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Pietro Selicato
LINEAMENTI DEL SISTEMA TRIBUTARIO
ITALIANO (dispense ad uso degli studenti)
Gennaio 2011
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INDICE 1. Cenni introduttivi..........................................................................................................................................5
2. Le modalità di realizzazione del prelievo tributario ....................................................................................9
2.a) Generalità...............................................................................................................................................9
2.b) Le fattispecie prodromiche ..................................................................................................................12
2.c) La dichiarazione del contribuente ........................................................................................................16
2.d) I controlli e l’accertamento ..................................................................................................................18
2.e) La definizione dei tributi su basi consensuali .......................................................................................20
3. I principali tributi ........................................................................................................................................24
3.a) L’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF)...............................................................................24
3.a.1) La nozione di reddito dalla teoria economica alla realtà giuridica ................................................24
3.a.2) Il reddito complessivo della persona fisica....................................................................................25
3.a.3) La crisi dell’imposizione personale progressiva ed i suoi possibili rimedi .....................................40
3.a.4) La tassazione dei redditi della famiglia..........................................................................................45
3.b. L’imposta sui redditi delle società ........................................................................................................51
3.b.1. I precedenti storici.........................................................................................................................51
3.b.2. La Riforma fiscale del 2004: dall’IRPEG all'IRES.............................................................................53
3.b.3. La tassazione dei dividendi e la participation exemption ..............................................................57
3.b.4. La tassazione dei gruppi di società ................................................................................................60
3.b.5. L’imposizione sui redditi degli enti diversi dalle società ...............................................................65
3.c) L’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) .............................................................................66
3.c.1. Caratteristiche generali del tributo................................................................................................66
3.c.2. Il presupposto del tributo e la sua giustificazione costituzionale ..................................................68
3.c.3. Soggetti passivi e base imponibile .................................................................................................71
3.c.4. La compatibilità con l’IVA ..............................................................................................................74
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3.d) L’imposta sul valore aggiunto ..............................................................................................................77
3.d.1. L’IVA nel contesto europeo ...........................................................................................................77
3.d.2. Natura giuridica e presupposto dell’imposta ................................................................................81
3.d.3. Contribuente di fatto e contribuente di diritto .............................................................................84
3.d.4. Le fasi di applicazione del’imposta ................................................................................................86
3.e) I tributi regionali e locali.......................................................................................................................92
3.e.1. Premessa .......................................................................................................................................92
3.e.2. Autonomia finanziaria e autonomia tributaria..............................................................................96
3.e.3. Il sistema fiscale locale: precedenti storici e situazione attuale....................................................98
3.e.4. Il federalismo fiscale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione .........................................105
3.e.5. I cosiddetti tributi di scopo..........................................................................................................107
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1. Cenni introduttivi
Queste dispense sono dedicate all’analisi degli elementi essenziali del sistema tributario
italiano e sono rivolte principalmente al fine di chiarire il funzionamento dei suoi più importanti
istituti e di fornire gli strumenti giuridici necessari alla ricostruzione degli effetti economici che essi
producono sull’andamento della finanza pubblica.
Il sistema fiscale italiano può essere incluso tra quelli che hanno raggiunto un elevato
livello di maturità a seguito di una lunga evoluzione che, oltre ad accrescerne la pressione fiscale
complessiva, lo ha portato a raggiungere un grado di complessità talmente elevato da
compromettere in diverse occasioni l’attuazione di uno dei fondamentali principi einaudiani
dell’imposta: la “comodità”. Su entrambi i fronti si sta assistendo negli ultimi tempi ad una decisa
inversione di tendenza.
Quanto al primo fronte va osservato che l’Italia, al pari degli altri Stati in cui la pressione
fiscale si manteneva su livelli elevati, ha dovuto confrontasi con la concorrenza degli Stati che
hanno mantenuto aliquote più basse. La progressiva internazionalizzazione degli scambi, degli
investimenti e delle attività economiche, associata alla tendenza alla dematerializzazione delle
nuove forme di ricchezza, ha favorito il trasferimento delle fonti di reddito, soprattutto di origine
finanziaria, verso gli stati a bassa fiscalità, verso i quali gli investimenti si sono potuti dirigere con
maggiore facilità dopo l’entrata in vigore delle misure che hanno liberalizzato la circolazione dei
capitali non solo tra gli Stati membri dell’Unione Europea ma anche tra questi e gli Stati
extracomunitari.
In Italia la soppressione delle restrizioni ai movimenti dei capitali all’interno degli Stati
membri è stata disposta con effetto dal 1° luglio 1990, in attuazione della Direttiva 88/361/Cee del
24 giugno 1988 adottata sulla base dell’art. 67 del Trattato istitutivo della Comunità Europea. Con
successive disposizioni inserite negli accordi di Maastricht del 1992 (ratificati dall'Italia con L. 3
novembre 1992 n. 454) la circolazione internazionale dei capitali, a decorrere dal 1° gennaio 1994,
è stata completamente liberalizzata, anche per i movimenti da e per gli Stati terzi (art. 73B del
Trattato istitutivo della Comunità Europea, trasfuso nell’art. 56 nella versione consolidata con le
modifiche introdotte dal Trattato di Maastricht).
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Per avere un’idea della dimensione di questo processo, basti pensare che per l’imposizione
sul reddito delle società nell’anno 1974, quando con D.P.R. 29 settembre 1973, n. 598 fu
introdotta l’IRPEG (imposta sul reddito delle persone giuridiche) fu stabilita l’aliquota del 35% (alla
quale però doveva essere aggiunta l’ILOR, Imposta locale sui redditi, introdotta a partire dallo
stesso anno 1974 con D.P.R. 29 settembre 1973, n. 599 ed applicata sugli stessi redditi con
un’aliquota complessiva del 15%). L’IRPEG ha raggiunto il livello massimo del 37% nel 2000 (ma a
partire dal 1998 l’ILOR, che aveva raggiunto l’aliquota del 16,2%, è stata sostituita dall’IRAP che,
pur applicandosi su una base imponibile molto più ampia, prevede aliquote nominali molto più
ridotte) per poi ritornare gradualmente al 35% nel 2003. L’IRES, che ha sostituito l’IRPEG nel 2004,
è stata applicata inizialmente con l’aliquota del 33, che è scesa al 27,5% nel 2008.
Le manovre sulle aliquote fiscali sono collegate a diverse variabili fondamentali.
Innanzitutto va individuato il livello di welfare che ci si propone di istituire; quanto
maggiore sarà il peso finanziario dei servizi pubblici tanto più elevato dovrà essere il carico fiscale
da addossare ai contribuenti. La gestione di questo equilibrio è molto delicata e viene influenzata
in misura considerevole dagli orientamenti ideologici che la classe politica sviluppa in ordine alla
presenza dello Stato nella società. È su questo terreno che si misurano i consensi elettorali
all’interno dei sistemi democratici.
Un peso notevole in queste scelte deve assumere, poi, l’andamento dell’economia. In una
fase di crescita economica sarà agevole programmare riduzioni di aliquote ed incrementi nel livello
dei servizi pubblici. In periodi recessione, potendo contare su minori risorse a causa della
fisiologica riduzione del prelievo, si dovrebbe operare nel senso opposto. In questo momento, in
cui si è aperto un ampio dibattito a livello mondiale sul mix ideale tra le manovre sulle imposte e
quelle sulla spesa pubblica, rivolto alla definizione delle linee da seguire nella c.d. “exit strategy” al
fine di individuare le forme più idonee al superamento della crisi economica e finanziaria tuttora in
atto, non solo in Italia,
Tuttavia, il sistema della spesa pubblica presenta, di norma, elementi di rigidità superiori a
quello dell’entrata. Si pensi alle difficoltà che si incontrano nelle manovre di contenimento del
livello dei servizi pubblici erogati per il dissenso che essi creano sul piano sociale producendo
conseguenze immediate sul risultato elettorale. Queste difficoltà impediscono, talvolta, di
intervenire con provvedimenti che prevedono riduzioni di personale e risparmi di costi che pur
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sarebbero necessari sul piano dell’efficienza e produrrebbero notevoli risparmi. E allora si
preferisce aumentare le aliquote per assicurare comunque il gettito necessario a mantenere
integro il sistema, creando però scompensi sull’economia reale in termini di recessione. Si pensi al
caso dell’Irlanda, che ha ridotto fino al 12,50% l’aliquota dell’imposta sulle società contando su un
determinato trend di crescita dell’economia e che oggi si trova ad affrontare le conseguenze
prodotte sullo stato dei suoi conti dalla crisi economica in atto, che ha impoverito in misura
notevole il gettito atteso e genera a quello Stato grande difficoltà nel mantenimento della spesa
sui livelli programmati.
La manovra sulle aliquote rientra nella fisiologia delle scelte di finanza pubblica. Vi sono,
poi, altre variabili del prelievo che sono collegate ad aspetti patologici, entrambi molto sentiti in
Italia. Sul livello della pressione fiscale incide la capacità di recupero dell’evasione: fissato un certo
ammontare di spese pubbliche da sostenere, più si contiene questo fenomeno più è possibile
tenere le aliquote a livelli contenuti. Secondo recenti indagini della Banca d’Italia, nel nostro Paese
si registrano livelli molto elevati della pressione fiscale, contrapposti ad una notevole diffusione
delle attività economiche irregolari. Questa situazione penalizza le attività regolari, determina
distorsioni nell’offerta dei fattori produttivi e fenomeni di concorrenza sleale ed è di ostacolo alla
crescita di dimensioni delle imprese. Una riduzione delle aree di evasione, pertanto, consentirebbe
non solo di ridurre le aliquote fiscali ampliando la base del prelievo ma anche di attenuare i
suddetti fenomeni distorsivi.
Da qualche decennio la razionalizzazione del sistema fiscale è divenuta un obiettivo
primario del legislatore, che l’ha perseguita procedendo in due direzioni: sul piano formale
mediante interventi volti allo snellimento e alla semplificazione del quadro normativo; sul piano
sostanziale mediante la riduzione del numero dei tributi. Sembrano queste le linee guida che
saranno utilizzate nella riforma del sistema attualmente in gestazione, che riprende il progetto
iniziale del 1994, ispirato ai principi riassunti nel seguente schema: dalle persone alle cose, dal
centro alla periferia, dal complicato al semplice.
Va detto, tuttavia, che negli ultimi tempi questo processo di razionalizzazione sembra
subire un forte condizionamento in conseguenza della sempre più intensa incidenza: a) dall’alto,
della normativa internazionale e (per i Paesi che, come l’Italia, fanno parte dell’Unione Europea)
comunitaria; b) dal basso, delle spinte al decentramento innestate dal fenomeno, sociale prima
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ancora che giuridico, del cosiddetto federalismo fiscale. Ciò dipende, a sua volta, dalla crisi della
sovranità dello Stato-‐nazione, per effetto della quale il diritto contemporaneo ha perso ogni
garanzia di unità: distaccandosi dalla sovranità degli Stati nazionali, esso non trova più un “centro”
all’interno di un sistema coordinato di norme coerenti con una serie coordinata di principi
fondamentali; è spinto dalle organizzazioni sovranazionali verso una “latitudine globale”; ma è
anche tirato verso il basso dai particolarismi locali. Oltretutto, le diverse fonti da cui possono
provenire tali norme (anche nella materia fiscale) fanno sorgere delicati problemi in ordine alla
prevalenza, in caso di conflitto, delle une sulle altre.
Anche sul versante della spesa incide fortemente l’esigenza di razionalizzazione: a parità
del livello dei servizi pubblici offerti al cittadino si possono individuare aree di risparmio che
riducono l’esigenza di gettito. In questa direzione si sta muovendo il sistema italiano della finanza
pubblica nell’ambito del cosiddetto federalismo fiscale. Secondo l’intenzione del legislatore,
infatti, l’attribuzione agli enti sub-‐statali di una maggiore autonomia funzionale e dei correlati
poteri fiscali dovrebbe responsabilizzarli di fronte ai loro amministrati-‐contribuenti-‐elettori
inducendoli a realizzare maggiori economie.
Altro punto di rilievo nella definizione dei contorni di un sistema tributario è il riparto del
carico fiscale tra imposizione diretta e indiretta. Un’indagine della Commissione Europea risalente
alla primavera del 2009 segnala che nove Stati membri su ventisette hanno disposto aumenti delle
imposte indirette per compensare la diminuzione delle entrate registrata nelle imposte dirette a
seguito della crisi economica. In Italia, stando alla stessa indagine, si registra una tendenza
opposta: nel 2007 le imposte dirette hanno raggiunto il 15,1% del PIL mentre le imposte indirette
(IVA, accise e imposte di fabbricazione) si sono attestate nello stesso anno sul 14,9% del PIL.
Nell’intera Unione Europea tanto le imposte sui redditi quanto le imposte indirette hanno pesato
nello stesso anno circa il 13% del PIL ma le imposte indirette hanno superato le dirette di circa lo
0,4%.
L’Italia, dunque, avrebbe ancora qualche possibilità per indirizzare maggiori quote del
prelievo sull’imposizione indiretta ma lo strumento ha margini di manovra alquanto limitati
poiché, fermo restando il livello dell’imposizione diretta, il vincolo comunitario in materia di
armonizzazione preclude ogni manovra sulla base imponibile delle imposte indirette (e tra queste,
segnatamente, dell’IVA) lasciando spazi modesti di intervento sulle sole aliquote.
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2. Le modalità di realizzazione del prelievo tributario
2.a) Generalità
La riforma tributaria varata con Legge Delega 9 ottobre 1971, n. 825, portò all’introduzione
di un sistema fiscale basato su un notevole rigore contabile e su una fitta rete di adempimenti
strumentali all’applicazione dei tributi. Alcuni studiosi definirono l’atteggiamento del legislatore in
quel periodo con il termine “contabilismo” proprio per mettere in rilievo la progressiva
accentuazione del carico degli adempimenti formali (bolle di accompagnamento, ricevute fiscali,
registratori di cassa, vidimazioni di libri e registri, ecc.), non sempre efficace sul piano concreto.
Anzi, sulla base di conformi orientamenti giurisprudenziali, si era ormai consolidata l’opinione che
il contribuente potesse mettersi al riparo dall’accertamento trincerandosi dietro la barriera di un
comportamento fiscale formalmente corretto, anche quando l’ammontare dell’imponibile
dichiarato era visibilmente difforme dalla realtà.
Dopo i primi venti anni di funzionamento, il sistema tributario arrivò ad un tale livello di
complessità da richiedere una drastica inversione di tendenza ed orientare gli interventi legislativi
nella direzione di una semplificazione degli adempimenti e di una maggiore efficacia degli
strumenti di accertamento. Fu addirittura un Presidente della Repubblica, agli inizi degli anni
novanta, a mettere sull’avviso il legislatore e in ordine alla necessità di sfoltire e semplificare gli
obblighi che, nel tempo, erano stati posti a carico dei contribuenti e che assumevano, per il forte
distacco dalla realtà quotidiana che avevano raggiunto, caratteristiche “lunari”.
Nella sua attuale configurazione, il sistema suddivide i contribuenti in tre categorie
principali, nei confronti delle quali vengono disciplinati regimi di dichiarazione e di accertamento
alquanto diversi:
a) I redditi di lavoro dipendente, soggetto ad un meccanismo di tassazione alla fonte, la cui
esecuzione è affidata in via prevalente al datore di lavoro, tendenzialmente esaustivo di
ogni altro obbligo a carico del lavoratore; l’accertamento nei confronti di questi soggetti si
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sviluppa sostanzialmente su due piani distinti: da un lato quello dei controlli incrociati con i
datori di lavoro sostituti d’imposta; dall’altro quello dei riscontri induttivi attraverso gli
indici di spesa (c.d. “redditometro”);
b) I cosiddetti “autonomi”, piccoli imprenditori e professionisti obbligati alla tenuta della
contabilità in forme anche semplificate ma che, avendo prevalenti rapporti con soggetti
privati, hanno forti possibilità di evasione;
c) Le medie e grandi imprese, soggette non soltanto per ragioni fiscali ad obblighi contabili
molto stringenti, le cui dimensioni organizzative non consentono loro, pur in presenza di
rapporti con la clientela privata simili a quelli intrattenuti dai soggetti di minori dimensioni
(ad esempio il comparto della grande distribuzione), di adottare analoghe tecniche di
evasione; in questo settore si va diffondendo l’uso di forme di inadempimento più
sofisticate, volte ad aggirare l’obbligo fiscale attraverso artificiose costruzioni societarie o
contrattuali, che vengono fatte rientrare nella nozione della elusione fiscale.
Le norme che disciplinano la concreta applicazione dei tributi (rientranti nella nozione in
senso lato di “accertamento tributario”) hanno subito negli anni grandi cambiamenti, nel duplice
intento di colmare le lacune legislative che si sono create nell’applicazione dei tributi e di rendere
più efficiente l’attività di accertamento. Le ragioni di tale evoluzione possono essere rinvenute in
un duplice ordine di considerazioni. In primo luogo, il forte aumento del numero complessivo dei
contribuenti (passato da qualche centinaio di migliaia di prima della Riforma ai diversi milioni dei
nostri giorni) ha determinato la necessità di intervenire sui sistemi di accertamento per alleviare e,
nel contempo, mantenere ad un accettabile livello di funzionalità ed efficacia l’attività di controllo
delle singole posizioni fiscali; in secondo luogo l’accresciuta sensibilizzazione dell’opinione
pubblica sul problema dell’evasione fiscale ha stimolato il legislatore a produrre norme rivolte a
rendere sempre più efficace, rapida e sicura l’attività di applicazione dei tributi.
Pur modellandosi alle diverse esigenze che sorgono nell’accertamento delle predette
categorie di contribuenti, il complesso iter attraverso il quale si realizza l’applicazione dei principali
tributi del nostro ordinamento (IRPEF, IRES, IRAP, IVA) assume la forma di un procedimento
amministrativo, caratterizzato da una sequenza di atti tra loro collegati e rivolto al fine della
corretta determinazione del tributo. D’altra parte, l’attuale posizione giuridica del contribuente
nel suo rapporto con l’Amministrazione finanziaria è talmente “procedimentalizzata” da non poter
essere più considerata, almeno quanto al suo profilo funzionale, distinta da quella in cui si trova
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l’Amministrazione finanziaria e che, d’altro canto, l’azione del contribuente ha assunto un ruolo di
tale rilievo nell’attuazione del tributo da porsi sullo stesso piano dell’azione dell’Amministrazione
finanziaria. In questa ottica, sembra opportuno definire il complesso degli atti che compongono la
sequenza attuativa del tributo con il termine di “procedimento tributario” poiché appare meno
limitativo sotto il profilo soggettivo della locuzione “procedimento di imposizione” adottata nel
passato, onde riconoscere un più adeguato respiro alla finalità pubblicistica assolta dal privato
nell’adempimento dei numerosi e consistenti doveri impostigli dalle vigenti norme di legge.
Similmente a quanto avviene nel procedimento amministrativo, anche nel procedimento
tributario il comportamento dei soggetti nei vari atti che compongono la sequenza produce effetti
irreversibili sugli atti successivi: questa caratteristica, tipica dell’azione amministrativa dell’Ente
pubblico, conferisce anche alle attività dei privati una piena valenza procedimentale. Per di più,
anche nella materia tributaria il detto collegamento sequenziale, a prescindere dalle variabili con
le quali viene concretamente a manifestarsi, è realizzato al fine di attuare una determinata
funzione pubblica avente un suo carattere unitario, sia pure nell’ambito dei diversi schemi previsti
dalla legge: quello dell’attuazione della norma tributaria.
Inserendo l’accertamento tributario nello schema sequenziale proprio del procedimento
amministrativo, risulta agevole guardare alle fasi che lo compongono e, in tale ambito, a quelle
che fanno capo all’iniziativa del contribuente come parti di un unico disegno. Il procedimento
assurge così a modo di essere di ogni atto ricompreso nella sequenza e costituisce la base di
partenza di una ricostruzione sistematica unitaria di tutte le figure che in essa sono comprese. Ciò
posto, pur tenendo conto della peculiarità del fenomeno tributario, la sua sequenza
procedimentale può essere configurata secondo uno schema diverso da quello elaborato nella
teoria del procedimento amministrativo, ove, di norma, si distinguono una fase di iniziativa, una
fase istruttoria ed una fase di decisione e si individua nella pubblica Amministrazione il solo
soggetto che ne ha il controllo.
Anche nell’accertamento tributario sembra possibile attenersi alla ripartizione anzidetta,
scomponendo la struttura del relativo procedimento tra: a) la realizzazione delle fattispecie
prodromiche, la presentazione della dichiarazione e, in genere, l’adempimento degli obblighi
formali posti a carico del contribuente (che può essere ricondotta alla fase dell’iniziativa); b)
l’esecuzione dei controlli fiscali (che realizza in via prioritaria la fase istruttoria); c) l’emissione
dell’atto di imposizione e degli altri atti con i quali, anche grazie all’accordo con il contribuente,
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vengono delineati i contorni del presupposto impositivo e stabilita la misura dei tributi ad esso
corrispondenti, riconducibile di norma alla fase della decisione o della “integrazione dell’efficacia”.
Tale schema, tuttavia, è influenzato da numerose variabili: a) in primo luogo, l’iniziativa è,
per obblighi di legge, normalmente affidata al contribuente, ma, nel caso di inadempimento, viene
esercitata dall’Ufficio che dà inizio al controllo integrando così il momento dell’iniziativa con quello
dell’istruttoria; b) anche l’attività istruttoria, normalmente svolta dall’Ufficio, viene integrata dalla
collaborazione del contribuente, che assolve già a tale funzione nel momento in cui compie le
attività comprese nella fase di iniziativa (fattispecie prodromiche-‐dichiarazione); quanto, poi, al
momento dell’integrazione dell’efficacia, esso può situarsi in concreto anche in una qualsiasi delle
fasi precedenti all’emissione dell’atto impositivo terminale, poiché anche la dichiarazione produce
consistenti effetti sulla determinazione degli elementi costitutivi del tributo, effetti che operano su
un piano di provvisorietà nel caso in cui l’Ufficio attivi la successiva attività ispettiva ma che
acquisiscono carattere definitivo se tale attività non viene posta in essere.
Nel seguito si analizzeranno le singole fasi della sequenza, con l’avvertenza che la
descrizione che seguirà prescinde dalle vicende dello specifico procedimento e si limita a dare
sintetici cenni della struttura e della funzione di ciascuna delle dette fasi.
2.b) Le fattispecie prodromiche
Le attività poste a carico dei contribuenti per concorrere alla concreta realizzazione del
tributo si sono notevolmente accresciute a seguito delle modifiche apportate al sistema tributario
italiano dopo la nascita della Repubblica, che hanno introdotto i principi della responsabilità del
contribuente nella corretta applicazione del tributo e, in un secondo momento, il criterio di
analiticità nella determinazione degli imponibili, realizzato attraverso l’imposizione dell’obbligo
contabile generalizzato e di metodi di accertamento basati sull’esame delle scritture.
Partendo da queste premesse, è stata posta in evidenza l’autonoma rilevanza di una serie
di adempimenti (definiti “fattispecie prodromiche”) che, pur essendo espletati dal contribuente in
epoca anteriore alla realizzazione del presupposto del tributo e pur restando talvolta indipendenti
da questo, costituiscono oggetto di controllo da parte dell’Amministrazione.
L’inclusione dei cennati adempimenti all’interno del procedimento di accertamento è
divenuta possibile soltanto dopo aver svincolato la sistemazione teorica del procedimento di
attuazione della norma tributaria dal problema della sua natura dichiarativa o costitutiva rispetto
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alla nascita dell’obbligazione tributaria. La riportata osservazione introduce una nuova prospettiva
nello studio di questo istituto affrancandolo dal legame di strumentalità che da sempre lo aveva
collegato alla dichiarazione del contribuente sulla base della considerazione che anche gli obblighi
fatturazione e di contabilità dovrebbero far parte di tale adempimento. In realtà, va riconosciuto
che la dichiarazione interviene dopo che il fatto-‐presupposto si è verificato e trae dalle scritture
contabili (adempimenti che si realizzano prima che si verifichi del fatto stesso) i propri presupposti,
contenuti e limiti, ma ammettere che sussista un’identità materiale e funzionale tra le scritture e
la dichiarazione (o, meglio, includere nella struttura di quest’ultima anche le scritture) non sembra
possibile alla stregua del diritto positivo, posto che il sistema riconosce alle stesse scritture una
autonoma rilevanza esterna, attesi i collegamenti rinvenibili tra la prescrizione del relativo obbligo
ed i poteri di controllo di cui usufruisce l’Amministrazione. Ciò posto, l’inclusione nell’ambito
dell’accertamento tributario di quella serie di obblighi che la legge impone ai soggetti passivi e il
cui assolvimento è considerato strumentale ai fini della migliore applicazione del tributo ovvero ai
fini del controllo di tale applicazione è senza dubbio condivisibile.
In questa ottica, è senza dubbio corretto sostenere che rientrano tra le fattispecie
prodromiche tutti quegli atti o comportamenti imposti dalla legge al contribuente prima e
indipendentemente dalla nascita del presupposto ed affermare che essi sono espletati in vista
della migliore applicazione del tributo. Ma appare limitativo sostenere che gli atti che rientrano in
tale categoria sono diretti soltanto a costituire l’oggetto dei controlli svolti dall’Ufficio poiché il
quadro normativo attualmente in vigore non consente di limitare l’oggetto dell’accertamento
tributario al solo aspetto dei controlli fiscali ma coinvolge in tale funzione anche il contribuente.
Del resto, nell’ottica di una maggiore efficienza del sistema, gli schemi delle dinamiche
attuative vengono continuamente sovvertiti ed in tale contesto sono venuti in evidenza non solo
adempimenti del contribuente, ma anche taluni speciali controlli degli uffici, come gli “studi di
settore”, ai quali pure è possibile attribuire un carattere prodromico. Con questa terminologia si
definisce quella particolare categoria di verifiche aventi ad oggetto l’acquisizione di dati che non
riguardano direttamente la consistenza del presupposto imponibile di un singolo contribuente ma
sono volti a ricostruire l’andamento medio di un certo settore dell’economia e soltanto
successivamente vengono utilizzati per verificare la congruità delle dichiarazioni presentate dai
contribuenti e rettificare con metodi induttivi gli imponibili dichiarati. Secondo un orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato, gli studi di settore non possono costituire l’unica prova
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dell’infedeltà della dichiarazione ma rappresentano un mero indizio che l’Ufficio accertatore deve
associare ad altri elementi con esso concordanti.
D’altro canto, l’imposizione al contribuente dell’obbligo di compiere attività di vario genere
aventi carattere propedeutico rispetto alla realizzazione del presupposto può anche trovare
giustificazioni di diverso tipo, quale quella di fornire allo stesso contribuente, in una fase del
procedimento successiva al loro compimento ma diversa da quella del controllo, gli elementi
necessari per la determinazione del tributo. Se, ad esempio, si considera l’obbligo contabile, si può
constatare agevolmente come esso venga imposto innanzi tutto per procedere -‐ sia pure
attraverso la mediazione della dichiarazione -‐ alla determinazione della base imponibile di alcune
categorie di soggetti e solo in un momento successivo e meramente eventuale al controllo
dell’Ufficio sulle posizioni fiscali degli stessi.
E, per di più, anche quando il controllo viene disposto, non sempre la verifica delle scritture
rappresenta un passaggio obbligato. Anzi, la più recente evoluzione delle norme che disciplinano
la tecnica dei controlli fiscali è orientata verso metodi di indagine sempre meno legati alla rigorosa
analisi delle risultanze contabili e ricorre con sempre maggiore frequenza a parametri e
coefficienti calcolati in via preventiva dall’Amministrazione. Di talchè le fattispecie prodromiche (e,
fra queste, le scritture contabili), pur restando funzionalmente collegate alle fasi successive del
procedimento, assumono una piena autonomia strutturale ed effettuale che ne giustifica
un’analisi separata sia per la loro autonoma valenza di atti procedimentali sia per le conseguenze
che esse sono abilitate a produrre sui successivi atti della sequenza.
I casi che vengono fatti rientrare in questa categoria sono alquanto diversificati. La dottrina
che per prima ha provveduto ad una autonoma sistemazione della figura ha individuato al suo
interno le seguenti sottocategorie:
a) Autorizzazioni e prescrizioni: In questo gruppo è compresa una serie di fattispecie nelle
quali la stessa legittimazione del contribuente ad esercitare particolari attività economiche
è subordinata al rilascio, da parte dell’autorità fiscale, di appositi permessi che assolvono a
finalità di censimento e di preventiva valutazione a fini tecnico-‐fiscali dell’affidabilità dei
soggetti richiedenti.
b) Documenti fiscalmente rilevanti: Rientrano in questa categoria particolari supporti (fatture,
ricevute e scontrini fiscali, bolle di accompagnamento dei beni viaggianti, documenti di
trasporto), che documentano taluni accadimenti materiali inseriti dal legislatore nella
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fattispecie tributaria. Mentre l’importanza degli scontrini, delle ricevute fiscali e dei
documenti di accompagnamento delle merci si va fortemente attenuando in sintonia con
l’attuale preferenza legislativa per modelli di accertamento basati su criteri induttivi, si va
fortemente attenuando, la funzione della fattura è rimasta inalterata poiché come stabilito
dalle direttive comunitarie, a fondamento del sistema di applicazione dell’Iva è il principio
della sua applicazione su base cartolare, che si fonda sulla ricostruzione documentale,
prima ancora che contabile, del tributo dovuto alla fine di ciascun periodo di riferimento.
c) Scritture contabili: É questo senza dubbio il gruppo di adempimenti formali di maggiore
interesse tra le fattispecie prodromiche, poichè il comportamento del contribuente in
ordine alla tenuta e conservazione di tali supporti assume rilievo determinante nella
dinamica del procedimento di imposizione. Nel disegno della riforma tributaria del 1971 la
previsione dell’obbligo contabile fu impostata in modo da conferire alle relative risultanze
una posizione centrale nel procedimento di determinazione degli imponibili dei soggetti
tenuti a tale adempimento e da attribuire alle stesse una valenza probatoria privilegiata.
Tuttavia, a seguito di un costante processo evolutivo delle norme in materia di
accertamento che ha sottoposto a profonda revisione il sistema inizialmente scaturito dalla
riforma, in un cospicuo numero di fattispecie non è ormai più necessario dimostrare
l’inattendibilità o la non corretta tenuta delle scritture per accedere a metodi di rettifica
degli imponibili basati su criteri extracontabili.
d) Bilancio: Si può sostenere che tra le scritture contabili ed il bilancio di esercizio esista una
relazione di reciproca influenza: da un lato, i dati delle singole operazioni riportati
cronologicamente sul libro giornale devono confluire necessariamente sul documento
finale bilancio che ne costituisce il riepilogo; d’altro canto, la valutazione delle poste
rettificative necessarie per la chiusura del conto annuale comporta la registrazione di
apposite scritture cronologiche. É ben noto che il bilancio, specialmente con la riforma
tributaria degli anni settanta, è divenuto il fulcro su cui il legislatore ha basato la disciplina
dell’imposizione del reddito d’impresa. Da questo punto di vista, il documento contabile di
fine esercizio attraversa orizzontalmente il sistema, costituendo punto unificante delle
diverse fasi del procedimento.
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2.c) La dichiarazione del contribuente
Nella logica che ispirò le due fondamentali riforme fiscali della seconda metà del nostro
secolo la dichiarazione del contribuente doveva costituire il pilastro principale dell’impianto
normativo disciplinante l’attuazione dei tributi. Al giorno d’oggi, al contrario, analogamente a ciò
che è avvenuto con riferimento all’adempimento contabile, il suo ruolo di principale strumento di
individuazione e quantificazione delle basi imponibili con criteri analitici è stato fortemente
ridimensionato a seguito della corrispondente crescita di metodi di determinazione e di controllo
dei dichiarati basati su parametri induttivi ed elementi extracontabili totalmente estranei a tale
momento, i quali, tutt’al più, trovano nella dichiarazione momento di verifica e di concreta
applicazione. Non ostante tale ridimensionamento, la dichiarazione del contribuente costituisce
ancora l’atto iniziale del procedimento di attuazione del tributo, poiché precede logicamente
all’interno della sequenza le fasi successive del controllo, dell’accertamento e della riscossione.
Al fine di inquadrare l’obbligo di dichiarazione all’interno della sequenza procedimentale
che realizza il tributo, deve essere posta in evidenza la diversa natura della dichiarazione rispetto
alle fattispecie prodromiche: anche tali attività apportano al procedimento tributario consistenti
elementi conoscitivi in ordine alla natura ed alla consistenza del presupposto del tributo ma se ne
diversificano per almeno due ordini di motivi.
Innanzi tutto, anche nella loro forma più compiuta le fattispecie prodromiche non
consentono mai, da sole, di poter determinare con esattezza la base imponibile e liquidare
l’ammontare del tributo. Cosa che, invece, è connaturata alla dichiarazione e, anzi, ne costituisce
funzione fondamentale. Guardando, poi, all’altro lato dello sviluppo logico della sequenza, occorre
osservare che il momento della dichiarazione risulta altresì nettamente distinto da quello della
successiva fase del controllo. In tal senso, non è mai consentito al contribuente di produrre la
dichiarazione dopo che sia iniziato un controllo fiscale nei suoi confronti.
Esiste da tempo unanimità di vedute sull’idea che la dichiarazione del contribuente
costituisca una manifestazione di scienza soggetta a rettifiche e non abbia natura negoziale, fatta
eccezione per le parti di essa che consistono nella scelta tra diverse modalità di determinazione
del tributo (è questo, ad esempio, il caso delle opzioni tra regimi contabili diversi). Questa tesi ha
gradualmente soppiantato le precedenti che, richiamandosi ad istituti di origine privatistica, hanno
accostato la dichiarazione ad una confessione stragiudiziale; ovvero hanno considerato la stessa
come una manifestazione della volontà del contribuente di assoggettarsi al tributo.
