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L'ombra della realtà

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Marcello Ciancio, giallo

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MARCELLO CIANCIO

L’OMBRA DELLA REALTÀ

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L’OMBRA DELLA REALTÀ Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-556-4 Copertina:Immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Giugno 2013 Stampato da

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Ringraziamenti Ringrazio mia moglie Stefania per il suo appoggio morale. Dopo aver letto il romanzo si è un po’ preoccupata, in quanto si è chiesta se l’uomo che aveva scritto alcuni capitoli particolarmente cupi fos-se lo stesso che aveva sposato qualche anno prima. Non conosco la risposta. Ringrazio il mio primogenito Giovanni per aver dormito ogni sera dopo le dieci, regalandomi il tempo da dedicare alla scrittura. Ringrazio Irene Piovesan. Le ho chiesto se aveva il tempo di dise-gnare la copertina per questo romanzo e in una settimana mi ha presentato quattro diverse alternative, tutte migliori di come io le avessi immaginate. Ringrazio infine Alessandra Flores D’Arcais, che ha letto una delle prime stesure. Ho deciso di puntare con convinzione alla pubblica-zione di questo romanzo solo dopo aver ricevuto i suoi commenti en-tusiasti.

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1 10 agosto 2010;ore 9.30 «Dove si va?» disse il commissario salendo in auto. «Via Nomentana, verso l’incrocio con via del Casale di San Basilio» rispose il vice commissario mettendo in moto l’auto di servizio, una Punto grigia. «Chi è il morto?» «Un certo Giorgio Pallante.» «Senti, io sono appena arrivato al commissariato, non ho neanche fatto colazione. Non mi rispondere a monosillabi. Fammi un reso-conto!» sbottò il commissario Sergio Mantini. Il commissario era un po’ sovrappeso, quasi sulla sessantina. Quel giorno, visto che non aveva in programma appuntamenti formali, vestiva in jeans e camicia a maniche corte. Del resto il caldo a Roma d’estate era micidiale. Purtroppo di vacanze, quell’anno, neanche a parlarne. «Ok, ok» rispose il vice commissario Carlo Ricci «Giorgio Pallante era ricercatore presso la casa farmaceutica Salufarm, che ha sede a sud di Roma, zona Cecchignola…» «Giorgio Pallante…» «Si occupa di vaccini, anche se non so esattamente cosa facesse di preciso. Ho sentito telefonicamente il direttore della struttura, Stefa-no Nardi. Il cadavere l’han trovato i vicini di casa stamattina. Ha te-lefonato una signora che sembrava in preda a una crisi isterica. La sovrintendente Gloria Falzini, che ha risposto alla telefonata, ha fati-cato non poco a farsi dare l’indirizzo.» «Come lo hanno trovato?» «Pare che la porta fosse aperta e il cadavere fosse per terra. La scien-tifica dovrebbe essere già lì, sono partiti mezz’ora fa. Siamo noi che siamo in ritardo…»

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«Senti, Mr. Precisetti, non starmi a parlare di orari. Di solito farò an-che tardi, ma oggi iniziavo il turno alle dieci. Se non mi chiamavi davanti al bar non ero qui, e al momento non sono ancora in servi-zio. C’è altro?» «Sì…» rispose Ricci, sopportando lo sfogo del commissario con un sorriso amaro «ho un po’ di notizie anagrafiche riguardanti la vitti-ma.» «No, scusa. Dimmi pure. Quando non faccio colazione qualche volta sono un po’ troppo nervoso» si corresse il commissario accorgendo-si di avere esagerato. Il vice commissario faceva del suo meglio, an-che se aveva l’atteggiamento del primo della classe. «Nato nel 1970; laureato in medicina a Roma 3. Non risulta né spo-sato né fidanzato. Viveva solo.» «Ce la fai a darmi del tu?» «Cosa?» «Ce la fai a darmi del tu?» «Certo, non ti sto dando del tu?» «No.» Ricci provò a buttarla a ridere: «Ah. É che mi sento in soggezione ogni volta che mi f…fai le do-mande. Mi sento come se mi stessi interrogando.» «Fossi un criminale» aggiunse sorridendo «mi smaschereresti subito, vado in apprensione. A proposito, la s…sai quella del criminale con la pistola giocattolo?» «Per favore, pietà» sussurrò il commissario. Scesero dall’auto. Si trovavano in una zona residenziale, tutt’intorno a loro erano stati edificati negli anni settanta molti condomini, come fossero funghi. Nonostante quei palazzi fossero stati costruiti duran-te la grande espansione edilizia della periferia romana non erano, a ben guardarli, i soliti palazzoni anonimi come quelli che talvolta nei film rappresentano le periferie degradate delle grandi città. Si notava in realtà un certo gusto urbanistico, pur nell’assenza di zone verdi comuni. La palazzina dove abitava Giorgio Pallante era a tre piani. La polizia scientifica era già arrivata. Due macchine erano posteg-giate fuori dal condominio con i lampeggianti accesi, ma fortunata-

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mente gli agenti avevano spento le sirene. Tutt’intorno una folla di curiosi, soprattutto donne di mezz’età e uomini anziani. C’era anche qualche adolescente incuriosito che forse sperava di vedere il morto. “Ci sarebbe stata molta più gente in inverno” pensò il commissario “senza questo caldo soffocante. Roma si svuota, caldo e niente ma-re, afa e umidità, clima infelice. E noi restiamo qui.” Uscì dal condominio il pubblico ministero, Bartolomei. Quando vide il commissario Mantini gli disse: «Io ho già dato un’occhiata e torno in ufficio, e lei è sempre in ritar-do.» «Grazie, dottore» rispose semplicemente Mantini. Mentre Bartolomei si allontanava si avvicinò l’agente Tomas Gloria, della scientifica. «Salve commissario. Ciao Carlo.» Il vicecommissario si avvicinò al commissario e gli disse: «Vede, le dà del lei anche l’agente! A me invece dà del tu. Si vede che lei mette soggezione!» e abbozzò un sorriso. Il commissario non rispose, non sorrise, e invece chiese: «Dove dobbiamo andare?» «Vi faccio strada. Dobbiamo salire al terzo piano. C’è l’ascensore, ma ancora stanno facendo i rilievi ai pulsanti, quindi…» «Quindi si sale per le scale, che ci si tiene in forma!» concluse Ricci. «Non mi sembra che tu ne abbia bisogno» disse Tomas al vicecom-missario, alludendo alla splendida forma di Ricci. Poi si accorse che poteva sembrare una mezza offesa per il commissario. Accortosi di avere fatto una mezza gaffe non parlò più, e così nessuno aggiunse una parola fino a che arrivarono al terzo piano. «Chi ha trovato il cadavere?» chiese il commissario all’agente. «La dirimpettaia, la signora Pamela Picchiotti.» «Parlerò con lei dopo, mostratemi prima la scena del crimine.» La porta era spalancata. All’interno dell’appartamento gli agenti del-la scientifica stavano completando i rilievi. Il cadavere era quasi sul-la porta e il medico legale, Alessandro Brunetti, lo stava esaminando per una prima analisi. Il dottore era quasi in età di pensione, avendo superato abbondantemente la sessantina. Era un omino piccolo vesti-to sempre in maniera trasandata. I pochi capelli che gli restavano a-

