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Letteratura italiana contemporanea, Prof.ssa Elena Salibra - A.A 2013/2014 Letteratura italiana contemporanea - 22.10.13 Aldo Palazzeschi nasce a Firenze il 2 febbraio 1885. Annoverato inizialmente come esponente del futurismo fiorentino, vi si allontanerà idealmente e stilisticamente durante il corso della sua produzione poetica. Avvicinandosi dapprima agli studi di recitazione nel 1902, osteggiato dal padre che voleva intraprendesse studi giuridici, si staccherà definitivamente dalla recitazione per dedicarsi a pieno regime alla poesia, mantenendo comunque nel suo stile poetico una sorta di teatralità. In seguito all’interesse scaturito in Marinetti dopo la lettura di Poemi, inizierà a scrivere sulla rivista “La voce”, per poi collaborare con “Lacerba”, avvicinandosi ad così ad Ardengo Soffici, all’epoca direttore della rivista. Nel corso della sua produzione poetica, Palazzeschi si pone una serie di interrogativi e, tra gli altri, già come si chiese Gozzano, vi è la domanda primordiale: “Chi sono?”. Introduce in questa riflessione vari ambiti nozionali e cerca di mettere in evidenza gli strumenti che ogni artista ha a disposizione per esprimersi e per esprimere al contempo il dilemma, anche filosofico, che questa domanda si porta dietro da sempre. Nella sua poesia viene espresso il rapporto contrastivo tra la psiche (l'interno) e il paesaggio (l’esterno). Una tematica non banale che troverà nelle poesie di Palazzeschi un terreno fertile per la riflessione, come, ad esempio, nella poesia “Una casina di cristallo”, dove questo rapporto interno/esterno diventa perno centrale della narrazione poetica. Il poeta ci dice inoltre di essere “il saltimbanco dell'anima mia”, un personaggio clownesco che vuole avere la libertà di divertirsi, come esprime nel componimento “E lasciatemi divertire”. Eppure il tema, che all’apparenza ci potrebbe sembrare banale, risulta essere di grande profondità: vi è l’espressione di un saltimbanco che non è lontano dal diventare clown, per trasformarsi poi in marionetta ed infine in automa, i passi per compiere questo cammino sono brevi. Entriamo in un’immaginazione senza fili, questo perché non c'è più bisogno di chi questi fili li manovra. Nel 1905 esce la sua prima raccolta “I Cavalli Bianchi”, pubblicata a sue spese sotto il nome fittizio dell’editore fiorentino Cesare Blanc (che era in realtà il nome del suo gatto). Palazzeschi nasce come crepuscolare ma, intraprendendo la sua lettura, ci si rende subito conto di aver davanti un crepuscolare sui generis. Sanguineti parlerà di lui come soggetto tra liberty e crepuscolarismo. In questa raccolta i cavalli sono messi in una dimensione fiabesca in cui i luoghi e i tempi sono assoluti. Non vi sono luoghi protetti, predilige

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Letteratura italiana contemporanea, Prof

Letteratura italiana contemporanea, Prof.ssa Elena Salibra - A.A 2013/2014

Letteratura italiana contemporanea - 22.10.13

Aldo Palazzeschi nasce a Firenze il 2 febbraio 1885. Annoverato inizialmente come esponente del futurismo fiorentino, vi si allontanerà idealmente e stilisticamente durante il corso della sua produzione poetica.

Avvicinandosi dapprima agli studi di recitazione nel 1902, osteggiato dal padre che voleva intraprendesse studi giuridici, si staccherà definitivamente dalla recitazione per dedicarsi a pieno regime alla poesia, mantenendo comunque nel suo stile poetico una sorta di teatralità.

In seguito all’interesse scaturito in Marinetti dopo la lettura di Poemi, inizierà a scrivere sulla rivista “La voce”, per poi collaborare con “Lacerba”, avvicinandosi ad così ad Ardengo Soffici, all’epoca direttore della rivista.

Nel corso della sua produzione poetica, Palazzeschi si pone una serie di interrogativi e, tra gli altri, già come si chiese Gozzano, vi è la domanda primordiale: “Chi sono?”. Introduce in questa riflessione vari ambiti nozionali e cerca di mettere in evidenza gli strumenti che ogni artista ha a disposizione per esprimersi e per esprimere al contempo il dilemma, anche filosofico, che questa domanda si porta dietro da sempre.

Nella sua poesia viene espresso il rapporto contrastivo tra la psiche (l'interno) e il paesaggio (l’esterno). Una tematica non banale che troverà nelle poesie di Palazzeschi un terreno fertile per la riflessione, come, ad esempio, nella poesia “Una casina di cristallo”, dove questo rapporto interno/esterno diventa perno centrale della narrazione poetica.

Il poeta ci dice inoltre di essere “il saltimbanco dell'anima mia”, un personaggio clownesco che vuole avere la libertà di divertirsi, come esprime nel componimento “E lasciatemi divertire”.

Eppure il tema, che all’apparenza ci potrebbe sembrare banale, risulta essere di grande profondità: vi è l’espressione di un saltimbanco che non è lontano dal diventare clown, per trasformarsi poi in marionetta ed infine in automa, i passi per compiere questo cammino sono brevi. Entriamo in un’immaginazione senza fili, questo perché non c'è più bisogno di chi questi fili li manovra.

Nel 1905 esce la sua prima raccolta “I Cavalli Bianchi”, pubblicata a sue spese sotto il nome fittizio dell’editore fiorentino Cesare Blanc (che era in realtà il nome del suo gatto).

Palazzeschi nasce come crepuscolare ma, intraprendendo la sua lettura, ci si rende subito conto di aver davanti un crepuscolare sui generis. Sanguineti parlerà di lui come soggetto tra liberty e crepuscolarismo.

In questa raccolta i cavalli sono messi in una dimensione fiabesca in cui i luoghi e i tempi sono assoluti. Non vi sono luoghi protetti, predilige infatti i crocicchi dove si incontrano le strade, queste vie non individuabili che non hanno punti di riferimento. Preferisce utilizzare luoghi circoscritti come laghi, orti, prati che fanno si che il “c'era una volta” della tradizione qui diventi un luogo tra spazio e tempo indefiniti. Ritroviamo allora una sospensione che si può individuare anche in De Chirico in pittura e nei poeti metafisici. È un’atmosfera classica ma di una classicità novecentesca dove questa sospensione dei gesti, gesti ripetitivi, ci fa percepire il non senso di queste azioni. Sono i movimenti della marionetta, dell'automa, di chi non riesce a vedere al di là del segno, del significato.

I protagonisti delle sue fiabe sono come sonnambuli che si aggirano per la città e fanno dei gesti che non hanno senso. Appare chiaramente una dimensione onirica fortissima. Dal lasciatemi sognare di Gozzano, si passa allora al lasciatemi divertire di Palazzeschi, ed a divertirsi è il poeta clown con tutti i suoi ghirigori e sonnambulismi. Questo è però un divertimento amaro che vuole suggerire al lettore il non senso della vita attraverso la combinazione di sillabe ed atmosfere spaesanti. Ecco che allora la poesia si ritrova a vivere in una dimensione di forte oralità dove in questa ripetizione di gesti c'è anche un'idea ossessiva di ritornello, un qualcosa che ritorna sempre ma è in qualche modo sfuggevole: sono dei personaggi fatti con lo stampino, seriali, che si ripetono ossessivamente.

Leggendo si ha l'idea del poeta che si diverte a giocare con le parole (Vedi ad esempio la poesia Ara Mara Amara, già dal titolo troviamo un sapiente gioco di parole).

Il risultato al quale ci porta questo lavoro è l’esprimere la volontà di svuotare il significato della poesia, di mettere in primo piano il significante e non il significato. Non c'è un soggetto ma ci sono tanti personaggi che vivono in questa dimensione di nonsense ossessivo.

Pubblica la raccolta Lanterna nel 1907, titolo emblematico della poesia come illuminazione. Pubblica i Poemi nel 1909 e, come già accennato, riceve per quest’opera il placet di Marinetti.

Nel 1910 pubblica “L’incendiario”. In questa raccolta il poeta diventa un essere pericoloso perché ha il pallino di incendiare con le parole, in modo metaforico, tutto ciò che gli sta intorno. Proprio a causa di questa pericolosità diventerà, per i benpensanti, un essere da rinchiudere in una gabbia.

Si vede infatti, nella raccolta del 1910, questo incendiario in una piazza che viene beffeggiato dai benpensanti, primo fra tutti il padre che non riusciva a capire il mestiere del figlio, un figlio che scriveva poesie stranissime, senza apparente senso e inizialmente di poco successo.

É la scelta del personaggio scomodo, grottesco, ad identificarsi col Cristo, anch'egli personaggio scomodo. Il poeta è però un personaggio leggero, funambolo, questo perché effimero e perché nella poesia il significante prevale. Riesce a scandire le sillabe di un refrain in cui prevale il significante e dove la parola è scardinata nella sua essenza, sono solo sillabe e spesso senza senso.

Ecco la distruzione del senso, l’arrivo al grado zero della scrittura, siamo al limite di quel crepuscolo di cui parlava Borgese, di questa perdita di aureola del poeta.

Ed è a questo punto che poesia e pubblicità si ritrovano vicinissime: nella seconda edizione dell'incendiario edita nel 1913 v'è un esempio di poesia “passeggiata”, e s'intitola appunto La Passeggiata. La passeggiata del poeta tra le vie di una città straripanti pubblicità.

Vi è in questa poesia una scansione del ritmo resa attraverso la scansione dei piedi metrici, che poi sono quelli reali. Nella metrica classica i piedi metrici scandivano la quantità delle sillabe. Quando camminiamo scandiamo un ritmo e nello scandire questo ritmo camminiamo, è il compiersi di ciclo. Il poeta scandisce questo ritmo camminando all'interno di questa città, guarda quello che è intorno a lui e lo mette in poesia, quasi come un collage. Vede delle affiche pubblicitarie, insegne di negozi, targhe, nomi di fabbriche che diventano interessanti poiché ci danno l’idea della realtà pubblicitaria della città industriale di inizio novecento, dell'arte che a poco a poco diventa merce, della società che fa si che tutto diventi denaro in una sorta di feticismo marcato dove le cose diventano soggetti e le persone oggetti.

Analisi poesia “La Passeggiata”:

Le poesie di Palazzeschi hanno sempre una cornice data dai due versi iniziali e i due versi finali.

All'inizio di questa poesia una voce dice: “Andiamo” e una risponde “Andiamo pure”. Questo è l’incipit per iniziare la passeggiata, che è poi un andare a zonzo. Troviamo una sorta di spaesamento di chi si sente inghiottito dalla città.

Nel finale ritroviamo qualcuno che dice “Torniamo indietro” e la risposta “Torniamo pure”. C'è un intreccio di voci che rendono teatrale la poesia. È quell’intreccio di tante voci, come quelle che nell'incendiario sono le voci dei benpensanti, di quelli che dicono cosa ne pensano del poeta chiuso in gabbia e lo deridono.