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I principali riflessi pratici dell’accoglimento dell’una o dell’altra tesi si sono avuti sul terreno
della soluzione dei problemi connessi con il verificarsi di errori od omissioni nella sua redazione.
Infatti, a seconda della diversa natura (dichiarazione negoziale costitutiva del debito d’imposta
ovvero comunicazione di scienza a carattere meramente dichiarativo) che viene riconosciuta alla
dichiarazione, può essere o meno ammessa la ritrattabilità della stessa da parte del contribuente e
la correggibilità dell’errore commesso all’atto della sua compilazione. In effetti, sostenendo che
alla dichiarazione vada attribuita natura negoziale, si dovrebbe ritenere che essa non può formare
oggetto di ritrattazione da parte del contribuente, salvi i casi di invalidità previsti dalla legge, i
quali, tuttavia, comporterebbero la caducazione dell’atto originario ma non la sua sostituzione con
altro atto valido, posta l’esistenza dei termini di decadenza. D’altro canto, intendendo la
dichiarazione come una mera comunicazione di scienza in ordine alle circostanze formative del
presupposto del tributo, la sua ritrattabilità dovrebbe essere ammessa senza limiti, salvi i termini
di prescrizione e decadenza dei diritti che con la ritrattazione si vuole far valere.
Evidentemente, entrambe queste impostazioni presentano i loro limiti e non possono
essere condivise integralmente. Al contrario, il vero scopo della dichiarazione tributaria è quello di
porre il contribuente e l’Amministrazione finanziaria a conoscenza di determinati elementi di fatto
e di fondare su tali informazioni le fasi successive del procedimento di attuazione del tributo. É pur
vero che il contribuente è tenuto a dare la sua versione dei fatti contenuti nella dichiarazione;
tuttavia, tale versione non è definitiva: è soltanto il punto di partenza dal quale prenderanno le
mosse le fasi successive della sequenza, potendo in un secondo momento l’Ufficio (e, a
determinate condizioni, lo stesso contribuente) interpretare diversamente il fatto comunicato con
la dichiarazione. Ed allora tutto ciò che resta è l’acquisizione al procedimento dei fatti materiali ivi
esternati, dalla quale il successivo percorso attuativo riceve non solo elementi di valutazione, ma
anche diritti, obblighi e preclusioni che possono comportare nel prosieguo limitazioni o
impedimenti ad operare le predette correzioni.
A conferma di quanto sopra si deve sottolineare che la Suprema Corte di Cassazione,
benchè si sia uniformata al principio che la dichiarazione tributaria sia una manifestazione di
scienza soggetta a rettifiche, ha osservato che la dichiarazione originaria, ancorchè viziata da
errore, è comunque acquisita al rapporto tributario e produce, fino alla declaratoria giurisdizionale
dell’errore, i suoi normali effetti.
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2.d) I controlli e l’accertamento
Il forte aumento del numero complessivo dei contribuenti (passato da qualche centinaio di
migliaia di prima della Riforma del 1971 ai diversi milioni dei nostri giorni) ha determinato la
necessità di intervenire sui sistemi di accertamento per alleviare e, nel contempo, mantenere ad
un accettabile livello di funzionalità ed efficacia l’attività di controllo delle singole posizioni fiscali.
In secondo luogo l’accresciuta sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul problema dell’evasione
fiscale ha stimolato il legislatore a produrre norme rivolte a rendere sempre più efficace, rapida e
sicura l’attività di applicazione dei tributi.
Stante l’evidente impossibilità per l’Amministrazione finanziaria di controllare tutte le
dichiarazioni d’imposta presentate in adempimento della nuova normativa, ha avuto inizio una
nuova fase, caratterizzata dallo spostamento sul contribuente di un crescente numero di
adempimenti, così da consentire agli uffici un più proficuo esercizio dell’attività accertatrice che
sembra assumere un nuovo profilo in quanto protesa non tanto (o non soltanto) ad imporre il
tributo, ma soprattutto a reprimere l’evasione. La nuova caratterizzazione dell’accertamento è
stata accompagnata da una ampliata e rafforzata fase di liquidazione e riscossione.
Ad oggi, il sistema dell’accertamento dei tributi si sviluppa su due fondamentali direttrici:
a) I controlli formali, tendenti a verificare la correttezza dell’imposta liquidata dal
contribuente sulla base del solo contenuto della dichiarazione, dei documenti ad essa
collegati e dalle risultanze delle dichiarazioni dei sostituti d’imposta; la liquidazione
eseguita dall’Ufficio può concludersi con il riconoscimento di un credito del contribuente o
con il calcolo di un conguaglio a suo debito che viene immediatamente iscritto a ruolo;
b) I controlli sostanziali, che si basano su indagini tendenti a ricostruire la dimensione
effettiva dell’imponibile sulla base di elementi esterni alla dichiarazione; in questo caso
l’Ufficio notifica al contribuente un avviso di rettifica (o, in caso di omessa dichiarazione, di
accertamento); l’avviso non comporta l’immediato pagamento dell’imposta accertata.
Soltanto nel secondo dei due tipi di controlli il potere investigativo dell’Ufficio si sviluppa in
modo completo e tende a far emergere basi imponibili non dichiarate. A questo scopo l’Ufficio
procede alla ricerca delle prove anche attraverso accessi, ispezioni e verifiche presso la sede del
contribuente e può procedere ad indagini per accertare le movimentazioni intervenute sui suoi
conti correnti bancari. Sulla base degli elementi raccolti, l’ufficio procede ad:
a) Accertamento analitico
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La rettifica della dichiarazione è analitica quando l’ufficio procede alla ricostruzione dei
singoli elementi che concorrono alla formazione del reddito complessivo e dell’imposta dovuta
(ricavi e proventi, costi ed oneri, deduzioni e detrazioni). L’amministrazione deve procedere ad
accertamento analitico tutte le volte in cui il contribuente ha presentato dichiarazioni regolari e
complete. L’accertamento analitico è basato sul rigoroso principio dell’onere della prova.
Particolare rilievo assume la rettifica analitica dei redditi determinati sulla base di scritture
contabili, cui è dedicato l’art. 39 del D.P.R. n. 600/73. All’interno della norma in questione si
contrappongono due differenti criteri di rettifica: quello analitico, disciplinato nei punti a), b) e c)
del primo comma, e quello induttivo, disciplinato dalla lettera d) del primo comma (definito
accertamento induttivo “analitico” o “contabile”) e dall’intero secondo comma (definito
accertamento induttivo “extracontabile”). È indubbio che nelle prime tre ipotesi menzionate
dall’art. 39, comma 1, la rettifica deve fondarsi su elementi certi. Non desta particolari problemi la
lettera a), che evidenzia una precisa dipendenza della dichiarazione dai documenti ad essa
presupposti (bilancio, ecc.). Con riferimento alla lettera b) dell’art. 39, comma 1, (inesatta
applicazione delle disposizioni in materia di reddito d’impresa) particolare rilievo assumono i
principi di inerenza e competenza.
Problematica appare talvolta la verifica della circostanza che l’incompletezza, la falsità o
l’inesattezza della dichiarazione “risulta in modo certo e diretto” dai verbali e dai questionari di cui
ai nn. 2 e 4 dell’art. 32 o dagli altri atti e documenti indicati nell’art. 39, comma 1, lettera c). Il
richiamo a questa norma è molto frequente in rapporto all’art. 32, n. 2) (e all’art. 54 del D.P.R.
633/72 in materia di I.V.A., che si richiama all’art. 51, comma 2, n. 2) per giustificare la legittimità
dei recuperi basati sulle risultanze dei conti bancari. Negli ultimi tempi a Suprema Corte di
Cassazione ha notevolmente ampliato le opportunità offerte da tale norma, stabilendo che ai fini
della sua applicazione possono essere utilizzati anche i dati bancari relativi a soggetti diversi: e ciò
non soltanto con riferimento a soci di società di persone, ma anche a società di capitali, purchè tali
soggetti “siano siano legati alla società da particolari rapporti, quali soci, amministratori o
procuratori generali”.
b) Accertamento induttivo
L’art. 39, comma 1, lettera d), disciplina l’accertamento analitico-‐induttivo, precisando che
la presenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile da
presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti. La Suprema Corte ha
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stabilito al riguardo che basta anche un unico fatto noto, purchè, però, “tutti gli aspetti di esso, in
assenza di circostanze di valenza contraria, siano chiaramente ed unicamente concordanti sul
verificarsi del fatto ignoto”. In altra sentenza, la Corte ha poi indicato due elementi di notevole
rilievo nella determinazione del valore probatorio delle presunzioni evidenziando che la
percentuale di incidenza dei costi di produzione sui ricavi determinata per un certo periodo può
essere estesa ad anni diversi se la natura dell’attività non è cambiata.
Quanto alla lettera d-‐bis) aggiunta all’art. 39, comma 2, dall’art. 25 della L. 28/99, va detto
che talvolta gli Uffici fiscali inviano questionari non conformi al dettato dell’art. 32, n. 4, siccome
non aventi ad oggetto dati e notizie di carattere specifico. È evidente che in questi casi
l’accertamento redatto con il metodo induttivo va considerato nullo.
c) Accertamento sintetico
L’art. 38, comma 4, del D.P.R. n. 600/73 prevede che nei confronti delle sole persone
fisiche l’ufficio può procedere ad accertamento, in base ad elementi e circostanze di fatto certi,
“determinando sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al
contenuto induttivo di tali elementi e circostanze”. Con questo procedimento (diversamente dal
metodo analitico-‐induttivo di cui alla precedente lettera b), l’ufficio accerta induttivamente il
reddito complessivo netto ovvero la grandezza finale che scaturisce dal calcolo della base
imponibile della persona fisica, senza contestare i singoli elementi positivi o negativi che
concorrono alla sua determinazione (redditi, proventi, oneri deducibili, ecc.).
Gli elementi da cui può scaturire l’accertamento sintetico sono stabiliti dal Ministro
dell’Economia con apposito decreto e si riferiscono ad indici di spesa ritenuti particolarmente
significativi ai fini della quantificazione del reddito del soggetto (possesso di proprietà immobiliari
e di autoveicoli, imbarcazioni da diporto o aerei da turismo, disponibilità di collaboratori familiari,
ecc.). Recentemente l’elenco è stato ampliato con l’inserimento di ulteriori indici.
2.e) La definizione dei tributi su basi consensuali
Nell’ordinamento tributario italiano si è ormai verificata una transizione dal modello
unilaterale a quello bilaterale, nell’ambito di una più ampia transizione dell’intera attività delle
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Amministrazioni pubbliche da schemi basati sul rapporto autorità-‐soggezione a schemi basati sul
consenso.
Benché formalmente alternative, autorità e consenso sono, di fatto, fonti complementari
delle regole che compongono gli ordinamenti giuridici; l’autorità si distingue dalla tirannia perché
trae la sua legittimazione dal consenso (diretto o indiretto) di quanti debbono subirne gli effetti, il
consenso si traduce in regole giuridiche assicurandone il rispetto, quindi favorisce l’autorità . Le
discipline positive operano in concreto combinazioni diverse dei due aspetti. Da questo punto di
vista il diritto tributario, per la natura dei suoi contenuti, offre un campo di osservazione
privilegiato, e più ricco di articolazioni interne rispetto ad altre discipline; l’avere ad oggetto le
regole del dovere di concorrere alle spese pubbliche ne fa un’area naturalmente caratterizzata dal
fenomeno dell’autorità ma, al contempo, sono riscontrabili in esso (ad esempio nel campo degli
adempimenti) grandi aperture all’autodeterminazione da parte dei destinatari degli oneri tributari.
Questa compresenza dei profili di autorità e di consenso può rilevarsi in ogni settore della
materia ed ha interessato anche l’area del cosiddetto “accertamento tributario”, in cui sono stati
introdotti istituti che consentono la definizione del tributo mediante accordi tra l’Amministrazione
ed il contribuente.
L’esigenza di introdurre in Italia, in materie tradizionalmente riservate a sistemi di
composizione di interessi di stampo tipicamente “amministrativistico”, forme di accordo tra la
pubblica Amministrazione ed il cittadino è stata stimolata dai recenti mutamenti del contesto
normativo generale, specie di quello amministrativo in cui si realizza l’attuazione del tributo, in
seguito ad un mutamento del modo di porsi del rapporto tra “libertà” e “autorità” . Il ruolo
maggiore in tale cambiamento si deve a due elementi: da un lato, alle sollecitazioni provenienti
dall’ordinamento comunitario, in cui è stata affermata l’esigenza di informare le Amministrazioni
degli Stati membri a criteri di buon andamento e di correttezza per consentire ai singoli
appartenenti a ciascuno di tali Stati il pieno esercizio delle libertà economiche sancite dal Trattato
di Maastricht; dall’altro (e maggiormente), alle innovazioni introdotte nei rapporti tra cittadino e
pubblica Amministrazione dalla l. 241/1990, definita “legge generale sul procedimento
amministrativo”.
Questa normativa ha costituito una svolta radicale nella disciplina del modo di essere della
pubblica Amministrazione: ha sancito i princìpi generali della pubblicità, dell’efficacia, economicità
del procedimento amministrativo, ha attribuito ai privati i diritti di partecipare all’attività
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procedimentale e di accedere ai documenti amministrativi, ha introdotto nuove regole in materia
di accordi amministrativi ed ha dettato norme generali per la semplificazione dell’attività
amministrativa.
In quest’ottica, gli “accordi” in ambito tributario rappresentano strumenti per conseguire
consensualmente quel particolare livello di stabilizzazione del tributo che, di fronte alla lite,
potenziale o in atto, l’ordinamento giuridico reputa la migliore realizzazione possibile
dell’interesse del singolo e di quello della collettività. Tali istituti hanno fortemente ridimensionato
il ruolo dell’atto di accertamento, un tempo unica espressione del rapporto Fisco-‐contribuente.
Il legislatore italiano ha introdotto, a partire dai primi anni Novanta, numerosi strumenti
(dall’interpello all’accertamento con adesione, fino alla conciliazione giudiziale) volti a realizzare
una definizione non contenziosa del rapporto tributario per rendere più efficace l’applicazione del
prelievo fiscale, anche alla luce dei principi stabiliti dalla legge sul procedimento amministrativo,
tra cui in particolare, quello di efficacia, intesa come ottimizzazione del rapporto tra i risultati
ottenuti e gli obiettivi stabiliti, e quello di economicità, cioè il rapporto tra i risultati conseguiti e le
risorse impiegate in un certo lasso di tempo . Ad uno sguardo più attento non si può non prendere
atto che, più che un vero e proprio rispetto dell’interesse procedimentale del cittadino, tali
fattispecie rispondono per lo più ad esigenze di rapido e certo recupero del credito d’imposta in
situazioni di incertezza in cui si prospettano difficili margini di successo in sede contenziosa e più in
generale, a fronte della notevole entità delle controversie tra Amministrazione finanziaria e
contribuenti, tali strumenti sono sempre più adottati dal Fisco in un’ottica deflattiva del
contenzioso, volta ad evitare controversie inutili e dispendiose.
Il tratto comune di tutte queste figure è costituito dal fatto che a ciascuna di esse è
attribuita la funzione di determinare in modo autonomo e definitivo la natura e la misura della
fattispecie tributaria e la possibilità di concludere il procedimento, prima che un ricorso sia
proposto, o nella fase iniziale del giudizio, proprio al fine di evitare l’incertezza, le lungaggini e gli
elevati costi dell’intervento del giudice. In tutti questi strumenti, inoltre, la definizione degli
elementi della fattispecie tributaria è realizzata nell’ambito di modelli basati sullo schema del
contraddittorio, che prevedono la partecipazione in posizioni paritetiche alla funzione tributaria di
entrambi i soggetti che intervengono nel procedimento di attuazione del tributo.
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3. I principali tributi
3.a) L’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF)
3.a.1) La nozione di reddito dalla teoria economica alla realtà giuridica
Il reddito, quale espressione dinamica della ricchezza, viene considerato il principale punto
di riferimento per l’attuazione delle politiche fiscali redistributive basate sul principio della
capacità contributiva sancito dall’articolo 53, primo comma, della Costituzione. La norma in
questione, infatti, collega il prelievo a criteri di personalità, universalità e progressività,
imponendo l’applicazione del tributo su tutte le manifestazioni economiche ricollegabili alla
persona ed evidenziando il più intenso dovere di contribuzione dei soggetti dotati di più elevati
livelli di ricchezza. Queste caratteristiche si trovano concentrate in modo molto evidente
all’interno del reddito che, secondo la visione classica, consiste nella ricchezza che si aggiunge in
un certo periodo al patrimonio della persona.
La teoria economica distingue differenti nozioni di reddito a seconda che si riferiscano alle
sue fonti o alle sue diverse possibilità di impiego. In questa ottica si possono distinguere le nozioni
di “reddito prodotto” e “reddito entrata”, riconducibili al criterio delle fonti, da quella di “reddito
consumo” che invece si rifà al criterio dell’impiego.
Il “reddito prodotto” consiste nel frutto dell’attività umana o di un investimento. È questo
il modello al quale si è ispirata la maggior parte dei i sistemi impositivi a partire dalla metà
del’ottocento. Secondo i suoi ideatori, questo concetto sarebbe il più appropriato in quanto
collegherebbe il dovere tributario all’esercizio di un’attività produttiva rendendo piena ragione al
principio di solidarietà economica sotteso a quello della capacità contributiva.
Il concetto di “reddito prodotto”, però, lascia aperti due problemi: a) la necessità di
dedurre dalla base imponibile i costi sostenuti per la sua produzione, che devono essere valutati
nella loro sussistenza, inerenza e congruità attraverso accertamenti che incidono in modo
notevole sull’efficienza del tributo; b) la possibilità che, con evidenti riflessi sul versante
dell’equità, ne restino escluse componenti straordinarie non riferibili all’esercizio di un’attività
economica o ad un investimento ma ad eventi eccezionali (plusvalenze) o aleatori (premi e
vincite). A questi problemi intende ovviare la nozione di “reddito entrata” che, per l’appunto,
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tende a ricomprendere nella base imponibile anche le entrate non riferibili ad attività produttive
del soggetto quali le plusvalenze su beni patrimoniali, le vincite, le liberalità.
Alla base del concetto di “reddito consumo” vi è invece l’analisi della destinazione degli
impieghi della ricchezza. Tutto ciò che il soggetto destina al consumo (esclusa la parte destinata al
risparmio). Il fondamento di questa tesi è quello di tassare gli individui sulla quantità di risorse che
i medesimi sottraggono alla produzione e non sul contributo che essi danno alla formazione della
ricchezza.
Nel nostro sistema si fa riferimento in via prevalente al criterio del “reddito prodotto” e,
limitatamente a talune specifiche ipotesi incluse nella categoria dei redditi diversi, al criterio del
“reddito entrata”. Del criterio del “reddito consumo”, invece, il legislatore fa uso nel disciplinare il
c.d. accertamento sintetico basato sulla determinazione induttiva del reddito complessivo
imponibile attraverso parametri forfettari correlati a particolari indici di spesa (c.d.
“redditometro”).
Il dibattito dottrinale sul concetto di reddito è progressivamente trasmigrato dagli studi di
economia e di finanza pubblica, ovi si radicò a partire dalla seconda metà dell’ottocento, alla
teoria del diritto tributario. Ciò e accaduto perché, da un lato, la sistemazione ed il distacco del
diritto tributario dalla scienza delle finanze possono dirsi ultimati soltanto intorno alla metà del
secolo scorso; e, d'altra parte, perché nel corso degli anni successivi il legislatore ha definito le
singole fattispecie reddituali senza recepire un particolare concetto economico di reddito
(prodotto, entrata, consumo) ma accogliendo di volta in volta la soluzione ritenuta più opportuna
alla luce delle scelte di politica, di convenienza e di pratica realizzabilità.
3.a.2) Il reddito complessivo della persona fisica
L’imposizione personale sul reddito assume come base imponibile un agglomerato che
rappresenta la capacità economica complessiva del soggetto passivo. In accordo con i principi di
universalità, personalità e progressività dell’imposizione desumibili dall’art. 53 Cost., l’art. 8 del
TUIR (Testo Unico delle Imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917)
stabilisce che il reddito complessivo annuo è dato dalla somma dei redditi netti di ogni categoria,
diminuita delle perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali in contabilità semplificata e
dall’esercizio di arti e professioni (c.d. compensazione “orizzontale” delle perdite).
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Diversamente, le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali e dalla
partecipazione in società di persone in contabilità ordinaria sono computate in diminuzione dei
redditi della stessa natura, conseguiti nello stesso periodo d’imposta e, per la differenza, nei
successivi periodi d’imposta, ma non oltre il quinto, per l’intero importo che trova capienza in essi
(c.d. compensazione “verticale”).
Schematicamente, l’imposta personale sul reddito delle persone fisiche è determinata
come segue:
-‐ La sommatoria dei redditi e delle perdite rientranti nelle categorie indicate dalla legge (art.
6 del TUIR rappresenta il reddito complessivo lordo;
-‐ Da questo vanno dedotti gli oneri e le spese personali che riducono direttamente la
capacità contributiva del contribuente (tra i quali l’art. 10 del TUIR comprende, tra l’altro,
le spese mediche e quelle di assistenza specifica necessarie nei casi di grave e permanente
invalidità o menomazione, gli assegni periodici corrisposti al coniuge, i contributi
previdenziali e assistenziali obbligatori) e si ottiene il reddito complessivo netto;
-‐ Il reddito complessivo netto viene assoggettato ad imposta applicando sui singoli scaglioni
la scala delle aliquote stabilite dall’art. 11 del TUIR, determinando l’imposta lorda;
-‐ Dall’imposta lorda vengono scomputate le detrazioni per i familiari a carico (art. 12 del
TUIR) e quelle previste a fronte di oneri e spese pur sempre riferibili alla persona ma prive
(diversamente dagli oneri deducibili di cui all’art. 10) di una diretta riferibilità al reddito
dalla stessa prodotto (l’art. 15 del TUIR comprende tra l’altro in questa categoria gli
interessi passivi sui mutui ipotecari, le spese mediche diverse da quelle rientranti nell’art.
10, le spese per la frequenza di corsi scolastici ed universitari, i premi assicurativi sulla vita
e sugli infortuni, le erogazioni liberali in favore di enti diversi); in altri termini, le detrazioni
d’imposta per oneri personali sono concepite in modo tale da attribuire ai contribuenti un
identico risparmio di imposta a parità di oneri, diversamente dagli oneri deducibili di cui
all’art. 10 che invece, abbattendo il reddito imponibile, producono un risparmio pari
all’aliquota marginale di ciascun contribuente;
-‐ Oltre alle detrazioni di cui sopra, dall’imposta lorda vengono riconosciute detrazioni di
varia natura connesse alla tipologia dei redditi dichiarati (artt. 13, 14, 16 e 21 del TUIR), i
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crediti d’imposta per i redditi prodotti all’estero (art. 165 del TUIR), le ritenute alla fonte e
gli acconti versati (art. 22 del TUIR), determinando così l’imposta netta dovuta.
L’art. 6 del TUIR distingue diverse categorie di reddito, la cui determinazione è disciplinata
dalle norme successive del TUIR con modalità talvolta assai diverse. Le categorie disciplinate dal
TUIR sono le seguenti: a) redditi fondiari; b) redditi di capitale; c) redditi di lavoro dipendente; d)
redditi di lavoro autonomo; e) redditi di impresa; f) redditi diversi. Le loro caratteristiche essenziali
possono essere riassunte come segue.
A) I REDDITI FONDIARI
Sono i redditi inerenti ai terreni e ai fabbricati, situati nel territorio dello Stato, che sono o
devono essere iscritti con attribuzione di rendita nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio
urbano. I terreni e fabbricati producono redditi fondiari solo se sono suscettibili di produrre
reddito autonomo. Diversamente, costituiscono componenti di altro apparato produttivo e
concorrono alla determinazione di un reddito di diversa natura (generalmente il reddito di
impresa).
I redditi fondiari possono essere di tre specie:
-‐ Il reddito dominicale, costituito dalla parte del reddito medio ordinario del fondo
che può essere riferita alla proprietà del fondo in quanto derivante dalla terra nel suo stato
naturale e dai capitali in essa investiti;
-‐ Il reddito agrario, il quale è dato dal reddito medio ordinario imputabile al capitale
d’esercizio e al lavoro di organizzazione impiegati nelle attività agricole; pertanto, mentre il
reddito dominicale presuppone la mera esistenza di un diritto reale sui terreni, quello
agrario deriva dall’effettivo esercizio di una attività agricola sui terreni stessi;
-‐ Il reddito dei fabbricati, dato dal reddito medio ordinario ritraibile da ciascuna unità
immobiliare urbana posseduta a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale.
Per quanto riguarda i fabbricati, diversa è la disciplina che regola i criteri di determinazione
del reddito delle unità locate e di quelle non locate. Per le prime il reddito è costituito dal canone
di locazione ridotto del 15% se tale importo è superiore alla rendita catastale rivalutata. Tale
riduzione è elevata al 25% per le unità locate in regimi vincolistici e per quelle site a Venezia,
Giudecca, Murano e Burano. Tuttavia, se il contribuente vuole mettersi al riparo da azioni
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accertatrici, deve dichiarare un reddito da locazione non inferiore al maggior importo tra l’85% del
canone di locazione, come risulta dal contratto, e 1/10 del valore dell’immobile.
Per le unità abitative non locate possedute in aggiunta a quella adibita ad abitazione
principale o all’esercizio di arti, professioni o imprese commerciali, utilizzate dal possessore o dai
suoi familiari come residenza secondaria o tenute a disposizione, è prevista una maggiorazione del
reddito nella misura di un terzo della rendita catastale rivalutata. La misura tende, da un lato, a
colpire con un prelievo più elevato chi, tenendo a propria disposizione una o più unità immobiliari
oltre a quella destinata alla propria abitazione, denoti una capacità contributiva maggiore di chi, a
parità di condizioni, le destini ad impieghi produttivi. Per altro verso, la maggiore tassazione può
fungere da incentivo all’impiego fruttifero dei patrimoni immobiliari.
A decorrere dal periodo d’imposta 2000, è stata stabilita la deduzione del reddito
complessivo della rendita dell’abitazione principale e delle relative pertinenze, rapportata alla
quota e al periodo di possesso nell’anno, per cui esse di fatto non vanno ad incrementare la base
imponibile dell’imposta (art. 10, comma 3-‐bis, del TUIR). Per abitazione principale si intende quella
in cui dimorano abitualmente la persona fisica che la possiede o i suoi familiari.
B) I REDDITI DI CAPITALE
Il legislatore non ha fornito una esplicita definizione dei redditi di capitale ma si è limitato
ad elencare nell’art. 44 del TUIR le tipologie reddituali ricadenti in tale categoria. Le caratteristiche
che accomunano tali redditi possono comunque così sintetizzarsi:
– si tratta di proventi, in denaro o in natura, derivanti dall’impiego di denaro od altri beni;
non sono percepiti nell’esercizio di attività di impresa (altrimenti sarebbero componenti di
reddito d’impresa);
– sono generalmente tassati alla fonte, ossia è il soggetto che li eroga ad effettuare una
ritenuta (a titolo definitivo o di acconto) o ad assoggettarli ad imposta sostitutiva.
I redditi di capitale sono tassati in base al principio di cassa: essi sono, infatti, parte del
reddito complessivo del periodo d’imposta in cui sono stati percepiti, senza alcuna deduzione. Il
D.Lgs. 21-‐11-‐1997, n. 461 ha realizzato, a decorrere dal 1° luglio 1998, il riordino delle aliquote
delle ritenute e delle imposte sostitutive (comprese in ogni caso tra il 12,50 ed il 27%) e
l’applicazione generalizzata della ritenuta a titolo di acconto (con il conseguente obbligo di
dichiarazione dei proventi), fatta eccezione per i proventi corrisposti a persone fisiche non
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imprenditori ed ai soggetti non residenti nei cui confronti la ritenuta è invece a titolo d’imposta. Il
D.Lgs. 12 dicembre 2003 n. 344 (che ha attuato parzialmente la legge delega per la riforma del
sistema fiscale statale varata con legge 7 aprile 2003 n. 80) ha modificato nuovamente la disciplina
delle ritenute al fine di coordinarla con le nuove disposizioni relative alla tassazione dei dividendi
contenute nel D.P.R. n. 917/86.
La disciplina della categoria reddituale in esame è stata oggetto di diversi interventi
legislativi. Il D.Lgs. n. 344/04, nel riscrivere il Testo Unico delle imposte sui redditi, ha introdotto
con decorrenza dal 1° gennaio 2004, importanti modifiche in materia di tassazione dei dividendi.
Di particolare rilievo è quella che ha disposto l’abbandono del sistema dell’imputazione dei
dividendi in capo ai soci, eliminando il credito d’imposta e adottando il sistema dell’esenzione. Per
effetto di tali modifiche, il regime di tassazione degli utili derivanti dalla partecipazione in società
di capitali percepiti dalle persone fisiche viene suddiviso in funzione della percentuale di
partecipazione del socio al capitale della società.
In particolare, l’art. 47, co. 1, del TUIR stabilisce che gli utili derivanti da “partecipazioni
qualificate” concorrono solo parzialmente a formare il reddito imponibile del socio quando non
sono soggetti ad un prelievo alla fonte a titolo definitivo. Più precisamente essi concorrono, a
partire dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, nella misura del 49,72% del
loro ammontare (art. 1, D.M. 2 aprile 2008). Tale percentuale in precedenza era fissata nella
misura del 40%. Per “partecipazioni qualificate” si intendono quelle che attribuiscono al socio un
diritto alla partecipazione agli utili o al voto nelle assemblee superiore al 5% del valore del
patrimonio netto contabile alla data di stipula del contratto, ove si tratti di società i cui titoli sono
negoziati in mercati regolamentati, al 25% ove si tratti di partecipazioni in altre società soggette
all’IRES.
La stessa norma prevede, inoltre, che gli utili derivanti dai contratti di associazione in
partecipazione concorrono alla formazione del reddito imponibile nella stessa percentuale di cui
sopra (49,72%), qualora il valore dell’apporto sia superiore al 5% o al 25% del valore del
patrimonio netto contabile alla data di stipula del contratto, a seconda se si tratti di società i cui
titoli sono negoziati in mercati regolamentati o di altre partecipazioni.
Concorrono, invece, integralmente alla formazione del reddito imponibile gli utili
provenienti da società residenti in paesi o in territori a regime fiscale privilegiato, a meno che gli
stessi non abbiamo già concorso a formare i redditi dei soci per effetto del particolare regime di
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imputazione diretta previsto dagli artt. 167 e 168 del TUIR, salvo il caso in cui sia stato dimostrato,
mediante istanza di interpello, che dalle partecipazioni non sia conseguito l’effetto di localizzare i
redditi nei detti Stati o territori.
Gli utili derivanti da “partecipazioni non qualificate” (quelle aventi percentuali di
partecipazione al capitale e ai diritti di voto inferiori ai valori anzidetti), possedute da persone
fisiche al di fuori dell’esercizio di un’impresa, sono integralmente imponibili e sono assoggettati a
ritenuta alla fonte e titolo d’imposta nella misura del 12,50%, salvo che il percettore non abbia
optato per il regime del risparmio gestito (ossia per l’applicazione dell’imposta sostitutiva da parte
dell’ente gestore dei titoli) o per l’applicazione del regime del risparmio amministrato previsto per
le partecipazioni qualificate o relative all’impresa (quest’ultima opzione è consentita solo alle
persone fisiche titolari di azioni nominative o di quote o socie di banche popolari cooperative).
La ritenuta del 12,50% si applica, inoltre, sull’intero ammontare delle somme e dei valori
ricevuti dal socio in caso di recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale per esuberanza o
liquidazione anche concorsuale della società, qualora il percettore non comunichi il valore
fiscalmente riconosciuto della partecipazione. Essa è operata a titolo d’imposta e nella misura del
27% nei confronti di soggetti esenti da IRES e sugli utili corrisposti a soggetti non residenti nel
territorio dello Stato in relazione a partecipazioni non relative a stabili organizzazioni nel territorio
dello stesso. L’aliquota è ridotta al 12,50% per gli utili pagati ad azionisti di risparmio.
C) I REDDITI DI LAVORO DIPENDENTE
Il reddito di lavoro dipendente è quello derivante da rapporti che hanno per oggetto la
prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso
il lavoro a domicilio, qualora sia considerato tale dalla legislazione sul lavoro. Rientrano in tale
categoria anche le pensioni di ogni genere, gli assegni ad esse equiparati e le somme corrisposte a
titolo di rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro. La base imponibile è costituita da tutte le
somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, in relazione al
rapporto di lavoro, anche sotto forma di erogazioni liberali (art. 51 TUIR).
Vi è poi una serie di altri redditi considerati assimilati a questo tipo di reddito non derivanti
da vero e proprio lavoro subordinato (somme percepite in relazione a rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa, a titolo di borsa di studio, etc.). La loro elencazione è contenuta nell’art.
50 del TUIR.
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Il criterio di tassazione è, per entrambe le tipologie di reddito, quello di cassa dal momento
che sono tassati solo i compensi percepiti in un determinato periodo d’imposta. Tuttavia, con
riferimento al solo lavoro subordinato, si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le
somme o valori corrisposti entro il giorno 12 del mese di gennaio dell’anno successivo a quello di
riferimento.
Diversamente da altre categorie reddituali, le somme corrisposte al lavoratore vengono
assunte a tassazione al lordo, essendo esclusa la deduzione analitica di costi ed oneri. Il soggetto
passivo può però usufruire di detrazioni d’imposta forfetarie per la produzione del reddito.
