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LO STRANIERO DI PORTLAND - DEMO

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Lo straniero di Portland - Giovanni Sartore

Dedicato a mia figlia Sefora

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Trovarsi lì fu per lui fonte di sconcerto, anche perché, come vi fosse arrivato, non ne aveva la minima idea. Il cartello provin-ciale, comunque, parlava chiaro: stava per varcare il confine che divideva la cittadina di West Haven da una delle principali città dell’Oregon, Portland. La cosa non lo disturbava più di tanto, se non fosse stato per la consapevolezza che non solo non sapeva cosa ci stesse facendo lì, ma non sapeva nemmeno chi fosse. Il cercare di andare a pescare nella memoria gli ultimi trascorsi del-la sua vita, inclusa la sua identità, non produceva esito alcuno, se non la frustrazione derivante dal non riuscirci. Chi era? Qualcuno doveva essere per forza, anche se dopo un’at-tenta ricerca su se stesso, in tutte le possibili tasche, ogni tentativo di trovare un qualunque riferimento o documento d’identità lo riconduceva quasi inevitabilmente al punto di partenza. Si guardò intorno mentre percorreva la statale alla ricerca di qual-che ausilio mnemonico che lo aiutasse a uscire da quell’incertez-za sconfortante, ma nulla di ciò che lo circondava gli riusciva in qualche modo familiare. Un paesaggio particolare, quella casetta lungo il canale fluviale, i grattacieli di Portland che si vedevano in lontananza… ma niente, nulla del panorama che si offriva alla sua vista riusciva a smorzare quell’accesa sensazione di malesse-re interiore che lo faceva sentire fuori posto ovunque posasse lo sguardo.

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Seguitò a camminare, anche perché non sapeva cos’altro potesse fare. Comunque il suo passato gli aveva dato in eredità un vestito decente e in tasca aveva qualche dollaro, ma questo non bastava a farlo stare meglio e a evitargli di sentire la nausea e un forte senso di vertigine procurato da quel vuoto intollerabile. Possibile che non riuscisse a ricordare proprio nulla, nemmeno una briciola di ciò che era stato? Che fosse una persona adulta lo aveva dato per scontato, anche se che aspetto avesse non era stato ancora in grado di appurarlo. Quindi, di anni trascorsi ce n’era-no diversi, almeno una quarantina... e di quei quarant’anni aveva perso ogni traccia? Buttati così nel cesso? Il fatto che riuscisse ad elaborare quei ragionamenti lo confortò su un aspetto: il suo cervello e la sua mente funzionavano per-fettamente. Non poteva, quindi, essere un mentecatto fuggito da chissà quale casa di cura, era una persona perfettamente normale, se non fosse stato per l’assoluta mancanza d’identità e di ricordi. Si passò una mano sul viso: era liscio, non doveva quindi essersi rasato da più di un giorno. Ma, dove si fosse rasato, era tutto da scoprire, se mai lo avesse saputo. Mentre era preso in questo suo soliloquio, seguitava a seguire il serpentone stradale che lo aveva portato nei sobborghi di Port-land. La provinciale era intensamente trafficata, quindi quella cit-tà doveva essere un importante nodo economico e commerciale. Il poter ragionare in quei termini gli procurava un piacere inso-lito, forse perché il riprendere ad immagazzinare informazioni e ricordi nuovi lo confortava notevolmente. Si guardò alle spalle… Sì, ricordo quella fattoria, anche quel silos,

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quel cartello, quella pubblicità… Gli pareva fosse naturale sentir-si rincuorato da quelle certezze, anche se non riusciva a scacciare l’ombra di quella realtà, la qui mancanza gli bruciava più di ogni altra cosa, come il suo nome. Il suo nome? Poteva essere chiun-que, anche un ricercato per quanto ne sapeva, forse la polizia da un momento all’altro sarebbe sopraggiunta per arrestarlo, anche se in cuor suo non sapeva nel modo più assoluto cosa potesse aver fatto. Trovò paradossale, comunque, che in quell’evenienza avrebbe potuto esserci un aspetto positivo: avrebbe almeno sapu-to chi fosse, pensò quasi sinistramente. Ma non arrivò nessuno, nessuna auto della polizia, nessuno che lo arrestasse, nessuno che gli dicesse il suo nome. Poco distante, infine, vide l’insegna luminosa di un grande bar, “Da Henry” si chiamava, il che poteva essere interpretato come un invito: avete voglia di bere qualcosa? Venite “Da Henry”. In effetti, aveva voglia di qualcosa di caldo, anche se il tempo era gradevole… In che periodo dell’anno si trovava? Scottante questione. Non lo sapeva... nemmeno l’anno, il giorno… com’era possibile? Forse era meglio non pensarci troppo per non compromettere la sua sta-bilità mentale. Appena dentro il bar, notò che si trattava di un locale alla buona, pulito ma nulla di pretenzioso, costituito da un lungo bancone traslucido e parecchi tavoli sparsi a semicerchio intorno ad esso. L’uomo dietro il bancone, un po’ ingobbito dagli anni, si nascon-deva dietro un paio di occhiali da talpa ed era indaffarato, pro-babilmente, nelle sue mansioni giornaliere. Non appena lo vide

