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0 L’EVOLUZIONE DEGLI STUDI DI STRATEGIA * di Antonio Ricciardi * Estratto da Fabbrini G. e Montrone A. (a cura di), Economia aziendale. Aspetti evolutivi, letture e casi aziendali,Volume II, Franco Angeli, Milano, in corso di pubblicazione

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L’EVOLUZIONE DEGLI STUDI DI STRATEGIA *

di Antonio Ricciardi

* Estratto da Fabbrini G. e Montrone A. (a cura di), Economia aziendale. Aspetti evolutivi, letture e casi aziendali,Volume II, Franco Angeli, Milano, in corso di pubblicazione

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L’EVOLUZIONE DEGLI STUDI DI STRATEGIA

di Antonio Ricciardi

1. Premessa Gli studi sulla strategia aziendale sono preceduti da un filone di studi di

politica aziendale. Negli Stati Uniti, gli studi di politica aziendale vengono introdotti in

ambito universitario nel 1911, quando viene istituito il primo corso di bu-siness policy presso la Harvard Business School per fornire risposta alle esigenze dei manager di definire regole di comportamento per governare le aziende.

La business policy, caratterizzata da un forte orientamento al problem solving tipico delle business school, pur sforzandosi di individuare regole e comportamenti da adottare al verificarsi di determinate situazioni, resta una disciplina di natura operativa e con scarso fondamento teorico.1 In al-tre parole, «in assenza di una solida impostazione teorica di base, la busi-ness policy ha assunto una connotazione soggettiva, concentrata soprattut-to sulla definizione e sull’analisi di strumenti decisionali per il persegui-mento di obiettivi specifici, rinunciando in questo modo ad un preliminare studio del significato oggettivo dei fenomeni aziendali».2

Situazione diversa si presenta invece in Italia e in Germania, dove si af-ferma una disciplina economico-aziendale con una propria autonomia scientifica. L’obiettivo è fondare una scienza applicativa che, attraverso astrazioni teoriche, fosse in grado di individuare regole di comportamento utili all’operare concreto delle imprese.

A differenza della business policy americana, gli studi di economia a-ziendale della Scuola di Colonia e quelli italiani dello Zappa hanno avuto quale fine la ricerca di un equilibrio generale per l’impresa in relazione con l’ambiente esterno e le variabili interne. 1 Gli studi di business policy restano vincolati a precise esigenze di carattere professionale ed hanno suscitato uno scarso interesse da parte degli studiosi. Cfr. ONIDA, Le discipline economico aziendali. 2 Cfr. BERETTA ZANONI, Strategia e Politica Aziendale. Negli studi italiani e internazionali, p. 5.

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2. Gli studi di strategia: concetti introduttivi La parola strategia (dal greco strategía che significa comando

dell’esercito) è mutuata dal linguaggio militare e numerosi studiosi hanno trattato di strategia facendo tesoro dei principi strategici militari.3

Mentre nelle scienze aziendali, la strategia riguarda l'individuazione di fini e di obiettivi da conseguire attraverso l'adozione di adeguate linee di azione e l'impiego delle risorse necessarie per ottenerli,4 nell'accezione mi-litare, lo stratega è colui che organizza e coordina le risorse belliche al fine di raggiungere gli obiettivi (offensivi o difensivi) prefissati.

Il concetto di strategia si diffuse nella pratica manageriale statunitense nella seconda metà del '900 e solo successivamente venne elaborato dagli studiosi di management.5

L’orientamento professionale che ha caratterizzato gli studi di strategia ha prodotto rilevanti carenze metodologiche e di sistematizzazione teorica.

In particolare, il taglio prevalentemente pragmatico degli studi nord-americani ha comportato come conseguenze: un accumulo di conoscenze parziali ed esperienze particolari legate al caso concreto oggetto di studio, con evidenti difficoltà ad individuare regole di condotta valide per tutte le imprese; ha favorito l'elaborazione di concetti di strategia profondamente diversi e difficilmente comparabili, per cui si è resa problematica una si-stemazione teorica dell'argomento; ha evidenziato una forte tendenza al precettismo, cioè a fornire per ciascun evento indagato regole e indicazioni precise, la cui efficacia non era sempre verificata.6

Sotto questo profilo, le prime definizioni del concetto di strategia nei testi specialistici appaiono superficiali, poco approfondite, a volte non e-splicitate, mentre i contributi dei diversi autori non evidenziano collega-menti teorici e concettuali con altre scuole e si presentano estremamente diversi tra loro.7

Fatta questa premessa, attraverso un rapido esame di alcune delle prin-cipali definizioni date dagli studiosi di management sul concetto di strate-

3 Per ulteriori approfondimenti si vedano, tra gli altri: CLAUSEWITZ, Della guerra; SCHELLING, The Strategy of Conflict; JAMES, Business Wargame. 4 Al riguardo si veda il capitolo “L’orinetamento, la gestione e la pianificazione strategica dell’impresa” nel I Tomo di questo libro. 5 Furono infatti le società di consulenza a gettare i fondamenti della disciplina, sviluppan-done i contributi più stimolanti. Lo strumento strategico delle matrici di portafoglio venne ideato, ad esempio, alla fine degli anni sessanta da una delle principali società di consulen-za americane, la Boston Consulting Group e successivamente ripreso e rielaborato da un’altra società di consulenza, la McKinsey. Cfr. AA.VV., Perspectives on Corporate Stra-tegy. 6 Cfr. FABBRINI, Le strategie aziendali, pp.31-32 7 Cfr. ZAN, Strategia d’impresa: problemi di teoria e di metodo.

