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Lineamenti di una teoria degli oggetti sociali Febbraio 2005. In corso di pubblicazione in A. Bottani-R. Davies (a c. di), Ontologia della proprietà intellettuale, Milano, Angeli Maurizio Ferraris 1.“Una immensa ontologia invisibile” 1.1. La birra di Searle John Searle inizia la sua ontologia sociale 1 sottolineando il fatto che gli oggetti di cui si occupa sono ovvi (almeno in apparenza), non riducibili alla fisica, e invisibili. Sembrano tre caratteri difficilmente compatibili, eppure non è così, come si vede nella scenetta raccontata da Searle: “Io entro in un caffè a Parigi e siedo a un tavolino. Viene il cameriere e io pronuncio un frammento di una frase francese. Dico: ‘Un demi, Munich, à pression, s’il vous plaît’. Il cameriere porta la birra e io la bevo. Lascio del denaro sul tavolo e me ne vado.” Apparentemente, tutto è visibile: le birre, i tavolini, i camerieri, il denaro ecc. Ma non è così: la scena non è tanto semplice, e soprattutto non è affatto interamente visibile. Prosegue Searle qualche riga più sotto: “Si noti che non possiamo comprendere le caratteristiche della descrizione che ho appena fornito attraverso il linguaggio della fisica e della chimica. Non c’è nessuna descrizione fisico-chimica adeguata per definire ‘ristorante’, ‘cameriere’, ‘frase in francese’, ‘denaro’ o anche ‘sedia’ e ‘tavolo’, sebbene tutti i ristoranti, i camerieri, le frasi in francese, il denaro e le sedie e i tavoli siano fenomeni fisici.” E questo è un secondo aspetto che va notato. Indubbiamente quelli che abbiamo visto sono oggetti fisici (comprese le frasi in francese); ma, come sottolinea Searle, il linguaggio della fisica non ne esaurisce le caratteristiche, visto che una frase in francese non si riduce alle vibrazioni che produce nell’aria e nel timpano. A questo punto entra in scena l’invisibile: “Va osservato, inoltre, come la scena così descritta presenti un’enorme ontologia invisibile: il cameriere non è effettivamente il proprietario della birra che mi ha portato, ma è assunto dal ristorante, al quale la birra appartiene. Al ristorante viene richiesto di registrare una lista dei prezzi di tutte le boissons, e anche se non vedrò mai questa lista si esige da me di pagare soltanto il prezzo registrato. Il proprietario del ristorante è autorizzato a esercitare dal governo francese. Come tale, è soggetto a un migliaio di norme e regolamenti di cui non so nulla. Io ho diritto di essere qui in primo luogo solo perché sono un cittadino degli Stati Uniti, in possesso di un passaporto valido, e sono entrato legalmente in Francia.” 2 Dov’è la selva degli oggetti invisibili? Eccola: “proprietario”, “assunto dal”, “richiesto di registrare”, “esercitare”, “governo”, “norme”, “regolamenti”, “diritto”, “cittadino”, “Stati Uniti”, “passaporto valido”, “Francia”… Questi sono gli oggetti sociali. E si direbbe che Searle si accinga a scrivere una appendice alla Teoria 1 Searle 1995. 2 Searle 1995: 9-10.

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Lineamenti di una teoria degli oggetti sociali

Febbraio 2005. In corso di pubblicazione in A. Bottani-R. Davies (a c. di), Ontologia della proprietà intellettuale, Milano, Angeli

Maurizio Ferraris

1.“Una immensa ontologia invisibile” 1.1. La birra di Searle John Searle inizia la sua ontologia sociale1 sottolineando il fatto che gli oggetti di cui si occupa sono ovvi (almeno in apparenza), non riducibili alla fisica, e invisibili. Sembrano tre caratteri difficilmente compatibili, eppure non è così, come si vede nella scenetta raccontata da Searle: “Io entro in un caffè a Parigi e siedo a un tavolino. Viene il cameriere e io pronuncio un frammento di una frase francese. Dico: ‘Un demi, Munich, à pression, s’il vous plaît’. Il cameriere porta la birra e io la bevo. Lascio del denaro sul tavolo e me ne vado.” Apparentemente, tutto è visibile: le birre, i tavolini, i camerieri, il denaro ecc. Ma non è così: la scena non è tanto semplice, e soprattutto non è affatto interamente visibile.

Prosegue Searle qualche riga più sotto: “Si noti che non possiamo comprendere le caratteristiche della descrizione che ho appena fornito attraverso il linguaggio della fisica e della chimica. Non c’è nessuna descrizione fisico-chimica adeguata per definire ‘ristorante’, ‘cameriere’, ‘frase in francese’, ‘denaro’ o anche ‘sedia’ e ‘tavolo’, sebbene tutti i ristoranti, i camerieri, le frasi in francese, il denaro e le sedie e i tavoli siano fenomeni fisici.” E questo è un secondo aspetto che va notato. Indubbiamente quelli che abbiamo visto sono oggetti fisici (comprese le frasi in francese); ma, come sottolinea Searle, il linguaggio della fisica non ne esaurisce le caratteristiche, visto che una frase in francese non si riduce alle vibrazioni che produce nell’aria e nel timpano.

A questo punto entra in scena l’invisibile: “Va osservato, inoltre, come la scena così descritta presenti un’enorme ontologia invisibile: il cameriere non è effettivamente il proprietario della birra che mi ha portato, ma è assunto dal ristorante, al quale la birra appartiene. Al ristorante viene richiesto di registrare una lista dei prezzi di tutte le boissons, e anche se non vedrò mai questa lista si esige da me di pagare soltanto il prezzo registrato. Il proprietario del ristorante è autorizzato a esercitare dal governo francese. Come tale, è soggetto a un migliaio di norme e regolamenti di cui non so nulla. Io ho diritto di essere qui in primo luogo solo perché sono un cittadino degli Stati Uniti, in possesso di un passaporto valido, e sono entrato legalmente in Francia.”2

Dov’è la selva degli oggetti invisibili? Eccola: “proprietario”, “assunto dal”, “richiesto di registrare”, “esercitare”, “governo”, “norme”, “regolamenti”, “diritto”, “cittadino”, “Stati Uniti”, “passaporto valido”, “Francia”… Questi sono gli oggetti sociali. E si direbbe che Searle si accinga a scrivere una appendice alla Teoria

1 Searle 1995. 2 Searle 1995: 9-10.

dell’oggetto di Meinong3, intrecciandola con I fondamenti a priori del diritto civile di Reinach4.

Infatti, da una parte, Searle sembra invitarci, con Meinong, a scartare il pregiudizio a favore del reale: la presenza fisica di tavoli e sedie non è la sola forma di presenza possibile. In qualche modo, sono oggetti persino il rotondoquadrato e Pegaso, figuriamoci poi i “cittadini degli Stati Uniti”; quando ci riferiamo a un rotondoquadrato non ci riferiamo a un ferro ligneo, quando ci riferiamo a Pegaso abbiamo in mente un oggetto diverso da Bucefalo, e quando menzioniamo i “cittadini degli Stati Uniti” non ci riferiamo (ancora) ai “cittadini dell’Iraq”.

D’altra parte –e d’accordo con Reinach- questi oggetti invisibili non sono chimere o immaginazioni, ma comportano conseguenze reali. L’ontologia invisibile non è una zoologia fantastica alla Borges, né una classificazione di gerarchie angeliche. È un mondo di leggi, istituzioni, obblighi dotati di una esistenza indipendente rispetto ai nostri singoli atti di volizione e di immaginazione. Non si identificano semplicemente con la nostra volontà e non sono fatti della stessa stoffa di cui sono fatti i sogni, visto che io prometto qualcosa lunedì e la promessa esiste ancora venerdì, quando magari ho cambiato idea o persino me ne sono dimenticato (basta che se ne ricordi il promissario, o meglio ancora che ci sia qualcosa di scritto).

Ora, come si conciliano l’invisibilità e la solidità? La risposta di Searle è che gli oggetti sociali sono oggetti di ordine superiore i cui inferiora sono costituiti da oggetti fisici, da cui traggono buona parte della loro solidità. Il prezzo è quello di 25 centilitri di un liquido, la birra; il cittadino degli Stati Uniti pesa 73 chili (e anche il cameriere ha un peso, sebbene lo ignoriamo); il denaro consiste in pezzi di metallo e di carta. Quando entriamo nel mondo sociale non accediamo a un universo spirituale, bensì a un misto di oggetti fisici e di atti psichici a cui possono (ma non necessariamente devono, visto che un accordo si può siglare con una stretta di mano) corrispondere degli atti linguistici. Il vantaggio che Searle si ripromette da questa impostazione è duplice. Da una parte, nell’immediato, riesce a sottrarre la sfera del sociale alle mani dei postmoderni, che ne fanno una materia friabile, vaga e infinitamente interpretabile. Dall’altra, questa operazione è possibile proprio perché Searle ritiene di avere superato la tradizionale contrapposizione tra scienze della natura e scienze dello spirito, visto che tra gli oggetti fisici a quelli sociali non sussiste uno iato, ma una continuità.

Vasto e commendevole disegno. Considerando però che, malgrado l’avviso di Searle, c’è un gran numero di oggetti sociali, per esempio entità complesse come gli Stati, le università o le aziende, che non possiedono una controparte fisica evidente; e che ce ne sono altri –i debiti, per esempio- che paiono non possedere per definizione alcuna controparte fisica, il legittimo desideratum della ontologia searliana chiede di essere elaborato con una griglia diversa. Incominciamo dal principio, a costo di apparire pedanti.

1.2. Realismo e Testualismo

Nel mondo ci sono soggetti e oggetti. I soggetti si riferiscono a oggetti (se li

rappresentano, li hanno in mente, se ne fanno qualcosa), ossia sono dotati di

3 Meinong 1904. 4 Reinach 1913.

intenzionalità5; gli oggetti non si riferiscono a soggetti. Gli oggetti sono di tre tipi:

1. gli oggetti fisici (montagne, fiumi), che esistono nello spazio e nel tempo indipendentemente da soggetti che li conoscono, anche se possono averli fabbricati, come nel caso di artefatti (sedie, cacciavite);

2. gli oggetti ideali (numeri, teoremi, relazioni), che esistono fuori dello spazio e del tempo e indipendentemente da soggetti che li conoscono, ma che, una volta conosciutili, possono socializzarli (per esempio, pubblicare un teorema: ma sarà la pubblicazione ad avere un inizio nel tempo, non il teorema);

3. gli oggetti sociali, che non esistono nello spazio, ma hanno una durata nel tempo, e dipendono, per la loro esistenza, da soggetti che li conoscono.

A proposito degli oggetti sociali, non possediamo solo la teoria di Searle. Anzi, abbiamo a disposizione ben quattro tipologie fondamentali:

Realismo forte Gli oggetti sociali sono solidi quanto gli oggetti fisici

Testualismo forte

ostruiti ostruiti etti

Gli oggetti fisici sono socialmente costruiti

Realismo debole Gli oggetti sociali sono csu oggetti fisici

Testualismo debole Gli oggetti sociali sono csu registrazioni (piccoli oggfisici)

Dove i nomi “realismo” e “testualismo” indicano, secondo un vecchio

suggerimento di Rorty6, la contrapposizione tra filosofi naturalisti che credono che gli oggetti esistono indipendentemente dai soggetti, e filosofi ermeneutici che credono che gli oggetti dipendano dai soggetti, proprio come i testi dipendono dagli autori; e gli aggettivi “forte” e “debole” indicano, ovviamente, il carattere più o meno stretto di questa assunzione. Si tratta di posizioni variamente diffuse e altrettanto variamente sfumate, ma credo che si possano trovare delle teste di serie che le esemplificano, per così dire, allo stato puro.

1. Il realismo forte è stato sostenuto, in aperta opposizione al positivismo giuridico, da Reinach7

2. Il testualismo forte è stato professato dai postmoderni, il cui capofila è Foucault8.

3. Il realismo debole è stato costruito in opposizione ai postmoderni da Searle9 4. Il testualismo debole è stato sostenuto da Derrida10, che passa per un

postmoderno ma, come vedremo, non lo è.