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vevano il riporto e davano l’impressione che lui fosse appena uscito da un film degli anni ‘60. «Salve, commissario Mantini!» «Buon giorno, dottore. Che mi racconta?» «Gli hanno sparato. Un colpo secco al cuore e pace all’anima sua.» «Lo hanno trovato proprio qui?» «Sì, un piede usciva dalla porta. Quando sono arrivato era aperta, ma la signora dice che l’ha trovata socchiusa. Ha visto solo il piede sporgere fuori e l’ha aperta lei.» «A che ora è stato ucciso?» «La notte appena passata, verso le undici di sera. Ora più ora meno, lei sa sicuramente che con questo caldo è un po’ difficile essere certi dell’ora della morte, anche se si deve tenere conto che ieri sera ave-va un po’ rinfrescato.» «Idee sulla dinamica dell’omicidio?» «Semplice semplice; l’assassino ha suonato alla porta. Lui ha aperto e si è girato, probabilmente per farlo entrare. L’assassino gli ha dun-que sparato un colpo alla schiena a sangue freddo. Dritto al cuore. Sembra quasi ovvio che la vittima conoscesse l’assassino e avesse aperto per farlo entrare. Però ci sono un paio di cose che non mi convincono.» «Mi dica.» «La casa è tutta in subbuglio. Se lei ha la casa tutta in subbuglio, che fa?» Al vicecommissario Ricci spuntò un sorriso. «La metto in ordine, dottor Brunetti! Che fa, gioca con me? Le fac-cio una domanda e invece lei gioca agli indovinelli?» rispose sgarba-to il commissario. «Ogni tanto ci provo, ma de ridè un po’ con lei n’se ne parla. In-somma la casa è in subbuglio, suonano alla porta, lei apre e fa ac-comodare l’amico? Io dico di no. Io chiamerei la polizia, o qualcun altro.» «E magari l’ha fatto. Ricci, telefono, tabulati, cellulare, occhio alle impronte, e poi mi fai sapere, e meno risatine.» «Agli ordini, commissario» rispose Ricci accennando un inchino.

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«Sì, è vero» aggiunse il dottore «è possibile. Ma se non sono state fatte telefonate allora potrebbe essere l’assassino ad aver messo a soqquadro la casa.» «Quindi prima lo uccide, e poi cerca qualcosa?» «Sì, ma il piede usciva dalla porta d’ingresso. E di fronte ci sono dei vicini. Lei ammazza qualcuno, lo lascia in bella vista dal pianerotto-lo e si mette a cercare qualcosa in casa? Guardi che disastro! Ci vo-gliono almeno un paio d’ore a ridurre la casa in questo stato.» «Io non ammazzo nessuno. Comunque sì, effettivamente c’è qualco-sa di strano. Almeno l’assassino poteva evitare di lasciare il cadave-re in bella vista.» «Il referto definitivo glielo mando io o passa lei?» «Cerco di passare io nei prossimi giorni. Grazie comunque per la chiacchierata informale.» «E de che?» concluse Brunetti tornando al lavoro. Il commissario entrò in casa. Un appartamento normale, ma arredato in maniera eccessivamente moderna. Sembrava che qualche architet-to design di interni avesse progettato ogni cosa, compresi i comple-menti d’arredo. Il tutto aveva un’aria un po’ troppo asettica per i suoi gusti. Gli uomini della scientifica stavano terminando il loro la-voro. Il commissario notò un paio di cornici con delle belle fotogra-fie. In una era stato fotografato un bambino molto carino con due adulti, probabilmente i suoi genitori. La foto era datata, i colori ri-cordavano quelli delle foto degli anni ‘80, e anche i genitori vestiva-no con abiti degli anni‘80. Probabilmente il bambino nella fotografia era proprio la vittima dell’omicidio. C’era un’altra foto con un mucchio di gente vestita in maniera, di-ciamo, atipica. Sembrava una festa gay. Quello sorridente al centro della foto doveva essere Giorgio Pallante, molto più felice e spensie-rato di adesso. Entrò poi in camera da letto; anche qui dominava l’ambiente un letto moderno in stile spaziale. I materassi erano stati ribaltati, le lenzuola erano per terra, il cuscino in un angolo. Il com-missario chiese a Tomas se poteva toccare qualcosa, e l’agente gli rispose che lì erano già passati e avevano già fatto foto e rilievi, quindi avrebbe potuto anche guardare e toccare senza problemi. Ser-gio aprì l’armadio. In un’anta c’erano vestiti da uomo, in un’altra

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vestiti da donna, ma di misura molto grande. Era un elemento inte-ressante. Pensò di chiedere se fosse possibile dare un’occhiata all’agenda. «Scusi, agente Gloria, la vittima aveva un diario?» «Sì, l’abbiamo trovato e già messo via per i rilievi.» «Me lo fa recapitare in ufficio?» «Senz’altro, al più presto.» «Mi accompagni dalla signora che ha trovato il cadavere, per favo-re.» La signora Picchiotti era più sull’ottantina che sulla settantina, pic-cola e ingobbita dall’età. Lei e il marito, un vecchietto un po’ sordo, sedevano in una cucina di un modello degli anni ‘60. Solo a vederli si capiva che non potevano essere minimamente sospettati per l’omicidio; sembrava che non avessero nemmeno la forza di preme-re il grilletto, figurarsi addirittura di mettere in disordine una casa. «Signora Picchiotti Pamela?» «Sì, dottò.» «Ha trovato lei il cadavere?» «Sì dottò! Me so’ pijata un corpo! So’ uscita stamatina e che te’ ve-do? La porta der dottor Giorgio che non era chiusa. M’avvicino e vedo er piede fori de la porta. Stavo a pensa’ che magari aveva fatto tardi, e aveva bevuto un po’ troppo. Apro la porta e me vedo tutto sto’ sangue, o Maria!» E il marito, muovendo su e giù la testa diceva: “see, see, see…” Il commissario immaginò che confermasse, forse erano dei sì. «E suo marito dov’era?» «N’do stava mio marito? A letto che pe’ tirasse su je servo io. Stavo ad annà a pija er latte e invece…» «Signora, lei non doveva aprire la porta, doveva chiamare la polizi-a.» «E che non lo so? E pure il dottore lo dice. Ma che so io, che gli hanno sparato ar Giorgio? E poi l’ho chiamata subito dopo la polizi-a.» «Ok, ok. Signora, sa qualcosa della vittima. Le sue amicizie? Era sposato?»

