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L'ESILIO DEGLI DEI, la condizione post moderna

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saggio di Maria Teresa Colonna, Firenze

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La condizionepostmoderna:

l’esilio degli Dei

Maria Teresa Colonna, FirenzeE stato stabilito di chiamare «postmoderna» la condizionedel sapere nelle società più sviluppate. Questa definizioneci indica «Lo stato della cultura dopo le trasformazionisubite dalle regole dei giochi della scienza, della let-teratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo».Semplificando, a dire di Jean Lyotard (1), possiamo con-siderare postmoderna «l'incredulità nei confronti dellegrandi narrazioni», come il marxismo, il cristianesimo (eforse anche la Psicoanalisi) sia a carattere speculativoche emancipativo. Indubbiamente tutto ciò è dovutoall'effetto del progresso scientifico che però a sua volta cichiede e presuppone l'incredulità.La funzione narrativa per Lyotard perde dunque i grandieroi, i grandi pericoli, ma anche i grandi fini, disperdendosiin una nebulosa di elementi linguistici narrativi. Il saperenella dimensione postmoderna non si riduce ne allascienza, ne alla conoscenza, il sapere per Lyotard cambiadi statuto nel momento in cui le società entrano nell'erapost-industriale, e le culture nell'età postmoderna. Ilsapere diverrà allora operativo solo se si tratterà di unaconoscenza che sia traducibile in quantità di informazioni,tutto ciò che non soddisferà tali condizioni verrà inveceabbandonato.Di conseguenza ne viene una totale esteriorizzazione delsapere rispetto al sapiente: il sapere viene prodotto, perLyotard, per essere venduto e consumato, e l'antico

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1)J.F. Lyotard, La condizionepostmoderna, Milano, Fel-rinelli, 1996, pp. 9-11.

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principio del sapere, inscindibile dalla formazione sia dellospirito che della personalità, cadrà sempre più in disuso.Questa noiosa premessa mi è parsa necessaria perentrare più facilmente nello spirito dello scritto di BernieNeville, // fascino di Ermes (2), dove l'autore affronta moltobrillantemente una critica alla condizione postmoderna,usando come prospettiva interpretativa la PsicologiaArchetipica.Il saggio di Neville offre molte suggestioni, scritto daun'apparente posizione di distanza e neutralità; mi sembrainvece che Neville non riesca del tutto a non cedere allasuggestione di Ermes, come Ermes infatti egli ci indicauna strada, ma poi ci volta le spalle e ci svia.Neville mostra molta fantasia e abilità, nel mettere indiscussione il pensiero postmoderno, ma con le sueargomentazioni destruttura quasi subito la sua stessaposizione, finendo per confonderci e toglierci la certezza diaverlo capito. Nell'ambiguità del suo stile penso stia ilfascino di questo scritto, nella sua capacità di colpirci efarci divenire dubbiosi e critici di fronte ai modelli di pen-siero che ci abitano, lasciandoci poi abbastanza incertidinanzi alle nuove prospettive che egli ci porge. Pur criti-cando il pensiero postmoderno, Neville non si sottrae allacaratteristica tipica di questo pensare: l'abbandono pres-soché completo di una prospettiva apollinea col sostituirsidi un pensiero paradossale, ambiguo, allusivo, anche semolto creativo.Neville ci suggerisce un'ipotesi immaginativa: il pensieropostmoderno, attivato e sviato dall'archetipo di Ermes nelsuo aspetto più patologico, tende ad elaborare e svilup-pare esclusivamente immagini rafforzando la tendenza achiudersi in queste. La patologia è nell'eccesso di questopensiero e nel rifiuto e nella rimozione di un pensieroapollineo. «L'immagine - egli scrive - maschera o distorcela realtà fino a non avere più alcuna connessione con larealtà». L'unilateralità e quindi la patologia di Ermespotrebbero essere allora riconosciute in questo tipico daretroppo valore al mondo soggettivo e nella perdita dirapporto con la realtà.È indubbio che nella condizione postmoderna è molto più

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(2) In questo stesso volume.

