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1 LIBRO BIANCO ROMPERE IL SILENZIOSeminario di verifica Rapporto conclusivo Palazzo Ducale 17 novembre 2014

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Rapporto conclusivo Palazzo Ducale 17 novembre 2014

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IL TEMA Nella mattina del 17 novembre 2014, nella Sala del Camino di Palazzo Ducale, il nucleo di Controvento al completo ha verificato con un gruppo qualificato di interlocutori le tesi espresse nel proprio Libro Bianco “Rompere il silenzio”.

Andrea Acquarone

Andrea Agostini

Manuela Arata

Andrea Bignone

Glauco Valerio Briante

Angelo Michele Carella

Alessandro Cassinis

Alessandro Cavalli

Roberta Cavicchioli

Maurizio Caviglia

Angelo Cifatte

Annamaria Coluccia

Gaetano Cuozzo

Ivan De Fazio

Paolo Farinella

Giuseppe Fornari

Gaetano Gallinaro

Susanna Gosmino

Antonio Graniero

Lucia Lombardo

Sergio Maifredi

Piero Maresca

Giorgio Marziano

Enrico Musso

Luigi Picena

Giorgio Roth

Luca Sabatini

Fabrizio Spinello

Lella Trotta

Umberto Valente

Enrico Viani

Davide Viziano

Punto di partenza del confronto erano alcuni assunti proposti da Controvento: L’arresto della spinta propulsiva del territorio discende direttamente dalle carenze di

governance innovativa come risposta alle sfide del cambiamento; L’assenza di dialettica e ricambio nei gruppi dirigenti produce uno stallo malamente

mascherato da narrazioni consolatorie quanto prive di attinenze al reale; Emerge in tutta evidenza che in Liguria, tra il Palazzo delle Istituzioni e il Mercato

degli interessi (non di rado collusi), latita una Sfera Pubblica dell’opinione informata e del controllo sulle scelte collettive;

L’alluvione genovese dell’ottobre scorso segna uno spartiacque tanto fisico come

simbolico rispetto alla fase storica degli ultimi venticinque anni. A fronte di tali assunti - anche in previsione di prossime consultazioni amministrative locali - il Libro Bianco concentrava le proprie attenzioni sulle priorità d’agenda (relative a un arco temporale che non supera il medio periodo e una dimensione spaziale circoscritta al perimetro d’area). In consapevole controtendenza rispetto al costume locale di risolvere il confronto strategico nell’ambito asfittico degli organigrammi e dei personalismi. Accettando in linea di massima tale impianto concettuale, i partecipanti al seminario hanno affrontato la vasta tematica da due diversi ambiti visuali: Analisi del contesto generale (la matrice dei punti di crisi) “Che fare” (le priorità da affrontare)

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Qui di seguito si riferiscono in maniera sintetica i contributi offerti alla discussione. L’ANALISI

Alessandro Cavalli ha evidenziato la totale assenza di attenzione - da parte di una società quale quella ligure, in cui la logistica e le attività marittime rimangono il vero core business di territorio – dei fatti salienti che si stanno verificando nelle grandi direttrici di mobilità nel contesto europeo. In particolare, l’apertura imminente del tunnel del Gottardo (che si aggiunge al varco del Loeschner) andrà presumibilmente a spostare consistenti flussi di merci dai porti liguri a quelli nord-atlantici. Una minaccia incombente nei cui confronti non risultano in essere adeguate contromosse. Ancora una volta non si riesce a collocare il governo urbano in contesti più vasti, domandandosi quale ruolo esercitarvi. Forse dovrebbe far riflettere la vicenda secentesca di Genova, il cui declino dipese direttamente dall’incapacità di rispondere alle sfide esogene. Sulla stessa lunghezza d’onda, Davide Viziano denuncia la messa da parte di una “cultura del fare” a tutto vantaggio di una “cultura del dire”; che ha sottinteso non di rado secondi fini. Ne continua a fornire la cartina di tornasole il rapporto perversamente altalenante nei confronti delle regole (“interpretate a favore degli amici, imposte ai nemici”). Il punto cruciale può essere individuato nell’abbassamento della qualità delle leadership. La Genova del dopoguerra poteva contare su personaggi di sicuro spessore (Paolo Emilio Taviani, Angelo Costa, il cardinal Siri). La scomparsa di figure d’alto profilo si accompagna allo smarrimento di un principio essenziale quale quello del “bene comune”. Andrea Agostini, partendo dalle problematiche dell’ambiente, collega invece questo declino dell’attenzione all’interesse generale proprio al venir meno di alleanze nel sociale, a fronte delle promesse tradite da parte degli ultimi sindaci, che pure si erano presentati come federatori di orientamenti progressisti (Marta Vincenti e Marco Doria). Ogni politica democratica di cambiamento ha bisogno di un “blocco” di riferimento che ne sostenga l’opera. Purtroppo l’assenza di driving politico fa sì che perfino i ragazzi che andavano a spalare il fango dell’alluvione costituiscono dal punto di vista politico una componente onirica, non un soggetto identificabile. A tale riguardo c’è un evidente problema di comunicazione, che evidenzia gli stessi limiti del Libro Bianco di Controvento, indirizzato più a stakeholders che non al territorio diffuso; che si aggrega attorno a problemi che richiedono scelte concrete. A titolo di esempio, la questione del mercato di corso Sardegna. Il problema della costruzione di immagine attraverso processi comunicativi è stato ripreso da Andrea Acquarone: urge un ritorno al territorio che può essere consentito solo dal potenziamento del governo locale. E i primi destinatari di questa ripartenza dal locale sono proprio le nuove generazioni, attualmente attanagliate dal senso di impotenza che trasmette il non-governo locale. Certo vanno favorite le dinamiche che promuovano il sorgere di “comunità di progetto”, coalizzate da scopi condivisi evidenziati nelle modalità della pianificazione strategica sperimentata già negli anni Ottanta

Cavalli

Viziano

Agostini

Acquarone

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del secolo scorso nella renaixencia catalana. Ma questa opera progettuale (per la Liguria quasi fuori tempo massimo) deve accompagnarsi alla creazione di “un brand” che mobiliti energie collettive. E tale brand potrebbe essere l’utopia positiva della “Liguria nazione”. Il tema “comunità di progetto” ritorna nelle considerazioni di Manuela Arata: il genius loci del territorio ligure può essere tecnologico. Come – tra l’altro - continua a dimostrarlo il successo del Festival della Scienza genovese; la cui ultima edizione appena conclusa ancora una volta ha fornito risultati confortanti. E come testimonia l’antica eccellenza del luogo nell’integrazione di sistemi (ad esempio le produzioni di transatlantici e grandi locomotive, su cui si giocò la specifica industrializzazione ligure, coniugando meccanica, elettromeccanica, metallurgia, ecc.). La scienza può diventare il motore di sviluppo che manca attualmente. Magari collegando il lavoro scientifico al riassetto del territorio. Ma perché tutto questo avvenga è assolutamente necessario operare nei termini della progettazione di lungo periodo (trentennale), declinata in piani attuativi quinquennali. Ma affinché la chimica sociale produca gli auspicati effetti coalizionali, diventa indispensabile oltrepassare i limiti della vigente politica che – secondo Lella Trotta – manifesta la mancata comprensione di una rabbia compressa che sta diffondendosi tra strati di popolazione impossibilitati a scorgere una direzione di marcia per l’uscita dalla crisi. Bene – dunque - l’investimento sulla ricerca, in un quadro di riscossa democratica tale da invertire l’attuale linea di tendenza verso la restaurazione. E questo sarà possibile soltanto unendo le forze in un comune risveglio.

Arata

Trotta

LE AZIONI

Come era prevedibile, le recenti vicende alluvionali hanno portato all’ordine del giorno di un sacrosanto “che fare” le questioni relative alla messa in sicurezza del territorio. Giuseppe Fornari concorda sulla valutazione che le alluvioni autunnali di Genova sono una cesura inevitabile rispetto a un passato, in cui si sapeva già tutto quanto sarebbe accaduto ma non si mosse un dito. Tema su cui Italia Nostra sta predisponendo un dossier. Sullo stesso argomento interviene Giorgio Roth, apportando le sue competenze in materia di idraulica. L’acqua si sta rivelando una primaria fonte di insicurezza per la mancata presenza del soggetto pubblico. In effetti è proprio l’istituzione soggetto collettivo a poter combinare in maniera virtuosa le indispensabili esigenze di sicurezza e sviluppo. A tale riguardo gli interventi risultano essere di due tipi: non strutturali e strutturali. I primi sono finalizzati all’attenuazione dei danni (ad esempio le allerte o le tutele assicurative). Dunque utili ma non risolutivi. Solo gli interventi strutturali hanno tale caratteristica. Ma devono essere effettivamente tali. Altrimenti rientrano nell’altra categoria. Ne consegue che per la messa in sicurezza del sistema idrogeologico genovese l’unica opera davvero risolvente è lo scolmatore alle foci del Bisagno. Il resto sono solo palliativi.

Fornari

Roth

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A tale riguardo Gaetano Gallinaro osserva che abbiamo potenzialità da cui non sappiamo trarre vantaggio. E il rapporto tra amministrazioni e comunità scientifiche locali potrebbero contenere i danni di eventuali nuove alluvioni. Gli fa eco in termini più generali Andrea Bignone, proponendo un approccio coerente alle problematiche dell’ambiente; articolato sulla triade tutela – partecipazione – mobilità. Per il punto “tutela” si sottolinea che a tale scopo è fondamentale conoscerlo, il territorio (un punto di forza ormai andato smarrito). Per il punto “partecipazione” si ribadisce che deve ritenersi auspicabilmente finito il tempo in cui era normale escludere i cittadini dalle scelte che li riguardano. Infine, rispetto alla questione “mobilità”, che tanto influisce sulla qualità e sulla gestione dell’ambiente, occorre affrontarla in termini di scelte infrastrutturali: altrimenti sarebbe come curare l’obesità facendo un altro buco nella cintura… Certamente non disgiunto dal tema della messa in sicurezza del territorio è il contributo di Gaetano Cuozzo, relativo alla questione dell’edilizia scolastica. In particolare osservando che per circa il 90% dei casi tali strutture non rispondono ai requisiti richiesti per consentire una vivibilità senza pericoli. Eppure la materia sembra essere inquinata da logiche del tutto indipendenti dai criteri basici di una corretta amministrazione. Per quale motivo l’80% dei finanziamenti al settore sono erogati per la provincia di La Spezia? Altrettanto gravida di aspetti minacciosi per la civile convivenza è la situazione di abbandono delle periferie, evidenziata da Fabrizio Spiniello nella sua qualità di portavoce del Comitato Ponte Carrega. La condizione della periferia come luogo dell’emarginazione va superata già a partire dal livello mentale. La strada per un’auspicabile inversione di rotta presuppone il diffondersi a largo raggio del principio della cittadinanza attiva, tradotta in alleanze a livello urbano. Elemento aggregatore sono le lotte per la riappropriazione democratica del territorio. Ad esempio l’attuale contestazione della destinazione d’uso delle ex Officine Guglielmetti, riconvertite nell’ennesimo insediamento di un supermercato. A fronte di un crescente disagio sociale, che discende da un’organizzazione del territorio priva di prospettiva e sensibilità sociale, campeggia in tutte le sue implicazioni ad altissimo impatto la questione sanità. Secondo Angelo Michele Carella, continuatore della tradizione di eccellenza in ematologia che risale al nome del professor Marmont, è necessario fare aggio sui punti di forza regionali concentrando capacità e qualità (rinunciando a micro-entità che non hanno ragione di essere). E richiamare risorse pregiate da promuovere. Ma per fare questo occorre avere ben precisi tali punti di riferimento su cui puntare come propri “campioni” nella concorrenza nazionale. La voce di Umberto Valente ha fatto da controcanto al taglio proposto da Carella: il sistema sanitario ligure avrebbe tutto quello che occorre (e persino di più) se solo fosse impiegato in maniera ottimale. Semmai va detto che la sanità ligure, che assorbe i 4/5 della spesa regionale: è un business enorme. A vantaggio di chì? Non certo del personale medico nel complesso, orientato