5 Brentano 1874. 6 Rorty 1982 7 Reinach 1913. 8 Foucault 1966. 9 Searle 1995. 10 Derrida 1967.

Ci si può domandare perché le teorie risultino talmente discordanti, e la risposta sta nel fatto che la tesi secondo cui gli oggetti sociali dipendono da soggetti si presta a venire interpretata (ed equivocata) in molti modi. In particolare, uno potrebbe concludere che visto che dipendono da soggetti sono soggettivi. È un errore banale, in cui tuttavia si incorre molto naturalmente, per esempio allorché si sostiene, poniamo, che una promessa è la semplice manifestazione della volontà, e non un oggetto che acquisisce autonomia sia rispetto al promittente sia rispetto al promissario. Ma ovviamente a questo punto ci si troverebbe a dover spiegare come mai, se gli oggetti sociali sono dipendenti da soggetti nel senso di essere “soggettivi”, un dipinto può essere quotato 30, 300 o 3000 euro (il che dipende chiaramente da giudizi di soggetti), ma nessuno si sognerebbe, invece, di sostenere che l’euro sia una costruzione puramente soggettiva e dipendente dai gusti.

1.3. Atto Contenuto Oggetto

Dietro a questo equivoco c’è sicuramente una tradizionale sopravvalutazione della soggettività nella costituzione del mondo (Cartesio, Hume, Kant, Nietzsche, ne riparleremo un poco trattando del Testualismo Forte), ma c’è anche una confusione un po’ più tecnica, di cui ci si è accorti pienamente solo alla fine dell’Ottocento. In fondo, visto che tutto il mondo può rappresentarsi nei soggetti, allora si potrebbe concludere (e c’è chi lo ha fatto, per esempio Schopenhauer) che il mondo è nei soggetti. Ma chiaramente non è così.

Io mi rappresento, poniamo, la Cattedrale di Strasburgo, è un atto che dipende dalla mia soggettività. Ma so anche che, diversamente dal mio malumore, non è in me, è qualcosa che c’è fuori, nel mondo. Poi posso guardare la Cattedrale di Strasburgo dipinta da Monet: è un contenuto, il modo specifico di presentazione di quell’oggetto nello stile di Monet, e che non corrisponde al mio modo di presentazione (così, se io mi rappresento un cavallo, posso facilmente immaginare che non sarà identico al cavallo che si rappresenta un altro). Infine, posso dire “la Cattedrale di Strarburgo” o “un cavallo”, e sapere che, per quanto i contenuti possono variare, l’oggetto resta lo stesso, altrimenti parlare non avrebbe senso. Atto, contenuto e oggetto non si equivalgono. La cattedrale c’è anche se non ci penso (se non c’è un mio atto), la cattedrale dipinta da Monet può non piacermi e la cattedrale che vedo a Strasburgo può piacermi (o viceversa). E questa distinzione appare decisiva proprio nel caso degli oggetti sociali. La propongo nella formulazione di Twardowski11:

Atto: processo psichico Contenuto: iscrizione idiomatica Oggetto: idea comune

Questa distinzione, poi recepita anche da Meinong12 e –sebbene con diverse terminologie- da Husserl13 e da Frege14, insiste per l’appunto sulla differenza

11 Twardowski 1894. 12 Meinong 1904. 13 Husserl 1901-1901. 14 Frege 1892.

essenziale che intercorre tra “atto” (il fatto che io pensi qualcosa), “contenuto” (il modo specifico di presentazione dell’oggetto intenzionato nel mio pensiero) e “oggetto” (la sfera ideale e comune di riferimento, il contenuto comune, per esempio, a tutti coloro che pensano all’oggetto designato dalla parola “cavallo”, “horse”, “Pferde”, e indipendentemente dal fatto che il loro modo di presentazione –il contenuto- risulti, individualmente, un cavallo bianco, nero, pezzato, grande, piccolo ecc.)

Distinguere l’atto dal contenuto, e soprattutto dall’oggetto, era stata una mossa resa necessaria per replicare allo psicologismo, cioè alla riduzione della logica alla psicologia15 che aleggiava in molti settori nell’Ottocento, e dunque ha una genesi nell’ambito del problema degli oggetti ideali. Da questo punto di vista appare particolarmente eloquente la distinzione di Frege tra senso (“Sinn”, il modo di presentazione, per esempio “Espero” e “Fosforo”) e significato o riferimento (secondo le diverse traduzioni di “Bedeutung”, dove il riferimento comune di “Espero” e “Fosforo” sarebbe “Venere”). Ed è in questo quadro che si era generata quella figura, un po’ mitologica ma necessaria, che sarebbe il terzo regno delle idee, l’oggettività ideale indipendente sia dai singoli atti psicologici di chi pensa, sia dai modi di presentazione dei pensieri16.

Che io sappia, e spero che si avrà modo di notarlo nelle pagine che seguiranno, l’applicazione di questa distinzione agli oggetti sociali è stata molto meno netta e sistematica, sebbene, come osservavo prima, sia proprio in questa sede che appare urgente e decisiva. In altri termini, se ormai nessuno se la sentirebbe di affermare che il principio di contraddizione dipende da come è fatto il nostro cervello, ancora in molti sono disposti a sostenere che la forma degli oggetti sociali dipende dall’arbitrio delle persone.

Oltre a questo problema macroscopico17, ne sorgono parecchi altri, che affronterò poco alla volta nelle prossime pagine. Per questo vorrei illustrare in breve la mia strategia. Come ho anticipato, escluderò subito il realismo forte e il testualismo forte, esaminerò il realismo debole, ne indicherò una difficoltà, e poi mostrerò come, a mio avviso, questa difficoltà sia risolta dal testualismo debole.

15 Costa 1996. 16 Dummett 1993. 17 Smith 2003.

2. Realismo forte

Uno scimpanzè adopera una bacchetta per estrarre delle formiche da un formicaio e succhiarle (ne è ghiottissimo), poi depone la bacchetta. Arriva un altro scimpanzè e la prende, adibendola allo stesso scopo. Quando ritorna il primo scimpanzè, il secondo gli restituisce la bacchetta. Morale: la proprietà esiste senza alcuna codificazione esplicita, in una società molto primitiva.

Criptotipi. Come suggerisce Rodolfo Sacco, che ha valorizzato e teorizzato questo esempio18, abbiamo a che fare con dei criptotipi19, con delle tipologie nascoste ma oggettive. È difficile immaginare che un qualunque diritto positivo possa aver mai informato i due scimpanzè circa la proprietà e le sue norme. E qui abbiamo a che fare con una considerazione molto giusta: scoprire la forma di un oggetto sociale è come scoprire un continente o un teorema. Dunque, sotto questo profilo, un oggetto sociale è identico a un oggetto ideale e a un oggetto fisico. Ma se quella di Sacco è la formulazione condivisibile, è difficile seguire fino in fondo Reinach.

Gli alberi di Reinach. Il Realismo Forte di Reinach assume a giusto titolo che non

c’è alcuna legge di natura, le leggi sono piuttosto dei costrutti paragonabili a degli oggetti ideali, visto che possiedono dei fondamenti apriori. Reinach si limita a osservare che, proprio come non esiste un colore senza estensione, o un suono senza durata, così non può esserci un obbligo senza oggetto, né un obbligo infinito. Diversamente dal giusnaturalismo, dunque, Reinach non trae delle conseguenze quanto al contenuto giuridico, e si limita alla forma. Per interessante che sia dal punto di vista intellettuale, giacché oppone una ferma smentita al paradigma soggettivistico che sta alla base dello storicismo, il modello di Reinach ha almeno tre difetti principali.

In primo luogo, come ogni dottrina apriori, non fornisce alcuna indicazione positiva, e dunque si può opporre a Reinach, piuttosto paradossalmente, lo stesso tipo di critica che si poteva muovere nei confronti della morale kantiana.

In secondo luogo, ciò che distinguerebbe la prospettiva di Kant da quella di Reinach, il fatto cioè che il primo parlerebbe di una legge morale nettamente distinta dal cielo stellato sopra di noi, ossia separata dal mondo fisico, mentre il secondo sostiene che i fondamenti del diritto civile sono fuori di noi e sono solidi come alberi e case, poggia su una metafora fallace. Gli oggetti sociali saranno anche “solidi come alberi e case”, ma rispetto ad essi manifestano una differenza fondamentale: non si vedono. Questo è un primo limite della teoria, che vale tutt’al più come una metafora che ci invita a non considerarli come cose evanescenti. Ma da una metafora non si può ricavare una teoria, a meno di rassegnarsi a cadere in contraddizioni di vario tipo. In particolare, se davvero gli oggetti sociali fossero solidi come alberi e case, allora, quando ci troviamo di fronte a un segnale di divieto di sosta, dovremmo ritenere di avere a che fare con due oggetti sociali, il segnale (che è davvero solido) e il divieto (che solo Reinach pretende essere solido come il segnale, se la sua teoria vuole essere più che una metafora). Trascurare questa circostanza equivarrebbe -come succedeva

18 Sacco *; cfr. anche Id. 1993. 19 Sacco 2000.

ai vecchi empiristi, con la loro teoria delle idee a giusto titolo criticata da Reid20- a pretendere che l’idea dell’ago punga, e che l’idea del calore sia calda.

In terzo luogo, Reinach sostiene che gli oggetti giuridici possiedono un loro “essere indipendente”, ma anche qui non ci siamo. È immanente alla loro natura, come sostiene lo stesso Reinach, il fatto di avere un inizio nel tempo, come dimostra l’aperta insostenibilità di frasi come:

(1) Aristotele non ha mai ambito a un poker d’assi. (2) Plotino non ha mai pensato di fare gol. (3) Proclo non tifava (o tifava) per il Chievo. (4) Antistene non ha mai acceso un mutuo. La morale è dunque che Reinach, che nel paragone con alberi e case istituisce una

equivalenza tra oggetti sociali e oggetti fisici, nella affermazione del loro essere indipendente li equipara a oggetti ideali.

La ragione di queste insufficienze può essere motivata proprio a partire dalla tripartizione di atto, contenuto e oggetto che abbiamo esposto in precedenza. Il rifiuto del positivismo giuridico in Reinach, per motivato che sia, ha il difetto di fare di ogni erba un fascio, ossia, nella fattispecie, di buttare via, insieme all’atto, anche il contenuto (l’iscrizione), creando uno strano ibrido, di oggetti sociali che sarebbero giuridicamente uguali agli oggetti ideali, ma poi dotati di una strana solidità, quasi di impenetrabilità, che spetta soltanto agli oggetti fisici. Nella tripartizione di Twardowski, Reinach si riferisce dunque soltanto all’oggetto, che costituisce a sua volta un ircocervo ideal-reale:

Atto: processo psichico Contenuto: iscrizione idiomatica Oggetto: idea comune

Il risultato, dunque, è che il realismo forte non funziona.

Realismo forte Gli oggetti sociali sono solidi quanto gli oggetti fisici

Testualismo forte

ostruiti ostruiti etti

Gli oggetti fisici sono socialmente costruiti

Realismo debole Gli oggetti sociali sono csu oggetti fisici

Testualismo debole Gli oggetti sociali sono csu registrazioni (piccoli oggfisici)

Può il suo fallimento dare fiato al Testualismo Forte dei postmoderni?

Fortunatamente, no.

20 Reid 1764.

3. Testualismo forte

“Una volta ho discusso con un famoso etnometodologo che pretendeva di aver

dimostrato che gli astronomi creano per davvero i quasar e altri fenomeni astronomici tramite le loro ricerche e i loro discorsi. “Ascolta”, gli ho detto, ‘supponiamo che tu e io andiamo a fare una passeggiata al chiaro di luna e che io dica ‘che splendida luna c’è questa notte’, e che tu sia d’accordo. Stiamo forse creando la luna?” “Sì, mi ha risposto”.

Volontà di potenza. L’aneddoto riportato da Searle21 ci suggerisce una morale: il

bello del testualismo forte, dell’idea che la stessa realtà fisica sia socialmente costruita attraverso la volontà di soggetti che non hanno limiti al di fuori della loro potenza è che si contesta facilmente.

Nella sua formulazione letterale, quella che vuole che gli stessi oggetti fisici siano socialmente costruiti, la dottrina appare manifestamente assurda, e nasce dalla confusione tra le teorie e i loro oggetti, tra ontologia ed epistemologia, tra quello che c’è (per esempio, la luna) e ciò che sappiamo (o non sappiamo) su quello che c’è22.

