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Lo spazio geografico: dialetti, varietà regionali,
minoranze linguistiche
Rita Fresu
http://people.unica.it/ritafresu/
G. BERRUTO, Le varietà del repertorio, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura di A. A. Sobrero, Roma-Bari, Laterza, 19962, [19931], p. 11.
Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
limitazione territoriale (i dialetti sono varietà diffuse in ambito locale e circoscritto).
modalità di apprendimento (i dialetti sono appresi spontaneamente nel contesto familiare e della socializzazione primaria).
assenza di una norma esplicita (i dialetti non possiedono strumenti di esplicitazione della norma: grammatiche, dizionari, ecc.; simili strumenti dialettali sono realizzati con finalità di studio, non con obiettivi normativi).
limitazione negli àmbiti d’uso (i dialetti sono principalmente usati nella comunicazione orale, familiare, informale).
valore identitario (il dialetto è il codice in cui una comunità si riconosce e tramite il quale si differenzia dalle altre).
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 233-234. Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
Il parlante non alterna le varietà del repertorio casualmente, ma sulla base di convenzioni socialmente e storicamente codificate. Per definire meglio i rapporti tra le varietà di un repertorio occorre far riferimento al dominio d’uso in cui ciascuna varietà è impiegata. Per dominio si intende una classe di situazioni comunicative: il lavoro, la famiglia, la scuola, gli usi ufficiali ecc. Su tale base, seguendo la terminologia introdotta dal linguista statunitense Charles Ferguson intorno alla metà del secolo scorso, si distingue tra diglossia e bilinguismo. Quando le due varietà non hanno uguale prestigio e sono utilizzate in àmbiti funzionali diversi si parla di diglossia. Nelle situazioni di diglossia esiste una varietà «alta» che occupa lo spazio della comunicazione scritta, formale, ufficiale e una o più varietà «basse», che occupano lo spazio della comunicazione orale e informale. L’Italia ha conosciuto a lungo (più o meno tra il Cinquecento e la fine del Novecento) una situazione di diglossia, con una varietà alta (l’italiano scritto) e diverse varietà basse differenziate localmente (i dialetti). Solo negli ultimi decenni l’italiano sta progressivamente occupando lo spazio della comunicazione informale, che condivide coi dialetti. Un’altra caratteristica tipica delle situazioni di diglossia è che solo la varietà «bassa» viene appresa spontaneamente, mentre quella «alta» è appresa secondariamente, di solito a scuola. Nell’Italia del XXI secolo non si può più parlare di una vera e propria situazione di diglossia perché un numero sempre più elevato di parlanti ha l’italiano e non il dialetto come lingua materna; di conseguenza l’italiano (o sue varietà regionali) occupa da solo lo spazio della comunicazione formale, mentre condivide coi dialetti lo spazio della comunicazione informale. In altre parole per comunicare in situazioni informali possiamo scegliere di utilizzare sia l’italiano sia i dialetti. Per rappresentare questa situazione è stato proposto il termine dilalìa [Berruto 2004, pp. 128-132].
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 196. Linguistica italiana (R. Fresu)
Università di Cagliari a.a. 2016-2017
Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
Per prima cosa diciamo dunque che l’Italia è divisa in due parti, una destra e
una sinistra. E se qualcuno vuole sapere qual è la linea divisoria, rispondiamo
in breve che è il gioco dell’Appennino: il quale, come la cima di una grondaia,
sgronda da una parte e dall’altra le acque che sgocciolano in opposte
direzioni, sgocciola per lunghi condotti, da una parte e dall’altra, verso i
contrapposti litorali […].
Le regioni di destra sono l’Apulia, non tutta però, Roma, il Ducato, la Toscana
e la Marca Genovese; quelle di sinistra invece parte dell’Apulia, la Marca
Anconitana, la Romagna, la Lombardia, la Marca Trevigiana con Venezia.
Quanto al Friuli e all’Istria, non possono appartenere che all’Italia di sinistra,
mentre le isole del Mar Tirreno, cioè la Sicilia e la Sardegna, appartengono
senza dubbio all’Italia di destra, o piuttosto vanno associate ad essa. Ora in
entrambe queste due metà, e relative appendici, le lingue degli abitanti
variano: così i Siciliani si diversificano dagli Apuli, gli Apuli dai Romani, i
Romani dagli Spoletini, questi dai Toscani, i Toscani dai Genovesi e i
Genovesi dai Sardi; e allo stesso modo i Calabri dagli Anconitani, costoro dai
Romagnoli, i Romagnoli dai Lombardi, i Lombardi dai Trevigiani e dai
Veneziani, costoro dagli Aquileiesi, e questi ultimi dagli Istriani. Sul che
pensiamo che nessun italiano dissenta da noi.
