereotipia, in quanto mera espressione di disagio.

Serve invece abbassare le fredde barriere del giudizio, dal cuore e dalla mente non far partire niente da noi, limitarsi ad accogliere, senza neanche tendere le braccia, fermi, attenti nella

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presenza ma non nel pensiero; il capire verrà di conseguenza al sentire.

Se riuscissimo nel sentire empatico, capiremmo il disagio di chi abbiamo davanti, senza parole, proveremmo a parlare sotto-voce dicendo che abbiamo capito che qualcosa non va bene, che siamo pronti a far quello che è meglio per migliorare la situazio-ne, in ascolto, di colpo il bambino smetterebbe di girare, non per miracolo, solo perchè avremmo creato una connessione con il suo bisogno, senza richieste, senza aspettative, tra cuore e cuore.

Naturalmente ciò che possiamo e dobbiamo aspirare a fare è dopo aver compreso la funzione di una stereotipia riuscire a modellarla a qualcosa di sicuramente più “leggibile” per chiun-que possa imbattersi per la prima volta in una manifestazione del genere; di pari passo dovremmo lavorare sull’altro polo, ovvero su tutti coloro che non sanno, che non conoscono né il bambino né tantomeno le sue necessità e peculiarità, cercando di infonde-re una consapevolezza profonda, che vada al di là di una sem-plice trasmissione nozionistica che serve per categorizzarlo ed inquadrarlo come facente parte di una certa classe di disturbi o sindromi.

Soltanto grazie alla consapevolezza di ciò che una persona vive, possiamo divenire empatici nei suoi confronti, dimostrarci sensibili verso di lei e verso la sua famiglia, abituata a lottare, a dover pretendere diritti e aiuti, che se non dovuti grazie ad un articolo o legge, non arriveranno mai se non accompagnati e gui-dati spontaneamente dal cuore di chi invece conosce e motivato intrinsecamente vorrà aiutare, senza leggi né articoli, accordi o contratti caduti dal cielo, solo da persona a persona.

Il passaggio tra il disagio, il benessere e un aumento delle abi-lità e competenze del bambino è quasi immediato, secondo una catena di invisibili passaggi, che se tenute di conto le premesse della condizione iniziale di “sofferenza”, divengono di colpo lo-gici e chiari.

Ricordando quanto il non sentirsi omologato agli altri nel percepire, nel sentire, nel comunicare, sia motivo di rinforzo di chiusura e evitamento dei contesti di condivisione, l’esser cono-sciuti e riconosciuti nei bisogni, nelle manifestazioni di tali biso-gni, nelle abitudini, nei modi di fare, di essere e di sentire, farà si che cada quell’enorme barriera di paure e angosce, grazie ad una nuova consapevolezza riguardo al non essere più così diver-so agli occhi degli altri, etichettato senza voler esser conosciuto

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davvero.Riuscire ad attivare una connessione con un bambino autistico

è una delle esperienze più profonde che si possa fare, sentirem-mo per la prima volta l’importanza del comunicare, la bellezza della condivisione di uno sguardo, la profondità di un silenzio, la dolcezza del suono di una parola, come il ticchettio della pioggia dopo una lunga siccità, per un genitore mai così atteso, mai così desiderato.

Spesso trovandomi di fronte a grandi progressi dei piccoli che seguo, mi trovo a dover ricordare ai genitori di non perder mai la consapevolezza della condizione da cui i propri fi gli son par-titi, non per continuare a ricordarli nella sofferenza, ma per dare sempre grande importanza alle loro quotidiane conquiste, rinfor-zando i successi senza dar per scontato niente.

Laddove esiste una debolezza non dobbiamo mai abbassar la guardia, rimanendo attenti e pronti ad entusiasmarsi per qualsi-asi tentativo di esposizione e performance superiore; percepire nell’altro una sincera approvazione è ciò che rende salda l’idea nascente di una nostra autostima, di una autoeffi cacia, a maggior ragione se si considera l’età dello sviluppo.

