12
63 NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI discipline L’approfondimento ha modificato alla radice il modo di es- sere e di funzionare della finanza, mi- nando così le basi stesse di quell’ordine sociale liberale che è cifra inequivocabi- le del modello di civiltà occidentale. Du- plice la natura delle cause della crisi: quelle prossime, che dicono delle pecu- liarità specifiche assunte in tempi recen- ti dai mercati finanziari e quelle remote, che chiamano in causa taluni aspetti della matrice culturale che ha accompa- gnato la transizione dal capitalismo in- dustriale a quello finanziario. Da quan- do ha iniziato a prendere forma quel fe- nomeno di portata epocale che chiamia- mo globalizzazione, la finanza non sola- mente ha accresciuto costantemente la sua quota di attività in ambito economi- co, ma ha progressivamente contribuito a modificare sia le mappe cognitive del- le persone sia il loro sistema di valori. È a quest’ultimo aspetto che si fa riferi- mento quando oggi si parla di finanzia- rizzazione ( financialization) della so- cietà. «Finanza», letteralmente, è tutto ciò che ha un fine; se questo fuoriesce dal suo alveo storico, la finanza non può che generare effetti perversi. In quel che segue, mi soffermerò, sia pur in breve per ragioni di spazio, dapprima sulle cause prossime della crisi e poi su da sé le regole per il proprio funziona- mento ed inoltre di farle rispettare. Il ponte che collega quell’assunto a tale conclusione è l’ethos dell’efficienza, vero e proprio principio regolativo della società post-moderna. È dalla pervasività nella nostra cultura del principio di efficienza che discende quel «mito performativo» per il quale dire significa fare, e dunque che una cosa diventa vera per il solo fatto che la facciamo. È questo stato d’animo ge- nerale che ha fornito il carburante alla macchina speculativa. La quale si è bensì potuta avvalere di strumenti e prodotti fi- nanziari con una «potenza di fuoco» mai vista in precedenza. Si pensi solo ad auto- matismi come il program trading compute- rizzato, qualcosa di analogo ad un accele- ratore di particelle, che amplifica, in mo- do pro-ciclico, la tendenza al rialzo e al ri- basso del mercato borsistico. Ma è eviden- te che una bolla speculativa dalle propor- zioni di quella che oggi conosciamo mai si sarebbe potuta realizzare senza quella «bolla mentale» che ha fatto credere a tan- tissimi che fosse possibile ridurre il ri- schio a zero, qualora si fosse riusciti a spalmarlo in modo acconcio tra un nume- ro sufficientemente elevato di operatori. Ma il rischio, se c’è, può essere spostato o ridotto, mai annullato. Tale senso di onni- potenza, foraggiato per parecchi anni dal- l’euforia finanziaria, si è impadronito de- gli habitus mentali non solamente dei tra- der e degli istituti della finanza, ma anche quelle remote. Non mi occuperò, invece, né degli effetti del collasso attuale, né del- le vie di uscita da esso. Su entrambe le questioni i contributi sono ormai schiera. 1. Autoreferenzialità della finanza L’intento che muove lo scritto è quello non tanto di aggiungere evidenze statistico- economiche o ulteriori descrizioni dei meccanismi alla ormai vasta ed accurata letteratura in argomento 1 quanto piuttosto quello di far emergere dai fatti che narra- no del disastro finanziario quell’ideologia fallace – travestita da presunta scientificità – di cui si sono imbevuti operatori di mer- cato, autorità politiche di governo, agenzie di controllo, quella specifica scuola di pen- siero economico, oggi dominante, nota co- me mainstream economico. Si tratta dell’i- deologia che, a partire dall’assunto antro- pologico dell’homo oeconomicus – che è un assunto, si badi, e non una proposizione dimostrata – ovvero dell’egoismo raziona- le, giunge, dopo un lungo itinerario co- sparso di teoremi raffinati e di indagini econometriche, alla conclusione che i mer- cati, anche quelli finanziari, sono assetti istituzionali in grado di autoregolarsi e ciò nel duplice senso di assetti capaci di darsi Le lacrime dell’economia Lezione e monito di una crisi annunciata Stefano Zamagni L’approfondimento La crisi finanziaria, iniziata nell’estate 2007 negli Usa e poi diffusasi per contagio nel resto del mondo, ha natura sistemica. Né di crisi congiunturale né di crisi regionale dunque si tratta. Essa è il punto di arrivo, inevitabile, di un processo che da oltre trent’anni 1. Si può vedere al riguardo C.R. Morris, Crack. Come siamo arrivati al collasso del mercato e cosa ci riserva il futuro, Elliot Ed., 2008.

Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

Embed Size (px)

Citation preview

Page 1: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

63NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

discipline L’approfondimento

ha modificato alla radice il modo di es-

sere e di funzionare della finanza, mi-

nando così le basi stesse di quell’ordine

sociale liberale che è cifra inequivocabi-

le del modello di civiltà occidentale. Du-

plice la natura delle cause della crisi:

quelle prossime, che dicono delle pecu-

liarità specifiche assunte in tempi recen-

ti dai mercati finanziari e quelle remote,

che chiamano in causa taluni aspetti

della matrice culturale che ha accompa-

gnato la transizione dal capitalismo in-

dustriale a quello finanziario. Da quan-

do ha iniziato a prendere forma quel fe-

nomeno di portata epocale che chiamia-

mo globalizzazione, la finanza non sola-

mente ha accresciuto costantemente la

sua quota di attività in ambito economi-

co, ma ha progressivamente contribuito

a modificare sia le mappe cognitive del-

le persone sia il loro sistema di valori. È

a quest’ultimo aspetto che si fa riferi-

mento quando oggi si parla di finanzia-

rizzazione (financialization) della so-

cietà. «Finanza», letteralmente, è tutto

ciò che ha un fine; se questo fuoriesce

dal suo alveo storico, la finanza non può

che generare effetti perversi.

In quel che segue, mi soffermerò, sia pur

in breve per ragioni di spazio, dapprima

sulle cause prossime della crisi e poi su

da sé le regole per il proprio funziona-mento ed inoltre di farle rispettare.Il ponte che collega quell’assunto a taleconclusione è l’ethos dell’efficienza, vero eproprio principio regolativo della societàpost-moderna. È dalla pervasività nellanostra cultura del principio di efficienzache discende quel «mito performativo»per il quale dire significa fare, e dunqueche una cosa diventa vera per il solo fattoche la facciamo. È questo stato d’animo ge-nerale che ha fornito il carburante allamacchina speculativa. La quale si è bensìpotuta avvalere di strumenti e prodotti fi-nanziari con una «potenza di fuoco» maivista in precedenza. Si pensi solo ad auto-matismi come il program trading compute-rizzato, qualcosa di analogo ad un accele-ratore di particelle, che amplifica, in mo-do pro-ciclico, la tendenza al rialzo e al ri-basso del mercato borsistico. Ma è eviden-te che una bolla speculativa dalle propor-zioni di quella che oggi conosciamo mai sisarebbe potuta realizzare senza quella«bolla mentale» che ha fatto credere a tan-tissimi che fosse possibile ridurre il ri-schio a zero, qualora si fosse riusciti aspalmarlo in modo acconcio tra un nume-ro sufficientemente elevato di operatori.Ma il rischio, se c’è, può essere spostato oridotto, mai annullato. Tale senso di onni-potenza, foraggiato per parecchi anni dal-l’euforia finanziaria, si è impadronito de-gli habitus mentali non solamente dei tra-der e degli istituti della finanza, ma anche

quelle remote. Non mi occuperò, invece,

né degli effetti del collasso attuale, né del-

le vie di uscita da esso. Su entrambe le

questioni i contributi sono ormai schiera.

1. Autoreferenzialitàdella finanza

L’intento che muove lo scritto è quello non

tanto di aggiungere evidenze statistico-

economiche o ulteriori descrizioni dei

meccanismi alla ormai vasta ed accurata

letteratura in argomento1 quanto piuttosto

quello di far emergere dai fatti che narra-

no del disastro finanziario quell’ideologia

fallace – travestita da presunta scientificità

– di cui si sono imbevuti operatori di mer-

cato, autorità politiche di governo, agenzie

di controllo, quella specifica scuola di pen-

siero economico, oggi dominante, nota co-

me mainstream economico. Si tratta dell’i-

deologia che, a partire dall’assunto antro-

pologico dell’homo oeconomicus – che è un

assunto, si badi, e non una proposizione

dimostrata – ovvero dell’egoismo raziona-

le, giunge, dopo un lungo itinerario co-

sparso di teoremi raffinati e di indagini

econometriche, alla conclusione che i mer-

cati, anche quelli finanziari, sono assetti

istituzionali in grado di autoregolarsi e ciò

nel duplice senso di assetti capaci di darsi

Le lacrime dell’economiaLezione e monito di una crisi annunciata

Stefano Zamagni

L’approfondimento

La crisi finanziaria, iniziata nell’estate 2007 negli Usa e poidiffusasi per contagio nel resto del mondo, ha naturasistemica. Né di crisi congiunturale né di crisi regionaledunque si tratta. Essa è il punto di arrivo, inevitabile, di unprocesso che da oltre trent’anni

1. Si può vedere al riguardo C.R. Morris, Crack. Comesiamo arrivati al collasso del mercato e cosa ci riserva ilfuturo, Elliot Ed., 2008.