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gia, proveremo a seguire l’evoluzione che la nozione del fenomeno ha su-bito nel corso del tempo.

2.1 La scuola di Harvard I primi studi organici sulla strategia aziendale sono attribuiti alla scuola

di Harvard che ha tra i suoi maggiori rappresentanti Alfred Chandler e Kennet Andrews.

In realtà, il primo autore ad affrontare il tema della strategia, seppure in maniera ancora non organica, fu Peter Drucker (1954). Drucker definiva la strategia come lo strumento utilizzato dall'impresa per rispondere a do-mande come “qual è la nostra attività?”, “quale sarà la nostra attività?” e “quale dovrebbe essere?”, considerati i vincoli e le opportunità dell'am-biente esterno.8

DRUCKER

Quando chiedersi «qual è la nostra attività?» La maggior parte dei manager, se mai si pongono questa domanda, lo fanno

quando l’impresa è in difficoltà. Tuttavia, aspettare finché un’impresa è in crisi è come giocare alla roulette russa: è segno di un management irresponsabile. La domanda dovrebbe essere posta al momento della nascita di un’impresa, in parti-colare se si tratta di un’impresa che ha ambizioni di crescita. Sarebbe bene se un’impresa del genere partisse con una chiara concezione imprenditoriale.

Non è facile per il management di una società che ha successo porsi la doman-da di cui stiamo trattando. Tutti pensano in quel momento che la risposta sia così ovvia da non meritare una discussione. Non è mai gradito mettere in discussione il successo.

Gli antichi greci sapevano che la punizione per l’arroganza del successo era severa. Il management che non si chiede «qual è la nostra attività?» quando l’azienda è prospera, in realtà è presuntuoso, pigro ed arrogante. In breve il suc-cesso dell’azienda si trasformerà in un fallimento.

Quando un management realizza gli obiettivi dell’impresa, è allora che esso dovrebbe chiedersi «qual è la nostra attività?». Ciò richiede autocritica e respon-sabilità: ma l’alternativa è il declino.

8 Cfr. DRUCKER, The practice of mangement.

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«Quale sarà la nostra attività?» Prima o poi anche la risposta più corretta alla domanda «qual è la nostra attivi-

tà?» diventa superata. Pochissime definizioni dello scopo e delle scelte di fondo di un’impresa sono

destinate a durare 30 o 50 anni: una validità di 10 anni è probabilmente quanto ci si può normalmente aspettare.

Interrogandosi sull’attività e la funzione della propria impresa, il management deve perciò aggiungere anche «quale sarà? quali mutamenti nell’ambiente circo-stante è già possibile intravedere, che possano avere un’influenza determinante sulle caratteristiche, sulla funzione e sullo scopo della nostra impresa?» e «come inserire ora queste anticipazioni nella nostra teoria dell’impresa, nei suoi obiettivi, nelle sue strategie e nella progettazione del lavoro?»

Il mercato, le sue capacità potenziali e le sue tendenze costituiscono il punto di partenza. Che ampiezza potrà avere il mercato della nostra impresa in un arco di 5 o 10 anni, supponendo che non vi siano cambiamenti fondamentali nei clienti, nel-la struttura del mercato stesso o nella tecnologia? E quali fattori potranno aiutarci a verificare la validità o meno di queste proiezioni?

Il management ha bisogno di prevedere i mutamenti nella struttura del mercato derivanti dai mutamenti dell’economia, della moda o del gusto; e dalle iniziative della concorrenza. E la concorrenza deve sempre essere definita secondo la conce-zione che il cliente ha del prodotto o del servizio che egli compera (e per concor-renza si deve intendere quella indiretta non meno di quella diretta).

Infine, il management deve chiedersi quali esigenze del cliente non vengono adeguatamente soddisfatte dai prodotti o servizi a sua disposizione. La capacità di porsi questa domanda e di rispondervi correttamente di solito distingue un’azienda in espansione autonoma da un’altra che dipende per il proprio sviluppo dalla cre-scita generale del settore industriale o dell’economia: chiunque si accontenti di sollevarsi con un’ondata ricadrà inevitabilmente con essa.

«Quale dovrebbe essere la nostra attività?» La domanda «quale sarà la nostra attività?» ha come scopo l’adattamento ai

mutamenti che si prevedono, mira a modificare, estendere e sviluppare l’attività esistente.

Ma è necessario chiedersi anche «quale dovrebbe essere la nostra attività?», cioè quali occasioni si stanno presentando o si possono creare per realizzare lo scopo e la funzione dell’impresa trasformandola in una diversa impresa.

È assai probabile che, non ponendosi questa domanda, molte imprese perdano le loro migliori occasioni.

Fonte: DRUCKER, Manuale di management: compiti, responsabilità, metodi, pp. 98-104

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Nel 1957, Selznick, all’interno del saggio Leadership in Administra-tion,9 sostiene che, nel determinare gli obiettivi, l’impresa debba conside-rare non solo opportunità e minacce provenienti dall’ambiente esterno, ma anche i propri punti di forza e di debolezza, al fine di evidenziare cosa essa sia in grado di fare e come debba fare, tenuto conto dei condizionamenti esterni. Momento propedeutico alla determinazione dei fini diventa l’individuazione delle competenze distintive. È Selznick, infatti, a coniare per primo il termine di competenze distintive, poi ripreso dalla scuola di Harvard.