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«No, dotto’. Sposato proprio no. C’aveva l’amichetti che lo veniva-no a trovà a casa» e quasi sorrise «ai miei tempi non se usavano ste’ cose. Ma ora so’ cose moderne. Pare che lo fanno pure i presidenti! Però era n’omo discreto. Non se sentiva gnente, che certe volte se vedono ‘n televisione di quelli che fanno la parate, che pare de stà ar carnevale der Brasile.» «Conosceva qualcuno di questi suoi amici?» «Sì, l’ho visti sulle scale. Ma che so’ io chi so’ sti’ tizi? Mica li pre-sentava a ‘na vecchia come a me’. Però gentili, me salutavano: “Buonasera signora!”. Più cari de tanti omini che pare che so’ boni e ‘nvece…» «Come a Ignazio…» intervenne il marito «Già, a Ignazio» riprese la signora Picchiotti «quello che prima se diverte co mme fija e poi quando stà pe’ partorì se la squaglia con n’artra. Questi parevano brave persone, poi chissà chi so davero. Pe-rò era da un paio di mesi che se vedeva solo co’ due de questi, però non me chieda chi so’, che non lo so proprio. Uno però non me pa-reva mica n’amichetto, magari era er fratello, che ne so io? Però peccato, era proprio ‘na brava persona. Poi ora se se dovemo vennè casa chi se la pija dopo quello che è successo…» E il marito: «Già, chi se la pija.» «Signora, arrivederci e grazie per la disponibilità, se le viene in mente qualcos’altro mi chiami, questo è il mio numero.» «Grazie dottò. Arrivederci.»

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2 15 gennaio 1975; terza ora «Buongiorno bambini!» «Buongiorno signora maestra!» I bambini, educati, si alzano in piedi quando la maestra entra in clas-se e si siedono al loro posto solo dopo che lei si è seduta. «Bene, vedo sul registro che siete tutti presenti. Un momento solo che firmo sul registro…ok! Avete portato gli animaletti?» Il coro di “sì” sommerse la voce della maestra, che per mettere ordi-ne dovette urlare: «Fermi e silenzio!» Nessuna cattiveria, la maestra lo sapeva, era solo entusiasmo. Era una ottima classe; bambini molto volenterosi, e qualcuno veramente geniale. Non per niente era la scuola elementare più considerata del-la città, e ci mandavano i bambini di buona famiglia. «Iniziamo da te, Giordano Chiara. Cosa hai portato?» «Maestra, ho pigliato l’enciclopedia di papà e ho visto questi bellis-simi scoiattoli! Allora ho deciso di farne uno.» «Fammi vedere…brava, proprio bello. Il colore, secondo me, era da fare un po’ più chiaro. É un marrone un po’ troppo scuro quello che hai usato.» «Così era nella foto, signora maestra!» «Ci credo, Chiara, brava! Appendilo lì in fondo sulla parete che poi ci guardiamo tutti gli animaletti. Gargiulo Salvatore, tu che hai por-tato?» «Maestra, mio papà visitò l’America per lavoro, e mi raccontò dei cani delle praterie. Pure le foto c’aveva! Non ho dovuto neanche cercare nei libri.» «Bello questo cane, Salvatore. Ma è un cane vero? Abbaia?» azzar-dò la maestra con un piccolo sorriso; se quel furbetto diceva la verità

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doveva sapere cosa fossero i cani della prateria. Forse scherzava nel raccontare che suo padre era stato in America? «Ma che dice maestra! Volete pazzià? È un grosso sorece.» «Parla italiano in classe, Salvatore!» l’ammonì la maestra. La maestra aveva dato un compito da svolgere a casa; ogni bambino doveva portare un cartoncino ritagliato che rappresentasse un picco-lo mammifero. In fondo all’aula la parete era sgombra proprio per-ché potesse essere addobbata a fini didattici, e pian piano i cartonci-ni iniziarono a dare un po’ di colore alla altrimenti anonima aula scolastica. Quasi tutti avevano mostrato il loro lavoro alla maestra, che tra pic-cole correzioni e piacevoli incitamenti aveva creato una atmosfera gioiosa ma produttiva. Tutti i bambini avrebbero dovuto poi impara-re i nomi degli animali sulla parete e la volta successiva li avrebbe interrogati. Era difficile mantenere l’ordine, visto l’entusiasmo dei piccoli di terza elementare nell’esporre i propri lavori. A un certo punto la ma-estra aveva smesso di chiamare i bambini per nome ma loro stessi si erano proposti, più o meno in ordine, per mostrare i loro cartoncini colorati e per appenderli successivamente alla parete. Rimaneva solo un bambino, che non solo non era intervenuto nella discussione, ma era seduto in fondo alla classe, in disparte. Era uno dei più bravi della classe, sempre preparato. La maestra era certa che avesse già imparato tutti i nomi dei piccoli mammiferi anche veden-doli solo una volta. Era però molto taciturno, e cercava in ogni modo di non partecipare al rito della socialità che spesso si celebra nei la-vori di gruppo delle scuole elementari. «Maestra! Manca lui» disse una bambina, accorgendosi che la mae-stra credeva che tutti avessero già consegnato il lavoro. «Già!» suggerì la maestra «cosa hai portato di bello?» Il bambino, con lo sguardo basso, azzardò: «Non ho portato il cartoncino, signora maestra.» «Perché? Tutti hanno portato il cartoncino colorato. Guarda che bel-la parete che abbiamo fatto! Non hai imparato anche tu il nome di tutti questi animaletti? Non è stato divertente? Perché non hai fatto il lavoro? Hai avuto problemi? Ti è mancato il tempo?»

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«No, maestra!» «Allora?» Il bambino aprì la cartella. Tirò fuori un sacchetto di plastica di quelli utilizzati ai supermercati per portar via la spesa. Lo aprì e ne rovesciò il contenuto: un grosso topo morto, ancora insanguinato, con uno squarcio sotto il collo. «Questo è più vero dei cartoncini signora maestra!» urlò il bambino, e poi come vergognandosi abbassò lo sguardo sotto il banco. La maestra non riuscì nemmeno a parlare. Rimase con la bocca aper-ta, senza riuscire a emettere suono. I suoni arrivarono invece, tutti insieme, dalle bocche di tutti i bam-bini della classe. E anche molto forti. Grida isteriche, specialmente da parte delle bambine. «Signora, l’abbiamo chiamata per suo figlio» esordì la preside fa-cendo accomodare nel suo studio una signora sulla quarantina «vo-glio aggiungere che ci dispiace averla dovuta disturbare sul lavoro. Abbiamo cercato anche suo marito, ma ci han detto in ufficio che era via per lavoro.» «Sì» confermò la signora entrando dentro all’ufficio di presidenza, aggiungendo: «È all’estero.» «Prego. Si sieda pure.» Erano in tre nello studio: la preside, la maestra e la signora. Appena informata dei fatti la preside aveva fatto il diavolo a quattro per tro-vare i genitori del bambino. Non poteva mica rischiare di rovinare la reputazione della scuola per una cosa del genere! Già immaginava cosa sarebbe successo quando gli altri alunni avessero raccontato a casa l’episodio, e si rendeva conto che doveva agire al più presto. Non erano stati commessi reati, ma i fatti accaduti erano oltre il li-mite del vivere civile. «La segretaria che la ha chiamata per telefono non le ha detto nien-te?» chiese la maestra. «No, nulla» rispose sommessamente la madre. La preside si sporse sulla scrivania, e a voce bassa raccontò:

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«Suo figlio oggi avrebbe dovuto portare a scuola un cartoncino colo-rato, come compito per casa, che raffigurasse un piccolo mammife-ro. Un compito di scienze, per imparare i nomi degli animali.» La signora fece cenno di sì con il capo, invitando la preside a prose-guire. «La maestra qui presente ha chiesto a suo figlio perché non avesse svolto il compito assegnato, e lui…» pausa «ha mostrato alla mae-stra e a tutta la classe un sacchetto di plastica con dentro un topo morto. Un topo enorme, di venti centimetri abbondanti.» «Veramente l’ha rovesciato sul banco» precisò la maestra «io son rimasta impietrita, e i bambini hanno iniziato a urlare!» La madre rimase seduta con le ginocchia vicine, le dita delle mani incrociate in grembo. Non riusciva più a sapere dove guardare per la vergogna che in quel momento provava, e fissò a questo punto le sue mani, come per estraniarsi dalla realtà. «Abbiamo esaminato il sorcio» disse la preside, con il piglio di colei che aveva preso in mano la situazione «è stato ammazzato con un coltello. Sgoz-za-to! Abbiamo chiesto a suo figlio come si fosse procurato il topo, e lui ha detto che lo ha catturato con una trappola in strada, ed è rimasto appostato immobile più di due ore per riuscire a prenderlo.» «Due ore che era meglio dedicare a colorare e ritagliare un cartonci-no! E col freddo che faceva ieri!» aggiunse la maestra. «E l’ha sgozzato lui con un coltello per non portarlo a scuola vivo.» «Non so cosa dire» disse la madre pietrificata. «Gli abbiamo chiesto perché ha fatto questa cosa che, evidentemen-te, fa schifo a tutti» continuò la maestra «e sa cosa ha risposto? Che non era vero che faceva schifo, ma era bellissimo.» «Signora preside, signora maestra. Io lavoro, e lui è figlio unico. É un ragazzo intelligente, ma il padre è sempre via per lavoro. Io sono sola con lui, ma rientro alle cinque di sera. Non abbiamo parenti. Quando ieri sera sono rincasata gli ho chiesto se aveva fatto i compi-ti, e mi ha risposto di sì senza esitare. Non potevo immaginare…» «Capisce signora» riprese la preside a bassa voce «che non possiamo far finta di niente. Io e la maestra siamo contrari a prendere provve-dimenti disciplinari e quindi a sospendere suo figlio perché poi in-

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fluirebbe sulla valutazione finale; lui è un ragazzo che a scuola è sempre andato bene. Però gli altri bambini andranno a casa a raccon-tare tutto, e se domani suo figlio fosse a scuola sembrerebbe quasi che in questo istituto tutto sia permesso! Sarebbe opportuno che se lo tenesse a casa fino a, diciamo, sabato. Come se noi lo avessimo sospeso per tre giorni: giovedì, venerdì e sabato. Che dice?» Con voce flebile la madre concluse: «Sì… grazie» quasi sollevata che finisse tutto così.

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3 10 agosto 2010; ore 15 «Buon giorno commissario.» «Buon giorno, agente Falzini.» «Il vice commissario Carlo Ricci la aspetta nel suo ufficio; dice che è molto urgente.» «Mi tolgo la giacca nel mio ufficio e vado subito da lui, grazie.» “Neanche il tempo di arrivare” pensò il commissario “però Gloria Falzini è sempre gentile e saluta tutti con un bel sorriso, quasi mette anche me di buonumore.” Gloria era una bella donna, sui trent’anni. Faccia paffuta e simpati-ca, sempre affabile. Il suo modo di fare gli ricordava un poco quello di sua figlia. Si levò la giacca, la appese dietro la porta del suo ufficio e si aprì un bottone della camicia. «Che caldo qui dentro!» esclamò sofferente, aprendo la finestra per-ché entrasse un po’ d’aria. “Che Ricci aspetti cinque minuti, che non succede nulla!” aggiunse tra sé. Si sedette, prese il cellulare dalla tasca dei pantaloni e chiamò Anna. «Pronto, Sergio?» «Sì, Anna, sono io.» Silenzio dall’altra parte del telefono. Allora il commissario riprese: «É un po’ che non mi faccio sentire…» «Non ti preoccupare, mica siamo fidanzati.» «Stasera sei libera?» «Sai che io mi devo organizzare! E tu mi chiami il giorno stesso? Non è mica la prima volta che te lo faccio notare. No, è chiaro che non sono libera.»

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«Ah, scusa. Guarda, ho sbagliato a disturbarti, caso mai facciamo la prossima settimana?» E con voce suadente Anna disse: «Sono libera stasera, Sergio. É che non posso essere sempre a tua disposizione. Ti prego!» fece una pausa «un’altra volta chiamami prima. Tu lo sai che se anche fossi impegnata per te mi libero lo stesso. Ma così mi metti in difficoltà…» «Scusa, Anna. Grazie. So che posso contare su di te. Scusa davve-ro.» «Hai bisogno di parlare?» «Anche.» «Cena e offri tu?» «Soprattutto.» «Ti aspetto alle otto.» «Grazie mille e a dopo. Grazie.» L’ultimo grazie lo disse quando Anna aveva messo giù la cornetta. Era quasi un grazie al destino. Ogni tanto aveva bisogno di passare un po’ di tempo in compagnia. Dalla morte della moglie, cinque anni prima, si era sempre più chiu-so in se stesso, senza amici, senza hobby. Solo il lavoro, più per ri-empire le giornate che per vera passione. E una figlia che non senti-va quasi mai. Si fece forza; era ora di iniziare la giornata lavorativa. Si alzò e andò dal vice commissario Carlo Ricci. «Ciao Carlo.» «Ciao Sergio! Visto che oggi pomeriggio ce la faccio a darti del tu?» Con poco entusiasmo ma con un quasi sorriso il commissario rispo-se: «Vedo.» «Guarda un po’ qui…» disse Carlo al commissario porgendogli un foglietto. Il commissario lesse il foglio: domani pomeriggio viene un certo Giorgio Pallante. Vuole parlare con qualcuno al commissariato. Sbrigatela tu. «L’ho scritto io?» «La grafia pare la tua.»

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Il commissario riguardò bene il foglio e aggiunse: «Sì, l’ho scritto io.» «E allora?» «Mi pareva di aver sentito già il nome stamattina. Questo tizio ha telefonato ieri, e lo hanno passato a me. Io gli ho detto di passare oggi, e ti ho sbolognato l’impegno.» «Che è saltato.» «Eh sì, è proprio saltato.» Entrambi stettero in silenzio per un po’. Poi il commissario riprese: «Quindi questo Giorgio Pallante ci telefona ieri pomeriggio per chiedere un colloquio. La sera stessa lo fanno fuori. Quindi oggi, guarda un po’, non riesce a venire qui a raccontarci un bel nulla.» Altro silenzio; entrambi riflettevano sulla situazione. Il commissario continuò: «Hai chiamato la famiglia della vittima?» «Sì, stamattina. I suoi genitori abitano nei pressi della Salaria. Non lo vedevano da un mesetto, ma erano molto affezionati all’unico fi-glio. Ho fatto chiamare da Gloria; è molto più brava di me in queste cose.» Il commissario pensò se già Carlo si fosse fatto avanti con Gloria, ma preferì non intromettersi. «Ti vedo un po’ strano. Devi dirmi qualcosa?» Il vice commissario stette in silenzio pensieroso. Ma ancora non aprì bocca. Allora il commissario insistette. «Non è da te stare fermo in silenzio a pensare. La tua lingua parte prima del tuo cervello. Cos’è successo?» «Be’, non è proprio vero che la mia lingua parte prima del mio cer-vello! É che ogni tanto faccio lo spiritoso. Ma quando lavoro lo sai che è diverso.» Il commissario ammise con se stesso che era proprio vero. Quando lavorava, Ricci era capace di analizzare le situazioni anche meglio di lui. Gli mancava solo un poco di esperienza, ma non era affatto im-pulsivo. Il commissario allora si scusò: «Ok, ok. Era una battuta. Ma cos’è successo che sei così pensiero-so?»