Page 2: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

64 NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

discipline

anni quaranta del secolo scorso a circa il66% degli anni sessanta, periodo questodurante il quale non si sono registrate néperdite né guadagni particolarmente rile-vanti. Fino al 1969, Fannie Mae era un’a-genzia governativa, la cui funzione eraper un verso quella di comprare mutuidalle banche e dagli altri gestori di rispar-mi per consentire loro un flusso costantenella erogazione dei mutui e, per l’altroverso, quella di fissare gli standard di ri-ferimento. Al tempo stesso, Fannie Mae fi-nanziava le sue operazioni vendendo sulmercato finanziario obbligazioni. La si-tuazione inizia a mutare alla fine degli an-ni ’70, quando operatori privati di WallStreet, nel tentativo di emulare Fannie,impacchettano mutui convertibili in ob-bligazioni, creando prodotti sempre piùconvenienti perché più rischiosi. Per nonperdere quote di mercato, Fannie finiscecol fare altrettanto, alimentando così laspirale degli abusi.

In quale senso si può parlare di abusi? Perrispondere, conviene rammentare che inbase alle regole contabili in vigore, le ban-che sono tenute a registrare in bilancio iprestiti concessi come attività. Ma così fa-cendo, le banche scoprono di arrivare benpresto alla soglia del capitale minimo chel’autorità di vigilanza impone di tenere di-sponibile per assicurare la copertura deiprelievi. E scoprono altresì che tale vincolocostituisce un effettivo impedimento al-l’aumento del volume d’affari e quindi deipropri profitti. Il pezzo di bravura – si faper dire – è allora la trasformazione deiprestiti in attività, conferendo ai debiti deiclienti la qualità di titoli di credito che, inquanto tali, è possibile rivendere sul mer-cato finanziario. È in ciò il senso di quellapeculiare invenzione che è stata la cartola-

rizzazione. Le modalità di cartolarizzazio-ne prevedono l’emissione di CDO (Collate-ralized Debt Obligations), introdotte per pri-me negli USA nel 1987 (in Italia nel 1999con la legge 130), tramite società veicolo(SPV, special purpose vehicles e conduit), op-pure di Asset Backed Commercial Paper, tito-li a breve termine garantiti dalle attivitàbancarie, oppure ancora dalla ricartolizza-zione, operazioni queste in cui le attivitàsottostanti sono titoli strutturati. Nati comestrumenti di copertura del rischio di credi-to, i derivati hanno conosciuto una espan-sione imponente nel corso degli ultimi an-ni: da circa 100.000 miliardi di dollari nel2001 a oltre 600.000 miliardi alla fine del2007. In termini relativi, la crescita più con-sistente è stata quella dei CDS (Credit de-fault swap), passati, nello stesso periodo, da750 miliardi di dollari a circa 59.000 miliar-di – quasi quattro volte il PIL USA.Come spiega N. Linciano2, a differenza diquanto accadeva con il modo tradizionaledi erogazione del credito – un modo cheimponeva il mantenimento in bilancio deiprestiti concessi ai clienti – il nuovo modoche si viene ad affermare nell’ultimo quar-to di secolo, e noto come OTD (originate todistribuite), prevede che i finanziamenticoncessi siano cartolarizzati e spalmati suuna vasta platea di operatori. Questo nuo-vo modo, che agli inizi viene salutato consimpatia, perché capace di allentare i vin-coli di accesso al credito da parte della fa-sce più povere della popolazione, finiscecon l’andar del tempo col mutare profon-damente l’approccio al credito delle ban-che – che hanno interesse a trasferire quo-te crescenti dei propri impieghi ad altreistituzioni finanziarie – e con l’incentivarecomportamenti opportunistici e irrespon-sabili. La ragione è presto detta: la possibi-lità di trasferire a valle i rischi dei finan-ziamenti erogati riduce sensibilmente l’in-teresse della banca a monitorare la possi-bilità di rimborso dei debitori.Di fronte a tale novità, le autorità america-ne non solo non intervengono per cercarealmeno di garantire il rispetto degli stan-dard, ma quel che è peggio lasciano alleagenzie private di rating il compito di de-cidere loro il grado di sicurezza dei nuovistrumenti finanziari. Si tenga presente chei prodotti derivati come i CDS sono nego-

delle autorità politiche, dei centri mediati-ci, di non pochi ambienti universitari e diricerca. L’autoreferenzialità della finanza– la finanza che diviene fine a sé e in sé –ha così fatto dimenticare la massima diPlatone secondo cui: «L’unica buona mo-neta con cui bisogna cambiare tutte le al-tre è la phronesis, l’intelligenza che sta inguardia». Una massima che l’illustre eco-nomista americano J. Galbraith assai piùprosaicamente ha reso così: «È bene cheogni tanto i soldi vengano separati dagliimbecilli». Ed è bene che così avvenga,perché sono molti gli innocenti che paga-no per la hybris degli imbecilli nel senso diLeon Bloy. Come la storia insegna, il phro-nos zeon, l’ira degli dei che si accompagnaalla hybris, si abbatte sempre sugli ultimi esui più vulnerabili, il che è semplicemen-te scandaloso che possa accadere in so-cietà che si dicono aperte e civili.

2. Delle cause prossimedella crisi

Aver consentito al settore dei mutui ipote-cari subprime di diventare un autenticocasinò finanziario è certamente una primacausa prossima della crisi in atto. (GiàJ.M. Keynes aveva anticipato nel 1926 che«quando l’accumulazione del capitale diun paese diventa il sottoprodotto delle at-tività di un casinò è possibile che le cosevadano male»). Negli USA, la proprietà dicase di abitazione è passata dal 44% degli

L’approfondimento

2. N. Linciano, La crisi dei mutui subprime, CONSOB,Milano, Settembre 2008.

«È BENE CHE OGNITANTO I SOLDI

VENGANO SEPARATIDAGLI IMBECILLI»(J. GALBRAITH).

Page 3: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

65NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

disciplineziati in mercati non regolamentati e so-prattutto non vigilati, ma in un mercatotra banche (over the counter). Ciò che per-mette minore competizione, e margini diguadagno più elevati, ma impedisce di va-lutare il rischio di controparte. La modadelle cartolarizzazioni inizia così a diffon-dersi a macchia d’olio, con i mutui sub-prime che svolgono la funzione di volanodell’intero processo. Imprese private, rico-nosciute bensì dal governo, come Moody’se Standard and Poor, ma non sottopostead alcuna regolamentazione, attribuisconopunteggi di affidabi-lità ai vari prestiti ob-bligazionari per tute-lare – così si dice – lafede pubblica dei sot-toscrittori. Ma datoche il controllore è re-munerato dal con-trollato, è evidenteche basta pagare be-ne per ottenere unpunteggio elevato –la ben nota «tripla A»– anche se i prestitisottostanti includonorischi elevati. (Allavigilia del suo falli-mento, la LehmanBrothers aveva otte-nuto la A!). Oggi sia-mo in grado di direche senza la collusio-ne delle agenzie di rating il fenomeno sub-prime non si sarebbe potuto manifestarecon la violenza che conosciamo, perchénon avrebbe potuto raggiungere la massacritica e soprattutto non avrebbe potutoalimentare quei fenomeni di herding, cioèdi imitazione, che innescano le bolle spe-culative.

Sorge spontanea la domanda: perché i re-

golatori pubblici non sono intervenuti pertempo modificando la legislazione vigentecosì da porre fine al conflitto di interesseche vedeva coinvolte la più parte delleagenzie di rating? È questa la seconda del-le cause prossime di cui ci stiamo occupan-do. Il fatto è che né il Governo né il Con-gresso americani si sono mai decisi, primad’ora, ad intervenire in materia.Adire il ve-ro, già nel 1994 il Congresso Democratico,fiutando la gravità del problema, aveva ap-provato la legge sulla «Homeownership

il premio Nobel per l’economia – quandofallisce il LTCM (Long Term Capital Manage-

ment), l’hedge fund nel cui consiglio di am-ministrazione sedevano entrambi gli stu-diosi. Ma anche di fronte a tale evidenza,Greenspan non ritenne di intervenire, salvoricredersi alcuni anni dopo come diremonella sezione 4. Neppure nel 2002, quando

al seguito dei cele-bri «corporatescandals» (i casiEnron e Worldcomdel 2001), venneapprovata la leggeSarbanes-Oxley, sicolse l’occasioneper porre rimedioai dilaganti conflit-ti d’interesse in ca-po sia alle agenziedi rating sia ai tan-tissimi promotorifinanziari che«consigliavano» aiclienti di compraretitoli che di là a po-co si sarebbero ri-velati spazzatura.Come si può verifi-care, la Sarbanes-

Oxley si occupa bensì dei conflitti di inte-resse nella governance d’impresa, maesclude, paradossalmente, dal suo ambitodi applicazione le agenzie di rating e le im-prese che si dedicano alla intermediazionefinanziaria. Col risultato che tali soggettihanno acquistato un tale potere di influen-za sulla politica da far dimenticare il cele-bre principio di separazione su cui si reggel’ordine sociale liberale. Occorre dire, peral-

opportunity and equity protection» che im-poneva alla Federal Riserve di fissare e farrispettare gli standard agli operatori checoncedevano mutui e che non erano sotto-posti ad altra forma specifica di regolamen-tazione. MaAlan Greenspan, il potente pre-sidente della FED (1987-2006), accecato dal-l’ideologia del greed market (il mercato

dell’avidità) – che ben poco ha a che vede-re con il free market – si rifiutò ripetutamen-te di implementare quella legge. L’argo-mento utilizzato fu che gli scambi di deri-vati avvenivano tra professionisti altamen-te qualificati che non avevano certo biso-gno di tutele. Una fiducia questa cheGreenspan fondava, ciecamente, sul cele-bre modello di Black-Scholes-Merton perdeterminare il valore dei derivati. Un mo-dello secondo il quale sarebbebastato guardare al prezzo diun asset e non anche al rischioche esso ingloba per dare ilgiusto valore (fair value) ad unaltro titolo – poniamo, un’op-zione – che ci viaggia sopra.Un’avvisaglia importantedella grave aporia contenutanel modello si ha già nel 1998– l’anno successivo a quello incui Scholes e Merton ricevono

L’approfondimento

«PERCHÉI REGOLATORI

PUBBLICI NON SONOINTERVENUTI PER

TEMPO MODIFICANDOLA LEGISLAZIONEVIGENTE COSÌ DA

PORRE FINE ALCONFLITTO DI

INTERESSE CHEVEDEVA COINVOLTE

LA PIÙ PARTE DELLEAGENZIE DI RATING?»