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gli lanciò un cordiale saluto, cosa che gli risultò molto gradita essendo la prima nota umana che gli riusciva di immagazzinare nella memoria. – Salve – gli rispose di rimando, accomodandosi su uno degli alti sgabelli di fronte al bancone.– Straniero? – chiese l’uomo.– Sì, sono di passaggio, almeno credo.– Senza destinazione precisa? Dai vostri panni mi sembrate un dirigente d’azienda.– Davvero? – Per mille fulmini, vi va di scherzare di primo pomeriggio? – No, volevo solo un buon caffè caldo… e poter andare in bagno, dove lo posso trovare?– Guardi è là in fondo, di fianco al distributore dei gelati c’è una porta scura.– La ringrazio.– Allora aspetto che usciate prima di prepararvi il caffè – gli disse mentre lui si stava allontanando. Gli fece cenno di sì col capo mentre raggiungeva il distributore e con esso la porta dei servizi. Appena dentro vide finalmente sé stesso, ma fu come se si ve-desse per la prima volta: aveva un viso piacevole, giovanile, ben curato, occhi castano scuro, capelli neri… Sono un bell’uomo, in fondo, si disse quasi complimentoso. Infine, dopo aver fatto i suoi bisogni e lavatosi le mani, raggiunse l’insolito barista.– Caffè in arrivo – disse gioviale quest’ultimo – ve l’ho fatto bello forte perché mi date l’idea di aver bisogno di una bella scossa.

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– Grazie.– È da molto che siete in città? Non vi ho mai visto prima.– Non mi avete mai visto? – No.– Evidentemente non sono di queste parti...– Pare anche a me.– Mmmm… ottimo questo caffè, ci voleva proprio!– Lo dicono in molti. Pensate che alcuni della Seagate Corpora-tion preferiscono fare qualche centinaio di metri in più al mattino per venire da me, piuttosto che andare dal tizio che ha il bar pro-prio sotto i loro uffici.– Li capisco perfettamente.– Ed è un rituale che si ripete puntualmente ogni giorno, perché la qualità del mio caffè non deriva solo dal tipo di miscela usata, ma anche dall’attenta pulizia giornaliera alla mia Faema fatta ar-rivare fin qui dall’Italia. Da qui non escono brodaglie scure tali da riempire quartini di ciottoli, ma due dita di caffè, un dito di crema e tutto il resto, tanto da rendere il mio caffè quasi una leggenda.– Vedo – commentò reciso lui posando la tazzina vuota sul piat-tino. Un brontolio allo stomaco lo portò comunque alla considerazio-ne di un’altra realtà: aveva fame. Il caffè lo aveva stimolato dal punto di vista nervoso ma non aveva idea di quanto tempo fosse passato dal suo ultimo pranzo.– Qui è possibile anche mangiare qualcosa? – Volete scherzare… Ah già, voi siete straniero, quasi lo dimen-ticavo. “Da Henry” si mangiano le migliori salsicce della città,

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cotte al punto giusto, con ogni tipo di contorno a vostra scelta e birra a volontà, italiana naturalmente.– Posso accomodarmi a un tavolo? – Come volete … quante salsicce? – Facciamo tre, patate come contorno e pane tostato.– In cucina a quest’ora è tutto spento, ma datemi una ventina di minuti e sarà tutto pronto, dopodiché non potrete più fare a meno di venire “Da Henry”.Dopo essersi accomodato ad un tavolo vicino alla finestra, lo straniero iniziò a guardare fuori. La curiosità di riscoprire gusti e sapori sconosciuti lo rendeva insolitamente nervoso, o forse era semplicemente l’effetto del caffè imprudentemente bevuto a stomaco vuoto? Nel parcheggio di fronte al bar era parcheggiata una Pontiac vecchio modello, come facesse a ricordare il modello fu lì per lì un mistero ma non vi dedicò che pochi secondi, con-siderando la cosa un riflesso inconsapevole di qualche neurone impazzito. – Ancora qualche minuto – disse il barista a voce alta dalla cuci-na.– Fate con comodo, tanto non ho fretta – disse lui di rimando. – Siete qui per affari? Affari, magari lo sapessi … – Mi trovo in zona quasi per caso, sono di passaggio.– Dove siete diretto? – Sto cercando una persona – improvvisò in quell’istante, che in fondo non era poi una bugia, anche se quella persona era se stes-so – una persona a me molto cara, so che deve essere di queste