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sfumato il confine tra patologia e normalità e non vi è piùmolta distinzione: la patologia è normalità, e la normalitàspesso è patologica. La vera patologia a mio parere èche sembra non esista più alcuna patologia.Da questa prospettiva possiamo accorgerci quanto siadiventato difficile non tanto dimostrare, ma almeno tra-smettere un punto di vista, un sapere che possa divenireminimamente ma veramente trasmissibile.Neville ci richiama ad uno stile di coscienza più politeisti-co, sembra però che anch'egli soffra di un tratto troppomonoteistico, nel suo interpretare i disagi e le nuovepatologie della condizione postmoderna (possiamo anco-ra considerarle tali?) come inflazione e sofferenza dell'ar-chetipo di Ermes. L'interpretazione del pensiero postmo-derno dall'angolatura della teoria archetipica mi apparecon tratti di parzialità ed eccessiva unilateralità.L'ipotesi della sofferenza dell'archetipo, che egli guardacome in trasparenza, può presentarsi come un'immaginesuggestiva e accattivante, ma non per questo è da rite-nersi la più vera o la più appropriata. Ermes stesso, nelsuo tipico stile di coscienza, ci conduce invece verso ladiversità e verso la complessità. Ermes è un Dio com-plesso che ci porta sempre verso risposte complesse, unDio senza templi ne fissa dimora che, ci invita ad onoraretutti gli Dei, tutti gli stili di coscienza e che proprio nellasua complessità variegata e multiforme ci offre già unavisione politeistica.Fin dall'inizio dell'Iliade Apollo ci appare subito nel suosplendore, quasi accecante nel suo fulgore, capace tutta-via di contenere la tenebra dentro di sé, Ermes. Il fratelloErmes è tutto l'opposto di Apollo, generato in una grotta,egli è il nume del sonno, dei sogni, degli inganni e delledebolezze dell'uomo. Se Apollo acceca con la sua luce,Ermes illumina la notte. «Cosa è questo canto, che arte èquesta che ispira passioni irresistibili?». Apollo ed Ermessono due forme della mente, sono la loro tensione, il lorocolloquio ed il loro profondissimo incontro che spiegano ilmondo.Neville immagina che il modo di percepire e di compren-dere la realtà che noi chiamiamo postmoderno sia statogià presente nella Grecia antica «rappresentato in modo

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specifico da Ermes». Ma se rivolgiamo lo sguardo a comeErmes è stato vissuto e descritto fin dall'antichità, potremoallora non essere del tutto d'accordo con questa ipotesi.La prima immagine che gli studiosi ci offrono di Ermes èquella di un mucchio di pietre; i mucchi di pietre collocatilungo le strade ad indicare sia i confini che le strade eranoanche altari consacrati al Dio. Nella descrizione cheWalter Otto (3) ce ne da:

Si suppone che in origine il Dio Ermes sia stato soltanto un protettore, e ipilastri e i mucchi di sassi davanti alle fattorie e lungo le strade indica-vano la sua presenza. Ma tutti i tratti che definiscono il suo carattere: ilparadosso del guidare e sviare, del dare e togliere repentino, della sag-gezza e dell'astuzia; lo spirito della fortuna in amore, la malia del crepu-scolo, l'inquietudine della notte e della morte - questa totalità eterogenea,che è inesauribile e tuttavia non nega mai l'unità del suo essere, cela inrealtà un complesso di rappresentazioni che si sono sviluppategradualmente dalle condizioni di vita dei suoi adoratori, dai loro desiderie inclinazioni e sono state arricchite dal loro gusto di favoleggiare.

(3) W. F. Otto, Gli Dei dellaGrecia, Firenze, La NuovaItalia, 1994,p. 157.

Ermes «il signore delle strade» , come è stato chiamato,segna dunque i limiti, le linee di confine ovvero, per Lopez-Pedraza, le borderlines delle nostre frontiere psicologiche,quel territorio della nostra psiche dove comincia lostraniero. Norman Brown (4), nel suo saggio su Ermes,afferma che il commercio relativo ad Ermes avevaelementi di silenzio, di furto e di inganno; nella sua tipicatendenza al baratto sulle frontiere, Ermes può indicarcidunque la strada ma può anche sviarci.Ermes non combatte gli altri Dei, non avendo bisogno dicombattere come loro per il proprio centro, semplicementeperché, secondo Otto, Ermes non ha un centro: è nellasua natura - egli ci dice - non appartenere propriamente anessuna cerchia, non avere fissa dimora bensì esseresempre or qui or là, per la via. Essendoci amico nellanostra solitudine, egli ci offre non solo compagnia, ma colsuo repentino dare e togliere, favorisce il movimento psi-cologico e, secondo Lopez-Pedraza (5), ci offre i collega-menti ermetici con i nostri conflitti.Ma nel mondo greco antico il Dio fallico Ermes è statospesso associato ad Estia, la Dea del focolare interiore.Se Ermes è colui che penetra i confini e oltrepassa i limiti,Estia veniva rappresentata con una pietra rotonda

(4) N. Brown, Hermes thèThief: Thè Evolution ofaMyth, N. Y., Vintage Books,1969, pp.3 e sgg.