6. Egocentrismo e consapevolezza di sé

Delle persone autistiche il più grande luogo comune, co-noscenza diffusa e primaria, è che siano persone egocentriche all’ennesima potenza, ipotizzando come causa lo scarso interesse verso il prossimo o la sfi ducia ed evitamento di tutto ciò che è al-tro da loro; ciò che la Frith ipotizza come fattore base di tale ego-centrismo è la mancanza di ciò che lei defi nisce un “sè visibile”, di una prospettiva dall’alto di tutti quei sé racchiusi in ognuno di noi, che porterebbe ad un perdersi nella frammentazione o al non riconoscersi nell’altro, in quanto poco uniti al proprio interno.

Secondo la psicologia della Gestalt, (corrente psicologica nata in Germania agli inizi del XX secolo, particolarmente interessata alla percezione) e del concetto della già citata “coerenza centra-le”, nell’uomo esiste la tendenza naturale ad avere una visione di insieme anche nei contesti più complessi e ricchi di sfaccettature e stimoli; i soggetti autistici invece, essendo meno dipendenti, se si voglia, dall’infl uenza del contesto, focalizzano grazie ad una modalità di percezione e di elaborazione dell’informazione di

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tipo “bottom-up” ovvero dal particolare al generale, ogni singolo particolare componente dell’unità totale.

Così avverrebbe rispetto ad una visione interiore del proprio sé, nelle varie sfaccettature, in una sorta di egocentrismo che de-fi nirei “minoico”, dalle caratteristiche di un intricato labirinto, dove il sé diffi cilmente riesce a vedere qualcosa di diverso dal-la propria immagine rifl essa nei tanti specchi che rappresentano le proprie passioni, i propri bisogni, le proprie abitudini; diretta conseguenza sarà una forte modalità introspettiva dell’essere, si-lenziosa e rifl essiva, catartica e rumorosa, ma in ogni caso non istantaneamente responsiva con l’esterno se non nell’allontanare qualsiasi cosa che abbia valore negativo per la persona o nell’av-vicinare ciò che ricalca il suo forte interesse.

La comune elaborazione dell’informazione, di tipo “top-down” invece, è ciò che potremmo defi nire una modalità dedut-tiva, ovvero da una consapevolezza generale trarre conclusioni sul particolare; in essa l’attenzione al particolare è successiva ad una visione di insieme che colora ogni piccolo elemento si trovi al suo interno, un chiaro e concreto esempio della differenza tra i due processi di elaborazione è la diversa procedura nel disegnare per un bambino autistico rispetto alla norma.

Guardando disegnare un bambino autistico infatti, ognuno di noi può notare quanto, sia l’ordine nel quale compaiono le sin-gole parti del disegno e l’evidenza che a loro viene data, eviden-zino tipicità rispetto al fare comune di un bambino coetaneo; la produzione grafi ca può ridursi alla realizzazione di solo alcuni particolari, senza tener conto minimamente dell’insieme globale di cui fanno parte, come una sola fi nestra per rappresentare una casa, come una sorta di “sineddoche grafi ca”. Lo stesso vale per il modo di fotografare, o di far riprese video, un rifl esso della luce su una piegatura della stoffa, un angolo della porta dove ap-pare ben evidente un nodo del legno, un piede della persona che si trova davanti all’obbiettivo, saranno i bersagli più comuni per un “operatore autistico”.

Se pensiamo ad una così particolare processazione, dagli organi di senso all’elaborazione delle informazioni, possiamo comprendere quanto altrettanto frazionata sarà la visione di ciò che un soggetto autistico vive, sente, semplicemente è e di ciò che sia l’altro; apparirà evidente la necessità per un soggetto auti-stico di utilizzare un pensiero di tipo associativo che lo faciliti nel denominare certe situazioni e certi contesti associandoli a nomi

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