Ecco perciò che la sola Italia presenta una varietà di almeno quattordici volgari. I quali poi si differenziano al loro
interno, come ad esempio in Toscana il Senese e l’Aretino, in Lombardia il Ferrarese e il Piacentino; senza dire che
qualche variazione possiamo coglierla anche nella stessa città […]. Pertanto, a voler calcolare le varietà principali del
volgare d’Italia e le secondarie e quelle ancora minori, accadrebbe di arrivare, perfino in questo piccolissimo angolo
di mondo, non solo alle mille varietà, ma a un numero anche superiore.
De Vulgari Eloquentia, I x 4-5, in Mengaldo 1979, pp. 86-91.
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U. VIGNUZZI, Isoglossa, in Enciclopedia dell’Italiano Treccani (EncIt), 2010: http://www.treccani.it/enciclopedia/isoglossa_(Enciclopedia-dell’Italiano)/:
Si definisce isoglossa la linea immaginaria con la quale, mediante un’ipotesi metodologica, si
uniscono i punti estremi di un’area geografica caratterizzata dalla presenza di uno stesso fenomeno linguistico (➔ geografia linguistica). Questo fenomeno può essere di natura fonologica, e allora si parla di isòfona, morfologica (isomòrfa), sintattica, oppure lessicale (in quest’ultimo caso si parla di isolessi o, più di rado, di isòsema, ovvero isoglossa semantica); con riferimento all’accentazione si può impiegare isòtona (Beccaria 1994, p. 403).
Il concetto di isoglossa era stato introdotto fin dagli anni Settanta del XIX secolo
da ➔ Graziadio Isaia Ascoli che, sul modello di (linea) isobara, isoterma e isoipsa, coniò isofono per le isoglosse fonetiche […].
Di norma ci si riferisce con isoglossa a una linea che nello spazio, distingue
un’area linguistica che possiede un determinato fenomeno, dal territorio contiguo che non lo possiede: così, ad es., una delle isofone più rilevanti nella definizione dell’Italia dialettale è quella che traccia la linea meridionale (in base ai dati dell’AIS, Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale; ➔ atlanti linguistici) della sonorizzazione dell’occlusiva velare sorda intervocalica in ortiga da ŬRTICAM rispetto a ortica (v. fig. 1, da Rohlfs 1937).
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U. VIGNUZZI, Isoglossa, in EncIt 2010 (http://www.treccani.it/enciclopedia/isoglossa_(Enciclopedia-dell'Italiano)/
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 239.
G. B. PELLEGRINI, Carta dei dialetti d’Italia, Pisa, Pacini, 1977.
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Ascoli (Saggi ladini, in AGI, 1 [1873], pp. 1-556) definì un’«unità ladina»
articolata in tre aree geografiche discontinue: ad est il friulano, al centro
(fra Veneto settentrionale e Trentino-Alto Adige) il ladino dolomitico (o
ladino centrale atesino), ad ovest (nell’elvetico Canton Grigioni) il
romancio (grigionese). Due di queste tre aree sono oggi italiane in senso
politico-amministrativo, ma solo il friulano ha un rapporto univoco con
l’italiano come lingua tetto. Le valli grigionesi sono da secoli orientate
sull’area germanica (da quando, nell’843, il capoluogo Coira/Chur venne
staccato dalla diocesi di Milano per essere attribuito a quella tedesca di
Magonza) e anche il ladino atesino (in particolare le valli di Fassa, Gardena,
Marebbe, Badia) è almeno in parte orientato culturalmente in senso tedesco.
Questi motivi extralinguistici spingono Pellegrini (1973, p. 77), che segue
Salvioni 1917 e Battisti 1929, a non riconoscere un’unità ladina, isolando il
friulano come uno dei «cinque sistemi dell’italo-romanzo» da lui
definiti e distinguendolo dal ladino centrale e dal romancio grigionese.
M. LOPORCARO, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 65-66.
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M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 254-255.