La scansione dei versi è prevalentemente trisillabica con delle rime facili che impegnano non solo parole ma anche numeri. (vedi i numeri civici).

Compaiono rime facili come Rondinella – Flanella.

Rime che uniscono parole colte a parole umili:

“Corso Napoleone Bonaparte.

Cartoleria del progresso.

Si cercano abili lavoranti sarte.”

Da notare più avanti la rima Crocefisso – Fisso.

Appaiono, come stilettate veloci, nomi, ruoli, che altro non sono che negozi, mestieri, le insegne che scorrono davanti ai suoi occhi. Diventano una serie di insegne pubblicitarie che ti rendono spaesato, questo perché non ci sono punti di riferimento, anche i numeri civici non sono certi, e il tutto da l'idea di una città che t'inghiotte e che l'io lirico non riesce a digerire producendo una sorta di balbettamento elementare. Si ritrova allora l'ostentazione di rime che sono spesso ironiche e grottesche.

Questo io che ci sta dietro è un io che si nasconde dietro le cose, dietro gli oggetti, dietro le voci di questa poesia che è prepotentemente orale. È un io ribaltato, non un super-io come quello di Nietzsche, è un io che perde l'anima ma, sprezzante, ricorda in qualche modo lo Zarathustra nietzschiano, quello che disdegna la folla e la città, questa realtà mercificata. C'è un disprezzo grandissimo nei confronti di questa nuova realtà, ci si adopera per un ridimensionamento, ecco perché non ci sono eroi in questa poesia novecentesca, ci sono solo personaggi scomodi e frustrati con i quali l'io lirico si identifica. Questo è l'incendiario, l'anti Ulisse, il naufrago. Con la loro presenza di anti-eroi, ci insegnano cos'è veramente l'eroismo.

È una poesia che vuole metterci in crisi, che prende quindi posizione nei confronti della vita, della realtà e della storia. Questo perché la poesia deve mettere in crisi, deve chiederci soluzioni, a chi la legge e a chi la scrive ma non di meno a chi l'ascolta.

Mentre nelle poesie di Soffici i numeri volevano definire il tempo, qui i numeri civici vogliono definire apparentemente dei numeri di riferimento spaziali all'interno di una città ma sono specifici nel dettaglio ed indefiniti nell'insieme. Mettono in discussione la determinazione di spazio perché il tempo e lo spazio sono legati allo stato d'animo, all'emozione di chi quel tempo e quello spazio gestisce. Ciascun soggetto ha un suo tempo e un suo spazio.

Allora anche la storia è messa in discussione: certo vi sono delle date di riferimento imprescindibili, ma esistono punti di riferimento mai determinati che sono legati all'io, alle emozioni ed ai sentimenti.

Analisi “Una Casina di Cristallo”:

chiude l'incendiario del 1913, ha delle varianti perché Palazzeschi varia le poesie da una raccolta all'altra.

È una trasgressione dello spazio, un interno viene assolutamente profanato.

Il cristallo è un vetro in cui si può guardare dentro. La profanazione dell'intimità è data proprio da questo, chi sta fuori può guardare dentro.

“Ma che sia tutta trasparente”

La poesia si presenta come un sogno, è una logica diversa da quella classica causa-effetto, una logica onirica, così come la sintassi e la realtà. Questa casina di cristallo si trova nel mezzo della città ed aggiunge, nel folto dell'abitato, dove ci sono molte case e per la sua utilizza un vezzeggiativo diminutivo per indicare la casa: usa casina.

È una casina semplice, modesta ed è piccolina piccolina (geminazione di due aggettivi basici che vogliono rendere ancora di più la miniaturizzazione di questa realtà). È una casina che può essere posseduta da qualsiasi mortale che non abbia nulla di straordinario. Però è una casa particolare, è trasparente perché di cristallo, di vetro.

In questa poesia emerge una concezione di realtà che per Palazzeschi deve rappresentare sempre un quadrilatero, vuole “che si veda bene dai quattro lati la via”, si risalta la geometria di questa città in cui c'è un mortale, sorta di marionetta, che vive in una realtà geometrica in cui anche i luoghi vengono geometrizzati. Protagonista di questa realtà squadrata è la gente, gente che rappresenta l'anonimato perché non c'è un soggetto specifico, si parla solo di gente senza specificarne nulla.

Dunque, da questa casa dobbiamo riuscire a vedere la strada, ma si deve vedere bene anche il cielo, che è quella parvenza di infinito che copre la realtà della città. Compare nuovamente il senso del possesso (e che sia tutta mia), di qualcosa di talmente strano che possederlo non è una gran cosa. Non è uno spazio definito veramente, il cristallo serve solo a limitare l'interno con l'esterno, c'è una trasgressione dello spazio.

Dall'altra parte c'è la gente, quelli che guardano dal di fuori cosa c'è dentro. Le pareti fanno da filtro tra interno ed esterno ma, come già detto, è un limite effimero perché tutto sommato non ripara l'intimità dell'interno. Ecco la tortura, data dal fatto che non esiste un interno privato, perché il poeta e la sua esistenza possono essere continuamente profanati. Il personaggio cerca di nascondersi per non farsi vedere totalmente, ma non può nascondere nulla alla gente.

Questa è la resa spettacolare del quotidiano, del mangiare, del dormire dove addirittura i sogni possono essere sorpresi e scoperti. C'è il quotidiano, l'impoetico e la realtà di tutti i giorni che viene messa in scena, una sorta di teatralizzazione dei gesti ripetitivi che vengono resi con dei refrain ossessivi. C'è una realtà che è sempre bipartita, da una parte l'io lirico che diventa personaggio e da una parte il giudizio della gente nei confronti del poeta (Ricordiamo che Palazzeschi era omosessuale, condizione che ad inizio novecento non era certo facile da vivere serenamente con la società).

Troviamo l’idea di questa musica di sottofondo che vuole rendere il non senso della vita. Il refrain viene reso da queste cellule ritmiche ternarie che si ripetono ossessivamente a ritmo di tre sillabe, danno il senso di una cantilena ossessiva messa in evidenza anche dalle rime.

Ricapitolando, nella poesia spazio privato e spazio pubblico si identificano C'è la profanazione dell'interno a vantaggio dell'esterno e vuol rendere l'idea di questo abitante che viene profanato e non capito. Il poeta chiede un approfondimento di tipo psicologico. È la voce della coscienza individuale e collettiva di chi vorrebbe essere capito ma non è, perché nella città industriale il poeta non ha più un ruolo.

Dietro i sogni non ci sono solo i desideri, ma anche le ossessioni e le cose negative. Questo è il risvolto psicologico molto forte.

Letteratura Italiana Contemporanea - 22.10.13

La prima produzione poetica di Giorgio Caproni.

Giorgio Caproni nasce a Livorno nel 1912 e muore a Roma nel 1990. È considerato una delle voci poetiche più importanti del secondo novecento.

La sua prima raccolta “Come un'allegoria” nel 1936 mentre l'ultima “Res amissa” è un libro perduto, non è mai riuscito a riordinarlo, verrà curato da un amico dopo la sua morte.

La vita e l'opera di Giorgio Caproni attraversa una fascia temporale importantissima nella storia della nostra nazione. Eventi come la seconda guerra mondiale sono fondamentali per i poeti novecenteschi, è un momento in cui ripensano il loro linguaggio. Caproni stesso vive la seconda guerra mondiale sui monti della Val Trebbia insieme ai partigiani.

I testi di analizzati sono tre: le prime due poesie appartengono alla prima raccolta, la terza è un sonetto che datato 1944 (in pieno nei danni della guerra). Noteremo come i primi due siano completamente diversi rispetto al terzo. Questa mutevolezza stilistica è un dato importante e da tenere presente per interpretare tutta la sua opera.

Il rapporto con le città un altro aspetto molto importante in Caproni: Livorno è la città dell'infanzia, come città della madre. Roma come città della maturità dove si trasferì nel 1938 e vi rimarrà per tutta la vita fino alla morte. Tra Livorno e Roma c'è una terza città, quella della giovinezza ovvero Genova. Si trasferì a Genova intorno ai 10 anni, è stata la città dove ha studiato, ed è la più celebrata nella poesia di Caproni. Quindi la sua vita si dispiega sostanzialmente dentro queste città principali.

Vive abbastanza a lungo, sicuramente di più di molti altri poeti novecenteschi; Mengaldo ci dice di Caproni che “ha vissuto a lungo da non essere uno solo, ma tanti Caproni”. Ciò ci vuole suggerire che il poeta ha attraversato diverse fasi stilisticamente molto distinte tra di loro. Questo è un dato di cui Caproni stesso era consapevole, difatti parlando della sua poesia individua una distinzione in libri, che non corrispondono sempre alle raccolte: “Come un'allegoria”, “Ballo a Fontanigorda” e “Finzioni” sono le prime tre raccolte che a suo dire compongono il primo libro. “Cronistoria” è considerato il secondo libro (1943). Il terzo libro nasce negli anni della guerra, indica le poesie che ha composto tra il 1944 e il 1955.

Caproni corregge, rivede, riscrive sempre le sue poesia, è una sorta di ricapitolazione della sua produzione dove cerca di capire a che punto è arrivato.

Viene spesso limato anche lo stile dei suoi testi poetici, questo perché sente il bisogno di fare molti tentativi per immettersi in varie vie d'accesso alla poesia, per trovare la voce giusta e individuare il modo per mettere in versi dei contenuti che via via diventano sempre più urgenti. Eppure, anche se lo stile varia da una raccolta all'altra, i temi essenziali sono molto costanti, si riaffacciano con grande insistenza dalle prime raccolte agli ultimi scritti.

Caproni è difficilmente classificabile con correnti, maniere, etichette. Esordisce negli anni dell'ermetismo ma di ermetico ha poco, vi sono poche tracce ermetiche nella sua poesia. Si è piuttosto parlato di impressionismo, è stato definito un poeta dagli esordi impressionistici in cui Pascoli appare come una delle sue più importanti figure di riferimento.

All’interno delle raccolte troviamo poesie attraversate dal vento, dal mare, dagli aromi e sensazioni che il poeta cerca di afferrare. La chiave più importante per leggere Caproni è quella di immergersi nella precarietà del reale, di versi che cercano di afferrare qualcosa che fugge. Ad esempio come i rumori che emergono nelle sue poesie, dei suoni sono sempre al limite dell’esaurirsi, rappresentando così il segno di una vitalità che si sta spegnendo.

Nel 1965 in una intervista, interrogato sull'origine dei suoi versi spiega: all'origine dei miei versi direi che c'è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiata da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avvertimento della presenza, in tutto,della morte. Ritroviamo allora nei versi aggettivi come fragile, labile che ci vogliono trasmettere proprio questa sensazione di fuggevolezza e labilità che il poeta senza di dover dare.

Un'altra presenza costante è il vento, classicamente metafora che indica il tempo, che il poeta porterà avanti tematicamente fino alle sue ultime poesie. È un vento che disperde le risate, gli odori e i ricordi, che fragilizza la vita stessa.