(5) R. Lopez-Pedraza, Ermese i suoi figli, Milano, Edizionidi Comunità, 1983, p. 16.

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(6) J. Hillman, Forme delpotere, Milano, Garzanti,1996,p. 179.

(7) U. Galimberti, Gli equivo-ci dell'anima, Milano, Feltri-nelli, 1987,p.76.

(8) J. Hillman, op. cit.

centrale, come luogo del fuoco. Quanto Ermes rappre-senta l'esterno, il movimento e la molteplicità, tanto Estiarappresenta l'intimo, l'interno, la concentrazione, il focola-re. Hillman (6) su di lei ha scritto: «come Dea della fiam-ma interiore che mantiene viva una casa ed ogni singolapersona, Estia chiede a coloro che sono attratti dalle ali diMercurio di ricordarsi dell'altra metà della coppia [...] conlo scopo di mantenere un focus nel cuore affaccendatodella vita mercuriale». Una realtà mitica quella di Estia,una casa archetipica dell'anima, dove noi abbacinati dallenuove ermeneutiche non cerchiamo più dimora. Untempo c'erano gli eroi delle grandi narrazioni, da sempremetafore della condizione umana; nella nostra epoca essiabitano ormai solo nei sogni e nelle nostre angosce.Poiché la rivoluzione tecnologica ci ha invitato a liberarcidal dominio degli Dei, la realtà della condizione postmo-derna è priva ormai di Dei ed anche Ermes non può piùindicarci la via o sviarci.Oggi gli Dei sono in esilio, il mondo ha perso così il suoincanto. Forse - dice Galimberti (7) - gli Dei sono semprestati impietosi con gli uomini, ma la venerazione degliuomini li placava, così la primitiva paura si mitigava nellosvolgimento del racconto mitico e «la ragione col suolavoro stemperava le tracce di follia che da sempre abital'uomo e di cui il mito è la prima parola».Emergono coscientemente nuove mitologie, e con esseun nuovo tipo di umanità; fiaccati dalla ragione i contenutimitici continuano però ad abitare i nostri sogni e le nostrepatologie.Per Euripide «tutte le cose sono piene di Dei», alloraanche i nostri travagli interiori o le nostre idee dovrebberoessere pieni di Dei, anche noi siamo soggetti ai miti,anche se il Dio principale del nostro Pantheon personaleormai è l'Io. Per Hillman (8) è il potere dato all'lo cheuccide gli Dei, l'Io non crede che i miti siano veri, così lidepriva della loro forza. L'immagine mitica in cui si custo-disce l'origine di ogni linguaggio rischia di essere dimenti-cata, poiché l'Io ha paura di condividere il potere con gliDei, cerca di farli scomparire con la sua negazione.Questa dimenticanza diviene per l'uomo il pericolo estre-mo, nel suo chiudersi nei limiti stretti e angusti della

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ragione, e gli Dei, sempre più abbandonati e negletti,come Jung aveva già intuito, oggi ancor più di sempre,sono divenuti solo malattie.Nel declino del nostro attuale pensare e nello smarrimentodel nostro sentire, l'anima svagata e persa sempre più siaccompagna a quell'emblematico personaggio cheNietzsche chiamò: «il più inquietante degli ospiti», il nichi-lismo.Franco Volponi (9), che per la sua conoscenza dei testi diNietzsche e Heidegger ha spesso incontrato questo ospiteinquietante, ha scritto un libro molto interessante. «Oggi -scrive Volponi - i riferimenti tradizionali, i miti, gli Dei, letrascendenze, sono stati erosi dal disincanto del mondo: larazionalizzazione scientifico-tecnica ha prodottol'indicibilità delle scelte ultime sul piano della ragione». Ilpensiero tecnico-scientifico non si pone più la ricerca deifini, ma solo dei risultati da raggiungere; ogni ricerca disenso diviene impossibile proprio per quel tipo di uomooccidentale da sempre nutrito dalla cultura del senso percui la vita è vivibile solo in una dimensione di significato. ENietzsche, buon conoscitore di questa assenza, a suotempo scriveva:

Vidi una grande tristezza invadere gli uomini. I migliori si stancarono delloro lavoro. Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto,tutto è uguale, tutto fu! Abbiamo fatto il raccolto: ma perché tutti i nostrifrutti si corrompono? Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dallaluna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è dive-nuto veleno, il malocchio ha disseccato i nostri campi e i nostri cuori. Aridisiamo divenuti noi tutti. Tutte le tonti sono esauste, anche il mare si èritirato. Tutto il suolo si scenderà, ma l'abisso non inghiottirà! Ah, dov'èmai ancora un mare dove si possa annegare: così risuona il nostrolamento sulle piatte paludi.