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«Non ho intenzione di dirti esattamente cosa è successo. Non mi crederesti.» «Non stiamo parlando di ragionamenti veri e propri, ma se hai avuto qualche intuizione dimmelo. Ancora non abbiamo niente in mano su questo caso. Di’ pure!» lo incitò Mantini. «Già, chiamiamole intuizioni. Detto così ci può stare. Però non mi chiedere da dove vengano fuori. Diciamo che l’ultima ora qui dentro ho avuto un bel po’ di intuizioni. Non credo che sia il caso di tediarti raccontandotele, ma mi sento in dovere di fare un controllo.» «Giusto, controlla. Cosa dovresti controllare?» Carlo si sporse in avanti sulla sua scrivania. «Credo che sia il caso che io vada domani a fare una visita alla Salu-farm. É l’azienda dove lavorava la vittima. Può darsi che troverò lì ciò di cui abbiamo bisogno per proseguire l’indagine.» «Che cosa vai a cercare lì?» «Preferisco non dirtelo.» «Non ti fidi di me?»sbottò Mantini. «Non è questo. É che ho paura che se ti racconto cosa cerco e perché allora mi prendi per scemo.» «Insomma mi stai chiedendo di fidarmi di te?» Ricci guardò negli occhi il commissario. «Sì.» Il commissario ci pensò un poco. Mantini sapeva che Ricci voleva fare carriera e pensò che volesse prendersi lui i meriti dei successivi sviluppi dell’indagine. “No” concluse “Carlo ha i suoi difetti, ma non è nel suo stile.” Mai gli aveva chiesto di lasciarlo fare da solo. Doveva aver pensato a qualcosa d’importante. Allora gli rispose: «Sì, va bene. Però domani mattina prima che tu vada lì voglio un rapporto, anche informale, sulle tue elucubrazioni. Consegnalo in busta chiusa in portineria. Io non lo apro. Ma se poi mi arriva una protesta ufficiale da qualcuno o se il pubblico ministero mi deve fare un cazziatone, be’, in quel caso lo apro e così mi chiarisco le idee su come fare a coprirti il culo.» Ricci apprezzò:

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«Ok, ma non so se ti chiarirò le idee, neanche se ti spiego tutto per bene. Il rapporto comunque te lo preparo. Cambiando discorso, ti volevo dire che per il resto delle informazioni che mi hai chiesto mi darò da fare oggi pomeriggio e domani mattina ne parliamo.» «Chiami ora la Salufarm?» «Sì, meglio che io la chiami ora. Voglio essere sicuro di riuscire a fissare un appuntamento per domani mattina.» «Io vado a parlare con i genitori della vittima oggi pomeriggio, che stasera ho un impegno.» Carlo Ricci, ben sapendo la vita da recluso che faceva il commissa-rio, alzò un sopracciglio. “Un impegno il commissario Mantini?” si chiese “al massimo va a trovare la madre una volta la settimana!” Il commissario si diresse verso la Salaria, e trovò facilmente (grazie al navigatore satellitare in dotazione all’auto di servizio) la casa del-la famiglia Pallante. Suonò il citofono. «Salve, sono il commissario Mantini, polizia.» «Prego, entri, quarto piano» rispose una voce femminile. Il commissario prese l’ascensore e quando si aprì la porta trovò la madre della vittima ad attenderlo sul pianerottolo. La signora era ro-tondetta e indossava solo una vestaglia da casa; teneva lo sguardo sul pavimento e guardò in viso il commissario solo nell’attimo in cui lo salutò. Era poco più alta di un metro e sessanta e dimostrava pro-babilmente più anni di quelli che aveva. La signora fece accomodare in salotto il commissario. Il marito la aspettava sul divano. Anche il marito indossava una vestaglia da ca-sa, ma ben rifinita, come quelle che si vedono in alcuni film anni cinquanta. Aveva i capelli brizzolati, un fisico asciutto e diede al commissario una forte stretta di mano: «Piacere, Enrico Pallante.» «Salve, sono il commissario Mantini. Sono sinceramente dispiaciuto di essere venuto qui oggi, capisco il vostro momento…» «Ha fatto bene a passare» lo interruppe la signora «tutto ciò che pos-siamo fare per lei lo faremo senz’altro. L’importante è che si trovi quel disgraziato che ha ammazzato mio figlio.»

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La signora aveva carattere. Nonostante il gran colpo ricevuto, aveva voglia di combattere. La disperazione iniziale aveva probabilmente lasciato il posto alla rabbia. «Io invece mi chiamo Giovanna. Ci dica. Cosa vuole sapere?» «Vedevate spesso vostro figlio?» Fu la signora a rispondere: «No, ci vedevamo poco. Siamo al corrente delle sue, come dire, abi-tudini. Sappiamo anche che tipo di ambienti frequentasse. Per noi è un po’ difficile da accettare. Siamo di un’altra generazione. Ci si sentiva per telefono ogni settimana, e una volta al mese lo andavo a trovare.» «E lei?» chiese il commissario a Enrico. Il marito, fino a quel momento silenzioso, intervenne: «Non ce la faccio.» «Guardi, signor commissario» riprese la signora «mio marito non ce la fa ad andare lì sapendo chi sono gli amici di mio figlio. Non sop-portava l’idea di andare in quell’appartamento sapendo cosa succe-deva lì. Quando per le feste mio figlio veniva a trovarci era il primo a esserne felice.» Fece una pausa e poi chiese: «Come è stato ammazzato?» «Un colpo secco al cuore. Da due metri. Sicuramente non ha soffer-to.» «Almeno questo!» «Conosceva qualche suo amico?» «Assolutamente no» intervenne Enrico «mi sono sempre rifiutato di farmeli presentare.» La signora Giovanna al contrario ammise: «Io sì. Mi è capitato di incontrare a casa sua un suo amico. Ma sono sicura che non c’entra niente, era una brava persona.» «Era un finocchio!» intervenne il marito. «Sì, e allora?» urlò la moglie «Sarà sempre meglio che andare ad ammazzare la gente come ha fatto qualcuno con tuo figlio, no?» «Sì, e magari è stato qualche suo amico finocchio» rispose secca-mente il marito alzandosi. «Scusi, signor commissario, arrivederci» aggiunse.

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Si diresse verso la sua camera, entrò e chiuse la porta. «Scusi, sa. É difficile per tutti.» «Capisco. Mi sa dire il nome del suo amico? Anche se è una brava persona potrebbe conoscere qualcuno che invece non lo è affatto. É importante effettuare dei controlli. «Sì, immaginavo che me lo avrebbe chiesto. Si chiama Angela. Non so il cognome. E non credo che Angela sia il vero nome. Ma credo che lo troverete lo stesso. É un trans e abita lì vicino, mi ha detto Giorgio. Non credo che ce ne siano tanti lì nei pressi.» «No, non è la zona» aggiunse il commissario. E concluse: «Grazie signora. Appena sarà stata fatta l’autopsia la farò chiamare perché possiate organizzare il funerale.» «Grazie a lei, e faccia il possibile. Trovi l’assassino.» «Le garantisco che farò del mio meglio. Arrivederci.»