Lo stile delle prime raccolte è intensamente musicale, per rendere questa percezione quasi dolorosa del mondo Caproni usa principalmente figure di suono che in realtà nascondono un sapiente dosaggio, questo perché iniziò studiando da musicista, da violinista e compositore, ritroviamo allora metafore musicali frequentissime, soprattutto nelle ultime raccolte. Un linguaggio che, come scrisse Gaetano Mariani, sembra adatto a sfiorare la realtà senza rappresentarla.

Analisi della poesia “Borgoratti” dalla prima raccolta “Come un'allegoria” (all'interno della poesia c'è anche un verso che riprende il titolo”:

Il soggetto della prima strofa lo troviamo al quarto verso, è la sera. Definendola memoria precaria, crea una sorta di inciso (labile memoria ormai) difatti l'apparato critico dei meridiani Mondadori, ci dice che questo verso era all'inizio chiuso in una versione da due lineette (--) e un'altra dalle parentesi. Rielaborandola nel tempo, ha mantenuto il verso eliminando la punteggiatura.

“Le vampe fiorite” è una notazione di colore, difatti sono fiori dai colori molto accesi, è un tema ricorrente in Caproni quello della specificazione di colori particolarmente accesi.

“questo paese” indica un luogo reale, la poesia è ben ancorata alla realtà.

Il verso cinque è il verso chiave della poesia: l'apparizione della fanciulla è una figura, scrive Colangelo, di alterità improvvisa, un lampo di senso. Sembra un segnale di qualcosa che sta al di là della realtà. (L'importanza dell'ombra ricorrente della morte)

Il titolo della raccolta “Come un'allegoria”: l'artista in genere tende all'evasione, io l'ho fatto ad occhi aperti, guardando in faccia la realtà tanto da cogliere quello che sta al di là della realtà In Come un'allegoria esprimevo il dubbio che la realtà non sia altro che essa stessa un'allegoria. La poesia può cogliere l'allegoria ma non decifrarla.

Intitolerà una raccolta della maturità “il muro della terra” che è il muro contro il quale la ragione umana sbatte continuamente e al di là del quale la ragione non si può spingere. È l'allegoria del limite della ragione.

“L'aspro odore del vino” è una citazione carducciana, ma non banale, anche perché Carducci all'epoca non era molto amato dai poeti novecenteschi che difficilmente avrebbe pensato di citarlo. Caproni dirà che: dopo una parentesi di versi oscuri, ho deciso di risillabare la tradizione italiana dall'inizio. Sceglie di incominciare dal poeta che gli stava più antipatico: Giosuè Carducci che, come ammetterà lui stesso, rileggendolo troverà suggestivo.

Analisi poesia “Dietro i vetri”

È la poesia con la quale si conclude la raccolta “Come un'allegoria”.

È ambientata anch'essa nel quartiere di Borgoratti a Genova, dove vi abitava la sua prima fidanzata, Olga Franzoni. Questa poesia in particolare ha come tema centrale proprio la figura femminile e il personaggio di Olga che qui si distacca dal poeta, guardandolo da dietro i vetri della sua casa.

Fu probabilmente iniziata quando Caproni si trovava a Sanremo in caserma, in una situazione reale di distacco. Il distacco sarà tuttavia ben più grave, difatti Olga Franzoni alla vigilia delle nozze con Caproni, morirà di setticemia. Esprimerà il dolore della perdita non solo in poesia, ma anche ad esempio nel racconto “il gelo della mattina”, dove racconterà proprio della morte della donna.

L'immagine incipitaria della donna al balcone, il cui viso viene illuminato dalla luce dell'estate e dal colore dei gerani, è un'immagine di memoria pascoliana, la poesia La Cucitrice (Myricae) è un chiaro riferimento.

Il distacco fisico, dato dal gesto di chiudere la finestra, viene paragonato allo svanire del ricordo. È molto suggestivo il fatto che la raccolta si concluda con la chiusura di una finestra (da ricordare che la prima poesia vede una finestra, al contrario, aprirsi).

Ad uno sguardo attento possiamo notare che la costruzione musicale della poesia è attentissima: vi sono enjambement e allitterazioni, anafore e rime interne che musicano il ritmo della poesia. Possiamo allora parlare di poesia frutto di un dono musicale.

Ricordiamo che il primo contatto che Caproni ebbe con la poesia avvenne proprio grazie alla musica: componeva corali riadattando le poesie del Tasso ma iniziò poi a comporre i testi da solo. Il musicista è infine caduto ma il paroliere è rimasto tramutandosi in poeta.

Con Cronistoria che viene pubblicata nel 1943, cambia il contesto storico. Siamo in pieno degli eventi bellici, anche se in realtà la guerra è taciuta, si sente che c'è ma il tema predominante è quello della morte.

Questa raccolta è importante perché lo stile del poeta cambia in maniera molto profonda, si complica, le immagini diventano molto più oscure e da questo verso libero di misura medio breve, Caproni arriva alla metrica chiusa ed al sonetto.

Troviamo nella prima parte della raccolta versi liberi, mentre nella seconda appaiono i primi sonetti caproniani di metrica chiusa.

Questa è una raccolta divisa in due parti (“E lo spazio era un fuoco” e “Sonetti dell'anniversario”). È un dolore privato che anticipa il dolore che sarà poi collettivo con la guerra.

Con Cronistoria vediamo arricchirsi la geografia della poetica di Caproni: appaiono oltre Genova altre città quali Roma, Pisa, Assisi... Grazie ai toponimi, Caproni cerca di costruire una narrazione, una cronistoria per l'appunto.

In molti poeti del novecento quello per la narrazione è un amore tradito, una tentazione. La prosa è quello che la poesia vorrebbe raggiungere ma dalla quale la poesia si sente diversa. Diventano frammenti di un racconto non più possibile. Con il novecento abbiamo anche il disfacimento della narrazione, il romanzo nella sua struttura classica, si dissolve (basti pensare all'Ulisse di Joyce o La coscienza di Zeno di Svevo).

In questa raccolta il “Tu” femminile assume una doppia connotazione, in particolare nei sonetti dell'anniversario, la donna è una figura completamente perduta nel tempo.

Il tema del nome è centrale in Cronistoria, il nome è colto nel suo svanire nel tempo, conserva la facoltà di evocare il passato. Questa funzione evocativa del nome comincia a diventare debole, evanescente. Qui si esprime la distanza tra Caproni e un poeta come Ungaretti, la fiducia nel nome in Caproni inizia ad incrinarsi. S'interrogherà fino alla morte per giungere alla conclusione che il nome non evoca l'oggetto ma lo dissolve. Perde allora la fiducia nell'evocazione, il nome mente e dissolve.

Il primo nome a dissolversi è quello di Olga: «Basterà un soffio d’erba, un agitato / moto nell’aria serale», un soffio di vento lo porterà via, come se la sua consistenza nella memoria non trovi nulla nel suo nome.

Il rapporto con la memoria è drammatico per i poeti del novecento. Il ricordo è qualcosa che è destinato a scomparire (un esempio è riscontrabile nella poesia “Cigola la carrucola del pozzo” di Montale), si è consapevoli che fra noi e il passato vi è una frattura che non è più recuperabile.

Caproni si rende conto che il linguaggio ha una natura fittizia: fino a che punto il nome indica la cosa e fino a che punto la tradisce? Ungaretti ha tanta fiducia nella parola, Caproni ha invece questo rapporto problematico. Il linguaggio è uno strumento che ci permette di parlare della realtà ma è anche uno schermo fra la realtà e l'oggetto.

Abbiamo detto che il lutto della morte di Olga incrina la fiducia di Caproni nel nome, ovviamente non c'è corrispondenza tra i fatti della biografia e il loro risultato nelle conseguenze poetiche, ma in questo caso la morte della fanciulla diventa la prima spia di questa perdita di fiducia nel potere evocativo del nome.

L'evento che svuoterà completamente il significato sarà proprio la guerra, tutto diventa finto, persino la parola che, contro così tanta insensatezza, nulla può se non dissolversi.

Letteratura italiana contemporanea – 24.10.13

Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto l’8 febbraio 1888 da genitori lucchesi. Questo dato iniziale ci suggerisce già una sorta d’internazionalità del poeta portata dietro fin dalla nascita. Ungaretti insisterà molto sulla sua condizione di esule, senza patria, perché nascere in una città straniera per un italiano, lo fa sentire diverso in quella che considera tutto sommato una madrepatria.

A differenza di quanto si potrebbe pensare, possiamo considerare Alessandria una delle città più attive dal punto di vista culturale dell’epoca, alla stregua di Parigi. La città aveva difetti recepito le innovazioni tecnologiche ed artistiche d’avanguardia che facevano della capitale francese la capitale culturale del tempo.

La prima produzione poetica di Ungaretti si sviluppa portando avanti, da un lato, temi legati al mare, al deserto ed alla luce, ovvero elementi che portano in loro una dimensione d’infinito. Dall’altra parte delle sua poetica troviamo invece il vuoto, la mancanza e la morte, ma questo non a caso, difatti l’infinito porta necessariamente con sé una dimensione di mancanza e di morte.

Ungaretti vive i suoi primi anni in Egitto, e lì concepisce la sua prima raccolta poetica, “Il porto sepolto”, donandole un nome fortemente legato alla sua città natale. Esisteva, difatti, ad Alessandria un antico porto tolemaico sommerso dove il poeta si era formato artisticamente. Configura questo porto come l’indecifrabile che c’è in ciascuno di noi, il mistero che il poeta deve interpretare, “quel nulla d’inesauribile segreto”. Partendo si porterà dietro di quell’antica città l’idea che quel porto custodito in fondo al mare fosse l'indecifrabile che c'è in ciascuno di noi, il mistero che il poeta deve interpretare, “quel nulla d'inesauribile segreto”.

Lascia Alessandria nel 1911 e , passando per l’Italia, si trasferisce a Parigi dove vivrà alcuni anni entrando a contatto con avanguardie e artisti come Apollinaire, Papini, Braque e molti altri. Dopo l’esperienza parigina, grazie alla quale riuscirà ad affinare la sua poetica, decide di partire volontario nella Grande Guerra. “Il porto sepolto “ si configura come il diario di questa sua esperienza, un diario fittizio in cui lui ha la preoccupazione di scrivere le date e i luoghi, dunque con attenzione per il piccolo tempo. Questo anche perché ha una sorta di fissazione per l'autobiografia poetica, tanto è vero che la summa delle sue raccolte prenderà il nome “Vita d'un uomo”.

“Il porto sepolto” viene pubblicato la prima volta da Ettore Serra, morto giovanissimo in trincea, nel 1916 in 80 copie presso lo stabilimento tipografico friulano di Udine e verrà poi incluso nel 1919 nella raccolta “Allegria di naufragi”, titolo che ci vuole suggerire la bellezza di una vita che naufraga sempre.

Nella sua prima raccolta è molto presente la realtà del deserto e la cultura araba, soprattutto a livello ritmico: nella sua metrica libera vi è infatti il richiamo sonoro alle nenie arabe. Nei suoi versi, la metrica non è di tipo sillabico ma vi è la prevalenza del ritmo, cioè degli accenti che si ripetono e queste cellule ritmiche che richiamano i piedi metrici. La parola è circondata da silenzio, da spazi bianchi, per poterla assorbire meglio e per poterla rendere il più evocativa e analogica possibile, e non solo a livello sonoro ma anche visivo nella pagina stampata.