Da queste prime elaborazioni teoriche sul concetto strategico si svilup-pa, all'inizio degli anni Sessanta, presso la Scuola di Harvard, l'approccio "classico" alla strategia aziendale. Il principale rappresentante della Scuo-la, lo storico d’impresa Alfred Chandler (1962),10 definisce la strategia come “la determinazione delle finalità e degli obiettivi fondamentali a lun-go termine di un’impresa e l’adozione delle politiche necessarie per la loro realizzazione”. L'Autore, inoltre, delinea un'immagine di impresa aperta e reattiva nei confronti dell'evoluzione dell'ambiente esterno: le imprese in-terpretano i segnali provenienti dal contesto esterno e rispondono mediante l’elaborazione delle strategie; i risultati delle strategie dipendono, pertanto, dalla capacità dell'impresa di interpretare gli input che provengono dal-l'ambiente esterno.

Tuttavia, l'elemento più rilevante della teoria di Chandler riguarda il rapporto tra strategia e struttura organizzativa: l'adattamento dell'impresa nei confronti dell'evoluzione ambientale comporta un assetto organizzativo adeguato e coerente. La scelta strategica deve essere sempre impostata in rapporto alla struttura organizzativa aziendale: un mutamento del disegno strategico implica, necessariamente, un adattamento del modello organiz-zativo e quando ciò non avviene l'attuazione della strategia può incontrare ostacoli tali da pregiudicarne i risultati.

CHANDLER Si può definire strategia la determinazione delle mete fondamentali e degli o-

biettivi di lungo periodo di un’impresa, la scelta dei criteri di azione e il tipo di allocazione delle risorse necessarie alla realizzazione degli obiettivi suddetti.

La decisione di espandere il volume di affari, di creare impianti e filiali lontane dalla sede originaria, di entrare in nuovi settori di attività o diversificare l’attività tra molte linee di produzione comportano la definizione nuovi obiettivi di fondo. Si devono stabilire nuovi criteri d’azione e si devono ridistribuire le risorse per 9 SELZNICK, Leadership in Administration: a Sociological Interpretation. 10 Cfr. CHANDLER, Strategy and structure: chapters in the history of Americcan industrial entreprise.

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conseguire questi risultati e mantenere ed espandere le attività dell’impresa in nuove aree; questo può avvenire in risposta ai mutamenti della domanda, alla di-versificazione delle fonti di rifornimento, alle fluttuazioni economiche generali e all’azione della concorrenza. L’adozione di una strategia non solo può portare all’assunzione di un nuovo tipo di personale e di nuove risorse e alterare l’orizzonte economico dei responsabili dell’impresa, ma può avere altresì un pro-fondo effetto sulle forme organizzative adottate.

Si può definire struttura lo schema d’organizzazione attraverso il quale l’impresa viene amministrata. Questo schema, formalmente o informalmente defi-nito, presenta due aspetti: comprende anzitutto i canali di autorità e di comunica-zione fra i diversi uffici amministrativi e i diversi funzionari e, in secondo luogo, le informazioni e i dati che percorrono questi canali. Sia i primi che i secondi sono elementi essenziali per assicurare un’efficace attività di coordinamento, valutazio-ne e pianificazione, e per raggiungere gli obiettivi di fondo, porre in essere le deci-sioni di politica aziendale e concentrare tutte le risorse dell’impresa. Queste ultime sono costituite dal capitale finanziario, dalle attrezzature (impianti, macchinari, uffici, magazzini), dalle organizzazioni di marketing e di acquisto, dalle fonti di materie prime, dai laboratori di ricerca e di progettazione, e, cosa più importante di tutte, dalle capacità tecniche e amministrative del personale.

La tesi che si può dedurre da queste semplici proposizioni è che la struttura consegue alla strategia e che il tipo più complesso di struttura è il risultato della concatenazione di diverse strategie di base. La crescita delle dimensioni dell’azienda ha avuto come conseguenza la creazione di un ufficio amministrativo che gestisse una funzione in un’area locale. Lo sviluppo mediante la dispersione geografica ha portato con sé il bisogno di una struttura dipartimentale e di centri direttivi per amministrare le diverse unità di settore. La decisione di espandersi all’interno di nuovi tipi di funzioni ha richiesto la costituzione di un ufficio centra-le e di una struttura dipartimentale, mentre la crescita di nuovi rami di produzione o il continuo sviluppo su scala nazionale e internazionale hanno portato alla for-mazione di una struttura multidivisionale con un ufficio generale preposto all’amministrazione delle diverse divisioni.

Fonte: CHANDLER, Strategia e struttura: storia della grande impresa americana, pp. 48-49

Il concetto di strategia viene sviluppato ulteriormente da parte di An-

drews (1971),11 che formula uno dei primi modelli prescrittivi della strate-gia aziendale. Secondo questo Autore, la strategia va intesa come “un in-sieme di obiettivi, scopi o fini e delle principali politiche e piani operativi per raggiungere tali fini, espressi in modo da definire il business in cui l’impresa opera o dovrà operare e che tipo d’azienda è o dovrà essere, la

11 Cfr. ANDREWS, The concept of corporate strategy.

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natura del contributo economico o non economico che intende apportare agli azionisti, ai dipendenti, ai consumatori, alla comunità”. Fig. 1 - Il concetto di strategia secondo Andrews

Identificazione delle Valutazione dei punti opportunità/minacce di forza/debolezza ambientali dell’impresa Cosa potrebbe Cosa può fare fare

Analisi della Strategia Analisi della situazione esterna dell’impresa situazione interna

Cosa dovrebbe Cosa vuole fare fare Riconoscimento Esplicitazione dei delle responsabilità valori/aspirazioni sociali dell’impresa individuali della direzione

Fonte: Ns adattamento da CODA (1988) In base a questa impostazione, l'attuazione delle strategie dipende

dall’analisi sia della situazione esterna sia di quella interna. Dall’analisi della prima si identificano, in primo luogo, le opportunità e le minacce ambientali e si rileva in tal modo ciò che potrebbe fare l’azienda; in secon-do luogo, attraverso il riconoscimento delle responsabilità sociali dell’impresa si indica ciò che dovrebbe fare l’impresa. Dall’analisi della situazione interna si identificano in primo luogo i punti di forza e di debo-lezza e quindi le potenzialità dell’impresa (cosa può fare); in secondo luo-go, si esplicitano i valori e la mission dell’azienda (cosa vuole fare).