Gallinaro

Bignone

Cuozzo

Spiniello

Carella

Valente

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sempre di più “alla fuga”. Probabilmente per i soggetti che lo gestiscono. Anche negli aspetti collusivi del rapporto: non a caso, dichiarando di voler evitare fughe di competenze pregiate, il regolatore politico sta concedendo ai primari il privilegio di evitare il tempo pieno. Ciò nonostante, da più parti si ritiene che la sanità ligure potrebbe rivelarsi un significativo fattore di competitività del territorio. A tale riguardo Lucia Lombardo ha voluto spezzare una lancia a favore della cultura come vettore di promozione territoriale. Differente la prospettiva di rilancio competitivo d’area offerta da Glauco Valerio Briante, tutta incentrata sul ruolo strategico della famiglia imprenditorializzata; nella convinzione, che trarrebbe spunto dalla storia patria, di uno spirito imprenditoriale che preferisce declinarsi nelle attività mercantili (genuensis ergo mercator?) e non industriali. In questa logica l’uscita di sicurezza consisterebbe in alcune filiere connesse alle attività marittime; da valorizzare come lo shipping (sfruttando alcune realtà già operanti quali RINA, Cetena e Accademia del mare), da riportare sotto la Lanterna come il trading e – infine - da inventare, in un fertile rapporto con quanto sta avvenendo a Morego nell’Istituto Italiano delle Tecnologie. A fronte di quest’ultima idea di sviluppo che riporterebbe a nuovo le ricorrenti “svolte finanziarie” che hanno caratterizzato la storia genovese, Paolo Farinella ha voluto ricordare il crescente fenomeno di impoverimento della società locale, nel passaggio da povertà relativa ad assoluta, Spie crescenti evidenziano la fragilità del sistema sociale, in una comunità in cui il saldo indigeno tra nascite e morti sta inclinando pericolosamente a vantaggio di queste ultime. E dove solo la presenza degli immigrati apporta nuova linfa. Se la Liguria vuole essere davvero comunità occorre passare da un’economia centrata sulle merci a un’economia che valorizza attraverso il lavoro la dignità delle persone.

Lombardo

Briante

Farinella

Questa – a grandi linee – la discussione del 17 novembre; a conferma che – nonostante luoghi comuni e una effettiva tradizione di afasia – il pubblico dibattito democratico può attecchire anche in terra di Liguria. A patto che ci sia un innesco adeguato e un minimo di organizzazione. Difatti, nello “spappolamento” della vita pubblica avvenuto in questi ultimi anni, il problema è quello di rinverdire logiche organizzative di governo; rinnovate nei paradigmi, declinate nei contesti mutati e a fronte delle nuove sfide incombenti. Acqua alle corde…

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I CONTRIBUTI RICEVUTI (le riflessioni nel dopo seminario)

Andrea Acquarone Pierclaudio Brasesco Angelo Michele Carella Michela Costa Gaetano Cozzo Vincenzo Mannella Vardé Stefano Padovano Marco Vitale

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Teoria della Fondazione

Un’indicazione strategica per la Liguria Andrea Acquarone

Mi è stato chiesto di contribuire al pubblico dibattito sulla situazione di Genova e della Liguria

promosso da Controvento, gruppo di pensiero che include professori, professionisti, intellettuali e

competenze varie che hanno a cuore le sorti di questo territorio. Risponderò volentieri all’appello in

base a quella che è la mia specializzazione, ovvero la strategia per superare l’attuale paradigma

economico, sociale e politico, in un determinato luogo fisico il cui PIL non superi i 50mld annui.

Tale specializzazione deriva dagli studi compiuti negli ultimi sette anni, laddove, partendo da una

dimensione di “economica generale” (descrizione tramite modello di un sistema economico statale,

ossia dei suoi tratti salienti) si è arrivati a individuare risposte utili oggi alla progettazione del futuro

ligure. Brevemente: nel 2007 viene elaborata la prima bozza del modello, che costituirà una parte

della tesi l’anno successivo. Se ne trae nel 2009 un articolo (Bringing the Concept of Quality into

the Economic Theory) e nel 2010 il libro La Ricchezza delle Persone.

Riassumendo nella cruda sostanza il concetto (lo facciamo perché ci torna utile per sviluppare il

ragionamento), veniva detto: accettiamo la definizione mainstream secondo cui l’utilità economica

dipende dalla ricchezza (U=W), rifiutiamo il passaggio successivo secondo cui la ricchezza dipende

dal reddito (W=Y). Forniamo una definizione di ricchezza così articolata:

W = Y + (Y ∙ Φ ∙ Ψ)

ovvero, la ricchezza è funzione del reddito ma anche di due altri fattori: il potere economico, Φ,

ossia “quanta utilità si può ottenere in quel dato contesto, dato un certo reddito” e la coscienza, Ψ,

che in questo caso è descritta come “l’attenzione alle dinamiche del potere economico”.

Il potere economico Φ varia nel tempo e nello spazio. A Chernobyl il giorno dopo l’esplosione il

potere economico è nullo, perché in quel luogo non si può vivere (la mia capacità di spesa mi è utile

solo per andarmene in un luogo ove il denaro significhi maggiore utilità). Analogamente, nel corso

del tempo, cambiando la realtà circostante cambia il potere economico: sempre c’è un danno e un

miglioramento. La vita scorre più rapida che nel 1970, lasciando meno spazio a molti aspetti

dell’esistenza, ma abbiamo i telefoni cellulari. Il potere economico muta, e può diminuire o

aumentare. Per assunzione stabiliamo che la variabile può al massimo essere uguale a 0, ossia tale

da rendersi ininfluente nella dinamica di W: in un dato periodo il reddito medio è cresciuto, la realtà

è mutata ma non in modo da pregiudicare nulla (o meglio, si è pregiudicata, ma per altri versi è

migliorata e il saldo è nullo), dunque la ricchezza W è cresciuta in misura del reddito Y, come è

detto in mainstream.

Nei fatti, e specie in un territorio come quello ligure, si può dimostrare come il Φ sia costantemente

declinato negli ultimi 40 anni. Non lo farò qua – se non incidentalmente – per evidenti ragioni di

spazio.

Vero tutto quanto detto, è però possibile che l’individuo medio, per mille motivi che ci insegna la

psicologia sociale, per via del pensiero unico sul progresso che rende desiderabili sempre nuovi

oggetti o servizi, e fomenta una specie di fatalismo in merito a quanto inevitabilmente si perde in

questa “eroica” corsa verso il futuro, ebbene l’individuo medio non sviluppa un’attenzione alla

dinamica del potere economico. Non ci fa caso perché non ha la cultura, l’informazione e talvolta

neppure la capacità di pensiero per monitorare come evolve la realtà socio-naturale contingente, e

chiedersi se ciò lo fa più ricco o meno (a parità di reddito). Questa è la variabile della coscienza Ψ,

che di conseguenza assume valori tra 0 e 1 (nulla coscienza, piena coscienza). Si noti che, qualora il

valore sia prossimo allo zero, di nuovo ritorniamo nella descrizione mainstream in cui W=Y, ma

per una via opposta: lì si erige una teoria sul caposaldo della c.d. sovranità del consumatore

(miglior arbitro della propria spesa: lui sa dare il prezzo a quel che compra, il sistema dei prezzi si

auto corregge), noi ci arriviamo vedendo come in generale la coscienza sia bassissima.

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V’è dunque una ricchezza W che potremmo dire “reale” e una ricchezza “percepita”. Entrambe

sono oggetto di interesse. La ricchezza percepita non è mal descritta secondo la modalità

neoclassica; eppure la ricchezza reale non cessa d’esistere; può a un certo punto essere percepita.

Ragionando su quest’impalcatura, tanto celermente imbastita, possiamo vedere altri fenomeni. Se

per ipotesi il potere economico in un dato luogo è declinato nel tempo, ma l’individuo non se ne

accorge in pieno, egli patirà meno la perdita di ricchezza e di utilità. Se invece ne ha piena contezza,

noterà con tutta la flagranza la perdita di ricchezza subita. Siccome è noto che il meccanismo

dell’incentivo porta l’individuo ad assumere comportamenti che lo fanno più ricco, l’incentivo è

quello a non approfondire l’informazione, non curare la coscienza storica e culturale, non elaborare

un pensiero critico (quest’ultimo è un punto che deve preoccupare gli studiosi dei sistemi di

governo, perché l’attuale, basato sul suffragio universale, necessiterebbe cittadini che tendono a

ragionare: qui stiamo dicendo che sono strutturalmente disincentivati a farlo, per una ragione

economica). I costanti bassi valori di Ψ costituiscono uno dei pilastri fondamentali del sistema

economico vigente.

Tali bassi valori si alimentano di un ulteriore dinamica: nel momento in cui il potere economico

diminuisce, le stesse forze che hanno prodotto questo detrimento hanno anche interesse a che

l’individuo medio non ne prenda coscienza, per non pregiudicare il suo assenso al successivo

sviluppo economico. Da qui il pensiero unico sulla bontà dello sviluppo e il fatalismo rispetto a ciò

che si lascia indietro (l’umanità dell’esistenza, ad esempio, coi suoi ritmi, coi momenti di silenzio e

quiete, eccetera). Dunque quel che è un effetto della perdita di coscienza (se non si dà attenzione ad

un aspetto critico del divenire sociale, difficilmente esso migliorerà) diventa a sua volta causa della

successiva perdita di coscienza, in un loop autenticamente vizioso. L’unica via d’uscita teorica è

una violenta e brusca diminuzione del reddito medio, poiché tale evenienza è considerata in grado

di influire su Ψ. (Il modello è stato concepito nell’immediato pre-crisi. La crisi gli ha fornito una

importante conferma empirica, perché tutto il discorso sul bio il green il naturale che nel 2007 era

sulla bocca di pochi fricchettoni, adesso è moneta corrente, e anche le compagnie petrolifere fanno

le pubblicità coi campi di fiori. Ciò dimostra come un certo brusco calo di Y può produrre il

recupero di Ψ, e al tempo stesso apre un discorso sulle dinamiche da “Teoria dei Giochi”, Leader e

Follower, fondamentale, ma che non possiamo affrontare qua).