La prima poesia che apre “Il porto sepolto” è “In memoria” scritta per Mohamed Sceab, un suo amico arabo che muore a Parigi suicida perché si sentiva esule e senza patria benché avesse addirittura cambiato nome e non sentisse più legami con le sue origini. Questa mancanza di radici ed allo stesso tempo di una nuova cittadinanza, lo porterà a togliersi la vita.

La seconda poesia della raccolta s'intitola “Il Porto Sepolto” ed è corredata, come molte altre poesie di Ungaretti, da una data e un luogo: “Mariano, 29 giugno 1916”, in questo momento il poeta è in trincea nel Carso. Questa è una poesia metapoetica, dove si parla quindi del modo di far poesia, è la dichiarazione di una poetica.

Il poeta arriva nel porto sepolto, che non è altro che la metafora di questo inconoscibile, e solo dopo essere arrivato, torna poi alla luce. È come se si tuffasse in questo mare per poi riaffiorare con i suoi canti. Questa è la descrizione della produzione poetica, che per lui è come tuffarsi per poi riemergere. Torna alla luce con i suoi canti e poi li disperde, perché non sono più suoi ma sono del mondo e ad esso vanno consegnati. Il “nulla” che appare alla fine della poesia, è un qualcosa che non si riesce a catturare e definire, ed è un segreto inesauribile, che non finisce mai, è quell'indecifrabile che il porto sepolto nasconde.

Esprime così la sua poetica, con tutta una serie di metafore marine legate a questo porto d'Alessandria dove lui si formò come poeta negli anni della giovinezza. È un porto in cui si può tuffare e riemergere, e il tornare in superficie è l'essere riusciti a concepire un canto che da quel momento diventa del mondo.

Molte delle poesie di Ungaretti, sono la descrizione dell'esperienza di trincea del poeta. Una di queste è “Veglia”, la quinta della raccolta, scritta il 23 dicembre 1915:

Ungaretti, spesso così paco di aggettivi, qui attacca il componimento con l'aggettivo “intera” (Un'intera nottata...). Da notare la violenza delle parole, si parla in questo caso di espressionismo linguistico.

La colonna sonora di questa poesia è il silenzio perché solo con questo si può vegliare accanto ad un morto. L'io lirico davanti a questa violenza disumana sente un grande attaccamento nei confronti della vita, un forte amore che lo tiene sempre più legato alla voglia di vivere. “Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”, riesce a sentire la bellezza della vita e vuole viverla proprio perché ha visto, sentito e vissuto le forme atroci della violenza così come la guerra le ha poste davanti a lui.

Le forme all’interno della poesia vengono rese asciutte, prosciugate, c'è una sorta di sintassi legata a questa esperienza carsica, a questa natura spigolosa che lo circonda e che influenza anche il suo stile poetico. È una natura violenta, che non permette sovrabbondanza. Questa esperienza al limite dell'umano e questa natura essenziale formano il suo stile petroso, legato al paesaggio ed alle pietre del Carso.

“Annientamento”, Versa, il 21 maggio 1916

Annientamento è una parola astratta legata alla tradizione mistica. In questa parola è compreso l'annullamento di sé, la fragilità dell'io e dall'altra parte una sorta di vertigine cosmica che può far pensare a Leopardi. Come Pasolini rileverà, in questa prima fase poetica c'è una grande religiosità piena in Ungaretti che scopre questo misticismo.

Vi sono in questa poesia oggetti poveri, ma che non sono intesi in senso crepuscolare: prima di tutto le lucciole, poi i grilli e poi margherite, infine la Spinalba che un tipo di pianta che si trova nei giardini di Alessandria d’Egitto. C’è il fiume Isonzo, uno dei quattro fiumi di Ungaretti che danno il senso del tempo che passa. Il mare da il senso della ricorsività del tempo, il fiume va verso la foce e noi lo assecondiamo e lo seguiamo in questo su andare.

Le parole chiave che si ripetono nella poesia sono prima di tutto il “cuore”, poi il “tempo” e c'è più che altro questa idea del riflessivo, i verbi sono tutti riflessivi (mi modulo, mi sono smaltato, mi sono colto...). C’è questo “io” preponderante.

Prima si parla dell'ieri e nella seconda parte dell'oggi, l’oggi legato al fiume Isonzo dove lui si trova, con il suo asfalto azzurro che altro non è che la superficie. C'è un trapasso dell'io lirico che dal greto del fiume vola verso le nubi e questo volo è legato alla produzione poetica.

La scansione del tempo dipende dal cuore, quindi dal sentimento e dalla soggettività, il sentimento del tempo che porta all'annullamento del tempo e dello spazio perché il tempo scivola nello spazio. Questo annullamento è questo essere nel presente che arreca felicità all'io lirico.

“Ho sulle labbra il bacio di marmo” è un finale non molto apprezzato nella sua idea di bacio freddo legato alla situazione, diventa un finale estetizzante.

Abbiamo il tempo dell'ieri e poi il tempo dell'oggi legato al percorso del fiume e il tutto viene colto nell'attimo di questi oggetti poveri, c'è questo scenario di natura dove tutti questi dettagli poveri prendono il sopravvento.

“Silenzio”, Mariano il 27 giugno 1916: (undicesima poesia della raccolta).

Il ricordo è anche la fine della vita da esule, lui ricorda di essere andato via con una nave da Alessandria d’Egitto.

Silenzio perché per la metrica di Ungaretti il silenzio è fondamentale, identificato con lo spazio bianco che circonda le parole nella pagina.

C'è il senso del distacco, della lontananza e del taglio da queste radici posticce di questa città che sente sua ma che in realtà non è, perché non è quella dei suoi genitori. È una città che ogni giorno brilla di una luce fortissima, tutto è rapito in quell’attimo di luce.

È una sospensione, tutto è rapito in quel momento, è la magia dell'attimo e della luce che si svela e che ti svela.

Ricorda di esser partito di sera, quando la luce non c'è, e il distacco si sente ancora di più perché dentro non gli rimane un effetto di luce nel cuore ma un limio, un'ossessione, come il verso delle cicale, ridondante e insistente che ti rimane dentro ossessivamente.

Appare una dimensione cinematografica, di dissolvenza: vede la sua città sparire a poco a poco dal bastimento, e sente lo sradicamento da questa sua città. Rimane l’idea di un abbraccio di lumi che ricorda un intreccio in una atmosfera torbida che dissolve la città. È una poesia molto visiva perché tutto diventa un gioco di luci (un abbraccio di lumi nell'aria torbida = dodecasillabo sdrucciolo).

In questa poesia ci sono degli effetti visivi, fonici con i quali Ungaretti vuole rendere la sua natura di esule e la fine dell’esilio.

“Nostalgia”:

Dal greco “nostos/ritorno algos/dolore”, quindi dolore del ritorno.

Mentre si trova in guerra sul Carso, pensa con dolore a Parigi.

È una poesia della nostalgia, nostalgia di Parigi vissuta da lui e dal personaggio della ragazza tenue. Ci sono delle coordinate di tipo temporale che vogliono indicare il tempo giornaliero “quando la notte sta per svanire”.

I passanti sono pochi, c'è questa idea di un deserto, di un vuoto e quindi di uno stato esistenziale: il dolore del ritorno si addensa su Parigi e appare questo colore scuro del pianto.

Contemplo l'illimitato silenzio è una ripresa di Leopardi.

La figura femminile quasi si dissolve, ma entrambi contemplano il male di vivere cosicché i loro stati esistenziali si fondano in uno. Vi è un forte senso di smarrimento, come se assecondassero questo stato di malattia facendosi portare via, ma in realtà rimangono immobili in questo smarrimento.

Vi è una chiusa epifanica, che fa pensare a quella logica onirica in cui le negazioni si ricompongono, non è una logica di causa ed effetto ma di stati esistenziali in cui ciascuno vorrebbe ritrovarsi e questi due personaggi si ritrovano in questo stato esistenziale di malattia. Questa meta è allora effimera, il termine “portati via” fa pensare al canto di Paolo e Francesca ed al vento infernale, ma qui si rimane bloccati nel presente assoluto e malato.

Parigi è legata a questa dimensione di malattia e dissolvenza, di luogo e di tempo che scivolano uno nell'altro, di patologia del tempo e dello spazio esterno ed interno.

Le parole risultano centellinate e sillabate, vi è l'isolamento di parole che fanno pensare ad un inno verticale, ad una sorta di preghiera.

La ventiquattresima della raccolta poesia si chiama “Pellegrinaggio” ed è scritta nel 1916:

Il pellegrinaggio è l'andare verso un luogo sacro, ovvero la processione verso un sito religioso.

È un’altra poesia con una violenza espressionistica forte.

La rima fondamentale più forte che salta all'occhio è quella che coinvolge anche il titolo, ed è coraggio/pellegrinaggio. Il titolo è assorbito ritmicamente all’interno della poesia.

Parla di budella di macerie perché si trova in trincea, le viscere fanno pensare appunto alla trincea. In questo componimento il tempo non si computa, le ore sono pesantissime e scandiscono un tempo lungo.

Parla del suo corpo come carcassa, ridotto come una suola rovinata dal fango o come un seme di spinalba, un’erba selvatica tipica alessandrina.

All'interno della poesia appare anche il suo cognome, Ungaretti, si chiama e si dice da solo che basta un'illusione per poter sopravvivere. Vi è l'illusione di una salvezza in questo pellegrinaggio, anomalo perché non va verso un luogo religioso, ma è quello di un esule che cerca in qualche modo di avviarsi verso la luce ed Ungaretti proprio in questa luce cerca il coraggio per andare avanti.

Letteratura italiana contemporanea – 29.10.13

Andando avanti nella produzione poetica di Ungaretti, si trova il passaggio dall’atmosfera araba, dal deserto di Alessandria, alla carsicità del linguaggio, un linguaggio senza plurivocità, asciutto e con un unico registro essenziale, così come comune alla maggioranza degli autori del novecento. Il deserto, nel periodo bellico, diventa trincea, spazio angusto e congestionato dalle viscere di chi non ha resistito al conflitto.

All’inizio il deserto diventava miraggio, sollecitava l'immaginazione, divenendo il primo stimolo della sua poesia, immediatamente interiorizzato e fatto proprio nei componimenti.

Sentimento del tempo è la seconda raccolta di Ungaretti che viene pubblicata nel 1936.

Si riconquista il tempo come stato interiore e si riconquista il verso secondo la tradizione. Difatti l’endecasillabo si ricompone dopo essersi sbriciolato. L'esperienza che fu propria dell'Allegria, è però fondamentale e non è possibile che venga cancellata. Difatti l'endecasillabo che incontriamo adesso è un verso nuovo, dove prevale l'importanza dei piedi metrici e del ritmo accentuale.