Uno potrebbe opporre che non c’è niente di male nel sostenere che gli oggetti sociali sono socialmente costruiti, ma a questo punto abbiamo a che fare non con una teoria, ma con una solida tautologia, che dunque non ha niente di interessante.

La tesi tornerebbe ad essere interessante, o quantomeno non tautologica, nel momento in cui si asserisse che il carattere “socialmente costruito” equivale a “soggettivamente costruito”, solo che, a questo punto, ci troveremmo di nuovo di fronte a una aperta falsità, come può constatare chiunque decidesse soggettivamente che il furto non è più un reato, o che il denaro non ha valore. Questo nonsenso palese può diventare occulto quando si sostiene che “non esistono fatti, solo interpretazioni”23; ma torna ad essere palese con un semplice esperimento mentale, che consiste nell’immaginare un tribunale in cui, sopra allo scranno del giudice, stia scritto per l’appunto “non esistono fatti, solo interpretazioni”.

Se la tesi del Testualismo Forte vuole essere meno che una tautologia (la realtà sociale è socialmente costruita), allora è per l’appunto un asserto secondo cui la realtà sociale è soggettivamente costruita (dire che è costruita “intersoggettivamente” non è che un modo per mascherare il problema), e dunque nella tripartizione di Twardowski abbiamo una valorizzazione esclusiva dell’atto, che corrisponde a una psicologizzazione della intera realtà sociale.

Atto: processo psichico Contenuto: iscrizione idiomatica Oggetto: idea comune

Metabasis eis allo ghenos. Immagino che mi si chiederà chi, oltre

21 Searle 1998, p. 20. 22 Ferraris 2001 e 2004. 23 Nietzsche 1886-1887.

all’etnometodologo preso di mira da Searle, abbia mai professato una dottrina così strampalata, ma la risposta è semplice, e la casistica è ampia24. In generale, gli ingredienti sono per l’appunto una confusione tra ontologia ed epistemologia di matrice kantiana, un soggettivismo di matrice cartesiana, e una teoria della volontà di potenza di matrice nietzschiana. E la sua formulazione generale consiste in una sistematica metabasis eis allo ghenos: si parte da una tesi che possiede una validità molto circoscritta, e la si generalizza trasportandola in campi in cui non ha validità alcuna.

Prendete Foucault, che sostiene25 che forse, se e quando saranno scomparse le scienze umane, scomparirà anche l’uomo. Si tratta della generalizzazione di un caso particolare con cui aveva iniziato le sue indagini, e che consisteva nell’assunto secondo cui la follia è un esito della psichiatria26. Il che, in un senso, è ovvio: il nostro specifico modo di affrontare quei comportamenti che chiamiamo “folli” è la psichiatria, che ci parla di schizofrenici e paranoici là dove una volta si parlava di indemoniati e di posseduti dagli dèi. Inoltre, la follia rappresenta indubbiamente un oggetto epistemologico, nel senso che chiamare qualcosa “follia” invece che “possessione divina” è sicuramente una scelta che ha a che fare con quello che sappiamo.

Ma se riferito all’uomo, come genere naturale, questo discorso non tiene. Quel bipede implume c’era prima e verosimilmente ci sarà dopo che le scienze dell’uomo, se mai, spariranno. E pensare il contrario –a parte un eccesso metaforico analogo a quello di Reinach, una sorta di trasporto lirico- significa per l’appunto (1) confondere l’ontologia con l’epistemologia, (2) il sociale con l’individuale, e infine (3) considerare l’individuale come la sfera di un soggettivismo assoluto ascrivibile, nella migliore delle ipotesi, al solipsismo. Per cui quella del Testualismo Forte27 sarebbe al massimo una associazione di solipsisti, cioè un rotondoquadrato.

Dunque perde il suo tempo il testualista forte, la cui dottrina non funziona, proprio come quella del realista forte, senza peraltro condividerne il fascino intellettuale.

Realismo forte Gli oggetti sociali sono solidi quanto gli oggetti fisici

Testualismo forte Gli oggetti fisici sono socialmente costruiti

Realismo debole Gli oggetti sociali sono csu oggetti fisici

ostruiti ostruiti etti

Testualismo debole Gli oggetti sociali sono csu registrazioni (piccoli oggfisici)

Lasciate da parte le esagerazioni, veniamo alle teorie papabili, ossia, per

l’appunto, il realismo e il testualismo deboli.

24 Ferraris 1988. 25 Foucault 1966. 26 Foucault 1961. 27 Che è anche quella di quel pensiero fortissimo, di quel fichtianesimo di ritorno, che del tutto

inesplicabilmente ha deciso di chiamarsi « Pensiero Debole », cfr. Vattimo 1983.

4. Realismo debole

Ho di fronte a me un pezzo di carta, ma potrebbe essere anche una carta di credito o un pezzo di metallo. È indubbiamente un oggetto fisico, e sicuramente non è socialmente costruito dal momento che le molecole che lo compongono. Solo, ha un valore sociale, mi permette di comprare qualcosa, e questo non dipende semplicemente da me, visto che la moneta vale anche per chi abbia idee e stati d’animo completamente diversi da me, e continua a valere per me indipendentemente dal mutare del mio credo e del mio umore. Come è possibile?

4.1. Atto e Oggetto Realismo debole: come funziona. Il problema, prima di tutto, è sapere che cosa

tiene unito l’oggetto sociale e l’oggetto fisico, il prezzo e la birra, la banconota con corso legale e il pezzo di carta di cui è fatta. L’idea di Searle è a grandi linee questa.

Per passare da un pezzo di carta colorato (un oggetto fisico) a una banconota (un oggetto sociale), si assegna una funzione, applicando la regola “X (il pezzo di carta) conta come Y (la banconota) in un contesto C (un determinato Stato in un determinato tempo)”. L’assegnazione di funzione si esercita attraverso delle regole costitutive, che, diversamente da quelle regolative, non pongono ordine in una situazione che potrebbe esistere indipendentemente dalle regole (per esempio, l’obbligo di guidare tenendo la destra), ma che viene ad esistere proprio in forza delle regole (qui il caso tipico sono i giochi: non è che ci fossero scacchiere, pedoni e altri pezzi, e che per por ordine sulle scacchiere si sia ricorso alle regole degli scacchi: sono quelle regole a far sì che abbiano senso le scacchiere e i pezzi.)

Sin qui, tutto chiaro. Le regole che presiedono a una assegnazione di funzione costruiscono, sopra un insieme di oggetti fisici (poniamo, appunto, pezzi di legno o uomini) degli oggetti sociali (pedoni degli scacchi o professori di filosofia.) Searle osserva anche che le funzioni che vengono assegnate, sebbene sorgano da regole, non risultano convenzionali. E in effetti è un errore pensare che ci sussista una equivalenza tra “seguire una regola” e “seguire una convenzione”, perché altrimenti, come aveva notato Wittgenstein28, non ci sarebbe differenza tra seguire una regola e credere di seguirla, tra giocare a scacchi e credere di giocare a scacchi, e in fin dei conti (per fare l’esempio di una regola regolativa) tra guardare l’orologio per sapere che ora è e immaginarne uno, sempre per sapere l’ora. In concreto, posso benissimo, se ho smarrito un pezzo degli scacchi, poniamo un alfiere, sostituirlo con un tappo di birra, perché il pezzo è convenzionale, ma non la funzione: il tappo di birra dovrà comunque muoversi in diagonale come l’alfiere, se voglio davvero giocare a scacchi e non semplicemente credere di giocare a scacchi.

Vantaggi e problemi. Il primo vantaggio è che, in questo modo, si è eliminata la

visione convenzionale degli oggetti sociali, che è vecchia almeno quanto il contratto sociale di Rousseau che, alla faccia del suo vagheggiamento della natura, sosteneva che non solo il contratto sociale, ma persino il linguaggio in cui questo contratto dovrebbe essere stipulato è convenzionale.

28 Wittgenstein 1953.

In secondo luogo, come ho detto, si sono radicati gli oggetti sociali non solo nelle regole che li costituiscono, ma anche negli oggetti fisici che li supportano in qualità di inferiora. Ora, posto che l’intenzionalità collettiva svolga, nella teoria di Searle, la stessa funzione che ha l’atto nella terminologia di Twardowski-Meinong, e che l’oggetto fisico sia il supporto dell’oggetto sociale, con due funzioni che vengono a ricoprire quella dell’oggetto, sempre nella terminologia Twardowski-Meinong, allora l’ontologia sociale di Searle avrebbe una struttura di questo tipo:

Oggetto fisico intenzionalità collettiva Oggetto sociale Dunque (vale la pena di notarlo preliminarmente, visto che tornerà molto utile nel

seguito del mio discorso) la tricotomia Atto/Contenuto/Oggetto si semplifica qui in una dicotomia Atto/Oggetto. Nella teoria della intenzionalità collettiva, per l’appunto, si privilegia l’atto, in quella dell’oggetto sociale come sopravveniente rispetto a quello fisico, si privilegia l’oggetto. Diversamente che nelle due teorie precedenti, abbiamo dunque due termini invece che uno solo:

Atto: processo psichico Contenuto: iscrizione idiomatica Oggetto: oggetto fisico

Alla luce della regola costitutiva degli oggetti sociali “X conta come Y in C”

l’atto è rappresentato dalla intenzionalità collettiva, l’oggetto da X e Y, che sono rispettivamente l’oggetto fisico e quello sociale che funge da oggetto di ordine superiore grazie alla intenzionalità collettiva.

Sin qui tutto bene. Tutto bene? Nei prossimi paragrafi vorrei sottolineare due difficoltà che limitano seriamente la portata euristica della teoria di Searle. Si tratta, in primo luogo, di problemi con l’atto, e in secondo luogo di problemi con l’oggetto.

4.2. Problemi con l’atto I problemi con l’atto richiederebbero un lungo discorso, e mi limito a una

osservazione concisa, considerando come, d’altra parte, anche se questa parte della teoria di Searle non risultasse problematica, basterebbero i problemi con l’oggetto a suscitare delle serie difficoltà, come vedremo tra un istante. Per limitarsi comunque alle evidenze maggiori, vorrei far notare un punto.

L’atto che trasforma un oggetto fisico in un oggetto sociale ha l’aria di un colpo di bacchetta magica, come si verifica facilmente (ci torneremo tra poco) tutte le volte che ci si provi a far ritorno dall’oggetto sociale all’oggetto fisico. La bacchetta magica si chiama “intenzionalità collettiva”. Scrive Searle “[C’è una] linea continua che va dalle molecole e dalle montagne ai cacciavite, alle leve e ai tramonti incantevoli, e poi alle leggi, al denaro e agli stati-nazione. La campata centrale del ponte che va dalla fisica alla società è l’intenzionalità collettiva, e la mossa decisiva su quel ponte nella creazione della realtà sociale è l’imposizione intenzionale collettiva di funzione su entità che non possono svolgere quelle funzioni senza quell’imposizione”

Che cosa sia l’intenzionalità collettiva, tuttavia, è tutto tranne che evidente, e per chi abbia un passato da ermeneutico non è difficile ritrovarci una vecchia idea, quella che la buonanima di Dilthey, sulla scia di Hegel, chiamava “spirito oggettivo”. Se poi la chiamassimo “superanima” il problema, da occulto che è, diventerebbe subito palese.

4.3. Problemi con l’oggetto Dal fisico al sociale e ritorno? Lasciando insoluto (o anche semplicemente in

sospeso, tanto non è decisivo) il primo problema, vengo adesso al secondo, quello della teoria dell’oggetto sociale come oggetto di ordine superiore rispetto a un oggetto fisico.

A questo proposito, il problema è duplice. In primo luogo, non è per niente chiaro (a meno per l’appunto che si ricorra alla ipotesi mistica della intenzionalità collettiva) come, dall’oggetto fisico, si riesca ad arrivare all’oggetto sociale. In secondo luogo, anche a voler dar credito alla intenzionalità collettiva, non è per niente chiaro come, dall’oggetto sociale, si riesca a individuare regolarmente un oggetto fisico che gli corrisponda. La teoria di Searle, insomma, soffre di un problema che potremmo chiamare “gestaltistico”: spera di poter spiegare come dall’oggetto di ordine inferiore si passa all’oggetto di ordine superiore, ma cade nel momento in cui dall’oggetto di ordine superiore ci si trova a dover tornare all’oggetto di ordine superiore. Insomma, per dirla alla buona, non tiene alla prova del nove.