Questa sconfortante conclusione di carattere generale ha costituito il punto di partenza per degli

studi, condotti nel biennio 2010-2011 dal sottoscritto e da Alberto Barbieri, che hanno portato ad

una soluzione teorica, che dà il titolo al mio intervento: la Teoria della Fondazione.

La teoria suggerisce come, stante l’impianto d’analisi appena riassunto, l’unica possibilità di

invertire la dinamica è intervenire artificialmente sul potere economico Φ, in modo da stimolare un

successivo risveglio della coscienza, la quale a sua volta è l’unico motore della crescita di Φ. E’

come dire: non si può partire dall’informazione, dal predicare la cultura o dal voler cambiare la

coscienza (non pensiamo di poter fondare una religione), come alcuni propugnano; bisogna partire

dall’attività economica, “drogandola” in certo modo, tale da influire positivamente in quanto alla

coscienza. Un keynesianesimo rivisitato, per il secolo XXI.

Vediamo cosa si intende col “drogare” l’attività economica. Facciamo un esempio: le uova. Le uova

(per normativa europea) sono di quattro tipi: 3, 2, 1, 0. Le 3 e le 2 sono prodotte in un modo che non

possono quasi essere definite uova. Le 1 e le 0 sono uova normali, e costano il doppio. E’ chiaro che

nella maggioranza dei casi si comprano quelle del primo tipo (con costi, di vario tipo, con non

vengono pagati in quel momento, ma dopo: dalla salute, alla salute psichica di chi compie il lavoro

disumanizzante di produrre quel bene immondo, al fatto che da disumanizzato intervenga nella vita

del paese e contribuisca, per quanto in piccolo, a pregiudicarlo ulteriormente, ecc.). Non si può

sperare che si smetta di comprare le 2 e le 3 dicendo: “ma sono una schifezza, informatevi”, quando

poi il prezzo del bene concorrente è doppio. Drogare il mercato significa che c’è un attore

economico, che noi abbiamo chiamato la Fondazione, il quale si assume l’onere di far apparire sui

banchi le uova 0 e 1 al prezzo delle altre, o a un cent in meno. Questo, associato allora sì ad

un’informazione basilare e all’esperienza empirica del consumatore, fa si che le 3 e 2 escano

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velocemente dal mercato, e quand’anche venissero reintrodotte (una volta conquistato il settore di

mercato il sostegno della Fondazione via via scema: quando non c’è più confronto un bene non

costa poco o tanto: le uova costano tot) non sarebbero probabilmente accettate. Si è dunque

risvegliato Ψ, ossia l’attenzione al potere economico, partendo dal proprio Φ.

Se la capacità di intervento della Fondazione è commisurata al sistema economico a cui si riferisce,

ovvero può agire da Leader nei settori che via via si propone di “liberare”, essa procede in qualche

anno ad occupare il mercato di quell’economia, divenendo al tempo stesso il primo datore di lavoro

(anche se in modo mediato, evidentemente) nonché un grande proprietario immobiliare (terre, case,

ecc.). Solo allora, forte di una base sociale che è cementificata dall’adesione e dalla dipendenza,

può esprimere una lista ad essa vincolata, ed occupare anche lo spazio della politica, da cui si

perfeziona il cambio di sistema economico-sociale, che era l’oggetto della nostra inquietudine.

La teoria poi va avanti (è in effetti condensata in un lungo articolo The Theory of Foundation, finito

nel calderone della conferenza internazionale sulle economie alternative, svoltosi a Venezia nel

2012), affermando che per ottenere il desiderato cambiamento bisogna disporre di una leva di

potere politico di livello statale. Solo che è complicato immaginare una Fondazione così dotata di

risorse da poter “conquistare” un mercato come quello dell’Italia, o di stati ad essa paragonabili. Da

qui la grande attenzione a quei casi in Europa in cui un territorio sufficientemente determinato e

della giusta dimensione, potrebbe aspirare, per una ragione o per l’altra, a diventare uno stato. La

Liguria, avendo prodotto nei secoli strutture di governo autonome, avendo tutt’ora una forte identità

culturale – che può tramutarsi in coscienza nazionale – una popolazione limitata, un PIL sui 30mld,

ed altre caratteristiche, si è prestata alla nostra attenzione d’analisi.

(Negli ultimi due anni abbiamo lavorato dunque alla messa a punto di uno schema che possa portare

all’attuazione delle indicazioni del modello nella realtà ligure. Esso è l’associazione Che l’inse!)

Viene stimato nel 1% la soglia critica dell’intervento della Fondazione nell’economia oggetto. Se

essa può fomentare attività pari a un centesimo del PIL del sistema oggetto per alcuni anni di

seguito – operando in certo modo, precisato altrove –, nel volgere di un lustro costruirà le

condizioni per essere maggioranza alle elezioni. Tradotto in cifre, per la Liguria si tratta di 300 mln

annui.

In merito alla tecnica di reperimento di queste somme si teorizza un fondo di investimento che

renda annualmente la cifre da buttare nell’economia; i volumi di cui parliamo sono più piccoli di

quelli di molti istituti finanziari, neppure di prim’ordine. La raccolta del capitale è costituita dal

risparmio popolare, e dal finanziamento ricevuto da alcuni potentati interessati al sistema

economico post-rivoluzionario. A questo modo, la teoria della fondazione offre una soluzione

teorica all’inquietudine diffusa che viene dalla sensazione che non si possa cambiare niente di

sostanziale: il cambiamento è teoricamente possibile, a patto che si riesca a costituire una forza in

grado di agire nell’economia come la Fondazione, così da poter al momento opportuno assumere il

potere politico nella regione-nazione, condizione fondamentale quest’ultima per ricostituire le

strutture di stato per quel territorio, e cercare di governare l’incessante divenire del mondo secondo

la sensibilità e la coscienza proprie al popolo del territorio.

Il fine dell’attività economico-politica (o della rivoluzione, se preferite) resta sempre lo stesso:

creare una società in cui le condizioni materiali sono generalmente favorevoli allo sviluppo

individuale delle più alte facoltà umane. Il resto, a quel punto, viene da sé.

Tornando dunque a ragionare sul tema proposto dagli amici di Controvento (strategie di medio

termine per ridare futuro alla Liguria), in cosa può esserci utile la lezione del modello? A

Controvento non si parla di cambio di paradigma economico. Forse però la costruzione teorica cui

abbiamo accennato può fornirci alcune indicazioni anche nel senso del loro discorso. Partiamo dal

dato di fatto. La Liguria è oggi in procinto di sparire dal palcoscenico degli attori della storia. Le

strategie per costruire il futuro variano quindi a seconda se le si cerca facendo conto di essere

ancora attore, o se si vede soltanto “il territorio”, svincolato da ogni progetto di comunità

autocosciente del proprio vincolo territoriale e culturale. In altre parole: c’è una parte della

popolazione italiana, che vive su un territorio, la Liguria, che ha dei problemi: che futuro dar loro?

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Oppure: c’è una popolazione ligure, legata da una storia, una cultura e una lingua, che prende

coscienza autonomamente dei problemi che la affliggono e affliggono il suo territorio, e cerca di

dare una risposta che da lei proviene, per i problemi che lei patisce. In questo c’è già il passaggio

della ricostituzione nazionale. Nel momento in cui si dice “noi”, e si considera questo “noi” che ci

accomuna come un forza attiva nella storia, stiamo parlando della “nazione ligure”.

Nel primo caso (Liguria ormai priva di personalità storica) non credo di poter dare contributo

d’analisi, né credo abbia senso sforzarsi a pensare nulla, se la realizzazione dell’eventuale lista delle

priorità liguri non dipende dalla Liguria.

Nel secondo caso (Liguria di nuovo attore della storia) credo di poter offrire qualche osservazione

utile. Il primo problema che attanaglia questa “regione-nazione”, dal nostro punto di vista, è di

ordine psicologico, e collegato alla sua crescente irrilevanza. Esso attiene all’elemento umano,

all’attuale popolazione ligure: essa è sfibrata, vecchia, scoraggiata, e più che altro priva della

coscienza di far parte di un popolo. Non basta dunque elaborare un buon progetto per il rilancio di

questo territorio: bisogna innescare, rimettere in moto dei meccanismi di identificazione e orgoglio,

e dare la sensazione che si lavora tutti insieme ad una Renascion. Far capire che siamo ancora (o di

nuovo) in grado di “fare cose”, anche ambiziose.

Dicevamo “problema psicologico” perché la sensazione diffusa attualmente, un po’ a tutti i livelli, è

che “non siamo più buoni a far nulla”; che altrove sì, si fanno cose, che un tempo sì, si facevano

cose, ma oggigiorno “cosa vuoi fare qua?”. Questo disastroso atteggiamento viene dall’aver perduto

nozione e identità di popolo.

Per costruire un futuro la Liguria ha dunque disperato bisogno di recuperare coscienza di sé, della

sua storia, della sua cultura e della sua peculiarità, tanto nelle sfere intellettuali e dirigenziali,

quanto in quelle popolari. In quest’ottica il primo elemento su cui puntare è senza dubbio la lingua.

Il fatto che il genovese sia scaduto a dialetto, e che ormai si sia interrotta la trasmissione

generazionale, è simbolico della perdita di coscienza, e potremmo dire di autostima, che ci ha

afflitto negli ultimi decenni. Con l’ultima diaspora (cominciata negli anni ’70, e proseguita con

crescente intensità), dove i figli dei potentati locali venivano invitati a costruire il loro futuro fuori

dalla terra patria, la perdita della lingua costituisce il fattore più impressionante dell’autodistruzione

ligustica.

Assieme al zeneize, cui va resa – secondo i dettami della “revitalizzazione linguistica” – la dignità

di lingua, reinserendolo a poco a poco nella vita civile, e facendolo diventare di gran moda, va

recuperato un senso di appartenenza a un “popolo”, necessariamente da idealizzare. Fondamentale a

questo riguardo intervenire sui programmi di studio delle scuole, insegnando la storia dalla

prospettiva della Liguria, e non dell’Italia. Ovvio che c’è materiale per sostenere tanto che la

Liguria fosse un coacervo di entità separate, spesso conflittive tra loro, quanto un popolo coeso

nella diversità, eccetera eccetera. Bisogna mettersi una mano sulla coscienza e fomentare una

narrazione di questo secondo tipo, che tocca emozionalmente e in modo trasversale diversissime

fasce di popolazione (spesso anche tra i foresti, che sono considerevoli nel numero e variegati, ma

condividono spesso un attaccamento molto forte a Genova e alla Liguria) e mette in moto un

meccanismo sano di orgoglio, di stimolo del “far da noi”, che porta al recupero del territorio, in

tutte le sue forme.

L’Italia manca di orgoglio patrio – e questo è uno dei suoi problemi, perché il civismo senza

orgoglio è possibile solo ai filosofi – perché non è una patria, ma solo uno stato. La Liguria, con

tutti i suoi difetti, assomiglia di più a una nazione, di quanto non vi assomigli l’Italia. Se questa

operazione cultural-identitaria è ben impostata (e ciò può esserlo solo con l’adesione ideale di un

gruppo di influenza di un certo rilievo, quale potrebbe essere, in principio, quello promosso da

Controvento) essa potrebbe quantomeno destare l’interesse di quegli ingenti capitali genovesi, e

quelle competenze, oggi attive fuori dalla Liguria. Ricominciare a parlare della Liguria come attore

della storia, magari rievocando suggestioni catalane, può accendere un fiamma che si pensava

spenta, come le braci sollecitate da nuovi legni tornano a generare il fuoco.