In “Sentimento del tempo” troviamo una suddivisione in sette sezioni che prendono tali nomi:

La prima sezione prende il nome “prime”

La seconda prende il nome “La fine di Crono” (ci suggerisce l'importanza del mito)

La terza prende il nome “Sogni ed accordi” quindi inconscio e musica interiore.

La quarta prende il nome “Leggende”

La quinta prende il nome “Inni”

La sesta prende il nome “La morte meditata”

La settima prende il nome “L'amore”

La poesia si alimenta di quello che rimane del tempo, dello stato d'animo che rimane del tempo.

Nella raccolta ci sono due modi di concepire il tempo: da un lato è visto e sentito con durata lineare e consistente e dall'altro vi è l'intuizione più segreta di un tempo sgretolato la cui misura è l'attimo. È una poesia dunque legata all'attimo, epifanica, poesia che rivela e che si rivela, che evoca il mito e lo riusa nel tempo angoscioso del novecento.

Come ci spiega Ungaretti, ci sono tre momenti nel sentimento del tempo per percepire il tempo stesso: nel primo momento si ritrova a sentire il tempo nel paesaggio con una sua profondità legata alla storia, appare quindi rapporto tra poesia e storia; nel secondo modo di concepire il tempo sente una civiltà minacciata di morte e questo lo induce a meditare sul destino dell'uomo e sul sentire il tempo come effimero in relazione con l'eterno, dove il punto di raccordo tra effimero ed eterno è la prima guerra mondiale; L'ultimo modo di percepire il tempo è estremamente personale: si accorge del morire a poco a poco nel suo corpo, medita quindi sul suo tempo che decreta lentamente la sua morte (la morte si sconta vivendo).

Nella prima sezione, “Prime”, compaiono poesie scritte tra il 19 e il 24

In La fine di Crono compaiono poesie scritte tra 25 e 31 (in questa sezione sono in ordine cronologico).

Sono poesie molto lontane dall'Allegria, sono legate all'ermetismo nascente, i pensieri sono metafisici, i versi sono per pochi, non tutti possono decriptarli perché lui vuole esprimersi dentro il mistero della poesia che non tutti possono capire. L'enigma della poesia va rivelato a poco a poco e solo a pochi eletti.

Prevalgono i versi endecasillabi, settenari e novenari, emerge la prosonia che crea un ritmo e una musica che vuole assumere la funzione interpretativa della musica interiore del poeta.

La sintassi non è più paratattica, diventa anche ipotattica e legata al giro della sintassi classica latina: si passa dal presente assoluto all'imperfetto narrativo ed evocativo.

All'inizio si parlava dell'uomo spaesato perché espatriato, qui si passa dal soldato all'uomo di pena. Pena che, dopo la morte del figlio Antonietto, diventerà dolore .

Prima della Grande Guerra i grandi temi della poesia del novecento erano portati avanti dalla rivista “La Voce”, che nacque nel 1908 e vivrà fino ai primi mesi del 1916. Nel dopoguerra si crea una situazione di spaesamento totale e si sente dunque bisogno di ordine legato alla nuova civiltà della tecnica, dell'industria e del capitalismo. Le masse sono allora la nuova realtà del dopoguerra, attorno alle quali si crea un forte dibattito politico.

Nel 1920 verrà fondato il partito comunista d'Italia di Gramsci, legato alle masse, e dall'altra parte si formerà prima il movimento e poi il partito fascista, al quale si legherà la borghesia industriale.

Il ritorno all'ordine non è un ritorno tranquillo ma inquieto, perché si porta dietro tutte le problematiche legate ai gap sociali che la guerra aveva creato e che aveva visto sfociare nella crisi post bellica. Dal mare di questi temi abbiamo la creazione della rivista “La Ronda”, fondata da Vincenzo Cardarelli. Nel primo numero vi è un prologo firmato dal suo stesso direttore, è però un prologo molto diverso dai manifesti del futurismo. Per Cardarelli il ritorno all'ordine significa ritorno ai classici, seppur essendo una classicità perturbata come quella che si percepisce nei quadri di De Chirico.

C'è una sorta di allontanamento dell'artista, che vuole stare lontano dalle masse e dalla realtà politica italiana. Allo stesso tempo è contrario a tutta la sperimentazione del futurismo ed a quanto personaggi come D’Annunzio stavano portando avanti.

Nella Ronda riappare l'idea di una prosa lirica breve che tende però alla poesia, questo perché all’interno di questa prosa dovrebbero esserci una serie di fenomeni compensativi legati alle figure retoriche foniche, prendendo quindi a modello il versetto biblico e la poetica di Walt Whitman. Questo programma prima della guerra si era concretizzato nel lavoro de “La Voce”.

Riassumendo, in questo prologo scritto da Cardarelli come programma della rivista vi sono come elementi fondamentali come il ritorno ai classici, l'idea che l'artista non debba mischiarsi con la massa e con i gangli del potere e la prosa lirica, che crea un legame tra La Ronda e la vecchia rivista La Voce.

Lo stesso Ungaretti cerca una tradizione.

Nel 1930 siamo in pieno fascismo e il regime prende Virgilio e il suo Enea come riferimento alla romanità, ma non solo il Virgilio dell'Eneide, anche quello delle Georgiche, testo che porta chiari riferimenti riguardo l'autarchia, al quale il fascismo per l'appunto puntava.

Virgilio è l'autore che ispira ad Ungaretti una raccolta intitolata “La terra promessa” (il primo titolo fu Frammenti di una terra promessa) che pubblica nel 1950 benché iniziò a scrivere già a partire dagli anni ‘30 . La terra promessa è la terra che Enea raggiunge quando arriva in Italia. Ungaretti cerca un'identità non solo nazionale, ma sua. Interessante notare come all’interno di quest’opera, i personaggi protagonisti sono sempre allusi ma mai nominati, il nome non c'è ed Ungaretti ci rimanda quindi alla fonte latine.

La terra promessa è un melodramma dove ci sono dei recitativi e i cori a più voci, che indicano quindi non uno stato esistenziale privato, ma una condizione esistenziale di molti, in cui si sente la plurivocità delle voci che sono tante da una parte e la narrazione del singolo dall'altra. Ungaretti da poeta dell'illuminazione lirica diventa narrativo, ma questa è una narratività con una colonna sonora. Sceglie le parole in base a questa colonna sonora perseguendo una metrica fatta di versi tradizionali.

É fondamentale in lui una dimensione di oralità, potremmo definirlo mefistofelico.

La caratteristica fondamentale del personaggio di Enea è quella di essere homo pius, depositario quindi della pietas che è un sentimento quasi religioso, cristiano ante litteram.

La Pietà Romana è una poesia scritta nel 1932 e si potrebbe confondere con la retorica fascista ma è completamente diversa.

I forsennati nominati all’interno sono i reduci della guerra, tutto ad un tratto subentra la calma e il personaggio che appare e trasforma i destini rappresenta il Cristo. Enea si confonde con Cristo, questo aspetto biblico ed allo stesso tempo classico è una caratteristica fortemente appartenente anche a Dante.

La pietà è un punto di raccolta tra il passato e il futuro, tra la memoria dei padri e la sorte futura dei figli che passa attraverso questo sentimento della pietas.

La pietà si antropomorfizza, libera il futuro, e c'è l'altare delle religiosità che invece sono depositate nel cuore.

Questa poesia chiude il sentimento del tempo e apre la terra promessa. Promessa di una terra rinnovata che è quella di Enea ma anche quella dell'uomo del novecento che sta uscendo dai due conflitti bellici, spaesato e smarrito, e che cerca certezze per depositarle nel proprio cuore.

Letteratura italiana contemporanea – 30.10.13

All'interno della raccolta “Il dolore”, Ungaretti inserisce dei brevi componimenti che si configurano come epigrammi. In giorno per giorno il tutto è impostato come un dialogo diventa dialogo mentale, virtuale, con il figlio che ora mai manca e non c'è più. Il dialogo con i morti può avvenire solo in una dimensione onirica, e questo componimento ci porta proprio in questa dimensione. Si chiede come potrà reggere alla mancanza del figlio, a così tanto buio che non è illuminato dalla luce della presenza del figlio.

Nel terzo componimento utilizza alla fine un condizionale, si chiede quali orrori la vita potrà portargli e pensa a come il figlio avrebbe potuto consolarlo, ma questo non è più possibile, il condizionale diventa un condizionale della irrealtà. La parola “orrori” che qui appare è una parola forte che tuttavia appare spesso in Ungaretti.

Queste brevi poesie non sono di narrazione lirica, ma di narrazione. Danno la messa a fuoco di movimenti e del racconto del suo rapporto col figlio che oramai è solo mentale e onirico. Nella Terra Promessa avrà invece come modello archetipico l'Eneide, è un'esperienza poetica individuale e monodica ma anche corale perché è la sua esperienza ma anche di tutta la civiltà durante la guerra. Anche la generazione nasce, vive e muore come il singolo individuo.

Si viene a creare questa vicenda legata a questi due personaggi, Enea e Didone, che non vengono tuttavia nominati, sono personaggi senza nome che vivono anche nella tragicità del non essere mai nominati. Non ha il coraggio di nominare.

Didone rappresenta una città in rovina, una città distrutta ma rappresenta anche se stessa come abbandonata da Enea perché egli deve seguire un destino programmato dagli Dei per raggiungere l'Italia e Roma.

Il lettore deve essere colto, deve conoscere le vicende dell'Eneide per poter capire La Terra Promessa.

Nel XVIII coro notiamo che la sintassi è molto tesa, rappresenta l'animo dei due personaggi che viene reso attraverso queste inversioni sintattiche.

Sono due strofe in cui viene descritta un'atmosfera infernale simile a quella del canto XIII dell'inferno dantesco. C'è un realismo ma di tipo tutto mentale che descrive da una parte una civiltà del tutto in rovina. Gli unici esseri viventi sono questi aironi cinerini, da l'idea di una natura desolata alla Elliot. È un'atmosfera di fetore, di odori e di qualcosa di negativo. È tutta una dimensione di negatività che riprende la realtà dell'Italia del dopoguerra.

È molto diversa dalla retorica fascista dell'Enea che ricostruisce l'impero, qui è angosciato perché vorrebbe rimanere con Didone.

Nel XIV coro ci sono variazioni ritmiche sullo stesso tema. Enea e Didone riversano la loro frustrazione attraverso la sintassi di tipo narrativo. C'è una forte sofferenza iniziale, “per patirne” è l'attacco di entrambe le strofe e rende bene la dimensione di sofferenza. Questo “mai più” che si ripete è una ripresa di “never more” del Poe del Corvo, è una sorta di refrain che si ripete come implorazione. Gli occhi di Didone sono senza luce ed espressione perché non hanno più le lacrime per piangere, il dolore non si esprime più attraverso il pianto. Didone non riesce più a comunicarlo questo dolore dell'abbandono, qui c'è proprio il massimo del melodramma sostenuto dal rapporto tra gli occhi di lei e gli occhi di lui. Tutto questo lo disse già Virgilio, ma in Ungaretti questi personaggi si esprimono in un gioco di sguardi quasi teatrale oltre che melodrammatico e di silenzi.