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parti.– Forse la conosco, conosco tantissime persone qui, come si chia-ma? Mentre il gestore del locale formulò quest’ennesima domanda, spuntò dalla cucina sul retro con un vassoio fumante, posandolo di fronte a lui. – A dire il vero, è una questione molto personale e insolita, io non… – Lasci perdere straniero, buon appetito, sono un chiacchierone per natura, ma un ficcanaso… no, questo proprio no.Detto questo, si allontanò tornando alle sue faccende. A quel pun-to lui poté concentrarsi su ciò che aveva davanti che, a giudicare dall’aspetto, doveva essere tutto un programma.

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– Che cosa sta facendo? – chiese Alvin Rocket, sbuffando fuori dal finestrino della Pontiac una folata di fumo pestilenziale.– Sta mangiando – rispose Patricia Kennet – sembra tutto nella normalità.– Chissà come ci si sente, deve essere tremendo risvegliarsi sul ciglio di una strada e non ricordare nulla, né dove ci si trova né chi si è.– Avresti potuto proporti tu per l’esperimento, così lo avresti sa-puto – disse lei voltandosi verso di lui – ma devi proprio fumare quegli affari tremendi? – chiese poi seccata riferendosi all’avana che il suo amico si stava gustando.– Non ti agitare, ti ci dovrai abituare.– Non capisco perché fra i tanti agenti che la CIA ha a disposizio-ne, dovevano affiancarmi proprio a te.– Perché in casi di pedinamento e sorveglianza speciale sono il migliore, nessuno ha un’esperienza nel campo paragonabile alla mia, perciò non ti lagnare troppo per un sigaro e un po’ di puzza, l’importante è svolgere bene il nostro lavoro.– Chissà chi era quel tale prima del trattamento...– Non ne ho idea – disse Alvin – e comunque poco m’importa, di sicuro sarà stato uno di quei pinco pallino qualunque disposto per denaro a sottoporsi a qualunque stronzata di esperimento.– Non sono stati molto chiari sulle direttive del caso, non sappia-

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mo né per quanto né fino a dove ci dobbiamo spingere in questo lavoro di pedinamento.– Non dobbiamo in alcun modo perdere il contatto con il soggetto – disse Alvin – dobbiamo riferire i suoi spostamenti e le sue rea-zioni, qualunque genere di anomalia riscontrata e tutto il resto.– Potrebbe essere utile andare a fare quattro chiacchiere con lui – propose lei, fra il curioso e il divertito. Alvin la guardò mentre Patricia si stava aggiustando i lunghi ca-pelli castani. Pat, come la chiamavano gli amici, non era più gio-vane, ma l’aspetto energico e vitale che trasmetteva la sua figura, la rendevano scanzonata e a tratti quasi fanciullesca .– Perché, vorresti andare a parlarci? – Perché no, potrebbe essere interessante ai fini della nostra ricer-ca comportamentale sull’individuo.– Potrebbe non essere prudente, l’amnesia indotta non cancella l’intelligenza, qualche domanda fuori posto e saremmo nei guai. Dammi retta, Patricia, lascia perdere che è meglio, non sei una psicologa e tanto meno lo sono io, siamo due semplici agenti im-pegnati in una missione di routine, facciamo semplicemente ciò che ci è stato ordinato: non perdiamolo d’occhio.– E chiamami Pat, così fai prima, te l’ho già detto. Comunque io vado a prendere qualcosa al bar, questo lo posso fare, no? Ti porto qualcosa, Alvin? – Un bue arrosto… Pat, non ci andare, dammi retta, non agitiamo le acque.– Come grado siamo identici per cui non sei nella condizione di potermelo ordinare, io vado.

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– Io non ne voglio sapere nulla.– Se ci tieni… Detto questo, Pat uscì dalla Pontiac e si avviò lentamente verso il locale. Una volta all’interno, fu accolta anche lei con insolita cordialità dal proprietario.– Buongiorno, oggi deve essere la giornata degli stranieri – esordì bonario.– Buongiorno – rispose Pat – desideravo qualcosa di fresco… diciamo un bel frullato.– Un minuto e le farò bere un frullato indimenticabile.Lo straniero assisté alla scena dal suo tavolo, e non poté evitare di catalogare il proprietario del locale nella categoria degli ingua-ribili megalomani. Da lui tutto era migliore e speciale… Sorrise, anche se dovette ammettere che le salsicce e tutto resto erano veramente deliziosi.– Il frullato, signorina, se si vuole accomodare… là c’è un altro della sua categoria, un altro straniero. Evidentemente la mia fama sta andando oltre Portland e dintorni.Pat si avvicinò all’unico avventore e considerò l’invito del barista un’occasione irrinunciabile che rendeva il suo approccio del tutto casuale.– Posso? – Non ha sentito il padrone di casa? Poiché siamo della stessa categoria, non possiamo evitare di socializzare.– Io mi chiamo Patricia, Pat per gli amici, e lei? Trascorsero alcuni secondi, forse era stato troppo precipitoso ad accondiscendere a fare quattro chiacchiere con quella simpatica