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Tale campagna va accompagnata, però, da misure visibili di politica fattiva. In questo senso è

fondamentale portare il bilancio regionale da 4 a 5mld, trattenendo in Liguria una parte delle

imposte generate dai porti. Con questo miliardo aggiuntivo si cambia l’aspetto della regione, perché

un miliardo è una cifra consistente. Non va sottovalutata anche la possibilità di creare a Genova una

sorta di hub finanziario, dacché le competenze dei genovesi sono ancora elevate, seppur sparse nei

vari centri finanziari mondiali; e non accennano a diminuire neppure nell’ultima generazione.

Tale è il programma di minima necessario tanto alla realizzazione dei punti espressi nel Libro

Bianco, quanto a mantenere intatte le condizioni affinché sia possibile in futuro quel cambio di

paradigma economico-politico che farebbe della Liguria un’avanguardia d’Europa. Cambio di

paradigma che non è nei propositi di Controvento, ma a cui la maggioranza della popolazione aspira

maggioritariamente, pur non disponendo delle parole per spiegarlo, a sé stessa in primo luogo.

Per ciò quello che noi auspichiamo è la nascita di un movimento (di pensiero prima ancora che

politico; una convergenza di interessi, una comunità di progetto) ligurista; un’ideologia che vada

oltre la classica divisione tra destra e sinistra, ma che funga da collante ad una sorta di movimento

di “rinascita nazionale”. Siamo sicuri che, disponendo di risorse adeguate, la proposta sarebbe assai

apprezzata dalla cittadinanza.

Resta inteso che, se la linea qui delineata non passa nel prossimo lustro, e non si inizia a lavorare in

tal senso, quando chi scrive avrà l’età degli amici relatori di Controvento, nessun Controvento si

potrà immaginare. Ora possiamo ancora dire: eimo, semmo, saiemo. Allora, solo eimo. E poi, più

niente.

Credo che la responsabilità cui ci chiama la storia, in questo momento estremo per la Liguria, debba

essere un molla più forte di ogni ideologia, partitismo o peggio ancora amor delle proprie idee.

Servono competenze e pragmatismo. Ma la strada da seguire è evidente.

Zena, a-i 20 de novembre 2014

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APPUNTI DI GAETANO CUOZZO SULLO STATO DELL’ARTE DEL SISTEMA EDUCATIVO LOCALE

PERICOLOSO DEGRADO DEL SISTEMA DELLA SCUOLA E DELLA FORMAZIONE IN ITALIA CONTINUO “FARE CASSA” SUL SISTEMA DA ALMENO 15 ANNI NESSUN PROVVEDIMENTO SUL VERSANTE DELLA “QUALITA’ “ E DEI CONTENUTI DELLA PROGRAMMAZIONE SCOLASTICA L’ANNOSO PROBLEMA DEL PRECARIATO BEN LONTANO DALL’ESSERE RISOLTO UNA STRATEGIA MOLTO CONFUSA SUL MIGLIORAMENTO DEL SERVIZIO E EFFICACE UTILIZZO DELLE RISORSE, COMPRESE QUELLE FINANZIARIE. LA RIFORMA DELLA “GOVERNANCE” PURE DESCRITTA DALLA NOSTRA COSTITUZIONE NEL RIFORMATO ARTICOLO V, FERMA AD ANNUNCI E NON ANCORA AVVIATA CON DETERMINAZIONE ADEGUATA IN NESSUNA DELLE REGIONI ITALIANE. RAPPORTO TRA STATO E CHIESA INCHIODATO SUI FINANZIAMENTI DA TRASFERIRE E NON SUI BENEFICI CHE POTREBBERO AVERE ENTRAMBI NEL COSTRUIRE SUL TERRITORIO UN “SISTEMA”. MONITO DI ESTREMO INTERESSE DEL GOVERNATORE DRAGHI DI INVESTIRE SULLA FORMAZIONE, SUPERANDO IL PERICOLO DI STAGNAZIONE INTERVENENDO SUL LAVORO PRECARIO. PERCHÉ NON UTILIZZARE LE NORME ESISTENTI PER COSTRUIRE SUL NOSTRO TERRITORIO LIGURE UN “PROTOTIPO” CHE, FERMO RESTANDO LE RISORSE A DISPOSIZIONE, DIMOSTRI LA POSSIBILITA’ DI MIGLIORARE IL SERVIZIO? L’ENTE REGIONE PUO’ GIOCARE UN RUOLO FONDAMENTALE E, TENUTO CONTO CHE I TEMPI DELLE RIFORME SONO DIVERSI DA QUELLI DELLA POLITICA, CHE HA BISOGNO DI RISULTATI CONCRETI A BREVE, SI DOVREBBE COSTRUIRE UN CONSENSO SU UNA PROPOSTA A MEDIO TERMINE, CHE, NON COSTRETTA DA SCADENZE ELETTORALI, VEDA LA PARTECIPAZIONE ATTIVA DI QUANTE PIÙ FORZE POLITICHE E SOCIALI E’ POSSIBILE COINVOLGERE. LA ELABORAZIONE DEL PROGETTO POTREBBE ESSERE AFFIDATA AD UNA “ TASK FORCE “ COSTITUITA DALLE MIGLIORI INTELLIGENZE E COMPETENZE PRESENTI NELLA NOSTRA REGIONE. PER QUESTO E’ NECESSARIO AVERE OPERATORI CHE CONOSCONO PROFONDAMENTE IL FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA SCOLASTICO E FORMATIVO E SIANO IN GRADO DI MIGLIORANE IL RENDIMENTO ALLE CONDIZIONI DATE: 1) UTILIZZARE AL MEGLIO LE RISORSE ESISTENTI 2) PROPORRE MODIFICHE CHE RAZIONALIZZINO IL SISTEMA 3) INDIVIDUARE UNA EFFICACE STRATEGIA DI ASSORBIMENTO DEL PERSONALE PRECARIO, RESTITUENDO A QUESTI ATTORI INSOSTITUIBILI DIGNITA’ E

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CONSAPEVOLEZZA DI UN COMPITO FONDAMENTALE PER IL FUTURO DEL PAESE. 4) REALIZZARE DI UN SISTEMA SCOLASTICO E FORMATIVO PUBBLICO – PRIVATO AFFIDATO ALLA REGIA DELL’ENTE REGIONE, RISPETTOSO DEL NOSTRO SISTEMA COSTITUZIONALE, LEGISLATIVO E REGOLAMENTARE. 5) RECUPERARE DI RISORSE CON PROPOSTE DI REVISIONE DELLO STATO GIURIDICO DEL PERSONALE DOCENTE E AMMINISTRATIVO DELLA SCUOLA E UN PIÙ EFFICACE UTILIZZO DI QUELLO DEGLI UFFICI PERIFERICI DEL MINISTERO E DEGLI ENTI LOCALI.

6) ATTIVARE“CONSORZI” E RETI DI SCUOLE , AGEVOLANDO LE ISTITUZIONI SCOLASTICHE NELLA REALIZZAZIONE DI PROGETTI APERTI AL TERRITORIO E ALLA PARTECIPAZIONE ANCHE DI SOGGETTI PRIVATI

7) PROPORRE SOLUZIONE INELUDIBILI OGGI STANTE LA SOPPRESSIONE DELLE PROVINCIE E

LE COMPETENZE DIGENOVA CITTA’ METROPOLITANA. 8) PREDISPORRE UN PIANO DI INTERVENTI SULLA MESSA IN SICUREZZA DEGLI EDIFICI E PIU’

IN GENERALE SULLO STATO DI SALUTE DELLE NOSTRE STRUTTURE SCOLATICHE , INDIVIDUANDO TEMPI, MODI E RISORSE NECESSARIE E I POSSIBILI CANALI DI FINANZIAMENTO PUBBLICO E PRIVATO OGGI PARTICOLARMENTE FAVORITI DA INTERVENTI ANCHE DEL GOVERNO.

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I farmaci innovativi in oncologia ed ematologia non si possono non offrire ai nostri pazienti!

Angelo Michele Carella Direttore Unità Operativa Complessa Ematologia IRCCS AOU San Martino-IST, Genova Come noto quando si parla di neoplasie l’obiettivo fondamentale è quello di prolungare la sopravvivenza dei pazienti laddove è impossibile la guarigione, accompagnata da una qualità di vita accettabile. Essendo i farmaci oncolitici regolati dalle leggi del mercato, la loro utilizzazione determina per forza di cose alti ricavi ai produttori. Spetta naturalmente al medico la corretta prescrizione del farmaco indipendentemente da tutte le altre motivazioni. Un aspetto centrale è decidere se l’agente oncolitico da somministrare è di assoluta necessità per il benessere del paziente ed in questo caso indipendentemente dal costo è indispensabile somministrarlo. Al contrario, in altre situazioni dove non si abbiano adeguate certezze sulla sua assoluta efficacia, è giusto evitarne l’utilizzazione. Alla luce di quello che sta avvenendo in oncologia ed emato-oncologia la domanda che ci si pone è: può il nostro SSN offrire a tutti i farmaci innovativi, in particolare quelli estremamente costosi in grado di determinare alte percentuali di guarigioni o almeno lunghe sopravvivenze? E’ chiaro che per rispondere a questa domanda almeno due sono gli aspetti che vanno considerati. Da un lato il budget che non si può sforare, dall’altro quello che desidera il paziente, cioè poter sopravvivere il più possibile alla sua neoplasia. Ma un sistema sanitario può permettersi l’utilizzazione su larga scala di farmaci innovativi molto costosi che al momento possono garantire solo sopravvivenza di pochi mesi, eliminando comunque il dolore? Questa situazione va rispettata e comunque dovrebbe essere garantita o perlomeno trovare il modo di garantirla, eliminando per esempio, duplicazioni, cattiva organizzazione e, sul fronte del reperimento di risorse andrebbero anche cercate in settori nei quali c’è poca governance come le procedure diagnostiche, ma questo è un problema di sistema! Come noto, la moderna terapia dell’oncoematologia persegue l’obiettivo di somministrare farmaci antitumorali sulla base delle alterazioni molecolari effettivamente presenti in ogni singola neoplasia. Tale approccio ha creato una piccola rivoluzione in medicina non solo per l’efficacia e la minor tossicità di queste terapie, ma anche per i requisiti richiesti per il loro impiego. Infatti, possiamo ad esempio utilizzare l’Imatinib nella terapia della Leucemia Mieloide Cronica (LMC) soltanto se il paziente con quel sospetto diagnostico presenta una specifica lesione cromosomica e molecolare che rende le cellule suscettibili al farmaco. Solo con la sua dimostrazione si è autorizzati all’uso del farmaco. Viceversa, p.e. nel cancro del colon, certi pazienti possono rispondere a terapie con anticorpi monoclonali solo in assenza di certe lesioni geniche, in particolare a carico dell’oncogene RAS, la cui presenza rende le cellule insensibili alla