I redditi di lavoro dipendente vengono tassati mediante ritenuta alla fonte, operata dal
datore di lavoro, che funge da sostituto d’imposta. Il datore di lavoro versa all’erario le trattenute
operate sulla retribuzione del dipendente. Con questo sistema, l’imposta dovuta dal lavoratore
dipendente-‐contribuente affluisce rapidamente alle casse dello Stato, con l’enorme vantaggio di
rendere minima l’evasione fiscale per questo tipo di redditi.
Per le amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, è previsto un
procedimento analogo, quello della ritenuta diretta (art. 29 D.P.R. 600/73). Dette amministrazioni,
infatti, effettuano sui compensi dovuti ai loro dipendenti una ritenuta dell’imposta dovuta dai
percettori del reddito, secondo lo stesso meccanismo della ritenuta alla fonte. La ritenuta diretta
diverge da quella alla fonte perché non vi è un sostituto d’imposta nel senso anzidetto, cioè un
datore di lavoro che si sostituisce al lavoratore ed anticipa il tributo allo Stato: è lo Stato stesso che
effettua direttamente il prelievo.
Dopo la chiusura dell’anno solare, il sostituto d’imposta è tenuto a rilasciare al lavoratore
una certificazione unica (CUD), anche ai fini dei contributi dovuti all’INPS o ad altri enti o casse
previdenziali, attestante l’ammontare complessivo dei redditi corrisposti nel corso dell’anno
precedente, l’ammontare delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate, dei
contributi previdenziali e assistenziali, nonché di altri dati stabiliti con il provvedimento di
approvazione dello schema di certificazione unica.
I lavoratori dipendenti ed i pensionati hanno la facoltà di avvalersi dell’assistenza fiscale
prestata dallo stesso datore di lavoro od ente pensionistico erogante i compensi o da centri di
assistenza autorizzati a tale tipo di attività (CAF).
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D) I REDDITI DI LAVORO AUTONOMO
Sono tali i redditi che derivano dall’esercizio di arti o professioni. Per arti e professioni si
intende l’esercizio abituale, anche se non esclusivo, di attività di lavoro autonomo diverse da
quelle d’impresa, anche se esercitate in forma associata (art. 53 TUIR).
Dalla suddetta definizione si desume che tali redditi sono caratterizzati da alcuni elementi
distintivi comuni:
– abitualità: La presenza di questo elemento distingue le attività produttive di redditi di
lavoro autonomo da quelle occasionali, produttive di redditi diversi; si riscontra allorché
l’attività sia caratterizzata dalla continuità nel tempo. Inoltre, in presenza del requisito
dell’abitualità il contribuente deve aprire una partita IVA ed assoggettarsi ai correlati
obblighi di fatturazione, registrazione, dichiarazione e versamento dell’imposta.
– esercizio di attività diverse da quelle di impresa: Il reddito di lavoro autonomo è una
nozione di carattere residuale, che si realizza quando, fermo restando il requisito
dell’abitualità, non vengono a configurarsi fattispecie di tipo diverso (per le differenze con
il reddito d’impresa si rinvia al successivo punto F).
– mancanza di vincoli di subordinazione: Per la medesima ragione di cui sopra, in presenza di
un vincolo di subordinazione l’attività va inquadrata tra i redditi di lavoro dipendente.
Il legislatore, inoltre, ha considerato le seguenti fattispecie reddituali, non riconducibili alla
definizione di redditi di lavoro autonomo, cui ha però esteso la relativa disciplina (cd. redditi
assimilati):
– i redditi derivanti dalla utilizzazione economica, da parte dell’autore o inventore, di opere
dell’ingegno, di brevetti industriali, etc., purchè non conseguiti nell’esercizio dell’impresa;
– le partecipazioni agli utili nei contratti di associazione in partecipazione quando l’apporto è
costituito esclusivamente dalla prestazione di lavoro;
– le partecipazioni agli utili spettanti ai promotori e ai soci fondatori di società di capitali;
– le indennità per la cessazione di rapporti di agenzia;
– i redditi derivanti dall’attività di levata dei protesti, esercitata dai segretari comunali;
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– i redditi derivanti da prestazioni sportive oggetto di contratto di lavoro autonomo ai sensi
della L. 91/81.
I redditi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (sindaco, revisore
amministrativo di società, collaboratore a giornali etc.), annoverati tra i redditi in esame fino al
2000, dal periodo d’imposta 2001 vengono assimilati a quelli di lavoro dipendente.
Quanto alle modalità di tassazione, l’art. 54 del TUIR prevede distinti criteri di
determinazione del reddito a seconda che si tratti di reddito derivante dall’esercizio di arti e
professioni o di redditi assimilati.
Il reddito derivante dall’esercizio di arti o professioni è costituito dalla differenza tra i
compensi percepiti – in denaro o in natura – nel periodo d’imposta e le spese sostenute nel
medesimo periodo per l’esercizio dell’attività (criterio di cassa). I compensi sono calcolati al netto
dei contributi previdenziali ed assistenziali (ad eccezione del contributo alla gestione separata
INPS), previsti per legge a carico del soggetto che li corrisponde.
Nella determinazione dei redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo, invece, non si
detraggono analiticamente le spese sostenute: la competente negativa del reddito è, infatti, in
alcuni casi, determinata mediante una deduzione forfettaria delle spese, ed è totalmente esclusa
in altri casi. In particolare:
– i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere d’ingegno sono costituiti
dall’ammontare complessivo percepito decurtato del 25% per spese determinate in modo
forfettario ovvero del 40% se i relativi compensi sono percepiti da soggetti di età inferiore a
35 anni;
– per i redditi derivanti dalla levata dei protesti esercitata dai segretari comunali è concessa
una deduzione forfettaria del 15%;
– per i redditi derivanti da altre attività non è ammessa alcuna deduzione di spese.
Anche per il lavoro autonomo è stato adottato il sistema della ritenuta alla fonte: essa è
operata a titolo di acconto nella misura del 20% del compenso lordo corrisposto da coloro che
rivestono la qualità di sostituti d’imposta (art. 64 del D.P.R. n. 600/73). All’atto della dichiarazione
annuale dei redditi di lavoratore autonomo detrarrà le ritenute d’acconto subite dall’imposta
dovuta nella sua globalità.
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E) I REDDITI DI IMPRESA
Reddito d’impresa è quello che deriva dall’esercizio professionale e abituale, ancorchè non
esclusivo, di un’attività commerciale (art. 55 TUIR). La nozione di impresa commerciale rilevante ai
fini fiscali è più ampia rispetto a quella emergente dalle norme civilistiche Tra i redditi in esame
rientrano, infatti, anche quelli prodotti da soggetti che non possono considerarsi imprese ai sensi
del codice civile e quelli derivanti da attività non rientranti tra quelle definite commerciali dallo
stesso codice.
In sintesi, la nozione fiscale di reddito d’impresa è desumibile da due elementi:
a) Elemento soggettivo (o formale): vi sono situazioni in cui si prescinde dalle
caratteristiche materiali dell’esercizio di un’impresa; si tratta dei casi in cui l’inclusione di
determinati redditi nella categoria in esame è ancorata alla natura giuridica “istituzionalmente”
commerciale del soggetto che ne è titolare, quali: I) le società commerciali di persone (art. 6,
comma 3, TUIR); II) le società di capitali ed enti commerciali (art. 81, già 95 TUIR); III) società
commerciali di persone, residenti e di stabili organizzazioni di imprese non residenti che esercitano
attività agricole, anche se comprese nel limite di cui all’art. 32 TUIR (art. 55, comma 2, lettera c,
TUIR);
b) Elemento oggettivo (o materiale): riguarda i contenuti intrinseci del concetto di
esercizio di imprese commerciali propriamente detto, come disciplinati dall’art. 55, commi 1 e 2,
TUIR. Con riferimento all’elemento oggettivo, l’art. 55 disciplina sia le caratteristiche tipologiche
delle attività dalle quali scaturisce il reddito della categoria in esame sia le caratteristiche
organizzative delle attività stesse.
Quanto alle caratteristiche tipologiche, è senz’altro considerato reddito d’impresa quello
derivante: I) dall’esercizio delle attività indicate nell’art. 2195 cod. civ. (1. industriali; 2. di
intermediazione; 3. di trasporto; 4. bancarie e assicurative; 5. ausiliarie) (art. 55, comma 1, TUIR);
II) dalle attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne
(art. 55, comma 1, lett. b); III) dall’esercizio delle attività agricole indicate alle lettere b) e c)
dell’art. 32, comma 2 (allevamento e attività connesse), che eccedono il limiti ivi stabiliti (art. 55,
comma 1, lett. b, TUIR).
Quanto alle caratteristiche organizzative, l’art. 55 TUIR richiede in ogni caso l’elemento
dell’abitualità. Al contrario, l’elemento dell’organizzazione in forma d’impresa (che distingue
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l’attività d’impresa da quelle di lavoro autonomo) è richiesto soltanto nelle ipotesi disciplinate
dall’art. 55, comma 2, lettera a) (servizi diversi da quelli elencati nell’art. 2195 c.c.) e non anche
nelle attività rientranti nell’art. 2195. Non è richiesto invece l’elemento della esclusività, essendo
possibile configurare l’esercizio di impresa anche in presenza di altre attività di carattere non
commerciale, come il lavoro dipendente.
La presenza dell’elemento dell’abitualità (che distingue le attività produttive di redditi
d’impresa da quelle occasionali, produttive di redditi diversi) si riscontra allorché l’attività sia
caratterizzata dalla continuità nel tempo. É del tutto irrilevante a tal fine che l'esercizio
dell'impresa si esaurisca in un singolo affare, poiché anche il compimento di un unico affare può
costituire impresa quando:
a) implichi l'esecuzione di una serie coordinata di atti economici (ciò sembra
presupporre la necessità del requisito organizzativo);
b) abbia una oggettiva rilevanza economica (come nel caso della realizzazione ai fini
della vendita frazionata di un fabbricato composto da più unità immobiliari o da più box auto);
c) si protragga nel tempo per una durata apprezzabile (quella necessaria a realizzare
opere della detta dimensione).
È questo il caso della costruzione o ristrutturazione di edifici al fine della vendita, anche se
realizzata con un’unica operazione e su terreni acquisiti per successione, purché questa presenti
l’abitualità, la sistematicità e la continuità richieste, in senso non assoluto, ma relativo, dalle
caratteristiche dell’affare.
Sulla base del menzionato principio, la qualifica di imprenditore ai fini fiscali deve essere
attribuita anche a chi utilizzi e coordini solo il proprio capitale per fini produttivi, non essendo
necessario che la funzione organizzativa del soggetto abbia ad oggetto anche le altrui prestazioni
lavorative, autonome o subordinate, o che i mezzi di cui si avvalga costituiscano un apparato
strumentale fisicamente percepibile.
L’elemento dell’organizzazione in forma d’impresa è utilizzato dall’art. 55 del TUIR per
distinguere il reddito d’impresa da quello di lavoro autonomo quando esse hanno ad oggetto
attività di prestazioni di servizi diverse da quelle indicate nell’art. 2195 c.c.. Per organizzazione in
forma d’impresa s’intende quella diretta a realizzare una combinazione dei diversi fattori
produttivi idonea a produrre redditi in modo autonomo; essa è frutto diretto dell’opera
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dell’imprenditore e distingue il reddito d’impresa da quello di lavoro autonomo, nel quale, al
contrario, l’organizzazione è strumentale alla migliore riuscita della prestazione del professionista.
Nella individuazione del reddito d’impresa questo requisito si atteggia in modo diverso:
a) non è richiesto per le attività commerciali tipiche, previste dall’art. 2195 c.c.;
b) costituisce elemento costitutivo della fattispecie nel caso di prestazioni di servizi
non rientranti nel detto articolo.
Una stessa attività si può prestare ad essere esercitata in diverse modalità e si qualifica
come esercizio di impresa commerciale quando l’apporto del professionista involge una
prevalente opera di organizzazione di vari fattori produttivi e laddove la struttura dell'impresa così
organizzata, e non la figura del professionista, assume nei confronti della clientela una rilevante
importanza; al contrario, si tratta di lavoro autonomo quando la prestazione assume gli elementi
tipici di una prestazione d’opera intellettuale.
Il problema della natura oggettivamente commerciale dell’attività svolta ha assunto rilievo
anche nei confronti delle società di capitali (considerate ex lege titolari di reddito d’impresa) nel
nuovo regime delle plusvalenze esenti di cui all’art. 87, comma 1, lettera, d) del TUIR, che richiede
tra i requisiti per l’esenzione l’esercizio, da parte della società partecipata, di un’impresa
commerciale secondo la definizione dell’articolo 55. Tale concetto ricomprende non solo le attività
indicate nell’articolo 2195 del codice civile ma anche quelle di cui al comma 2 dell’art. 87 TUIR.
F) I REDDITI DELLE IMPRESE DI ALLEVAMENTO E DELLE ALTRE ATTIVITÀ AGRICOLE
L’art. 56 del TUIR dispone che nei confronti dei soggetti che esercitano attività di
allevamento di animali oltre il limite di cui all’art. 32, comma 2, TUIR il reddito relativo alla parte
eccedente il detto limite concorre a formare il reddito d’impresa nell’ammontare determinato
attribuendo a ciascun capo un reddito pari al valore medio del reddito agrario riferibile a ciascun
capo allevabile entro il limite medesimo, moltiplicato per un coefficiente idoneo a tener conto
delle diverse incidenze dei costi.
La legge finanziaria per il 2004 (L. 350/2003) ha, inoltre, introdotto – dal 1° gennaio 2004 –
un nuovo regime fiscale per le attività agricole connesse applicabile esclusivamente alle persone
fisiche, alle società semplici e agli enti non commerciali. Le nuove disposizioni, inserite nell’art. 56-‐
bis del TUIR (come novellato dal D.Lgs. 344/2003), prevedono tre diverse ipotesi:
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– l’attività connessa è diretta alla produzione di vegetali tramite l’utilizzo di strutture fisse
o mobili e la superficie adibita alla produzione eccede il doppio di quella del terreno su
cui la produzione stessa insiste. In tal caso il reddito eccedente il suddetto limite
concorre a formare il reddito d’impresa nell’ammontare corrispondente al reddito
agrario relativo alla superficie sulla quale la produzione insiste in proporzione alla
superficie eccedente;
– l’attività connessa è diretta alla manipolazione, conservazione, trasformazione,
valorizzazione e commercializzazione di prodotti diversi da quelli indicati dal decreto
ministeriale 19-‐3-‐2004, ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del
bosco o dall’allevamento di animali. Il relativo reddito viene determinato applicando la
percentuale del 15% sull’ammontare dei corrispettivi registrati ai fini IVA;
– l’attività connessa è diretta alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione
prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività
agricola esercitata. In tal caso il reddito è determinato applicando la percentuale del
25% sull’ammontare dei corrispettivi registrati ai fini IVA.
– Il contribuente può decidere di non avvalersi delle suddette disposizioni: in tal caso
l’opzione per la determinazione del reddito in modo normale è vincolante per un anno
e, salvo revoca, si rinnova di anno in anno.
Successivamente l’art. 1, comma 1094, della L. 296/2006 ha stabilito la determinazione
forfettaria del reddito dell’imprenditore agricolo, divenuta dal 1° gennaio 2008 una facoltà in
seguito alla modifica operata dall’art. 1, comma 177, della L. 244/2007.
G) LA DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA
L’introduzione dell’IRES, ad opera del D.Lgs. n. 344/2003, ha ribaltato, relativamente al
reddito d’impresa, l’assetto sistematico previgente dando centralità, nella determinazione di
quest’ultimo, alle norme che regolano l’IRES. Pertanto, mentre nel testo previgente la disciplina
del reddito d’impresa era contenuta interamente nell’ambito IRPEF (Titolo I, Capo VI) e trovava
applicazione anche ai fini IRPEG, nel testo novellato accade il contrario: le disposizioni che, ai fini
IRES regolano la determinazione della base imponibile delle società e degli enti commerciali
residenti si applicano, salvo norme specifiche, anche nei confronti delle imprese individuali e delle
società di persone (art. 56, comma 1, TUIR).
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A norma dell’art. 83 del TUIR, il reddito d’impresa è determinato apportando all’utile o alle
perdite risultanti dal conto economico relativo all’esercizio chiuso nel periodo d’imposta le
variazioni in aumento o in diminuzione operate a seguito dell’applicazione dei criteri fiscali (per le
imprese minori e minime e per le imprese agricole sono previsti particolari criteri).
L’art. 109 del TUIR detta i principi generali da osservare nella determinazione del reddito
d’impresa. Tali principi possono così riassumersi:
– il principio della competenza per il quale i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e
negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza. Le uniche deroghe a
tale principio sono esplicitamente previste dal TUIR;
– il principio della inerenza per il quale le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli
interessi passivi sono deducibili de e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da
cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi
concorrono in quanto esclusi;
– il principio della certezza e della determinabilità oggettiva dell’ammontare del costo o del
ricavo;
– il principio della imputazione al conto economico per cui le spese e gli altri componenti
negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al
conto economico relativo all’esercizio di competenza. Si considerano imputati a conto
economico i componenti imputati direttamente a patrimonio per effetto dei principi
contabili internazionali. La norma trova, peraltro, un temperamento nel disposto del
comma 4 dell’art. 109 che ammette in deduzione le spese e gli altri componenti negativi
che pur non essendo imputati al conto economico risultano da elementi certi e precisi.
Prima della riforma attuata dal decreto istitutivo dell’IRES, al principio dell’imputazione al
conto economico, poteva derogarsi solo nelle ipotesi contemplate dal quarto comma dell’art. 74
del TUIR, il quale consentiva la deduzione di componenti negativi non imputati al conto economico
purchè deducibili per disposizione di legge nonché di quelli imputati al conto economico di un
esercizio precedente se la deduzione era stata rinviata in applicazione di norme tributarie.
Inoltre, era comunque già possibile portare in deduzione anche quei componenti negativi
non contabilizzati purchè relativi a componenti positivi a loro volta non imputati ma concorrenti
alla formazione del reddito. I componenti negativi dovevano risultare da elementi certi e precisi.
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Il ristretto margine di azione concesso da tale norma, unitamente a quanto disposto dall’art. 2426,
comma 2, del c.c. – il quale prevedeva la possibilità di effettuare rettifiche di valore ed
accantonamenti in esclusiva applicazione di norme fiscali – dava luogo al fenomeno del c.d.
“inquinamento fiscale” del bilancio, cioè alla pratica contabile di iscrizione di partite aventi
esclusivamente una giustificazione fiscale e non in sintonia con corretti principi contabili.
Ma il legislatore, intenzionato a eliminare questo fenomeno, aveva provveduto, da un lato,
abrogando il comma 2 dell’art. 2426 del c.c. nell’ambito della riforma del diritto societario attuata
con il D.Lgs. n. 6/2003 e, dall’altro, modificando le disposizioni dell’art. 75, comma 4, del TUIR,
confluite con la riforma IRES nell’attuale art. 109 del T.U. realizzando, così, il c.d. “disinquinamento
fiscale”.
La lett. b) del quarto comma dell’art. 109 – come modificato dall’art. 37, comma 47, del
D.L. 223/2006, convertito nella L. 248/2006 – disponeva la deducibilità extracontabile dei seguenti
componenti di reddito: ammortamenti di beni materiali e immateriali; rettifiche di valore;
accantonamenti; differenze tra canoni di locazione finanziaria di cui all’art. 102, comma 7, e la
somma degli ammortamenti dei beni acquisiti in locazione finanziaria e degli interessi passivi che
derivano da tali contratti; spese relative a studi e ricerche di sviluppo.
La norma subordinava la rilevazione extracontabile alla compilazione di apposito prospetto
della dichiarazione dei redditi (quadro EC) che doveva contenerne informazioni relative ai
componenti negativi non transitati per il conto economico ma portati ugualmente in deduzione.
Dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 la possibilità di dedurre
extra contabilmente questi elementi reddituali è venuta meni in seguito alle modifiche apportate
alla norma dell’art. 1, comma 33, della legge finanziaria per il 2008 (L. 244/2007). Scompare così il
quadro EC.
H) I REDDITI DIVERSI
Nella categoria dei redditi diversi, menzionati nell’art. 67 del TUIR, il legislatore ha fatto
confluire tutti quei redditi che non rientrano nelle categorie precedenti in quanto privi di uno dei
requisiti propri di tali categorie: è il caso, ad esempio, dei redditi derivanti dall’esercizio non
abituale di attività di lavoro autonomo, per i quali manca il requisito dell’abitualità che caratterizza
la produzione di lavoro autonomo.
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Il TUIR ha innovato la materia, fornendo una elencazione tassativa dei redditi diversi e non
riproponendo le disposizioni contenute nell’art. 80 del D.P.R. n. 597/73, che prevedeva in via
residuale una generica tassabilità di “ogni altro reddito diverso da quelli espressamente
considerati”.
I redditi diversi, già interessati dalla riforma attuata dal D.Lgs. 21 novembre 1997, n. 461 –
che ha contribuito a chiarire la demarcazione tra i redditi in oggetto e quelli di capitale includendo
tra i primi i redditi derivanti dalle operazioni finanziarie, le quali possono dar luogo a risultati sia
positivi che negativi (guadagni o perdite) in relazione al verificarsi di eventi incerti e aleatori – sono
stati oggetto di ulteriori modifiche ad opera del D.Lgs. n. 344/2003, che ha radicalmente
modificato il regime dei c.d. “capital gains”.
3.a.3) La crisi dell’imposizione personale progressiva ed i suoi possibili rimedi
Nei sistemi fiscali di tutti i Paesi maggiormente industrializzati i principi fondamentali della
personalità, globalità e progressività dell'imposizione sui redditi, che in Italia sono stati posti a
base della riforma tributaria varata con legge delega 9 ottobre 1971 n. 825 stanno manifestando
da tempo (e con insistenza) i segni di un drastico cedimento. Più di un autore ha denunciato il
sostanziale fallimento delle attuali imposte personali e progressive sul reddito sotto il profilo
distributivo rilevando immediatamente l’incongruenza del sistema fiscale sotto il profilo della
personalità e progressività dell’IRPEF. Nell'ampio quadro dei crescenti ripensamenti dottrinari e
politici di cui è stato fatto oggetto il tributo è stata evidenziata la visione riduttiva degli elementi
costitutivi di capacità contributiva insiti nel siffatto sistema, prospettandosi la necessità di un
arricchimento dei requisiti di capacità contributiva, auspicando a tal fine l'introduzione di metodi
di utilizzazione sistematica di dati patrimoniali nell'accertamento, di correzione dei fattori di
distorsione sia familiare che demografica e di quelli concernenti le condizioni di salute e di età dei
contribuenti.
All’interno dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, infatti, sono state introdotte
sempre più numerose fattispecie di imposizione sostitutiva e forfetizzata (riguardanti soprattutto i
proventi finanziari) che hanno ridotto considerevolmente l’area di applicazione della progressività.
Su altro versante, i redditi delle persone fisiche, prima “parcheggiati” nell’area (proporzionale)
dell’IRES, venivano poi dispersi con l'uso di strumenti elusivi di vario genere basati sull’impiego
dello strumento societario.
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A ben vedere, la crisi dell’imposta personale fu percepita già a pochi anni di distanza da
quella riforma che voleva esserne la piena attuazione a causa della tardività dell’intervento
legislativo rispetto al contesto culturale ed ideologico in cui ne maturò il disegno. Il divario dal
sistema dell’imposizione diretta sul reddito complessivo globale si è ancor più accentuato dopo
l’entrata in vigore del D.Lgs. 12 dicembre 2003 n. 344, “primo modulo” della riforma del sistema
fiscale statale disposta dalla L. 7 aprile 2003 n. 80, in cui appare netta la preferenza per forme di
imposizione orientate alla cedolarizzazione delle diverse componenti reddituali. Le ragioni di tale
cambiamento di prospettiva sono state individuate non soltanto in esigenze di semplificazione e di
certezza dell’imposizione interna ma anche in esigenze di competitività e di armonizzazione
internazionale.
Il nuovo meccanismo, infatti, concepisce l’imposizione sul reddito della società come
prelievo a titolo definitivo, concentrandola al momento della produzione del reddito d’impresa e
rendendone irrilevante ai fini fiscali la successiva distribuzione. In questo modo si esclude il
dividendo (quanto meno in via di principio) dal cumulo nel reddito complessivo del socio e, con
ciò, il suo concorso alla formazione della base imponibile dell’imposta personale e progressiva,
offrendo decisivi elementi per confermare l’opinione che i criteri dettati per la riforma ormai in
corso abbandonano esplicitamente la personalità come valore da realizzare.
Con riferimento, poi, alla tassazione delle fattispecie reddituali transnazionali, un
significativo riscontro della tendenza alla cedolarizzazione delle fattispecie imponibili si ritrova
nella letteratura centroeuropea della fine del XIX secolo, che anche nelle sue evoluzioni più recenti
ed autorevoli, ha manifestato, per motivi di effettività e di efficienza del prelievo, la sua
propensione a ritenere che il criterio della tassazione mondiale sulla base della residenza sia
inadatto ad assicurare la neutralità dell’imposizione internazionale. Diversamente da quello di
stretta territorialità che, al contrario, ispirando forme di prelievo reale e proporzionale, si presta
meglio ad assicurare l’equa distribuzione del potere impositivo tra gli Stati interessati alla stregua
di logiche basate sul principio del beneficio.
La tesi, sostenuta in origine da Wagner e von Shanz, è stata ripresa da Vogel. Oggi si
osserva che le critiche al criterio della residenza non sono del tutto prive di fondamento poiché la
rimozione degli ostacoli che si frappongono al godimento delle libertà comunitarie ha fatto
notevolmente aumentare le situazioni in cui la ricchezza di un soggetto viene tassata in uno Stato
membro mentre questo beneficia dei servizi pubblici finanziati da un’altra comunità nazionale.
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Nell’area del centro Europa sono molti gli studiosi che giustificano il ricorso al criterio di stretta
territorialità con il principio del beneficio diretto. Tuttavia, un modello distributivo basato sul
principio del beneficio non può trovare ingresso nel sistema fiscale italiano per la difficoltà che
avrebbe a conciliarsi con il principio costituzionale della capacità contributiva. D’altra parte, il
processo di frammentazione della base imponibile dell’imposta personale e progressiva costituisce
un notevole impedimento alla piena realizzazione del principio in questione.
In questo contesto di diffuso disagio sarebbe forse opportuno operare un radicale
mutamento di fronte ed affiancare all’imposizione personale sul reddito nuove forme di
imposizione idonee ad ovviare alle disfunzioni di un criterio distributivo ormai obsoleto ed a
rispettare, anche con maggiore efficacia di quanto non accadesse nel passato, la nozione di
capacità contributiva sopra delineata. Ciò per due connessi ordini di motivi.
In primo luogo perché, per rispettare il criterio dell’universalità nella applicazione del
principio di capacità contributiva, vi è l’esigenza di attrarre a tassazione tutti gli elementi che
esprimono la ricchezza complessiva del soggetto passivo, poiché ove alcuni di questi indici
sfuggissero alla considerazione del legislatore il prelievo non colpirebbe l’intera ricchezza del
soggetto. Il concetto di universalità è insito nella locuzione "tutti" posta in apertura dell’art. 53
Cost., che impone al sistema delle imposte di raggiungere tutti gli indici della capacità economica
complessiva del soggetto. Il pericolo nell’ordinamento italiano non è del tutto teorico poiché vi
sono molte situazioni in cui taluni dei detti indici sono stati sostanzialmente esclusi da tassazione.
Per giunta, la limitazione a taluni soltanto degli indici di capacità contributiva potrebbe sollevare
dubbi di ingiustificata disparità di trattamento per la irrazionale distribuzione del carico fiscale che
ne seguirebbe.
In secondo luogo, è ormai diffuso il convincimento che non soltanto il possesso o lo
scambio della ricchezza o la specifica e diretta fruizione di un pubblico servizio ma ogni possibile
manifestazione di capacità economica riconducibile al soggetto passivo può (e deve) essere
considerata dal legislatore come indice di capacità contributiva se definita dal medesimo in
conformità a criteri accettabili di uguaglianza, razionalità e coerenza soggetti all’unico limite della
non arbitrarietà.
La necessità di adeguare l’imposizione a riferimenti quali-‐quantitativi più ampi di quelli
riferibili alla tradizionale linea reddito-‐patrimonio-‐consumo è stata riconosciuta dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 156 del 2001, che ha giudicato legittima l’IRAP riscontrando nel suo
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presupposto (Il potere di organizzazione dei fattori produttivi, il ”dominio” secondo la Corte,
esercitato dall’imprenditore) un separato rilievo economico.
Va anche ricordato che l'analisi dei criteri con i quali viene determinata la (misura della)
consistenza economica del fatto imponibile ha suscitato, nel tempo, l'interesse della più attenta
dottrina giusfinanziaria, che si è fatta carico di tracciare i limiti esistenti tra il profilo statico della
norma tributaria, consistente, per l'appunto, nella considerazione del suo oggetto economico, ed il
profilo dinamico di questa, consistente nella modifica a cui questo viene sottoposto ad opera
dell'azione normativa. Secondo questi orientamenti il "modo di considerazione economica" della
norma tributaria consente l'evoluzione delle norme giuridiche secondo il loro senso economico,
cioè il loro significato indirizzato verso la realtà economica, ed esprime il primato della sostanza
sulla forma. Di talché il siffatto metodo esegetico pone in luce la fase pregiuridica della norma
tributaria, concentrando l'interesse dell'interprete sulla comprensione dell’essenza di un tributo.
Da questo secondo punto di vista è stato osservato che può costituire autonomo rilievo
impositivo ogni attività di (produzione o di consumo) dalla quale derivino diseconomie esterne,
come lo sfruttamento del patrimonio ambientale, sottolineandosi inoltre come l'acquisizione da
parte dei singoli di risorse naturali disponibili in quantità limitata deve essere considerata un
sintomo della capacità economica del soggetto che la compie. Col passare del tempo il valore
economico dell’impatto ambientale delle attività dei privati, specialmente delle imprese, si va
manifestando in misura crescente, per il maggior costo (e la minore competitività) che hanno sul
mercato i beni e servizi di più elevata qualità ambientale. Il rilievo economico dell’ambiente
potrebbe costituire il presupposto di un tributo sotto un duplice punto di vista:
a) da un lato, perché attraverso le proprie attività inquinanti il privato produce un
costo per la collettività (la Corte costituzionale, con sua sentenza n. 210 del 1987, ha
affermato che la tutela dell'ambiente “costituisce diritto fondamentale delle persone e
interesse fondamentale della collettività”), che subisce un depauperamento valutabile
economicamente e corrispondente ai maggiori oneri da sopportare per rimuovere o
limitare gli effetti negativi prodotti dall'azione inquinante;
b) per altro verso, perché per effetto di tali attività il privato ritrae un vantaggio
individuale immediato ed economicamente valutabile, ottenendo gratuitamente i mezzi
necessari alla soddisfazione dei propri bisogni (siano essi rivolti alla produzione o al mero
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consumo) e conseguendo così un incremento di ricchezza corrispondente al valore delle
risorse naturali scarse che ha sottratto all’uso comune.
A questo punto lo studio della struttura dell’imposta ambientale giunge ad un bivio: il
prelievo conforme allo schema sub-‐a) ricalcherebbe il tipico modello pigouviano secondo normali
logiche di tipo redistributivo-‐incentivante, realizzando il trasferimento sul soggetto inquinante del
costo degli investimenti rivolti a riportare l’ambiente ad un accettabile livello di tollerabilità. Nel
caso sub-‐b), invece, l’ambiente non si limita a costituire un fondamentale valore costituzionale
extra-‐fiscale del prelievo, ma, con un evidente capovolgimento di prospettiva, assurge esso stesso
(rectius, il suo utilizzo individuale) a fatto-‐indice di capacità contributiva che, in quanto valutabile
economicamente, può (anzi, deve) essere assunto anch’esso dal legislatore quale giustificazione,
parametro e limite di un apposito tributo.
Come in altre occasioni aventi ad oggetto imposizioni su espressioni di ricchezza diverse da
quelle tradizionali, non è semplice stabilire quale sia l’esatta categoria in cui deve essere allocato il
nuovo tributo. La stessa incertezza permane tuttora per l’Irap, che la legge delega ha qualificato
come imposta reale ed il D.Lgs. n. 446/97 ha disciplinato ai fini della dichiarazione,
dell’accertamento e della riscossione, in modo del tutto analogo alle imposte sui redditi
sostituendola sostanzialmente, alla soppressa Ilor (sostituzione che l’Agenzia delle Entrate, con
sua Circolare 18 aprile 2002 n. 33/E, ha confermato anche con riferimento agli accordi
internazionali), ma della quale, d’altro canto, è stato denunciata alla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee, Causa C-‐475/03, il contrasto rispetto all’art. 33 della VI Direttiva n. 77/388/Cee
del 17 maggio 1977, che vieta agli Stati membri di istituire o mantenere tributi che abbiano il
carattere di “imposta sulla cifra di affari”. In verità, la Corte di giustizia, con sentenza del 3 ottobre
2006, ha escluso tale contrasto ma le motivazioni che ha addotto non sono apparse del tutto
convincenti alla gran parte della dottrina poiché l’impostazione seguita dai giudici di Lussemburgo
si pone in netto contrasto con la sua giurisprudenza precedente, la quale, invece, ha sempre
interpretato le norme del Trattato basandosi sull’analisi dei loro effetti sul funzionamento del
mercato unico.