Il millennio si chiuderà e si concluderà con la fine deigrandi progetti di cambiare il mondo; può darsi che la finedi questi miti riesca invece ad accrescere la forza internadi questi ideali, ma è giusto ciò che dice Claudio Magrische ogni generazione, come Sisifo, deve respingere il suomasso per evitare di rimanerne schiacciata. Come dasempre è nella sua tradizione, il Settantaseiesimo Festivaldi Salisburgo si è aperto con una bellissima prolusione:nel 1996 con quella di Claudio Magris. Riflettendo sulle

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(9) F. Volponi, II nichilismo,Bari, Laterza, 1996.

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idee che hanno segnato la conclusione del millennio,Magris si è convinto che la fine e l'inizio del millennioabbiano bisogno di «utopia e disincanto».Utopia è non arrendersi mai alle cose come sono, conti-nuando invece a lottare per come dovrebbero essere. Èl'utopia che da senso alla nostra vita, perché pretendeche la vita abbia un senso, ma l'utopia non puòviolentare la realtà, ne scambiare il sogno con la realtà,così per Magris utopia e disincanto, anziché sovrapporsi,devono sempre sostenersi e correggersi. Disincanto saràallora accorgersi che la salvezza forse non ci sarà e chegli Dei ormai sono in esilio.I valori del senso della vita sono però irrinunziabili e l'irri-ducibile razionalizzazione della visione del mondo post-moderno non riuscirà ad attenuare il bisogno e a zittire lavoce del demone che appartiene alla vita di ognuno, nedovrebbe, ogni qual volta l'incanto non si rivela o mostrale sue lacerazioni, farci cadere in un cinismo reattivo.Il disincanto nella visione poetica di Magris è una con-traddizione che la mente non può risolvere e che solo lapoesia è in grado di esprimere e contenere nelle suecontraddizioni, è quello sguardo che ha visto troppe coseed in cui sarà sempre viva la consapevolezza che «l'uo-mo non è innocente».Il disincanto che mitiga l'utopia e sorregge le nostre spe-ranze non è facile da raggiungere, crederlo significhereb-be essere preda di un cinismo reattivo; la speranza nonnasce da una visione ottimistica e rassicurante delmondo, bensì «dalla lacerazione dell'esistenza vissuta epatita senza veli che crea una insopprimibile necessità diriscatto».Il disincanto può divenire allora quello sguardo ironico,anche se malinconico, che modera e trattiene quei trattitroppo ottimistici di una speranza che forse sottovaluta lepossibilità di regressione e di rovina.Un grande poeta, Ferdinand Raimud, nella sua comme-dia «La corona che reca sventura», racconta di una fatache dona al protagonista, Ewald, una fiaccola prodigiosa,che ha il potere di trasfigurare la realtà: chi guarda ilmondo alla sua luce vede dovunque splendore e poesia,anche là dove ci sono miseria e squallore. La fataLucina,