Page 4: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

66 NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

discipline

tato a tutti noto, il gioco si fondava sullacreazione di debito. Quella che gli USA sisono lasciati alle spalle è stata un’era dispensieratezza finanziaria: acquisti a cre-dito senza copertura; mutui concessi atutti sull’intero valore dell’immobile; car-te di credito distribuite a chiunque; ricor-so a strumenti finanziari ipersofisticati.Fino ad un certo punto, il gioco ha assicu-

rato profitti – me-glio sarebbe direrendite – astrono-mici, ma non appe-na gli investitorihanno cominciato aguardare dentro lascatola nera, è ini-ziato il panico. Peressere precisi, le co-se hanno principia-to ad andare malequando, a partire

dal 2005, i rialzi dei tassi di interesse deci-si dalla FED hanno reso più gravose le ra-te dei mutui subprime, il che ha accresciu-to il rischio di insolvenza delle famigliepiù esposte, cioè più vulnerabili. La man-canza di un mercato secondario dei CDO– si rammenti che è grazie ai CDO che lebanche americane hanno potuto concede-re a larghe mani i mutui – non ha permes-so un adeguamento graduale dei loroprezzi alle nuove condizioni di rischio.Quando l’insolvenza è diventata eviden-te, l’adeguamento del prezzo si è realizza-

to tutto in una volta, determinando cosìsvalutazioni selvagge – perfino eccessive– degli asset degli operatori che tenevanoin portafoglio il CDO. Il collasso ne è sta-ta immediata e logica conseguenza.È risaputo che da quando è stata inventatala moneta, gli uomini si dedicano a produr-re moneta falsa.Al tempo della circolazionemetallica, questo avveniva frodando sullaquantità di metallo prezioso in essa conte-nuto; poi, con l’emissione sconsiderata dibanconote; oggi, con l’inflazione dei crediti.Come già aveva anticipato negli anni ’40del secolo scorso l’economista francese Jac-ques Rueff, il modo oggi raffinato di crearemoneta falsa è quello di far partire una bol-la speculativa. Alexandre Dumas, nel suo Iltulipano nero, descrive con la penna delgrande letterato e con grande anticipazionedei tempi, la meccanica della logica specu-lativa con riferimento alla prima grandebolla speculativa tra 1620 e 1630, nota come«febbre dei tulipani». Dopo secoli di tenta-tivi vari, si può dire che il mondo della fi-nanza è riuscito, almeno in parte, a sottrar-re allo Stato e alla politica il potere di con-trollo monetario. Ecco perché la crisi in attonon troverà definitiva soluzione fino aquando la politica e il corpo sociale non ri-prenderanno in mano il governo dell’atti-vità finanziaria, indirizzandola al suo finenaturale che è quello di porsi al servizio de-gli investimenti, della produzione, degliscambi. Proprio secondo il celebre detto diBaron Luis: «Dateci buona politica, e io vidarò buona finanza».Quanto precede mi porta alla quarta dellecause prossime: l’abolizione, nel 1999, del-la legge Glass-Steagall del 1933 che sancivala separazione tra banche commerciali ebanche di investimento – le prime sottopo-ste a massicci controlli; le seconde a formedi controllo più blande. Il vento della dere-gulation reaganiana soffiò così forte da ar-mare la mano di Gramm-Leach-Biliey cuisi deve quell’abolizione. Con l’esito che sa-rebbe stato facile immaginare. Non conten-to di ciò, sempre Gramm si fece paladinodella legge sulla Commodity Futures Moder-nization firmata da Clinton il 21 dicembre2000, poco prima di lasciare la presidenzaamericana. Il portato di tale norma era disottrarre i prodotti finanziari derivati allaregolamentazione e alla sorveglianza siadella SEC sia della Commissione per ilCommercio dei Titoli Future, ciò che con-sentì un’espansione senza precedenti dei

tro, che forse gli stessi regolatori pubblicinon erano in grado di conoscere, con unaqualche approssimazione il volume effetti-vo delle transazioni speculative. La ragioneè presto detta. Alla fine degli anni ’90 lebanche commerciali e di investimento ini-ziano a dar vita ad un gran numero di en-tità fuori bilancio sponsorizzate da una opiù di esse. Si tratta delle cosiddette OBSE(Off-balance Sheet En-

tities): società auto-nome che non com-paiono nel bilanciodelle banche spon-sor, alla quali paga-no però commissio-ni ingenti. Sono talile società veicolo perscopi speciali che,una volta create, en-trano in un conod’ombra che le ren-de pienamente opa-che all’osservatoreesterno. In tali condizioni, parlare di tra-sparenza a favore dei risparmiatori è pocopiù di un wishful thinking.Di una terza causa prossima del crack fi-nanziario conviene dire: l’eccesso di leve-rage (indebitamento). Va ricordato che ilvolume delle transazioni speculative po-sto in essere nel corso dell’ultimo quartodi secolo è stato realizzato quasi intera-mente con denaro preso a prestito. Unrapporto considerato normale di leverageper un un hedge fund o per un fondo di pri-vate equity è dell’ordine di 30 a 1 – quantoa dire 30 dollari di debito contro 1 dollarodi capitale reale. (Cinque anni fa, la Mor-gan Stanley fu una delle cinque grossebanche di affari americane che ottennedalla SEC – l’equivalente USA della CON-SOB italiana – la duplice autorizzazionead indebitarsi fino ad un rapporto di 40 a1 rispetto al proprio capitale e a sostituirecon l’autoregolamentazione i controlliesterni). Ebbene, nella vicenda delle im-prese dedite ai mutui sub-prime, il rap-porto di leverage era diventato negli ulti-mi anni praticamente infinito, dal mo-mento che tali imprese avevano un capi-tale reale pari a zero. Come oggi è diven-

L’approfondimento

«È RISAPUTO CHE DAQUANDO È STATA

INVENTATA LAMONETA, GLI UOMINI

SI DEDICANO APRODURRE MONETAFALSA... OGGI, CON

L’INFLAZIONE DEICREDITI».

Page 5: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

67NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

disciplinederivati scambiati al di fuori del mercatoborsistico. Al solo scopo di dare un’ideagrezza dell’aumento del volume di affariassociato ai derivati si consideri che dal2000 al 2007 essi sono passati, come valoredi sottoscrizione, da 100 trilioni a 600 tri-lioni di dollari, una cifra corrispondente al-l’incirca a 10 volte il PIL mondiale3.Alle banche di investimento si aggiunserocosì hedge fund e fondi di private equity ingrado di creare credito al di fuori del cana-le bancario e capaci di speculare sui merca-ti finanziari con i soldi presi a prestito. Aparere del presidente della House BankingCommittee, Barney Frank, più di metà delcredito creato negli anni recenti provieneda istituti non soggetti ad alcuna regola-zione. Ma non c’era da allarmarsi – si èpensato – perché l’amministrazione Bushin diverse occasioni ebbe a dichiarare chequesti nuovi giocatori finanziari offrivanotransazioni ad adulti consenzienti e consa-pevoli dei rischi cui sarebbero andati in-contro. Non c’è bisogno di grande prepara-zione economica per comprendere comeragionamenti del genere trascurino com-pletamente di tenere in conto quegli effettiindiretti che ricadono su soggetti che nonhanno preso parte alle transazioni e che sichiamano, nel gergo economico, esterna-lità pecuniarie. A dire il vero, nel 2005Greenspan aveva bensì rivolto al SenateBanking Committee l’invito a prendere inseria considerazione il livello di rischio alquale Fannie e Freddie stavano esponendol’intero sistema, ma il provvedimento chealcuni membri repubblicani del Congressoavevano predisposto per la bisogna nonvenne mai votato, anche per la ferma op-posizione del Partito Democratico.