La più innovativa forma di imposizione ambientale descritta sub-‐b) trova una convincente
giustificazione in due fondamentali caratteristiche del bene ambiente: una prima, risalente a
teorie di origine economico-‐finanziaria allineate alle logiche pigouviane, è la natura di esternalità
che ad esso è stata attribuita per la sua capacità di incidere positivamente (o di non incidere
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negativamente) sul costo individuale della produzione o del consumo di determinati beni o servizi;
la seconda, di carattere giuridico-‐amministrativo, è costituita dal carattere diffuso dell’interesse
alla salvaguardia del patrimonio ambientale.
In questa ottica, il vantaggio individuale che il fruitore del bene ambiente ottiene dalla sua
attività inquinante a scapito della collettività, a fronte del “dominio” che è in grado di esercitare
sulle risorse naturali può costituire un fatto-‐indice di capacità contributiva valutabile ai sensi
dell’articolo 53 della Costituzione come presupposto di un nuovo tributo. Il detto vantaggio,
infatti, costituisce un indice di ricchezza effettivo, riferibile al soggetto passivo e perfettamente
misurabile, che non trae il proprio fondamento dall’utilizzazione da parte del soggetto inquinatore
dei servizi pubblici necessari per la rimozione del danno arrecato all’ambiente o per la sua
riduzione a livelli sostenibili né corrisponde al costo di tali servizi o al risarcimento del danno
subito dalla collettività a seguito dell’azione inquinante ma individua e colpisce direttamente una
particolare forza economica del soggetto passivo caratterizzata dalla sua connessione ad un
particolare valore (il dominio sul bene-‐ambiente) dotato di una propria autonomia e di una
agevole misurabilità.
3.a.4) La tassazione dei redditi della famiglia
La situazione di disagio che si è sviluppata nei confronti del sistema di tassazione della
persona fisica ha avuto ripercussioni anche sul modo di considerare la famiglia ai fini della
determinazione e tassazione dei redditi. Il tema è ormai da tempo oggetto di grande attenzione.
È ormai parte della storia del nostro sistema fiscale il cosiddetto “cumulo dei redditi”,
abolito nel 1976 da una sentenza della Corte costituzionale (la n. 179) che ritenne illegittimo per
evidenti motivi di iniquità il calcolo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche basato sul cumulo
in capo al marito dei redditi prodotti da tutti i componenti della famiglia. Con questo meccanismo,
infatti, si incideva sul sistema della progressività applicando ai redditi oggetto di cumulo le
aliquote più elevate della scala, in spregio al requisito della personalità dell’imposta.
L’intervento della Corte risale alla stessa epoca in cui lo stesso regime dei rapporti coniugali
e familiari è stato rivisto per espungere dal codice civile del 1942 evidenti disparità tra i coniugi e si
inserisce nel quadro di quel processo evolutivo, imperniato sulla stessa Costituzione, che ha
portato a concentrare l’interesse dell’ordinamento giuridico sull’individuo.
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Oggi il quadro di riferimento, pur restando ferma la centralità dell’individuo, si sposta su un
piano diverso, che pare attribuire rilievo alla stessa base sulla quale si fondava il vecchio sistema
del “cumulo”: quello del rilievo, anche ai fini reddituali, del nucleo familiare. Il criterio impositivo
basato sulla centralità del singolo individuo non pare più adeguato a soddisfare l’esigenza di equità
che sta alla base del principio dell’uguaglianza tributaria sostanziale (ulteriori e specifici profili
problematici si sviluppano poi, ma non è questa la sede per esaminarli, in tema di famiglia di fatto
e di unioni in nuclei familiari di persone appartenenti allo stesso sesso).
A ben vedere, la famiglia non è stata mai considerata un autonomo soggetto passivo del
tributo. Anzi, la Corte Costituzionale, con la predetta sentenza n. 179/76, ha affermato che nel
nostro ordinamento non esiste un reddito della famiglia ma esistono tante posizioni reddituali
quanti sono i suoi componenti. Testualmente, la Corte osservò che "sia l'uomo che la donna come
cittadini, come lavoratori autonomi o subordinati, come coniugi, come contribuenti, si trovano
nelle medesime condizioni" e concluse precisando che "ci troviamo di fronte ad una
concatenazione volutamente enfatizzata dei diritti per farvi rientrare, quasi fosse un diritto della
persona umana, il dovere fiscale, con una forzatura anche letterale della Costituzione perchè
l'aggettivo ‘personale’ riferito alla capacità contributiva nell'articolo 53 della Costituzione non
esiste".
Ciò non ostante, la famiglia è sempre stata posta dal legislatore come punto di riferimento
per disciplinare il trattamento tributario di soggetti aggregati in un unico nucleo familiare in
misura differenziata rispetto al regime riservato al singolo individuo. A questo proposito il sistema
scaturito dalla Riforma tributaria del 1971-‐73 era tutt'altro che neutrale. Risultavano infatti
fortemente incentivate le famiglie unipersonali per le quali l'entità delle agevolazioni cresceva
addirittura al crescere del livello di reddito. Al contrario, l'ordinamento penalizzava pesantemente
le famiglie numerose in misura crescente al crescere del reddito.
Va anche segnalato che la famiglia è stata fatta oggetto di attenzione per la sua valenza
come fonte di informazioni ai fini dell'accertamento tributario. Taluni indici di spesa presi a base
del c.d. "redditometro" ai fini dell'accertamento sintetico delle persone fisiche individuano
parametri riferibili non solo al contribuente ma anche ai familiari fiscalmente considerati a carico
di questo. Si pensi alla disponibilità di veicoli, immobili o altri cespiti ed ai rapporti coi i
collaboratori familiari, che sono considerati di pertinenza del contribuente anche se riferibili ad
altri componenti del nucleo familiare risultanti a suo carico.
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Benché la necessità di un trattamento fiscale di favore per la famiglia trovi il suo
fondamento giuridico primario nella normativa di tutela dei nuclei familiari contenuta nella
Costituzione (artt. 29-‐31), prima della Riforma non sono mancati provvedimenti di legge nei quali il
riferimento alla famiglia come aggregato unitario è stato posto a base della giustificazione di
maggiori carichi fiscali. Il riferimento alla nozione di nucleo familiare è comparso, ad esempio,
nell'imposta di famiglia, disciplinata dal Capo V (artt. 111 e ss.) del Testo Unico delle Leggi sulla
Finanza Locale (TUFL), approvato con R.D. 14 settembre 1931 n. 1175, fu abolita dall'art. 82,
comma 1, lettera d), del DPR n. 597/73, unitamente agli altri tributi locali ritenuti incompatibili con
il nuovo sistema fiscale. Nel delineare il soggetto passivo dell'imposta, l'art. 112 TUFL assumeva
come tale "l'unione di più persone, strette da vincoli di parentela o di affinità, che insieme
convivono nella stessa casa e che costituiscono, anche se non aventi patrimonio unico ed indiviso,
una unità economica". Il successivo art. 115, riportando il nucleo familiare sul piano della
determinazione oggettiva del tributo, precisava che "i componenti di ciascuna famiglia sono
obbligati solidalmente al pagamento dell'imposta. L'art. 17, poi, individuava l'oggetto dell'imposta
nella "agiatezza della famiglia desunta da redditi o proventi di qualsiasi natura e da ogni altro
indice apparentedi agiatezza". Al tributo in esame fu attribuita la definizione di "focatico", poichè,
attraverso il duplice presupposto del legame familiare e della convivenza, finiva con l'assoggettare
a tassazione i soggetti aggregati attorno al focolare domestico.
In questi ultimi tempi, il richiamo alla famiglia gioca un ruolo politico fondamentale per il
consenso che si può creare a favore di una riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche
tendente ad attenuare la progressività facendo riferimento a valori costituzionali di grande
intensità e di notevole impatto sociale. Nel nostro ordinamento il riferimento alla famiglia in senso
di favore è stato realizzato in concreto attraverso l'applicazione di meccanismi di detassazione
consistenti in detrazioni d'imposta per i familiari a carico. Tuttavia, il sistema in vigore non è stato
ritenuto di piena soddisfazione e sono state formulate proposte volte a consentire una maggiore
attenuazione del carico fiscale.
I principali interventi proposti in questa direzione vanno in due diverse direzioni: lo
“splitting” e il “quoziente familiare”. Ad oggi, entrambi gli istituti sono rimasti privi di seguito,
probabilmente per la considerazione che le modifiche dirette ad introdurli avrebbero prodotto
una forte diminuzione delle entrate. D’altra parte, nel disegno della Legge n. 80/2003 (Delega del
sistema fiscale statale) si puntava sulla sostanziale eliminazione del carattere progressivo
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dell'imposizione fiscale, prevedendo due sole aliquote (23 per cento e 33 per cento), eliminazione
non più attuata, che avrebbe reso meno incisiva la valorizzazione del reddito familiare. Giova
ricordare che la detta legge delega ha sollevato un aspro dibattito nel quale si segnalava
l’opportunità di utilizzare per le imprese e per le famiglie le risorse che si stavano destinando ai
redditi più alti.
a) Lo splitting
Con il termine splitting, di derivazione angolsassone, si indicano quei sistemi di imposizione
diretta che prevedono la determinazione delle imposte dovute dai nuclei familiari mediante
ripartizione dei redditi conseguiti da uno solo dei suoi componenti tra tutti i soggetti che ne fanno
parte. L'introduzione dell’istituto è stata auspicata ripetutamente dai nostri Giudici delle leggi e in
sede parlamentare si è sviluppato già da tempo un rilevante interesse in tal senso. Con l'art. 19
della L. 29 dicembre 1990 n. 408, è stata concessa al governo la delega ad emanare uno o più
decreti legislativi aventi ad oggetto la revisione del trattamento tributario della famiglia. La delega,
scaduta il 31 dicembre 1992, ha dato luogo ad un ampio dibattito in seno alla competente
commissione bicamerale, al quale sono stati chiamati a partecipare illustri esponenti del mondo
accademico. Permanevano, tuttavia, forti perplessità basate sul carattere personale dell’imposta
sul reddito che avrebbe precluso la legittimazione di un "soggetto passivo famiglia" nella
considerazione che una scelta in tal senso avrebbe richiesto un ribaltamento del sistema, fondato
non più sull'esercizio di attività economica eventualmente produttiva di ricchezza, ma sul consumo
della ricchezza.
Nella sostanziale inerzia del legislatore, anche la giurisprudenza di merito ha più volte
denunciato l'illegittimità costituzionale delle norme sull'IRPEF nelle parti in cui non prevedono che
il reddito del marito venga imputato in parte alla moglie, priva di redditi propri, al fine
dell'imposizione tributaria, anzichè essere interamente attribuito al solo coniuge, produttore del
reddito stesso. Va tuttavia ricordato che la Corte Costituzionale, con sua Ord. n. 19 del 29 gennaio
1993, ha respinto analoga questione di legittimità rilevando che una decisione di accoglimento
avrebbe richiesto un intervento additivo inammissibile, in quanto la creazione di nuove figure
soggettive comporta l'adozione di scelte discrezionali riservate al legislatore. I Giudici delle leggi
hanno ribadito il predetto orientamento con la Sent. 358/95, nella quale, tuttavia, viene
manifestata l'esigenza di intervenire urgentemente con provvedimenti normativi che attenuino il
trattamento delle famiglie monoreddito e numerose.
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Va osservato che lo splitting potrebbe realizzare una deroga ad un consolidato
atteggiamento del nostro legislatore, per il quale la famiglia ha sempre costituito l’oggetto
dell'imposizione o la causa giustificatrice di un regime fiscale differenziato. In questa nuova ottica,
il nucleo familiare potrebbe essere considerato come un autonomo soggetto passivo, all'interno
del quale i singoli componenti potrebbero assumere la qualità di coobbligati solidali nel
pagamento dei tributi dovuti. In questa direzione si era orientato l’art. 19 della L. 408/90, il quale,
nello stabilire i principi e criteri direttivi cui si sarebbe dovuto attenere il Governo nell’attuazione
della delega, ha previsto che, sia pure facoltativamente, l'imposta dovesse essere determinata sul
"reddito complessivo del nucleo familiare" in una misura che tenesse conto della complessiva
capacità contributiva del detto nucleo "tenendo conto delle persone che lo compongono e dei
redditi da esse posseduti". In questo modo, ai fini delle imposte sui redditi, sarebbe "facoltà dei
contribuenti" costituire un autonomo soggetto collettivo cui imputare in modo unitario l'intera
capacità reddituale dei suoi componenti.
Lo splitting non va confuso con la ripartizione dei redditi tra l'imprenditore ed i suoi
familiari che collaborano nell'impresa. In questo caso, infatti, non si tratta di ripartire tra i
componenti dell'impresa familiare quote puramente nominali del reddito conseguito ma di
individuare la quota che compete ai collaboratori familiari dell’imprenditore per la loro effettiva
partecipazione all'attività dell'impresa.
L'istituto giuridico dell'impresa familiare, disciplinato dall’art. 230-‐bis c.c., deriva da quello
della comunione tacita familiare, la cui disciplina era dal codice affidata agli usi (art. 2140 c.c.).
Nell’impresa familiare il lavoro domestico prestato dal coniuge assume rilievo nell'impresa (e, di
conseguenza, nella ripartizione dei redditi a norma dell'art. 5 del TUIR) soltanto nel caso in cui esso
è "funzionale ed essenziale all'attuazione dei fini di produzione o di scambio di beni e servizi",
escludendosi a questi fini il riconoscimento di una valenza giuridica (e fiscale) del lavoro domestico
vero e proprio.
La disciplina dell'impresa familiare dettata dall'art. 230-‐bis c.c. stabilisce che l'imprenditore
è l’unico "titolare" mentre i "collaboratori familiari" sono solo prestatori d'opera, i quali assumono
soggettività ed obblighi fiscali autonomi in relazione alle quote di reddito agli stessi attribuite.
b) Il quoziente familiare
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Negli ultimi anni si è andata affermando la tendenza ad attribuire alla famiglia
monoreddito un rilievo fiscale di favore attraverso il sistema del quoziente familiare. Tutta la
letteratura specifica, ivi comprese le numerose indagini del Parlamento, concorda nel ritenere il
sistema fiscale francese (appunto a quoziente familiare) il più giusto ed il più efficace per la
famiglia. Mentre quello italiano si caratterizza per una singolare contraddizione: si fonda sulla
tassazione a base individuale (che a parità di reddito penalizza le famiglie monoreddito) e
contemporaneamente determina le tariffe sulla base del reddito familiare, se non addirittura sul
patrimonio della famiglia.
Su queste premesse il 27 ottobre 2006 è stata presentata alla Camera dei Deputati una
proposta di legge (XV Legislatura, A.C. n. 1867) portante “Delega al Governo per la revisione del
trattamento tributario della famiglia secondo il metodo del quoziente familiare” (proponenti Vichi
ed altri).
La proposta parte dal presupposto che le famiglie numerose abbiano minore capacità di
spesa, e che i bisogni aumentino con l'ampliamento del nucleo, anche se in misura meno che
proporzionale. La differenza di fondo della proposta rispetto al sistema vigente è che in
quest’ultimo la casalinga e gli altri familiari sono considerati «carichi detraibili» e i figli sono una
semplice scelta individuale; mentre nella proposta “casalinghe e figli sono soggetti che
partecipano al possesso del reddito familiare e i figli sono un investimento che si trasferisce, come
bene, all'intera società”. E per questo la famiglia (e non il suo singolo componente) assume il ruolo
di unità impositiva, in piena sintonia con le tesi che vedono nel consumo l’elemento decisivo nella
scelta dei criteri distributivi.
L'introduzione del quoziente familiare si attua attraverso la divisione di tutto il reddito
familiare per la somma dei coefficienti attribuiti ai suoi componenti (nella proposta di legge del
2006: 1 al primo percettore di reddito, 0,65 al coniuge, 0,5 al primo figlio, 1 al secondo e al terzo,
0,5 agli altri e ai non autosufficienti). Alle singole quote si applicano le aliquote vigenti e l’imposta
dovuta in totale è pari alla somma delle imposte dovute su ciascuna quota. Ciò comporta un
risparmio cospicuo per la famiglie ed una contrazione delle entrate dello Stato tanto maggiori
quanto maggiore è la progressività.
Non è pensabile che ci possa essere una compensazione aumentando le aliquote per tutti i
contribuenti. La pressione fiscale media rimarrebbe invariata ma non ci sono le condizioni per
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eliminare l'imposta implicita che grava sulla famiglia con un'altra imposta. La copertura del minore
introito va ottenuta recuperando risorse dalla lotta all'evasione e all'elusione fiscale.
3.b. L’imposta sui redditi delle società
3.b.1. I precedenti storici
Fin dalla metà del secolo scorso l'imposizione sui redditi delle società ha destato grande
interesse ai fini della ricostruzione del quadro complessivo dell'imposizione diretta. Sono almeno
due i profili sui quali si appuntano tuttora le principali attenzioni degli studiosi: da un lato, la
questione relativa alla soggettività tributaria delle società, che a sua volta ruota intorno alla
duplice esigenza di indagare sulla possibile identità tra soggetto giuridico e soggetto passivo
d’imposta e di riconoscere comunque la qualità di soggetto passivo d’imposta alle entità diverse
dalle persone fisiche aventi requisiti di sufficiente autonomia nella capacità di produrre ricchezza
tassabile; dall'altro, la necessità di costruire un sistema in grado di evitare l’effetto (considerato
negativo perché di ostacolo all’esercizio delle attività produttive) della c.d. “doppia imposizione
economica”, consistente nella sovrapposizione di più tributi sulla stessa ricchezza, che viene
tassata in capo alla società al momento della sua produzione e in capo ai suoi soci al momento
della distribuzione. I due ordini di questioni sono strettamente connessi poiché è stata proprio
l’attribuzione alle società di capitali di una soggettività tributaria distinta da quella dei soci a
generare situazioni di doppia imposizione economica, facendo emergere l’esigenza di adottare
misure rivolte ad eliminare o, quanto meno, ad attenuare i detti fenomeni.
Le origini dell’imposta sui redditi delle società vengono fatte risalire all’imposta di
negoziazione sui titoli azionari ed obbligazionari, di cui alla L. 4480/1869 e successive modifiche,
con cui si determinò l’applicazione del prelievo non più in capo al possessore delle azioni cedute,
bensì nei confronti della società emittente, in ragione del suo patrimonio. Ma l’antecedente
storico più diretto di questa forma di prelievo è l’Imposta sulle Società, introdotta inizialmente
dalla L. 603/1954 e poi disciplinata all’interno del TUID (Testo Unico delle Imposte Dirette),
approvato con D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 e rimasto in vigore fino al 31 dicembre 1973. Con la
riforma degli anni ‘70 fu realizzato il completo superamento del preesistente sistema di tassazione
diretta, che era imperniato su una vasta serie di tributi reali, rispetto ai quali l’Imposta sulle
Società aveva carattere secondario e funzione di completamento.
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L'imposizione sui redditi societari fu introdotta per evitare il rinvio a tempo indeterminato
della tassazione degli utili societari non distribuiti. In effetti, l'IRPEG (Imposta sul Reddito delle
Persone Giuridiche), introdotta a decorrere dal 1° gennaio 1974 dal D.P.R. 29 settembre 1973, n.
598 e, prima di essa, anche l'Imposta sulle Società, era basata su logiche antielusive, essendo
rivolta proprio ad avvicinare al momento della produzione della ricchezza il prelievo sui redditi
societari che, altrimenti, sarebbe rimasto sospeso fino all'applicazione dell'IRPEF (l'imposta sul
reddito delle persone giuridiche, anch'essa introdotta a decorrere dal 1° gennaio 1974 dal D.P.R.
29 settembre 1973, n. 597), che poteva avere luogo soltanto in concomitanza con la successiva (se
non eventuale) distribuzione ai soci.
Pertanto, i maggiori progressi nel contrasto al fenomeno della doppia imposizione
economica e nell'adozione di appositi strumenti di contrasto si registrano proprio a partire dalla
riforma tributaria varata negli anni ’70 del secolo scorso, che istituì l’IRPEG. poiché, da un lato,
essa costituiva il prelievo “fondamentale” sui redditi dei soggetti societari e, dall'altro, assumeva
carattere complementare rispetto all'IRPEF, imposta sulla quale, in buona sostanza, il sistema era
imperniato.
Ovviamente, anche nel sistema fiscale precedente (quello disciplinato dal TUID n.
645/1958) si era posto il problema della doppia imposizione economica, ma in quel contesto
l’aggravio che ne derivava risultava strutturalmente attenuato poiché gli utili distribuiti ai soci
delle società di capitali non erano soggetti all’imposta reale e l’onere dell’imposta personale era
alquanto ridotto, in quanto l’imposta sulle società colpiva solo il reddito eccedente il 6% del
patrimonio sociale.
Pare quindi sia questo nuovo ruolo dell’IRPEG, assurta ad imposta principale sui redditi
delle società, a far sorgere con insistenza i problemi relativi alla doppia imposizione economica e al
coordinamento nella tassazione delle società e dei soci, come è confermato dagli atti parlamentari
e dall’evoluzione normativa che ha portato, poco tempo dopo l’introduzione del nuovo tributo, ad
istituire il più rigoroso tra i moderni sistemi di eliminazione della doppia imposizione economica,
quello del credito d’imposta sui dividendi (o imputation system) introdotto nel nostro
ordinamento dalla legge 16 dicembre 1977, n. 904. Al momento della distribuzione del dividendo,
la norma poneva in atto un complesso, duplice e contestuale meccanismo volto, da un lato, a
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riconoscere al socio percettore il diritto al recupero dell’imposta pagata dalla società e, dall’altro a
trasferire in capo al medesimo lo stesso imponibile (pro quota) già tassato in capo alla società.
É interessante ricostruire brevemente l’esordio di questo istituto nel nostro sistema
tributario. Dapprima previsto dal “progetto Reale” (dal nome del Ministro delle Finanze
proponente il progetto di legge n.1639/1969) per attenuare la doppia imposizione economica sui
dividendi (problema peraltro già sollevato dal CNEL), il credito d’imposta venne poi eliminato
all’atto dell’approvazione della legge da parte della Camera dei Deputati sostenendosi che esso
costituiva “privilegio non soltanto indebito, ma anche in aperto contrasto con il principio della
progressività che avrebbe dovuto informare il nuovo sistema tributario”. Si disse anche (On.le
Riccardo Lombardi) che il credito d’imposta costituiva “un elemento di tradimento della
progressività”.
Al contrario, esso fu introdotto nel nostro ordinamento proprio per assicurare, senza
creare distorsioni, il puntuale rispetto del principio di progressività nella tassazione dei redditi dei
soci, ripristinando la corretta ricostruzione delle basi imponibili al momento del passaggio in loro
favore dei redditi prodotti dalla società. E fino alla sua abrogazione (con effetto dal 1° gennaio
2004) il sistema del credito d’imposta sui dividendi ha costituito l’espressione più matura della
concezione dell’imposta sui redditi delle società incentrata sull’imposizione globale e progressiva
del reddito personale, nella quale il soggetto societario, pur mantenendo la propria soggettività
tributaria, rappresenta soltanto uno dei diversi cespiti reddituali della persona fisica.
3.b.2. La Riforma fiscale del 2004: dall’IRPEG all'IRES
Il regime di tassazione delle società attualmente in vigore in Italia è il frutto di modifiche che
hanno inciso profondamente sul sistema adottato a partire dal 1974, introducendo istituti nuovi,
mutuati da altre esperienze legislative, che hanno modificato la logica stessa del sistema. La
riforma è stata avviata con la pubblicazione della legge delega 7 aprile 2003, n. 80 ed attuata
mediante l’emanazione del D.L.vo del 12 dicembre 2003, n. 344, entrato in vigore il 1° gennaio
2004.
Nella relazione governativa al disegno di legge delega i motivi essenziali della riforma
vengono individuati nell’esigenza di adattare il sistema fiscale interno alle attuali dinamiche
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economiche e sociali, le quali disegnano un mondo di mercati sempre più aperti e di capitali
sempre più mobili ampliando le possibilità di “scelta” del sistema fiscale di riferimento. Si legge
nella Relazione che “in uno scenario sempre più globalizzato, la necessaria standardizzazione, la
relativa crescente neutralità dei sistemi fiscali, il loro minore possibile grado di interferenza nelle
decisioni delle persone e delle imprese, sono obiettivi politici essenziali”.
Il legislatore delegato, orientandosi al ravvicinamento del sistema tributario nazionale a
quello dei principali Paesi europei, è intervenuto sugli aspetti più rilevanti della normativa relativa
alla tassazione dei redditi societari e in modo particolare sui meccanismi di coordinamento della
fiscalità delle società con quella dei loro soci. È interessante notare che con l’introduzione nel
nostro ordinamento della nuova disciplina sulle società ritroviamo ancora presente la
“contrapposizione” tra due imposte personali: l’IRES per le società e l’IRPEF (o l’IRE nell’originario
progetto di riforma) per le persone fisiche.
A ben vedere, questa scelta non si discosta da quella operata con la riforma degli anni
settanta. Essa, però, viene inserita in nuovo contesto, in cui vengono attenuati i caratteri di
progressività e vengono accentuati quelli di realità dell’imposizione, sulla base dell’esplicita
intenzione del legislatore di attuare “una forma di progressività fiscale più coerente ed
integrabile”.
La stessa tecnica adottata negli interventi normativi di riforma legittima queste conclusioni.
In effetti, il D.Lgs. n. 344/03 ha inserito la nuova normativa in materia di reddito d’impresa tra le
disposizioni relative all’IRES, regolando separatamente le deroghe applicabili ai redditi d’impresa
prodotti dalle persone fisiche. Nella stesura precedente, invece, la normativa sul reddito d’impresa
era inserita all’interno della parte dedicata alle persone fisiche mentre in quella relativa alle
società ed agli altri soggetti passivi dell’IRPEG erano inserite le deroghe riguardanti tali soggetti.
Ciò si spiega con il fatto che nello scenario economico attuale i soggetti che producono
reddito d’impresa sono per lo più enti societari. Pare, anzi, che la riforma in questione sia stata
pensata quasi esclusivamente per le grandi imprese societarie, nazionali e multinazionali. Infatti, le
innovazioni introdotte sono rivolte, per lo più:
-‐ a perseguire le già menzionate esigenze di armonizzazione rispetto ai sistemi degli altri
Stati europei;
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-‐ ad omogeneizzare il prelievo fiscale delle società abbassando l’aliquota d’imposta ed
eliminando alcuni regimi di favor che consentivano di ridurre sensibilmente la
tassazione ordinaria;
-‐ a semplificare la struttura del prelievo spostando il baricentro della tassazione sulla
società e rendendo in tutto o in parte irrilevanti i successivi passaggi del reddito in capo
ai soci.
Volendo descrivere i tratti essenziali della riforma del 2004, si può osservare che la nuova
imposta sul reddito delle società risulta caratterizzata da alcuni elementi di forte discontinuità con
il sistema precedente.
Tra gli aspetti di maggiore rilievo rientra, in primo luogo, la modifica del regime di
tassazione dei dividendi con il passaggio dal metodo del credito d’imposta al metodo
dell’esenzione parziale. Dal 2004, infatti, vige il principio per il quale i redditi prodotti dalle società
vengono tassati in capo alle medesime in via pressochè definitiva mentre la distribuzione di tali
redditi a favore dei soci rimane parzialmente o del tutto esente. Correlato al nuovo sistema è poi il
vasto regime di irrilevanza fiscale delle plusvalenze e minusvalenze sulle cessioni di partecipazioni
sociali effettuate da altre società di capitali (c.d. “participation exemption”).
Altra innovazione significativa è costituita dall’introduzione di sistemi opzionali in materia
di fiscalità di gruppo (la tassazione per trasparenza e il consolidato fiscale, sia nazionale che
mondiale), con i quali, in analogia con le disposizioni contenute negli ordinamenti degli altri Stati,
si è inteso porre rimedio ai problemi fiscali derivanti dalla frammentazione del gruppo nelle
posizioni giuridiche di ciascuna società che vi appartiene dando risalto, anche sotto il profilo
giuridico, al carattere unitario che assume l’impresa di gruppo sotto il profilo economico.
La nuova riforma prevedeva, infine, l’introduzione di nuovi meccanismi di contrasto alla
sottocapitalizzazione delle imprese, per arginare la prassi, molto diffusa non solo in Italia, con la
quale le imprese, per ragioni di convenienza, tramutano il capitale di rischio (remunerato con i
dividendi) in capitale di debito (remunerato con gli interessi). In questo modo il contribuente si
propone di evitare la doppia imposizione, prima sul reddito della società e poi (anche se in forma
attenuata) sul dividendo, per usufruire, in primo luogo, della deducibilità degli interessi dal reddito
d’impresa imponibile e, nel contempo, di un regime di tassazione degli interessi che, di norma, è
più favorevole.
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Il rimedio contro la c.d. thin capitalization era disciplinato dal nuovo articolo 98 del TUIR, la
cui rubrica appariva molto eloquente, intitolando la norma al “Contrasto all’utilizzo fiscale della
sottocapitalizzazione”. Si trattava della risposta, in verità abbastanza tardiva nel contesto degli
ordinamenti giuridici dei Paesi a fiscalità avanzata, alla diffusa pratica elusiva con la quale un
impresa societaria può trovare convenienza a coprire il proprio fabbisogno finanziario facendo
ricorso, anzichè al capitale di rischio, all’assunzione di debiti nei confronti dei propri soci. La norma
in questione, però, non è mai entrata in vigore: inizialmente differita nella sua efficacia, essa è
stata abrogata dalla Legge finanziaria per l’anno 2008 che ha introdotto nuovi limiti alla
deducibilità dal reddito di impresa degli interessi passivi, correlati al rapporto tra margine
operativo lordo dell’impresa ed oneri per interessi, che prescindono dalla qualità di socio del
soggetto finanziatore.
Come per l’IRPEG, il presupposto dell’IRES è costituito dal possesso di redditi, in denaro o in
natura rientranti nelle categorie indicate nell’articolo 6 del TUIR. Attualmente, non essendo stato
attuato pienamente quanto previsto dalla Legge Delega n. 80/2003, i soggetti passivi ai quali si
applica l’IRES sono sostanzialmente gli stessi ai quali si applicava la vecchia IRPEG, cioè:
a) le società con personalità giuridica residenti in Italia;
b) gli enti, diversi dalle società, che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di
un’attività commerciale, residenti in Italia (c.d. “enti commerciali”);
c) gli enti, diversi dalle società, che non hanno per oggetto esclusivo o principale
l’esercizio di un’attività commerciale (c.d. “enti non commerciali”), residenti in Italia;
d) le società e gli enti di ogni tipo non residenti, se producono redditi in Italia.
Anche l’IRES è un’imposta di tipo “personale”, poiché si applica in modo unitario a tutti i
redditi posseduti dal soggetto passivo. Essa, tuttavia, è applicata con criteri proporzionali e non,
come avviene per l’IRPEF, applicando un sistema progressivo di aliquote. Questa impostazione è
frutto del compromesso sul quale tuttora si basa l’imposizione sulle società. Infatti, quando fu
introdotta l’IRPEG pareva che il legislatore intendesse contrapporre all’imposta personale a carico
delle persone fisiche un’imposta reale che colpisse i redditi societari, nella convinzione che l’unico
vero soggetto cui era riferibile l’indice di capacità contributiva fosse la persona fisica.
Nondimeno, l’impossibilità di negare a priori l’esistenza di una capacità contributiva propria
dei soggetti diversi dalle persone fisiche ha portato addirittura ad affermare che l’IRPEG fosse la
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sola imposta avente davvero carattere personale in quanto, almeno con riguardo alle società ed
enti commerciali, era l’unica rispetto alle quale potesse dirsi realizzata la tassazione in forma
unitaria di tutte le componenti riconducibili all’indice di capacità contributiva prescelto. Nel
sistema dell’IRES il carattere tendenzialmente definitivo del prelievo sui redditi della società rende
ancora più fondata questa lettura del fenomeno confermando l’idea di una autonomia soggettiva,
anche ai fini tributari, dei soggetti societari.
La base imponibile dell’IRES è costituita dal reddito complessivo netto, determinato in
maniera diversa a seconda del tipo di ente o società. Per le società ed enti commerciali essa è data
dal reddito complessivo, considerato comunque appartenere alla categoria del reddito d’impresa.
Il reddito d’impresa imponibile si determina apportando al risultato economico (utile o perdita)
dell’esercizio le variazioni in aumento e in diminuzione previste dal TUIR.
L’aliquota dell’imposta è costante ed è stabilita nella misura unica del 27,5% a decorrere
dal 2008. Prima della riforma era in vigore un sistema, denominato “dual income tax”, che
prevedeva l’applicazione di un’aliquota inferiore a quella ordinaria sulla quota del reddito
imponibile IRPEG riferibile al rendimento ordinario del capitale investito: quanto maggiore era
l’ammontare del capitale proprio tanto più ampia era la parte imponibile da assoggettare
all’aliquota ridotta. Il sistema costituiva un incentivo alla capitalizzazione delle imprese e, nel
contempo, assolveva alla funzione di scoraggiare la prassi della “thin capitalization”. Come si è
detto, con la riforma del 2004 e con i successivi provvedimenti di modifica il legislatore si è
orientato verso altre soluzioni, ispirate ad una logica antielusiva e sanzionatoria rispetto a
comportamenti miranti ad ottenere indebiti risparmi d’imposta.
3.b.3. La tassazione dei dividendi e la participation exemption
Il passaggio dal metodo del credito d’imposta al metodo dell’esenzione trova le sue principali
ragioni nell’esigenza di avvicinare il sistema fiscale italiano a quello dei principali Stati europei,
rendendolo più competitivo ed evitando le distorsioni che il sistema previgente produceva nei
rapporti internazionali.