Dal fisico al sociale. Le difficoltà della transizione dal fisico al sociale si possono

illustrare considerando tre esempi di Searle (uno dei quali, significativamente, è stato scartato in un secondo momento).

1. Il muro. Come abbiamo visto, Searle spiega il passaggio con l’esempio del muro. L’idea è che prima c’è un oggetto fisico, un muro che separa l’interno dall’esterno e difende una comunità. Poi poco alla volta il muro si sgretola, non resta che una fila di pietre, inutili come riparo fisico, e che definiscono un oggetto sociale, un confine: quello stesso che, più avanti, sarà la linea gialla che negli uffici postali e negli aeroporti ci indica un limite che non può essere valicato29. Ora, si capisce come un muro, sgretolandosi, possa, in determinate circostanze, diventare un confine. Ma non è affatto chiaro come, sulla base di quella semplice analogia -una circostanza fortuita che non si sa quante volte possa essersi verificata- sia sorta la linea gialla o la mezzeria nelle strade. La questione si complica ulteriormente sulla base di un’altra considerazione. Se davvero un oggetto fisico potesse essere l’origine di un oggetto sociale, allora ogni oggetto fisico sarebbe un oggetto sociale, ogni muro costituirebbe un divieto. Ma chiaramente non è così, come può verificare chiunque decida di abbattere un muro a casa propria: purché il fatto non contraddica normative che non necessariamente hanno a che fare con la solidità fisica del muro, ebbene, può abbatterlo come e quando vuole.

2. Marcare il territorio. Sempre sulla questione del passaggio dal fisico al sociale, anticipiamo un punto che diventerà importante nel seguito del nostro discorso. Prima di fare l’esempio del muro, ricorda Searle, aveva proposto l’esempio degli animali che marcano il territorio; ma poi, spiega, aveva deciso di abbandonarlo perché non gli sembrava adeguato. Perché inadeguato? Non in assoluto, visto che è proprio un bell’esempio; ma

29 O meglio : che non deve essere valicato, diversamente dal muro che non può venire oltrepassato. Il che, se vogliamo, è un altro problema che Searle non mette sufficientemente a fuoco.

certo inadatto per la teoria di Searle. In effetti, non c’è un solo momento in cui la traccia costistuisca un limite fisico. La traccia è un odore, e un limite olfattivo –invisibile proprio come l’ontologia catturata da Searle- non equivale mai a impenetrabilità. È, sin dall’inizio, qualcosa che non nasce come oggetto fisico per trasformarsi in oggetto sociale, ma, per l’appunto, nasce come segno, che è blandamente fisico e fortemente sociale nella sua essenza. Sembrava davvero un buon esempio. E se Searle lo avesse seguito invece di privilegiare quello del denaro e del muro si sarebbe risparmiato un bel po’ di difficoltà, in particolare quella, su cui ci concentreremo tra poco, di come si spieghino, con la teoria di Searle, gli oggetti sociali che, come i debiti, non possiedono una controparte fisica (visto che il debito è una entità negativa). Perché in questa formulazione tra un muro e un debito intercorre un abisso: il primo è la presenza di qualcosa, il secondo è l’assenza di qualcosa. Mentre la traccia del marcare il territorio potrebbe stabilire un tramite, essendo presente (come dato olfattivo, per esempio), ma rinviando a una assenza (l’animale che ha marcato il territorio). In questo senso, costituisce una struttura sopraordinata sia al muro sia al debito30.

3. La moneta. Da tutto questo emerge una considerazione ancora più generale. L’esempio del denaro, addotto da Searle come se fosse la norma degli oggetti sociali, è in effetti una eccezione. Perché è relativamente facile trasformare un bottone in una moneta per ingannare un cieco, e poi riadoperare una moneta come bottone in un abito tirolese. Ma nella stragrande maggioranza dei casi l’operazione appare molto più complessa, quando non impossibile. E questo è obiettivamente un limite grave, che compromette la paradigmaticità dell’esempio addotto. Perché è semplice sostenere che incidendo delle scritte su un pezzo di metallo otterremo un oggetto sociale, e che, una volta che l’uso avrà cancellato le iscrizioni, avremo di nuovo un oggetto fisico. Ma questa, per l’appunto, non costituisce una regola, bensì una eccezione.

Dal sociale al fisico. Veniamo al secondo aspetto del problema, quello che

riguarda la reversibilità dal sociale al fisico. È abbastanza semplice sostenere che una banconota è anche un pezzo di carta, o che un presidente è anche una persona. Così come non c’è problema sul fatto che –d’accordo con l’esempio di Searle- quando Searle è solo in una stanza d’albergo c’è un solo oggetto fisico ma più oggetti sociali (un marito, un dipendente dello stato della California, un cittadino americano, il titolare di una patente…). In questo caso, il ritorno da Y (sociale) a X (fisico) non presenta eccessivi problemi. Le cose, tuttavia, cambiano in una situazione un po’ diversa, ma tutt’altro che rara, suscitando difficoltà che sono state riconosciute molto prima della nascita della teoria sociale di Searle, e che riguardano sia gli oggetti, sia gli eventi. Esaminiamo tre casi paradigmatici.

1. Lo Stato di Heidegger. È l’esempio di un oggetto sociale molto grande.

30 Vorrei inoltre far notare, richiamandomi alla tripartizione Atto Contenuto Oggetto, che la traccia ricopre perfettamente il ruolo del Contenuto, essendo la manifestazione di una intenzione psicologica dell’animale (vuole marcare il territorio) che si riferisce a un oggetto (la proprietà), in quel modo di presentazione specifico. Tornerò estesamente su questo punto parlando del testualismo debole.

Nella Introduzione alla metafisica Heidegger si chiede a un certo punto: “dov’è l’essere nello Stato? Non è né proprietà enumerabili, né cosa localizzabile, ma ciò di cui partecipano l’una e l’altra. Dov’è l’Essere dello Stato? Nell’operazione di polizia in corso, nelle macchine da scrivere della segreteria, nella comunicazione del capo dello Stato a un ambasciatore?”31. È tutt’altro che facile indicare quali oggetti fisici costituiscano l’essere dello Stato: i confini, probabilmente, l’esercito e l’amministrazione pubblica, l’apparato politico… Ma, per esempio, la dotazione di sigari toscani a disposizione dei senatori italiani è ancora parte dell’essere dello Stato? E, se no, perché?

2. L’Università di Ryle. Il problema che emerge è proprio quello che Ryle32 aveva isolato come “il mito dello spettro nella macchina”, riferendolo al dualismo cartesiano (come nasce la res cogitans dalla res extensa? Non è una semplice aggiunta miracolosa?), ma esemplificandolo proprio con il rapporto tra un oggetto sociale, l’Università, e gli oggetti fisici su cui sembra fondarsi. Sarebbe vagamente sorprendente, sosteneva Ryle, l’atteggiamento di chi, dopo aver visto le biblioteche, i dipartimenti, le aule e il rettorato chiedesse dov’è l’Università: l’oggetto sociale “Università” è il risultato di una composizione di oggetti, che vanno analizzati nella loro struttura formale e nei vincoli che ne derivano, e non scartati impegnandosi nella ricerca di un Essenziale evanescente che starebbe dietro le biblioteche e il rettorato. Con questo, però, abbiamo solo una indicazione negativa. Non è bene invocare spettri che stanno dietro, dentro o sopra gli oggetti, sarebbe più o meno come sostenere che i computer pensano davvero, e che una macchina che abbia passato il test di Turing debba essere dotata di diritti civili.

3. La battaglia di Merleau-Ponty. Veniamo al caso degli eventi, che sono di per sé meno facili da catturare di quanto non lo siano gli oggetti. In uno dei suoi ultimi corsi al Collège de France, Merleau-Ponty33, che commenta il passo di Heidegger, aggiunge, con tocco meno teutonico, una allusione alla Certosa di Parma di Stendhal “Cfr. Fabrizio dov’è la battaglia di Waterloo? È in tutto ciò che si vede e al di là.” Il punto è interessante, perché ci ricorda che tra gli oggetti sociali ci sono per l’appunto anche degli eventi sociali, come le battaglie, i matrimoni, le partite di calcio e le feste di compleanno. Al punto che si potrebbe dire che, in una percentuale importante, gli oggetti sociali, le istituzioni (l’istituto del matrimonio, per esempio) sono types i cui tokens sono costituiti da eventi. E con gli eventi le difficoltà crescono ancora di più, perché i loro confini, diversamente da quello che accade per gli oggetti, risultano estremamente labili34. Ma, anche restando agli oggetti, la

31 Heidegger 1935. 32 Ryle 1949. 33 Merleau-Ponty 1958-59. 34 Per esempio, quando è iniziata esattamente la battaglia di Waterloo? il 18 giugno 1815, quando

Napoleone avanza all’attacco nella direzione di Bruxelles, o il 17, quando Grouchy tenta di riprendere il contatto con Blücher e Ney cerca Wellington? o il 16, quando Grouchy batte effettivamente i prussiani, ma ha il torto di non inseguirli? o quando Napoleone invade il Belgio meridionale, o addirittura torna dall’Elba (e in questo caso la battaglia inizierebbe forse a Borodino, col risultato che Pierre Bezuchov e Fabrizio del Dongo avrebbero assistito alla stessa battaglia, del resto capendoci a

psicologia della Gestalt, quella con cui Merleau-Ponty si era misurato all’inizio della sua carriera, aveva visto bene il punto enunciando la legge della trascendenza del tutto rispetto alle sue componenti. Ma la trascendenza non significa indifferenza rispetto alle parti. E nel caso dello Stato o della battaglia non si capisce proprio come si riesca a ritornare a una essenza fisica semplice partendo da un oggetto sociale complesso. E asserire che c’è qualcosa “al di là” del fisico che costituisce l’oggetto sociale è proprio invocare un colpo di bacchetta magica.

Riduzioni. Ci sono soluzioni alternative? L’idea, non troppo peregrina, potrebbe

essere di compiere degli esperimenti volti a ridurre gli oggetti sociali troppo grandi. La espongo a titolo di esperimento mentale giacché non è difficile capire che non funziona.

1. Il Bunker di Hitler. Nel 1453, l’Impero Romano di Occidente si era ridotto al perimetro urbano di Costantinopoli. E non è il solo caso. Per esempio, ci fu un momento, dieci anni dopo l’Introduzione alla metafisica, in cui l’Essere dello Stato tedesco si concentrò nel Bunker della Cancelleria circondato dall’Armata Rossa, ossia in cui la totalità venne a trovarsi in un solo luogo. Un perimetro di non più di 100 metri di lato, alla fine, quando, suicidandosi, Hitler declinò dal suo titolo.

2. Little Big Horn. Visto che quella era anche una battaglia, la battaglia di Berlino, possiamo forse trovare una risposta all’interrogativo di Merleau-Ponty rispetto agli eventi. Funziona anche meglio nella battaglia di Little Big Horn ridotta al Generale Custer circondato dagli Indiani. Il momento in cui, se stiamo ai resoconti cinematografici, il capo della coalizione indiana colpisce Custer, costituisce il limite temporale preciso della battaglia.

3. Napoleone a Sant’Elena. L’argomento sembra rafforzato dal fatto che, per esempio, diversamente da Hitler nel Bunker, Napoleone a Sant’Elena non rappresenta affatto lo Stato Francese, bensì un personaggio storico in disgrazia e un cinquantenne malato.

Per quanta simpatia possa suscitare, la riduzione –fisica e non eidetica- non funziona. E questo, banalmente, perché l’identità dell’oggetto sociale non dipende dalle molecole del suo corrispettivo fisico, perché la realtà sociale costituisce un nesso teleologico che si adatta male alle spiegazioni causali che intervengono nell’analisi degli oggetti fisici. Per chi trovasse circolare questa considerazione, basterà osservare che, per l’appunto, c’è un gran numero di oggetti sociali che non possiedono un corrispettivo fisico evidente, o che addirittura sono privi di controparti fisiche.