Non ci sono rime ma ci sono variazioni foniche sulle stesse vocali, dei richiami fonici nonché ripetizioni e ci sono tutta una serie di epiteti sdruccioli. Nell'Ungaretti dell'allegria gli epiteti non c'erano più ma ora ritornano. Enea è visto con gli occhi di Didone ed è il punto di vista delle rovine della generazione e del suo animo devastato da questo amore oramai impossibile. Enea diventa il depositario di questa rovina personale e generazionale.

Ungaretti riprende dall'Eneide ma poi ricostruisce i personaggi che diventano moderni e novecenteschi, l'archetipo è classico ma viene riusato in modo moderno. Quest'attesa di qualcosa che deve venire che è legata alla rovina, perché l'uomo del novecento sente il peso di chi non riesce a combattere il male.

Non ci sono punti di riferimento né spaziali né temporali, il poeta non vuole darli perché il lettore deve farli affiorare da solo e coglierli perché la poesia ha un'enigma di fondo che deve decriptarlo, è la necessità di un lettore colto.

Ciascun coro mette in luce lo stato d'animo di questa protagonista.

Il Recitativo di Palinuro: Palinuro è il fedele nocchiere di Enea, racconta la sua storia di come cade nel sonno e dal sonno come si trasforma in roccia. Palinuro racconta di questa sua metamorfosi. La fedeltà è espressa nella roccia di questo Capo Palinuro che testimonia la fedeltà di Palinuro ad Enea.

L'uomo si trasforma in un luogo: quello scoglio ingigantito nel quale la disperata fedeltà di Palinuro ha trovato forma nei secoli. Ungaretti lo descrive e lo narra per bocca del personaggio.

C'è una sintassi piena di tensioni, una sintassi scavata nelle pieghe delle inversioni, negli iperbati, per cui il lettore si deve orientare per trovare quella che è la scansione lineare del verso. Ci vuole ricordare che questa metamorfosi è sofferta, dove si esprime il disagio esistenziale di un personaggio che vuole essere fedele fino alla morte ad Enea. Questa metamorfosi avviene in una dimensione onirica dove tutto è possibile, dietro quel luogo si percepicono i simboli e i meccanismi della trasformazione da un personaggio che palpita ad un luogo che non palpita più. Non c'è quindi una dimensione di razionalità.

Questo sonno in cui Palinuro precipita è un sonno improvviso di cui lui non è cosciente, come la poesia che ti sgorga dentro in una dimensione d'incoscienza perché l'ispirazione non arriva in una dimensione di razionalità, si guarda qualcosa, si prende un appunto e da quell'appunto uscirà una poesia.

Il modello è petrarchesco, sono tutte sestine, vi è una sorta di gabbia metrica in cui scivola il personaggio. La prima strofe presenta parole rima che si ripeteranno in tutte le strofe. Sono le stesse parole che vengono strutturate in un ordine diverso.

Sono presenti gerundi, che indica la continuità di un'azione, e il participio presente, che indica l'attimità di un'azione. C'è la furia di questi sogni che crea lo sprofondare dalla coscienza all'incoscienza. Il sonno nel quale i rumori si attutiscono, un sonno senza rumore, è felpato. Il rumore perde la sonorità e diventa visione. La pace viene in qualche modo avvelenata da echi remoti del mare.

La metamorfosi avviene allora in una dimensione di silenzio perché i suoni sono onirici. C'è una desertificazione data appunto dal sonno che crea quelle che sono le condizioni per la metamorfosi.

C'è una sorta di naturalezza che è però anche tarlo in furia, soccombe in una pace che è quella onirica. Si crea una sorta di sfida con il sonno, non vorrebbe cadervi ma il sonno è più forte di lui, vi sono dei risvolti psicologici notevoli.

Nell'ultima parte, con questo congedo, concentra tutte le parole rima delle strofe precedenti. L'emblema è il modello di questa trasformazione e metamorfosi che è appunto il finto emblema, poi il suo emblema e poi il deserto emblema, emblema di speranza, disperso emblema ed infine emblema della pace.

C'è questa funzione del racconto che è dialogica, attraverso il dialogo si raccontano le tappe di questa metamorfosi che avviene nel sonno per trovare pace di Palinuro legata alla fedeltà di Enea che diventa un antieroe perché lui non vorrebbe seguire questo destino che gli Dei gli affidano.

È questa oscillazione, questa angoscia del personaggio che stride in questa gabbia metrica espressa nelle parole rima.

Enea compie il suo viaggio al di là di tutto, un viaggio di costrizione e forse non voluto perché il suo sentimento amoroso vorrebbe essere più forte. Il destino dell'uomo del novecento fa diventare Enea un antieroe nelle sue angosce che lo mettono in crisi continuamente.

Il modello, dice Ungaretti, è proprio Petrarca, la sestina con questo gioco delle parole rima, porta risultati musicali in questo melodramma che è la terra Promessa. Quella che scrive Ungaretti è un'Eneide capovolta che vede i drammi e i dubbi dell'uomo del novecento.

Anche Palinuro è un punto di vista estraneo in un cui si perde l'emblema del personaggio Enea. L'Eneide è un punto di riferimento ma reinterpretato da un punto di vista novecentesco.

La sintassi del recitativo è contorta perché vuole dare il senso di questo smarrimento di Palinuro.

Letteratura italiana contemporanea – 30.10.13

All'interno della Terra Promessa ritroviamo la stessa classicità del fascismo, ma questa di Ungaretti è una classicità inquieta e turbata sia dallo spaesamento della guerra sia dallo spaesamento personale dell'autore. Il primo titolo dell'opera, Frammenti di una terra promessa, è un chiaro riferimento vociano ed appunto alla frammentazione della poesia. Vi è una somma di tante prose che danno una dimensione di non finito. Nel personaggio di Enea, che non viene mai nominato all'interno della raccolta, l'io lirico si riconosce.

È una raccolta che nasce parallela alla raccolta “Il dolore”, scritta a seguito della morte del figlio, si passa quindi da un dolore collettivo ad uno privato perché è il dolore di una mancanza. All'interno di questa raccolta, Ungaretti inserisce dei brevi componimenti che si configurano come epigrammi. Il tutto è impostato come un dialogo che diventa dialogo mentale, virtuale, con il figlio che ora mai manca e non c'è più. Il dialogo con i morti può avvenire solo in una dimensione onirica, e questo componimento ci porta proprio in questa dimensione. Il poeta si chiede come potrà reggere alla mancanza del figlio, a così tanto buio che non è illuminato dalla luce della presenza del figlio Antonietto.

Nel componimento Giorno per giorno, formato da diciassette movimenti, Ungaretti instaura proprio questo dialogo mentale con il figlio che non c’è più. Nel movimento terzo utilizza nel verso finale un condizionale, si chiede quali orrori la vita potrà portargli e pensa a come il figlio avrebbe potuto consolarlo, e sa che ogni cosa ora non è più possibile, il condizionale diventa allora un condizionale della irrealtà. La parola “orrori”, che qui appare, è una parola forte che tuttavia appare spesso in Ungaretti, anche nei cori della Terra Promessa.

Queste brevi poesie non sono di illuminazione lirica, ma di narratività con una forte musicalità di base, vogliono mettere a fuoco il racconto del suo rapporto col figlio che oramai è solo mentale e onirico. I punti di sospensione ci lasciano in questa dimensione tra il detto e il non detto, ci dicono che farà ancora preso dalla macchina della vita, pur portandosi dietro questa grandissima mancanza.

Nella Terra Promessa avrà invece come modello archetipico l'Eneide, è un'esperienza poetica individuale e monodica ma anche corale perché è la sua esperienza ma anche di tutta la civiltà durante la guerra. Anche la generazione nasce, vive e muore come il singolo individuo.

Si viene a creare questa vicenda legata a questi due personaggi, Enea e Didone, che non vengono tuttavia nominati, sono personaggi senza nome che vivono anche nella tragicità del non essere mai nominati. Non ha il coraggio di nominare.

Didone rappresenta una città in rovina, una città distrutta ma rappresenta anche se stessa come abbandonata da Enea perché egli deve seguire un destino programmato dagli Dei per raggiungere l'Italia e Roma.

Il lettore deve essere colto, deve conoscere le vicende dell'Eneide per poter capire La Terra Promessa.

Nel XVIII coro notiamo che la sintassi è molto tesa, rappresenta l'animo dei due personaggi che viene reso attraverso queste inversioni sintattiche.

Sono due strofe in cui viene descritta un'atmosfera infernale simile a quella del canto XIII dell'inferno dantesco. C'è un realismo ma di tipo tutto mentale che descrive da una parte una civiltà del tutto in rovina. Gli unici esseri viventi sono questi aironi cinerini, da l'idea di una natura desolata alla Elliot. È un'atmosfera di fetore, di odori e di qualcosa di negativo. È tutta una dimensione di negatività che riprende la realtà dell'Italia del dopoguerra.

È molto diversa dalla retorica fascista dell'Enea che ricostruisce l'impero, qui è angosciato perché vorrebbe rimanere con Didone.

Nel XIV coro ci sono variazioni ritmiche sullo stesso tema. Enea e Didone riversano la loro frustrazione attraverso la sintassi di tipo narrativo. C'è una forte sofferenza iniziale, “per patirne” è l'attacco di entrambe le strofe e rende bene la dimensione di sofferenza. Questo “mai più” che si ripete è una ripresa di “never more” del Poe del Corvo, è una sorta di refrain che si ripete come implorazione. Gli occhi di Didone sono senza luce ed espressione perché non hanno più le lacrime per piangere, il dolore non si esprime più attraverso il pianto. Didone non riesce più a comunicarlo questo dolore dell'abbandono, qui c'è proprio il massimo del melodramma sostenuto dal rapporto tra gli occhi di lei e gli occhi di lui. Tutto questo lo disse già Virgilio, ma in Ungaretti questi personaggi si esprimono in un gioco di sguardi quasi teatrale oltre che melodrammatico e di silenzi.

Non ci sono rime ma ci sono variazioni foniche sulle stesse vocali, dei richiami fonici nonché ripetizioni e ci sono tutta una serie di epiteti sdruccioli. Nell'Ungaretti dell'allegria gli epiteti non c'erano più ma ora ritornano. Enea è visto con gli occhi di Didone ed è il punto di vista delle rovine della generazione e del suo animo devastato da questo amore oramai impossibile. Enea diventa il depositario di questa rovina personale e generazionale.

Ungaretti riprende dall'Eneide ma poi ricostruisce i personaggi che diventano moderni e novecenteschi, l'archetipo è classico ma viene riusato in modo moderno. Quest'attesa di qualcosa che deve venire che è legata alla rovina, perché l'uomo del novecento sente il peso di chi non riesce a combattere il male.

Non ci sono punti di riferimento né spaziali né temporali, il poeta non vuole darli perché il lettore deve farli affiorare da solo e coglierli perché la poesia ha un enigma di fondo che deve decriptarlo, è la necessità di un lettore colto.

Ciascun coro mette in luce lo stato d'animo di questa protagonista.