Tale intervento si è reso necessario al fine di tener conto delle indicazione della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee (sent. 6 giugno 2000, C-‐5/98) che aveva rilevato un conflitto tra il
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principio della libera circolazione dei capitali sancito dalla direttiva 24 giugno 1988, n. 88/361/CEE
e gli ordinamenti, come quello italiano, che concedevano ai propri residenti il credito d’imposta sui
dividendi solamente quando questi erano distribuiti da società residenti e non anche nel caso di
distribuzioni effettuate da società residenti all’estero.
Occorre anche sottolineare che, sul piano interno, il nuovo sistema si propone l’ulteriore
intento di superare l’intrinseca inefficienza del metodo dell’imputazione a garantire all’Erario il
gettito delle imposte sui redditi prodotti dalle società. Al riguardo, infatti, deve ricordarsi che il
metodo del credito d’imposta rendeva sostanzialmente “provvisoria” la tassazione ai fini IRPEG del
reddito d’impresa, che si stabilizzava, divenendo definitiva, solo al momento della distribuzione
dei dividendi e che ciò, specialmente in presenza di gruppi societari con gradi più o meno elevati di
internazionalizzazione, poteva consentire alle imprese di porre in atto strategie di differimento
della tassazione (c.d. tax deferral) oppure fenomeni più complessi di canalizzazione del reddito in
capo ad holding che assumevano la veste giuridica di società di capitali residenti ovvero in capo a
stabili organizzazioni di soggetti non residenti cui le partecipazioni fossero connesse.
A differenza della previgente IRPEG, l’IRES si presenta, invece, come un tributo che viene
prelevato in via definitiva sul reddito prodotto dalle società, a prescindere dalla situazione
reddituale e dalla residenza fiscale dei soci e dalla distribuzione di tale reddito sotto forma di
dividendi.
In tal modo, è stato, dunque, abolito il credito d’imposta prima riconosciuto sui dividendi, i
quali, conseguentemente, sono stati esclusi quasi totalmente dal reddito imponibile dei soggetti
che li percepiscono. Infatti, quando il percettore è un’altra società di capitali (residente in Italia, in
un altro Stato membro UE o in Stati terzi che consentono lo scambio di informazioni fiscali con
l’Italia) il dividendo è imponibile per una quota del cinque per cento del totale distribuito,
percentuale che sale a circa il cinquanta per cento (49,72%) quando il percettore è una persona
fisica e che è pari all’intero importo distribuito quando il percettore è residente in uno stato extra
UE che non ha accordi per lo scambio di informazioni con l’Italia (c.d. “paradisi fiscali”).
Una ulteriore variabile è costituita, per i casi in cui i soci siano persone fisiche o enti non
commerciali, dalla natura “qualificata” o “non qualificata” della partecipazione. Le partecipazioni si
intendono qualificate quando sono superiori al 2% dei diritti di voto (o, in alternativa, al 5% del
capitale o o del patrimonio) nel caso di società quotate in borsa, oppure quando sono superiori al
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20% dei voti, o al 25% del capitale o patrimonio, per le altre partecipazioni. Quanto sopra detto
vale per le partecipazioni “qualificate”. Per le partecipazioni “non qualificate” (riferibili, in
sostanza, ai piccoli investimenti da parte dei risparmiatori), è previsto un regime di tassazione alla
fonte a titolo d’imposta nella misura del 12,5% dell’ammontare del dividendo, che sale al 27,5%
per i soci residenti in un “paradiso fiscale”.
La logica del nuovo sistema ha anche comportato l’introduzione di un regime di parziale
esenzione (rectius, esclusione dalla base imponibile) delle plusvalenze realizzate dai soci mediante
la cessione di partecipazioni della società (art. 87 TUIR). Va segnalato, peraltro, che la disciplina
delle plusvalenze da cessione di partecipazioni ha subito nel tempo una certa evoluzione in termini
quantitativi: inizialmente, infatti, si consentiva l’esclusione totale dei capital gains dalla base
imponibile della società percipiente mentre in seguito, per effetto di successivi interventi
correttivi, la percentuale di esenzione si è ridotta prima al 95% per le cessioni effettuate tra il 4
ottobre e il 2 dicembre 2005, diminuendo ulteriormente al 91% per le cessioni effettuate a
decorrere dal 3 dicembre 2005, fino ad arrivare ad una percentuale dell’84% per le operazioni
effettuate a partire dal 1° gennaio 2007, per ritornare nuovamente al 95% per effetto delle
modifiche apportate dalla Finanziaria per il 2008. Quest’ultima misura, ad oggi ancora in vigore, è
senz’altro la più coerente con il quadro complessivo del nuovo sistema di participation exemption
attestandosi sulla medesima percentuale adottata per i dividendi, a sua volta correlata ad una
forfetizzazione della indeducibilità dei costi diretti.
Va detto, però, che lo speciale regime di esenzione spetta soltanto a condizione che
ricorrano i seguenti requisiti:
a) ininterrotto possesso della partecipazione oggetto di cessione dal primo giorno del
dodicesimo mese precedente quello dell’avvenuta cessione;
b) classificazione della partecipazione ceduta nella categoria delle immobilizzazioni
finanziarie nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso;
c) residenza fiscale della società partecipata in Italia o uno Stato o territorio diverso da
quelli considerati “paradisi fiscali” (art. 167, comma 4 del TUIR), fatta salva la possibilità
di dimostrazione in un procedimento di interpello di cui all’art. 167, comma 5, lett. b)
del TUIR, che dalla partecipazione non sia stato conseguito l’effetto di localizzare i
redditi in territori a fiscalità privilegiata;
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d) esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale (come definita
dall’art. 55 del TUIR).
La legge, pertanto, pone a presupposto dell’esonero dall’imposizione la presenza di una
certa stabilità nel possesso della partecipazione e l’esercizio da parte della partecipata di
un’attività economica effettiva. La parziale esenzione delle plusvalenze da cessione trova, dunque,
la propria ratio nell’assunto che il capital gain incorpori il reddito prodotto dalla partecipata e già
assoggettato ad IRES in capo a quest’ultima. Il regime è, perciò, giustificato dalla circostanza che la
loro tassazione duplicherebbe la tassazione dei redditi della società partecipata, di talché la misura
non ha un carattere agevolativo ma è intesa ad impedire una doppia imposizione economica.
L’introduzione nell’ordinamento italiano del regime della participation exemption risponde
alla volontà esplicita di adottare un “modello fiscale omogeneo a quelli più efficienti in essere nei
Paesi membri dell’Unione europea” (così la relazione del Governo sul disegno di legge delega n.
80/2003). In effetti, l’istituto in parola è stato introdotto negli ordinamenti fiscali di molti Paesi
europei, quali la Germania, la Spagna (limitatamente alle plusvalenze su partecipazioni estere), il
Regno Unito, l’Olanda, il Lussemburgo, il Belgio, la Danimarca, l’Austria, la Svezia, la Svizzera e la
Francia (da sottolineare, tuttavia, che tale istituto non è presente ini molti Paesi economicamente
avanzati, quali Stati Uniti, Canada, Australia, Giappone). Non introdurlo in Italia avrebbe favorito
prassi già alquanto diffuse di delocalizzazione delle sedi delle c.d. società holding che, in ragione
del loro oggetto sociale (il possesso e lo scambio di partecipazioni), sono i soggetti maggiormente
interessati ad usufruirne.
3.b.4. La tassazione dei gruppi di società
Nell’attuale sistema economico il modello organizzativo del gruppo di imprese è sempre
più diffuso. La disciplina dell’imposizione sul reddito delle società appartenenti ad uno stesso
gruppo ha sempre oscillato tra due contrapposti criteri ispiratori: da un lato quello fino ad oggi
dominante e tuttora applicabile in via ordinaria, basato sulla frammentazione del gruppo nelle
posizioni giuridiche di ciascuna società che vi appartiene; dall’altro quello basato sull’attribuzione
di un valore giuridico all’unità economica dell’impresa di gruppo, che soltanto in parte si riflette
nella normativa sul consolidato fiscale introdotta dal D.Lgs. n. 344 del 2003.
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In teoria, la rilevanza tributaria del gruppo di imprese potrebbe essere disciplinata su vari livelli di
crescente intensità. Il riconoscimento fiscale del gruppo potrebbe avvenire, infatti, nella fase di
liquidazione del tributo, nella fase di determinazione della base imponibile o attraverso
l’attribuzione di rilievo fiscale al bilancio consolidato civilistico.
a) Riconoscimento del gruppo nella fase di liquidazione del tributo
Si tratta dell’ipotesi più elementare poiché opera sulla fase terminale del procedimento di
applicazione del tributo: quello della liquidazione e del versamento. È da tempo presente in Italia
nel regime della c.d. “IVA di gruppo” di cui all’art. 73, comma 3, del D.P.R. n. 633/72, che prevede
la possibilità della società controllante di presentare le dichiarazioni annuali delle sue controllate e
di provvedere al versamento cumulato delle imposte dovute, al netto delle eccedenze a credito,
maturate da tutte le società partecipanti al gruppo. Analogo regime è stato introdotto nella
materia delle imposte dirette con l’art. 3, comma 94, lettera b) della Legge 28 dicembre 1995 n.
549, che ha inserito nel D.P.R. n. 602/73, con effetto dal 1° gennaio 1996, un nuovo art. 43-‐ter
portante una specifica disciplina per la cessione delle eccedenze tra società appartenenti ad uno
stesso gruppo.
b) Riconoscimento del gruppo in fase di determinazione della base imponibile
Questo sistema, pur salvaguardando l’identità soggettiva di ciascuna delle società aderenti al
gruppo, consente a queste ultime di compensare tra loro i redditi conseguiti e le perdite sofferte e
di trasferirsi valori patrimoniali attivi (beni strumentali e merci) in regime di neutralità fiscale.
Diversamente dal caso precedente, pertanto, il risultato fiscale della gestione del gruppo di società
assume carattere unitario ed è possibile non soltanto operare la compensazione tra i debiti ed i
crediti d’imposta di ciascuna società del gruppo, ma anche di determinare una base imponibile
netta globale costituita dalla sommatoria di utili e perdite riducendo, per effetto della deduzione
immediata delle perdite da parte delle società in utile, l’ammontare del tributo che si renderebbe
dovuto in caso di tassazione frazionata dei redditi prodotti dalle singole società.
c) Riconoscimento del gruppo in fase di formazione del risultato di esercizio
In questa ultima ipotesi, si tratterebbe di riconoscere al gruppo la natura di “super-‐soggetto”
attribuendo valenza fiscale al bilancio consolidato. Soltanto adottando questa soluzione si
potrebbe superare in modo completo il diaframma giuridico esistente fra le varie società del
gruppo riconoscendo (anche) sul piano fiscale l’esistenza di un’entità economica unitaria di più
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vaste dimensioni. In effetti, come da più parti denunciato, nella disciplina civilistica prima ancora
che in quella fiscale, si registra più di una sfasatura tra realtà economica e forma giuridica:
economicamente l'impresa è unica, giuridicamente si è in presenza di tanti soggetti quante sono le
società che fanno parte del gruppo.
Tra i diversi sistemi di integrazione teoricamente utilizzabili la L. 7 aprile 2003 n. 80 (Legge
delega per la riforma del sistema fiscale statale) ha optato per la soluzione intermedia descritta
sub-‐b), che, pur avendo il pregio di non imporre alle imprese del gruppo un aggravio di oneri
contabili, lascia totalmente aperta la complessa problematica dei prezzi di trasferimento nelle
operazioni intercorse tra le società del gruppo. In effetti, soltanto l’adozione del modello sub-‐c)
può impedire in radice il verificarsi di comportamenti elusivi connessi all’emissione di fatture in
parte o in tutto “artificiali” comportando la sterilizzazione, già in sede di redazione del bilancio
consolidato, del risultato imponibile globale dagli effetti delle operazioni interne al gruppo.
Ne discende che nell’attuale sistema, che mantiene la previsione in via ordinaria della soggettività
tributaria separata di ciascuna società appartenente al gruppo, le operazioni effettuate tra società
consociate restano soggette ad imposta (e deducibili) secondo le normali regole del TUIR. Ed
anche quando viene consentita in via di opzione – a prescindere dalla persistente frammentazione
giuridica dei singoli soggetti appartenenti alla fiscal unit – la costituzione di un’unica realtà
fiscalmente rilevante non viene prevista come regola generale la completa irrilevanza fiscale
(intassabilità/indeducibilità) delle operazioni intragruppo.
D’altra parte, la soluzione adottata è coerente con la disciplina civilistica delle società, ove manca
un insieme sistematico ed organico di norme che definiscano in modo unitario dal punto di vista
giuridico il fenomeno economico-‐organizzativo del gruppo di società e non è dato individuare una
nozione generale di gruppo che possa consentire di desumerne l’autonomia soggettiva. Anzi, ogni
volta in cui l’ordinamento manifesta un interesse per i legami societari si limita ad operare richiami
ai concetti di controllo e di collegamento, disciplinati dall’art. 2359 del codice civile.
L’assenza di una definizione civilistica del gruppo come autonomo centro di imputazione di
situazioni giuridiche soggettive si ripercuote anche nella materia tributaria, in cui manca il
riconoscimento di una autonoma capacità contributiva di tale modello economico-‐organizzativo.
La legge di delega per la riforma del sistema fiscale statale (l. 80/03), anche nell’ottica di
avvicinarsi ai sistemi fiscali di altri Stati europei che già consentivano una tassazione consolidata
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del reddito dei gruppi, ha introdotto una serie di istituti applicabili su opzione in precedenza
assenti nel sistema fiscale italiano, quali la trasparenza fiscale (artt. 115-‐116 del TUIR), il
consolidato nazionale (artt. 117-‐129 del TUIR) e il consolidato mondiale (artt. 130-‐142 del TUIR).
L’introduzione di questi strumenti è divenuta necessaria a seguito del passaggio dal sistema
del credito d’imposta al sistema dell’esenzione, che ha comportato la doppia imposizione degli
utili societari. Inoltre, la riforma fiscale ha reso impossibile la compensazione delle perdite o degli
utili della partecipata con gli utili o le perdite della partecipante attraverso la svalutazione
contabile della partecipazione o la distribuzione di dividendi con conseguente realizzo del credito
d’imposta.
a) La trasparenza fiscale
Gli artt. 115 e 116 del TUIR attribuiscono anche alle società di capitali la possibilità di
ricorrere alla tassazione per trasparenza (c.d. consortium relief). Optando per tale regime, le
società di capitali partecipate esclusivamente da altre società di capitali possono imputare il
reddito imponibile complessivo prodotto da ciascun socio in proporzione alla quota di
partecipazione agli utili e indipendentemente dalla loro effettiva percezione.
Il regime di trasparenza consente la compensazione tra gli utili e le perdite e si applica nel
caso in cui la società partecipante possiede una percentuale di diritto di voto esercitabile
nell’assemblea e di partecipazione agli utili non inferiore al 10 per cento e non superiore al 50 per
cento (art. 115, comma 1 TUIR), in cui non è opzionabile il consolidato fiscale. Analogo regime
opzionale è previsto per le società a responsabilità limitata a ristretta base proprietaria,
partecipate da persone fisiche, ex art. 116 del TUIR.
Il regime della tassazione per trasparenza non si applica qualora, pur ricorrendo i requisiti
previsti dalla normativa di riferimento, la società partecipata abbia optato per il consolidato
nazionale o mondiale, oppure abbia emesso strumenti finanziari con diritti patrimoniali o
amministrativi ad esclusione del diritto di voto o sia assoggettata a procedure concorsuali.
b) Il consolidato fiscale
Il sistema consente di compensare, nell’ambito di un gruppo di imprese, i redditi imponibili,
sia positivi che negativi, delle diverse imprese inserite nell’area di consolidamento. Il regime è
opzionale e la sua applicazione viene subordinata alla sussistenza, tra la società partecipante e la
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società partecipata, di un legame qualificabile come “controllo di diritto” (possesso da parte della
controllante di più del 50% del capitale sociale e del diritto agli utili di bilancio della società
partecipata (art. 120 del TUIR).
La disciplina nasce con il dichiarato scopo di porsi come un “naturale correttivo
dell’indeducibilità delle minusvalenze su partecipazioni”, come “uno strumento idoneo a dare
soluzione al problema dell’accumulo dei crediti d’imposta derivanti dalle dichiarazioni dei redditi”,
e comunque un modo “di superare le complessità fiscali che derivano da operazioni (fusioni,
scissioni, ecc.) poste in essere dai ‘gruppi’ per compensare i risultati positivi e negativi delle diverse
società che compongono il gruppo stesso” (brani tratti dalla Relazione governativa al D.Lgs. n.
344/2003 di attuazione della riforma fiscale). Tale esplicito richiamo contribuisce ad identificare,
nell’ambito di una lettura sistematica, i nessi inscindibili tra le norme che regolamentano la nuova
base imponibile consolidata, sia nazionale che mondiale, e gli altri istituti di nuova introduzione.
Il consolidato nazionale consente alle società che detengano una partecipazione di
controllo, diretto o indiretto, la determinazione di una base imponibile unica costituita dalla
somma algebrica degli utili e delle perdite realizzati dalle società controllate.
Il modello di consolidamento adottato dal legislatore italiano presenta analogie con quello
francese, sia in quanto prevede che sia la capogruppo a presentare una dichiarazione nella quale
risulti la somma algebrica opportunamente rettificata degli imponibili di tutte le società che
aderiscono al consolidato, contrapponendosi a quei modelli di consolidamento meramente
finanziario dei debiti e crediti d’imposta in cui, come nel sistema tedesco dell’Organschaft, sia
previsto che siano le singole partecipanti al gruppo a presentare la propria dichiarazione
reddituale, con possibilità di effettuare compensazioni infragruppo delle eventuali perdite, sia in
relazione alla previsione, come detto, di un consolidato mondiale, analogamente presente nel
modello d’oltralpe.
Come detto, accanto al consolidato nazionale, in Italia è stata anche introdotta l’ulteriore
facoltà del consolidato definito mondiale, attraverso la possibilità per le società residenti in Italia
di includere nel consolidato, nell’ambito dei limiti previsti, anche i redditi delle controllate non
residenti. Il consolidato mondiale è un istituto che recepisce un modello di funzionamento analogo
a quello esistente, tra i Paesi dell’area europea, in Francia, e che consiste in un meccanismo di
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aggregazione della base imponibile dei gruppi societari cui partecipano anche controllate non
residenti.
3.b.5. L’imposizione sui redditi degli enti diversi dalle società
Questa categoria di enti assume carattere residuale nella individuazione dei soggetti passivi
dell'IRPEG. Il trattamento tributario riservato a questi soggetti viene fatto dipendere dalla
prevalenza o meno delle attività di natura "commerciale" esercitate da tali soggetti il trattamento
tributario cui essi devono essere sottoposti.
L'art. 73 del TUIR n. 917/86 distingue tra gli enti pubblici e privati diversi dalle società quelli
che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali (lettera b) da quelli
che non hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di tale attività (lettera c).
Per gli enti di cui alla lettera b), il reddito imponibile è determinato sulla base del risultato
netto emergente dal bilancio o rendiconto, con le variazioni in aumento e in diminuzione previste
dalle norme fiscali; per questa categoria di soggetti, sostanzialmente assimilata alle società
commerciali di capitali, è pertanto applicabile il c.d. principio di "dipendenza" o di "derivazione"
della base imponibile dal bilancio, sancito dall'art. 2 n. 16 della Legge Delega 9.10.1971 n. 825.
Diversamente, per gli enti che non hanno come oggetto esclusivo o principale l'esercizio di
tali attività, indicati all'art. 73, comma 1, lett. c), del TUIR, il reddito imponibile è determinato in
modo analogo a quanto previsto per le persone fisiche e, cioè, sulla base della sommatoria dei
redditi appartenenti alle singole categorie espressamente previste per la tassazione di tali soggetti,
con l’esclusione di quelle riferite all’attività di lavoro, autonomo e dipendente in quanto non
realizzabile da soggetti diversi dalle persone fisiche (redditi fondiari, di capitale, di impresa e
diversi, esclusi per il motivo anzidetto i redditi di lavoro occasionale).
Per oggetto esclusivo o principale si intende “l’attività essenziale per realizzare
direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto " (art. 73,
comma 4). Con la predetta terminologia, il legislatore ha inteso riferirsi all’aspetto oggettivo
dell’esercizio di un’impresa, escludendo pertanto ogni collegamento con il fine (lucrativo o non
lucrativo) degli enti in questione. E, anzi, attraverso la siffatta formulazione la norma consente di
includere tra gli enti “commerciali” anche quelli che, pur essendo totalmente privi del fine di lucro,
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di fatto esercitano in via esclusiva o principale un’attività avente le oggettive caratteristiche
dell’impresa. Questa soluzione appare rispettosa del principio costituzionale di uguaglianza, non
distinguendo ai fini dell’imposizione le finalità per le quali una certa attività viene svolta ed
ancorando il presupposto dell’imposizione alle sue oggettive modalità di svolgimento.
3.c) L’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP)
3.c.1. Caratteristiche generali del tributo
L’IRAP trova il suo fondamento legislativo nell’art. 3, commi 143, 144 e 147 della legge 23
dicembre 1996 n. 662 (modificata dall’art. 6 della legge 23 dicembre 1998 n. 489), portante la
delega al Governo ad emanare le norme contenenti la disciplina del tributo. Il Governo ha istituito
l’imposta a decorrere dal 1° gennaio 1998 con il decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, più
volte modificato e tuttora in vigore.
Il nuovo tributo è informato essenzialmente a due principi ispiratori: in primo luogo il federalismo
fiscale, verso il quale l’IRAP ha mosso un passo significativo (in quanto il gettito dell’imposta è
destinato alle Regioni e alle province autonome, che possono intervenire legislativamente sulla
disciplina del tributo per variarne le aliquote e le modalità di applicazione); in secondo luogo la
semplificazione e la razionalizzazione del sistema fiscale, attuata attraverso la soppressione di un
ampio numero di prelievi tributari e contributivi con caratteristiche molto diverse tra loro,
sostituiti dalla nuova imposta nonché da un’addizionale dell’imposta sui redditi delle persone
fisiche.
L’effetto semplificatore dell’IRAP è stato evidente. In effetti, con la sua istituzione sono stati
soppressi, tra l’altro, i contributi per il servizio sanitario nazionale di cui all’art. 31 della legge 28
febbraio 1986, n. 41 (la cosiddetta tassa sulla salute), il contributo di cui all’articolo 1, terzo
comma, della legge 31 dicembre 1961, n. 1443 (dovuto dai lavoratori dipendenti per
l’assicurazione obbligatoria contro le malattie) e quello di cui all’art. 20, ultimo comma, della legge
12 agosto 1962, n. 1338 (dovuto dagli stessi soggetti per l’assicurazione obbligatoria per
l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti) nonché il contributo per l’assicurazione obbligatoria contro la
tubercolosi di cui all’art. 27 della legge 9 marzo 1989, n. 88 (applicato, ugualmente ai precedenti,
mediante ritenuta alla fonte sulle retribuzioni.
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Inoltre, le norme istitutive dell’IRAP hanno soppresso alcuni tributi gravanti sulle imprese, alle
quali è stato addossato il nuovo tributo. Rientrano in questi gruppo: l’imposta locale sui redditi, di
cui al titolo III del testo unico imposte sul reddito approvato con il dpr. 22 dicembre 1986, n.917;
l’imposta comunale per l’esercizio di imprese e di arti e professioni (ICIAP), di cui al titolo I del
decreto legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 1989, n. 144;
la tassa sulla concessione governativa per l’attribuzione del numero di partita IVA, di cui
all’articolo 24 della tariffa allegata al dpr. 26 ottobre 1972, n. 641; l’imposta sul patrimonio netto
delle imprese, istituita con decreto legge 30 settembre 1992, n. 394, convertito, con modifiche,
dalla legge 26 novembre 1992, n. 461.
In questo modo il costo per l’assistenza sanitaria pubblica, gravante in precedenza sui soggetti che
effettivamente ne usufruivano, è stato trasferito sugli operatori economici ed il suo gettito è stato
attribuito alle Regioni, cui compete l’onere di approntare il servizio sanitario pubblico sul
territorio.
La riforma doveva garantire, comunque, un’invarianza del gettito complessivo, assicurata anche
dalla contestuale istituzione delle addizionali sull’IRPEF, quella a favore delle regioni dal 1998 e
quelle a favore di province e comuni dal 1999, nonché dalle maggiori entrate per IRPEF e IRPEG
riconducibili alla indeducibilità dell’IRAP dalla base imponibile di queste imposte, mentre gran
parte delle imposte e dei contributi soppressi erano deducibili.
Quanto alle sue caratteristiche “federali”, si può dire senz’altro che l’istituzione dell’imposta
regionale sulle attività produttive ha costituito la più significativa fase della riforma del sistema
finanziario regionale che è stata condotta nella vigenza dell’originario testo della costituzione.
Rinviando alle più ampie considerazioni che saranno svolte nell’ultimo paragrafo di questo
capitolo sul sistema dei tributi regionali e locali, va constatato che l’IRAP costituisce la maggiore
entrata tributaria delle regioni e il suo decreto istitutivo concede per la prima volta alle medesime
la concreta possibilità di intervenire sul procedimento di applicazione dell’imposta. Nella disciplina
dell’IRAP, infatti, il potere di accertamento compete in prima battuta all’amministrazione
regionale e l’amministrazione statale coopera con la regione secondo le norme e con le facoltà che
le vengono attribuite con legge regionale.
Ulteriore fase di questa evoluzione è costituita dall’attuazione delle deleghe previste dall’art.10
della legge 13 maggio 1999 n. 133, mediante il D.Lgs. 18 Febbraio 2000 n. 56, intitolato
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“Disposizioni in materia di federalismo fiscale”. Con questo intervento normativo la partecipazione
delle regioni al gettito Iva è divenuta pari al 25,7 % del gettito complessivo realizzato nel
penultimo anno precedente, è stata aumentata l’addizionale regionale IRPEF e la
compartecipazione regionale all’accisa sulle benzine è passata da 242 a 250 lire al litro.
Con un disegno di legge delega presentato all’inizio del 2002, il Governo ha proposto una vasta
riforma del sistema tributario. All’art. 8 è prevista anche la graduale soppressione dell’IRAP a
partire dal costo del lavoro. Il processo è stato avviato ma, non ostante il lungo tempo trascorso, è
alquanto improbabile che possa giungere a compimento in tempi brevi. La soppressione dell’IRAP
creerebbe seri problemi non solo per il finanziamento delle regioni ma anche per i conti pubblici in
generale. La loro autonomia tributaria sarebbe fortemente limitata e per far fronte alle spese di
competenza regionale si dovrebbe introdurre nuovi tributi o ricorrere a trasferimenti statali.
Peraltro, alla luce dei nuovi principi costituzionali il ricorso ai trasferimenti statali non è illimitato e
le regioni dovrebbero essere poste in condizione di acquisire le risorse necessarie a sostenere gli
oneri derivanti dalle funzioni alle medesime attribuite avvalendosi in prevalenza di tributi propri.
Sul piano strettamente giuridico, va poi rilevato che il tributo in questione ha ottenuto, con
pronunce che hanno lasciato irrisolti non pochi dubbi, il giudizio favorevole sulle diverse questioni
di legittimità costituzionale e comunitaria sollevate dai contribuenti. In verità, l’IRAP, per le
particolari caratteristiche del suo presupposto, si colloca all’interno del sistema fiscale nazionale
ed europeo in una posizione alquanto ambigua. Da un lato, infatti, la sua determinazione si basa
sua criteri mutuati da quelli che governano la redazione del bilancio, al pari (anzi, dopo alcune
recenti modifiche ancora di più) di quanto non avvenga nelle imposte sul reddito. Dall’altro, la sua
base imponibile si avvicina, fino quasi a sovrapporsi, all’IVA e, sebbene sia stata dichiarata
compatibile con il sistema europeo di imposta sulla cifra di affari, presenta notevoli similitudini
con essa (sul punto si veda quanto sarà detto al n. 3.c.4.).
3.c.2. Il presupposto del tributo e la sua giustificazione costituzionale
L’art. 2 della L.446/97 individua il presupposto dell’IRAP nello svolgimento abituale di un’attività
diretta alla produzione o allo scambio di beni oppure diretta alla prestazione di servizi. Inoltre,
l’attività di una serie di soggetti (società, enti pubblici o privati diversi dalle società, commerciali o
non commerciali, organi e amministrazione dello Stato) costituisce comunque presupposto
dell’IRAP. La norma non prende in considerazione, come avviene per le imposte sui redditi, il
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possesso di redditi, ovvero, come nell’IVA, la cessione di beni, la prestazione di servizi o le
importazioni, ma dell’esercizio in sè di un’attività produttiva autonomamente organizzata. La
relazione governativa alla Commissione parlamentare per il parere sullo schema di decreto
legislativo si spinge a precisare che “dal punto di vista giuridico costituzionale, presupposto
dell’IRAP sarebbe, più puntualmente, l’esercizio di attività organizzate, che si esprimono in
sequenze di atti e comportamenti coordinati e programmati al conseguimento di fini unitari
stabilmente perseguiti”.
L’organizzazione si risolve, per il suo titolare, in disponibilità di beni e in prestazioni
economicamente valutabili, corrispondenti alla potenzialità produttiva dell’organizzazione stessa.
Sotto questo profilo, l’esercizio di un’attività economica organizzata può essere assunto a indice di
capacità contributiva, distinto dal reddito, dal patrimonio, dal consumo e dalle altre manifestazioni
di potenzialità economica già assunte a fondamento dei tributi vigenti.
Già prima dell’entrata in vigore delle norme istitutive del nuovo tributo, si è sviluppato un vivace
dibattito sulla sua natura giuridica, incentrato sull’indagine relativa agli elementi oggettivi e e
soggettivi del presupposto, che ha riguardato in special modo i profili di legittimità costituzionale. I
contrasti più evidenti si appuntavano sugli effetti economici dell’IRAP e, segnatamente, sulla sua
neutralità nell'impatto sulla tassazione del lavoro e del capitale.
Il principale fondamento dell’IRAP è stato riscontrato nel fatto che l’imposta colpisce un'entità
reale (diversa dal consumo, dal patrimonio e dal reddito) che si identifica con la potenzialità
economica e produttiva espressa dal coordinamento, organizzazione e disponibilità dei fattori
della produzione. Si tratterebbe, come avviene per altri tributi sulle attività economiche, di una
capacità contributiva autonoma, reale, basata sulla capacità produttiva connessa alla
combinazione dei fattori della produzione. La sola capacità di combinare i fattori della produzione
e di retribuirli con la ricchezza prodotta sarebbe, di per sé, espressione di potenzialità economica
e, quindi, di capacità contributiva. Il parametro al quale commisurare il prelievo non è pertanto
rappresentato dalla disponibilità di un reddito o di un patrimonio o dal consumo di beni, bensì dal
valore della produzione netta, ottenuto attraverso l'impiego dei fattori produttivi, i cui titolari
saranno successivamente retribuiti dalla ripartizione della ricchezza prodotta sotto forma di
interessi per i finanziatori, di salari e stipendi per i lavoratori dipendenti e di profitti per gli
imprenditori. Si tratta, per come è descritta, di un'interpretazione in chiave evolutiva del
tradizionale concetto di capacità contributiva, in quanto assume a presupposto del tributo non
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una persona bensì un'entità oggettiva (rappresentata dal valore della produzione netta) che, per di
più, non rientra tra le tradizionali manifestazioni della ricchezza (patrimonio, reddito, consumo,
trasferimenti).
Poiché oggetto della tassazione è la ricchezza prodotta (cioè il valore aggiunto che scaturisce dalla
differenza tra i ricavi prodotti ed i costi sostenuti per realizzare i beni ed i servizi che formano
oggetto dell’attività dell'impresa), non è corretto affermare che l'IRAP colpisce i salari e gli
interessi in quanto tali, ma incide sui medesimi soltanto nella misura in cui trovano capienza nel
suddetto "valore della produzione netta". In quest'ottica, l'impresa è chiamata a corrispondere il
tributo perché è presso di lei che si forma la ricchezza (il valore aggiunto alla produzione),
indipendentemente dal fatto che tale ricchezza sia destinata a remunerare l'imprenditore, i
lavoratori o i terzi finanziatori.
Con sentenza n. 156 del 21 maggio 2001 la Corte costituzionale, respingendo le diverse eccezioni
di illegittimità formulate dai contribuenti, ha fornito una propria chiave di lettura dell'impianto
normativo dell’IRAP. Tra l’altro, i Supremi Giudici hanno ritenuto irrilevante, ai fini della
valutazione della conformità dell'imposta al principio di capacità contributiva, la mancata
previsione del diritto di rivalsa da parte del soggetto passivo nei confronti di coloro cui (pure) il
valore aggiunto prodotto è, almeno pro-‐quota, riferibile (e cioè i lavoratori ed i finanziatori). In
effetti, come si verifica per qualsiasi costo (compresi quelli di carattere fiscale) gravante sulla
produzione, l'onere economico dell'imposta potrà essere trasferito sul prezzo dei beni o servizi
prodotti, compatibilmente con le leggi del mercato.