L’elaborazione della strategia secondo Andrews è quindi molto ampia, tipica della Scuola di Harvard, ed è il frutto di risposte alle domande: cosa potrebbe fare, cosa dovrebbe fare, cosa può fare, cosa vuole fare l’azienda.

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ANDREWS Corporate strategy is the pattern of decisions in a company that determines and

reveals its objectives, purposes, or goals, produces the principal policies and plans for achieving those goals, and defines the range of business the company is to pur-sue, the kind of economic and human organization it is or intend to be, and the na-ture of the economic and noneconomic contribution it intends to make to its shareholders, employees, customers, and communities.

Fonte: Andrews, The Concept of Corporate Strategy, p. 13.

2.2 L’approccio alla strategia in senso stretto di Ansoff e la scuola comportamentalista

Ansoff riduce il concetto di strategia alle modalità attraverso cui l'im-

presa si propone di realizzare fini e obiettivi di fondo. La strategia, in tale prospettiva, si configura come un insieme di deci-

sioni volte a raggiungere gli obiettivi che, a loro volta, rappresentano un input formulato a monte. Ne scaturisce una formulazione di strategia molto ridimensionata, di tipo esclusivamente strumentale, che presenta forti ana-logie con la pratica militare: nelle guerre, infatti, non si ricercano le moti-vazioni (gli obiettivi) ma solo le modalità per vincerle (strumenti).12 Il management non deve determinare gli obiettivi da perseguire, ma solo le modalità attraverso le quali raggiungere i risultati preventivati. Forte enfasi viene posta sul processo di pianificazione. La pianificazione strategica, in-fatti, altamente formalizzata consente di procedere all’elaborazione della strategia attraverso un processo consapevole e controllato.

ANSOFF La strategia è una serie di regole decisionali che guidano il comportamento

dell’organizzazione. […] Una strategia è contraddistinta da diverse caratteristiche:

12 «L'analogia con la strategia militare si può estendere anche ai soggetti che sono respon-sabili dell'elaborazione della strategia: i generali non dichiarano guerra, ma decidono con quale strategia combatterla. Per questo motivo Ansoff, nei suoi studi, dedica particolare attenzione al management, come fosse lo stato maggiore di un esercito che non interviene sulle motivazioni del conflitto ma soltanto sul modo con cui combatterlo …». Cfr. BERETTA ZANONI , Strategia e Politica Aziendale. Negli studi italiani e internazionali, pp.61-62.

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1) il processo di formulazione della strategia non sfocia in azioni immediate. Sta-bilisce piuttosto le direttive di crescita e di sviluppo della posizione dell’azienda;

2) perciò la strategia deve essere usata successivamente per generare progetti stra-tegici attraverso un processo di ricerca. Il ruolo della strategia nella ricerca è anzitutto di focalizzarla su aree definite dalla strategia stessa e, in secondo luogo, di scartare le opportunità non coerenti con la strategia;

3)quindi la strategia risulta inutile quando la dinamica storica di un’organizzazione la porterà nella direzione desiderata: come a dire, quando il processo è già focalizzato sulle aree preferite;

4) al momento della formulazione della strategia non è possibile enumerare tutte le possibilità di progetti che potranno essere individuate. Perciò la formulazione della strategia deve basarsi su informazioni estremamente aggregate, incom-plete e incerte relative alle classi di alternative;

5) quando la ricerca scopre alternative specifiche, le informazioni più precise, me-no aggregate che diventano disponibili possono mettere in dubbio la saggezza della scelta strategica iniziale. Dunque per un uso positivo della strategia, oc-corre un feedback strategico;

6) poiché per scartare progetti si usano sia la strategia che gli obbiettivi, essi sem-brano la stessa cosa e invece sono ben differenti. Gli obbiettivi rappresentano i fini che l’impresa cerca di raggiungere, mentre la strategia è il mezzo per raggiungerli. Gli obbiettivi sono regole decisionali di livello elevato. Una strategia valida per un insieme di obbiettivi, può perdere la sua validità al mu-tare degli obbiettivi dell’organizzazione;

7) infine, strategia e obbiettivi sono intercambiabili; entrambi in momenti e a li-velli diversi dell’organizzazione. Così, ad esempio, alcuni attributi della pre-stazione (la quota di mercato, ad esempio) possono essere l’obbiettivo dell’azienda ad un certo momento e la sua strategia in un altro.

Fonte: ANSOFF , Organizzazione innovativa, pp. 47-48.