Il Recitativo di Palinuro: Palinuro è il fedele nocchiere di Enea, racconta la sua storia di come cade nel sonno e dal sonno come si trasforma in roccia. Palinuro racconta di questa sua metamorfosi. La fedeltà è espressa nella roccia di questo Capo Palinuro che testimonia la fedeltà di Palinuro ad Enea.

L'uomo si trasforma in un luogo: quello scoglio ingigantito nel quale la disperata fedeltà di Palinuro ha trovato forma nei secoli. Ungaretti lo descrive e lo narra per bocca del personaggio.

C'è una sintassi piena di tensioni, una sintassi scavata nelle pieghe delle inversioni, negli iperbati, per cui il lettore si deve orientare per trovare quella che è la scansione lineare del verso. Ci vuole ricordare che questa metamorfosi è sofferta, dove si esprime il disagio esistenziale di un personaggio che vuole essere fedele fino alla morte ad Enea. Questa metamorfosi avviene in una dimensione onirica dove tutto è possibile, dietro quel luogo si percepiscono i simboli e i meccanismi della trasformazione da un personaggio che palpita ad un luogo che non palpita più. Non c'è quindi una dimensione di razionalità.

Questo sonno in cui Palinuro precipita è un sonno improvviso di cui lui non è cosciente, come la poesia che ti sgorga dentro in una dimensione d'incoscienza perché l'ispirazione non arriva in una dimensione di razionalità, si guarda qualcosa, si prende un appunto e da quell'appunto uscirà una poesia.

Il modello è petrarchesco, sono tutte sestine, vi è una sorta di gabbia metrica in cui scivola il personaggio. La prima strofe presenta parole rima che si ripeteranno in tutte le strofe. Sono le stesse parole che vengono strutturate in un ordine diverso.

Sono presenti gerundi, che indica la continuità di un'azione, e il participio presente, che indica l'attimità di un'azione. C'è la furia di questi sogni che crea lo sprofondare dalla coscienza all'incoscienza. Il sonno nel quale i rumori si attutiscono, un sonno senza rumore, è felpato. Il rumore perde la sonorità e diventa visione. La pace viene in qualche modo avvelenata da echi remoti del mare.

La metamorfosi avviene allora in una dimensione di silenzio perché i suoni sono onirici. C'è una desertificazione data appunto dal sonno che crea quelle che sono le condizioni per la metamorfosi.

C'è una sorta di naturalezza che è però anche tarlo in furia, soccombe in una pace che è quella onirica. Si crea una sorta di sfida con il sonno, non vorrebbe cadervi ma il sonno è più forte di lui, vi sono dei risvolti psicologici notevoli.

Nell'ultima parte, con questo congedo, concentra tutte le parole rima delle strofe precedenti. L'emblema è il modello di questa trasformazione e metamorfosi che è appunto il finto emblema, poi il suo emblema e poi il deserto emblema, emblema di speranza, disperso emblema ed infine emblema della pace.

C'è questa funzione del racconto che è dialogica, attraverso il dialogo si raccontano le tappe di questa metamorfosi che avviene nel sonno per trovare pace di Palinuro legata alla fedeltà di Enea che diventa un antieroe perché lui non vorrebbe seguire questo destino che gli Dei gli affidano.

È questa oscillazione, questa angoscia del personaggio che stride in questa gabbia metrica espressa nelle parole rima.

Enea compie il suo viaggio al di là di tutto, un viaggio di costrizione e forse non voluto perché il suo sentimento amoroso vorrebbe essere più forte. Il destino dell'uomo del novecento fa diventare Enea un antieroe nelle sue angosce che lo mettono in crisi continuamente.

Il modello, dice Ungaretti, è proprio Petrarca, la sestina con questo gioco delle parole rima porta risultati musicali in questo melodramma che è la terra Promessa. Quella che scrive Ungaretti è un'Eneide capovolta che vede i drammi e i dubbi dell'uomo del novecento traslitterandoli in modo tale che si discostino da una classicità fascista per raggiungerne una propria.

Anche Palinuro è un punto di vista estraneo in un cui si perde l'emblema del personaggio Enea. L'Eneide è un punto di riferimento ma reinterpretato da un punto di vista novecentesco.

La sintassi del recitativo è contorta perché vuole dare il senso di questo smarrimento di Palinuro, uno smarrimento profondo ma non insensato, che porterà il personaggio a seguire la via della fedeltà fino alla sua metamorfosi.

Letteratura Italiana Contemporanea 31.10.13

Vincenzo Cardarelli nasce il 1 maggio 1887 nei pressi di Viterbo da un’umile famiglia e senza mai conoscere la madre che morirà giovanissima.

Entrando nel mondo umanistico dell'epoca, collaborando con la rivista “La Voce”, diventerà in seguito l’ideologo e direttore della rivista “La Ronda”, pubblicata a partire dal 1919 e impostata come rivista di restaurazione classica, una classicità intrisa di spirito novecentista lontano comunque dalla neo-ideologia fascista che stava prendendo piede.

Scriverà un vero e proprio manifesto per la rivista, nel primo numero vi è difatti un prologo firmato dal suo stesso direttore. È però un prologo molto diverso dai manifesti del futurismo: per Cardarelli il ritorno all'ordine significa ritorno sì ai classici, ma come già detto, si parla di una classicità perturbata come quella che si percepisce nei quadri di De Chirico.

C'è una sorta di allontanamento dell'artista, che vuole stare lontano dalle masse e dalla realtà politica italiana. Allo stesso tempo è contrario a tutta la sperimentazione del futurismo ed a quanto personaggi come D’Annunzio stavano portando avanti.

Cardarelli porterà avanti uno stile di compenetrazione tra prosa e poesia, difatti secondo lui prosa e poesia si influenzano a vicenda anche se non si mescoleranno mai completamente pur facendo della prosa lirica il suo punto di riferimento letterario.

Lo stile di Cardarelli è uno stile classico novecentista, come enunciò nel prologo della rivista La Ronda, il suo obiettivo è quello di trovare l’armonia delle cose ricercandone una logica. Il ritorno ai classici diventa allora un’operazione di prim’ordine in quanto è simbolo da una parte di confronto dalla realtà e dall’altra di allontanamento da essa.

Un’altra importante concezione è quella dell’eternità della poesia, che verrà ripresa soprattutto perché Cardarelli verrà influenzato da poeti simbolisti quali Rimbaud e Baudelaire, facendosi anch’egli portavoce di quella poesia simbolista che diventava un oggetto alla portata di pochi e per pochi eternamente presente nel tempo, in un turbinio di simboli che il poeta-sacerdote deve porci davanti.

Altro tema presente è quello del mito, come Ungaretti prese Enea, qui Cardarelli ci presenta Ajace, protagonista dell’Iliade, figlio di Telamone re di Salamina. Pubblicherà questo poemetto nel 1932 rielaborando la tradizione, partendo quindi da Omero, passando per Sofocle ed arrivando a Foscolo. Già come fece Ungaretti, sceglie Ajace non tanto per configurarlo come eroe, ma per mostrarcelo come l’antieroe, al pari di quello novecentesco, che forse può più darci esempio di eroismo rispetto, ad esempio, ad un Achille. Questo non tanto perché è un vinto, ma perché è un essere completamente umano che compie azioni umane ed allo stesso tempo non richiede l’aiuto degli dei per le sue missioni ma le compie da solo. Importante anche l’aspetto morale ed epico.

Letteratura italiana contemporanea – 05.11.13

Nella produzione di Cardarelli, viene fuori questa idea di vincitore vinto con cui ci si proietta molto bene: ci sentiamo sicuramente più nei panni di Ajace che in quelli di Ulisse o Achille.

Vi è una apparente prevalenza del significante, che in realtà serve solo per sostenere il significato, che emerge e diventa il punto forte della poesia.

Tipicamente in Cardarelli emerge quasi sempre la presenza ossessiva della morte. Qui abbiamo un'invocazione all'alba come momento di risveglio dopo la tortura notturna dell'insonnia. Allora l'alba viene personificata come una dea, e il titolo della poesia è proprio Alba:

Vi è un'unica strofe, una lassa, che si sviluppa in verticale quasi come fosse un inno.

Un fiume rapinoso = un fiume in piena ed allo stesso tempo infernale e scuro perché è anche il fiume del suo tormento.

Aggiunge dei particolari a questa Alba/donna che giunge a lui, quasi fosse un fantasma algido e distaccato, così com'è il suo viso che quasi spaventa l'io lirico.

C'è nel finale una forma di resurrezione dal fiume rapinoso, si libera dall'onda tenebrosa e affranto, perché è in una situazione che non riesce più a sostenere, si riduce al suo sonno di pietra, come in una gabbia che contiene i suoi sogni e la sua creatività.

“Mare di luce incerta” è una apposizione analogica, astratta perché quella dell'alba è una luce incerta in cui tutto sfocia. È una luce incerta ma non sfocata, non legata a quella che fu la dissolvenza di tanti poeti del novecento, in questo percorso non c'è un passaggio dal non detto al detto, qui la classicità di Cardarelli che sta in tutta quest'ansia definitoria, in questo percorso logico dei suoi passaggi precisi, nel percorso dal buio alla luce. Nell'apostrofe si esprimono i termini di questo passaggio. È un erebo classico che diventa erebo dell'uomo del novecento, verso un oltremondo della psiche, perché il tormento è dentro l'uomo ed è definito con i termini della classicità che non sta fuori dall'uomo ma dentro, in questa conquistata serenità interiore dopo il buio.

Si sente molto l'eredità foscoliana della morte, Cardarelli si costruisce i propri sepolcri, l'erebo del proprio quotidiano.

“Elegia etrusca” è una prosa lirica con tutta una serie di accorgimenti di tipo fonico, timbrico e sintattico. La sintassi è di tipo binario, c'è una simmetria che fa si che la prosa si avvicini sempre più alla poesia.

Il soggetto preponderante è la morte che si rivela solo alla fine, è una poesia del ricordo dei luoghi, delle radici. La stessa natura aspra del suolo che si erge e precipita è in costruzione binaria, è come se la natura volesse fare da filtro a quella che è davvero la realtà. È un esempio di prosa lirica che Cardarelli prediligeva rispetto alla poesia.

SALVATORE QUASIMODO:

Nasce a Modica nel 1901 e muore a Napoli nel 1968 ricevendo il premio Nobel nel 1959 per la letteratura.

La sua seconda città sarà Milano, partecipando attivamente alla vita culturale, avendo fitta attività giornalistica, e insegnando letteratura italiana al conservatorio Giuseppe Verdi.

Il rapporto con la classicità di Quasimodo è fortissimo, si considera un siculo-greco. Grecità per un motivo ben preciso: la retorica fascista incarnò le imprese di Enea e dell'impero, lui essendo antifascista convinto si rivolgerà più alla classicità greca che latina.

Pubblica nel 1930 acqua e terre, nel 1932 Oboe sommerso e nel 1936 Erateo e Apollion.