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terapia. Questi sono solo due esempi significativi dei tanti che si possono fare sulla ricerca di lesioni molecolari che “autorizzano” o “impediscono” l’uso di un farmaco biologico “intelligente”. Questi esami sono complessi e devono essere condotti in laboratori particolarmente attrezzati. Purtroppo questi nuovi farmaci, come detto, hanno un costo molto elevato; se poi pensiamo ai nuovi trattamenti innovativi che ci attendono, ai farmaci già approvati ma non ancora rimborsati, e a quelli la cui approvazione arriverà nei prossimi mesi/anni, è davvero difficile non preoccuparsi della tenuta della casse del nostro SSN. E questo mentre arrivano segnali positivi dai registri internazionali sull’ulteriore netto miglioramento delle prospettive di cura, che sono già molto buoni nelle neoplasie ematologiche. Ma che cosa si può fare per contenere i costi di queste terapie sempre più sofisticate? Come noto, lo sviluppo di un nuovo farmaco biologico può costare da uno a due miliardi di dollari (considerati i fallimenti di centinaia di composti studiati ogni anno); il loro prezzo è molto elevato e le autorità regolatorie hanno messo in opera, come detto sopra, sistemi di controllo sulla spesa per queste nuove molecole costose. Il contenimento della spesa su questo fronte (farmaceutico) è già abbastanza efficace. Abbiamo alcune possibili soluzioni. a) Innanzitutto grazie all’Agenzia Regolatoria Italiana (AIFA) è possibile già oggi contrattare il prezzo con la casa farmaceutica, sulla base di condivisione del rischio e pagamento sulla base dei risultati; in pratica un rimborso delle Aziende Farmaceutiche negli anni futuri se il risultato è stato negativo. Questo modello originale, ora imitato in altri Paesi, ha garantito sinora l’accessibilità ai nuovi farmaci e l’appropriatezza del loro uso. In relazione al vantaggio ottenuto (prolungamento della sopravvivenza), il costo viene considerato accettabile per i parametri adottati dai Paesi Occidentali. b) Un’altra possibilità è quella di concentrare i pazienti in Centri di elevata specializzazione (p.e. IRCCS AOU San Martino-IST per la Liguria). In questo modo si potrebbero sfruttare al massimo gli studi clinici proposti dalle Aziende Farmaceutiche che producono i farmaci innovativi e che vengono offerti solo a Centri di Eccellenza emato-oncologici. Tali farmaci, verrebbero offerti gratuitamente ai pazienti per tutta la durata della malattia. c) Utilizzare quando possibile le versioni biosimilari degli antitumorali. Quest’ultimo è un aspetto di grande rilevanza che può certamente permettere una importante riduzione dei costi ma deve soprattutto poter assicurare allo specialista la totale equipollenza biologica del biosimilare rispetto al farmaco originale. d) Infine un aspetto particolare cui potrebbe corrispondere anche una riduzione dei costi (grazie alla partecipazione agli studi clinici) è quello di avere Reti regionali che funzionino veramente, le quali dovrebbero garantire al paziente la diagnosi più rigorosa ed il trattamento più idoneo che solo Centri di Eccellenza possono offrire. Perché ciò avvenga è necessario un forte impegno della politica.

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Alla luce di quanto sopra va detto con chiarezza che da un lato a) è necessario offrire garanzia di appropriatezza attraverso una diagnostica sofisticata in linea con quello che si sta facendo nelle migliori Istituzioni, associata a grande expertise dei clinici; b) facilitare la partecipazione dei pazienti agli studi clinici offerti solo a centri di elevata qualità scientifica ed assistenziale quale il nostro IRCCS di San Martino. Naturalmente tali centri dovrebbero dare la loro disponibilità a qualsiasi audit sull’appropriatezza della terapia. Ma il messaggio che va lanciato forte e chiaro è che non è possibile non offrire ai nostri pazienti i farmaci innovativi che si siano dimostrati capaci di aumentare la sopravvivenza degli stessi. Come si fa a non offrire farmaci come Mabthera, Glivec, Tasigna, Sprycel, Velcade, Vidaza, Revlimid, i quali in questa ultima decade hanno cambiato la storia dei linfomi e della leucemia mieloide cronica o migliorato drammaticamente la sopravvivenza dei pazienti con mieloma multiplo? Centro per lo studio e la cura delle neoplasie ematologiche: Centro di vera eccellenza ematologica a carattere etico. E’ un’idea molto ambiziosa, quasi un’utopia, che però può diventare realtà. Esistono già persone sensibilizzate a tale progetto e disponibili a pensare al futuro scientifico-assistenziale di pazienti con neoplasie ematologiche. I punti cardine: 1. Integrare sistematicamente ricerca e cura, con l’obiettivo di fare nuove scoperte sui fini meccanismi che sottendono le cause delle neoplasie ematologiche e creare terapie selettive sempre più efficaci (nuove frontiere della ricerca molecolare). Penso ad esempio ad alcune leucemie e linfomi che guariscono già oggi grazie alla inibizione da parte di farmaci selettivi delle cause molecolari delle malattie. 2. Nuova modalità di cura che tenga conto dell’efficacia delle cure ma anche della qualità di vita dei pazienti. 3. Centralizzazione di tutte le attività biologiche e cliniche in un unico Padiglione nel quale siano presenti laboratori all’avanguardia, degenza con camere singole, camere sterili, day hospital/ambulatorio, studi medici, sala riunione, etc. 4. Modo nuovo di concepire l’ematologia oncologica in cui il malato, e non il medico, è il punto intorno al quale ruota tutta l’organizzazione; inoltre orari di visita liberi senza restrizioni, ridurre il senso di isolamento/solitudine del paziente ematologico. Essendo già presente all’IRCCS San Martino-IST il Padiglione 6, dove attualmente si effettua solo il trapianto di midollo, basterebbe riorganizzarlo, rimettendo in ordine anche il secondo piano. 5. Chiamata di medici e biologi italiani o stranieri a contratto senza concorso; in pratica solo giovani con acclarata capacità biologica e clinica valutata da un Comitato di esperti. Contratti triennali rinnovabili (solo dopo attenta valutazione dell’attività clinico/scientifico – assistenziale svolta).

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6. Valutazione di farmaci innovativi attraverso una capillare organizzazione di servizi di data managers per affrontare studi di fase I - IV. 7. Tale Istituto sarà collegato all’IRCCS del San Martino-IST di Genova e ne farà parte integrale. 8. Tale Istituto dovrebbe essere a statuto giuridico privato con fondi privati in convenzione completa con il pubblico e dovrà essere caratterizzato fondamentalmente da un’area clinica, di diagnostica ematologica ed un’area di ricerca. Come già detto precedentemente, in questo centro non verranno soltanto aiutati i pazienti ematologici a guarire o a vivere più a lungo ma dovrà essere assicurato loro uno standard molto elevato della qualità di vita, un’assistenza anch’essa elevata e, aspetto non secondario, dovrà esserci un attento controllo dei costi legati alla terapia. Il problema della qualità della vita, come emerso all’ultimo ASH e ASCO, non riguarda solo i pazienti ma anche tutto il sistema assistenziale che potrebbe andare incontro a gravi problemi di stress e depressione. Questi, insieme ai medici, dovrebbero garantire al paziente massima collaborazione psicologica ai pazienti attraverso la capacità di comprendere appieno il loro stato d'animo. Aspetto cruciale è quello relativo alla ricerca biologica e molecolare che tanta importanza ha nella conoscenza delle neoplasie ematologiche e non; proprio grazie a tali conoscenze sono state messe a punto strategie terapeutiche assolutamente innovative che hanno cambiato o stanno cambiando la storia delle neoplasie ematologiche. In conclusione, una simbiosi tra fucina di idee e modello innovativo di gestione privata applicata alla sanità pubblica in un settore particolarmente sensibile come quello dell’emato-oncologia dovrebbe caratterizzare il centro per lo studio e la cura delle neoplasie ematologiche. In tale Istituzione, giovani particolarmente preparati “chiamati” a contratto insieme ad ematologi esperti dovrebbero convivere per offrire al paziente la migliore diagnostica e cura. Tale simbiosi nei grandi Istituti scientifici nazionali ed internazionali ha generato scoperte e metodi che hanno migliorato la pratica clinica e sviluppato nuove metodologie nella ricerca e nella terapia delle neoplasie ematologiche.

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PROPOSTE PER UNA SANITA’ LIGURE RINNOVATA di Michela Costa e Pierclaudio Brasesco

La spesa sanitaria regionale costituisce mediamente il 70% del bilancio

regionale; appare pertanto indispensabile che un candidato al governo

regionale definisca in maniera precisa come intende gestire questa quota cosi rilevante del bilancio regionale e soprattutto verso quale tipo di sistema

sanitario regionale si orienta.

In Italia infatti si sono sviluppati differenti modelli sanitari regionali:

tipicamente “opposti” sono il sistema sanitario lombardo (dove è spinta la distinzione tra compratori (ASL) e produttori di servizi sanitari (ospedali,

medici di famiglia, altri soggetti privati e del privato sociale) e quello emiliano-

romagnolo (a prevalente gestione pubblica e alta integrazione sociosanitaria),

ancora differente quello toscano (che si può collocare a metà strada tra i due

precedenti).

Quale sarà dunque il “modello ligure” è solo una parte della domanda da porre

a chi si candida a governare la Liguria; in realtà la vera questione è come mantenere vigente ed effettivo il diritto alla salute dei cittadini liguri a fronte del continuo contrarsi delle risorse.

È da quattro anni che la spesa sanitaria pubblica italiana rimane bloccata o arretra. Il 2015 doveva essere l’anno del rilancio per la sanità italiana, ma le

legge di stabilità appena approvata dal Parlamento annuncia nuovi, pesanti tagli, destinati a rendere sempre più precario il funzionamento del servizio

sanitario nazionale e a ridurre progressivamente i diritti dei cittadini. La mancanza di un programma del governo su come gestire le ormai croniche

misure di austerità rende ancora più grave e caotica la situazione nelle singole regioni, ognuna con le sue soluzioni o pseudosoluzioni (vedi megafusioni delle

asl), ma alla fine si cadrà sempre lì: aumento dei ticket , tagli del personale, riduzione indiscriminata dei servizi.

Eppure, se vi fosse la volontà politica, non sarebbe difficile proporsi l’obiettivo di tenersi stretto un servizio sanitario nazionale equo e di qualità, pur in

presenza di risorse scarse. Le idee e le esperienze non mancano per il mondo.

[Gavino Maciocco, SaluteInternazionale.info, 2014-12-22] Seguendo il suggerimento del Prof. Maciocco si può immaginare un programma

per la sanità ligure in quattro punti, tutti rigorosamente evidence based: 1. Priorità alla prevenzione

2. Rafforzare le cure primarie e l’integrazione socio-sanitaria

3. Scegliere saggiamente 4. Lotta alla corruzione

1. Priorità alla prevenzione Qui si intende in particolare la prevenzione nella lotta alle patologie croniche

che sono la vera epidemia dei paesi sviluppati e provocano un gigantesco e

crescente peso sui costi dei sistemi sanitari: malattie cardiovascolari (ictus,

infarto e scompenso cardiaco) diabete, cancro (da considerarsi ormai in molti

casi come patologia cronica) e malattie respiratorie (bronchite cronica

ostruttiva). Prevenzione che si realizza anche attraverso la lotta all’obesità, al

fumo e all’alcool. Non va dimenticata la tutela della salute sui luoghi di lavoro e

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la prevenzione delle patologie da danno ambientale (inquinamento di aria,

acqua, suolo, alimenti) cosi come la prevenzione della patologia psichiatrica (vedi aumento della depressione correlata alla crisi economica e alla

disoccupazione).