Con Ansoff, ci troviamo di fronte ad un approccio di tipo razionalistico,

approccio che accomuna gli studi di strategia fino alla fine degli anni '70: il manager, soggetto razionale, identifica gli obiettivi da raggiungere, elabora le alternative di azione e seleziona la scelta ottimale. Si tratta, dunque, di un approccio normativo, ossia finalizzato all'individuazione della scelta ottimale perseguibile.13

L'impostazione razionalistica si concentra sulla formulazione della stra-tegia mentre trascura tutti i fattori, anche di natura psicologica che contri-buiscono alla formazione della strategia. Questa impostazione è stata am-

13 Cfr. VOLPATO, Per una corretta lettura delle problematiche strategiche.

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piamente criticata soprattutto dalla Scuola comportamentalista. «La formu-lazione della strategia, secondo questa Scuola, è un processo estremamente complesso, che coinvolge elementi anche inconsci del pensiero umano, può essere anche imprevisto e non deliberato, ossia può sviluppare risultati inavvertitamente e spesso attraverso un processo di apprendimento conti-nuo. A differenza delle procedure formali, la vera essenza della formula-zione della strategia è, per questi studiosi, il suo processo di apprendimen-to che stimola l'intuizione e la creatività. Il processo strategico si presenta così come un sistema di decisioni-azioni difficilmente gestibili attraverso l'ausilio di strumenti e modelli analitico-formali e nell'ambito del quale più che le variabili di natura economico-quantitativa hanno importanza le va-riabili legate alla cultura aziendale e agli aspetti motivazionali».14

Alla fine degli anni '70 Richard Normann (1979),15 uno dei principali rappresentanti della scuola comportamentalista, critica esplicitamente l’utilizzo del modello razionale di Ansoff per problematiche quali la scelta della strategia e la formulazione delle politiche, suggerendo di trattare tali fenomeni come processi di apprendimento: le strategie si formano sul campo attraverso una continua interazione con l’ambiente. Nel pensiero di Normann la strategia è vista come il risultato di un processo di apprendi-mento continuativo (learning by doing), sorretto da un'idea guida (business idea) che consente all’azienda di distinguersi in ogni segmento di mercato dai propri concorrenti.

Sulla scia di Normann si pone Henry Mintzberg (1994), che pone l'ac-cento su un concetto centrale per la nuova letteratura strategica, la vision, l’idea forte e facilmente comprensibile che guida l’azienda e ne determina il posizionamento sui diversi mercati ed è al tempo stesso il progetto con-diviso dai membri dell’azienda.

“Le strategie di maggiore successo sono visioni, non piani”.16 E’ impor-tante pertanto sottolineare la differenza esistente tra pensiero strategico e programmazione strategica. Il pensiero strategico implica creatività e non può essere confuso con il concetto di programmazione strategica, che è in-vece solo l’articolazione e l’elaborazione di strategie o visioni già esistenti. “I pianificatori non devono creare le strategie ma fornire i dati, aiutare i manager a pensare strategicamente e programmare la vision. La pianifica-zione strategica non è il pensiero strategico. Uno è analisi e l’altro è sinte-si”.

In questa prospettiva, fattori chiave di successo per l'impresa diventano la conoscenza e i processi di apprendimento che si svolgono attraverso complessi sistemi di relazioni.

14 Cfr. SICCA, La gestione strategica dell'impresa, p.67. 15 Cfr. NORMANN, Le condizioni di sviluppo dell’impresa. 16 Cfr. MINTZBERG, Pianificazione strategica: l'ascesa e la caduta.

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2.3 La strategia competitiva: Porter Negli anni Ottanta, Porter pubblica i libri Competitive Strategy (1980) e

Competitive Advantage (1985). Secondo l’Autore, la strategia è «la messa a fuoco di una formula circa il modo di competere di un’impresa, gli obiet-tivi da raggiungere e le politiche necessarie per realizzare detti obiettivi» e la strategia deve guidare l’impresa a trovare una posizione dalla quale si possa difendere dalle iniziative della concorrenza o influenzarle a proprio vantaggio. I meccanismi concorrenziali rivestono, dunque, un ruolo decisi-vo nel processo di formulazione della strategia.

L’intensità della concorrenza in un determinato settore dipende, secon-do Porter, da cinque fattori competitivi: le imprese concorrenti esistenti, i clienti, i fornitori, i prodotti sostitutivi e i potenziali nuovi entranti. Questi fattori, che Porter definisce come concorrenza allargata, determinano l’attrattività del settore.

Una volta identificati ed analizzati gli elementi della concorrenza allar-gata, l’impresa individua i propri punti di forza e di debolezza che ne de-terminano la posizione rispetto ai cinque fattori fondamentali e in tal modo può elaborare la strategia. In particolare, l’impresa può puntare a conqui-stare una certa posizione competitiva e successivamente a difenderla dagli attacchi della concorrenza; oppure può puntare a migliorare costantemente la sua posizione competitiva alterando l’equilibrio delle forze competitive o cercando di anticipare i cambiamenti della struttura concorrenziale.