La Corte ha quindi sottolineato come la valutazione della legittimità costituzionale dell'IRAP, ai fini
della individuazione del soggetto passivo d'imposta, debba tener conto anche dei meccanismi di
traslazione economica del tributo. In questo contesto, osserva la Corte, qualunque fenomeno che
comporti il trasferimento dell'onere del tributo dal contribuente ad altri soggetti (sia esso previsto
o imposto dalla legge, come la rivalsa, ovvero realizzato attraverso manovre sui prezzi pattuiti per
contratto) contribuisce ad individuare il soggetto passivo ed il diverso modo in cui il risultato viene
raggiunto non assume alcun rilievo ai fini del giudizio di legittimità costituzionale della norma
impositiva. La riflessione della Consulta si basa su una precisa scelta: o la capacità contributiva (di
cui il valore aggiunto prodotto è una manifestazione) è imputabile al solo organizzatore
dell'attività (in tal caso la norma sarebbe legittima); ovvero è imputabile, in parte, anche a soggetti
terzi rispetto all'organizzazione (in specie, finanziatori e lavoratori dipendenti) e allora sarebbe
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incostituzionale, a dispetto di (e a prescindere da) qualsiasi meccanismo traslativo dell'imposta si
voglia, si possa o si debba applicare nella disciplina dell’IRAP. La Corte ha optato per la prima
soluzione dichiarando così l’infondatezza delle eccezioni di illegittimità costituzionale basate sulla
seconda ipotesi.
Nella stessa sentenza la Corte ha anche considerato l’elemento dell’organizzazione sotto il profilo
quantitativo, giungendo ad escludere la debenza dell’imposta sulle attività che, pur rientrando tra
quelle soggette, appaiono prive della “autonoma organizzazione” di capitale (mezzi strumentali,
finanziamenti, ecc.) e di significativi apporti lavorativi altrui (dipendenti e/o collaboratori non
occasionali). Si tratta di casi in cui il contribuente non è in grado di produrre un reddito senza
prestare direttamente la sua attività, in virtù della personalità dell’incarico e dell’importanza
decisiva delle proprie qualità professionali.
3.c.3. Soggetti passivi e base imponibile
I soggetti passivi dell’IRAP sono “coloro che esercitano una o più attività di cui all’art. 2” (art. 3,
d.lgs. 446/1997). Come ogni imposta reale, il fatto imponibile individua il soggetto passivo: data
un’attività produttiva autonomamente gestita con carattere di abitualità, il soggetto passivo
dell’IRAP non può che essere il titolare di ognuna delle dette attività.
Di conseguenza, sono tenuti ad applicare il tributo non soltanto coloro che esercitano un’impresa
commerciale ma anche i lavoratori autonomi e gli enti, pubblici e privati, che erogano servizi
nell’ambito della loro attività istituzionale, operando al difuori dell’esercizio di un’impresa.
Nella disciplina dell’IRAP i soggetti passivi vengono distinti in varie categorie soltanto al fine di
attribuire a ciascuna di esse le modalità di determinazione della base imponibile ad esse più
appropriate. Il valore della produzione netta si determina secondo le disposizioni previste dagli
articoli da 4 a 13 del D.Lgs. 446/1997 che prevedono diverse modalità di calcolo per le diverse
categorie di soggetti passivi.
In questa prospettiva possono essere individuati i seguenti gruppi di soggetti:
a) società di capitali, cooperative ed enti pubblici e privati considerati commerciali ai fini
fiscali; società di persone e soggetti assimilati che producono redditi di impresa; imprese
individuali, in contabilità ordinaria o semplificata;
b) imprese bancarie, enti e società finanziarie; imprese di assicurazione:
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c) professionisti ed artisti, anche in forma associata o di società semplice;
d) produttori agricoli in regime speciale;
e) enti privati non commerciali e enti pubblici non commerciali ed organi dello Stato;
f) gruppi europei di interesse economico.
Il valore della produzione netta è riconducibile in linea di massima alla somma della
remunerazione annuale del capitale proprio per la parte derivante dalla gestione ordinaria, del
capitale ottenuto da finanziatori esterni e del lavoro prestato da terzi ai fini della produzione dei
beni o dei servizi. Tuttavia, in ossequio alle esigenze derivanti dalla differente natura dei soggetti
passivi e dal diverso tipo di produzione dagli stessi, la base imponibile è determinata con due
criteri principali:
A) Criterio contabile:
Interessa tutti i soggetti che esercitano attività di impresa commerciale, di impresa agricola o
attività professionali o artistiche.
Per questi soggetti il valore della produzione netta imponibile è pari alla differenza tra il valore
degli elementi positivi e i costi ammessi in deduzione. Dai costi deducibili sono esclusi quelli
sostenuti per il personale dipendente e assimilati, nonché le perdite su crediti e gli interessi
passivi la cui deducibilità per le imprese bancarie e finanziarie è soggetta a particolari
disposizioni.
B) Criterio retributivo:
Deve essere applicato da parte degli enti non commerciali, pubblici e privati e consiste
nell’assoggettamento ad IRAP della somma delle retribuzioni e degli altri compensi corrisposti
ai dipendenti ed ai collaboratori ad essi assimilati, senza alcuna deduzione. Come è evidente, il
legislatore ha individuato la base imponibile degli enti appartenenti a questa categoria
considerando che, diversamente da quanto avviene per le imprese, il valore aggiunto prodotto
dai medesimi è pari all’ammontare delle retribuzioni erogate al proprio personale.
Gli enti non commerciali privati determinano con il metodo retributivo l’imponibile delle
attività istituzionali mentre devono calcolare l’IRAP dovuta sulle attività commerciali che
esercitano in via collaterale, strumentale o accessoria utilizzando il metodo contabile.
Gli enti pubblici non commerciali (compresi lo Stato, le regioni, le province ed i Comuni)
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sono sempre tassati con il criterio retributivo, a meno che non optino per il criterio contabile
per le sole attività commerciali eventualmente esercitate.
In entrambi i casi le attività commerciali sono costituite da quelle considerate tali ai fini delle
imposte sui redditi; per i soli enti pubblici esenti da IRES si deve fare riferimento alle attività
commerciali ai fini dell’IVA.
Per la determinazione del valore della produzione netta, sia nel criterio contabile che in quello
retributivo, devono essere osservate alcune disposizioni applicabili alla generalità dei soggetti
passivi, indipendentemente dal criterio utilizzato per il calcolo del valore della produzione netta.
Le disposizioni comuni fanno riferimento ad alcuni elementi contabili che devono entrare nel
calcolo della base imponibile IRAP, indipendentemente dalla circostanza che siano deducibili o
meno nella determinazione del reddito di impresa, di lavoro autonomo professionale o artistico, di
impresa agricola. Tali elementi sono considerati costi indeducibili per chi applica il criterio
contabile e componenti della base imponibile per chi applica il criterio retributivo.
L’IRAP è dovuta autonomamente per ciascun periodo di imposta, determinato secondo i criteri
stabiliti ai fini delle imposte sui redditi. Per gli enti pubblici esclusi dall’applicazione dell’IRES il
periodo di imposta corrisponde all’anno solare.
Per il suo carattere locale, l’IRAP colpisce le attività produttive svolte nel territorio delle regioni o
province autonome. Il versamento deve essere effettuato, quindi, alle diverse regioni o province
autonome in cui si svolge l’attività del soggetto passivo. Nel caso di aziende aventi sedi in più
regioni, il valore della produzione è imputato a ciascuna regione in proporzione al numero dei
dipendenti presenti in ciascuna di esse. Non è assoggettato ad IRAP il valore della produzione
netta realizzato con stabilimenti, cantieri, uffici o basi fisse situate all’estero.
Da qualche tempo l’indeducibilità del costo del lavoro dipendente dalla base imponibile IRAP è
stata fatta oggetto di forti critiche, non solo da parte di coloro che si sono dichiarati favorevoli
all’integrale abolizione dell’IRAP. Il tema è stato analizzato nel quadro dei problemi legati al
cosiddetto “cuneo fiscale”, consistente nell’insieme degli oneri fiscali e contributivi che si
aggiungono all’importo corrisposto al dipendente aumentando il costo sostenuto dal datore di
lavoro.
Il legislatore, nell’ambito di una più ampia manovra diretta a sviluppare la competitività delle
imprese, ha reso deducibile dalla base imponibile IRAP una parte di tali oneri con la legge 23
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dicembre 2006, n. 296 (Finanziaria 2007) che modifica alcune disposizioni contenute nel D.Lgs. n.
446/97.
In concreto, si è proceduto innanzitutto a introdurre nell’articolo 11 del detto decreto nuove
deduzioni volte a ridurre la base imponibile IRAP in presenza di personale dipendente impiegato a
tempo indeterminato. Nella disciplina dell’IRAP vige un principio di indeducibilità generale del
costo del lavoro valevole sia nei confronti dei soggetti (imprese ed esercenti arti e professioni) che
determinano analiticamente la base imponibile -‐ sia nei confronti dei soggetti (enti non
commerciali e pubbliche amministrazioni) che, ai fini del calcolo dell’imposta, fanno ricorso al
metodo retributivo, costituendo le retribuzioni e gli altri compensi assimilati la base di
determinazione del valore aggiunto della produzione.
In deroga a tale principio, l’articolo 11 del decreto IRAP, anche prima della intervenuta modifica
legislativa, prevedeva in talune circostanze la possibilità di ridurre l’influenza del costo del lavoro
sulla base imponibile IRAP, attribuendo specifiche deduzioni. L’entità ed il numero di tali deduzioni
viene significativamente ampliato dall’intervento volto a ridurre il cuneo fiscale.
3.c.4. La compatibilità con l’IVA
Data la rigidità del sistema de prezzi che regola il mercato del lavoro e quello dei servizi finanziari,
sarà molto difficile che l’onere di un’imposta come quella in esame, orientata a tassare il valore
aggiunto prodotto, incida sui dipendenti e sui finanziatori del soggetto passivo (che sono i
beneficiari di una parte del valore prodotto). Sarà molto più probabile, invece, che l’operatore
soggetto all’IRAP riesca a a trasferirne l’onere sui consumatori acquirenti, aumentando il prezzo
dei beni e servizi prodotti nell’eercizio della sua attività economica.
Ove l’onere delI'IRAP venisse, di fatto, sostenuto dai consumatori finali (per effetto della
traslazione economica conseguente all'inglobamento nel prezzo di vendita dei beni e dei servizi
prodotti), il tributo s'inquadrerebbe nell'alveo delle imposte indirette sui consumi e i consumatori
diverrebbero, nella sostanza, i soggetti passivi del tributo, come lo sono nel l'IVA.
La Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 3 ottobre 2006 (Causa C-‐475/03, Banca Popolare di
Cremona) ha stabilito che l'art. 33 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE,
in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di
affari non osta al mantenimento di un prelievo avente le caratteristiche dell'IRAP. Secondo la
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Corte, tale imposta non è stata concepita per ripercuotersi sul consumatore finale nel modo tipico
dell'IVA e, di conseguenza, non può essere considerata un'imposta sulla cifra d'affari.
Nella detta pronuncia si considera che mentre l’IVA, attraverso il sistema della detrazione
dell'imposta, grava unicamente sul consumatore finale ed è perfettamente neutrale nei confronti
degli operatori economici, indipendentemente dal numero di operazioni avvenute, non tutti i
soggetti passivi dell’IRAP si trovano nella condizione di poter trasferire il carico dell'imposta, o di
poterlo trasferire nella sua interezza sul consumatore finale.
La sentenza è stata criticata da più parti poiché si discosta nettamente dai suoi precedenti, nel
punto in cui attribuisce rilievo determinante al fatto che nelle norme che disciplinano il tributo in
questione manca la previsione (esistente invece nella disciplina dell’IVA) di un formale diritto di
rivalsa del soggetto passivo nei confronti del suo cessionario o committente.
Così opinando, la Corte ha attribuito rilievo determinante ad un particolare profilo giuridico-‐
formale delle due imposte a confronto. Secondo la Corte, infatti, l’assenza nella disciplina dell’IRAP
di una simile previsione sarebbe sufficiente ad escludere che il tributo possa considerarsi come
un’imposta sulla cifra di affari incompatibile con il sistema comune dell’IVA. In questo modo, però,
la Corte ha superato a piè pari le argomentazioni contrarie sviluppate dai due avvocati generali
avvicendatisi nella causa ponendosi in contrasto con la sua precedente giurisprudenza, ove invece
si è sempre manifestata la preoccupazione di interpretare le norme comunitarie tenendo conto
degli effetti che esse producono sul funzionamento del mercato unico.
Come evidenziato in altra sede (si veda al riguardo il § 3.d), nella giurisprudenza della Corte di
Giustizia l’IVA è considerata un’imposta rivolta a tassare il consumo finale e il suo meccanismo è
basato sulla tassazione di ogni atto idoneo a trasferire la ricchezza lungo la catena produttiva-‐
distributiva, fino alla sua destinazione al consumo. Se, dunque, anche l’IRAP avesse le medesime
caratteristiche, i due tributi si cumulerebbero sul consumatore italiano creando una distorsione
nel mercato unico europeo.
L’art. 33, n. 1, della Sesta Direttiva in materia di IVA stabilisce che “le disposizioni della presente
direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre … qualsiasi imposta, diritto
o tassa che non abbia il carattere di imposta sulla cifra di affari”. Per incorrere nel divieto è
sufficiente che si tratti di un’imposta sostanzialmente analoga all’IVA, non essendo pertanto
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necessario che i tributi siano identici in tutto e per tutto ma bastando che presentino le
caratteristiche essenziali di tale imposta.
In questa prospettiva, la Corte di Giustizia avrebbe dovuto accertare se l’IRAP fosse in grado di
compromettere la realizzazione del mercato unico violando le regole comunitarie in materia di
armonizzazione e verificare gli effetti del tributo sul piano macroeconomico, per valutare se la sua
applicazione potesse generare distorsioni tali da influenzare la libera circolazione dei beni e dei
servizi nell’area geografica di un certo Stato, membro creando un aggravio sui prezzi al consumo.
A ben vedere, nella sua concreta applicazione l’IRAP presenterebbe tutte le caratteristiche
essenziali dell’IVA che, secondo la stessa Corte, possono essere individuate come segue:
- Applicazione generalizzata alle operazioni aventi ad oggetto beni e servizi;
- Determinazione dell’imposta proporzionale al prezzo finale di tali beni e servizi, a
prescindere dal numero di operazioni effettuate;
- Riscossione in ciascuna fase del processo di produzione e distribuzione;
- Applicazione frazionata dell’imposta sul valore aggiunto relativo a ciascuna fase mediante
deduzione dell’imposta versata all’atto della precedente operazione.
Nondimeno, nella sentenza del 2006 la Corte ha superato la necessità di effettuare una puntuale
verifica in proposito, ritenendo sufficiente ad escludere il contrasto dell’IRAP con le norme
comunitarie il fatto che all’interno della sua disciplina non è codificato il diritto del soggetto
passivo di rivalersi dell’imposta sui suoi cessionari o committenti.
Questa impostazione denota un evidente cambiamento del metodo interpretativo che in questo
frangente è stato basato sull’analisi della forma giuridica del tributo esaminato e non, come fatto
dalla Corte in numerosi precedenti, ponendo in risalto gli effetti economici del tributo del quale è
stata denunciata l’incompatibilità con l’IVA.
D’altra parte, da un lato potrebbe darsi che il meccanismo economico della traslazione
dell’imposta conduca agli stessi risultati prodotti dalla rivalsa mentre, dall’altro, non è detto che
un tributo per il quale è stabilito il diritto (o addirittura l’obbligo) di rivalsa sia in concreto
recuperata dal soggetto passivo. Può accadere, infatti, che il soggetto che esercita la rivalsa non
sia in grado di richiedere un corrispettivo pari al prezzo del bene maggiorato dell’importo
dell’imposta poiché il mercato non lo assorbirebbe. In questo caso egli dovrebbe ridurre
l’ammontare del corrispettivo totale accollandosi di fatto tutto o parte dell’onere dell’imposta.
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La finalità del divieto posto a carico degli Stati membri di istituire o mantenere imposte analoghe a
quella sulla cifra d’affari è, come chiarito in numerose sentenze della Corte di Giustizia, quella di
evitare che il sistema comune dell’IVA sia “pregiudicato”. Ciò accadrebbe nel caso in cui fossero
applicati tributi che incidessero sulla circolazione dei beni e dei servizi “in modo analogo a quello
dell’IVA”.
A ben vedere, fin dalle sue prime sentenze la Corte di Giustizia ha individuato i principi ispiratori
della Comunità Europea nelle prevalenti finalità (economiche) della tutela della concorrenza e del
mercato, che vengono realizzate attraverso l’affermazione delle quattro libertà fondamentali di
circolazione dei beni, dei servizi, delle persone e dei capitali. Secondo la Corte, l’intero sistema
normativo comunitario deve essere interpretato alla luce di tali finalità e le stesse norme di
carattere fiscale non vanno considerate il fine ma lo strumento dell’azione comunitaria.
Costituiscono una conferma ed una ulteriore proiezione in avanti di questo orientamento le
correnti giurisprudenziali ormai consolidate in materia di interpretazione secondo buona fede e di
abuso del diritto comunitario, nelle quali la Corte ha privilegiato la sostanza economica rispetto
alla forma giuridica.
Tenuto conto di tutto quanto sopra, la compatibilità dell’IRAP con il diritto comunitario, pur
dovendosi dare per assodata sul piano giudiziario, resta ancora un problema aperto sul piano dei
principi.
3.d) L’imposta sul valore aggiunto
3.d.1. L’IVA nel contesto europeo
Nell’esame della struttura e delle funzioni dell’IVA è necessario tener conto in primo luogo
della sua origine comunitaria. Infatti, l’imposta fu introdotta nel nostro ordinamento per
ottemperare alle prescrizioni contenute in una serie di direttive comunitarie che videro la luce a
partire dal 1967 al fine di realizzare un sistema armonizzato di imposte indirette in tutto il
territorio della Comunità. L'imposizione indiretta richiede, a differenza di quella diretta, un alto
livello di armonizzazione perché incide direttamente sulla realizzazione del mercato unico
influendo sulla libertà di circolazione delle merci e sulla libera prestazione dei servizi.
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Il termine “armonizzazione fiscale” definisce il procedimento con cui i vari Stati membri
modificano la struttura di un dato tributo in conformità ad un modello unico. In ambito
comunitario esso costituisce uno degli strumenti previsti dal Trattato istitutivo della Comunità
Economica Europea (firmato a Roma il 25 marzo 1957 e ratificato dall’Italia con legge 14 ottobre
1957, n. 1203) per realizzare un mercato unico delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali,
costituente obiettivo principale del Trattato. Con previsione conforme a quella contenuta
nell’originaria stesura dell’art. 88 del Trattato di Roma, l’art. 113 del Trattato sul Funzionamento
dell’Unione Europea (TFUE), approvato con il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, stabilisce
che il Consiglio dell’Unione Europea deliberando all’unanimità “adotta le disposizioni che
riguardano l'armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d'affari, alle imposte
di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per
assicurare l'instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni di
concorrenza”.
Il passo più importante verso l'armonizzazione delle imposte sulla cifra d'affari è
rappresentato sicuramente dall'introduzione dell'IVA, cui è stato attribuito il compito di realizzare
un prelievo neutrale e non discriminatorio che non gravasse sulle imprese, a prescindere dalle
diversità che si verificano nella struttura del ciclo produttivo-‐distributivo.
La Direttiva 67/227/CEE dell'11 aprile 1967 (I Direttiva IVA) si propose L’obiettivo di istituire
gradualmente un sistema comune di imposta sul valore aggiunto. L’Italia ha introdotto l’iva con
DPR 26 ottobre 1972 n. 633, entrato in vigore il 1° gennaio 1973. Nella I Direttiva si stabilì che ogni
Stato membro sostituisse le proprie imposte sulla cifra d'affari con l’IVA. In questa prima fase non
si imponeva ancora l'armonizzazione delle aliquote e delle esenzioni, che ha formato oggetto di
interventi successivi.
L'IVA fu integralmente revisionata dalla IV Direttiva 388/77/CEE del 17 maggio 1988,
definita non a torto come il “codice europeo dell'IVA”, che ha dettato la disciplina uniforme degli
elementi essenziali del tributo, quali il campo di applicazione, i soggetti passivi, la definizione delle
diverse operazioni imponibili, la determinazione della base imponibile, le esenzioni dal tributo, la
detrazione. Dopo aver formato oggetto di numerose modificazioni dovute in gran parte
all’instaurazione del mercato interno e alla conseguente soppressione delle frontiere fiscali tra gli
Stati membri, la VI Direttiva è stata sostituita dalla Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006
che, adottando la tecnica della “rifusione”, ha integrato in un unico testo normativo le numerose
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modificazioni ed aggiunte apportate nel tempo alla VI Direttiva integrandole nelle le disposizioni
immutate di quest’ultima.
Dal 1992, l'armonizzazione dell'imposizione indiretta si è evoluta in modo decisivo con
l'introduzione del nuovo regime delle accise e di quello dell’IVA intracomunitaria basato
sull'abolizione delle frontiere fiscali e doganali nonché sulla soppressione dei controlli doganali alle
frontiere tra gli Stati membri. L’orientamento in questa direzione è scaturito dall'Atto Unico
Europeo (ratificato dall’Italia con legge 23 dicembre 1986 n. 909), che ha dato impulso al
completamento del mercato interno -‐ inteso come spazio ove viene assicurata la libera
circolazione di merci, servizi, persone e capitali -‐ per soddisfare l’accresciuta esigenza di rendere
più competitiva l'economia europea.
Per realizzare questo obiettivo è stato necessario adottare le misure necessarie ad
abbattere delle frontiere:
a) fisiche: i posti doganali ai confini tra i diversi Stati membri creavano dispendio di tempi ed
oneri ed erano divenuti inutili in un sistema armonizzato;
b) tecniche: la presenza di diverse legislazioni in materia di sanità, sicurezza, tutela
dell'ambiente e dei consumatori ostacolava le libertà di circolazione;
c) fiscali: le legislazioni nazionali in materia di IVA ed accise non consentivano ancora la piena
realizzazione del mercato.
Una volta eliminati questi ostacoli, è stato necessario introdurre una nuova disciplina
dell'IVA sugli scambi intracomunitari, prima liquidata in dogana con il meccanismo del prelievo
sulle importazioni alla stregua di quanto avveniva (ed avviene tuttora) negli scambi con i Paesi
terzi. Le direttive emanate in argomento hanno fissato una serie di regole applicabili a partire dal
1° gennaio 1993 che vale la pena di ricordare:
- con l’eliminazione delle frontiere comunitarie, anche in materia di IVA le operazioni di
scambio intracomunitario sono trattate al pari di operazioni interne;
- le nozioni di importazione ed esportazione hanno assunto rilievo solo nei rapporti con i
Paesi terzi (così il riferimento al “territorio dello Stato” è stato sostituito da quello al
“territorio della Comunità”);
- il tributo deve essere acquisito nel Paese di destinazione (questo criterio si sposa
perfettamente con la natura di imposta indiretta sui consumi dell'IVA);
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- la tassazione deve avvenire nel Paese di origine (questa regola , che darà luogo
all’applicazione del cosiddetto «clearing», è tuttora sospesa poichè gli Stati non sono
attrezzati per effettuare le necessarie compensazioni).
Nell’attesa della piena entrata in funzione di tale regime dei rapporti intracomunitari è
stato disposto:
- che le cessioni di beni effettuate nei confronti di privati residenti in altri Stati UE siano
assoggettate ad IVA nel Paese di origine;
- che le cessioni di beni effettuate nei confronti di operatori economici residenti in altri Stati
UE siano considerate non imponibili ad IVA nel Paese di origine ed assoggettate all'imposta
del Paese di destinazione dall'operatore acquirente, con il sistema della “autofatturazione”
dell'acquisto intracomunitario (che consiste nell’assolvimento dell’obbligo di emissione
della fattura secondo le regole dello Stato di destinazione da parte dello stesso acquirente,
il quale opera una doppia registrazione: nel registro delle fatture emesse, per addebitarsi
dell’imposta dovuta sull’operazione; nel registro degli acquisti, per esercitare – nei limiti di
sua spettanza – il diritto alla detrazione);
- che agli enti non commerciali non esercenti attività d’impresa é attribuita una soggettività
tributaria passiva limitata agli acquisti intracomunitari.
Una completa armonizzazione fiscale del mercato unico europeo non poteva omettere di
considerare le cosiddette “accise”. Il termine deriva dal verbo latino accidere, ossia taglieggiare.
Con una progressiva evoluzione, esso è stato impiegato nell'ambito della tecnica tributaria per
definire prima le imposte sui consumi e poi le imposte di fabbricazione dovute su particolari beni,
il cui onere si ingloba nel prezzo di vendita dei beni che vi sono soggetti. Nel sistema europeo
armonizzato le accise colpiscono i prodotti petroliferi, gli alcolici, i tabacchi e gli, zuccheri). Le
differenze nella disciplina di tali tributi poteva costituire elemento di distorsione nelle scelte
territoriali delle imprese, a motivo della loro capacita di incidere immediatamente sui prezzi di
scambio delle merci, con gravi effetti sulla libertà di stabilimento e di circolazione dei fattori
produttivi. Per tale motivo, l'armonizzazione delle accise è stata perseguita dalla Comunità
Europea fin dall'inizio degli anni sessanta e per la sua disciplina furono emanate numerose
direttive ed altre disposizioni, culminate nelle misure definitive adottate nel 1992. Nelle direttive
in materia di armonizzazione (definitivamente recepite in Italia con decreto-‐legge 30 agosto 1993
n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993 n. 427) la Comunità europea ha disposto
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l’allineamento delle norme interne dei tributi in parola sia sotto il profilo strutturale (relativo ai
generi soggetti al tributo, alla base imponibile, alle agevolazioni, ai controlli ed alle modalità di
riscossione) sia sotto il profilo sostanziale (relativo alla determinazione di una “forbice” di aliquote
entro la quale consentire di applicare il tributo).
3.d.2. Natura giuridica e presupposto dell’imposta
L’imposta sul valore aggiunto si rende dovuta a seguito dell’effettuazione di singole
operazioni imponibili (cessioni di beni e prestazioni di servizi) effettuate nell’esercizio di imprese,
arti e professioni. Formalmente, i soggetti passivi del tributo sono gli operatori economici ma,
attraverso un complesso meccanismo di detrazioni e rivalse, il suo onere si trasferisce fino al
consumatore finale.
Per consentire la detrazione ed evitare le complicazioni connesse ad una simile modalità di
applicazione del tributo, il legislatore comunitario, ispirandosi alla TVA (Taxe sur la Valeur Ajoutée)
francese, ha optato per l’adozione di meccanismi basati sul calcolo e la liquidazione dell’Iva che si
rende dovuta a fronte delle masse di operazioni di acquisto e di vendita effettuate in un
determinato periodo (le chiusure contabili avvengono ogni mese o trimestre solare, a seconda
delle dimensioni del soggetto e annualmente è richiesta la predisposizione di una dichiarazione
nella quale vengono effettuati i conguagli).
D’altra parte, a differenza di quanto accade per la maggior parte degli altri tributi del
nostro sistema impositivo, nel DPR n. 633/72 nulla viene espressamente stabilito in ordine al
presupposto dell’imposta. Questa mancanza, peraltro non casuale, ha impegnato a lungo la
letteratura nell’analisi dell’articolato meccanismo di applicazione del tributo nel tentativo di
rinvenirne i parametri di legittimazione alla luce del principio costituzionale della capacità
contributiva. A questo riguardo sono state prospettate diverse soluzioni.
Talvolta, considerando il ruolo dei soggetti passivi dell’Iva in come puramente strumentale
all’obiettivo di colpire il consumatore finale quale unico ed effettivo titolare della capacità
contributiva, si è fatto riferimento al concetto di “immissione al consumo”. Tra chi ha aderito a
questo orientamento (a mente del quale l’Iva sarebbe un’imposta gravante esclusivamente sul
consumatore finale) vi è chi ha ritenuto che i versamenti dell’imposta effettuati in occasione dei
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passaggi intermedi tra il produttore ed il consumatore finale dovrebbero essere considerati
semplici acconti sull’ammontare del tributo complessivamente dovuto.
Avanzando nell’analisi, è stato anche osservato che il problema non sta nel definire una
nozione oggettiva di consumo quanto nell’identificare un consumatore finale come destinatario
del servizio, deducendo da tale assunto che in mancanza di ciò si dovrebbe escludere la stessa
applicazione del tributo. Questa tesi è stata oggetto di diverse critiche, anche da parte di coloro
che hanno pur sempre considerato il consumo quale elemento giustificativo dell’IVA sotto il profilo
costituzionale. Si è anche sostenuto che sarebbe inesatto considerare come acconti i versamenti
del tributo effettuati in occasione dei passaggi che hanno luogo nelle fasi intermedie del ciclo
economico poichè la detrazione dell’IVA concessa agli acquirenti in tali fasi controbilancia,
azzerandolo, il carico tributario.
Altra parte della dottrina ha ravvisato la giustificazione costituzionale dell’IVA nell’esercizio
di un’attività economica da parte dell’imprenditore o del professionista e cioè del soggetto
obbligato nei confronti dell’Erario. Tuttavia, anche questo tentativo non è parso del tutto
appagante. In effetti, pur avendo il pregio di identificare il soggetto che compie le operazioni
gravate dal tributo e che effettua i conseguenti adempimenti formali con quello chiamato a
concorrere alle spese pubbliche, essa non sembra porre nel dovuto risalto l’istituto della rivalsa
obbligatoria, che comporta il trasferimento del carico del tributo in capo al cessionario o
committente sollevando dal corrispondente onere il cedente del bene o il prestatore del servizio.
E’ stato inoltre sostenuto che costituirebbero presupposto dell’imposta le operazioni di cui
all’art. 1 del decreto (cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nell’esercizio di imprese,
arti e professioni). La capacità contributiva assunta come indice del prelievo sarebbe desumibile
dal fatto obiettivo dello scambio coinvolgendo, sotto il profilo soggettivo, tutti coloro che vi hanno
preso parte; secondo questa tesi, affermare che la capacità contributiva è realizzata dal solo
venditore ovvero dal solo consumatore finale (così come nelle diverse ricostruzioni sopra
richiamate è stato di volta in volta affermato) sarebbe comunque fuorviante. Da una simile
prospettiva, infatti, il presupposto dell’imposta non sarebbe individuato né nell’acquisto del bene
o del servizio né nella sua vendita ma nell’operazione di scambio oggettivamente considerata e
collegata a tutti coloro che ad essa prendono parte.
La richiamata impostazione consente di comprendere molti aspetti dell’IVA, che non
sarebbero spiegabili riconducendo la capacità contributiva presa a base del’imposizione
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esclusivamente al soggetto acquirente o al soggetto cedente. Ed invero, una volta assunto lo
scambio come fatto indice della specifica capacità contributiva colpita dall’Iva, è logico dedurre
che il relativo presupposto sia costituito dalle singole operazioni imponibili, anche se alcune di
esse (quelle che intervengono nella fase intermedia del ciclo economico) restano di fatto
detassate attraverso il meccanismo della detrazione e del rimborso. Se è vero quanto sopra, è
anche vero che le singole operazioni rientranti nel campo di applicazione dell’Iva devono essere
sempre ricollegate all’esercizio di un’attività d’impresa o di lavoro autonomo abituale, in difetto
del quale non può dirsi presente il requisito soggettivo che legittima l’esercizio della rivalsa.
L’ampio dibattito dottrinale condotto nel passato sulla base delle norme interne (di cui
sono stati ricordati i passaggi salienti nell’esposizione che precede) non si misura in modo pieno
con le origini comunitarie dell’IVA che, invece, dovrebbero costituire il principale punto di
riferimento nell’analisi di questo tributo. La creazione di un sistema comune di imposte sulla cifra
di affari impone infatti l’applicazione uniforme dell’IVA su tutto il territorio dell’Unione Europea e
la conseguente eliminazione di qualsiasi distorsione che possa influire sul principio di neutralità,
costituente il cardine di un tributo di questa natura. In un sistema siffatto, sulle merci e sui servizi
del medesimo tipo deve gravare in ogni Stato membro lo stesso carico fiscale, indipendentemente
dalle caratteristiche del circuito produttivo all’interno del quale lo scambio è realizzato.
In questa ottica, anche le norme in materia di localizzazione territoriale delle operazioni
imponibili assolvono all’onere di delimitare le competenze degli Stati membri, al fine non solo di
una ripartizione razionale del gettito tra gli stessi nel quadro della realizzazione dell’imposta unica
sui consumi, ma anche della prevenzione di eventuali conflitti di potestà impositiva. Nello
specifico, la VI Direttiva si propone di introdurre un sistema comune in cui nella tassazione delle
prestazioni di servizi non si abbiano a verificare casi di doppia imposizione, di non imposizione o di
distorsione di concorrenza.
D’altra parte, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nelle sue numerose sentenze
sull’argomento, ha più volte ribadito che l’IVA deve essere applicata fino allo stadio del commercio
al dettaglio compreso. In questa ottica, il luogo di tassazione dovrebbe coincidere con il luogo del
consumo del bene o servizio. Se, invece, fosse dato credito alle tesi sopra richiamate, che hanno
intravisto nell’IVA talvolta un’imposta sulle attività economiche talvolta un’imposta sugli scambi,
tale luogo dovrebbe essere individuato, rispettivamente, nel luogo di esercizio dell’attività o nel
luogo in cui avviene la transazione. In questo senso disponeva già l’art. 6, par. 3, della II Direttiva
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IVA, ove si stabiliva che il luogo della prestazione del servizio dovesse essere individuato in quello
ove esso è “utilizzato o sfruttato”, dando così evidenza normativa alla tesi che considera l’IVA
come un’imposta sui consumi.
Il quadro è completato dal regime delle importazioni che, proprio al fine di presidiare
l’uniforme applicazione dell’imposta nel territorio del consumo (inizialmente il singolo Stato, ora
l’intero territorio europeo), le rende in ogni caso soggette all’imposta, anche se sono effettuate da
un privato. Trattandosi di un tributo che colpisce il consumo di beni e servizi, il criterio di
collegamento territoriale non poteva che essere, almeno in linea di principio, un criterio di
carattere oggettivo, rilevando In linea di principio, ai fini della territorialità dell’IVA rileva il luogo in
cui si trova il bene o viene resa la prestazione oggetto dell’operazione.