Nel 1942 pubblica Ed è subito sera, che riprende le prime raccolte in modo antologico, e poi una nuova sezione chiamata “Nuove Poesie”, contiene poesie che hanno una struttura e una rilevanza diversa rispetto alle prime tre. Nelle prime vi è un Quasimodo ermetico, una poesia sillabata e asciutta, che predilige l'indeterminato al determinato e che ha come modello il simbolismo francese in cui l'astrattezza e l'analogismo sono le caratteristiche fondamentali. Le parole sono circondate di silenzio, i versi sono brevi e la trama fonico timbrica è curatissima e difficile da interpretare.

Queste nuove poesie invece si aprono al canto: apre i suoi versi, li allunga e indugia al racconto. Sono poesie che nascono durante le atrocità della guerra e che si aprono a poco a poco e diventano meno difficili. Così, nella nuova raccolta del 1946 “Giorno dopo giorno”

La vita non è sogno 1949

Il falso e vero verde (1954), influenzata da Neruda

La terra impareggiabile (1958)

e l'ultima raccolta “dare e avere” del 1966.

Il primo Quasimodo è poeta e traduttore perché nel 1940, proprio all'inizio della guerra, esce una traduzione interessante “I lirici greci” con la introduzione di Luciano Anceschi. Quando uscì fu una rivelazione tanto è vero che nacque la definizione di stile da traduzione. Il poeta diventa traduttore nel suo stile. Quasimodo conosce il greco tardi, cominciò studi tecnici inizialmente, difatti imparò il greco da adulto grazie ad un gesuita.

Questi lirici condizionano la sua poetica, i frammenti e questi testi acefali che sono stati tramandati con dei vuoti lo condizionano nei suoi versi che spesso sono circondati di silenzio e da poche parole. Fa delle traduzione personalissime che fanno infuriare i filologi classici secondo la sua ispirazione creando qualcosa di nuovo e formidabile.

Per cui si parla di classicizzazione dell'ermetismo, lui applica quelle che sono le caratteristiche dell'ermetismo a queste traduzioni. Predilige le parole astratte, i nessi indeterminativi, le parole senza articolo che affiorano senza nessi. È difficile di interpretare perché le parole naufragano senza margine nella pagina, i nessi li deve trovare il lettore. I filologi classici ci dicono che le sue traduzione sono completamente infedeli.

Vita Nascosta fa parte della raccolta del 1932 “oboe sommerso”

c'è un rapporto strettissimo tra la scoperta della parola sillabata e ricostruita e la scoperta degli archetipi mitici legati al paesaggio notturno. La parola è fatta di sillabe e il paesaggio è fatto di pochi archetipi attraverso cui si ricostruisce l'insieme. La ricerca poetica si basa allora su questa scoperta. È una poesia difficile perché è una giustapposizione di parole e versi sconnessi tra loro.

Il notturno cresce per negazioni, il tempo e lo spazio sono condizionati da questa situazione notturna in cui manca la luce. In questo stato di sonnolenza il paesaggio si abbandona.

Telai di suoni e chiarità improvvise = sinestesia.

Ritorna l'effetto fonico attraverso questa dimensione di silenzio, vi è una solitudine che è proiettata all'esterno, ma questa non è solitudine del corpo, non solo del corpo, è soprattutto una solitudine dell'anima.

Letteratura Italiana Contemporanea 06.11.13

Il Quasimodo traduttore dei lirici greci è altamente creativo, probabilmente condizionato dal suo modo di fare poesia dall’interno dell’ermetismo. I filologi non apprezzarono proprio per questo, perché lui applica il suo stile ermetico alla traduzione dei classici, fa di questi frammenti uno spunto per una creazione nuova, per rendere l’attualità del classico.

La scelta della traduzione dal greco, come già detto precedentemente, è anche una scelta politica dato che i fascisti vedevano nel mondo latino il modello dello stato fascista.

Nel 1942 però tradurrà anche Virgilio (si ricordi che nel ’30 vi furono le celebrazioni del bi millenario), ma non sceglierà l'Eneide, opterà piuttosto per una scelta antologica delle Georgiche, il poema agreste legato appunto all’agricoltura, in cui, ci dice, si può percepire la profonda umanità di Virgilio, riconoscerci antichi per quel sentimento di solitudine che è il riflesso della pena dell’uomo, del dolore in senso assoluto che travalica il tempo e fa toccare l’eterno. Virgilio gli serve per aprirsi al canto: dai versi brevi e asciutti, qui si arriva ai versi lunghi del Quasimodo delle nuove poesie che raccontano la guerra e la ricerca dell'antico come ricerca di valori assoluti dell'uomo che trascende il tempo che tuttavia si relativizza per la presenza della morte.

Il 1936 fu l’anno della proclamazione dell'impero fascista, nel 1938 vengono emanate le leggi razziali, anni dunque densi e dolorosi. Per un letterato era veramente un dolore ed una umiliazione vivere questi episodi storici, per cui il rapporto con il mondo classico diventa una fuga dal presente. Quindi nella poesia “Nel senso di morte”, abbiamo una dimensione che va al di là del presente storico. Incarna la vita sotterranea del oboe sommerso, quella che rimane sotto il velame notturno del buio.

Sono tre strofe, due di eguale ampiezza mentre la terza è un distico che chiude la poesia in modo gnomico. L’attacco è contraddistinto da una macchia di colore e da un rallentamento che dal’incontro di due parole sdrucciole: ceruli alberi, sono due sdruccioli contigui che rallentano il verso, e questi alberi recepiscono un suono più dolce e attraverso le nuove piogge danno al lettore un senso di rinnovamento, dato appunto da qualcosa di sensoriale.

Una fronda di questi alberi provoca una oscillazione in cui l'aria e la luce s'incontrano come se andassero a nozze, ci sono questi elementi archetipici, la luce e l’aria, che s'incontrano e determinano uno stato di docilità perché si assecondano a vicenda e s’incontrano come in un incontro amoroso. Questa dimensione idillica della natura, in cui non si percepisce il senso di morte, si contrappone negli ultimi due versi, che chiudono la poesia come una sentenza, con l'io lirico che compare e ha questa percezione di morte e di fine. Qui la morte si ricollega all'amore con una sensazione di panico e spavento a causa di questo senso della fine, ogni vicenda umana legata alla dolcezza dell’amore, lo spaventa perché ogni cosa finisce e il senso di morte rimane. “Eccomi” è un'altra parola sdrucciola.

C'è questo senso di rinascita ed al tempo stesso di morte, per cui la situazione irenica viene toccata da una scheggia di dolore che turba il tutto e che può far pensare al Rilke dei sonetti ad Orfeo.

Questo ritorno all'antico, questa lettura dell'antico come dimensione assoluta, quasi di eternità della poesia, è però turbata dal senso di finitezza dato dal dolore e dalla situazione attuale dell'uomo.

Analisi di alcuni testi dei Lirici:

C'è una freschezza data dalla scoperta della parola poetica antica eterna. Quasimodo taglia e cuce a suo piacimento senza alcuna rispondenza filologica.

La prima poesia presa in analisi una traduzione della poetessa Saffo, Quasimodo cuce cinque frammenti e ne fa un'unica poesia.(tramontata è la luna).

I cinque frammenti sono così distribuiti: il primo corrisponde alla prima strofe di quattro versi, la seconda strofe contiene in sé due frammenti, la terza strofe ne contiene altri due.

Si parte da un notturno, dal tramonto della luna quindi dopo che la luna tramonta il buio è totale, tramontano anche le pleiadi. Questo tramonto fa si che la poetessa pensi anche al tramonto della sua giovinezza che si dissolve, e lei prova un senso di solitudine e di buio che subentra.

Giovinezza è in greco “ora” ovvero ora del tempo e primavera, quindi giovinezza. Ha un tempo individuale legato alla vita dell'uomo e della poetessa.

La seconda strofe, la più lunga, è molto erotica, c'è Eros che penetra nella natura ed è paragonato al vento e scuote la poetessa dal di dentro. La natura viene quasi antropomorfizzata, anch'essa scossa dal vento, che riporta al vento infernale dei lussuriosi della divina commedia. Vi è un terremoto che ti scuote dentro, in questo sta la carnalità e l'erotismo.

C'è un “Ma” che non è nel testo greco, c'è solo “a me non ape e non miele”, per dichiarare la propria solitudine, l'io lirico è stato abbandonato dalla sua amata, qui c'è il senso del non ape e non miele, nel non appagamento del desiderio.

Il punto di partenza è proprio Leopardi dell'ultimo canto di Saffo e dell'Ultimo canto della luna.

Sergio Solmi nell'introduzione ad Erato ed Apollion ci dice che Quasimodo crea una illusione di canto dopo la distruzione di tutte le illusioni, la distruzione a avviene nella guerra. Distruzione storica oltre che poetica, ma Quasimodo riesce a creare una nuova illusione di canto.

La poesia ci raffigura allora questo terremoto della natura, del cuore e dell'animo che porta alla coscienza di una solitudine infinita che parte da una scena notturna del paesaggio per entrare dentro gli elementi del paesaggio e soprattutto dentro l'io lirico.

Nei lirici greci Quasimodo raccoglie diciassette poeti greci.

Alcmane, uno di questi, fu un poeta spartano vissuto nel settimo secolo avanti Cristo, la poesia è Dormono le cime dei monti.

Quasimodo fa di un frammento unico tre strofe, nel testo greco c'è un solo dormono iniziale e uno finale, ma qui ne fa una parola tematica come attacco alle strofe. C'è una distinzione tra mondo inanimato e mondo animato. Il mondo animato è caratterizzato dalla cime dei monti, mentre dormono è parola sdrucciola che crea rallentamento.

La nera terra nera è un epiteto fisso, usato anche da Omero, che servivano agli Aedi per recitare i testi agevolandone la memoria.

Nel fondo cupo del mare possono esservi solo mostri, qualcosa di inquietante. Si parte dalle cime dei monti e si torna all'alto dopo essere passati dalla nera terra e dal fondo cupo del mare. Gli esseri sono tutti invasi dal sonno, pieni di inerzia.

Quasimodo gioca sui due ruoli del poeta e del traduttore che s'influenzano a vicenda. Il sonno delle selve è una proiezione del letargo degli uomini, portandosi dietro un forte valore simbolico. Qui sta la modernità di questi testi del sesto e settimo secolo avanti Cristo.

Un altro frammento è “A me non da quiete” (titolo sintagma all'interno della poesia.

Il canto non allieta soltanto, non da solo gioia, ma il canto è evocativo di una rovina interiore, di qualcosa che dentro è morto e si è distrutto e dell'angoscia. La poesia ha sempre un costo, ed il prezzo è il dolore. Stesicoro ce lo dice sei sette secoli prima di Cristo. La scheggia di dolore è una scheggia antica ma eterna. Il canto non da né quiete né serenità quindi il dolce e sonante flauto che suona è un intreccio di voci soprattutto quando attacca a suonare e l'attacco preannuncia soavissimi canti (superlativo, indica una dolcezza superlativa che nasce dalla constatazione della rovina e del dolore che è nuova ed antica insieme). Anche il canto di Saffo aveva un qualcosa di sconvolgente ed inquieto, anche quello aveva schegge di dolore in sé che raccontano il destino degli uomini attraverso una voce o molte voci.