Le strategie si configurano, dunque, come linee di condotta tese a crea-re una posizione meno vulnerabile all’interno di un settore e a consentire all’impresa di raggiungere risultati economici superiore a quelli dei con-correnti. «La base fondamentale di una prestazione a lungo termine, supe-riore alla media, è il vantaggio competitivo sostenibile. Sebbene un’impresa possa avere una miriade di punti di forza e di debolezza al con-fronto con i propri concorrenti, per conseguire il vantaggio competitivo occorre elaborare tre strategie di base: la leadership di costo, la differen-ziazione, la focalizzazione».17

Leadership di costo La leadership di costo è forse la più chiara delle tre strategie di base. Con essa,

un’impresa si propone di diventare il produttore a più basso costo nel proprio set-tore industriale. L’azienda ha un vasto campo d’azione, serve molti segmenti del settore e può anche operare in settori collegati: l’ampiezza di operatività dell’impresa è spesso importante per il suo vantaggio di costo. Le fonti del van-

17 PORTER, Competitive Advantage (Trad.it. Il vantaggio competitivo, p.18).

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taggio di costo sono varie e dipendono dalla struttura del settore industriale. Tra queste fonti si possono includere il perseguimento di economie di scala, tecnologie esclusive, accesso preferenziale alle materie prime. […]

Se un’azienda può raggiungere e mantenere una leadership generale di costo, allora avrà prestazioni superiori alla media nel proprio settore, a patto che riesca a ottenere prezzi uguali o vicini alla media del settore. A prezzi equivalenti o più bassi di quelli dei propri concorrenti, la posizione di basso costo si traduce in pro-fitti più alti. Un leader di costo, tuttavia, non può ignorare le basi della differen-ziazione. Se il suo prodotto non viene percepito dai clienti come paragonabile o accettabile, il leader di costo sarà costretto a tenere i suoi prezzi molto più bassi di quelli della concorrenza per riuscire a vendere: questo può annullare i benefici del-la sua favorevole posizione. […]

Differenziazione La seconda strategia di base è la differenziazione. In questo caso un’azienda

mira a essere unica nel proprio settore industriale in rapporto ad alcune variabili ritenute molto importanti dai clienti. Essa scegli una o più caratteristiche che sono percepite come importanti da molti clienti in un settore, e si mette nella condizione di soddisfare quei bisogni in modo ineguagliabile. Tale unicità viene compensata con prezzi superiori alla media.

I metodi per la differenziazione sono specifici per ciascun settore industriale. La differenziazione può basarsi sul prodotto stesso, sul sistema di consegna con cui viene distribuito, sul tipo di approccio al marketing e su una vasta gamma di altri fattori. […]

Un’impresa che riesce a realizzare e mantenere la differenziazione otterrà ri-sultati superiori alla media nel proprio settore se il margine sui suoi prezzi resterà superiore ai costi extra, sostenuti per rendersi unica. Chi intende differenziarsi, quindi, dovrà sempre cercare dei metodi che portino a un vantaggio, in termini di prezzo, maggiore del costo di differenziazione.

Focalizzazione La terza strategia di base è la focalizzazione. Questa strategia è alquanto diver-

sa dalle altre, perché si basa sulla scelta di un’area ristretta di competizione all’interno di un settore industriale. Chi si focalizza sceglie un segmento o un gruppo di segmenti nel settore e adatta la propria strategia per servirli a esclusione degli altri. Perfezionando la propria strategia per i segmenti scelti come obiettivo, chi si focalizza cerca di ottenere un vantaggio competitivo nei segmenti prescelti anche se non possiede un vantaggio competitivo generale.

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La strategia della focalizzazione ha due varianti: la focalizzazione sui costi, in cui un’impresa persegue un vantaggio di costo nel segmento prescelto, e la foca-lizzazione sulla differenziazione, in cui un’impresa persegue la differenziazione nel segmento prescelto. […] Focalizzandosi sui costi si sfruttano le differenze di comportamento dei costi in alcuni segmenti, mentre focalizzandosi sulla differen-ziazione si sfruttano le speciali esigenze dei clienti in certi segmenti. Tali differen-ze implicano che questi segmenti siano serviti male dai concorrenti che, avendo obiettivi più ampi, servono questi segmenti contemporaneamente ad altri. Chi si focalizza può perciò ottenere ilo vantaggio competitivo dedicandosi esclusivamen-te a quei segmenti. […]

Fonte: PORTER, Il vantaggio competitivo, p. 19 e segg.

2.4 La resource-based theory: Hamel e Prahalad

L’analisi condotta da Porter, che sposta l’attenzione sulle fonti del van-

taggio competitivo, costituisce la base teorica della resource-based theory, diffusa dall’opera di Hamel e Prahalad.

Secondo Hamel e Prahalad (1989)18 le nuove radici del vantaggio competitivo sono costituite dalle risorse interne dell’azienda, ed in partico-lare dalle competenze chiave che esse sono riuscite a sviluppare nel corso del tempo. Le competenze chiave, per usare la metafora di Hamel e Praha-lad, sono le radici che nutrono i prodotti finali. La competizione tra azien-de non può pertanto essere giocata sui prodotti finiti, ma sulla capacità del management di consolidare, sviluppare e integrare abilità e conoscenze presenti dentro e fuori l'azienda.

Nel breve periodo, la competitività di un’azienda deriva dal rapporto prez-

zo/prestazione dei prodotti correnti. Ma i sopravvissuti alla prima ondata di con-correnza globale, siano essi giapponesi o occidentali, vanno tutti indirizzandosi verso standard di prodotto simili ed eccezionali in termini di costo e di qualità: pur essendo l’ostacolo minore per continuare a competere, essi diventano sempre me-no importanti come fonte del vantaggio comparato. Alla lunga, la capacità compe-titiva dipende dall’abilità di creare, a un costo più basso e più velocemente dei concorrenti, le competenze distintive che danno vita a prodotti non previsti.

Le vere fonti di vantaggio competitivo risiedono nell’abilità del management di consolidare capacità produttive e tecnologiche al livello di tutta l’azienda in

18 Cfr. HAMEL e PRAHALAD, Strategic intent.

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competenze che possono permettere alle singole attività di adattarsi velocemente a occasioni in continua evoluzione.