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consegnando il regalo a Ewald, gli svela il trucco, loavverte che la torcia gli mostrerà cose bellissime ma illu-sorie. La consapevolezza tuttavia non dissolve il fascinodelle cose illuminate da quella luce, e la vita di Ewald,grazie a quel dono, diviene più ricca.Jean Baudrillard (10), sociologo e filosofo francese, unodegli eroi dell'epoca postmoderna, è un brillante protago-nista di questa era e delle vicende attuali della vita cultu-rale. Negli scritti degli ultimi anni il suo talento si è parti-colarmente esercitato nella demolizione della realtà esi-stente. Le affermazioni di Baudrillard (11) sono quanto aradicalità ancor più drastiche di quelle di altri colleghi comeFoucault o Derrida.Se per Foucault l'uomo non esiste, ma c'è almeno il segnodi questa inesistenza, se per Derrida la vita vera è quelladei testi, un universo di forme autosufficienti che sirimandano l'una all'altra e si modificano a vicenda, perBaudrillard le formulazioni sono più drastiche. La realtàormai non esiste più, è stata sostituita dalla realtà virtualecreata dalle immagini della pubblicità e dai mezzi audiovi-sivi di massa. Per Baudrillard il materiale che sopravvive eche chiamiamo informazione ormai rende del tutto inutile ilmondo reale delle cose che accadono e dei fatti oggettivi.Tutto ciò che ci arriva attraverso gli schermi televisivi èuna clonazione di questi fatti, sono i commenti e laselezione operata dagli esperti dei media, divenuti veriprofessionisti dell'illusione, che sostituiscono questeclonazioni a tutto ciò che un tempo era conosciuto comeconoscenza oggettiva del mondo.La verità della finzione mediatica ha portato la realtà asvanire, la realtà virtuale rischia di diventare l'unica realtàreale della nostra epoca moderna, l'epoca per Baudrillarddei «simulacri». Così non solo le notizie mediatichedivengono le uniche immagini comprensibili per un'uma-nità attutita dalla fantasia mediatica, ma, incapaci comesaremo, per Baudrillard, di distinguere la realtà dalla fin-zione, ormai viene alterata ogni prospettiva di storia e ditempo. Le notizie arrivano contemporaneamente ai fatti suiquali dovrebbero informarci, i fatti hanno di per sé vitabrevissima, solo il tempo di essere annunziati, tolti dimezzo da altri fatti. Lo scandalo dei nostri giorni, per

(10) J. Baudrillard, II delittoperfetto. La TV ha ucciso larealtà, Milano, Cortina 1996.

(11) J. Baudrillard, L'illusionedella fine o lo sciopero deglieventi, A. Serra, 1993.

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Baudrillard, non consiste più nell'attentare ai valori mora-li, bensì al principio di realtà.Malgrado questo atteggiamento critico più che condivisi-bile, Baudrillard ha mantenuto una posizione ambiguapoiché, da diversi anni ormai, egli impiega la sua intelli-genza e la sua dialettica a persuaderci che lo sviluppodella tecnologia audiovisiva e la rivoluzione dei mezzi dicomunicazione hanno eliminato ai nostri giorni, senzasperanza, ogni capacità individuale e collettiva di discer-nere la verità dalla menzogna, la realtà dalla finzione,restituendoci dunque l'immagine di una umanità smarritae perduta nel labirinto mediatico, incapace ormai di cono-scenza e libertà.È difficile, se non impossibile, convalidare e aderire aquesta visione certo abbastanza pessimistica.È certo che molti psicoanalisti chiusi nei loro studi privati,interessati ed immersi nella pratica clinica, ancoraammaliati da quel grande racconto che è la Psicoanalisi,possono non accorgersi molto di come cambia il mondo.Nel bisogno incontenibile di costituirsi come scienza, sulmodello delle scienze naturali quindi come scienzaesatta, la Psicoanalisi sembra aver perso di vista l'uomoche doveva essere l'oggetto della sua ricerca; semprepiù interessata ai sintomi, rischia di non occuparsi e nonsapersi più rivolgere alla malattia e incentrando sempredi più il suo sguardo sui sintomi ha spesso finito pertrascurare quei nodi di significato che si rapprendono e siesprimono poi solo secondariamente in sintomi.Accostarsi alla psiche scientificamente non significa tro-vare la verità della psiche, «ma semplicemente quelrisultato che il metodo ha prodotto», come asserisceGalimberti, che è arrivato addirittura a sostenere che,malgrado i libri e le riviste di psicoanalisi siano numero-sissimi, ormai ci comunicano una pratica incomunicabile.Il problema della dimostrazione della psicoanalisi comescienza ha investito non solamente la psicologia comeconoscenza, ma anche la psicologia come terapia. Se glipsicoanalisti avessero accettato che la loro disciplina nonè una scienza esatta, ma un'arte creativa dell'interpreta-zione, se fin dall'inizio non si fosse ignorato questo dato,