Esistono soluzioni molto efficaci e a basso costo per la prevenzione delle malattie croniche; l’incapacità di adottarle è un problema politico, piuttosto che

tecnico.

[Lancet 2010; 376: 1689–98] Finora la prevenzione in Liguria è stata realizzata più a parole che nei fatti.

Come testimoniano l’esiguo stanziamento di fondi e la progressiva scomparsa

dei servizi ad essa dedicati, nonché la sostanziale assenza di un progetto di

prevenzione che coinvolga tutti i determinanti di salute non solo gli aspetti sanitari.

2. Rafforzare le cure primarie e l’integrazione socio-sanitaria

Questo è il vero nodo della sanità ligure: sono stati fatti molti tagli alla rete ospedaliera (spesso correttamente, altre volte secondo

logiche non chiare), ma è mancata un’ altrettanto seria revisione dell’allocazione delle risorse. Si è cioè mantenuto come riferimento la spesa

storica dei tre ambiti della sanità pubblica (emergenza, ospedali, territorio) per applicare soluzioni di risparmio a prescindere da un reale ridisegno del sistema

nel suo complesso. Ad esempio, in termini di posti letto dedicati alle patologie che ne necessitano

e, soprattutto, di uno spostamento sostanziale di energie (umane e finanziarie)

dall’ ospedale al territorio. Si tratta di un’operazione che può essere fatta in un

orizzonte di medio periodo “isorisorse” nel bilancio della sanità regionale, in

una logica di uso più appropriato delle strutture ospedaliere che hanno un

costo assai elevato. Il termine Primary Care (PC) comprende tutti i servizi di medicina di base. Un

efficiente rete di medicina di base é necessaria per migliorare la salute ed al tempo stesso contenere o addirittura diminuire i costi, ne sono una prova i

risultati emersi dai vari studi scientifici effettuati nella regione europea. Infatti la promozione di un efficace e coordinato sistema di assistenza primaria é

indispensabile per migliorare il livello della salute pubblica in generale. Questo

processo però non emerge spontaneamente. Il suo consolidamento richiede

che determinati attributi siano presenti a livello di sistema sanitario nazionale e

che nella pratica di tutti i giorni i vari attori coinvolti abbiano coscienza delle loro responsabilità’ nei confronti di tutta la popolazione.

[Documento European Forum Primary Care, Pisa 2010]

Un simile riordino delle cure primarie in Liguria non è mai avvenuto, mentre doveva essere il contrappeso ai tagli ospedalieri per consentire il

mantenimento dei livelli di cura ai cittadini.

L’immutabile schema di allocazione delle risorse rappresenta una dichiarazione

di resa della funzione programmatoria regionale e si traduce inevitabilmente in

tagli indiscriminati, che compromettono l’operatività dei servizi e la base stessa

dell’universalismo sanitario. Premessa indispensabile e ancora non realizzata è la messa in rete delle cure

primarie con la rete ospedaliera.

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Ecco un’altra importante differenza tra il sistema ligure e quelli più evoluti: la

sanità elettronica in Liguria è stata priva di regia, oltre che di trasparenza nel finanziamento. Ne sono prova i diversi modelli informativi che si stanno

sperimentando in varie ASL

(Savonese, Tigullio, Spezzina) e la incomunicabilità tra le varie aziende nel territorio genovese.

Integrazione dunque tra i diversi settori della sanità ligure ma anche tra sanità

e sociale, coinvolgendo in maniera sostanziale i Comuni. E integrazione tra i diversi presìdi di salute presenti sul territorio, quali le forme associative evolute

dei Medici di famiglia (medicine di gruppo, Aggregazioni Funzionali Territoriali,

Unità Complesse di Cure Primarie), altri operatori sanitari quali gli infermieri e i

fisioterapisti, le farmacie comunali e quelle private, gli Ordini professionali. Quindi è necessario un deciso sviluppo delle cure primarie a sostegno della

continuità assistenziale e della gestione delle patologie croniche secondo il

Chronic Care Model e la medicina di iniziativa.

I bisogni sanitari della popolazione ligure sono i seguenti: 1. i diabetici in Liguria costituiscono il 7,6% della popolazione al di sopra dei 14

anni (110.000); 2. soffre di malattie respiratorie croniche (Asma e Bronchite cronica) un altro

7,6% (110.000); 3. sono stati colpiti dal cancro circa 80.000 liguri (5 ,6%);

4. le malattie cardiovascolari (scompenso cardiaco, infarto cardiaco e ictus cerebrale) assommano a 77.000 ( 5,4%) ;

5. l’insufficienza renale cronica coinvolge (comprendendo gli stadi più lievi) il

3,2% della popolazione (46.000);

6. gli ipertesi in Liguria secondo i medici di famiglia sono 417.000 (29%)

contro una stima dell’Agenzia Regionale Sanitaria della Liguria che si ferma al

17,9%; 7. altri dati vedono una notevole presenza della depressione e dell’ artrosi;

8. c’è poi un bisogno urgente non adeguatamente stimato di sostegno alle famiglie che hanno al proprio interno un familiare affetto da Demenza

(Alzheimer), patologia in grande crescita nella nostra regione. [Osservatorio Ligure della Medicina Generale - GPLIGURNET, 2013]

3. Scegliere saggiamente

I costi, sempre crescenti, della “medicina difensiva” (accertamenti diagnostici e

trattamenti clinici inutili, svolti in funzione di tutela da parte del personale sanitario) sono insostenibili per qualunque sistema: secondo l’OMS il peso

economico delle prestazioni futili, quelle cioè che non danno nessun beneficio

ai pazienti, rappresenta tra il 20 e il 40% della spesa sanitaria. I medici tutti i giorni temono di sbagliare una seria diagnosi e di far precipitare

un loro paziente in una tragedia evitabile. Nelle nostre società sempre più

punitive i medici temono di essere lapidati pubblicamente. Soprattutto i medici

più giovani hanno paura dell’incertezza. Noi ordiniamo sempre più test per

cercare, spesso invano, di essere sicuri di ciò che vediamo. È siccome temiamo

che coloro che si trovano nel regno dei sani si trovino forse nel regno dei malati, noi continuamente deviamo le risorse dai malati ai sani, cosicché la

sovradiagnosi e’ inevitabilmente legata al sottotrattamento di quelli già malati.

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La sovradiagnosi dei sani e il sottotrattamento dei malati sono le due facce

della moderna medicina. La paura dei pazienti alimenta la paura dei medici e viceversa; specialmente

nei sistemi sanitari frammentati che non presidiano la continuità delle cure. È

solo all’interno di relazioni di fiducia che queste paure possono essere contenute.

[Iona Heath - BMJ 2014, 349]

E’ un cambio culturale prima ancora che organizzativo quello proposto dalla Slow Medicine, che promuove lo slogan “fare di più non significa fare meglio”.

Per contrastare la sovradiagnosi e l’inappropriatezza occorre puntare sulla

presa in carico del paziente in un contesto di continuità assistenziale e di

conseguente fiducia del cittadino nel sistema sanitario. Si ritorna perciò alla centralità di assistenza e cura territoriali.

4. Lotta alla corruzione

Un recente documento dell’Unione Europea stima che il 10-25% della spesa pubblica globale sia persa in corruzione; mentre la Corte dei Conti italiana

ipotizza addirittura un 40% di incidenza del malaffare sui costi di produzione nazionale.

È evidente che anche il settore sanitario ne sia investito in pieno, come testimoniano i continui episodi di malaffare e di conflitto d’interessi, nei quali

sono coinvolti politici, amministratori, medici, imprese. Per la gravità morale e la dimensione economica del fenomeno la lotta alla corruzione dovrebbe

entrare a pieno titolo nei programmi di controllo della spesa sanitaria, a livello

regionale.

Ma ben poco si è fatto finora in questo senso nella nostra regione.

A cominciare dalla trasparenza sugli atti, sulle procedure di accesso e

selezione, sulle nomine operate ai diversi livelli di responsabilità.

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GENOVA PER NOI Marco Vitale

Amo Genova, anche se credo di conoscerne abbastanza bene debolezze e ambiguità, perché ci ricorda sempre che una grande storia può convivere con un mediocre presente; perché mi piace la discrezione, la misura, la sobrietà della sua gente; perché ho lavorato molto a Genova ed ho conosciuto tante persone di grande valore e di grande integrità; perché ho incontrato parecchi comandanti liguri in pensione di navi da crociera Costa della vecchia guardia, prima degli americani, e nessuno somigliava a Schettino; perché il progetto dell’arch. Piano per un ridisegno totale del “waterfront” è entusiasmante per le grandi possibilità di sviluppo che presenta e che sono importanti non solo per Genova . Amo Genova perché è bella e quando andavo in bicicletta l’apparizione improvvisa, dopo aver scollinato il Turchino, del suo mare luminoso mi dava una grande gioia. Amo Genova perché, nonostante tutto, negli ultimi 25 anni, ha fatto cose egregie, e grazie a due sindaci di primo piano si è molto imbellita. Amo Genova perché la sua focaccia è la più buona del mondo, perché i suoi cantautori sono autentici poeti e perché Conte ha raccontato in modo meraviglioso il sentimento di noi uomini della pianura quando andiamo a Genova. Amo Genova perché la amava Braudel ed io amo Braudel. Per questo rivederla, per l’ennesima volta, colpita e, in parte, travolta dai suoi torrenti che portano gravi danni ai cittadini di popolosi quartieri, umiliazione e demoralizzazione per l’intera città, mi ha addolorato. Guardando alcune immagini proiettate nella sede di un’azienda genovese per illustrare la necessità di dare un contributo alle popolazioni colpite, ho chiesto se erano immagini nuove o se erano quelle di tre anni fa riciclate, tanto erano identiche. E guardando i servizi televisivi che, tra le immagini del disastro, intervistavano le persone colpite mi sono commosso e turbato. Erano soprattutto piccoli commercianti e pensavo alle tante fatiche e sacrifici di quelle donne e uomini per costruire il loro piccolo, dignitoso commercio e sapevo, per certo, che molti dei colpiti stavano ancora puntualmente pagando i mutui a lungo termine concessi da banche responsabili, che avevano dovuto assumere dopo l’alluvione di tre anni fa. Adesso, dovevano ricominciare e, da soli, è difficile che ce la facciano. E non per colpa delle bombe d’acqua o simili baggianate come mi è capitato di sentire, ma per l’ignavia dei governanti. Nel 1951 al ritorno dalle zone alluvionate il presidente della Repubblica Luigi Einaudi scrisse al presidente del Consiglio De Gasperi una lettera in cui diceva: “La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga; forse secolare. Ma è il massimo compito d’oggi, se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli italiani”. E’ per non aver accolto questo monito che il dissesto idrogeologico lungi dall’essere domato è cresciuto ed i suoi disastrosi effetti sono ormai normalità, come le inondazioni ricorrenti di Genova, ma anche quelle del Seveso a Milano ( 7 nel 2014), dimostrano. Altro che bombe d’acqua! E ciò mentre continuiamo a investire somme importanti in opere del tutto inutili come la Brebemi o come la Mestre- Orte per la quale è molto pertinente la precisa domanda di Ferruccio Sansa: “E’ più urgente investire 10 miliardi nell’autostrada Mestre – Orte oppure sperdere un decimo e mettere in sicurezza la Liguria?”. Mi ha molto colpito, in una trasmissione televisiva, una donna che aveva visto devastato, per la seconda volta, il suo piccolo negozio che, in lacrime, implorava: “non lasciateci soli!”. Come rispondere a questa accorata richiesta? Prima di tutto donando generosamente attraverso le catene di solidarietà che si sono prontamente attivate. I cittadini colpiti hanno bisogno di aiuti concreti subito ed hanno bisogno di sentire subito la solidarietà dei cittadini italiani. Poi, bene o male, verranno anche, obtorto collo, i contributi pubblici, ma verranno così tardi e così male da essere poco utili e da apparire come un’elemosina e non come un dovuto risarcimento. In secondo luogo non bisogna lasciare cadere l’attenzione su queste tragedie, in attesa della prossima. Che dei movimenti di protesta si siano messi in movimento in città è un fatto molto positivo. Ma gli obiettivi che essi dichiarano di perseguire non mi sembrano convincenti. Chiedere come obiettivo principale le dimissioni del sindaco non serve a niente, e bene ha fatto il sindaco a dichiarare la sua volontà di restare a bordo e guidare la nave nella burrasca anziché fuggire, come