Fonte: PRAHALAD e HAMEL, Le competenze distintive dell’azienda, p. 309

L’impresa deve essere considerata come un portafoglio di competenze

le quali consentono di sfruttare in modo originale ed unico opportunità cui difficilmente potrebbero accedere altre imprese con competenze diverse.

Dal momento che sono le competenze distintive a determinare il van-taggio competitivo, compito fondamentale del management è implementa-re un’architettura strategica che fissi gli obiettivi di creazione delle com-petenze, che indichi «ciò che dobbiamo fare ora per intercettare il futu-ro».19 L’architettura strategica deve indicare all’azienda quali competenze cominciare a sviluppare, quali clienti cominciare a studiare, quali nuovi canali cominciare ad esplorare per proiettarsi nel futuro.

L’architettura strategica è un programma generico per avvicinarsi alle oppor-

tunità e l’esigenza cui risponde non è capire quello che dobbiamo fare per ottimiz-zare le nostre entrate o la quota in un mercato già esistente di prodotti, ma capire che cosa dobbiamo fare oggi, in termini di acquisizione di competenze, per prepa-rarci a conquistare una consistente fetta delle future entrate in un’area di opportu-nità che sta aprendosi.

Fonte: HAMEL e PRAHALAD, Alla conquista del futuro, p. 123)

Un’azienda che è non capace di definire se stessa e i propri concorrenti

in termini di competenze distintive rischia di non cogliere le opportunità di crescita, di fare investimenti insufficienti nella creazione di quelle compe-tenze che consentiranno in futuro di accelerare il ritmo di sviluppo e di perdere skill importanti nella cessione di aree d’affari ritenute poco reddi-tizie.

Al contrario, un’azienda potrà cogliere le opportunità future se sa indi-viduare le competenze distintive esistenti, se è capace di elaborare un pro-gramma di acquisizione delle competenze distintive non possedute dall’azienda ma necessarie al conseguimento del vantaggio competitivo, se incentiva lo sviluppo interno di competenze e riesce ad ampliarne al mas-simo le occasioni di applicazione attraverso la loro distribuzione alle varie

19 HAMEL e PRAHALAD, Alla conquista del futuro, p. 123.

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unità dell’impresa, se adotta adeguate strategie di protezione e difesa delle competenze.20

2.5 Le strategie interattive: Normann e Ramirez

Normann e Ramirez (1995),21 partendo dalla comprensione dei nuovi

meccanismi di creazione del valore, ripensano le logiche di conduzione dell’impresa e la stessa nozione di strategia. Secondo questi Autori, l’azienda crea valore attraverso l’interazione tra le proprie competenze, quelle dei fornitori, dei concorrenti e dei clienti.

Di fronte ad un periodo di grandi trasformazioni, fortemente condizio-nato dalla rapida evoluzione delle variabili ambientali, la scelta di sostene-re lo sviluppo dell'azienda mediante relazioni esterne consente di ottenere quella flessibilità indispensabile per operare in uno scenario le cui prospet-tive sono caratterizzate da un'elevata incertezza.22 Queste forme di coope-razione con operatori esterni si sviluppano su diverse direzioni e si concre-tizzano mediante la realizzazione di accordi su fasi di lavorazione, su spe-cifici processi produttivi e, in alcuni casi, sulla riconfigurazione dell'intera catena del valore.

Attraverso la realizzazione di accordi di cooperazione, le aziende parte-cipanti non solo hanno il vantaggio di ridurre l’entità, i tempi e i rischi de-gli investimenti necessari per la realizzazione di nuove iniziative ma pos-sono, se l’accordo è equilibrato, scambiare esperienze su metodi di lavoro,

20 HAMEL e PRAHALAD, Alla conquista del futuro, pp. 253 e segg. Con strategie di protezione e difesa delle competenze si fa riferimento ai meccanismi messi in atto dalle imprese per evitare di perdere skill fondamentali. «La leadership nelle compe-tenze distintive si può perdere in molti modi. Le competenze possono esaurirsi per mancan-za di fondi, essere suddivise tra le varie divisioni di un’azienda (soprattutto quando nessun dirigente si sente pienamente responsabile della gestione delle competenze), possono essere cedute involontariamente ai partner di un’alleanza o andare perse in seguito alla vendita di un business poco redditizio». HAMEL e PRAHALAD, Alla conquista del futuro, p. 265. 21 Cfr NORMANN e RAMIREZ, Le strategie interattive di impresa. Dalla catena alla costella-zione del valore. 22 Tenuto conto che in alcuni contesti l'organizzazione per aree funzionali rimane tuttora valida presentando livelli di efficienza adeguati, quello che si rileva è che le forme tradizio-nali dell'organizzazione d'impresa, caratterizzate da strutture verticali, funzionalmente ge-rarchizzate, in cui autorità formale e norme scritte ne rappresentavano i meccanismi di co-ordinamento e controllo, sono entrate in crisi e sostituite da strutture più flessibili, deverti-calizzate e decentrate, caratterizzate da continui scambi d’informazione, legami orizzontali, interazioni tra aziende. Le stesse manovre di crescita vengono realizzate sempre più fre-quentemente mediante accordi e coinvolgimento di imprese esterne e sempre meno median-te investimenti diretti, pianificati e realizzati all’interno di una singola impresa. RICCIARDI , L’outsourcing strategico. Modalità operative, tecniche di controllo ed effetti sugli equilibri di gestione.

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accedere a nuovi modelli organizzativi, apprendere processi di innovazio-ne tecnologica.