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(12) S. Turkle, Life on theScreen, N. Y., VintageBooks,•i nr>c

dedicando al problema così tanta energia ed attenzione, visarebbero stati più disponibilità e impegno verso i nuovidisagi di un tempo in rapido mutamento, con il risultato diessere più attenti alla realtà psichica dell'uomo nell'erapostmoderna.Lyotard teorizza la fine della credibilità nei grandi racconti,Neville ci parla di un pensiero postmoderno che perdesempre più di sostanza: che ne sarà di quel grande rac-conto che è la Psicoanalisi e che posto troverà nel pensieropostmoderno? Non si correrà il rischio che, estraniata dallarealtà psichica dell'uomo di oggi, divenga anch'essa unateoria fittizia e virtuale?Il valore e l'enfasi dati da Jung stesso alla realtà immagi-nale e all'lo immaginale, e la priorità al significato delleimmaginj sostenuta dallo stesso Hillman, non ci farannochiudere sempre di più nelle immagini? E non c'è il rischioche la Psicoanalisi diventi come il video-rock dovel'immagine è tutto e la sostanza niente?Vi sono però anche analisti interessati ai problemi psico-logici che l'informatica può creare. Scherry Turkie (12),analista americana, nel 1984 aveva già fatto discutere conil suo libro // secondo lo. Ribattezzata da alcuni striz-zacervelli del cyberspazio, Scherry Turkie, che insegna alMit, ha scritto un nuovo libro. Il concetto di lo per lei sembrasempre meno improntato all'unitarietà e sempre più è larisultante di una molteplicità di aspetti, di proiezioni, diframmenti che rispecchiano il mondo complesso e polie-drico che ci circonda.Si va dunque facendo strada la convinzione che l'Io siaframmentario, sia quello biologico sia quello che derivadalle interazioni con l'ambiente. Per Scherry Turkle lefinestre dei nostri computer, tra le quali navighiamo ognigiorno, spostandoci con molta agilità, sono dunquemetafore del rapporto tra le facce multiple e frammentatedella nostra identità.Quello che sta emergendo è un nuovo senso del Sé, un'i-dentità psicologica multipla e decentrata; questa moltepli-cità non necessariamente è da interpretarsi, come in pas-sato, come un segno patologico di personalità isterica oschizofrenica, poiché è costituita da aspetti che si intrec-ciano, si fondono e si integrano tra di loro. Ma a volte

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alcuni di questi frammenti vengono spinti quasi in direzioniestreme, come ai lati dell'Io. Ecco allora che gli scenari deimondi virtuali consentono di dare corpo a queste fantasiedispiegando come in un caleidoscopio colorato aspettidiversi o dissonanti della nostra identità.Il pericolo, specie per i più giovani il cui lo è ancora in for-mazione, o per le personalità più problematiche e più labilinei rapporti interpersonali, è che la realtà virtuale conducafuori dal reale. La vita on-line può divenire sempre piùpreferibile rispetto a quella fisica e reale off-line, e lafacilità con la quale si fanno le cose sul computer puògenerare anche inquietanti sindromi di onnipotenza. Bastail doppio click con il mouse per ottenere ciò che sidesidera, doppio click e le tasse spariscono, doppio clicke il sesso, i rapporti e tutto il resto divengono semplici egratificanti. Ma fino a che punto la nostra psiche sarà ingrado di padroneggiare simultaneamente queste duedimensioni? Non sappiamo se potremo, senza rischi,alternarci tra un mondo concreto ed uno virtuale senzache essi divengano drammaticamente conflittuali fra diloro.Non è chiaro come la Psicoanalisi si collocherà nel pros-simo futuro, e se saprà darci risposte adeguate e perti-nenti sulle angosce, sulle nuove paure e sofferenze che laciviltà postmoderna sta provocando in noi.Nel numero di Giugno 1997, Wired (13), un'autorevolerivista americana, immagina e ci descrive lo scenariopsicologico e sociale possibile nel nuovo millennio. Èinteressante leggersi la ricerca dei due studiosi americaniW. Waches e J. M. Tylor da cui la rivista trae spunto: essici propongono una sorta di glossario al secolo che verrà.Al di là di alcune astrusità linguistiche, vi troveremo moltedelle inquietudini, dei disagi e delle probabili patologie diquesta fine di secolo, ma gli autori della ricerca ci indicanoanche molte tecniche psicologiche di successo peraffrontare queste patologie, e per divenire padroni dellapropria agilità mentale e delle richieste psicologiche dimutamento, oggi sempre più necessarie.Perché, si chiedono i due ricercatori, spesso vi sentitecosì male? Eppure:

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(13) Wired Magazine Group,5June 1997, S. Francisco,U.S.A.