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sarebbe per lui più comodo, alla Schettino. Essi devono, piuttosto, costituirsi in comitato di monitoraggio permanente che verrà sciolto solo quando le opere di difesa saranno completate. Il comitato, anche con l’utilizzo di tutti i possibili strumenti legali, deve pretendere e vigilare per la realizzazione tempestiva delle opere di difesa e per la rimozione dei burocrati inetti. Esso deve anche impegnarsi per realizzare un cambiamento radicale della classe politica. La città è colpevole per aver accettato di essere governata per tanti anni da persone indegne e da un sistema indegno che offendono la dignità della città. Ora deve riscattarsi da questa sua colpa. Così facendo, Genova potrebbe rappresentare il primo passo per l’avvio concreto di un movimento analogo a quel “Reinventing Government”, che ha cambiato in meglio il volto di tante città americane alcuni decenni fa. UN COMITATO PERMANENTE PER LA SALVEZZA DI GENOVA troverà alleanza e collaborazione da tanti non genovesi e troverebbe imitatori in altre città. Insieme, si potrebbe incominciare a dar vita ad una catena per reagire costruttivamente contro il degrado delle nostre città e iniziare a realizzare quello che il presidente Einaudi raccomandava nel 1951. Il comitato permanente per la salvezza di Genova dovrebbe promuovere la formazione di un collegio di avvocati di primo piano (Genova ne ha di eccellenti) per mettere a punto le azioni di responsabilità, penali e civili, nei confronti dei responsabili. Non posso credere che non esistano responsabili, in senso legale, in una storia di incapacità e inerzia così lampante. Infine è necessario ripensare totalmente la materia dei risarcimenti. Mi dicono che le assicurazioni non assicurano questi eventi classificandoli come calamità naturali. Ma è proprio per questi casi di disgrazie inattese che il buon padre di famiglia si assicura. E poi queste non sono calamità naturali. Non sono frutto della natura. La pioggia non è calamità naturale, è natura. Ed il suo incanalarsi nei torrenti e nei ruscelli per scendere verso il mare non è calamità naturale ma fatto più che naturale. Diventa calamità perché gli uomini la ingabbiano in canalizzazioni ristrette e insufficienti per la portata, perché sopra ed a lato ci costruiscono case, coperture, ponti, intralci che non dovrebbero esserci, che non sono frutto della natura. Non sono, dunque calamità naturali ma calamità dell’uomo. Infine questi fatti non sono rari, ma in Italia sono ricorrenti, anzi frequenti, a Genova e in cento altri luoghi. E quindi non di inattese calamità naturali si tratta ma di calamità umane, nazionali, ordinarie, previste, prevedibili, ricorrenti, si sarebbe tentati di dire, forse volute. Da questa premessa che è, nei fatti, inconfutabile, consegue che le assicurazioni devono coprire questi eventi e che se non lo fanno loro, lo deve fare un fondo apposito nel bilancio dello Stato o delle Regioni che garantisca per questi eventi una copertura assicurativa totale, tempestiva e automatica. L’epoca della richiesta di elemosine, con il cappello in mano, deve finire. Le persone colpite sono semplici vittime di questi governi nazionali e regionali inetti. Nello stato di diritto due sono gli obiettivi da perseguire. Azioni legali di responsabilità verso i colpevoli, promosse dai cittadini e copertura assicurativa totale e non discrezionale per i danni subiti attraverso le assicurazione od un apposito fondo pubblico. Se le vicende genovesi servissero a dar vita ad un impegno collettivo serio verso questi obiettivi, le sofferenze dei genovesi potrebbero non essere state del tutto inutili.

Marco Vitale www.marcovitale.it

www.reset.it (blog Marco Vitale Mala tempora)

Milano 24 ottobre 2014

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Sicurezza del territorio, criminalità urbana e responsabilità della politica

a cura di

Vincenzo Mannella Vardè

Stefano Padovano

1. La sicurezza di una città, di un municipio, di un quartiere, prende forma dalla contrapposizione

tra zone di luce e di ombra. Una fotografia in chiaroscuro. Composta da differenti tonalità. Soggetta

alle mutazioni dei fenomeni che gravitano nei territori urbani. Alla loro comparsa, al loro lento

snaturarsi, semplicemente al loro spostarsi da un’area ad un’altra. Talvolta fino a scomparire.

Le città come imbuti sociali. All’interno delle quali tutto viene inghiottito, assorbito, ma non

sempre assimilato. E i cittadini al centro. I protagonisti per eccellenza. Spesso abituati a

confrontarsi con la percezione dell’insicurezza. Oggettivamente data, anche quando non risulta

accompagnata da elevati indici di criminalità. Oppure, al peggio, quando essa fa il paio con delitti e

violenze. La sicurezza urbana risponde a un concetto complesso. Mai totalmente associabile allo

stato della criminalità, ma neppure svincolata da quest’ultimo1.

Quella del cittadino, nei confronti della sicurezza, è una luce che lo invoglia a cambiare

continuamente il proprio sguardo. Nella migliore delle ipotesi: adattandolo ai cambiamenti. Nella

peggiore: costringendolo a conformarsi alla vista di periferie degradate, deserti metropolitani, alla

scarsa solidarietà tra gli abitanti, al mancato rispetto delle regole di convivenza e di buon vicinato, a

rapportarsi con i disagi non sempre visibili delle diversità, alla necessità di riqualificare i luoghi più

sofferenti del territorio urbano. Più semplicemente attraverso la riconversione di un’area dismessa o

con la messa in sicurezza di uno spazio pubblico dedicato alla socialità.

Sono le azioni umane a fare la differenza. A migliorare la qualità della vita. Dalle più piccole e

scontate a quelle più visibili ed eclatanti. Vivere in una dimensione urbana percepita come sicura

non significa cercare soluzioni miracolose. Più modestamente, equivale soltanto a mettere a regime

una macchina che spesso agisce produttivamente senza però che l’ala sinistra sia a conoscenza di

quel che fa la destra.

2. E’ a partire da queste premesse che, da un decennio circa, ha preso forma l’attività

dell’Osservatorio regionale su sicurezza urbana e criminalità. La solida tradizione democratica della

nostra Regione ha fatto sì che – tranne casi isolati – le istituzioni territoriali abbiano evitato di

sospingere le politiche locali sulla sicurezza nella direzione della chiusura e delle discriminazioni. E

questo vale soprattutto per l’Osservatorio regionale sulla sicurezza urbana istituito del 2005, con

obiettivi prevalenti di ricerca e analisi scientifica. Tali finalità sono state ulteriormente rafforzate

dalla Convenzione sottoscritta tra la Regione e la Scuola di Scienze sociali nel dicembre 2012,

grazie alla quale l’Osservatorio ha trovato una collocazione di tipo accademico coerente con gli

intendimenti della legge istitutiva.

Guardando al lontano 2004, quasi non sembra vero che da un decennio il campo della ricerca

scientifica, universitaria e istituzionale, abbia potuto beneficiare dei dati ufficiali sulla criminalità

forniti direttamente dal Ministero dell’Interno mediante una costante regolarità che fa specie se

confrontata con altre fonti statistiche oggetto di analisi empiriche. Tuttavia, pure rimanendo aperto

il problema della criminalità “sommersa”, cioè di quei reati che vengono perpetrati ma non sono

denunciati, andando così a formare il cosiddetto “numero oscuro”, i rapporti regionali sulla

1 S. Padovano, Sul decoro urbano. Considerazioni sull’uso politico della decenza, Aracne, Roma 2013.

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sicurezza non hanno fatto a meno di approfondire il valore dei dati numerici mediante l’incrocio

con le fonti più autorevoli presenti nei territori di indagine: le forze dell’ordine (in primo luogo gli

uffici deputati della Polizia di Stato e dei Carabinieri) e le Polizie Locali. L’analisi statistica è stata

accompagnata, per così dire, da ricerche socio-giuridiche di tipo qualitativo, pertanto caratterizzate

dall’utilizzo di interviste esplorative e osservazioni dirette su fenomeni e situazioni oggetto di

approfondimento: uffici dei servizi socio-sanitari, dei dipartimenti delle dipendenze e, quando il

contesto lo ha richiesto, agli operatori del Terzo settore (educatori, operatori di strada).

3. A partire dalla fotografia sullo stato del crimine locale2, che per altro consente oggi di descrivere

i differenti fenomeni in un arco di tempo - dieci anni - decisamente rappresentativo per

programmare le politiche future, di seguito, si proveranno a delineare alcune considerazioni tratte

dalla lettura dei dati statistici e dal commento incrociato con le forze dell’ordine presenti sul

territorio ligure:

- il numero degli omicidi consumati in Liguria non soltanto presenta un andamento di basso rilievo

ma soprattutto indica una sensibile diminuzione in riferimento al capoluogo regionale. Tuttavia, tale

distribuzione degli omicidi, declinata in tutte le sue variazioni tipologiche (volontario,

preterintenzionale, colposo e tentato) dagli anni Settanta a tutti gli Ottanta, mostrava un tasso

macroregionale che, seppure inferiore al Sud-Italia, attestava la Liguria ai primi posti. Nel Nord, la

regione con un tasso superiore a quello macroregionale era appunto la Liguria, seguita dalla Valle

d’Aosta, dal Piemonte e dalla Lombardia3, così come le grandi metropoli del Centro-Nord hanno

tuttavia tassi di omicidio superiori alle città di provincia: Genova insieme a Milano, Torino e Roma

sono le città ad avere il più alto numero di omicidi per abitante4.