4.4. Entità Y indipendenti Sembrerebbe infatti, come ha sottolineato Barry Smith, che in moltissimi casi,

nell’analisi della realtà sociale, abbiamo a che fare con entità Y indipendenti, cioè con oggetti che non possiedono una controparte fisica, sia palese (come nel caso di uno Stato, di una corporation, di una università) sia in assoluto (come nel caso di entità negative come i debiti). Come la mettiamo?

giusto titolo ben poco)?

L’idea di Smith è che esistono termini Y-indipendenti, ossia “entità che (a differenza del Presidente Clinton, della cattedrale di Canterbury e del denaro nella mia tasca) non coincidono ontologicamente con alcuna parte della realtà fisica.” Ossia, nella terminologia di Smith, con “rappresentazioni”, che –teniamolo presente, visto che è un punto che andrà discusso nel dettaglio- “non coincidono ontologicamente con alcuna parte della realtà fisica”, giacché –sostiene Smith- “I segnali nei computer della banca si limitano a rappresentare il denaro, esattamente come i documenti giuridici relativi ai beni di vostra proprietà si limitano a memorizzare e registrare ufficialmente l’esistenza dei vostri diritti di proprietà. Scrive ancora Smith: “Riformulando le proprie idee in questo ambito [della dipendenza di Y rispetto a X] Searle è dunque costretto a riconoscere una nuova dimensione dell’impalcatura della realtà sociale, la dimensione delle rappresentazioni. Le tracce [blips] nei computer della banca si limitano a rappresentare il denaro ..”“ 35

Introducendo la dimensione delle rappresentazioni, Smith riformula la teoria di Searle con una variante significativa quanto alla tripartizione Atto Contenuto Oggetto. Lo schema di Smith, rispetto a quello di Searle, funziona così:

Atto: processo psichico Contenuto: iscrizione idiomatica Oggetto: idea comune

Al posto dell’oggetto fisico abbiamo l’idea comune. Smith non si avventura sul

terreno paludoso della intenzionalità collettiva e del passaggio dal fisico al sociale: assume semplicemente che noi possediamo delle rappresentazioni, che è un punto difficile da contestare, senza tuttavia impelagarsi nella spiegazione di come quelle rappresentazioni spieghino il transito dal fisico al sociale. Questa Aufhebung non gli è necessaria, visto che Smith assume che le rappresentazioni non si riferiscono a oggetti fisici, bensì a oggetti ideali, più o meno come, malgrado tutto, accadeva in Reinach, un autore che sta nel background di Smith36 e non in quello di Searle.

Il Capitale di De Soto. Per capire meglio la prospettiva di Smith, conviene rifarsi

a un brano dell’economista sudamericano Hernando De Soto, che gioca un ruolo centrale nella sua proposta teorica. È anzitutto De Soto che propone di considerare gli oggetti sociali come “rappresentazioni”. La sua tesi è: “Il capitale nasce rappresentando per iscritto – in un titolo, in una garanzia, in un contratto o in altri record di questo tipo – le qualità più utili dal punto di vista economico e sociale. Nel momento in cui rivolgete la vostra attenzione al documento di proprietà di una casa, per esempio, e non alla casa in se stessa, avete fatto automaticamente un passo dal mondo materiale verso il mondo concettuale in cui vivono i capitali37.”

In questo modo, spostando l’attenzione dal paradigma della moneta a quello del capitale, e dall’oggetto fisico al concetto, Smith ritiene di aver riparato la falla maggiore nella nave di Searle. L’idea di fondo è che se gli oggetti sociali sono intenzionali (ossia sono un bene comune che però sta nella nostra testa prima che nel

35 Smith 2003b p. 145. 36 Smith 1997. 37 De Soto 2000 : 49, corsivi miei.

mondo, e non a titolo di mero atto psicologico) allora l’ambito in cui conviene trattarne è per l’appunto la sfera delle rappresentazioni, che sono poi i nostri contenuti intenzionali, sottratti a un valore puramente soggettivo attraverso il riferimento a oggetti ideali.

Gli scacchi di Smith. Per meglio definire la nozione di “rappresentazione”, che

gioca un ruolo centrale nella sua revisione della teoria di Searle, Smith la qualifica come “entità quasi-astratta”, facendo l’esempio degli scacchi giocati alla cieca. L’idea è che gli scacchi, paradigma di regola costitutiva in Searle, possono essere giocati in assenza di qualunque supporto fisico. Si può giocare anche per internet, dove la scacchiera non è “presente” allo stesso titolo una scacchiera fisica (per esempio, ha due localizzazioni, corrispondenti ai due computer). Si può altresì, se si è molto esercitati, giocare a memoria, senza che ci sia nulla fuori della nostra mente. Soprattutto in questa versione, è facile osservare come la scacchiera pensata, che non corrisponde ad alcuna delle rappresentazioni psicologiche (intese come “atti”) dei due giocatori, costituisca un oggetto ideale, il terzo regno del pensiero di Frege, di cui è anzi una buona figurazione di tipo non mistico.

Smith estende il modello allo stesso paradigma del denaro in Searle. Anche in quel caso, da un certo punto in avanti (e con l’evoluzione tecnologica sempre più), non abbiamo delle controparti fisiche, bensì semplicemente dei blips, delle tracce sul computer. Anche qui c’è un oggetto sociale, a cui non corrisponde un oggetto fisico, bensì una rappresentazione, che tuttavia è oggettiva visto che non corrisponde ai semplici atti mentali dei due giocatori di scacchi, delle migliaia di risparmiatori truffati dalla Parmalat, della moltitudine dei giocatori in borsa, e della turma ancora più vasta, anche se in gran parte squattrinata, di quelli che hanno a che fare con il denaro.

I 100 talleri. La soluzione è affascinante nella sua semplicità, ma proprio

l’assimilazione delle rappresentazioni a oggetti ideali, che costituisce la sua forza, ne è anche il limite essenziale. Come abbiamo visto, le rappresentazioni sono gli oggetti comuni di Frege, per esempio l’Equatore, che non è una linea immaginaria visto che non è creata dal pensiero, che si limita a riconoscerla ed afferrarla. Ma già questo è un problema, perché un presidente del consiglio o l’Euro non assomigliano affatto all’Equatore, e in particolare non potrebbero esistere se non ci fosse qualcuno che crede che esistono, diversamente da ciò che accade per l’Equatore.

Inoltre, e in base a questo ragionamento, l’Equatore c’è da sempre, mentre, poniamo, la Polonia o la Parmalat hanno un inizio nel tempo. Il che può non essere un male, ma trascura una circostanza cruciale, il fatto cioè che è essenziale per gli oggetti sociali, proprio nella misura in cui hanno un inizio, il fatto di avere una forma di registrazione. È il punto su cui ci concentreremo tra poco trattando del Testualismo Debole. Per esempio, è difficile sostenere che, nel caso del denaro trasformato in tracce sul computer, ci siano solo rappresentazioni e non qualcosa di fisico che sostiene queste rappresentazioni, sebbene la sua fisicità non sia imponente. E se per l’Equatore o per il teorema di Pitagora la forma di registrazione risulta secondaria, dal momento che è immanente alla definizione dell’oggetto ideale il fatto di non possedere un inizio nel tempo, per un oggetto sociale le cose vanno differentemente: perché un oggetto sociale sia tale, è necessario un inizio temporale, e dunque la forma della registrazione appare costitutiva dell’oggetto sociale.

L’importanza di questa osservazione è facilmente verificabile. Infatti, trascurando questa circostanza, Smith va a urtare proprio con quel postmodernismo che avversa

come la peste. Perché a questo punto non c’è alcun modo di rispondere alla domanda: come si distinguono di diritto 100 talleri reali da 100 talleri ideali? In fin dei conti, c’è una differenza tra una azione Parmalat e un’altra azione, come si sono accorti in molti, eppure in entrambi i casi, nella teoria De Soto-Smith, si tratterebbe di rappresentazioni. Tuttavia, che cosa rende veridiche le azioni IBM e truffaldine le azioni Parmalat, un assegno coperto da un assegno scoperto? Il fatto che registrino qualcosa, non il fatto di essere rappresentazioni, ed è per questo che Searle aveva dovuto impelagarsi nell’eroica vicenda degli oggetti fisici che si trasformano in oggetti sociali. Il rappresentare qualcosa, che differenzia 100 talleri ideali da 100 talleri reali, le azioni IBM dalle azioni Parmalat, un cavallo da un centauro, è una circostanza di cui la teoria di Smith non rende conto. D’altra parte, come abbiamo visto, la teoria di Searle non tiene. Ed ecco il risultato:

Realismo forte Gli oggetti sociali sono solidi quanto gli oggetti fisici

Testualismo forte Gli oggetti fisici sono socialmente costruiti

Realismo debole Gli oggetti sociali sono costruiti su oggetti fisici

Testualismo debole Gli oggetti sociali sono csu registrazioni (piccoli oggfisici)

ostruiti etti

5. Testualismo debole Il 31 gennaio compro una camicia a un saldo. Non ho contante (“moneta” in

senso tradizionale) e inoltre temo di avere esaurito la disponibilità del bancomat (è l’ultimo giorno del mese), per cui alla domanda “carta o bancomat?” rispondo “carta”.

La cassiera introduce la carta (che fisicamente coincide con il bancomat) in una macchinetta, attiva tutta una rete di dimensioni gigantesche (in effetti, in certi casi posso anche pagare con il telefonino, per esempio fare offerte per le vittime dello Tsunami), e a un certo punto esce un pezzo di carta stampato.

Anche qui una scena normalissima, ma che implica una immensa ontologia invisibile, e inoltre un singolare arcaismo. Perché sul foglio di carta devo mettere un vetusto scarabocchio che è la mia firma (e che non coincide necessariamente con il mio nome più di quanto un codice del bancomat coincida con la somma in Euro che, per ipotesi, ho in banca nel momento in cui lo digito). È una stranezza, a ben pensarci. E, per l’appunto, se avessi usato il bancomat avrei dovuto, sebbene in forma più tecnologica, adoperare una stessa iscrizione idiomatica.

Avrei potuto farlo anche in piena assenza di tecnologia. Poniamo che io il 31 gennaio mi fossi sposato. Anche lì, avrei dovuto apporre la mia firma, insieme a quella di mia moglie e dei testimoni, su un registro. Tutto questo in conformità a un rito e a una formulazione idiomatica (se invece di dire “sì” dicessi “certamente”, esprimerei lo stesso oggetto, ma non lo stesso contenuto, e il matrimonio non sarebbe valido; così come ci sarebbe motivo di impugnare una promessa in cui promettessi in falsetto, o toscaneggiando, o imitando il dialetto napoletano o bergamasco).

Morale: perché ci sia un oggetto sociale, dall’acquisto di una camicia ai saldi a un matrimonio, ci vuole una iscrizione, e bisogna che sia idiomatica. È qui che può trovare risposta l’enigma di Searle. Ma per farlo bisogna cambiare prospettiva, con una piccola rivoluzione copernicana, che riporti in auge quel terzo termine della partizione di Twardowski, il contenuto, che sinora è stato trascurato.

5.1. Dall’Oggetto al Contenuto Come? È presto detto. Come abbiamo visto, la difficoltà del Realismo Debole

consisteva nel fatto che o ancoriamo gli oggetti sociali agli oggetti fisici, e ci troviamo di fronte allo scoglio degli oggetti sociali che non possiedono un corrispettivo fisico; oppure consideriamo che gli oggetti sociali sono “rappresentazioni”, e allora ricadiamo nel postmoderno, nella impossibilità di distinguere di diritto 100 talleri reali da 100 talleri ideali. Bisogna trovare una soluzione, e una indicazione viene proprio da un passo di Searle, che a un certo punto38 scrive: “Spesso i fatti bruti non si manifesteranno come oggetti fisici, ma come suoni provenienti dalla bocca della gente o come segni sulla carta (o anche come pensieri nella loro testa)”.