3. Le cause remotee strutturali della crisi

3.1 Le cause descritte nel paragrafo pre-

cedente sono prossime perché, sebbenesufficienti a scatenare la crisi finanziariain atto, non sono anche necessarie. La cri-si infatti si sarebbe comunque manifesta-ta, sia pure in forme diverse, anche conperturbazioni diverse da quella dei mutuisubprime. Quando la tempesta abbatte lacasa, la causa principale è la debolezzastrutturale dell’edificio, pur essendo veroche senza quella perturbazione perfino lacasa costruita sulla sabbia resterebbe in

valore per l’azionista (shareholder’s value).E così è accaduto che la richiesta persi-stente di risultati finanziari sempre piùbrillanti ha cominciato a ripercuotersi, at-traverso un tipico meccanismo di trickle

down (di sgocciolamento), sull’intero siste-ma economico, fino a diventare un vero eproprio pattern culturale. Per rincorrereun futuro sempre più radioso, si è così di-menticato il presente.Dopo oltre trent’anni di finanziarizzazio-ne, lo stato dell’economia mostra preoccu-panti segni di debolezza sotto tre aspettispecifici. Primo, la finanziarizzazione –che per funzionare ha bisogno di include-re nella sua logica un numero crescente dieconomie nazionali – ha progressivamen-te sostituito alle relazioni intersoggettivetransazioni anonime e impersonali. La ri-cerca senza limiti dei capital gains (guada-gni in conto capitale) ha fatto sì che valoricome lealtà, integrità morale, relaziona-lità, fiducia venissero via via accantonatiper fare spazio a principi d’azione finaliz-zati al conseguimento dei risultati a brevetermine. Si è così potuto diffondere il di-sastroso convincimento in base al quale laliquidità dei mercati finanziari sarebbestata un sostituto perfetto della fiducia. Altempo stesso, poiché la valutazione diborsa è tutto quanto l’investitore è tenutoa considerare quando deve prendere lesue decisioni, si ha che la crescita può age-volmente essere costruita sul debito: que-sto il senso ultimo del processo di finan-ziarizzazione. Quale la conseguenza vera-mente pericolosa di questa «nuova» cul-tura? Quella di stravolgere il modo diconcepire il nesso tra reddito da lavoro ereddito da attività speculativa. Se la fi-nanziarizzazione viene spinta in avanti asufficienza – si è fatto credere – non v’è bi-sogno che le famiglie, per provvedere alleproprie necessità, attingano in misuraprevalente ai propri salari. Dedicandosialla speculazione, esse possono ottenereper altra via il reddito necessario per con-seguire livelli crescenti di consumo. Anzi,se e nella misura in cui riduzioni salariali

piedi. Raggruppo i fattori di crisi che chia-mo strutturali in tre blocchi.Il primo concerne il mutamento radicalenel rapporto tra finanza e produzione dibeni e servizi che si è venuto a consolidarenel corso dell’ultimo trentennio. A partiredalla metà degli anni ’70 del secolo scorso,la più parte dei paesi occidentali hannocondizionato le loro promesse in materia

pensionistica ad investimenti che dipen-devano dalla profittabilità sostenibile deinuovi strumenti finanziari. Al tempo stes-so, la creazione di questi nuovi strumentiha via via esposto l’economia reale ai ca-pricci della finanza, generando un bisognocrescente di destinare alla remunerazionedei risparmi in essi investiti quote crescen-ti di valore aggiunto. Le pressioni sulle im-prese derivanti dalle borse e dai fondi diprivate equity si sono trasferite in pressio-ni ancora maggiori in altre direzioni: suidirigenti ossessivamente indotti a miglio-rare continuamente le performance delleloro gestioni allo scopo di ricevere volumicrescenti di stocks options; sui consumato-ri per convincerli, mediante l’impiego disofisticate tecniche di marketing, a com-prare sempre di più pur in assenza di po-tere d’acquisto; sulle imprese dell’econo-mia reale per convincerle ad aumentare il

L’approfondimento

3. Si veda, al riguardo, R.J. Shiller, Finanza Shock, Egea,Milano 2008.

«QUALE LACONSEGUENZA

VERAMENTEPERICOLOSA DI

QUESTA “NUOVA”CULTURA?QUELLA DI

STRAVOLGERE ILMODO DI CONCEPIRE

IL NESSO TRAREDDITO DA LAVORO

E REDDITO DAATTIVITÀ

SPECULATIVA».

Page 6: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

68 NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

discipline

speculatore, l’esito non può che essere di-sastroso. Già J.M. Keynes nel ben notosaggio del 1926, La fine del laissez-faire,aveva individuato con la lucidità e la pre-veggenza che gli erano proprie, la causadei «maggiori mali economici del nostrotempo “nelle” grandi sperequazioni diricchezza che si determinano quando par-ticolari individui, godendo di posizioni oabilità particolari, riescono a trarre van-taggio dall’incertezza e dall’ignoranza “equando” per gli stessi motivi, le grandiimprese diventano spesso una lotteria»che fa venir meno le «ragionevoli aspetta-tive imprenditoriali».Il terzo segno di preoccupante debolezza,cui sopra facevo cenno, è la diffusione a li-vello di cultura popolare dell’ethos del-l’efficienza come criterio ultimo di giudi-zio e di giustificazione della realtà econo-mica. Per un verso, ciò ha finito col legit-timare l’avidità – che è la forma più nota epiù diffusa di avarizia – come una sorta divirtù civica: il greed market che sostituisce

il free market. «Greed is good, greed is ri-ght» (l’avidità è buona; l’avidità è giusta),gridava il protagonista del celebre filmdel 1987, Wall Street. Per l’altro verso,l’ethos dell’efficienza è all’origine dell’al-ternanza, ormai sistematica, di avidità epanico. Né vale sostenere, come più di uncommentatore ha tentato di spiegare, cheil panico sarebbe conseguenza di compor-tamenti irrazionali da parte degli operato-ri. Perché il panico è nient’altro cheun’euforia col segno meno davanti; dun-que se l’euforia, secondo la teoria preva-lente, è razionale, anche il panico lo è. Ilfatto è che è la teoria ad essere aporetica,come dirò nel prossimo paragrafo.

3.2. Ma come ha potuto il processo or ora

descritto raggiungere il livello di perva-sività e di incidenza di cui tutti oggi sonoconsapevoli? Senza il supporto scientificodi una certa scuola di pensiero economicole cose non sarebbero andate come sonoandate. Prima di darne ragione, una pre-messa è indispensabile. A differenza diquanto accade nelle scienze naturali,quella economica è fortemente sotto l’in-fluenza della tesi della doppia ermeneuti-ca, secondo cui le teorie economiche sulcomportamento umano incidono, tanto opoco, presto o tardi, sul comportamentostesso dell’uomo. Quanto a dire che la teo-rizzazione in ambito economico mai la-scia immutato il suo campo di studio, dalmomento che essa non solo plasma lemappe cognitive dell’agente economico,ma gli indica anche la via che deve essereseguita se si vuole conseguire in modo ra-zionale lo scopo. Ora, se quest’ultimo è lamassimizzazione del guadagno (o altraspecificazione della funzione obiettivo) ese, come è ovvio, lo scopo di un’azioneprescrive quali debbano essere i mezzi ri-chiesti per realizzarlo, il circolo ermeneu-tico è presto chiuso. È per questa fonda-mentale ragione che l’economista non

può trincerarsi dietro una pre-sunta neutralità assiologicanel momento in cui producemodelli e teorie, soprattuttoquando è consapevole del fat-to che i prodotti del suo lavo-ro scientifico generano un cer-to modo di pensare e vengonopresi come base di riferimentodal decisore politico.Nel caso specifico di cui cistiamo occupando, dove si è

maggiormente manifestata questa assen-za di responsabilità da parte degli econo-misti, una assenza che è consistita nel nonaver fatto tesoro, quanto meno, del princi-pio di precauzione nel suggerire determi-nate linee di azione? In primo luogo, nel-l’aver fatto credere che quello di efficien-za fosse un criterio oggettivo (cioè neutra-le rispetto ai giudizi di valore) di scelta traopzioni alternative. Un semplice apologoche riprendo, con adattamenti vari, da J.Wight e J. Morton4, vale a convincerci del

favoriscono la redditività delle impresequotate in borsa, può accadere che le fa-miglie compensino in misura più che pro-porzionale la riduzione dei redditi da la-voro con aumenti dei redditi di borsa. Intal modo, il conflitto endemico alla societàpost-moderna, quello tra la figura del la-voratore e la figura del consumatore – pergenerare valore azionario occorre che leimprese si ristrutturino con operazioniquali la delocalizzazione, l’outsourcing, lefusioni e acquisizioni: ciò riduce bensì ilsalario, ma riduce anche i prezzi dei benidi consumo – verrebbe risolto con la figu-ra dell’investitore-speculatore. La finan-ziarizzazione induce così il risparmiatore,piccolo o grande che sia, a trasformarsi inspeculatore, accorto o meno che sia.Non dobbiamo allora sorprenderci se nel-l’arco dell’ultimo quarto di secolo, per unverso, è aumentata, fino a raggiungere li-velli mai visti in precedenza, la volatilitàdei rapporti di lavoro (la cosiddetta pre-carietà, che ben poco ha a che vedere conla flessibilità) e per l’altro ver-so è andata aumentando, intutti i paesi dell’Occidenteavanzato, la diseguaglianzanella distribuzione dei redditi.Come ci informa il RapportoOECD dell’ottobre 2008(Growing unequal? Income di-stribution and poverty in OECDcountries), la distanza tra ricchie poveri è aumentata sensibil-mente nel periodo indicato.(L’Italia è seconda fra i paesi sviluppati,dopo gli Stati Uniti, in questa non invidia-bile graduatoria). È agevole comprender-ne la ragione, non certo unica, ma princi-pale: quando i redditi provengono dal la-voro (manuale o intellettuale che sia) loscarto tra i più e i meno pagati non potràmai superare una certa soglia; non cosìquando essi provengono da attività spe-culative oppure quando certe remunera-zioni sono legate, come avviene nel casodelle stocks options per i dirigenti, agliandamenti borsistici. Quando l’unitarietàdella persona viene artificiosamente fra-zionata in figure come quella del lavora-tore, del consumatore, dell’investitore-

L’approfondimento

4. J. Wight e J. Morton, Teaching the Ethical Foundationsof Economics, NCEE, New York 2007.

«SEGNO DI PREOCCUPANTEDEBOLEZZA È LA DIFFUSIONE ALIVELLO DI CULTURA POPOLARE

DELL’ETHOS DELL’EFFICIENZA COMECRITERIO ULTIMO DI GIUDIZIO E DI

GIUSTIFICAZIONE DELLA REALTÀECONOMICA».