- Per via dello scarto rilevante tra coloro che denunciano le violenze di genere e i maltrattamenti e

chi le subisce senza fare emergere la realtà delittuosa di cui sono destinatari, il quadro generale del

fenomeno reale rimane ancora un lontano miraggio. se si prende in esame il triennio 2011-2013, gli

autori di reato denunciati nel capoluogo ligure per avere condotto atti persecutori (legge sullo

“stalking”, art. 612 bis c.p.), sono stati 157 nel 2011 (di cui il 40% stranieri), 209 nel 2012 (di cui il

40% stranieri); e 169 nel 2013 (di cui il 45% stranieri)5. Inoltre, in relazione alla procedura di

“ammonimento”, misura che precede l’eventuale querela della vittima una volta esposti i fatti alle

autorità di pubblica sicurezza, nel capoluogo ligure il Questore ha disposto 12 ammonimenti nel

2011 (di cui 3 tramutati nell’art. 612 bis c. p.), 18 nel 2012 (di cui 4 tramutati); e 27 nel 2013 (di cui

3 tramutati). Il fenomeno della violenza di genere è stato oggetto di significative iniziative

legislative (legge n. 119 del 15 ottobre 2013) mentre, a carattere regionale, grazie all’approvazione

della legge n. 12 del 21 febbraio 2007, la Regione Liguria si è attestata tra le istituzioni che, per

prime, hanno affrontato il tema nell’ottica della sperimentazione di interventi possibili rispetto alla

presa in carico delle vittime, ma ancora molto c’è da fare nell’ottica della presa in carico del

problema nei termini della multidisciplinarietà della progettazione e degli interventi.

- Le denuncie dei furti di strada (scippi e borseggi) dopo un sensibile aumento registrato nel picco

relativo al periodo a cavallo tra agosto 2006 e novembre 2007, e poi accompagnato da una

sostanziale diminuzione; nel biennio 2011-2012 sono tornate a crescere, mentre nel 2013 (e nei dati

ufficiosi relativi al primo quadrimestre 2014) i valori dei furti predatori sono tornati a diminuire,

2 I risultati sono esposti in V. Mannella Vardè S. Padovano (a cura di ), 2004-2013. Legalità e Sicurezza. Dieci anni di

criminalità in Liguria. Ottavo rapporto sulla sicurezza urbana, Libellula, Lecce 2014. 3 G. B. Traverso, Gli omicidi, in (a cura di) M. Barbagli U. Gatti, La criminalità in Italia, Il Mulino, Bologna 2002, p.

71. 4 Ibidem, p. 73. 5 Fonte: Settore Divisione Anti Crimine, Questura di Genova, 15 settembre 2014.

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attestandosi intorno a cifre tecnicamente catalogabili nell’ordine della “stabilità”. Rispetto alla

commissione dei reati e dei loro presunti autori, il riferimento ai verbali delle denuncie in Liguria

stima una partecipazione degli stranieri pari al 60% dei furti predatori di strada. Su questo punto,

una maggiore sinergia intra-istituzionale, prima ancora che tra i diversi soggetti chiamati ad

intervenire, capace di superare l’ottica dei personalismi scientifici e le rendite di posizione maturate

nei singoli ambiti disciplinari, è la condizione inevitabile e non più prorogabile su cui la sfera della

politica, nel ruolo di comando della cabina di regia, ha il compito di fornire risposte efficaci. In

questo senso, si segnala la necessità di formulare nuovi protocolli operativi di tipo informatico per

la prevenzione al crimine, capaci di rimettere al centro la spinosa questione della sicurezza nei

luoghi pubblici: sia a protezione dei cittadini, sia a tutela di chi ci opera professionalmente. A

seguire, quanto detto vale anche per il reato dei furti in appartamento.

- Per quanto riguarda il fenomeno criminoso dei furti in abitazione, dalle dimensioni quantitative

alla particolare recrudescenza con cui si manifestano questi reati, anche in questo rapporto è

doveroso ribadire che tale reato costituisce una delle principali criticità tra i delitti compiuti nella

regione. Scorrendo la rassegna dei quattro capoluoghi: La Spezia registra un aumento progressivo

dei furti in appartamento - sia consentita la battuta - da battere i denti. Per rendere meglio le

dimensioni, in valori assoluti si passa dai 140 del 2010 ai 594 del 2013 con una percentuale del

+420%, sempre in riferimento alla fase 2010-2013, a Savona, tra il 2010 e il 2013 il pollice verso

indica un +220%, a Imperia aumentano del 65%, mentre a Genova la progressione indica “soltanto”

un +45%.

- A partire dal primo rapporto sulla sicurezza in Liguria si è analizzata la presenza di delitti avvenuti

in forma “associata”, tratteggiando l’analisi dei rischi di contaminazione tra le sfere dello sviluppo

economico lecito e le opportunità di interesse criminale che da esse possono generarsi. L’attività

della criminalità organizzata in Liguria si è manifestata, come da tempo fatto rilevare, in modi

diversi dalle regioni di origine. L’attività non è infatti indirizzata al diretto controllo del territorio,

ma piuttosto al controllo dei settori economici di maggiore rilevanza. Tali modalità di penetrazione

sono state possibili mantenendo: da un lato, stretti contatti con le organizzazioni di origine,

reinvestendo e riciclando denaro illecito in attività legali; dall’altro, stringendo legami e formando

reti relazionali finalizzate all’allargamento dei sodalizi criminosi con settori dell’economia locale

apparentemente “sani”, ma disponibili ad interagire con questi gruppi e quindi a farsi

“contaminare”, anche mediante l’utilizzo di segmenti della pubblica amministrazione e degli ordini

professionali nel ruolo di collegamento tra sfere illegali e mondi legali.

La legge regionale 7/2012, a quattro anni dalla sua applicazione ha già raggiunto importanti

obiettivi, si pensi alla costituzione di parte civile nei processi di mafia (art. 19), misura applicata a

seguito dello scioglimento dei Comuni di Bordighera e Ventimiglia, all’istituzione della giornata

regionale dell’impegno contro le mafie (art. 16), alla costituenda Stazione Unica Appaltante rivolta

a contrastare i prevedibili condizionamenti delle organizzazioni criminali a danno delle pubbliche

amministrazioni (art. 3), ma molto altro di quella legge regionale attende la sua realizzazione. Si

pensi all’applicazione delle restrizioni economiche nell’assegnazione dei fondi ai Comuni liguri che

non contrastano la diffusione del gioco d’azzardo (art. 6), alla creazione di politiche a sostegno

delle vittime di reato (art. 13), all’istituzione di un fondo di garanzia a sostegno delle organizzazioni

che prevedono il riutilizzo dei beni confiscati (art. 12), alla stipula di protocolli di intesa con la

Direzione Investigativa Antimafia per il monitoraggio degli appalti pubblici (art. 4), finanche una

maggiore spinta propulsiva ai fini di un più rapido riutilizzo delle strutture sottoposte sia a sequestro

preventivo, sia quelle già confiscate ai sodalizi criminali.

- Rispetto a fenomeni come il mercato degli stupefacenti e della prostituzione, in Liguria come nel

resto del Paese, è mutata l’offerta di “beni” e “servizi” illegali. Seppure nell’ottica della

complementarietà; cioè nell’ordine in cui stranieri e italiani si ritrovano coinvolti nei differenti

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livelli dello spaccio o, come nel caso della prostituzione, in attività collegate. In particolare,

riguardo al sistema di distribuzione della droga, la stratificazione avviene anche in forma promiscua

e con frequenza crescente (stranieri e italiani) nei livelli più elevati, mentre la figura del (dei)

grande distributore (i), mantiene tendenzialmente le sue radici a Milano e nel suo hinterland, con

gruppi criminali di alto profilo, per lo più legati o direttamente affiliati ad organizzazioni autoctone

di tipo mafioso. Su questo punto, una maggiore sinergia intra-istituzionale tra area penale e socio-

sanitaria (dai Sert ai servizi alla persona), prima ancora che tra gli operatori delle forze dell’ordine,

in grado di superare l’ottica dei personalismi scientifici e le rendite di posizione maturate nei singoli

ambiti disciplinari, è la condizione inevitabile (e non più prorogabile) su cui la sfera della politica,

al comando della cabina di regia, ha il compito di fornire risposte efficaci.

4. Dal punto di vista giuridico e psicologico, “sicuri” possono o dovrebbero essere, prima degli altri,

i soggetti titolari dei diritti fondamentali e universali, che spettano a tutte quelle persone che vivono

nel territorio di uno Stato: in un quartiere, in una città e in un qualsiasi luogo pubblico e privato. La

sicurezza dovrebbe riferirsi, in realtà, al godimento e alla protezione effettiva di quei diritti; alla

tutela da ogni aggressione o inadempimento da parte di altre persone fisiche che agiscono

nell’ambito di poteri di diritto, o di fatto, all’interno del perimetro delimitato di un territorio. Dire

che uno Stato o una città sono “sicuri” è come usare un’espressione generica che potrebbe designare

la situazione di tutte le persone all’interno di quegli spazi. Così facendo, però, si rischia di trattare la

questione in modo superficiale. Gli studi di settore hanno dimostrato che le manifestazioni di

degrado urbano si rifanno essenzialmente a due tipologie: l’una legata a fenomeni strutturali e

l’altra di ordine prettamente sociale. La prima comprende l’abbandono di edifici o di aree dismesse

precedentemente assegnate a scopi e utilità definiti (ex fabbriche, ex mercati, ex scuole, ecc.),

l’illuminazione stradale non funzionante, il dissesto delle strade ad uso pedonale, l’incuria dei

parchi pubblici, il danneggiamento di servizi di utilizzo collettivo (cabine telefoniche, parchimetri,

fermate del bus, ecc.) e tutto ciò che riguarda l’abbandono di cose e oggetti in improvvisate

discariche a cielo aperto. La seconda riguarda, invece, il “genere sociale”, e comprende i fenomeni

come la marginalità e il vagabondaggio che hanno per protagonisti i senza fissa dimora e i

questuanti, finanche le forme di occupazione abusiva di immobili o le temporanee sospensioni della

viabilità dovute al passaggio di manifestazioni pubbliche regolarmente autorizzate. In altri termini,

la ripetizione di tali comportamenti e la comparsa di questi episodi, seppure in forma occasionale,

tendono a influire negativamente sulla percezione dei cittadini, anche quando questi fatti non

violano obbligatoriamente le norme di legge.

A fronte di ciò, la responsabilità della politica è quella di programmare gli interventi di prevenzione

sociale e comunitaria in tema di sicurezza urbana senza lasciare sullo sfondo (per non dire più

chiaramente: dimenticare) una competenza, regionale e comunale, ineludibilmente intrecciata alle

tematiche della pianificazione urbana e infrastrutturale, dei servizi sociali, finanche agli aspetti

sanitari. Per il futuro, occorre insomma che la politica faccia proprie le indicazione emerse dalla

sfera tecnica, traducendole al meglio in prassi operative, progetti di medio e lungo corso, laboratori

di sperimentazione che sappiano guardare all’offerta di un bene certamente limitato, ma quanto

meno esteso in forma pubblica a tutta la collettività: quello della sicurezza urbana. Dal crimine e

dall’insicurezza percepita.