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4 7 febbraio 1987 Festa universitaria. Non che gli piacessero gran che, ma ci andavano tutti. Era stata organizzata in un locale di periferia, abbastanza grande, che di solito era un pub in stile messicano. Il locale era probabilmen-te uno dei primi ristoranti etnici che avesse aperto in Italia, e una volta al mese diventava il ritrovo dei giovani universitari. La festa iniziava presto, e alle dieci di sera c’era già il pienone. A mezzanot-te, come nella tradizione degli anni ottanta, il DJ metteva i lenti, e spesso si formava qualche nuova coppietta. Verso le tre il locale si svuotava. Qualcuno andava a dormire, qualcun altro aveva trovato il partner per concludere la serata. Era solo la terza volta che ci andava, il primo anno di università a-veva pensato solo a studiare. Suo padre era morto da pochi anni, e sua madre faceva molti sacrifi-ci affinché lui potesse frequentare l’università in un’altra città. Non era sua intenzione pesare economicamente sulle spalle della madre, e per tale ragione riduceva al minimo i suoi svaghi. Non amava i luoghi affollati, e pensò che forse l’unico momento piacevole della serata sarebbero stati i balli lenti dopo la mezzanotte. Era solo pensando a questo che aveva detto di sì a Giorgio, il suo compagno di appartamento, che aveva insistito a lungo affinché, al-meno una volta, venisse a ballare anche lui. La musica non era male, anche se il Disc Jockey non era ancora ag-giornato con le ultimissime uscite discografiche. La musica era sem-plice, orecchiabile; Tracy Spencer, Samantha Fox, gli A-ha, i Queen, Madonna. Erano venuti in quattro con la macchina di Giorgio: lui, Giorgio, Al-do e Adriano. Aldo e Adriano erano di Roma quindi conoscevano

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molti ragazzi e ragazze, a vedere come si muovevano in maniera di-sinvolta durante la festa; soprattutto molte ragazze. A lui non inte-ressavano quelle appariscenti, con i capelli sparati in aria o con abiti succinti, e purtroppo le feste universitarie erano proprio il posto do-ve le ragazze volevano risultare vistose, con il risultato che lui face-va fatica a trovarne anche solo una che lo attraesse. Giorgio invece cercava proprio quel tipo di volgarità. Stava infatti ballando con due giovani che gli erano state presentate da Aldo e Adriano e si sbrac-ciava per fargli segno di avvicinarsi, perché le ragazze erano ben due e lui era invece da solo. No, lui non si avvicinò, proprio non era interessato. In realtà c’era solo una ragazza che gli interessava: Simona. Era venuto proprio sperando di incontrarla. Declinò l’invito con un gesto e preferì farsi una passeggiata verso il bancone del bar. Simona era di Rieti e divideva l’appartamento con alcune sue com-pagne di scuola delle superiori che erano iscritte alla facoltà di Let-tere. Lei invece studiava medicina, proprio come lui, ed era anche del suo stesso anno di corso. Simona aveva preferito studiare a Roma piuttosto che a Terni, vole-va provare la vita di una grande città. Era piccola, proporzionata, un viso dolce e un sorriso da coniglietta. Bastava incrociare il suo sguardo per intuirne la grande intelligenza. Aveva la capacità di co-gliere in breve tempo, da pochissimi indizi, il reale carattere di una persona. Non era mai riuscito a parlarle a tu per tu, si erano visti solamente a lezione e comunque mai al di fuori delle strutture universitarie, e quella sera avrebbe dovuto esserci anche lei. In realtà non aveva accettato l’invito di Giorgio esclusivamente spe-rando di incontrare Simona, ma in quel momento sognava solo di riuscire a ballare con lei il lento di mezzanotte. Probabilmente era il solito sogno dell’illuso, come tanti ne aveva avuti nella sua vita. Non fu lui a trovare Simona, fu lei a vederlo, e lo andò a salutare mentre lui si trovava al bancone del bar. Gli toccò il braccio mentre lui stava ordinando una birra. «Mi offri qualcosa?» gli chiese sorridendo.

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Nel frastuono di una discoteca per parlare bisogna avvicinare la boc-ca all’orecchio dell’interlocutore, e per questa imprevista intimità a lui mancò il fiato per un attimo. Poi rispose, ancora emozionato: «Certo! Io prendo una birra, e tu?» «Va bene la birra. Sono appena arrivata, ci sediamo da qualche parte a chiacchierare un po’? Non mi va di andare subito in pista.» «Va bene.» Lei prese l’iniziativa e con la birra in mano si diresse tra la folla cer-cando un divanetto libero. Lui la seguì senza poter fare a meno di pensare se in realtà non si stesse sognando tutto. Simona indossava una camicia nera con ricami che a lui sembravano bassorilievi; i pantaloni, sempre neri, erano di pelle e a vita alta. Pensò che erano proprio gli abiti giusti per farne risaltare le armoniose forme. Si sedettero al primo tavolino libero, e iniziarono a conversare. «Come mai sei qui, non mi sembri il tipo che frequenta le discote-che.» “Già” pensò lui “ha proprio ragione. Io sono un tipo chiuso, non amo la folla, e invece sono qui.” “Stasera voglio essere sincero con lei. Non ho amici. Lo stesso Giorgio è più un compagno di scuola che un confidente… chissà che sia lei l’unica persona che veramente mi può capire?” «Non vengo mai perché la discoteca mi fa schifo.» «Però sei qui.» «Sì.» «Perché stasera hai fatto un’eccezione?» «Primo: Giorgio, il mio compagno di appartamento, è da una setti-mana che mi tormenta. “Esci! Esci! Sei sempre a casa!”. A un certo punto gli ho detto di sì.» «Secondo?» «Mi aveva detto che forse tu venivi.» «Ma dai, scherzi? Non mi è mai sembrato che tu potessi essere inte-ressato a me.» Prima di continuare la conversazione lui si esortò: “Sincero! Almeno stasera.” Non era facile. Non si confidava con qualcuno da almeno cinque an-ni.

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«E invece sì. Solo che avevo paura di un rifiuto e allora facevo finta di niente.» «Anche tu mi piaci. Sembra che intorno a te ci sia una certa aura di mistero. Però all’università si studia. Non si fa il filo a qualcuno quando si studia. E a lezione faccio la studentessa e nient’altro.» «Mi avresti rifiutato, allora, se ti avessi invitata fuori?» Simona lo lasciò cuocere un po’ a fuoco lento: «Può darsi…» Poi pensò che era quasi mezzanotte, e gli chiese: «Balliamo il primo lento?» L’emozione gli fece accelerare il battito cardiaco. «Certo.» Durante il primo lento non parlarono. Poi, durante il secondo lento, All at once di Whitney Houston, conversarono un po’. Simona era molto curiosa di conoscere il suo collega di corso, di solito chiuso e riservato. «Come mai sei venuto a studiare a Roma?» «Pochi amici. Non è che qui la cosa sia migliorata. Una volta era un problema, ma ora non mi interessa più di tanto.» «Solo per questo?» «Volevo cambiare ambiente. Sarei andato anche all’estero. Ma mia madre è vedova, sono il suo unico figlio. Non voleva che andassi troppo lontano. E poi non voglio pesare troppo sui soldi della mam-ma.» «Anche io volevo andare all’estero. I miei hanno insistito che rima-nessi vicina. E qui sono abbastanza vicina, ma non così tanto da do-ver tornare ogni sera a casa dai miei! C’è bisogno di un po’ di auto-nomia a vent’anni, no?» «Eh, sì. Assolutamente sì.» “Del resto” egli pensò “è anche per questo che ho lasciato la mia città.” «Perché ti sei iscritto a medicina?» gli chiese Simona. E adesso? Proprio questo doveva chiedergli? Va bene la sincerità, però a tutto c’è un limite! Meglio cambiare discorso: «E tu?»