Non va sottaciuto, peraltro, che il sistema comunitario dell’IVA sta vivendo un momento di
grande incertezza, causato dalla mancata attuazione del principio di tassazione nel Paese di origine
che tuttora è sostituito dal regime “provvisorio” di tassazione nel Paese del consumo. In effetti, il
sistema dell’Iva, lungi dal divenire “comune” (come previsto nell’originario progetto di
armonizzazione), ha finito con il costituire una sorta di somma di regimi nazionali dalla quale
emergono distorsioni concorrenziali alimentate proprio dalla diffusa e convinta autonomia
normativa degli Stati. D’altra parte, il regime della tassazione nel luogo di origine poteva essere
attuato soltanto in presenza di una completa armonizzazione dell’imposta, la cui realizzazione è
ancora lontana. In un simile contesto l’applicazione del principio di tassazione nel luogo di origine
darebbe corso ad un’inaccettabile concorrenza fiscale con effetti diversificati per imprese e
consumatori.
Va osservato, comunque, che anche la tesi dell’Iva come imposta sul consumo, non è
rimasta esente da critiche poiché, anche in termini di fatto, il carico dell’imposta non sembra
ricadere sempre ed interamente sul consumatore finale ma può costituire, nella fase terminale
della sua applicazione, un fattore disincentivante all’acquisto e, pertanto, gravare anche sul
venditore attraverso un fenomeno di traslazione all’indietro del tributo.
3.d.3. Contribuente di fatto e contribuente di diritto
Per colpire il consumatore finale, il sistema dell’IVA si fonda su un meccanismo complesso
nel quale la realizzazione dell’effetto economico del tributo è affidata ad una serie di adempimenti
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in base ai quali gli operatori economici sono in grado di trasferire in avanti il carico dell’imposta e
conseguire l’esonero dal tributo nel rispetto del principio di neutralità.
NelI’IVA, come nella maggior parte dei tributi, alla nozione di soggetto passivo è collegata
la previsione legale di specifici obblighi, non solo di carattere sostanziale ma anche meramente
procedurale. Resta escluso da tale fenomeno e dalla corrispondente disciplina il cosiddetto
contribuente “di fatto" (o “inciso” dal tributo) che, pur essendo destinatario finale dell'onere
tributario, non è individuato dalla legge come soggetto passivo dell'imposta e viene colpito dal
prelievo attraverso i meccanismi di traslazione economica dell’onere ad esso corrispondente posti
in essere da parte dei soggetti passivi, i “contribuenti di diritto” (o “percossi” dal tributo).
L'operatore economico ha dunque un ruolo puramente strumentale al fine del
trasferimento in avanti dell'onere tributario e la giustificazione costituzionale dell'imposta viene
ravvisata nell'atto di scambio, considerato come operazione imponibile tanto dal punto di vista
soggettivo quanto dal punto di vista soggettivo. In questa prospettiva, entrambi i soggetti che
prendono parte all’operazione sono portatori di una specifica capacità contributiva. Infatti, il
collegamento soggettivo con il presupposto non può essere escluso completamente rispetto al
contribuente “di diritto” (l’operatore economico) che per essere chiamato ad assolvere agli
obblighi dell’imposta deve essere comunque in possesso della ricchezza tassabile (il corrispettivo
della cessione o prestazione imponibile) e deve poter riscuotere l’imposta dal suo cessionario o
committente avvalendosi di mezzi coercitivi. D’altro canto, è il contribuente “di fatto” che deve
subire in via definitiva il depauperamento dovuto all'applicazione del tributo, manifestando la sua
attitudine a finanziare la spesa pubblica sulla base della capacità contributiva insita nell’atto di
spesa.
Tanto premesso, la presenza del contribuente di fatto ha rilevanza sul piano economico-‐
finanziario ma non ne ha alcuna direttamente sul piano giuridico. Per questo motivo, nei rapporti
tra contribuente di fatto e contribuente di diritto è stata sempre esclusa la giurisdizione speciale in
materia tributaria e si ritiene sussistere difetto assoluto di giurisdizione nel rapporto tra
contribuente di fatto ed ente impositore.
Da questi brevi richiami può quindi dedursi che nella disamina della problematica della
soggettività tributaria passiva non conta tanto individuare l’intrinseca capacità economica
manifestata dai soggetti passivi del tributo (che pure costituisce uno, ma uno soltanto, dei termini
di valutazione) ma si devono porre in adeguato risalto, nel quadro della sempre più vasta tipologia
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degli schemi di attuazione del tributo, il collegamento del soggetto passivo ad un più ampio
concetto di “situazione doverosa”, non limitato al solo profilo sostanziale ma esteso ai diversi
poteri ed obblighi in cui si sostanzia la sequenza attuativa del tributo. Più in particolare, bisogna
prendere atto che nel corso degli ultimi anni la legge ha disposto una progressiva espansione, sia
del contenuto degli obblighi (anche non pecuniari) sia dei soggetti chiamati a farvi fronte.
3.d.4. Le fasi di applicazione del’imposta
Lo spostamento del carico tributario dal contribuente di diritto al contribuente di fatto
viene realizzato nell’IVA attraverso una serie di adempimenti sequenziali articolati nelle seguenti
fasi: a) fatturazione; b) registrazione; c) rivalsa e detrazione; d) dichiarazione; e) versamenti. Molti
di questi adempimenti fanno parte delle fattispecie prodromiche, descritte nel precedente punto
2.b) dedicato alla ricostruzione delle modalità di realizzazione del prelievo tributario. Ciò posto, in
questa sede ne saranno richiamati unicamente gli aspetti essenziali ai fini della ricostruzione della
specifica modalità di realizzazione dell’IVA.
a) Fatturazione
Non ostante la sempre più diffusa tendenza all’adozione di modelli di accertamento
basati su criteri induttivi ed extracontabili, la funzione che assume la fattura nel
funzionamento dell’IVA è rimasta inalterata nel tempo. In effetti, il sistema di
determinazione dell’IVA si fonda sul criterio cartolare, prima ancora che contabile. A
suffragio di tali conclusioni può essere richiamato l’art. 5, n. 7, della legge 9 ottobre
1971 n. 825 (legge delega per la riforma tributaria) che riconosce alla fattura il ruolo di
“strumento per assicurare il peculiare meccanismo di applicazione del tributo in esame,
fondato sul principio rivalsa/detrazione”.
Vi è addirittura chi ritiene che, almeno in certi casi, la fattura integri direttamente il
presupposto del tributo. Depone in questo senso l’art. 6, comma 4, del DPR n. 633/72,
ove si prevede che “se anteriormente agli eventi indicati nei precedenti commi o
indipendentemente da essi sia emessa fattura, o sia pagato in tutto o in parte il
corrispettivo, l’operazione si considera effettuata, limitatamente all’importo fatturato,
alla data della fattura o a quello del pagamento”. La norma in esame, intitolata alla
“effettuazione delle operazioni”, include dunque l’emissione della fattura tra gli
elementi ai quali è collegata l’esigibilità del tributo delineando un’autonoma figura
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imponibile fondata unicamente sull’essenza cartolare del documento in parola e sulle
conseguenze prodotte dalla sua emissione nel procedimento di attuazione
dell’imposta. La valenza sostanziale della fattura è adeguatamente posta in evidenza
anche dal regime previsto dall’art. 21, comma 7, del DPR n. 633/72, ove si stabilisce che
se viene emessa una fattura a fronte di un’operazione inesistente l’imposta è
comunque dovuta dall’emittente per l’intero ammontare indicato nella fattura. In tutte
queste ipotesi, dunque, l’emissione della fattura non rappresenta un adempimento
formale imposto dalla legge per assicurare l’applicazione del tributo in presenza di un
determinato fatto materiale considerato imponibile ma è essa stessa che fa sorgere il
debito d’imposta.
b) Registrazione
Il decreto istitutivo dell’IVA prescrive ai soggetti passivi l’adempimento di precisi
obblighi contabili cui il contribuente ha l’onere di sottostare al fine di conseguire il
diritto alla detrazione. In sintesi, il decreto prescrive ai soggetti passivi “di diritto” di
registrare su appositi e separati libri:
• le fatture emesse a fronte delle operazioni attive, dalle quali scaturisce l’obbligo
dell’operatore economico di conteggiare a proprio debito l’IVA esposta sulle
fatture emesse a carico dei propri cessionari o committenti; questo
adempimento è soggetto a termini brevi e perentori, presidiati da pesanti
sanzioni per assicurare il tempestivo accredito all’erario dell’imposta dovuta;
• le fatture ricevute a fronte degli acquisti di beni e di servizi effettuati
nell’esercizio dell’attività economica; la registrazione degli acquisti costituisce
un onere per ottenere il diritto alla detrazione dell’imposta, che va esercitato, al
più tardi, nella dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il
diritto alla detrazione è sorto (art. 19, comma 1, DPR n. 633/72).
c) Rivalsa e detrazione
La rivalsa garantisce che il cedente o prestatore, all'atto della cessione o prestazione,
recuperi l'imposta dal cessionario o committente, il quale, se è un altro operatore
economico, può esercitare il diritto a portare in detrazione l’imposta addebitatagli in
via di rivalsa. Se invece l’acquirente è un consumatore finale, non ha alcun diritto al
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recupero. Per assicurare il trasferimento in avanti del carico dell’imposta, la legge (art.
18 DPR n. 633/72) impone al cedente o prestatore l’obbligo di esercitare la rivalsa.
Il meccanismo della rivalsa e della detrazione concilia esigenze di cautela fiscale con
l'interesse a rendere neutra l'imposta rispetto al numero di passaggi compiuti dal bene
o servizio prima di giungere al consumo finale. Si ritiene, inoltre, che la rilevanza
giuridica della rivalsa e della detrazione ai fini della individuazione della capacità
contributiva colpita dall'IVA
d) Dichiarazione
Nella dichiarazione annuale, oltre a riepilogare il totale delle operazioni, degli acquisti e
dei versamenti effettuati, il contribuente effettua le correzioni che derivano dal detto
riepilogo. Tipica di questa fase è la determinazione del cosiddetto pro-‐rata di
indetraibilità dell’imposta collegato all’effettuazione di operazioni non soggette
all’imposta (art. 19, commi 2, 3 e 5). La dichiarazione si chiude con un credito o un
debito d’imposta. Il credito può essere rinviato all’anno solare successivo e, in alcuni
casi, può esserne chiesto il rimborso. Nel caso di saldo a debito questo deve essere
versato nel termine prescritto.
Scopo della dichiarazione è quello di porre l’Amministrazione finanziaria a conoscenza
di determinati elementi di fatto e di fondare su tale insieme di notizie le fasi successive
del procedimento di attuazione del tributo.
La dichiarazione è inoltre la sede in cui il contribuente è tenuto ad esercitare le opzioni
previste dalla legge. Non esponendo nella dichiarazione la richiesta di deduzioni o
detrazioni o la scelta per un diverso regime contabile. In queste ipotesi il contribuente
incorre in una preclusione non altrimenti sanabile che comporta evidenti riflessi nelle
successive fasi del controllo e dell’eventuale contenzioso, posto che l’assoluta carenza
di indicazioni in ordine a tali elementi priva l’Amministrazione finanziaria della
possibilità di conoscerne e verificarne la natura, la misura e la stessa sussistenza. Si
registra, così, una ulteriore conferma della natura impegnativa della dichiarazione,
stante la sua capacità di produrre nelle fasi successive della sequenza attuativa effetti
irreversibili sulla determinazione del tributo e, pertanto, di collocarsi all’interno del
procedimento tributario anche nel senso “sostanziale” del suo termine.
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e) Versamenti
Il sistema di riscossione dell’imposta sul valore aggiunto, in virtù di quanto previsto
all’art. 5, comma 7, della Legge Delega n. 825 del 1971, con disposizione che i successivi
interventi normativi non hanno variato o ridotto nella sua portata e che si inquadra nel
più ampio contesto evolutivo dell’intero sistema fiscale, é fondato in misura sempre più
accentuata sulla prevalente iniziativa del contribuente. Tale forma di attuazione del
tributo, sebbene motivata da esigenze di copertura dei pressanti fabbisogni di cassa
erariali non sempre pienamente giustificate sotto il profilo della legittimità
costituzionale, è finita con l’apparire inevitabile al fine di realizzare puntualmente i
principi della generalità dell’imposizione e della capacità contributiva.
In tale ottica, la procedura di autoliquidazione consiste interamente in atti dello stesso
contribuente, per cui ove quest’ultimo si sia rigorosamente attenuto alle disposizioni di
legge, la dichiarazione non è seguita dall’emissione di un accertamento
dell’Amministrazione diretto ad applicare e riscuotere l’imposta. Ciò nondimeno, anche
con riferimento all’Iva, l’adempimento dell’obbligo di corrispondere il tributo puó avere
contenuti, modalitá di attuazione ed effetti diversi in ragione della particolare fase del
procedimento in cui esso interviene.
Da questo punto di vista, rileva sottolineare che il versamento può avvenire non solo in
occasione della presentazione della dichiarazione, a saldo del debito d’imposta che ne
scaturisce, ma anche (e soprattutto) in via anticipata, in acconto su quanto sarà dovuto
sulla base delle risultanze finali. Infatti, con l’art. 6 della l. 29 dicembre 1990 n. 405 è
stato introdotto nella normativa italiana l’obbligo dei soggetti passivi di versare una
somma a titolo di acconto dell’imposta sul valore aggiunto dovuta a fronte della
liquidazione del mese di dicembre (contribuenti mensili) ovvero dell’anno solare
(contribuenti trimestrali). Nella originaria stesura del provvedimento, tale misura era
stabilita in misura pari al 65% dell’Iva versata (o da versare) nel corrispondente periodo
dell’anno solare precedente (c.d. metodo “storico”) ovvero, se inferiore, di quella che si
prevede dovuta in sede di liquidazione dell’imposta relativa al periodo in corso (c.d.
metodo “previsionale”).
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La suddetta disciplina è stata oggetto di ripetuti interventi di modifica. Dapprima con
l’art. 1, comma 6, del d.l. 16 maggio 1991 n. 151, convertito nella l. 12 luglio 1991 n.
202, che ha elevato al 70% la misura dell’acconto dovuto dai soggetti che usufruivano
del differimento dei termini di liquidazione e versamento concesso ai soggetti che
affidano a terzi l’elaborazione meccanizzata delle scritture contabili; successivamente
ad opera dell’art. 15 del d.l. 22 maggio 1993 n. 155, convertito nella l. 19 luglio 1993 n.
243, che ha fissato particolari modalità per il calcolo dell’acconto sugli acquisti
intracomunitari elevandone ed unificandone la misura complessiva all’88%.
Con l’art. 3 del d.l. 26 novembre 1993 n. 477, convertito nella l. 26 gennaio 1994 n. 55,
il quale, sulla scia delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia Europea, ha fissato il
termine per il versamento dell’acconto al 27 dicembre di ciascun anno ed introdotto, in
aggiunta al metodo “storico” ed a quello “previsionale”, una terza metodologia di
calcolo (c.d. metodo “delle operazioni effettuate”) consistente nella possibilità di
determinare l’ammontare dovuto sulla base delle risultanze contabili della parte del
periodo (mese o trimestre) in corso alla data di scadenza del termine di versamento
dell’acconto compresa tra la data di inizio dello stesso periodo fino a tutto il 20
dicembre. Infine, l’art. 3, comma 1, del d.l. 20 giugno 1995 n. 250, convertito nella l. 8
agosto 1995 n. 349, nell’intento di evitare indebite riduzioni dell’ammontare
dell’acconto calcolato col metodo “delle operazioni effettuate”, ha previsto l’obbligo di
comprendere nel calcolo tutte le operazioni attive effettuate entro il detto termine,
anche se non ancora annotate nei registri IVA essendo in corso il termine per le relative
registrazioni.
La previsione di versamenti in acconto non è un fatto nuovo nella materia dei tributi
(diretti o indiretti) a carattere periodico e, nella generalità dei casi, trova la sua
principale ragione nei ricorrenti vuoti di bilancio, che hanno indotto il legislatore a
stabilire regole che consentissero all’Erario di riscuotere la maggior somma possibile
ancor prima dello spirare dei tempi stabiliti per l’esatta determinazione del tributo.
Tuttavia, le modalità di commisurazione dell’acconto ai fini dell’IVA hanno suscitato
non poche perplessità.
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A ben vedere, anche il versamento in acconto di cui all’art. 6 della L. 405/90 (al pari di
quelli da tempo previsti in materia di imposte sui redditi) trova la propria giustificazione
in una presunzione di continuità nell’esercizio dell’attività economica svolta dal
soggetto obbligato, che consente di ritenere dovuta almeno la somma determinata a
titolo di acconto. E’ erroneo, peraltro, assimilare l’acconto ad una mera anticipazione
del tributo: una cosa è l’acconto, dovuto prima della scadenza del termine previsto per
la liquidazione a titolo definitivo del tributo, ma, comunque, dopo che (e solo nella
misura in cui) il presupposto impositivo si è comunque realizzato; cosa del tutto diversa
è l’anticipo, che viene richiesto ancor prima del verificarsi dei corrispondenti
presupposti impositivi, il quale è privo di ogni fondamento sia sotto il profilo
costituzionale interno sia alla stregua del diritto comunitario.
Che non sia prevista nel sistema dell’IVA la possibilità di imporre versamenti anticipati
ma soltanto acconti sul totale dovuto risulta evidente dall’analisi della disciplina dei
versamenti periodici dell’imposta, poiché anche in questo caso il legislatore ha stabilito
di procedere all’acquisizione graduale del tributo attraverso un costante raffronto con il
presupposto, determinato dalle singole cessioni o prestazioni effettuate dal soggetto
passivo nel periodo considerato. Da questo punto di vista, invero, non vi è alcun motivo
per diversificare sul piano sistematico la liquidazione periodica del tributo dal
versamento in acconto di cui alla l. 405/90, posto che anche quest’ultimo ha come
insormontabile riferimento il complesso delle operazioni poste in essere dal soggetto
passivo sino ad un determinato momento.
Del resto, alla stregua del criterio di effettività in base al quale la Corte costituzionale
ha sempre interpretato la nozione di capacità contributiva, la forza economica del
contribuente, qualificata sotto il profilo quantitativo e qualitativo, da cui può essere
desunta tale capacità deve consistere in indici concretamente rivelatori di ricchezza, dai
quali sia razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta, non
potendo essere l’attitudine a concorrere alle spese pubbliche meramente possibile o
addirittura fittizia. Di talché se la legge imponesse un prelievo in via anticipata rispetto
al momento del concreto realizzo del fatto economico che ne costituisce il presupposto
lascerebbe aperta la possibilità di fondare il concorso alle spese pubbliche su un evento
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che non costituisce un effettivo indice di capacità contributiva, violando il
corrispondente principio costituzionale.
In perfetta armonia con il precetto della norma costituzionale interna, anche la Corte di
Giustizia Europea, sia pure per il diverso motivo di realizzare in ambito comunitario un
mercato unico pienamente armonizzato nel quale l’imposizione sugli scambi restasse
del tutto neutrale per le imprese e non ponesse ostacoli alla libera circolazione delle
persone, delle imprese, dei beni e dei capitali, ha operato una netta distinzione tra
anticipo ed acconto d’imposta, censurando in modo deciso la legislazione interna che
imponeva il pagamento di un tributo per il quale non si fosse ancora realizzato il
corrispondente presupposto economico.
3.e) I tributi regionali e locali
3.e.1. Premessa
Scopo di questo capitolo è quello di delineare i contorni essenziali dei singoli tributi ed
individuarne la corretta collocazione all’interno del sistema fiscale. Ciò vale maggiormente nella
materia della fiscalità locale che, nel momento in cui quest’opera vede la luce, non è regolata da
un quadro normativo stabile e completo.
É tuttora in corso, infatti, una completa revisione del sistema dei prelievi locali che si innesta in un
quadro di forte rinnovamento della stessa concezione della finanza pubblica ribaltandone
radicalmente la prospettiva. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha ridisegnato le
fondamenta su cui poggiava il meccanismo del finanziamento degli enti territoriali rivedendo
integralmente il sistema di ripartizione delle competenze tra tali enti e lo Stato centrale
disciplinato all’interno del Titolo V della Parte II della nostra Costituzione.
Almeno in linea di principio, la riforma ha orientato in senso federalista il sistema del potere locale
e, per quanto più interessa in questa sede, le modalità di distribuzione del potere impositivo tra lo
Stato e gli enti che formano la Repubblica. In particolare, essa ha ampliato e la potestà normativa
delle regioni (art. 117 Cost.) attribuendo alle medesime una maggiore indipendenza nell’iniziativa
legislativa ed ha accolto il principio di sussidiarietà ponendo i comuni alla base dell’azione
amministrativa (art. 118 Cost.).
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Tuttavia, l’impressione che si ricava dalla lettura delle nuove norme costituzionali è che,
probabilmente per ragioni di ordine politico, la legge di revisione del Titolo V della Costituzione
non ha formulato scelte vincolanti in ordine ai limiti da stabilire nei rapporti tra tributi locali e
tributi nazionali lasciando la responsabilità in materia ad un futuro intervento del legislatore
ordinario. E non è escluso che la Corte costituzionale, una volta che sarà definito l’assetto
complessivo di tali rapporti, venga chiamata a risolvere casi di illegittimità derivanti dalla
sovrapposizione di tributi statali e locali.
Soltanto con legge 5 maggio 2009, n. 42 il Parlamento ha conferito al Governo la delega ad
adottare, entro ventiquattro mesi dalla data della sua entrata in vigore, uno o più decreti legislativi
aventi ad oggetto l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, al fine di assicurare, attraverso
la definizione dei principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario e la definizione della perequazione, l’autonomia finanziaria di comuni, province, città
metropolitane e regioni. I detti decreti non sono stati ancora emanati e, nella migliore delle
ipotesi, vedranno la luce a ridosso del termine biennale anzidetto.
Considerato che la legge delega, nella sua ampiezza e ricchezza di principi e criteri direttivi, lascia
molto spazio al legislatore delegato, al quale rimanda non solo i contenuti tecnici della disciplina
ma anche molte scelte di fondo, esiste allo stato un ampio ventaglio di possibili ipotesi parimenti
praticabili sulle quali il dibattito politico è ancora aperto.
Anche se il quadro normativo è ancora vago e incompleto, già si percepisce, però, che la riforma
del Titolo V intende dare risposta ad aspettative da tempo diffuse nella generalità della
popolazione ed in larga misura condivise dai contrapposti schieramenti politici, volte a vedere
riconosciute:
-‐ una maggiore trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche che risulterebbe favorita
facendo coincidere il soggetto preposto alla carica elettiva con il rappresentante dell’ente
impositore;
-‐ una più ampia distribuzione del potere decisionale che, nel rispetto del principio
comunitario di sussidiarietà, contenga al minimo indispensabile l’intervento del governo
centrale limitandolo alle sole materie sulle quali gli enti di livello inferiore non possano
decidere ed agire con efficacia;
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-‐ maggiore responsabilità dei livelli periferici di governo, da attuarsi ponendo in relazione il
potere di spesa con l’esercizio della potestà tributaria;
-‐ una più efficiente ed efficace amministrazione delle entrate tributarie attraverso la diretta
acquisizione delle stesse da parte dei soggetti che gestiscono la spesa;
-‐ una maggiore autonomia politico-‐istituzionale degli enti territoriali rispetto allo Stato
centrale.
Il fondamento delle autonomie locali é tuttora contenuto nell’art. 5 Cost., non modificato dalla
legge di revisione del 2001, il quale, stabilisce che: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e
promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio
decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze
dell’autonomia e del decentramento”.
Con tale disposizione il Costituente intese consentire l’attribuzione agli enti locali territoriali di
propri poteri di autodeterminazione al fine di realizzare all’interno della Nazione un adeguato
pluralismo politico-‐istituzionale, prevedendo altresì la possibilità che tali autonomie (essendo
menzionate al plurale) potessero essere presenti su diversi livelli.
Pertanto, nella prospettiva dell’articolo 5, gli spazi riservati alle autonomie locali sono pur sempre
subordinati alle determinazioni del livello centrale, al quale, comunque, spetta il potere di
riconoscerle e promuoverle.
Prima delle modifiche al Titolo V la suddivisione dello Stato su base territoriale era disciplinata
dagli artt. 114, 115 e 128 della Costituzione. Il primo di questi articoli prevedeva che “La
Repubblica é ripartita in regioni, province e comuni”. L’art. 115 precisava, poi, che “Le regioni sono
costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principi fissati nella Costituzione”
mentre l’art. 128 stabiliva soltanto che “Le Province e i Comuni sono enti autonomi nell’ambito dei
principi fissati dalle leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni”.
In questo modo, veniva operata una precisa suddivisione tra lo Stato, da un lato, le regioni da un
altro lato e province e comuni dall’altro, ponendosi lo Stato in una posizione di netta preminenza
rispetto agli altri enti ed evidenziandosi con riferimento alle province ed ai comuni una rilevante
diversità dalle regioni, che erano poste ad un livello superiore (anche se subordinato a quello del
potere statale) tanto sul piano sostanziale (l’attribuzione di poteri legislativi sub-‐statali era riferita
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soltanto alle regioni) quanto sul piano formale (la competenza nella fissazione dei principi era
rimessa alla Costituzione per le regioni ed alla legge ordinaria per province e comuni).
La Riforma del Titolo V ha però invertito il rapporto tra centro e periferia equiparando rispetto alla
repubblica la posizione dello Stato e degli enti sub-‐statali. Infatti, il nuovo art. 114 (che istituisce
anche la nuova entità locale delle città metropolitane), menzionando anche lo Stato nell’elenco
degli organismi territoriali che compongono la Repubblica, opera invece una totale
equiordinazione tra tutti i detti enti, collocandolo in posizione di completa pariteticità con gli enti
territoriali sub-‐statali. Anzi, l’art. 118, richiamando i principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza, sembra attribuire ai comuni una sorta di priorità nell’esercizio delle funzioni
amministrative (è qui immediato il richiamo al principio di sussidiarietà), riservando a fattispecie
residuali espressamente stabilite la loro devoluzione a provincie, città metropolitane, regioni e
Stato. La nuova allocazione delle funzioni amministrative ha dirette ripercussioni sui più ampi limiti
di autonomia finanziaria e tributaria che le norme di revisione del Titolo V hanno attribuito a
regioni, province e comuni.
Analizzando, poi, la disciplina dei criteri di riparto della potestà legislativa tra Stato e regioni,
portata dal nuovo art. 117 Cost., ci si avvede di come essi (anche in questo caso in evidente
aderenza al principio di sussidiarietà) siano stati letteralmente capovolti, passando da una
competenza regionale limitata alle sole materie espressamente indicate con legge statale ad una
potestà legislativa tripartita come segue:
-‐ competenza esclusiva dello Stato su una ristretta serie di materie di rilevante interesse
nazionale, tassativamente indicate (art. 117, comma 2);
-‐ coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario su un elenco di materie nelle
quali le regioni devono attenersi ai principi fondamentali che saranno determinati con legge
dello Stato (art. 117, comma 3);
-‐ competenza residuale delle Regioni su ogni materia non espressamente riservata alla
legislazione dello Stato (art. 117, comma 4), tra le quali vengono già inclusi i tributi regionali
e locali.
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3.e.2. Autonomia finanziaria e autonomia tributaria
Per comprendere i meccanismi che regolano la distribuzione del potere impositivo tra lo Stato e gli
enti territoriali va ricordato che la nozione di “autonomia” investe in primo luogo gli aspetti
istituzionali e sottintende l’esistenza di un legame di subordinazione del potere autonomo di
livello inferiore a quello superiore dal quale promana. Per questo motivo, la componente
normativa sottesa al predetto potere di autodeterminazione risulta pur sempre presente ma, lungi
dal definirsi sovrana, deve essere considerata limitata, eccezionale e tassativa. In altri termini,
mentre la sovranità é espressione di un potere originario, l’autonomia si realizza sempre in un
potere di carattere derivato, che trae la sua legittimazione dal riconoscimento espresso da un
potere superiore.
L’attribuzione dell’autonomia comporta l’esigenza di riconoscere all’ente che ne beneficia il potere
di individuare le risorse necessarie allo svolgimento delle proprie funzioni ed organizzarne la
relativa gestione sia nel momento dell’acquisizione sia in quello dell’erogazione delle stesse. A
questo proposito si parla di “autonomia finanziaria” che, nella più ampia e comune accezione di
questo termine, può intendersi la capacità dell’ente considerato di provvedere con propri mezzi
alle proprie necessità attraverso un potere di autodeterminazione, che si estrinseca:
- nella scelta e nell’applicazione degli strumenti di finanziamento;
- nella scelta delle modalità di impiego delle risorse finanziarie così acquisite.
Data l’ampiezza di tale nozione, essa può comprendere, dal lato delle entrate, diverse modalità di
acquisizione delle risorse (dal patrimonio, dai servizi, dai tributi), mentre esclude i trasferimenti
statali, siccome disposti dall’ente di livello superiore e da questo stabiliti nell’an e nel quantum.
L’autonomia tributaria costituisce, pertanto, soltanto un particolare profilo dell’autonomia
finanziaria: se ne ha conferma in tutti i precedenti normativi di maggiore respiro, nei quali la
disciplina della prima rappresenta soltanto parte del più ampio disegno nell’ambito del quale si
realizza la seconda (vedi in tal senso l’art. 4 della l. 421/92 nonché l’art. 3, commi da 143 a 149 e
151 della l. 662/96).
L’inquadramento come sopra definito produce concreti effetti sul piano esegetico, posto che la
Costituzione (anche dopo le modifiche in commento) disciplina l’autonomia finanziaria in senso
lato, senza fare menzione specifica dell’autonomia tributaria. In effetti, a norma del nuovo art.
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119, comma 1, “i comuni, le province, le città metropolitane e le Regioni hanno autonomia
finanziaria di entrata e di spesa”, ove, invero, quest’ultima precisazione appare anche pleonastica.
Da quanto appena detto si può dedurre che ogni qualvolta sia riconosciuta all’ente locale
l’autonomia finanziaria non potrà farsi a meno di riconoscergli anche un’ampia discrezionalità
nell’adozione della leva fiscale, sia pure in armonia con le disposizioni in materia di fiscalità
centrale, sulle materie, secondo i criteri e all’interno dei limiti stabiliti dalla Costituzione. In effetti,
l’autonomia tributaria non costituisce componente essenziale dell’autonomia finanziaria e,
almeno in linea teorica, non può essere escluso che l’ente locale acquisisca l’autosufficienza
attraverso entrate di carattere extratributario. Tuttavia, è opinione comune che la pienezza di tale
requisito non possa sussistere se non viene attribuita all’ente locale riconosciuto come
“autonomo” la libertà di definire gli strumenti per conseguire le risorse necessarie a realizzare le
proprie funzioni.
Quanto all’autonomia tributaria, con questo termine si intende la capacità dell’ente che ne é
titolare di intervenire con proprie determinazioni nell’istituzione e nella applicazione dei tributi.
Con terminologia più specifica, anche con riferimento all’attività tributaria degli enti locali si suole
distinguere, analogamente ai corrispondenti poteri statali:
-‐ la potestà normativa in materia tributaria;
-‐ il potere di accertamento (o potestà di imposizione).
Il limite tra le due nozioni é invero estremamente sottile se solo si pensa che la dottrina
amministrativistica é rimasta divisa per decenni sul ruolo da riconoscere alle delibere dei Consigli
comunali che istituiscono tributi la cui disciplina é interamente fissata da leggi statali, oscillando
tra chi le considerava atti amministrativi generali e chi le classificava come veri e propri atti
normativi. Dal punto di vista tributario, a prescindere dalla soluzione accolta, tali atti possono
essere comunque ritenuti espressione di vera e propria autonomia tributaria, avendo la funzione
di consentire al Comune l’acquisizione di un gettito tributario da annoverare senz’altro fra le
entrate proprie. Forse proprio per dirimere tale disputa dottrinale, l’art. 117, comma 6, terzo
periodo, nuovo testo, stabilisce che “i comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite”.
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Sta di fatto che l’autonomia tributaria non costituisce una componente essenziale dell’autonomia
finanziaria e, almeno in linea teorica, non può essere escluso che l’ente locale acquisisca
l’autosufficienza aggiungendo alle risorse rivenienti dai trasferimenti statali, unicamente entrate di
carattere extratributario. In ogni caso, l'autonomia non può dirsi realizzata pienamente se non
viene attribuita all’ente locale riconosciuto come “autonomo” la libertà di definire la tipologia
degli strumenti da utilizzare per conseguire le risorse necessarie a realizzare le proprie funzioni e
stabilirne la distribuzione. D’altra parte, l’autonomia finanziaria è garantita dall’autonomia
tributaria che, comunque, è riconosciuta dalla ripartizione della potestà legislativa in materia
tributaria fra Stato e Regioni, e dalla compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al
territorio degli enti sub-‐statali.
Allo Stato compete l’individuazione dei principi fondamentali del sistema tributario nel suo
complesso (comprensivo di tributi statali, regionali e locali) nonché la perequazione delle risorse
finanziarie mentre le Regioni istituiscono e disciplinano autonomamente i tributi regionali e locali
attenendosi ai principi fondamentali stabiliti dalle leggi statali.
La perequazione (materia di legislazione esclusiva statale ex art. 117, lettera -‐ e) ha il compito di
consentire, unitamente ai tributi propri e compartecipazioni, il finanziamento integrale delle
funzioni conferite anche ai territori con minore capacità fiscale per abitante. È inoltre prevista la
possibilità di finanziamenti ulteriori per favorire lo sviluppo economico e garantire in ciascuna
regione l’esercizio dei diritti sociali.