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TERMINOLOGIA lingue minori / minoranze linguistiche (con riferimento alla ristrettezza
del numero di parlanti)
varietà alloglotte o eteroglotte (con riferimento all’alterità linguistica)
TIPOLOGIA (IN RIFERIMENTO ALLA POSIZIONE GEOGRAFICA) propaggini: appendici o penisole sul suolo italiano di altri sistemi (situazioni di
confine)
isole / oasi (linguistiche): una lingua diversa all’interno di un territorio
CEPPO romanzo (francoprovenzale, occitano, francese, catalano, sardo, galloitalico,
tabarchino) e retoromanzo (friulano, ladino centrale o dolomitico questione ladina)
non romanzo (tedesco, sloveno, croato, arbëresh, grico, cimbrico, walser, mòcheno)
PROVENIENZA autoctone (popolazioni indigene)
insediamenti successivi (conquiste, migrazioni, ripopolamenti, ecc.)
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M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 252-258 (con adattamenti).
bibliografia generale di rif.: F. TOSO, Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, il Mulino, 2008.
La Costituzione (art. 3) sancisce l’uguaglianza dei cittadini anche dal punto di vista linguistico:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali).
Al successivo art. 6 precisa che La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. Per vari motivi l’attuazione di questo principio ha dovuto attendere oltre mezzo secolo:
la legge di tutela delle minoranze è stata promulgata nel dicembre del 1999 (legge 482/99). Dopo aver stabilito (e fu la prima volta che ciò era riconosciuto in una legge dello Stato) che
La lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano elenca dodici varietà (o gruppi di varietà) sottoposti a tutela:
la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi,
catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo.
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 257. Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
in àmbito scolastico è previsto l’uso anche della lingua di minoranza per lo svolgimento delle attività
educative nella scuola materna e come strumento di insegnamento nelle scuole elementari e medie. Le
università delle regioni interessate possono istituire corsi di lingua e cultura delle lingue di minoranza e
promuovere iniziative di ricerca sulle tradizioni linguistiche e culturali delle stesse;
in àmbito politico è previsto, nei comuni interessati, l’uso della lingua di minoranza nelle sedute dei
consigli comunali e degli altri organi a struttura collegiale dell’amministrazione;
negli uffici pubblici è consentito l’uso orale e scritto della lingua, con esclusione delle forze armate e
delle forze di polizia dello Stato;
per quel che riguarda l’onomastica la legge prevede che nei comuni interessati si possa deliberare
l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni locali. Inoltre (art. 11, c. 1) «i cittadini […] i cognomi o i
nomi dei quali siano stati modificati prima della data di entrata in vigore della presente legge o ai quali sia
stato impedito in passato di apporre il nome di battesimo nella lingua della minoranza, hanno diritto di
ottenere, sulla base di adeguata documentazione, il ripristino degli stessi in forma originaria. Il ripristino
del cognome ha effetto anche per i discendenti degli interessati che non siano maggiorenni o che, se
maggiorenni, abbiano prestato il loro consenso». Si tratta di una norma risarcitoria nei confronti della
politica discriminatoria adottata in epoca fascista, che aveva portato all’italianizzazione forzata di nomi di
persona e di luogo nei territori annessi in seguito alla prima guerra mondiale.
Di là dalle tutele più o meno ampie previste dalla legge, le minoranze nazionali possono appoggiarsi alle lingue
ufficiali parlate in territori confinanti e sono pertanto meno minacciate. Le altre, che non possono godere di tale
vantaggio, risultano più esposte al rischio di scomparsa e quindi necessitano di attenzioni maggiori.
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 258. Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
Si definisce come italiano regionale quella varietà di italiano parlata in una determinata
area geografica, che denota sistematicamente, ai diversi livelli di analisi linguistica,
caratteristiche in grado di differenziarla sia dalle varietà usate in altre zone sia anche
dall’italiano standard […].
P. D’ACHILLE, L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2010, p. 206.
Se dal punto di vista storico i dialetti sono varietà «sorelle» dell’italiano, gli italiani regionali
sono «figli» della lingua comune e dell’unificazione nazionale. In seguito alla formazione
dello Stato unitario un numero sempre maggiore di parlanti dialettofoni variamente
scolarizzati si è trovato a confrontarsi con l’uso orale e scritto dell’italiano: il risultato è stato
la formazione di varietà intermedie tra dialetti e lingua comune che prendono appunto il
nome di italiani regionali. La genesi postunitaria di queste varietà è però condivisibile a patto
di prendere come riferimento gli usi orali. Negli usi scritti di vario livello, e a sprazzi anche
per l’oralità, come ha dimostrato una bibliografia ormai più che ventennale […] l’italiano
regionale esisteva e aveva prodotto significative testimonianze già in epoca preunitaria […].