Page 7: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

69NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

disciplinecontrario. In un ospedale sperduto, il me-dico di guardia ha a disposizione diecidosi di un siero salvavita. Una certa nottearrivano all’ospedale due gruppi di diecipersone ciascuno, tutte bisognose del sie-ro. Il medico sa che le persone del gruppoA, ricevendo il siero, avranno salva la vi-ta. Quelle del gruppo B, invece, hannouna probabilità del 50% di restare in vitadopo aver ricevuto l’iniezione. A chi som-ministrerà le dieci dosi il nostro medico sevuole allocare quella risorsa scarsa in mo-do efficiente? Al gruppo A, perché in talmodo salverà dieci, anziché cinque, viteumane.Supponiamo ora che al medico giunga la se-guente informazione: le persone del gruppoA hanno un’età media di ottant’anni conuna speranza di vita residua di cinque anni;mentre quelle del gruppoB sono bambini dicinque anni, che hanno una speranza di vi-ta residua di ottanta anni. Come si compor-terà in tale nuova situazione il nostro? Sel’obiettivo è quello di massimizzare il nu-mero di anni di vita, la sua scelta cadrà sulgruppo B, dal momento che quattrocentoanni di vita (5x80) superano di gran lunga icinquanta anni di vita (5x10) che egli assicu-rerebbe se il siero venisse distribuito algruppo A. Per completare la parabola, si as-suma che le dosi in questione non siano diproprietà dell’ospedale, ma di una farmaciaprivata che è disposta a venderle a chi offreil prezzo più alto. In tali condizioni, se l’o-biettivo diventa quello di massimizzare il ri-cavo (e quindi il guadagno), il medico sicomporterà in modo efficiente se distribuiràil siero salvavita ai soggetti del gruppo A.Il messaggio dell’apologo è chiaro: si puòutilizzare il criterio di efficienza, e in for-za di questo prendere decisioni, solo dopoche si è fissato il fine che si intende perse-guire. Quanto a dire che l’efficienza èstrumento per un fine e non un fine in sé.Affermare pertanto che i comportamentidi banchieri e trader – che in massa si so-no gettati nel gioco della speculazione fi-nanziaria nel corso dell’ultimo ventennio– devono dirsi legittimati dalla circostan-za che costoro seguivano un canone di ra-zionalità volto ad assicurare un’efficienteallocazione delle risorse finanziarie, è adir poco una tautologia, indice di platealesprovvedutezza metodologica.

C’è un secondo ambito dove l’influenza

del mainstream economico è stata decisiva

dell’impresa come merce, che, in quantotale, può essere comprata e venduta sulmercato al pari di ogni altra merce. Essa è,pertanto, nulla più di un «fascio di con-tratti» (nexus of contracts) che, a secondadelle convenienze del momento, vengonosiglati da una pluralità di soggetti ognunoalla ricerca del massimo guadagno indivi-duale. Ebbene, se l’impresa è nulla più diuna merce, è evidente che l’unica classe distakeholder che merita attenzione siaquella degli azionisti e ciò per l’ovvia con-siderazione che per vendere ci vuole unproprietario e, d’altra parte, chi compraun’impresa, pagandone il prezzo, ne di-viene il proprietario. C’è da meravigliarsi,allora, se a partire da una tale concettua-lizzazione dell’impresa, si arriva a conclu-dere che obiettivo del management è quel-lo di massimizzare il valore per l’azioni-sta-proprietario? Si tenga presente che è ilprincipio dello shareholder’s value ad averispirato in senso ideologico il processo difinanziarizzazione. È questo il principioche induce ad esaltare le quotazioni in bor-sa e ad assegnare all’azionista il free cashflow – la cassa che resta una volta onoratitutti i costi operativi, finanziari e fiscali.Per migliorare i rendimenti che si aspettadi incassare, l’azionista–proprietario del-l’impresa associa, nel perseguimentodell’obiettivo, i manager mediante il rico-noscimento di remunerazioni legate an-ch’esse al rendimento del capitale – lestock options sono lo strumento più noto,ma non il solo. Se poi il management nonè performativo, le quotazioni dell’impresacrolleranno ed essa passerà in altre mani

L’approfondimento

nel contribuire a determinare il disastro fi-

nanziario. Si tratta del retroterra teorico

che ha avvalorato il principio della massi-

mizzazione dello shareholder value. In bre-

ve, si tratta di questo. Tre sono le conce-

zioni con cui la teoria microeconomica

guarda all’impresa: l’impresa come asso-

ciazione; l’impresa come coalizione; l’im-

presa come merce. La prima vede l’impre-

sa come comunità, cui prendono parte di-

versi portatori di interessi (lavoratori; in-

vestitori; clienti; fornitori; territorio), che

cooperano per conseguire un comune

obiettivo, e che è organizzata per durare

nel tempo. È questa l’idea – si badi – da cui

nasce la «corporation» americana, la quale

in origine è un ente non profit la cui go-

vernance viene mutuata da quella dei mo-

nasteri benedettini e cistercensi. La corpo-

ration è un bene di per sé e, poiché tale,

non può essere lasciata ai capricci del mer-

cato, e di quello finanziario in special mo-

do. La concezione dell’impresa come coa-

lizione, invece, si sviluppa a partire dal

pioneristico contributo del premio Nobel

Ronald Coase, che nel celebre saggio del

1937 «Perché esiste l’impresa» difende la te-

si secondo cui l’impresa nasce per rispar-

miare sui costi di transazione, cioè sui co-

sti d’uso del mercato. Ogni negoziazione

di mercato, infatti, implica specifici costi e

dunque un’impresa ha ragione di esistere

fin tanto che i costi di transazione supera-

no i costi di esercizio della proprietà.

Infine, a partire dagli anni ’60 del secolo

scorso in economia inizia a prendere cor-

po, fino a divenire oggi dominante, l’idea

«SI PUÒ UTILIZZARE ILCRITERIO DI

EFFICIENZA, E INFORZA DI QUESTO

PRENDERE DECISIONI,SOLO DOPO CHE SI ÈFISSATO IL FINE CHE

SI INTENDEPERSEGUIRE».

Page 8: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

70 NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

discipline

1697, quando una squadra di esploratoriolandesi si imbatté per la prima volta inAustralia in un cigno nero.Perché la realtà ha allora «disobbedito» almodello teorico? La risposta ci viene dallostesso Alan Greenspan che, dopo aver de-nunciato, sul Financial Times del 17 marzo2008, «i modelli troppo semplici per cattu-rare la realtà», il 23 ottobre 2008, di frontealla Commissione di Controllo del Con-gresso americano dichiara, con un tasso diopportunismo pari soltanto a beata irre-sponsabilità: «Negli ultimi decenni si èformato un vasto sistema di gestione delrischio e dei prezzi, unendo le migliori in-tuizioni di matematici ed esperti fi-nanziari rilanciate

da importantiprogressi nellatecnologia deicomputer edelle comu-nicazioni. Un premioNobel [invero, sono tre i premi Nobel] èstato assegnato per la scoperta del sistemadi assegnazione dei prezzi che sostienegran parte della crescita del mercato deiderivati. L’intero edificio intellettuale, tut-tavia, è crollato nell’estate dello scorso an-no perché i dati inseriti nel modello di ge-stione del rischio coprivano in genere sologli ultimi vent’anni, un periodo di eufo-ria». Come dire: la colpa è dei cigni neri!Eppure, già nel 2007, Nicholas Taleb nelsuo bestseller The black swan aveva antici-pato quel che si sarebbe poi verificato apartire dal luglio 2008. Quando un certopensiero unico in ambito manageriale en-fatizza il ruolo del debito come fattore de-terminante per creare valore per gli azio-nisti è ovvio, poi, che si arrivino ad appli-

care principi contabili calibrati – si pensi alfair value, al market-to-market – come se lecrisi non dovessero esserci mai. E se que-ste si verificano la responsabilità è deglioperatori che si sono comportati in modoirrazionale!Per fissare un confronto, può essere inte-ressante rileggere la conclusione cui giun-geva nel 1965 quel grande dell’economiache è Paul A. Samuelson nel celebre arti-colo in cui viene introdotta, per la primavolta, l’ipotesi dei mercati efficienti (effi-cient market hypothesis) secondo cui i prez-zi riflettono in ogni istante tutta l’infor-mazione disponibile e il prezzo di un tito-lo è la migliore stima del suo valore in-trinseco. Dopo aver dimostrato formal-mente che «i movimenti dei corsi azionariseguono una passeggiata aleatoria (ran-dom walk), un processo nel quale ogni va-riazione è completamente casuale e im-prevedibile», Samuelson concludeva:«Non si dovrebbero trarre troppe con-seguenze dal teorema che ho appenadimostrato. In particolare, non ne se-gue che i mercati competitivi realifunzionino bene». Un esempio, que-