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Va tutto bene, non avete mai guadagnato tanto, la vostra attività è altop delle tendenze del momento. Ma non siete felici. Un senso di incer-tezza del futuro, di angoscia, di tensione, vi tiene sulla corda, vi impedi-sce di godere del vostro momento magico. Soffrite di crisi depressive, viscoprite in preda a un istinto di fuga, fate degli spaventosi incubi neiquali non riuscite a pagare il mutuo e perdete tutto quello che avete. Enon capite che cosa accade. Vi conforterà sapere che tutto questo haun nome, si chiama «stare sulla bolla», ben alti sulla superficie dell'ac-qua, così al massimo del successo da poter precipitare da un momentoall'altro. Perché il trionfo del trend che avete imbroccato vi ha accecato,state fermi, e i trend cambiano a grande velocità, se non cambiate infretta il futuro vi disarcionerà. Rimedio: fate esplodere subito la vostraorganizzazione di vita.

Ci sono anche altre situazioni di disagio angoscioso:avete appena realizzato una delle esperienze emotivepiù importanti della vostra vita, un incontro, una storiafelice e coinvolgente, ma invece di avere il tempo diassaporare l'eccezionalità e il potere gratificante di unasimile esperienza, vi coglie una sensazione oppressiva di«piccola morte», che vi blocca nel goderne la soddisfa-zione. È tutto appena finito, ma già lo ricordate e soprat-tutto lo rimpiangete. Anche questo nel glossario ha unnome, anche se voi ancora non lo sapete. Si chiama«nanostalgia»:

Ha a che fare con la scomparsa del presente e l'ipertrofia del futuro, edè una forma di nostalgia che si manifesta appena un nanosecondodopo che si è prodotto l'evento che ne è oggetto. Pare che una casaproduttrice di champagne di alto costo vi abbia fondato una sua campa-gna pubblicitaria: è appena finito e già lo rimpiangi, comprane subitoun'altra bottiglia.

Rileggete i vecchi libri che avete già letto, rivedete solo ivecchi film, vi innamorate solo di persone che assomi-gliano a quella precedente e a quella precedente ancora.Anche questo ha un nome, si chiama «xerofilia», l'amoreper la copiatura e l'abilità di tutto di essere copiato.Nell'esercizio compilativo di Wired, che si intensificheràcon l'avvicinarsi della scadenza del Duemila, troviamo ladescrizione bizzarra e curiosa, ma sempre abbastanzaveritiera, di moltissime altre situazioni di disagio.In questo glossario, di tecniche per divenire imprenditoridella propria capacità e agilità mentale ve ne sono molte,alcuni di questi vocaboli si sono già infiltrati sia nelle

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retrovie di Interne!, sia nelle riunioni di Silicon Valley esembrano una riscrittura postmoderna (piuttosto leggeracome è l'informatica) da usarsi per capire il futuro che ciattende senza aumentarne troppo le angosce.Ma non vi è nemmeno necessità di essere troppo impe-gnati verso il successo e la competizione, perché ogginella nostra esistenza niente è più sicuro, niente è piùgarantito e molte delle esperienze che tutti quotidiana-mente possiamo fare possono disorientarci.È noto che da tempo molte riviste letterarie, particolar-mente straniere, anche prestigiose, utilizzano personaggiche sanno scrivere di letteratura (ma che non hanno maiavuto personalmente successo) per costruire inediti per-fetti nello stile, nei contenuti, nell'andamento narrativo, dicelebri scrittori, da Joyce a Scott Fitzgeraid aHemingway, inediti virtuali pressoché indistinguibili e, perla mia esperienza di lettrice, devo ammettere anchemolto godibili.Ma c'è già di peggio. È nata una infernale macchina poe-tica, «Sarà», una macchina molto intrigante che scrive eche in futuro, nelle speranze del suo autore, potrà diven-tare il prototipo di ciò ch'egli chiama un libro dinamico.Lo studioso svizzero Ulrich Muller, con la sua macchinacollegata a un cervellone dell'Università di Zurigo, stagettando smarrimento tra i lettori e panico tra gli studiosidei convegni e delle riunioni letterarie. I germanisticominciano ad agitarsi quando il dottor Muller estraedalla sua macchina poetica centinaia di saggi e versid'autore. Opere di Goethe, di Brecht e di altri vengonocome inghiottite e poi partorite in una veste nuova.Sembra che la realtà virtuale che Sarà ci propone per lesue composizioni sia molto interessante.Si potrebbe garantire dell'autenticità delle sue opere, per-ché le caratteristiche di ogni autore sono inconfondibili,ma nessuno di questi versi appare in un'antologia deiclassici tedeschi, sono solo perfette imitazioni, create daSarà, imbottita di testi poetici, che scompone e riscrivenuove liriche in perfetto stile. Alla fine divieneimpossibile, anche per gli specialisti, distinguere fra lesue opere e quelle autentiche che, con malizia e abilità,vengono dal suo costruttore mischiate insieme.