Quel che importa ricordare è comunque che queste varietà hanno svolto un ruolo
fondamentale di «stanze di compensazione tra dialetti e lingua» e di
conseguenza «hanno sempre più sdrammatizzato e sfumato la contrapposizione
tra italiano e dialetti» [De Mauro 2014, p. 128]
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 235 e pp. 252-258 (con adattamenti);
bibliografia generale di riferimento: N. DE BLASI, Geografia e storia dell’italiano regionale, Bologna, il Mulino, 2014.
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Quando si parla di italiani regionali occorre precisare che con l’aggettivo «non ci si riferisce
propriamente alle regioni amministrative, ma a regioni linguistiche di varia estensione […]
quindi regionale vale “di una certa zona” ed equivale a locale» [Poggi Salani 2010].
Accentuando la portata di questa osservazione, è stato osservato che «salvo rarissime
eccezioni, che riguardano praticamente solo le isole maggiori, l’area di una varietà
regionale di italiano non coincide mai con l’area di una regione
amministrativa» [Sobrero 2012, pp. 129-130]. A seconda del livello di dettaglio a cui ci si
vuole spingere, si può quindi parlare indifferentemente di italiano regionale con riferimento
a una città (Torino, Milano, Roma, Napoli, Palermo), a una subregione (il Salento, la
Romagna), a una regione (la Toscana, la Campania) o addirittura a un’area sovraregionale,
per esempio se si enucleano le caratteristiche generali delle varietà settentrionali o
centromeridionali di italiano.
Se il percorso di formazione degli italiani regionali è stato univoco e ha determinato una
forte spinta all’italianizzazione, i risultati del percorso sono stati plurivoci:
esistono tanti italiani regionali. Tuttavia nel corso dei centocinquant’anni di storia
unitaria si è innestato un meccanismo di convergenza delle varietà locali verso un
numero limitato di poli di attrazione costituito dalle principali aree urbane.
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 247. Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
varietà settentrionali ◦ padana
◦ veneta
varietà toscana
varietà romana
varietà meridionali ◦ tirrenica-napoletana
◦ adriatica
varietà siciliana
varietà sarda
P. D’ACHILLE, L’italiano contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 207 e 211-214.
Bisogna inoltre sottolineare che la
situazione dell’italiano regionale di aree in
cui i dialetti sono tipologicamente distanti
dall’italiano risulta ben diversa da quelle in
cui lingua e dialetto sono invece contigui; in
queste zone (la Toscana, Roma, le aree
“mediane di transizione” delle Marche,
dell’Umbria e del Lazo) esiste infatti non un
gradatum ma piuttosto un continuum
linguistico che non consente facilmente di
tracciare un confine netto tra lingua e
dialetto, come invece avviene altrove.
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ITALIANO LETTERARIO (STANDARD o COMUNE)
ITALIANO REGIONALE (o KOINÈ LOCALE)
DIALETTO REGIONALE (o KOINÈ DIALETTALE)
DIALETTO LOCALE (o RUSTICO)
G.B. PELLEGRINI, Tra lingua e dialetto in Italia, in «Studi Mediolatini e Volgari», 8 (1960), pp. 137-153. Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
Alcuni anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, Rüegg interrogò mediante un questionario 124 persone in 54 diverse province italiane sui modi in cui esprimevano abitualmente 242 nozioni (appartenenti ai domini famiglia, infanzia, corpo, salute, cibo, abbigliamento, lavoro, commercio, denaro); da questa indagine risultò che una sola nozione, «caffè forte al bar», veniva resa con un unico termine, espresso, mentre tutte le altre nozioni conoscevano dal minimo di due al massimo di tredici geosinonimi. Ovviamente l’uso di una parola non escludeva l’impiego di geosinonimi concorrenti; ma, anche in questo caso, le nozioni che potevano essere denotate con una parola unica nelle 54 province ammontavano ad appena 12 (il 4,7% del totale) e concernevano, per la maggior parte, aspetti della vita moderna (albergo, cappuccino, espresso, limonata) e tecnicismi vari (camion, finestra, maniglia, tetto), mai l’ambito della tradizione.