sto, di umiltà intellettuale e di saggezzapolitica. E sempre Samuelson nell’arti-colo sul Corriere della Sera del 20 ottobre2008 scrive: «Il sottoscritto e alcuni col-leghi del MIT e delle Università di Chi-cago, Wharton, Pennsylvania e molte al-tre, rischiano di subire un assai rude trat-tamento quando incontreranno San Pietroalle porte del Paradiso», (p. 9). Una di-chiarazione, questa, che fa il paio conquella di E. Phelps, anch’egli premio No-bel, che nell’articolo dell’11 novembre2008 sul Corriere della Sera ha scritto: «Lebanche hanno parlato della discesa deiprezzi delle case come se fosse la conse-guenza di un qualche shock… In realtànon sono stati terremoti, periodi di siccitào altri fattori esterni a provocare la cadutadei prezzi. La causa principale è stata unaprevisione basata su modelli teorici deltutto erronei». (Corsivo aggiunto). Su unalinea lievemente diversa si muove NicoleEl Karoui, la famosa studiosa francesedell’Università di Parigi VI cui si devel’infrastrutturazione matematica del cal-colo stocastico sulla cui base sono stati co-

che provvederanno a rimediare alla perdi-ta di efficienza. Ma per tutto questo occor-re considerare l’impresa come merce! Ora,anche a prescindere dagli abusi di potereda parte dei manager, frequentatissimi inquesti anni, è l’impianto teorico dello she-

reholder’s value ad essere errato, come hoargomentato nel mio «The ethical anchoring

of Corporate Social Responsability»5.Infine, di una terza precisa responsabilitàdella professione degli economisti in que-sta vicenda mette conto dire. Come si è ri-cordato nella sezione 2, il modello teoricosul quale gli operatori della finanza creati-va hanno eretto il loro edificio di titolistrutturati – titoli cartolarizzati basati sumutui o prestiti, reimpacchettati poi in ob-bligazioni sintetiche come i CDO – è il ce-lebre modello Black-Scholes-Merton, ela-borato negli anni ’70 sulla scia di prece-denti intuizioni di R. Lucas, il padre nobi-le della teoria delle aspettative razionaliche ricevette il premio Nobel per l’econo-mia nel 1995 (Myron Scholes e RobertMerton lo riceveranno due anni dopo).Oggetto di studio del modello è l’anda-mento nel tempo del prezzo degli stru-menti finanziari e la sua conclusione prin-cipale è che, sotto certe condizioni, è pos-sibile eliminare il rischio degli investimen-ti. Si legge nella motivazione con la qualel’Accademia di Svezia conferì nel dicem-bre 1997 il Nobel ai due economisti ameri-cani: «Le banche e le banche di affari usa-no la metodologia [di Merton e Scholes]per valutare i nuovi strumenti finanziari eoffrire strumenti ritagliati sui rischi deiclienti. Al contempo, questi istituti posso-no così ridurre l’esposizione al rischio suimercati». Si legge ancora nel Bollettino del-la Harvard Business School dell’ottobre1997 – Università nella quale Merton si erada poco trasferito dal vicino MIT: «In ef-fetti, usando la formula di Merton diventapossibile costruire un portafoglio virtual-mente privo di rischi» (sic!). Perché «vir-tualmente»? Per la semplice ragione chegli eventi che potrebbero invalidare le con-clusioni del modello sono talmente rari dapoter essere di fatto dimenticati. Si trattadi eventi del tipo «cigno nero» – espressio-ne che entra nell’uso comune a partire dal

L’approfondimento

5. Cfr. L. Zsolnai (a cura di), Yearbook of Business Ethics,vol. 1, 2006.

Page 9: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

71NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

disciplinestruiti i modelli per i derivati: «Credo chein questa crisi i matematici abbiano gioca-to il ruolo più piccolo, anche se non voglionegare ogni responsabilità. Certe volte sicono comportati come ingegneri che pro-gettano auto troppo veloci…. Forse i ma-tematici non hanno spiegato bene i rischidi questi prodotti, ma non siamo noi i pri-mi responsabili di questa crisi. I grandi in-vestitori che si sono appropriati dei deri-vati avevano gli strumenti per compren-derne la portata»6. La similitudine rendel’idea, ma non è calzante appieno: primo,perché anche il non esperto di ingegneriameccanica è in grado di valutare i rischidell’eccessiva velocità; secondo, perchénel caso della circolazione stradale vi so-no apposta i divieti di velocità. C’è dun-que da sperare che da oggi le nostre con-cezioni del funzionamento dei mercati fi-nanziari cambino sostanzialmente e chegli economisti tornino a prendere atto del-le conseguenze devastanti che scaturisco-no dalla «grande divisione» – di humeanamemoria – tra razionale e ragionevole.

3.3 Passo da ultimo al terzo blocco di cau-

se remote. Esse hanno tutte a che vederecon le specificità della matrice culturaleche si è andata consolidando negli ultimidecenni sull'onda, da un lato, del processodi globalizzazione e, dall'altro, dell'avven-to della terza rivoluzione industriale,quella delle tecnologie info-telematiche.Due aspetti specifici di tale matrice sonorilevanti ai fini presenti. Il primo riguardala presa d'atto che alla base dell'attualeeconomia capitalistica è presente una seriacontraddizione di tipo pragmatico-non lo-gico, beninteso. Quella capitalistica è cer-tamente un'economia di mercato, cioè unassetto istituzionale in cui sono presenti eoperativi i due principi basilari della mo-dernità: la libertà di agire e fare impresa;l'eguaglianza di tutti di fronte alla legge.Al tempo stesso, però, l'istituzione princi-pe del capitalismo – l'impresa capitalistica,appunto – è andata edificandosi nel corsodegli ultimi tre secoli sul principio di ge-rarchia. Ha preso così corpo un sistema diproduzione in cui vi è una struttura cen-tralizzata alla quale un certo numero di in-dividui cedono, volontariamente, in cam-bio di un prezzo (il salario), alcuni dei lorobeni e servizi, che una volta entrati nel-l'impresa sfuggono al controllo di coloroche li hanno forniti.

dentro l'impresa e non solamente quel cheavviene nei rapporti tra imprese che inte-ragiscono nel mercato. «Se la democrazia –scrive Dahl7 – è giustificata nel governodello Stato, allora essa è pure giustificatanel governo dell'impresa». Mai sarà com-piutamente democratica la società nellaquale il principio democratico trova con-creta applicazione nella sola sfera politica.La buona società in cui vivere non costrin-ge i suoi membri ad imbarazzanti disso-ciazioni: democratici in quanto cittadinielettori; non democratici in quanto lavora-tori o consumatori. Nel suo recente saggio,Supercapitalismo. Come cambia l’economiaglobale e i rischi per la democrazia8, R. Reich –ex ministro della prima presidenza Clin-ton – difende la tesi secondo cui la concor-renza posizionale rappresenta oggi unaseria minaccia alla democrazia. Quanto adire, che non è vero che è il libero mercatoad essere prodromico alla democrazia; alcontrario, è il principio democratico a ren-dere libero il mercato.Il secondo aspetto riguarda l'insoddisfa-zione, sempre più diffusa, circa il modo diinterpretare il principio di libertà. Come ènoto, tre sono le dimensioni costitutivedella libertà: l'autonomia, l'immunità, lacapacitazione. L'autonomia dice della li-bertà di scelta: non si è liberi se non si è po-sti nella condizione di scegliere. L'immu-nità dice, invece, dell'assenza di coercizio-ne da parte di un qualche agente esterno.È, in buona sostanza, la libertà negativa(ovvero la «libertà da») di cui ha parlato I.Berlin. La capacitazione, (letteralmente:capacità di azione) nel senso di A. Sen, in-fine, dice della capacità di scelta, di conse-guire cioè gli obiettivi, almeno in parte o inqualche misura, che il soggetto si pone.Non si è liberi se mai (o almeno in parte) siriesce a realizzare il proprio piano di vita.Ebbene, mentre l'approccio liberal-liberi-sta vale ad assicurare la prima e la secon-da dimensione della libertà a scapito dellaterza, l'approccio stato-centrico, vuoi nellaversione dell'economia mista vuoi in quel-

Sappiamo bene dalla storia economica co-me ciò sia avvenuto e conosciamo anche inotevoli progressi sul fronte economicoche tale assetto istituzionale ha garantito.Ma il fatto è che nell'attuale passaggio d'e-poca – dalla modernità alla dopomoder-nità – sempre più frequenti sono le voci chesi levano ad indicare le difficoltà di farmarciare assieme principio democratico eprincipio capitalistico. Il fenomeno dellacosiddetta privatizzazione del pubblico èciò che soprattutto fa problema: le impresedell'economia capitalistica vanno assu-mendo sempre più il controllo del compor-tamento degli individui – i quali, si badi,trascorrono ben oltre la metà del loro tem-

po di vita sul luogo di lavoro – sottraendo-lo allo Stato o ad altre agenzie, prima fratutte la famiglia. Nozioni come libertà discelta, tolleranza, eguaglianza di fronte al-la legge, partecipazione ed altre simili, co-niate e diffuse all'epoca dell'Umanesimocivile e rafforzate poi al tempo dell'Illumi-nismo, come antidoto al potere assoluto (oquasi) del sovrano, vengono fatte proprie,opportunamente ricalibrate, dalle impresecapitalistiche per trasformare gli individui,non più sudditi, in acquirenti di quei benie servizi che essi stessi producono.La discrasia che ne consegue sta in ciò che,se si hanno ragioni cogenti per considera-re meritoria l'estensione massima possibi-le del principio democratico, allora occor-re cominciare a guardare quel che avviene

L’approfondimento

«LE IMPRESEDELL'ECONOMIA

CAPITALISTICA VANNOASSUMENDO SEMPRE

PIÙ IL CONTROLLO DELCOMPORTAMENTO

DEGLI INDIVIDUISOTTRAENDOLO ALLO

STATO O AD ALTREAGENZIE, PRIMA FRATUTTE LA FAMIGLIA».

6. Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2008.7. A Preface to economics democracy, Univ. of Califor-nia Press, Berkeley 1985, p. 57.8. Fazi Ed., Milano 2008.