Perché è così importante questo passaggio? Suoni, segni, pensieri, non sono oggetti fisici imponenti come Stati o persone. Possiedono meno molecole. Tuttavia, non sono semplicemente privi di spessore fisico: un suono comporta delle vibrazioni, un pensiero comporta una attività elettrica cerebrale, e questo vale anche per i segni sulla carta. Quest’ultima circostanza, a ben pensarci, è più rivelativa di quanto non si

38 Searle 1995, p. 44.

creda, perché “segni sulla carta” sono, per l’appunto, le banconote, il paradigma dell’oggetto sociale standard per Searle. Che dunque è sì un oggetto, ma con poche molecole, prova ne sia che l’aspetto davvero decisivo, in una banconota, quello che la trasforma da un oggetto fisico, poniamo un disegno, in un oggetto sociale, sono le poche molecole della firma del governatore che ne sancisce la validità. Quelle poche molecole, inoltre, non sono troppo diverse dai blip sul computer della banca, e dunque la circostanza che creava tanti problemi a Searle, il fatto cioè che sussistesse una differenza di principio tra una banconota e una traccia sul computer, vien meno: si tratta di oggetti dello stesso genere, che hanno delle caratteristiche comuni.

Quali? Essenzialmente, due, quelle che ho ricordato un po’ enigmaticamente nell’esempio del saldo e del matrimonio.

1. L’oggetto sociale, in questa versione, è iscritto. Cioè, ha poche molecole, meno di quanto accada a un oggetto fisico imponente del tipo di quelli che stanno alla base della teoria standard di Searle. Al tempo stesso, per poche che siano, quelle molecole sono qualcosa, non sono una semplice rappresentazione, come potrebbe accadere per un oggetto ideale che possiede il suo essere indipendentemente da qualunque individuo che lo pensi. E dunque quelle poche molecole rendono conto della espressione un po’ sibillina usata da Smith, “entità quasi-astratta”: l’entità deve essere registrata da qualche parte nello spazio-tempo attuale, e questo richiede un minimo di molecole.

2. La localizzazione ci fornisce anche un altro elemento dell’oggetto sociale, che è idiomatico, cioè registrato in un modo peculiare. Il califfo arabo pagava il suo tributo all’imperatore bizantino Giustiniano II in copie di nomismata, la moneta bizantina. Nel 692 l’imperatore incominciò a coniare nomismata contrassegnati dal busto di Cristo; il califfo versò l’ammontare d’oro in monete prive del ritratto di Cristo, e Giustiniano dichiarò guerra39. Morale: la materia, fosse pure l’oro, è un eccipiente, mentre il principio attivo è per l’appunto l’iscrizione idiomatica. Una banconota da 50 euro possiede una determinata forma e colore, se fosse diversa non basterebbe la scritta “50 euro” a determinarne la validità, non più di quanto “50 euro” ottenuti, per ipotesi, con una banconota da 37 euro e con un’altra da 13 euro siano davvero 50 euro, poiché quelle banconote non esistono (mentre il numero 50 si può effettivamente ottenere, e resta lo stesso, sia che si sommi 13 a 37, sia che si sommi 49 a 1, sia che si sommi 25 a 25). Si osserverà che gli assegni sono effettivamente differenti a seconda delle banche. Ma, a parte il fatto che devono essere uguali all’interno della stessa banca, a rendere idiomatico e dunque valido l’assegno è la firma del titolare del conto. Poche molecole, di nuovo, tracciate in un modo peculiare (una firma non è semplicemente un nome), che garantiscono la presenza spazio-temporale del firmatario nel momento in cui ha staccato l’assegno.

Queste due considerazioni ci permettono di rileggere con occhi diversi anche il passo di De Soto citato poco fa, sottolineando un gerundio, “rappresentando”. Rileggiamo il passo, sottolineando quello che viene immediatamente dopo: “Il capitale nasce rappresentando per iscritto – in un titolo, in una garanzia, in un contratto o in altri records di questo tipo – le qualità più utili dal punto di vista

39 Treadgold 2001, p. 135.

economico e sociale [associate a un asset dato]. Nel momento in cui rivolgete la vostra attenzione al documento di proprietà di una casa, per esempio, e non alla casa in se stessa, avete fatto automaticamente un passo dal mondo materiale verso il mondo concettuale in cui vivono i capitali”. Ecco fatto. L’elemento cruciale che costituisce il capitale è lo scritto, non la semplice rappresentazione (che potrebbe valere per un oggetto ideale ma non determina un oggetto sociale). E non si tratta di uno scritto qualsiasi, bensì di uno scritto idiomatico, che contiene qualcosa come una firma.

Tenendo conto di queste due coordinate, il testualismo di Derrida fonda la consistenza specifica degli oggetti sociali non sull’atto né sull’oggetto (fisico o ideale), bensì sul modo di presentazione e di registrazione idiomatico dell’oggetto. E dunque, rispetto a tutte le formulazioni sin qui incontrate, Derrida pone l’accento, nella tripartizione di Twardowski, proprio sul contenuto, ossia sul modo di presentazione idiomatico. Nel nostro schemino, funziona così:

Atto: processo psichico Contenuto: iscrizione idiomatica Oggetto: idea comune

Vorrei in breve chiarire che cosa intendo con “idiomatico” e con “iscrizione”. Il

primo punto si può illustrare parlando di “firme”, il secondo di “registrazioni”. 5.2. Firme Che cosa è una firma? Derrida non ha mai parlato di “contenuto” nel senso di

Twardowski, sebbene abbia dedicato moltissima attenzione al problema dello stile, che gli è valso un costante rimprovero di estetismo. In effetti, sembra difficile dire che cosa sia uno stile, ma le cose divengono più semplici se ci concentriamo su un fenomeno usuale e prosaico come la firma, quello strano arcaismo che sembra così importante nella sfera degli oggetti sociali. Una firma, come una grafia, può essere bella o brutta, ma questa è una faccenda del tutto diversa dal fatto che una firma sia falsa. Dunque, l’estetismo non c’entra per niente.

È questione di idiomaticità: perché in una società in cui in pratica non si scrive più a mano, e su carta, atti decisivi richiedono l’intervento di un nome scritto a mano, e che è valido solo, in un modo di presentazione specifico? Qui tocchiamo un punto decisivo quanto all’essenza degli oggetti sociali40, e non è un caso che il saggio in cui Derrida si è impegnato più nettamente nella definizione della natura degli oggetti sociali41, e che ha suscitato le ire di Searle42. Cercando di formalizzare al di là degli esempi.

1. La firma non corrisponde all’atto. Pensare di firmare non è firmare. Ma firmare è per l’appunto manifestare una intenzione individuale.

2. La firma non corrisponde all’oggetto. All’oggetto corrisponde il nome,

40 In tedesco, che non è necessariamente una lingua filosofica ma è sicuramente una lingua come tutte le altre, “ditta”, “corporation”, si dice “Firma”, con un italianismo che si riferisce presumibilmente al diritto di firma che sta alla base, per l’appunto, di quelle azioni che costituiscono l’identità di una azienda.

41 Derrida 1971. 42 Searle 1977.

mentre al contenuto corrisponde, per l’appunto, la firma, che può essere anche identica al nome (come quando si truffa un contadino che non vuol firmare dicendogli di scrivere semplicemente il suo nome) o del tutto differente (come quando un analfabeta scrive una croce), ma che, quanto a essenza, non gli corrisponde, come si può verificare facilmente.

Io posso scrivere: Maurizio Ferraris Maurizio Ferraris Maurizio Ferraris Maurizio Ferraris Si tratta sempre di un nome, lo stesso, e non di quattro nomi. Posso anche scrivere: Maurizio Ferraris Maurizio Ferraris Maurizio Ferraris Maurizio Ferraris In tutti questi casi, continua a essere un nome (scritto in corsivo), ma non è mai

una firma. E se volessi considerarlo una firma, allora sarebbe una firma falsa. Si può anche dare il caso in cui, sullo stesso supporto fisico, ci sono, per esempio,

quattro nomi, ma solo tre firme. Prendiamo questa cartolina destinata a Gadamer e firmata da Derrida, da Vattimo e da me (che poi mi sono dimenticato di spedire). È per l’appunto il caso della compresenza di 4 nomi a cui corrispondono 3 firme (non c’è la firma di Gadamer, ma il suo indirizzo, che sarebbe rimasto lo stesso anche se fosse stato scritto con la grafia di Vattimo o di Derrida).

A cosa serve? Ora, come dicevo, l’attenzione al contenuto ha suscitato molti

sospetti nei confronti di Derrida, e in particolare l’accusa di estetismo, perché in effetti il modo standard per spiegare che cos’è il contenuto è riferirsi allo stile, alla maniera idiomatica di un artista. Ma non è solo questione di arte, e poi l’arte ha delle implicazioni tutt’altro che futili, come possiamo verificare facilmente. Lasciamo pure da parte l’atto, il processo psichico, dove tutta la questione si risolve nel detto per cui

l’arte non è questione di buone intenzioni, e pensare una poesia non è scriverne una, come ha sottolineato Croce43 con la dottrina della espressione. E concentriamoci sugli oggetti e sui contenuti.

A parità di oggetti, i contenuti possono risultare differenti: si pensi alla differenza tra Madame Bovary e la stessa storia (lo stesso oggetto) raccontata da un altro scrittore (questo effettivamente avviene, per esempio nelle tragedie, o nei romanzi storici che hanno lo stesso oggetto, poniamo lo sbarco in Normandia). Così pure, due quadri che possiedono lo stesso oggetto, poniamo Antonio e Cleopatra, o la fuga in Egitto, possono risultare completamente differenti. Mentre questo non accade per gli oggetti ideali: il teorema di Pitagora resta uguale indipendentemente dal supporto, dal gesso o pennarello con cui si disegnano le figure, dai colori, dalla precisione della esecuzione, dalle dimensioni della rappresentazione.

Tutto questo, si dirà, è per l’appunto puro estetismo, una esperienza marginale che può diventare interessante dal punto di vista degli oggetti sociali solo quando, per esempio, l’arte diventa mercato, diritto d’autore ecc. ecc. Certo, ammettiamolo pure, anche se non si capisce per quale motivo, allora, uno si lasci guidare così potentemente, nella vita sociale che è ciò che ci interessa qui, dalle forme e dagli stili, cioè da ciò che nella nostra terminologia sono i contenuti. Perché, insomma, le segreterie delle aziende e dei telefonini hanno dei messaggi registrati con una voce femminile? Non andrebbe altrettanto bene una voce maschile rauca e dialettale, o quella di Marlon Brando nel Padrino? Perché la gente vuole dei vestiti firmati?

Ipotizziamo comunque –vasto disegno!- una società che sappia dove incomincia e dove finisce l’estetismo. Sarebbe forse una società che si regola solo sulla base dell’atto e dell’oggetto, confinando il contenuto a quella che un tempo si chiamava la domenica della vita? Niente affatto. Un signore va a un vernissage, apprezza il contenuto, cioè lo stile dell’artista. Può farlo perché è in una galleria d’arte e non in un tribunale o in un ufficio: nessuno gli potrà rimproverare il suo deplorevole penchant per il contenuto dal momento che si trova proprio in un luogo deputato alla esibizione di contenuti. Tutto a posto, dunque, siamo per l’appunto alla domenica della vita.

Ora però succede qualcosa di abbastanza imbarazzante per una teoria della circoscrivibilità del contenuto. Se un quadro gli piace molto, e se il suo conto in banca glielo permette, il signore estrarrà un libretto degli assegni, scriverà una cifra (che è indubbiamente un oggetto), poi il nome dell’artista (che è indubbiamente un oggetto: non importa come sia tracciato, purché sia leggibile, proprio come il teorema di Pitagora), e a questo punto, in basso a destra, scriverà il proprio nome, ma non in un modo qualsiasi: scriverà una firma, che è il suo nome tracciato in un modo peculiare (in taluni casi, assomiglierà pochissimo al nome, sarà uno scarabocchio, basta che la banca lo riconosca, e questo indica la parziale irrazionalità della richiesta che viene talora avanzata di apporre una “firma leggibile”). Da quel momento, diventerà proprietario dell’opera, cioè di un contenuto idiomatico, che il più delle volte viene convalidato dal fatto che l’autore, a sua volta, ha apposto in basso a destra, nel quadro, la propria firma.