ROBERT RÜEGG, Zur Wortgeographie der italienischen Umgangssprache, Köln, Romanisches Seminar der Universität Köln, 2 voll., 1956.
R. REGIS, Geosinonimi, in Enciclopedia dell’Italiano Treccani (EncIt), 2010 http://www.treccani.it/enciclopedia/geosinonimi_(Enciclopedia-dell'Italiano)/
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PROSODIA
FONETICA
MORFOLOGIA
SINTASSI
LESSICO
FRASEOLOGIA
T. TELMON, Varietà regionali, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura di A. A. Sobrero, Roma-Bari, Laterza, 19962, [19931],
pp. 93-149, a p. 101 (con adattamenti).
DI
AL
ET
TO
IT
AL
IA
NO
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L’emersione [dei tratti locali] è però selettiva: i tratti dialettali da cui si alimenta l’italiano
regionale non sono infatti dotati di uguale prestigio nella percezione dei parlanti: alcuni sono
considerati come appartenenti al dialetto «basso» e quindi eliminati man mano che il livello di
formalità cresce, altri sono mantenuti. Per esempio un parlante cólto romano, se dovesse
parlare in italiano, anche in situazioni informali tenderebbe a non realizzare lo scempiamento
della r intervocalica (il tipo tera, guera) perché lo considera un tratto marcatamente dialettale;
per lo stesso motivo un parlante cólto campano, nelle stesse circostanze eserciterebbe un forte
controllo sulla propria tendenza a sonorizzare le consonanti postnasali (il tipo tando, cambo).
Gli stessi parlanti non avrebbero invece problemi a produrre, sempre parlando in italiano
informale, altri tratti regionali, per es. il raddoppiamento di b intervocalica (sàbbato, débbito).
Se invece si trovassero a parlare in una situazione formale, probabilmente si sforzerebbero di
cancellare anche questi raddoppiamenti, mentre non si sforzerebbero di evitare la pronuncia
fricativa anziché affricata della palatale ['baʃo, denti'friʃo]. La censura esercitata sui singoli
fenomeni può variare anche sulla base di diverse sensibilità linguistiche locali. Per esempio in
Toscana la distanza tra lingua e dialetto è percepita come un continuum con pochissime
soluzioni di continuità e ciò determina un minor controllo censorio sulle abitudini locali; di
conseguenza «mentre il passaggio da [s] a [ts] dopo nasale (es. ['pɛntso] ‘penso’), maggioritario
in Toscana benché non tradizionalmente fiorentino, nella regione arriva tranquillamente a
livello di italiano colto, altrove (Salento, Abruzzo) tende a essere avvertito come basso e la sua
presenza si dirada a livello socioculturale più alto» [Poggi Salani 2010].
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 249.
Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
Lo sforzo selettivo di cancellazione dei tratti locali più marcati può generare il
fenomeno dell’ipercorrettismo, cioè di un errore generato da un eccessivo
adeguamento alla norma di riferimento: per esempio il parlante campano che
per reazione alla tendenza a pronunciare cambo anziché campo dicesse sto
antanto anziché sto andando incorrerebbe in un ipercorrettismo. Vari scrittori
hanno ironizzato su questi incidenti di percorso dei nuovi italofoni che tentavano di
traslocare dal dialetto alla lingua attraverso tentativi a volte riusciti a volte
infruttuosi di «parlare pulito». Per esempio Trilussa, acuto osservatore della Roma
di primo Novecento, mette in bocca ai personaggi delle sue poesie vari strafalcioni
indotti dal tentativo di italianizzare la propria lingua. Una popolana arricchita, di
nome Fifì, per darsi un contegno racconta così il suo trasferimento in un lussuoso
hotel di via del Corso: suono alloggiata all’Hotel de Rome. Suono in luogo di sono è
un iperdittongamento generato per reazione alla tendenza del romanesco a
monottongare (bòno, nòvo). E in un altro sonetto un imbonitore
dice solprendente per sorprendente, reagendo così alla tendenza del romanesco a
trasformare in r la l preconsonantica (coltello → cortello).