Page 10: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

72 NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

discipline

4. Anziché una conclusione

Che dire a conclusione di queste brevi no-te? Che se il presidio pubblico costituitodal sistema delle regole e degli enti di vigi-lanza e controllo – un presidio che avrebbepotuto impedire lo scoppio di una crisi fi-nanziaria dalle proporzioni mai viste inprecedenza – non ha funzionato, ciò è do-vuto ad una pluralità di ragioni, alcune dinatura contingente (cfr. la sezione 2), altredi carattere strutturale (cfr. la sezione 3).Tuttavia, sono proprio queste ultime a far-ci comprendere come questa crisi sia diver-sa, sotto il profilo qualitativo, da quelle chel’hanno preceduta.Quando a partire dal 1984, la più parte deipaesi europei hanno iniziato a seguire gliUsa sulla via della deregulation finanzia-ria, forse nessuno aveva intravisto il peri-colo mortale che ne sarebbe derivato: la re-cisione dei legami tra democrazia emercato. Ma un mercato che espun-ge dal proprio orizzonte la democra-zia per far posto alla sola efficienza –nel caso di specie, nelle forme dellamassimizzazione dei rendimenti –sospinge l’economia su un sentierodi sviluppo oligarchico, il che èquanto di più lontano possa essercidalla prospettiva liberale. Il parados-so del liberismo – inteso in sensostretto – è che esso si sega il ramo sucui è assiso: mirando esclusivamenteall’efficienza, esso dimentica che democra-zia e libertà sono valori ad essa superiori.Ecco perché già Adam Smith insisteva cheun ordine sociale autenticamente liberaleaveva bisogno di due mani per durare neltempo: invisibile l’una – quella di cui tuttiparlano, anche se spesso a sproposito forseper una carente capacità interpretativa – evisibile l’altra – quella dello Stato che deveintervenire in chiave sussidiaria, come di-remmo oggi, tutte le volte in cui l’operaredella mano invisibile rischia di condurreverso la monopolizzazione o oligopolizza-zione dell’economia. Un solo dato a taleproposito: le prime cinque banche ameri-cane (Citigroup, Bank of America, J.P. Mor-gan, Wachovia, HSBC) controllano il 97%dell’industria dei derivati e si accollano il

90% del rischio implicito. (Si tenga a men-te che nella Ricchezza delle Nazioni del 1776,la metafora della mano invisibile viene ci-tata una sola volta, mentre parecchie sonole pagine che A. Smith dedica ai modi diintervento dello Stato).

Oggi stiamo assistendo ad una sorta di pe-

na del contrappasso. A far tempo dallagrande depressione del 1929, mai si era as-sistito ad uno spiegamento di forze nell’e-conomia da parte del settore pubblico comequello in atto. Come la realtà insegna,quando in nome dell’ideologia si esagera inuna direzione, il pendolo della storia so-spinge poi, inesorabilmente, nella direzio-ne opposta. La duplice promessa – di isti-tuzioni finanziarie che sarebbero state ingrado di autoregolarsi da sole e di risultatieconomici che avrebbero assicurato a tuttirendimenti superiori alla media degli stessi– si è rivelata per quello che era e che è: unatragica menzogna, anche se mascherata eedulcorata con argomentazioni pseudo-scientifiche. La più plateale delle quali ave-va assunto la seguente struttura sillogistica.Per aumentare sempre più la redditività del

capitale occorre alzare i livelli di rischio.D’altro canto, se il più alto rischio così ricer-cato viene suddiviso in una miriade di tito-li e veicoli finanziari; se i prodotti finanzia-ri così creati vengono spalmati su una mas-sa sufficientemente ampia di investitori; sesi estende all’infinito l’orizzonte temporaledelle decisioni economiche, se tutte e trequeste condizioni vengono soddisfatte, al-lora è come se il rischio venisse annullato equindi dimenticato.Non ci vuole molto a comprendere comel’esito di una tale mistificazione dellarealtà abbia potuto generare la situazionedi cui oggi siamo tutti spettatori tristi. Ep-pure, anche lo studente più sprovvedutodi economia sa che c’è una legge econo-mica, retaggio di antica saggezza, che di-

la del socialismo di mercato, tende a privi-

legiare la seconda e la terza dimensione a

scapito della prima. Il liberismo è bensì ca-

pace di far da volano del mutamento, ma

non è altrettanto capace di gestirne le con-

seguenze negative, dovute all'elevata

asimmetria temporale tra la distribuzione

dei costi del mutamento e quella dei bene-

fici. I primi sono immediati e tendono a ri-

cadere sui segmenti più sprovveduti della

popolazione; i secondi si verificano in se-

guito nel tempo e vanno a beneficiare i

soggetti con maggiore talento. Come J.

Schumpeter fu tra i primi a riconoscere, è

il meccanismo della distruzione creatrice il

cuore del sistema capitalistico – il quale di-

strugge «il vecchio» per creare «il nuovo»

e crea «il nuovo» per distruggere «il vec-

chio» – ma anche il suo tallone d'Achille

perché, a meno di creare adeguate «safety

nets» (reti di sicurezza), è evidente che co-

loro che si vedono danneggiati dal mecca-

nismo della distruzione creatrice si orga-

nizzeranno per boicottarla, creando lob-

bies di tipo neo-corporativista per impedi-

re che il processo di innovazione abbia

luogo. D'altro canto, il socialismo di mer-

cato – nelle sue plurime versioni – se pro-

pone lo Stato come soggetto incaricato di

far fronte alle asincronie di cui si è detto,

non intacca la logica del mercato capitali-

stico; ma ne restringe solamente l'area di

operatività e di incidenza. Come si può

comprendere, la sfida da raccogliere è

quella di fare stare insieme tutte e tre le di-

mensioni della libertà: è questa la ragione

per la quale il paradigma del bene comu-

ne appare come una prospettiva quanto

meno interessante da esplorare.

Alla luce di quanto precede, riusciamo a

comprendere perché la crisi finanziaria

non può dirsi un evento né inatteso né in-

spiegabile. Ecco perché, senza nulla to-

gliere agli indispensabili interventi in

chiave regolatoria e alle necessarie nuove

forme di controllo, non riusciremo ad im-

pedire l’insorgere in futuro di episodi

analoghi se non si aggredisce il male alla

radice, vale a dire se non si interviene sul-

la matrice culturale che ha sorretto finora

il sistema economico.

L’approfondimento

Page 11: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

73NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

disciplinece che il valore di un prodotto finanziariocomplesso (si pensi ai CDO e ai CDS) maipuò eccedere il valore della sua compo-nente più debole – proprio come la forzadi una catena è la forza del suo anello piùdebole. Ma sacra auri fames e ideologiahanno fatto strame di questo e di altriprincipi basici dell’economia.La crisi – che lette-ralmente significatransizione e inquanto tale è desti-nata a concludersi(forse nell’arco deiprossimi due o treanni) – lascia ineredità a tutti gliattori un messag-gio e un monitoimportanti. Allebanche commerciali e di investimento e al-le varie istituzioni finanziarie l’invito è cheesse tornino a riappropriarsi del fine pro-prio del fare finanza e che giungano a com-prendere due cose. Primo, che l’etica dellavirtù, di ascendenza aristotelica, è «supe-

riore» all’etica utilitaristica se il fine che siintende perseguire è il progresso morale emateriale della società. Secondo, che ègiunto il tempo di sostituire ai canoni del-lo scientific management, ormai obsoleti per-ché adeguati al modo di produzione indu-striale che non è più, quelli dello humanisticmanagement, il cui elemento centrale è lapersona umana e non più la risorsa umana.La società dopomoderna non può tollerareche si continui a parlare di «risorse uma-ne», alla stessa stregua di come si parla dirisorse finanziarie e di risorse naturali.

Alle autorità di governo questa crisi dice

pure due cose fondamentali. In primoluogo, che la critica sacrosanta allo «Statointerventista» in nessun modo può valere

ri adeguati se riferiti alle grandi imprese ditipo capitalistico, non lo sono affatto quan-do si tratti di imprese cooperative o di pic-cole e medie imprese che operano in territo-ri ben circoscritti. È dunque chiaro che i cri-teri di Basilea 2 non sono neutrali, dato chediscriminano tra tipologie diverse di impre-sa, col risultato che banche non commercia-li e banche del territorio vedranno le loropolitiche di impieghi caricate di pesi che in-vece non gravano sulle spalle dei grandigruppi bancari. Un assetto istituzionale au-tenticamente liberale non può tollerare di-scriminazioni del genere.