3.e.3. Il sistema fiscale locale: precedenti storici e situazione attuale
Il sistema fiscale federale che scaturirà al termine del processo di riforma in atto tende a ridurre
l’ammontare dei trasferimenti statali favorendo la crescita dell’autonomia finanziaria e,
segnatamente, tributaria degli enti territoriali, ripristinando (sebbene su basi alquanto diverse) la
situazione esistente nel passato meno recente.
In effetti, prima della Riforma Tributaria varata con legge delega 9 ottobre 1971 n. 825 gli enti in
questione (specialmente i comuni) erano dotati di una consistente autonomia tributaria basata
sull'applicazione di un articolato apparato di tributi, diretti e indiretti, istituiti con leggi statali e
disponevano di strutture e di organici dedicati in modo specifico alla funzione tributaria.
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La Riforma Tributaria del 1971 segnò un passo indietro non solo rispetto alla situazione
preesistente ma anche rispetto alle aperture al decentramento finanziario presenti in misura
notevole già nella stesura originaria del Titolo V della Costituzione. Infatti, con la Riforma furono
attribuiti alle regioni ed alle province tributi insignificanti mentre, per esigenze di coerenza interna
e di compatibilità comunitaria, furono soppressi tributi comunali di grande rilievo, non solo per
l'entità del gettito che se ne ritraeva (come le imposte di consumo e dazi) ma anche per la
funzione che espletavano nel quadro della politica fiscale del Paese (come l'imposta di famiglia),
senza però sostituirli con altri tributi di pari importanza. D'altra parte, l'entrata in funzione delle
regioni a statuto ordinario (disposta con legge 16 maggio 1970 n. 281) aveva appena dato luogo ad
un massiccio trasferimento di funzioni dallo Stato alle regioni e da queste agli enti locali,
generando nel bilancio di tali enti un forte squilibrio tra entrate ed uscite che veniva ripianato con
sistematici trasferimenti di risorse statali.
La legge n. 281 del 1970 (cui hanno fatto seguito la legge 10 maggio 1976 n. 356, avente carattere
transitorio, e le varie leggi finanziarie annuali), costituisce ancora oggi il nucleo normativo
essenziale della finanza regionale. La sua disciplina ha ridotto notevolmente l’autonomia tributaria
regionale, riduzione in parte giustificata sulla base della necessità perseguita dallo stesso
Costituente (art. 119 vecchio testo) di garantire il “coordinamento” tra i vari sistemi finanziari
nell’ottica dell’unicità del sistema impositivo e, dall’altra, per la subordinazione dell’esercizio della
potestà tributaria regionale al principio costituzionale della riserva di legge (art. 23 Cost.) in
materia impositiva.
L’approvazione della legge n. 281 era stata preceduta da un vivace dibattito, alla fine del quale il
legislatore aveva deciso di adottare una soluzione di compromesso, dettata dall’esigenza di
rimuovere gli ostacoli per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario. Dibattito in cui il problema
più frequentemente sollevato dalle forze antiregionaliste era quello del costo degli apparati delle
nuove strutture e del reperimento dei mezzi occorrenti per finanziarle.
In base all’art. 1 della legge sono stati attribuiti alle regioni come “tributi propri” l’imposta sulle
concessioni statali dei beni del demanio e del patrimonio disponibile, le tasse sulle concessioni
regionali, la tassa regionale di circolazione (oggi sostituita dall’imposta provinciale sulla proprietà
dei veicoli) e la tassa per l’occupazione di spazi e di aree pubbliche regionali. Erano inoltre
attribuiti alle regioni il gettito delle imposte erariali immobiliari e le quote del gettito di alcuni
tributi erariali che affluivano ad un apposito fondo comune.
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Questi tributi, per la maggior parte appartenenti alla categoria delle tasse, producevano un gettito
esiguo, tale da non soddisfare le esigenze di autonomia finanziaria delle regioni anche per il ruolo
fortemente ridotto del potere normativo delle regioni. Per ciascuno dei detti tributi, infatti, la
stessa legge n. 281/70 stabiliva i presupposti-‐base, i soggetti passivi, le modalità di accertamento e
riscossione, nonché le aliquote minime e massime.
A causa di questa drastica riduzione di poteri impositivi, gli uffici tributari a suo tempo istituiti dagli
enti locali (specialmente dai comuni) divennero esuberanti rispetto alle più ridotte esigenze da
soddisfare e dispersero ben presto il bagaglio di esperienze e di professionalità che avevano
acquisito nel tempo. Le regioni, d'altro canto, non ebbero mai la necessità di creare simili strutture
per la semplicità e le dimensioni ridotte del gettito dei tributi rientranti nelle loro dirette
competenze.
E, comunque, anche quando la legge statale attribuiva in tutto o in parte agli enti locali il gettito di
alcuni tributi ne manteneva saldamente la “gestione” nelle mani dello Stato intervenendo poi, con
provvedimenti di carattere solo nominalmente provvisorio, per differire sine die finanche il
momento della devoluzione del gettito agli enti locali. In questo senso è stata significativa
l'esperienza dell'imposta locale sui redditi (ILOR) e dell'imposta comunale sugli incrementi di
valore degli immobili (INVIM).
Va anche ricordato che l'accentramento nel bilancio dello stato della gran parte delle entrate
tributarie era giustificato dagli effetti positivi che si riteneva potessero derivarne in termini di
efficienza complessiva del sistema, quali la semplificazione dei procedimenti di applicazione dei
tributi e la riduzione dei costi amministrativi.
Il quadro così delineato non ha subito sostanziali modifiche nemmeno quando, a partire dagli anni
novanta del secolo scorso, fu avviato un intenso dibattito in ordine alla necessità di porre mano
alla Costituzione per modificare la struttura dello Stato in senso federale. In quel periodo, tenuto
conto dei tempi lunghi di una riforma costituzionale, si iniziò a teorizzare il cosiddetto
“federalismo fiscale possibile” per introdurre nell'ordinamento i principi di una maggiore
autonomia tributaria degli enti locali anche in assenza di modifiche alla Costituzione. A seguito di
ciò furono introdotte, tra l'altro, l’ICIAP (imposta comunale sull’esercizio di imprese, arti e
professioni) a partire dal 1989, l'imposta comunale sugli immobili (ICI) a partire dal 1994, e, dal
1998, l'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), esaminata in altra parte del testo.
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Tuttavia, nemmeno l'istituzione di questi nuovi tributi ha prodotto sostanziali ripercussioni
sull'organizzazione degli uffici degli enti titolari.
A dire il vero, i comuni, specie quelli più grandi, hanno attivato specifici servizi per la gestione
dell'ICI (talvolta demandandone in tutto o in parte la realizzazione a società pubbliche locali),
anche se essi non erano (e non lo sono tuttora) posti in condizione di conoscere la base imponibile
di questo tributo attraverso modalità di accesso diretto allo strumento istituzionale che ne
determina la consistenza (il catasto), la cui gestione è affidata alla competenza statale (Agenzia del
territorio).
La gestione dell'IRAP, invece, è stata attribuita interamente all'Agenzia delle Entrate, escludendo
le regioni da ogni connesso onere, non solo perché queste erano prive dell'organizzazione e della
preparazione tecnica necessaria ma anche per la stretta connessione tra la base imponibile di
questa imposta e quella delle imposte erariali sul reddito (IRPEF e IRES), con le quali essa è
dichiarata e liquidata.
Sotto il profilo della collaborazione nella gestione dei tributi tra gli enti territoriali e lo Stato,
assume particolare interesse l'esperienza dell'imposta provinciale di trascrizione, iscrizione e
annotazione di veicoli nel Pubblico Registro Automobilistico (PRA) che ha sostituito, dal 1999, la
preesistente imposta erariale nell’ottica del segnalato ritorno all’autonomia tributaria di questi
enti. Il tributo in questione è riscosso dall’A.C.I. – Automobile Club d'Italia (ente pubblico non
economico a carattere nazionale incaricato per legge della tenuta del PRA) all'atto
dell'annotamento delle formalità soggette all'imposta. In questo caso l'ente locale non viene
gravato di alcun onere di gestione in quanto il controllo della dell'esistenza e della misura del
presupposto del tributo è di competenza dell'A.C.I., che ne constata altresì l'avvenuto versamento,
al quale subordina l'esecuzione della formalità. Ne discende che l'ente titolare del tributo è
esonerato dalle relative attività di gestione per effetto della scelta fatta dalla legge in ordine alla
natura del presupposto impositivo (il compimento di formalità soggette ad iscrizione nel PRA).
Nel processo che ha introdotto maggiori elementi di decentramento nel sistema delle autonomie
locali delineato dalla legge di riforma tributaria del 1971 ha avuto certamente un ruolo di rilievo la
legge 8 giugno 1990, n. 142. La portata innovativa della legge è legata ad una forte affermazione
del principio di autonomia a favore delle province e dei comuni, che in materia tributaria è stato
espresso nell’attribuzione ai detti enti di maggiori spazi di autonomia finanziaria (art. 2 e art. 54) e
di potestà impositiva (art. 54 comma 3).
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Anticipando il nuovo assetto codificato nel nuovo Titolo V della Costituzione, con la legge n.
142/90 viene superata la vecchia concezione che vedeva gli enti locali in posizione di
subordinazione rispetto allo Stato: comuni e province non sono più subalterni ma conquistano una
loro autonomia fondata sul potere di autodeterminazione finalizzato al raggiungimento degli
interessi generali relativi al loro territorio.
Tra i principi generali della legge n. 142/1990 (codificati nel Capo I, artt. 1-‐3), l’art. 2 stabilisce che
“le comunità locali, ordinate in comuni e province, sono autonome” (comma 1), disponendo che
tali enti “hanno autonomia statutaria ed autonomia finanziaria nell’ambito delle leggi e del
coordinamento della finanza pubblica” (comma 4), autonomia che deve essere “fondata su
certezza di risorse proprie e trasferite” ( art. 54, comma 2). La legge riconosce agli enti locali anche
“potestà impositiva autonoma nel campo delle imposte, delle tasse e delle tariffe con conseguente
adeguamento della legislazione tributaria vigente” (art. 54 comma 3).
L’art. 1 comma 3 della nuova legge sulle autonomie locali ripropone, poi, una sorta di principio di
fissità (introdotto dalla legge 7 gennaio 1929, n. 4, in materia di sanzioni tributarie) affermando:
“ai sensi dell’art. 128 della Costituzione, le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe
ai principi della presente legge se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni”. In
tal modo, il legislatore costituente in tema di autonomia di province e comuni ha voluto limitare la
potestà legislativa dello Stato, escludendo quella delle regioni ed inserendo l’autonomia di tali enti
“nell’ambito di principi fissati da leggi generali della Repubblica”. Con tale previsione si è inteso
attribuire stabilità all’ordinamento delle autonomie locali.
L’art. 54 della legge n.142/90, dedicato alla “finanza locale”, contiene principi generali di grande
rilievo che hanno guidato la legislazione degli anni seguenti anticipando, per certi versi, la svolta
federalista introdotta con la legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha modificato il Titolo V della
Costituzione. Molto si è discusso in dottrina sulla natura programmatica o precettiva di tale
disposizione, tuttavia la successiva legislazione generale in materia di finanza locale e soprattutto
la legge n. 158/1990 e la legge n. 421/1992 si sono dimostrate attuative dei principi sanciti dall’art.
54.
Il confronto tra art. 54 comma 1 “ordinamento della finanza locale” e art. 55 comma 1
“ordinamento finanziario e contabile degli enti locali”, indurrebbe a considerare il concetto di
finanza locale in senso ampio, ossia come sistema delle entrate e delle uscite finanziarie degli enti
locali, e quindi come un concetto equivalente a quello di ordinamento finanziario e contabile degli
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enti locali. Il legislatore ha invece contrapposto questi due sistemi, intendendo il primo come
sistema delle entrate e il secondo come complesso di norme disciplinanti la spesa, il patrimonio, il
bilancio, i contratti.
I commi 2 e 3 dell’art. 54 riprendono con maggiori precisazioni quanto formulato nell’art. 2
comma 4 riportando l’autonomia impositiva degli enti locali “nell’ambito delle leggi e del
coordinamento della finanza pubblica” e riconducendo alla legge l’autonomia finanziaria dei
comuni e delle province fondata sulla certezza di risorse proprie e trasferite (art. 54 comma 2). Il
legislatore, con le successive leggi n. 158/1990 e n. 421/1992, ha completato il processo di
trasformazione della finanza locale da finanza essenzialmente derivata a finanza mista, secondo
quanto previsto dal testo originario del’art. 119 della Costituzione. In virtù dei maggiori poteri di
acquisire proprie entrate, gli enti locali hanno così ottenuto una più ampia autonomia di indirizzo
politico-‐amministrativo.
Il riconoscimento agli enti locali di autonomia finanziaria “nell’ambito delle leggi e del
coordinamento della finanza pubblica” trova un preciso riscontro sul piano costituzionale con il
necessario coordinamento tra la finanza dello Stato, quella delle regioni, delle province e dei
comuni, imposto dall’art. 119.
E’ infine opportuno ricordare che il decreto legislativo n. 56 del 2000 ha dato attuazione ad un
sistema di federalismo fiscale relativo al processo di decentramento amministrativo a costituzione
invariata avviato con la legge n. 59 del 1997, cui è seguito il d.lgs. n. 112 del 1998 e quindi le leggi
regionali generali che ad esso hanno dato completamento.
Nel giudizio espresso nel 2005 dall’Alta Commissione di studio per la definizione dei meccanismi
strutturali del federalismo fiscale, tale decreto, se da un lato ha permesso un passo in avanti
rispetto al precedente sistema della finanza derivata, dall’altro si è dimostrato, nella sua
applicazione concreta, foriero di gravi complicazioni e distorsioni.
É indubbio che il d.lgs. n. 56 del 2000 mirava a segnare il punto d’arrivo di una fase, iniziata negli
anni Novanta, in cui si è dato impulso alla finanza degli enti territoriali per adeguarla finalmente al
disegno costituzionale del 1948. Infatti, nonostante la Costituzione, nella versione originale,
riconoscesse già significativi spazi di autonomia finanziaria agli enti territoriali, e in particolare alle
Regioni, fino agli anni Ottanta si è assistito ad un sistema finanziario regionale e locale fortemente
dipendente dallo Stato. Il d.lgs. n. 56 del 2000 voleva quindi permettere un passo in avanti nel
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processo del regionalismo italiano: il sistema di finanziamento regionale, fino ad allora basato su
trasferimenti statali vincolati nella destinazione, veniva sostituito dalla compartecipazione
all’IVA, da un aumento dell’addizionale IRPEF e della compartecipazione all’accisa sulle benzine.
Quanto al meccanismo perequativo, è stato istituito in tal senso un fondo, alimentato dalla
compartecipazione all’IVA.
Alla resa dei fatti, il d.lgs. n. 56 del 2000 ha prodotto risultati decisamente inferiori alle aspettative:
non è stato garantito quell’automatismo nella ripartizione delle risorse fra centro e periferia che,
nelle intenzioni degli estensori del decreto, avrebbe dovuto esaltare
l’autonomia finanziaria di Regioni ed Enti locali mediante la certezza di disponibilità finanziarie
adeguate rispetto alle necessità di spesa.
Soprattutto non si è trovata un’adeguata soluzione alle problematiche connesse alla sistematica
sottostima dei fabbisogni sanitari regionali, con la permanente necessità di ricorrere a forme di
ripiano ex post. Tutto ciò, unitamente ai forti ritardi nelle erogazioni effettive da parte dello Stato,
ha causato alle regioni notevoli difficoltà operative. Riguardo ai meccanismi perequativi, poi, il
d.lgs. n. 56 del 2000 ha introdotto un modello “ibrido”, che, pur mantenendo una connotazione
essenzialmente verticale (in quanto imperniato sul ruolo dello Stato come gestore principale del
Fondo perequativo nazionale), presenta anche elementi diretti a rendere evidente la distinzione
fra Regioni contribuenti nette e Regioni beneficiarie nette. In tal modo, lungi dall’individuare
un’efficace soluzione di compromesso, si sono cumulati i difetti principali dei due modelli estremi
della perequazione verticale e della perequazione orizzontale, ovvero i rischi, nel primo caso, di
ingerenze dello Stato nei confronti della finanza regionale e locale, e, nel secondo, di conflitti
distributivi fra enti ricchi ed enti poveri. Rischi che si sono puntualmente tradotti in concrete
difficoltà operative, anche a causa degli stessi meccanismi perequativi del d.lgs. n. 56 del 2000.
Questi meccanismi, infatti, sono stati fondati (sia pure parzialmente) sul riequilibrio delle capacità
fiscali, ma sono stati imperniati su tributi distribuiti in modo fortemente disomogeneo sul
territorio nazionale, come l’IRAP e l’IRPEF. Questa disomogeneità nella distribuzione ha indotto
ulteriori forti disuguaglianze territoriali, attenuando sensibilmente il carattere solidale del nostro
federalismo fiscale, senza d’altra parte essere in grado di stimolare maggior efficienza nella
gestione del denaro pubblico.
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3.e.4. Il federalismo fiscale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione
Al momento dell’approvazione della legge n. 42/09, con la quale il legislatore ha conferito delega
al Governo per la fissazione dei principi di coordinamento tra finanza statale e finanza locale, si
doveva fronteggiare questa complessa situazione.
La legge delega del 2009 (art. 2, comma 2, lettera p), nella ripartizione delle basi imponibili tra i
vari livelli di governo, impone il rispetto del c.d. principio di continenza, per il quale l’interesse
espresso dal presupposto del tributo proprio dell’ente sub-‐statale deve rientrare negli interessi
compresi nell’elencazione delle materie attribuite alla sua competenza. In tal modo, il legislatore
delegante si riporta implicitamente al principio della responsabilità vincolando l’ente locale ad
acquisire le risorse finanziarie di cui necessita attingendo a tributi riferibili all’esercizio delle
proprie funzioni.
Oltre al richiamo contenuto nella lettera p), i criteri di responsabilizzazione dell’ente locale
risultano evidenti almeno in due dei principi generali indicati nell’articolo 2, comma 2, della legge
delega:
-‐ quello indicato alla lettera a) “autonomia di entrata e di spesa e maggiore
responsabilizzazione amministrativa, finanziaria e contabile di tutti i livelli di governo”;
-‐ quello di cui alla lettera z) “premialità dei comportamenti virtuosi ed efficienti
nell’esercizio della potestà tributaria”.
Analoghi richiami sono desumibili dall’articolo 17 della legge delega che, fissando i principi e criteri
direttivi relativi al coordinamento e alla disciplina fiscale dei diversi livelli di governo, elenca (tra
l’altro): b) il rispetto degli obiettivi del conto consuntivo; d) l’individuazione di indicatori di
efficienza.
Va tenuto presente, infine, che la responsabilità degli amministratori locali si può desumere anche
dal richiamo al principio del beneficio, menzionato allo stesso articolo 2, comma 2, lettera p), della
legge delega, ove si evidenzia come attraverso questo richiamo sia possibile “favorire la
corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa” dell’ente territoriale.
Il potere impositivo devoluto agli enti territoriali è tutt’altro che illimitato. In questa ottica la legge
n. 42/09 distingue tra tributi propri “in senso stretto” e tributi propri “in senso lato”, anche detti
derivati.
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Un tributo è proprio della regione (o dell’ente locale) solo se esso è il frutto dell’esercizio della
potestà normativa esclusiva della regione ex articolo 117, comma 4, e non se sussistono altre
circostanze, come l’attribuzione all’ente sub-‐statale del gettito o del potere di accertamento o di
riscossione di un tributo istituito con legge dello Stato.
I tributi propri in senso stretto devono essere previsti da una legge regionale, dato il principio della
riserva di legge ex art. 23 Cost. Il d.lgs. 42/09, rispettando il principio di continenza
precedentemente accennato, limita l’istituzione di tributi propri regionali solo “ai presupposti non
già assoggettati ad imposizione erariale” . Le province e i comuni possono istituire con proprio atto
il tributo locale solo se previsto nella legge regionale (art. 2, comma 2, lettera q).
I tributi propri derivati potranno essere istituiti da regioni ed enti locali solo nell’ambito dello
spazio normativo ad essi attribuito dalla legge statale competente a disciplinare il tributo
principale. Alla regione o all’ente locale è attribuita la possibilità di stabilire le aliquote entro un
ambito definito e l'applicazione di esenzioni, riduzioni o detrazioni nei limiti e secondo criteri
fissati dalla legislazione statale.
Il d.lgs. 42/09 attribuisce alle regioni la possibilità di istituire:
a) tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle regioni;
b) le addizionali sulle basi imponibili dei detti tributi;
c) tributi propri istituiti dalle regioni con proprie leggi in relazione a presupposti non
assoggettati ad imposizione erariale (art. 11, lett. d).
Ai decreti attuativi della delega compete poi l’individuazione dei tributi propri dei comuni e delle
province, anche in sostituzione o trasformazione di tributi già esistenti e anche attraverso
l’attribuzione agli stessi comuni e province di tributi o parti di tributi erariali, definendone
presupposti, soggetti passivi e basi imponibili, stabilendo le aliquote di riferimento valide per tutto
il territorio nazionale e garantendo una adeguata flessibilità. Anche le regioni potranno istituire
tributi applicabili dagli enti locali nelle materie di competenza e in relazione a presupposti non
assoggettati ad imposizione erariale.
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3.e.5. I cosiddetti tributi di scopo
La legge delega (art. 11, comma 1, lettera b) prevede poi l’adozione di uno o più tributi propri
comunali che, valorizzando l’autonomia tributaria, attribuiscano all’ente la facoltà di stabilirli e
applicarli in riferimento a particolari scopi quali la realizzazione di opere pubbliche e di
investimenti pluriennali nei servizi sociali ovvero il finanziamento degli oneri derivanti da eventi
particolari quali flussi turistici e mobilità urbana. Anche per le province è prevista la disciplina di
uno o più tributi propri provinciali che, valorizzando l’autonomia tributaria, attribuiscano all’ente
la facoltà di stabilirli e applicarli in riferimento a particolari fini istituzionali. Si tratta dei cosiddetti
tributi di scopo.
La definizione “tributo di scopo” individua un prelievo fiscale – sia proprio che proprio derivato – il
cui gettito è vincolato, sin dall’istituzione del tributo, al finanziamento di specifiche attività che
costituiscono la ragione in forza della quale il tributo è stato stabilito e concorrono ad individuare i
soggetti passivi.
Il tributo di scopo è stato ritenuto idoneo a valorizzare la gestione dei beni pubblici soggetti a
fenomeni di congestione, per l’opportunità di destinarne il gettito al finanziamento della
realizzazione di infrastrutture utili a risolvere i problemi derivanti dal sottodimensionamento di
infrastrutture particolarmente richieste dalla collettività. Ciò consentirebbe di affiancare alla
funzione correttiva dei tributi regolatori della congestione disegnati sul modello pigouviano anche
le caratteristiche tipiche delle vere e proprie imposte di scopo.
Con la riforma del titolo V della Costituzione queste materie sono passate alla competenza locale
e, in forza del principio di continenza, è compito degli enti locali disciplinare i tributi destinati al
finanziamento dell’attività pubblica regolatrice della materia in questione. La recente
sperimentazione dei ticket d’ingresso ai centri urbani rientra in queste tipologie (dopo l’esempio
trainante di Londra anche Milano ha adottato misure simili).
Ma, anche in assenza di fenomeni di congestione, il tributo di scopo può essere uno strumento
utile alla realizzazione di infrastrutture locali per ridurre il livello di indebitamento dei comuni.
In una cornice come quella dettata dal Titolo V, nella quale allo Stato (oltre alle funzioni classiche
della politica estera, della difesa e della sicurezza) rimangono tendenzialmente le spese per
trasferimenti (interessi e pensioni) – mentre ai governi locali spetta la gestione di un gruppo assai
vasto di servizi – i tributi autonomi da istituire vanno in particolare ricercati tra i tributi causali o
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paracommutativi. Questi tributi hanno quale presupposto un potenziale vantaggio goduto dal
contribuente o la necessità di compensare un danno da questi procurato. Essi ben si distinguono
dall’imposta, per sua natura acausale.
Il tributo di scopo è apparso in contrasto con il principio dell’unità di bilancio, desumibile dall’art.
81 della Costituzione,, che si sostanzia nella previsione per cui ogni entrata e ogni spesa deve
essere riferita ciascuna alla categoria cui appartiene e non vi possono essere collegamenti tra
singole entrate e singole spese.
Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare l’importanza del principio, quale
strumento necessario al controllo della Corte dei Conti siccome idoneo a garantire la
rappresentazione chiara di tutta la gestione finanziaria dello Stato . Il principio dell’unità di bilancio
è lo strumento che consente una più agevole ricostruzione delle linee guida dell’amministrazione
della cosa pubblica perché permette di avere una visione globale dei flussi finanziari gestiti, sia in
entrata che in uscita. Inoltre è utile ai fini della possibilità di emendare e modificare il bilancio
dopo la sua approvazione perché consente di valutare con precisione le conseguenze delle
modifiche sul complesso equilibrio della finanza pubblica.
Lo schema, proprio degli ordinamenti accentrati, nel momento della trasformazione dello Stato da
oligarchico a pluriclasse si dota di un ordinamento finanziario capace, per mezzo della legge di
bilancio, di consentire all’assemblea rappresentativa di avere il controllo costante e il dominio dei
flussi finanziari dello Stato. Il decentramento ricostruisce ai vari livelli questa forma di governo ma
attuando un controllo gerarchico indiretto attraverso i vincoli di destinazione in materia
finanziaria. Non è un caso che la Corte Costituzionale, dopo la modifica del Titolo V, nell’attesa
della legge di coordinamento della finanza pubblica, abbia da subito censurato la pratica dei
trasferimenti erariali con vincolo di destinazione, dato il parallelismo fra i vari organi della
Repubblica previsto nella nuova stesura della Costituzione.
È per questo significativa la disposizione contenuta al punto e) dell’art. 7, della legge n. 42/09 che
lascia privo di vincolo di destinazione il gettito dei tributi regionali derivati e le compartecipazioni
al gettito dei tributi erariali.
A livello locale, si ritiene che l’interesse politico al principio dell’unità di bilancio sia minore che a
livello nazionale e ciò consente di poter superare le remore di ordine tecnico-‐contabile qualora i
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benefici ritraibili dalla nuova misura consentano di ampliare l’ambito di intervento
dell’amministrazione comunale.
Del resto, anche prima delle modifiche al Titolo V della Costituzione, le norme in materia di finanza
degli enti locali già prevedevano numerose eccezioni al principio di unità del bilancio riguardanti:
-‐ le entrate a destinazione vincolata per disposizione dello Stato o della regione;
-‐ i proventi delle concessioni edilizie;
-‐ i proventi da condono edilizio a destinazione vincolata ai sensi della legge n. 47/85;
-‐ i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni al codice della strada;
-‐ i mutui di scopo;
-‐ i lasciti.
Ad ogni buon conto, data la natura di legge ordinaria delle norme che prevedono il principio,
l’introduzione di un’ulteriore deroga al principio dell’unità di bilancio degli enti locali è pienamente
legittima ed è divenuta alquanto frequente tenuto conto della diversità rispetto al livello nazionale
e regionale delle politiche perseguite in sede locale. Il comune non ha, infatti, il compito di
approntare politiche economiche anticicliche o di incentivo allo sviluppo, potendo limitarsi a
garantire i servizi pubblici e le funzioni amministrative che gli competono nel rispetto del principio
di sussidiarietà previsto dall’art. 118 della Costituzione (TUEL) e dal comma quinto dell’art. 3 del
Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con d.lgs. 18 agosto 2000, n.
267.
Altro problema è quello della rilevanza del vincolo di destinazione: si tratta di chiarire se il vincolo
di destinazione debba essere sempre rispettato e se, in caso di impiego del gettito ad altri scopi,
esso consenta di ritenere il tributo atto a concorrere alle pubbliche spese.
Va osservato, al riguardo, che la legittimità della categoria delle imposte con destinazione
determinata è stata riconosciuta partendo dalla giuridicità del nesso tra l’imposta e la spesa
pubblica cui essa è destinata. Sia pure limitatamente all’ipotesi in cui il soggetto passivo sia
particolarmente interessato al servizio, le due condizioni della legittimità e dell’interesse
coesistono in uno stesso soggetto, autorizzando quest’ultimo, nel caso di distrazione, a
promuovere un giudizio e a sollevare in quella sede l’eccezione di legittimità costituzionale per
violazione dell’art. 81, quarto comma, della Costituzione, che richiede per ogni legge la previsione
della copertura delle “nuove e maggiori spese” esprimendo un favor nei confronti dell’imposizione
vincolata a spese determinate.
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Tuttavia, il rapporto tra le prestazioni delle parti (da un lato il contribuente fruitore del servizio e,
dall’altro, l’amministrazione) non integra mai la fattispecie di uno scambio sinallagmatico. Non si
ha quindi mai vero scambio, vera commutatività. Piuttosto il finanziamento specifico della
“peculiare esigenza sociale” cerca di conciliare il principio del beneficio (presunto) e quello di
capacità contributiva, nel senso di coprire una parte delle spese con un prelievo quantificato in
una cifra inferiore al costo individuale medio del servizio e l’altra parte con mezzi acquisiti dalla
finanza pubblica nelle forme normali.
I pochi studi sulla costruzione e la legittimità di prelievi di scopo riconoscono il principio del
beneficio come il criterio ispiratore del riparto dei carichi pubblici, giustificandolo nell’ottica della
ricerca di una correlazione fra soggetti passivi e fruitori dei servizi finanziati dal vincolo di
destinazione. Ma non si tratta, è bene sottolinearlo, di attribuire una autonoma rilevanza ai sensi
dell’art. 53 della Costituzione al godimento del servizio pubblico. Questa rilevanza, semmai, può
essere indiretta e sorgere dopo aver stabilito che il presupposto manifesta di per sé una idoneità
economica alla contribuzione. Il principio del beneficio rappresenta così un razionale criterio di
riparto del prelievo locale idoneo a giustificare il maggior carico tributario che grava su
determinati cespiti rispetto ad altri (diventa utile in altre parole in sede di giustificazione della
discriminazione qualitativa).
Ad oggi gli esempi di tributi di scopo nel nostro ordinamento sono pochi. Oltre ad alcuni tributi
ambientali, come il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (legge 549/1985),
l’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili o la Tarsu, è di particolare interesse
fare un accenno all’imposta di scopo per la realizzazione di opere pubbliche (ISOP).
Introdotta dalla legge finanziaria per il 2007, si tratta di una sovrimposta all’ICI finalizzata al
finanziamento di opere pubbliche fino ad un massimo del 30% dell’importo complessivo,
individuate tra alcune ipotesi tassativamente indicate dalla legge. L’ISOP può essere applicata per
un massimo di cinque anni. Il regolamento comunale istitutivo del tributo determina: aliquota
(nella misura massima della 0,5 per mille); esenzioni, riduzioni o detrazioni in favore di
determinate categorie di soggetti, opera pubblica e ammontare della spesa da finanziare, modalità
di versamento degli importi dovuti. La legge prevede poi il diritto dei contribuenti al rimborso nel
caso in cui non si dovesse dare l’avvio ai lavori entro i due anni dalla data prevista dal progetto
esecutivo, costituendo così nuove situazioni giuridiche soggettive tutelabili in capo ai contribuenti.
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Il decentramento politico-‐amministrativo introdotto dal nuovo Titolo V della Costituzione, nonché
gli impegni assunti dagli Stati membri dell’Unione Europea, richiedono l’adozione di politiche
finanziarie rigorose che frenino la crescita del debito nazionale, nutritosi, nei decenni
dell’esplosione del debito pubblico italiano, della gestione deresponsabilizzata di una finanza
locale totalmente derivata. La necessità di porre un freno alle spese degli enti locali e quella di
responsabilizzare gli amministratori da un lato comportano, oltre al vincolo del pareggio di bilancio
previsto dal TUEL, le restrizioni in ordine alle possibilità di investimento da parte degli enti locali;
dall’altro prescrivono una più agevole individuazione delle responsabilità politiche locali connesse
alle esplicazioni delle attività pubbliche.
In questo quadro, l’ISOP rappresenta il tentativo di introdurre nuove forme di finanziamento degli
investimenti decisi a livello locale. Si presenta, quindi, come uno strumento a disposizione degli
amministratori locali per reperire finanziamenti di spese per investimento, nel momento in cui
diminuiscono i fondi erariali, sono previsti stringenti vincoli di bilancio, è limitata la possibilità di
accendere mutui o emettere titoli obbligazionari.
L’ISOP si mostra tanto più utile laddove il ricorso ai canali di finanziamento per la realizzazione di
opere pubbliche basato su procedure paraprivatistiche, quali il project financing, è più difficile per
le ridotte dimensioni dei comuni. Tuttavia scarsa ne è stata l’applicazione. Segno, forse, che è la
classe politica a non essere pronta a quella responsabilizzazione nella gestione della finanza
pubblica da tutti auspicata.
Ad ogni buon conto, fino a quando non saranno emanati i decreti delegati previsti dalla legge n.
42/09, l’ISOP rimane ancora in vigore, sia pure su una base imponibile più ridotta a causa della
intervenuta esenzione dall’ICI delle prime case. E, d’altra parte, anche il nuovo sistema della
fiscalità locale che, da un lato, è così marcatamente orientato ai principi del beneficio, della
continenza e della responsabilità e, dall’altro, è stretto nell’angolo dalla pressoché completa
copertura di ogni fattispecie tributaria all’interno della fiscalità erariale, potrebbe avere un
interessante sostegno da tributi di questo tipo.