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donna. Poi ebbe un’idea.– Mi chiamo Henry, proprio come il barista.– Ehi! – fece questi sentendosi chiamare in causa – io non mi chiamo per niente Henry, quello è il nome di padre, lui ha aperto questo bar, io mi chiamo Norman.– Scusate… Comunque io sono sempre Henry.– Piacere Henry, anche voi dunque siete uno straniero...Come fare per evitare domande scomode? Farle per primo… – Voi che ci fate a Portland? – chiese quindi Henry.– Sono qui per lavoro.– Anche quel tale che è con voi nella Pontiac? Pat si voltò verso la finestra e annotò mentalmente che Al aveva avuto ragione nel sollecitarla a prestare attenzione a parlare con il soggetto, non era certo uno stupido, doveva essere cauta. Anche il fatto che lì per lì fosse riuscito a inventarsi un nome era una questione alquanto interessante.– Sì, anche lui… Ma ora parliamo di voi, Henry… siete qui per affari? – Chiamiamola piuttosto una gita di piacere – rispose lui – sto cercando un conoscente di cui ho perso le tracce, nulla di parti-colare.– Un amico? – Beh, a dire il vero, molto di più di un amico.– Signorina, lasci andare – interloquì a distanza il barista – ci ho già provato io, ma quell’argomento è off limits.Pat rise garbatamente per non apparire sfacciata.– Capisco… Allora parliamo d’altro.

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– Il fatto è che… – poi Henry s’interruppe.– Continuate.– No, niente, stavo semplicemente pensando ad alta voce, e poi le nostre questioni private possono non interessare né a voi né a me.– Non volevo sembrarle inopportuna, Henry.– Non preoccupatevi, oggi sono solo un po’ nervoso, tutto qui.– È l’effetto Portland – interloquì nuovamente Norman – tutti qui sono su di giri, fin dalle prime ore del mattino. Si vede che le è bastato respirare qualche boccata della nostra aria per diventare come uno di noi.– Divertente, molto divertente – commentò acido Henry.Pat terminò in quel momento il suo frullato.– Lasci pure lì il bicchiere signorina, poi ci penso io.– Grazie, cosa le devo?– Offro io – disse Henry senza troppo entusiasmo – è il minimo che possa fare per la piacevole compagnia.– Ha sentito che galantuomo? Offro io… Quando Pat si alzò e fece per andarsene, Henry provò una sensa-zione strana, quasi di malumore, come se non sopportasse l’idea di tornare a essere solo, a parte quello spasso di Norman.– Scusatemi, Pat, se vi sono sembrato scorbutico, è che… oggi è una giornata troppo particolare per me. Rimanete a Portland? – Sì, qualche giorno.– Allora forse ci capiterà di rincontrarci.– Forse.– La prossima volta cercherò di essere meno scortese e un com-

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pagno di conversazione migliore.– Arrivederci, Henry.– Signorina Pat… Henry la seguì con lo sguardo mentre usciva dal bar e rientrava a bordo della Pontiac parcheggiata appena fuori. Perché mai quella donna si era interessata a lui? Perché tutte quelle domande? E chi era quello sconosciuto che l’aveva aspettata in auto? Henry non si considerava sospettoso per natura, ma quell’episo-dio aveva qualcosa di poco chiaro e si sentiva spinto ad approfon-dire l’argomento non appena Pat gli fosse stata nuovamente a tiro. Lo stato confusionale della sua assoluta mancanza di ricordi non lo aveva messo nella condizione di poter approfittare di quell’oc-casione per cercare di saperne di più. Ma saperne di più su cosa? Non lo sapeva, ma i suoi sospetti si erano messi in agitazione e la comparsa sulla scena di Pat non li avevano certo acquietati.

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Lo straniero di Portlanddi Giovanni Sartore

A cura dell'Istituto di Arti Terapie e Scienze CreativeISBN: 978-88-97521-27-3

Ed. Circolo VirtuosoData pubblicazione: 31 Maggio 2012

Prezzo: € 16,00