Cosa ha da comunicare la crisi attuale alla

teoria della finanza e agli economisti in

generale? Un duplice insegnamento. Pri-

mo, che quanto più spinta è la raffinatezza

degli strumenti analitici (matematici ed

econometrici) impiegati, tanto più alta deve

essere la consapevolezza dei pericoli insiti

nell’impiego pratico dei prodotti della nuo-

va tecno-finanza. È questa irresponsabile

mancanza di umiltà intellettuale ad aver in-

dotto non pochi economisti del mainstream,

inclusi prestigiosi, ma poco saggi, premi

Nobel, a guardare con supponenza ad au-

tori come J. M. Keynes e Hyman Minsky e

a considerare superati maestri del calibro di

John Hicks o di James Tobin (entrambi pre-

mi Nobel), studiosi nelle cui opere erano

già prefigurate buona parte delle conse-

guenze che ora stiamo registrando. (Ricor-

derò sempre l’immagine metaforica di

Hicks quando, ancora nei primi anni ’70 del

secolo scorso, insisteva sulla necessità di in-

serire, di tanto in tanto, granelli di sabbia

negli ingranaggi della macchina finanzia-

ria, per rallentarne la velocità – un’idea

questa che poi Tobin tradurrà nella propo-

sta nota come «Tobin tax»). L’umiltà avreb-

be poi consentito di fare tesoro di un note-

vole precedente storico, quello del celebre

economista americano Irving Fisher, tanto

geniale sotto il profilo matematico (Gibbs, il

grande fisico della termodinamica era stato

uno dei suoi mentori) quanto catastrofico

speculatore di borsa. Nell’autunno del 1929

dichiarò pubblicamente che i corsi azionari

avevano ormai raggiunto la massima stabi-

a disconoscere il ruolo centrale dello «Sta-to regolatore». In secondo luogo, che le au-torità pubbliche collocate ai diversi livelli

di governo devonoconsentire, anzi favo-rire, la nascita e ilrafforzamento di unmercato finanziariopluralista, un merca-to cioè in cui possanooperare in condizionidi oggettiva paritàsoggetti diversi perquanto concerne il fi-ne specifico che essi

attribuiscono alla loro attività. Penso allebanche del territorio – da non confonderecon le banche di territorio – alle banche dicredito cooperativo, alle banche etiche, aivari fondi etici. Si tratta di enti che non so-lamente non propongono ai propri spor-

telli finanza creativa, ma soprat-tutto svolgono un ruolo comple-mentare, e dunque equilibratore,rispetto agli agenti della finanzaspeculativa. A tale proposito, v’èda ricordare che dalla crisi i fondietici sono usciti molto bene: né fu-ghe di clienti, né crolli nei rendi-menti si sono registrati. Il mercatoeuropeo ha raggiunto i 2700 mi-liardi di euro, con un aumento dioltre il 102% in due anni. Se negliultimi decenni le autorità di go-

verno avessero tolto i tanti lacci e lacciuoliche ancora gravano sui soggetti della fi-nanza alternativa, la crisi odierna nonavrebbe avuto la potenza devastatrice chestiamo conoscendo.Un solo esempio, per tutti. Si considerinoquelle regole di Basilea 2 – frutto dell’accor-do delle autorità pubbliche dei paesi dell’a-rea Ocse – che concernono la valutazionedel rischio per le imprese che chiedono cre-dito. Se si analizzano attentamente i model-li che cercano di misurare la probabilità diinsolvenza delle imprese si scopre che i pa-rametri utilizzati a tale scopo – ammontaredi profitti distribuiti (TSR, total shareholderreturn); Roe (return on equity) e altri che perloro natura sono centrati su obiettivi di bre-ve periodo – mentre costituiscono indicato-

L’approfondimento

«DALLA CRISI I FONDIETICI SONO USCITI

MOLTO BENE:NÉ FUGHE DI CLIENTI,

NÉ CROLLI NEIRENDIMENTI SI SONO

REGISTRATI».

Page 12: Lezionee monitodiunacrisiannunciata - aeeeitalia.it · Leon Bloy. Come la storia insegna, il phro - noszeon, l’ira degli dei che si accompagna allahybris,siabbattesempresugliultimie

74 NUOVA SECONDARIA - N. 5 2009- ANNO XXVI

discipline

genti che guidano la danza in tale settore siadoperano, con grande abilità tecnico-co-municativa, per trasformare quelle diretti-ve in precisi prodotti che vengono poi sug-geriti o consigliati – si fa per dire –alla vastaplatea degli investitori, individuali o collet-tivi. Alcuni di questi sono presi da «famedel denaro», ma molti altri sono indotti a

scelte che non avrebbero operato in presen-za di una effettiva pluralità di offerte. Ilpunto è che i modelli matematico-finanzia-ri non suggeriscono solamente linee di con-dotta; essi cambiano la forma mentis dellepersone, come i risultati più recenti della ri-cerca sperimentale delle neuroscienze con-fermano ad abundantiam.

Quale, infine, il monito che la crisi invia

ai soggetti della società civile portatoridi cultura? Pensiamo ad iniziative quali:deleveraging delle banche; assicurare iconti di deposito; sanzionare gli ammini-stratori; muovere passi decisivi verso unanuova architettura del sistema finanzia-rio mondiale; prendere misure concreteper scongiurare il rischio che alla crisi inatto si aggiunga quella delle carte di cre-dito Usa, etc. Tutto ciò è utile e va urgen-temente attuato, ma non basta, perchéquesta crisi ha ridotto, in modo impres-sionante quella specifica componente delcapitale sociale che è la fiducia generaliz-zata, quella cioè a largo raggio. Sappiamoda tempo che un’economia di mercato,per funzionare, può fare a meno di tantis-sime cose, ma non della fiducia, perchéquella di mercato è un’economia contrat-

tuale e senza fiducia reciproca non c’ècontratto che possa essere siglato. Dopo-tutto, anche i CDS e gli hedge funds – crea-ti apposta per dare garanzie – postulanocontratti, sia pur di forma particolare.Mai si dimentichi che il mercato è un con-sumatore, non un produttore di fiducia,anche se è vero che istituzioni mercantiliben disegnate favoriscono la diffusione el’amplificazione delle relazioni fiduciarie.Un indicatore grezzo, ma eloquente, del-la mancanza di fiducia ci viene dalla con-statazione che, nel mercato interbancario,perfino le banche che hanno liquidità ineccesso hanno cessato di concedere pre-stiti ad altre banche, preferendo acquista-re titoli di Stato certamente meno remu-nerativi.È alla società civile che spetta il compitodi riannodare le «corde» tra tutti coloroche operano nel mercato e che questa cri-si ha maldestramente spezzato. (Si ram-menti che fiducia, dal latino fides, significaletteralmente «corda», come Antonio Ge-novesi nel suo Lezioni di economia civile del1765 aveva lucidamente chiarito). Ma dadove partire per cercare di portare a ter-mine un compito del genere? Dalla ricen-tratura sia del discorso economico sia delnuovo disegno istituzionale sulla catego-ria di bene comune. Un tempo assai pre-sente nel dibattito culturale, questa cate-goria è stata finora sistematicamente con-fusa – purtroppo anche dagli addetti ai la-vori – con quella di bene totale oppure dibene collettivo. Niente di più fuorviante equindi deleterio10. Che la nozione di benecomune conosca, oggi, sull’onda delle vi-cende che qui si è cercato di interpretare,una sorta di risveglio, di rinnovato inte-resse è cosa che ci viene confermata dauna pluralità di segni e ciò apre alla spe-ranza. Non c’è proprio da meravigliarsi diciò: quando si arriva a prendere atto dellacrisi di civilizzazione che incombe, si èquasi sospinti ad abbandonare ogni atteg-giamento distopico, osando vie nuove e dipensiero e di azione.

Stefano ZamagniUniversità di Bologna

lità e che mai Wall Street sarebbe andata in-

contro a un crollo. Fu così che, operando

sulla base del modello teorico che lui stesso

aveva elaborato, Fischer perdette, oltre alla

reputazione di economista, quasi l’intero

patrimonio di famiglia.

Cosa c’è alla base di certa arroganza intel-

lettuale ancora così frequente in non po-

chi circoli accademici? L’incapacità di

comprendere, per difetto di preparazione

filosofica, la distinzione tra razionalità e

ragionevolezza. Un argomento economi-

co può ben essere razionale, matematica-

mente ineccepibile, ma se le sue premesse,

cioè i suoi assunti, non sono ragionevoli,

risulterà di scarso aiuto; anzi, può con-

durre a disastri. Ha scritto il celebre filo-

sofo della scienza von Wright9: «I giudizi

di ragionevolezza sono orientati verso il

valore; essi vertono … su ciò che si ritiene

buono o cattivo per l’uomo. Ciò che è ra-

gionevole è senza dubbio anche razionale,

ma ciò che è meramente razionale non è

sempre ragionevole». La ragionevolezza,

infatti, è la razionalità che rende la ragio-

ne ragione dell’uomo e per l’uomo. Per-

ché tale, essa è espressione di saggezza e

non solo di abilità intellettuale.

La seconda grande lezione che dalla crisi

arriva all’economia è quella di affrettare itempi del superamento della cosiddetta«saggezza convenzionale» (conventional wi-

sdom), secondo cui tutti gli agenti economi-ci sarebbero mossi all’azione da un orienta-mento motivazionale di tipo egocentrico edauto-interessato. Oggi sappiamo che tale

assunto è fattualmente falso: è certamentevero che, a seconda dei contesti e dei perio-di storici, c’è una percentuale, più o menoalta, di soggetti il cui unico obiettivo è ilperseguimento del self-interest, ma questadisposizione d’animo non descrive l’interouniverso degli agenti economici. Eppure, i

modelli della teoria della finanza continua-no a postulare – mi auguro ancora per po-co – che gli agenti siano tutti homines oeco-

nomici. La conseguenza è sotto gli occhi ditutti: da quei modelli discendono direttived’azione che vengono «vendute» al settore

bancario e finanziario A loro volta, i diri-

L’approfondimento

«CHE LA NOZIONE DIBENE COMUNE

CONOSCA, OGGI, UNASORTA DI RISVEGLIO,È COSA CHE CI VIENECONFERMATA DA UNAPLURALITÀ DI SEGNI

E CIÒ APRE ALLASPERANZA».

9. V. von Wright, Immagini della scienza e forme di ra-zionalità, Carocci, Roma 1987.10. Cfr. S. Zamagni, L’economia del bene comune, CittàNuova, Roma 2007.