Il momento decisivo della transazione non è consistito né nell’atto (pensare di comprare un quadro non è comprare un quadro più di quanto pensare di dipingere un quadro equivalga a dipingerlo), né nell’oggetto (tranne che nell’arte concettuale, quella che per l’appunto ha enfatizzato l’oggetto, appropriarsi di un quadro non è

43 Croce 1902.

appropriarsi dell’oggetto rappresentato, altrimenti una mostra di quadri equivarrebbe a una lezione di geometria), bensì nel contenuto: lo stile dell’artista, la firma sull’assegno, la firma sul quadro. E questo contenuto è talmente decisivo che un conoscitore potrà contestare l’attribuzione di un quadro in cui la firma dell’artista sia vera, ma lo stile non corrisponda esattamente. Si potrà andare in tribunale, e si discuterà della faccenda, che avrà due aspetti, uno considerato come estetico (lo stile del pittore) l’altro no (la sua firma), ma in entrambi i casi si parlerà di contenuto.

In effetti, le firme non sono affatto opere d’arte, questo è poco ma sicuro, né si adibiscono semplicemente a funzioni estetiche. Si possono apporre firme per pagare un conto al ristorante di un albergo, per convalidare la ricevuta di una carta di credito (che dunque diventa denaro proprio all’atto della firma), per comprarsi una casa o un biglietto di treno. In taluni casi la firma potrà essere sostituita da un codice, per esempio quello del bancomat, ma, di nuovo, quel codice non ha altro significato che la rappresentazione idiomatica.

Inoltre, le firme non sono neppure, necessariamente, delle iscrizioni cartacee, come abbiamo appena visto a proposito dei codici dei bancomat. Possono anche indicare semplicemente un modus operandi. Si dice talvolta che il ladro ha lasciato la sua firma, che non è ovviamente un bigliettino, a meno che sia Arsenio Lupin, né le impronte digitali, bensì per l’appunto un certo stile che si ripete, anche con il variare degli oggetti legali implicati (rapina, furto con scasso, furto con destrezza ecc.). E questa circostanza, che rivela la separazione della nozione di “contenuto” da quella di “estetismo” si può ritrovare in un campo come quello della proprietà intellettuale, dove, vale la pena di notarlo, il problema è proprio di assegnare una idea (un oggetto comune) a un soggetto (il portatore di un atto), e la soluzione viene solitamente apportata precisamente dal ricorso al contenuto.

Proprietà intellettuale44. Da questo punto di vista, il caso della proprietà

intellettuale appare paradigmatico. La proprietà intellettuale si esercita su tre tipi di oggetti sociali:

1. Le espressioni (per esempio, i romanzi), garantite dallo stile. 2. I trade mark, ossia i marchi depositati, che sono semplicemente dei nomi

trasformati in firme, spesso legandosi a un logo peculiare. Coca Cola, Fiat, Microsoft sono nomi propri trasformati, attraverso una iscrizione idiomatica, in firme; a questo fine, può bastare semplicemente il ©, vale a dire il segno del copyright, che tutela la riproducibilità di ciò che, a questo punto, viene assimilato a una firma.

3. I brevetti, che risultano i più difficili da tutelare proprio perché sembrano riferirsi piuttosto a delle idee (ossia a ciò che, nella nostra partizione, corrisponde all’oggetto).

Ovviamente, gli atti non rientrano nella nostra partizione perché nessuno può sognarsi di far brevettare una idea che semplicemente ha avuto, per l’appunto, in sogno, senza preoccuparsi di farla registrare da qualche parte. Sicché, disponendo i tre fenomeni della proprietà intellettuale nella tripartizione usuale, otteniamo questo schema:

Atto: processo psichico Contenuto: iscrizione Espressioni, Trade Mark

44 Ferraris 2003.

idiomatica Oggetto: idea comune Brevetti

Lasciati da parte gli atti per il motivo che ho appena ricordato, vorrei far notare in

primo luogo come funziona il contenuto nella tutela delle espressioni (visto che il suo funzionamento è ovvio nei Trade Mark, attraverso l’assimilazione alla firma) e in secondo luogo come la tutela dei brevetti, che corrispondono agli oggetti, può avere successo attraverso l’assimilazione al contenuto, che, come stiamo notando, diviene qualcosa di sempre meno futile ed estetistico.

Espressioni. Qui, per l’appunto, non ci sono grossi problemi. “Quel ramo del lago

di Como” è di Manzoni; non è di Manzoni la storia di due fidanzati perseguitati da un signorotto di campagna (in effetti, potrebbe essere di Walter Scott, che è tra i modelli di Manzoni). L’espressione viene tutelata nelle diverse lingue in cui può essere tradotto il libro, e indipendentemente dal medium di diffusione: libro (in qualunque carattere o tipo di stampa), radio, CD, e ovviamente anche cinema e televisione (dove si suppone che a venire diffusa non sia solo la storia, ma anche i caratteri dei personaggi, la forma dei dialoghi ecc.: una edizione televisiva dei Promessi sposi in cui Lucia fosse una gigantessa, Renzo un nano, Padre Cristoforo un ubriacone con i capelli verdi ecc., sarebbe una parodia).

Rispetto alla teoria di Searle, c’è una osservazione da fare. Viene tutelata l’espressione individuale, ma a livello di type, non di token. Chi ha comprato un libro può distruggerlo sotto gli occhi dell’autore45, ma non può appropriarsi dell’espressione letterale delle sue idee, indipendentemente dalla lingua in cui vengono scritte. Il che significa, contrariamente alla tesi di Searle, che la base fisica è irrilevante rispetto alla costituzione della identità dell’oggetto sociale.

Brevetti. Come dicevo, questa tutela diviene molto più difficile qualora si debba

applicare alle idee, cioè a quanto, nella tripartizione di Twardowski, corrisponde all’oggetto. Già sul piano delle espressioni-contenuti, risulta che espressioni troppo ovvie sono difficili da tutelare: una volta un impiegato della birra Queen coniò lo slogan “The Queen of the Beer”, ma non riuscì a tutelarlo perché la corte gli fece notare che “chiunque avrebbe potuto coniare uno slogan del genere”. Sembra che questa situazione sia la norma nella tutela delle idee, perché appare immanente alla nozione di idea che chiunque possa averne una, ossia proprio quella idea: chiunque avrebbe potuto scoprire il teorema di Pitagora o le leggi di Newton, altrimenti non sarebbero quello che sono, cioè idee, mentre nessuno tranne Cervantes avrebbe potuto scrivere il Chisciotte, che infatti diventa una cosa radicalmente diversa da quella che è nel momento in cui Pierre Ménard, nel racconto di Borges46, lo riscrive alla lettera.

D’accordo con Frege47, infatti, le idee vere sono diverse dalla rappresentazione individuale che ne abbiamo, e dunque –a rigore- le sole idee di cui qualcuno potrebbe legittimamente rivendicare la proprietà sono quelle completamente false, o magari vagamente insulse (quelle che rinfacciavano a Platone per chiedergli malignamente se esistessero: l’idea del grasso, dello sporco sotto le unghie, delle squame dei pesci).

Una simile concezione delle idee si presta male alla disciplina dei brevetti, o

45 Kant 1785 46 Borges 1984. 47 Frege 1918.

meglio si può applicare solo in circostanze molto specifiche, quelle in cui una idea sbagliata si riveli, in modo imprevisto, una buona idea, come nel caso del post-it, nato dal fallimento di un tecnico della 3m che aveva inventato una colla che attaccava male. Come risultato, sembra proprio che, di nuovo, anche nel caso dei brevetti la sola via per garantire una proprietà consista nel ricondurre l’idea (impersonale: oggetto) all’espressione (personale: contenuto). La strategia è in due mosse.

La prima consiste nel chiarire quale sia il tipo di idea con cui si ha a che fare quando si parla di “proprietà delle idee”. Non si tratta di una idea oggettiva e separata, appartenente a un ipotetico intelletto unico averroista, bensì di un esempio, come tale generalizzabile anche al di là della prima realizzazione, ma non a prescindere da essa. Prendiamo il Tetrapak. L’idea è quella di un parallelepipedo, dunque non è tutelata. Ma neppure l’espressione è fissa: può essere grande, piccolo, di colore diverso. Eppure, la tutela è possibile, giacché si applica all’espressione sensibile (il primo esempio) e alle generalizzazioni che se ne possono trarre. (Dipende probabilmente da questa circostanza il fatto che certi succhi di frutta abbiano dei modi di apertura barocchi e balordi, per aggirare il brevetto.)

E’ qui che interviene la seconda mossa. Proprio la rappresentazione individuale, che per Frege non fa parte dell’idea, è ciò che permette di personalizzarla. Le idee vere possono venire a chiunque, però ognuno ne ha una peculiare rappresentazione, proprio come ognuno ha una immagine diversa quando viene invitato a pensare a qualcosa. Ora, è precisamente quella rappresentazione individuale che, accedendo al livello di espressione, ossia di contenuto, può essere sottoposta a tutela, diventando un oggetto sociale. Pensiamo al caso della invenzione della macchina per cucire così come ci viene raccontata da Freud nella Interpretazione dei sogni. Il proprietario dell’idea aveva sognato ciò che, nella lettura freudiana, andava interpretato come una fantasia sessuale; poi ne aveva tratto l’applicazione esemplare nella macchina per cucire, che costituisce, per l’appunto, l’immagine interna soggettiva nel senso di Frege, e che appare come strettamente individuale, giacché in effetti nessun sogno erotico aveva sino ad allora suggerito una espressione di quel tipo.

Iscrizioni. Un’ultima considerazione. Quanto si è detto della disciplina dei

brevetti non sempre funziona, eppure, si potrebbe osservare, i brevetti esistono. Come è possibile?

Semplicemente perché, non diversamente dai Trade Mark che non posseggono un logo, e ricorrono alla formula ©, si procede a una registrazione, che fissa spazio-temporalmente, in un atto pubblico, la personalizzazione di una idea. In altri termini, se fosse esistito il diritto d’autore all’epoca di Pitagora, ebbene, Pitagora avrebbe potuto brevettare il proprio teorema riservandosi dei diritti per ogni suo sfruttamento pratico, pur restando inteso che si trattava della socializzazione di un oggetto ideale, che come tale esiste indipendentemente dal suo scopritore. Viceversa, nel caso dell’inventore della macchina per cucire, avevamo a che fare con la socializzazione di un atto psicologico del tutto idiomatico. Eppure, la registrazione, in entrambi i casi (la scrittura del teorema, il deposito dell’invenzione) assicura la costituzione di un oggetto sociale superando le rilevantissime differenze che intercorrono tra il primo e il secondo caso.

Questa considerazione ci introduce al secondo elemento centrale del Testualismo Debole, ossia alle registrazioni, che, caratteristicamente, non sono assolutamente prese in considerazione nella teoria di Searle, evidentemente spaventato dalle conseguenze postmoderne del principio “nulla esiste al di fuori del testo”. Un principio che, insensato nel caso degli oggetti fisici, e valido molto limitatamente in

quello degli oggetti ideali, appare viceversa decisivo e del tutto pertinente in quello degli oggetti sociali.

5.3. Registrazioni Il carattere quasi mistico della trasformazione di un oggetto fisico in un oggetto

sociale, che Searle imputa alla “intenzionalità collettiva” senza chiarire a sufficienza la natura di un pezzo così importante della sua teoria si può chiarire attraverso la registrazione, quello che, in Bergson, unisce materia e memoria 48. Invece di appellarsi a una funzione occulta come l’intenzionalità collettiva, la costituzione degli oggetti sociali può essere più utilmente spiegata attraverso una funzione nota e palese come la memoria. È il fenomeno della registrazione (nella memoria così come in atti e in documenti) il fondamento della realtà sociale, che può trasformare oggetti fisici in oggetti sociali, ma anche –ed è un aspetto non meno rilevante- ci permette di rendere conto anche di quegli oggetti sociali a cui non corrisponde, in apparenza, una entità fisica.

Di uno Stato o di una multinazionale non sarà facile trovare una controparte fisica evidente, se si guarda, poniamo, al puro territorio (che può cambiare), o ad altri oggetti fisici come edifici o dipendenti. Ma sarà sempre possibile trovare degli atti e dei documenti scritti, che sono qualcosa di fisico, anche se non dotato della fisicità imponente a cui pensa inizialmente Searle.