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, p. 249. Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
R. REGIS, Geosinonimi, in Enciclopedia dell’Italiano Treccani (EncIt), 2010
http://www.treccani.it/enciclopedia/geosinonimi_(Enciclopedia-dell'Italiano)/:
I geosinonimi sono parole di uso regionale (➔ regionalismi) che, nelle varie parti del territorio italiano, designano uno stesso oggetto. Al pari dei ➔ sinonimi, sono quindi dotati di significato uguale e forma diversa (rispetto ai corrispondenti termini dell’➔italiano standard), ma, a differenza dei sinonimi, hanno nel territorio in cui è parlata una lingua una diffusione areale limitata […];
susina/prugna; anguria/cocomero; babbo/papà; branzino/spigola; ora/adesso/mo
(PALERMO 2015, p. 251)
stampella (Nord, Centro, Roma, Sud); gruccia (Toscana, Centro-Sud)
attaccapanni, appendiabiti, ometto (Nord); appendino, croce (Sud) (D’ACHILLE 2010, pp. 71-72)
Così come i geosinonimi sono dei «sinonimi marcati in diatopia» (al di là della precisione nella corrispondenza di significato, che abbiamo visto non essere sempre data), allo stesso modo i geoomonimi sono «omonimi marcati in diatopia» (➔ variazione diatopica), ovvero parole che presentano uguale forma e significato diverso in aree geografiche differenti (Telmon 1993, p. 137; Coveri, Benucci & Diadori 1998, p. 56).
mollica ‘parte interna morbida e soffice del pane’
‘briciola’ (spec. al pl.) a Roma; ‘pangrattato’ al Sud (siciliano)
Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
Un tipo particolare di regionalismi sono i geosinonimi, termini diversi che designano lo stesso referente su scala
regionale. Come i sinonimi essi hanno un significante diverso e un significato identico o simile; a differenza dei sinonimi
la loro diffusione areale è limitata. Per es. l’anguria è chiamata nelle varie regioni cocomero, mellone, citrone, il
balcone poggiolo, terrazzo o loggia, la calza da uomo calzino, calzetto o pedalino, la scopa ramazza o granata e così
via. Un caso classico di variazione regionale è quello dell’espressione usata per ‘marinare la scuola’, che solo per fare
alcuni esempi a Milano si dice bigiare, in Veneto bruciare, a Bologna fare fughino, in Toscana bucare o fare forca, a
Roma fare sega, a Napoli fare filone, in Sicilia caliare. Alcuni geosinonimi hanno perso quasi del tutto la connotazione
regionale e sono diventati quindi sinonimi di rango nazionale: è il caso di somaro e asino, ormai intercambiabili nell’uso
comune seppure il primo sia di origine meridionale il secondo settentrionale. Come per i sinonimi, anche nel caso dei
geosinonimi l’equivalenza di significato non sempre è totale. Prendiamo il caso di lavabo: il toscano acquaio e lo
standard lavello si riferiscono soprattutto alla piccola vasca che si trova in cucina e viene usata per lavare alimenti e
stoviglie, il settentrionale lavandino (così come l’emiliano e veneto scafa e il centromeridionale sciacquaturo) ha un
significato più ampio e può riferirsi anche all’impianto collocato in bagno e usato per la pulizia personale. L’italiano
postunitario conosceva un numero di geosinonimi più alto, poi gradualmente il passaggio dalla civiltà rurale a quella
industriale ha comportato l’imporsi di un nome unico per molti manufatti e nomi di mestieri. Negli anni Cinquanta del
secolo scorso un linguista tedesco, R. Rüegg, fece un’inchiesta in cui chiedeva a un campione di italiani come
chiamassero oggetti legati alla vita quotidiana (abbigliamento, alimenti, parti del corpo ecc.): dall’indagine risultò che
una sola nozione, il caffè preso al bar, veniva resa con un unico termine, espresso, mentre tutte le altre conoscevano da
un minimo di due a un massimo di tredici geosinonimi.
I geoomonimi sono invece parole uguali che a seconda dell’area geografica assumono un significato diverso.
Possono avere la stessa etimologia o rappresentare la casuale confluenza dell’evoluzione di basi distinte.
Due soli esempi: fetta significa ‘piede’ in romanesco e ‘pezza’ in emiliano;
fregno può significare ‘persona abile, scaltra’ (in Abruzzo) o ‘persona buffa, sciocca’ (a Roma e nel Lazio).
M. PALERMO, Linguistica italiana, Bologna, il Mulino, 2015, pp. 137-138.
Linguistica italiana (R. Fresu) Università di Cagliari a.a. 2016-2017
R. REGIS, Geosinonimi, in Enciclopedia dell’Italiano Treccani (EncIt), 2010 http://www.treccani.it/enciclopedia/geosinonimi_(Enciclopedia-dell'Italiano)/
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