Si afferma, pertanto, un concetto di azienda fortemente dinamico nei suoi confini e nelle sue relazioni. «L'ottica strategica non può quindi fer-marsi ad una configurazione di impresa come sistema coordinato di fattori produttivi, ma richiede piuttosto un approccio diverso, in cui le relazioni interne ed esterne fanno da trama per assicurare il successo».23

In tal modo le logiche della competizione tendono a modificarsi radi-calmente: la collaborazione tra imprese, la decisa tendenza al coinvolgi-mento di attori esterni in una logica di specializzazione e complementarie-tà per lo svolgimento di attività un tempo considerate di pertinenza esclu-siva dell’impresa,24 tendono a scardinare «l'approccio strategico più conso-lidato, quello cioè che identificava la strategia con la lotta competitiva, che a partire dagli anni '80 è stato assunto come "credo" da tutti gli studiosi di economia di impresa, ed ha rappresentato la guida all'azione strategica di molte imprese».25

Lavorare insieme per produrre valore

La strategia è l’arte di creare un valore. Essa, infatti, fornisce le strutture intel-lettuali, i modelli concettuali e le ipotesi di gestione che permettono ai manager di un’impresa di identificare le opportunità di trasferire valore ai propri clienti e di distribuire questo valore con profitto. Sotto questo aspetto, la strategia è il modo in cui un’azienda definisce il proprio business e fa interagire le uniche due risorse che hanno realmente un peso nell’economia attuale: le conoscenze e le relazioni ovvero le competenze di un’organizzazione e i suoi clienti.

Tuttavia, in un ambiente competitivo in rapido mutamento, anche la logica fondamentale del processo di creazione di valore tende a mutare e lo fa in un mo-do che la formulazione di un chiaro pensiero strategico diventa contemporanea-mente più importante e più difficile. Il nostro tradizionale concetto di valore è fondato su presupposti e modelli propri di un’economia industriale. Secondo que-sta visione, ogni azienda occupa una specifica posizione in una catena del valore. A monte, i fornitori procurano gli input. A uno stadio intermedio l’impresa ag-giunge valore a tali input e, in seguito, li passa, a valle, al successivo attore della catena: il cliente (che può essere sia un’altra azienda sia il consumatore finale). Da questo punto di vista, la strategia corrisponde innanzitutto all’arte di posizionare un’impresa al punto giusto della catena del valore, corrispondente al business di prodotti, ai segmenti di mercato appropriati, alle giuste attività che creano valore aggiunto. 23 Cfr. SICCA, La gestione strategica dell'impresa, p.69. 24 Cfr. LIPPARINI, Architettare relazioni inter-impresa, p. 33. 25 Cfr. SICCA, La gestione strategica dell'impresa, p.70.

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Oggi, tuttavia, questa interpretazione del valore è altrettanto datata quanto la vecchia catena di montaggio che essa sembra richiamare e tale è anche la visione della strategia che ne consegue.

La competizione globale, i mercati in continuo mutamento e le nuove tecnolo-gie aprono, in modo significativo, nuove strade per la creazione del valore. Le possibilità aperte alle aziende, ai clienti e ai fornitori si stanno moltiplicando in un modo che neppure Henry Ford avrebbe mai immaginato. […]

Il punto focale, quindi, della loro analisi strategica non è la singola impresa o il settore industriale ma lo stesso sistema di creazione del valore all’interno del quale diversi attori economici, fornitori, partner, clienti, lavorano insieme per copro-durre valore. La loro linea d’azione strategica chiave è la riconfigurazione dei ruoli e dei rapporti all’interno di questa costellazione di attori al fine di mobilitare la creazione del valore in nuove forme e da parte di nuovi soggetti. Il loro obietti-vo strategico sottostante, inoltre, è la creazione di una corrispondenza, in continuo miglioramento, tra competenze e clienti.

Fonte: NORMANN e RAMIREZ, Lavorare insieme per produrre valore, pp. 66-67

3. Considerazioni conclusive

I diversi Autori ai quali si è fatto riferimento nel capitolo propongono definizioni diverse del concetto di strategia aziendale. Le differenze sono da attribuire non soltanto ad impostazioni teoriche diverse, ma anche al di-verso contesto storico di riferimento. Da un lato, infatti, tutti sostengono che la strategia deve consentire di gestire l’impresa in rapporto all’evoluzione dell’ambiente esterno; dall’altro lato, mutano i metodi di gestione indicati perché muta il contesto esterno. Da un ambiente stabile (che poteva essere agevolmente governato attraverso gli strumenti della pianificazione di lungo periodo) si passa ad un ambiente fortemente dina-mico. E man mano che tale dinamicità diventa più intensa, le fonti del van-taggio competitivo diventano le competenze delle imprese che consentono di agire sui costi o sul valore del prodotto offerto (Porter), di creare una rottura con l’ambiente esterno attraverso la creazione di nuovi spazi com-petitivi e nuovi mercati (Hamel), di interagire con clienti, fornitori e con-correnti al fine di creare nuova conoscenza (Normann e Ramirez).

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DOMANDE DI AUTOVERIFICA

1. Nell’ambito della Scuola di Harvard si forniscano le definizioni di strategia secondo Chandler e secondo Andrews

2. Indicare le principali differenze tra Scuola razionalista e Scuola com-portamentalista circa la definizione e l'implementazione della strategia aziendale

3. Illustrare le tre strategie di base individuate da Porter 4. Le relazioni interaziendali sono ormai riconosciute tra le principali ri-

sorse intangibili dell'impresa. Quali benefici possono derivare nella gestione delle attività d'impresa da accordi strategici di collaborazione fra imprese?

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