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«Mio zio è medico. É il fratello di mio padre. Ho sempre avuto un’adorazione per lui. Quando ero piccola e stavo male lui mi veni-va a visitare a casa, e già stavo meglio solo vedendolo arrivare. Poi quando guarivo aumentava ancora di più la mia ammirazione per lui. Mi piaceva moltissimo l’idea di poter fare per altri quello che lui a-veva fatto per me. Non era solo perché era bravo nelle diagnosi o per la sua professionalità, era importante anche il senso di sicurezza che diffondeva. Chiunque con lui si sentiva meglio e capiva di essere nelle giuste mani. Spero un giorno di riuscire a essere brava come lui.» Simona smise di parlare, lo guardò negli occhi e gli disse: «Ma tu hai cambiato discorso!» Smisero di ballare, mentre tutt’intorno le altre coppie continuavano. Lui non seppe resistere: «Te lo dico se vieni da me.» «Ci stai provando?» «No, non intendevo…» «Allora cosa intendevi?» «Dovrei farti vedere alcune foto, per spiegarti bene.» «Per spiegarmi cosa?» «Perché ho voluto fare il medico.» «Non è che ci vuoi provare?» Lui quasi balbettò: «Mi piaci, ma non era per questo che…» Lei lo guardò negli occhi. Si convinse che lui non voleva approfitta-re di lei, doveva essere sincero. A Simona piaceva, ma non ci si con-cede la prima sera, prima ci si deve conoscere un po’. E quale mi-gliore occasione di questa? «Pare che tu abbia un segreto. Mi hai incuriosito. Andiamo subito. Ho la macchina fuori, e tu?» «Un attimo, avviso il mio amico Giorgio. Sono venuto con lui.» Poco dopo erano in macchina insieme. Lui le fece strada fino al sesto piano di un anonimo condominio sul-la Tuscolana, non molto lontano dalla discoteca. Aprì la porta, le

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mostrò l’appartamento e poi la fece accomodare in soggiorno. Erano soli in casa. «Vuoi una coca cola?» «Un bicchiere d’acqua, grazie.» Simona si era seduta sulla poltrona del soggiorno con le gambe ac-cavallate. Era uno schianto. Sorseggiò un sorso d’acqua e poi gli chiese: «Abiti da solo in quest’appartamento?» «No, Giorgio abita qui con me. Siamo in affitto. Non è un apparta-mento grande, ma abbiamo soggiorno, cucina, bagno e due camere, una per ciascuno. Quanto basta per stare tranquilli e studiare.» «Perché ti sei iscritto a Medicina? Cosa volevi farmi vedere?» Lui si fece forza. Voleva capire cosa sarebbe successo raccontando a qualcuno la verità. Voleva finalmente provare a esporsi. Non ne a-veva mai parlato con nessuno, neanche con sua madre. Adesso si ri-trovava a parlarne con una quasi sconosciuta. «Amo la morte.» Lei rimase perplessa: «Cosa intendi, che ti vuoi suicidare?» «Assolutamente no» rispose lui sorridendo. E proseguì: «Cerco di spiegarmi meglio. Non è facile a dirsi.» Fece una pausa, si alzò dal divano e si appoggiò al termosifone an-cora tiepido sotto la finestra. «Tutti vedono e apprezzano il miracolo della vita. Tutti sono affa-scinati dal fatto che da una materia inanimata si possa ottenere qual-cosa di vivo. Si cercano spiegazioni scientifiche, ma in realtà quasi tutte le spiegazioni alla fine si poggiano sulla religione. Tu sei cre-dente?» «Nella mia famiglia lo siamo tutti. Diciamo che pratico poco. E tu?» «Anche io. E non pratico quasi più. L’ultima volta che sono stato a messa mi ci ha portato per forza mia madre tre anni fa. La religione non tratta come dovrebbe il tema della morte. Il cattolicesimo dice solo che quando moriamo la nostra anima vivrà in eterno, ma non scende nei particolari. Paradiso, inferno, purgatorio… per quello che ho studiato a scuola sono solo invenzioni di Dante. In realtà nessuno sa cosa c’è veramente dopo la morte.»

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Simona era veramente colpita dalla piega che aveva preso la discus-sione, e si chiese dove voleva andare a parare quel ragazzo. Curiosa gli chiese: «E tu cosa pensi?» «Penso che non è importante cosa succede all’anima, tanto non lo scopriremo mai. Dovremo invece studiare cosa succede al corpo do-po la morte. Forse così scopriremo qualcosa dell’anima, se veramen-te c’è. Forse scopriremo invece che non c’è, e allora avremo comun-que scoperto qualcosa di importante. Come in Oltre l’orizzonte di Heinlein.» Lei pensò che non aveva neanche mai sentito il nome di Heinlein. Chi era? Per lui, che desiderava parlarne con qualcuno da sempre, era come se si fosse rotta una diga, non riusciva più a smettere di raccontare finalmente i suoi pensieri più intimi, allora continuò: «É bello vedere la morte. Vederla come cosa terrena, e non spiritua-le, la spiritualità viene dopo. É affascinante. Ti ricordi quando siamo andati a vedere l’autopsia la settimana scorsa?» «Certo.» «Prima quel cadavere era una persona. Si alzava la mattina, faceva colazione, andava al lavoro. Aveva amici, parlava, rideva. Poi inve-ce è fermo, freddo, steso sul tavolo; e noi eravamo tutti intorno a ve-dere come è fatto dentro. Sangue, coltelli, organi sezionati. La vita che c’era prima dov’è andata? È questo il miracolo; il miracolo della morte.» Simona iniziava quasi a preoccuparsi; con chi aveva a che fare? Non le sembrava più, infervorato com’era, un ragazzo normale. Mentre lei lo guardava fissa lui continuò a parlare come se stesse tenendo un comizio, passeggiando su e giù per la stanza. «É questo il mistero che voglio studiare. Voglio capire cosa sparisce con la morte. Ma non sono ingenuo. Il processo non è come un inter-ruttore; ora sono vivo, dopo sono morto. No. Il processo è continuo. Dal momento che viene definito morte cerebrale al momento della decomposizione totale del cadavere passano anni. Io voglio studiare questo processo. Vedi, se io riesco a capire esattamente tutto del

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processo di decomposizione… non riesco a spiegarmi bene, aspetta, ti faccio uno schema. Vado a prendere delle foto, nell’armadio.» Andò in camera sua, prese una cartellina marrone, dei fogli, una penna. Tracciò un semplice schema.