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Un'altra esperienza ancora, molto strana e che ci portanello spazio del futuro, l'ha immaginata Peter Gabriel,star della musica rock. È un CD-ROM, si chiama «Èva»(come mai tutti questi nomi biblici e femminili?) e con unminimo di slittamento grafico diviene eye, occhio,sguardo.Sulla scatola, i requisiti per usarlo sono un 486 Windows'95, ma si capisce subito che non basta, bisogna assolu-tamente avere un'altra testa, forse anche meno storiasulle spalle, se non c'è questo la macchina viaggia manoi no, ed è molto frustrante.A richiesta di cosa si tratti, le risposte diventano vaghe,non è un gioco, ne un CD-ROM educativo come tanti, èqualcosa di molto diverso, per Peter Gabriel un viaggio,uno spazio, dei luoghi, un tempo.E quando si entra lì dentro, (ma è un luogo quello che stasullo schermo di un computer, e dove si è? È un tempovero quello che passiamo lì?) per risolvere i compiti chela macchina ci chiede a volte si può tentare di tutto manon si ottiene niente. Non bisogna avere ne fretta ne logi-ca razionale, facendo passare un po' di tempo e arri-schiando qualche possibilità alla fine si ha un risultato,ma non si sa assolutamente cosa si è fatto, e non si hanemmeno il tempo di chiederselo che si è ricatapultatiancora in un altro spazio-natura, paesaggi, in cui non sicapisce che ci stiamo a fare. A differenza di un video-game dove si possono imparare le regole del gioco, perÈva è diverso, non ci sono regole costanti, non c'è unprima e un dopo, un qualcosa che ci possa far tornareindietro. L'essenza del viaggio è un'altra, è diventare unalieno catapultato in un paesaggio estraneo, in una spa-zialità ed in una temporalità a noi lontane, così se ci sichiede dove siamo, non c'è risposta. Se ci chiediamosono dopo o sopra o sotto, ancora non ci sarà risposta;perché la nostra logica cartesiana non funziona: noisiamo abituati a un prima e a un dopo, Èva no.Se poi cercassimo di tornare indietro, credendo di potermettere a frutto l'esperienza fatta, ci accorgeremo che èancora peggio, non troviamo più nulla, tutto è diverso, lecose e il paesaggio apparentemente appaiono gli stessi,ma il tuo click non provoca le medesime cose di prima.L'unica cosa che risulta chiara è che Èva cerca di farti

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vivere secondo delle specie di non-regole che non pos-siamo conoscere altro che dopo, costretti ad un eserciziopercettivo strano e perturbante, ad una esperienza chead ogni istante cambia la relazione tra noi e il mondo,una prova abbastanza inquietante che il futuro che cicapiterà è già tra noi.

Anche questo scritto scaturisce in quello stile postmoder-no, dove l'interesse più che a costruire dimostrazioni logi-che ed apollinee è portato a sviluppare le immagini, acercare connessioni (varcando spesso i confini dellevarie discipline), che la lettura di Neville ha suscitato.Non potrei ne vorrei dunque trarre alcuna conclusione,ma solo qualche supposizione.La società postmoderna mi sembra sempre più caratte-rizzata dalla logica del paradosso, così l'uomo postmo-derno non crede più ai grandi racconti ai quali si è dasempre rivolto, per criticare o dare forza alle proprie idee;una molteplicità di linguaggi si intrecciano tra loro, e nes-suna verità è data. Saremo dunque tutti costretti a faresempre più i conti con le differenze, ed il sapere potrànon solo affinare la nostra sensibilità alle differenze, maanche darci la forza di fare a meno di misurare tutto conun'unica misura.È coltivando il dissenso che, forse, si diverrà capaci digenerare un nuovo sapere costruendo così nuovi e piùadeguati modelli di pensiero.Senza troppi punti di partenza, senza mete di arrivo, puònascere invece del nichilismo, quell'etica che Galimbertiha chiamato etica del viandante: «la capacità dell'animadi disertare le prospettive escatologiche per abitare ilmondo nella casualità della sua innocenza...».

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