2.5.4. La soluzione delle aporie di Searle Cerco conclusivamente di mostrare come questa teoria, che si appoggia sulla

firma e sulla registrazione, permette di rendere conto di tutte le entità sociali problematiche in Searle, senza cadere nel rappresentazionalismo di Smith. Per farlo, esaminerò una serie di oggetti sociali la cui controparte fisica è caratterizzata da un numero decrescente di molecole: uno Stato, come la Polonia; una industria pesante, come la Fiat; una industria leggera, come la Telecom; una compagnia di telefonia cellulare, come la Vodafone; e infine una entità negativa, come il debito della Parmalat.

Dov’è l’essere della Polonia? “dov’è l’essere dello Stato?”, si chiedeva

Heidegger, come abbiamo visto. E proseguiva dicendo che “Non è né proprietà enumerabili, né cosa localizzabile, ma ciò di cui partecipano l’una e l’altra.” Sì, ma di cosa si tratta?

Certo, Heidegger aveva ragione (contro Searle), non è una questione di oggetti fisici. La Germania di cui parlava Heidegger nel 1935 si era trasformata, quando il libro venne pubblicato in Bundesrepublik Deutschland, DDR, Polonia, Cecoslovacchia, Unione Sovietica, e successivamente alcune di queste entità sono scomparse. Inoltre, anche nel momento di massima concentrazione che avevo indicato con l’esempio del Bunker della Cancelleria, lo Stato tedesco non era tutto lì, c’erano truppe e autorità concentrate sul confine danese, dove si svolse la capitolazione. Solo allora ebbe fine lo Stato tedesco, grazie a una firma. E quando Berlino era già occupata dai Russi, a Praga (che geograficamente non era in

48 Ferraris 1997.

Germania) c’era lo Stato tedesco. La migliore dimostrazione del fatto che l’identità di un oggetto sociale come uno

Stato non è garantita dall’oggetto fisico soggiacente è data dalla Polonia. Guardate come si sposta Varsavia, a oriente e a occidente, a nord e a sud, nelle diverse trasformazioni della tormentata storia polacca.

Ecco la Polonia di oggi, con Varsavia abbastanza spostata a oriente, per via delle acquisizioni territoriali postbelliche avvenute in gran parte a spese della Germania.

Ed ecco la Polonia del 1941, sotto il controllo tedesco. Varsavia è all’estremo

occidente, quasi sul confine.

Ecco invece la Polonia degli anni Venti, molto estesa territorialmente giacché i

due vicini, la Germania e l’Unione Sovietica, avevano avuto problemi (una guerra persa e la rivoluzione russa). Varsavia è al centro di un territorio molto vasto, ed è un po’ spostata verso occidente.

Questa è invece la Polonia dell’età napoleonica. Varsavia è al confine orientale.

Può essere interessante notare che invece, nel 1772, Varsavia era al confine

settentrionale.

A questo punto non ci si stupisce più di nulla, per esempio del fatto che, nel 1300,

non riusciamo a determinare la posizione di Varsavia in Polonia, semplicemente perché c’è la Polonia (che peraltro abbiamo visto ruotare vorticosamente intorno a Varsavia), ma non c’è Varsavia.

È poco ma sicuro: l’identità della Polonia non viene dalle sue molecole. E

sostenere che viene da una intenzionalità collettiva resta una affermazione abbastanza vaga e mistica, soprattutto per un uomo con i piedi per terra come Searle. Di fatto, è ovvio, l’identità della Polonia viene da trattati, da registrazioni scritte, da accordi, che hanno tutti l’interessante proprietà di recare delle firme a piè di pagina.

Dov’è l’essere della Fiat? Prendiamo ora il caso di un oggetto sociale il cui

supporto fisico, sia pure ingente, consiste in un numero di molecole molto inferiore rispetto a uno Stato, ossia una industria pesante come la Fiat. Prendiamo il caso della Fiat degli anni Trenta. Il suo essere fisico consisteva nello stabilimento del Lingotto, negli operai, negli impiegati e dirigenti, nel vecchio senatore Agnelli, nelle automobili. Ma è proprio così?

Ovviamente no. Come nel caso della Polonia, il Lingotto può diventare un museo, un albergo e un palazzo di congressi che non appartiene più alla Fiat, gli operai possono (quasi) scomparire, Agnelli (non solo il vecchio senatore, ma anche suo nipote) può non esserci più, eppure la Fiat continua ad esserci, e le sue difficoltà non sono di tipo identitario.

Si noti anche questo: le automobili, che ci sono sempre state e ci sono ancora

adesso, costituiscono l’essere della Fiat solo fino a quando sono vendute, dopo rientrano nei possessi privati dell’acquirente. Ovviamente, Searle spiegherebbe tutto questo con l’intenzionalità collettiva, ma non sarebbe meglio dire che l’operazione magica per cui un’auto non è più della Fiat ma mia è un contratto, una forma di registrazione, caratterizzata anche qui, guarda un po’, da due firme, quella di chi vende e quella di chi compra. E contratti del genere sono alla base (insieme a libri contabili, pacchetti azionari, comunicazioni, lettere con carta intestata, fax, buste paga ecc.) della identità della Fiat, che, proprio come la Polonia, non dipende dalle sue molecole fisiche (tutto sommato, le firme che definiscono l’identità della Fiat saranno poco di meno di quelle che definiscono l’identità della Polonia).

Dov’è l’essere della Telecom? Adesso lasciamo l’industria pesante e veniamo a

una compagnia di servizi, per esempio la Telecom di una trentina di anni fa, all’epoca in cui si chiamava Sip (e prima Stipel). Quali sono le molecole fisiche che ne definiscono l’identità? Anche qui, un certo numero di operatori, dei palazzi per uffici, ma, molto caratteristicamente, anche gli apparecchi telefonici (di cui la compagnia rimase a lungo proprietaria) e le linee telefoniche.

Ma molti ricorderanno che quindici anni fa ognuno ha potuto comprarsi i telefoni che voleva, sicché i telefoni Telecom non sono più stati gli unici telefoni in casa, e oggi costituiscono una minoranza. Inoltre, la Telecom ha perso progressivamente il monopolio delle linee telefoniche. Bisogna concludere che la Telecom è diventata una cosa diversa? In un senso, sì, non è più la compagnia monopolistica in Italia con quel che ne segue. Ma, come la sua identità nel passaggio dalla Stipel alla Sip alla Telecom non dipendeva dagli apparecchi e dai fili, così ora –come sempre- la sua identità consiste in firme.

Morale: apparecchi e linee telefoniche possono sparire o cambiare proprietà, questo non comporta necessariamente la scomparsa di Telecom. Basta che non scompaiano le firme, se ciò avvenisse sarebbe un vero guaio.

Dov’è l’essere della Vodafone? Quest’ultimo interrogativo ha il vantaggio di

togliere di mezzo moltissime molecole –molte più che la Polonia, la Fiat, e persino la Telecom. Perché in effetti la Vodafone non ha mai posseduto telefoni o fili, essendo una compagnia di telefonia mobile. Uno può comprarsi il telefonino che vuole ecc. E allora dov’è l’essere della Vodafone? In quali molecole consiste?

Uno sarebbe tentato di rispondere che quell’essere consiste in Megan Gale, ma chiaramente non è così. Megan Gale rappresenta la Vodafone, non è la Vodafone. Non è neanche di proprietà della Vodafone (si può affittare una macchina, non una persona)

Dov’è, dunque, l’essere della Vodafone? Semplice: nella Sim (indipendentemente dal supporto); in atti depositati in tribunale indipendentemente dal supporto); in azioni (indipendentemente dal supporto). Che sono altrettanti tipi di firme (il codice depositato nella Sim è l’essenza di una firma, che stabilisce l’unità concettuale tra i blip del computer della banca, il codice genetico, il tratto di inchiostro sulla carta).

Dov’è l’essere del debito Parmalat? Sempre più difficile. Veniamo a una

situazione in cui le molecole sono davvero pochissime, anzi, a rigore non ce ne sono, visto che si tratta di una entità negativa, quella che poneva tanti problemi a Searle: il debito. Un debito non dovrebbe avere una sola molecola, dunque dovrebbe essere infinitamente meno denso della Polonia, della Fiat, della Telecom, e persino della Vodafone. Invece non è così. Più o meno, un debito ha lo stesso numero di molecole

di tutti e quattro gli altri oggetti sociali che ho citato. “Non nelle casse del comune, nel suo cuore era l’ammanco”, scriveva Vittorio

Sereni nella Intervista a un suicida, racconto lirico di un contabile di Luino uccisosi per un buco. Nei tempi della Parmalat (e del suo vertice riunito a San Vittore, come ricordava Il manifesto), il buco torna di attualità. Come si è arrivati al buco?

Su Repubblica del 4 gennaio 2004 leggevamo, in un articolo dedicato al buco: “Secondo i progetti originali dovevano essere nascosti, come un cadavere ingombrante, in una buca scavata nella notte nel bel mezzo della pianura padana, proprio alle spalle della sede Parmalat. E invece sono finiti nelle mani sbagliate, quelle dei magistrati di Milano, e hanno dato il via al gran valzer delle manette. Sono tre foglietti in cui i contabili Parmalat, poche ore prima dell’esplosione del caso, avevano riassunto il bilancio della società discarica del gruppo, quella destinata a raccogliere tutti i debiti (e con questi buona parte dei segreti) di Tanzi e soci: la Bonlat. Tre foglietti, di cui Repubblica rivela il contenuto.”

Sarà che si trattava, come abbiamo appena letto, di una società-discarica, però è anche vero che quello di scavare un buco per seppellire tre foglietti era un progetto davvero originale. Bruciarli, inghiottirli, farli a pezzettini e disperderli nell’ambiente, alla peggio buttarli nel gabinetto, come si impara anche al cinema, sembrano modi molto più pratici per far sparire tre foglietti. E invece, no. I vertici della Parmalat hanno voluto strafare: un altro buco, dietro l’azienda: che richiede tempo, notti senza luna, e alla fine può essere scoperto. Con il risultato che i tre foglietti li hanno trovati prima i magistrati, poi Repubblica. Perché? Perché restavano, appunto, delle tracce.

Funziona anche con la Enron, a dimostrazione del fatto che non si tratta di una mera questione locale o parrocchiale. Tra i commenti che accompagnarono il crack, un quotidiano finanziario metteva al primo posto delle dieci cose che si potevano fare con una azione Enron: “Use it for sanitary disposal and other bathroom activities.” Questo, rispetto alla teoria di Searle, costituisce un duplice insegnamento: primo, anche una entità negativa possiede una controparte fisica, le azioni divenute prive di valore; secondo, a perdere valore non è la controparte fisica (che recupera il suo valore d’uso), ma la firma che ne garantisce il valore di scambio, e che costituisce la vera essenza dell’oggetto sociale.

Un problema e una soluzione. Quest’ultima considerazione pone un problema

molto serio. La firma non vale più. Quanto dire che in tutta la teoria c’è una circolarità: uso le firme per giustificare la nascita degli oggetti sociali, ma ci sono oggetti sociali che non valgono più niente pur avendo delle firme, come per l’appunto i titoli della Enron. Siamo apparentemente nella stessa situazione in cui si trovava Smith: come fai a distinguere 100 talleri ideali da 100 talleri ideali? Sei un postmodernista anche tu, ti piaccia o meno. E a questo punto anche l’ultima teoria va a farsi benedire.

Realismo forte Gli oggetti sociali sono solidi quanto gli oggetti fisici

Testualismo forte Gli oggetti fisici sono socialmente costruiti

Realismo debole Gli oggetti sociali sono costruiti su oggetti fisici

Testualismo debole Gli oggetti sociali sono costruiti su registrazioni (piccoli oggetti fisici)

Tranquilli, non è così. Nella teoria di Smith risultava impossibile distinguere di

diritto 100 talleri reali da 100 talleri reali. Qui invece può succedere che di fatto 100 talleri reali si rivelino 100 talleri ideali. Insomma, esistono degli assegni scoperti. È triste, è problematico, ma non riguarda la teoria, perché un assegno scoperto, o un titolo della Enron o della Parmalat, resta un oggetto sociale, anche se preferiremmo poterlo scambiare con un oggetto reale, fosse pure un pezzo di parmigiano, e non possiamo farlo.

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