Morte Inizio -------------------------------------------->

«Vedi, noi iniziamo a studiare il cadavere dal punto dove ho scritto “inizio”, che è dopo la morte, e possiamo andare avanti nel tempo quanto ci pare con il nostro studio. Se l’inizio dello studio è molto vicino al momento che noi definiamo “morte”, e se studiamo bene cosa avviene fino alla decomposizione completa, cosa ci manca da sapere?» E Simona, che aveva seguito il ragionamento con attenzione, rispo-se: «Solo il pezzettino di semiretta tra il punto Morte e il punto Inizio, che sarà solo un piccolo segmento.» Ammirato la guardò con gli occhi illuminati: «Brava!» Lei invece si sentiva estremamente a disagio, ma lui non se ne ac-corse e proseguì: «Un procedimento al limite. E sapremo cos’è la morte. É solamente un problema scientifico che deve essere affrontato. Serve una ricerca mirata. Ed è per questo che mi sono iscritto a medicina. Credo che la mia possa essere una missione. Io voglio dare risposta a qualcosa a cui nessuno ha mai saputo rispondere.» A quel punto aprì la cartella, e tirò fuori appunti scritti a mano e al-cune fotografie. Le foto ritraevano animali squartati e sezionati. To-pi, gatti, cani. «Vedi queste foto? Non posso mica effettuare la mia ricerca ucci-dendo gli esseri umani, ma posso farlo con gli animali. Li ho uccisi io. Proprio per iniziare la ricerca prima possibile, senza aspettare troppo che il corpo vada in decomposizione. E prendo appunti, mi sono preparato delle schede per catalogare i dati. Ma avrei bisogno

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di un laboratorio più grande. E di tanti animali da sezionare. Guarda queste foto; non sono bellissime?» A Simona quelle foto facevano ribrezzo, e il discorso era quello di un pazzo. Non pericoloso, forse, ma un pazzo. Non voleva trattarlo male, voleva solo andar via. «Senti, è tardi. Vorrei andare.» In quell’istante lui la fissò con attenzione e capì dallo sguardo atter-rito di lei cosa in realtà pensasse di lui, e glielo chiese francamente: «Pensi che io sia un pazzo?» «No, solo che queste foto mi fanno schifo.» «Anche io ti faccio schifo.» Lei stette in silenzio. A lui venne un terribile mal di testa. Le disse: «Tu non mi rivolgerai più la parola all’università.» Si sedette sul divano come disperato. «Tu dirai a tutti quello che ti ho raccontato. Tu vuoi sputtanarmi da-vanti a tutti.» «No, assolutamente no. Rimarrà il nostro segreto.» Lui avrebbe voluto fare qualcosa. Ma il mal di testa era troppo forte. «Non mi fare del male» la supplicò. Lei non gli rispose e uscì velocemente dall’appartamento. Il mal di testa era insopportabile, e la stanza iniziò a girare. Svenne. Si svegliò nel suo letto, la mattina del 7 febbraio 1987.

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5 10 agosto 2010; ore 20 La sera, al rientro dall’ufficio, Sergio Mantini si fece una fantastica doccia; pensò che era proprio quello che ci voleva al termine di un’altra calda giornata estiva. Si preparò per uscire e decise di in-dossare solo i jeans e una camicia a maniche corte. I piedi, dopo una giornata di lavoro nella quale erano stati sempre chiusi dentro alle scarpe, chiedevano un po’ di riposo, così indossò il suo paio di san-dali in stile antica Grecia. Mentre si preparava per uscire ripensò a come aveva conosciuto An-na Ciuffa, e allo strano destino che li aveva fatti diventare amici. Un paio di anni prima era arrivata una telefonata al commissariato. Si trattava di una prostituta che chiedeva aiuto perché il suo cliente l’aveva picchiata. Lei e il suo cliente si trovavano nell’appartamento dove lei praticava l’antico mestiere; era riuscita a telefonare di nascosto solo perché in quel momento il suo violento cliente era andato in bagno. Lei aveva telefonato e aperto la porta dell’appartamento lasciandola socchiusa, tornando poi in silenzio in camera da letto. Sergio Manti-ni aveva trovato la porta aperta, ed era così riuscito a intervenire co-gliendo in flagrante il cliente e arrestandolo. La prostituta era pro-prio Anna, e per ringraziare Sergio lo aveva invitato a cena una sera qualche tempo dopo. Lei gli raccontò che era la prima volta che accettava avances da uno sconosciuto, e che aveva sempre preferito lavorare con la sua clien-tela fissa; aveva circa dieci clienti che più o meno una volta ogni due settimane decidevano di passare la serata con lei. Si trattava di liberi professionisti, dirigenti, professori universitari. Non era il suo stile quello di cercare la clientela per le strade, come tante altre erano co-strette a fare. Aveva conosciuto il cliente violento passeggiando per

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le vie del centro, e le aveva dato l’idea di essere una persona interes-sante. Dopo aver visto come si era conclusa l’esperienza decise che mai più avrebbe accettato proposte da uno sconosciuto. Quella sera Sergio e Anna scoprirono di avere molte cose in comu-ne. Entrambi amavano i viaggi, ma non erano mai riusciti a soddi-sfare questa loro passione. Così iniziarono a scambiarsi i loro libri preferiti, che spesso erano resoconti di viaggio. Durante le letture entrambi riuscivano a immaginarsi in giro per il mondo, lontani da Roma. Per un periodo ognuno dei due lesse un libro che l’altro gli aveva prestato, e grazie a questo si ritrovarono a condividere molte emozioni. Scoprirono inoltre di amare le serate ascoltando musica dal vivo nel-le birrerie o nei pub. Capitava così che una volta o due al mese si concedessero una serata per ascoltare musica e apprezzare (o critica-re) i musicisti di turno. Entrambi odiavano il fumo. Sergio era appassionato di fotografia, e Anna era la modella ideale. Si trattava di una bella donna di trentacinque anni con gli occhi az-zurri, anche se non di una bellezza appariscente; ci voleva qualche attimo di osservazione prima di cogliere appieno i lineamenti dolci e lo splendido sorriso. I suoi capelli castani erano tendenti al rosso, e lei spesso li tingeva con l’henné per accentuarne il colore. Erano na-turalmente mossi, e lei non contrastava la loro natura. Proprio per compensare il suo aspetto non appariscente vestiva sem-pre con abiti colorati o improbabili, col risultato che era impossibile non notarla. In breve ai suoi clienti abituali si era aggiunto anche il commissario di polizia Sergio Mantini. Il commissario aveva sempre voluto pagare, nonostante lei avesse sempre cercato di evitarlo. Lei infatti considerava il commissario un cliente speciale; la loro relazione non era solamente fisica. Quando usciva con Sergio aveva la possibilità di trascorrere una serata in compagnia, quasi fosse la sua fidanzata; cena, cinema, birreria. Solo alla fine, e neanche sempre, finivano a letto insieme. Con gli altri clienti Anna non aveva mai avuto un rapporto di quel tipo.

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Il commissario avrebbe voluto qualcosa di più da quella relazione, ma mai si era permesso di parlarne con Anna, conoscendone bene la sete di libertà. Non le aveva mai chiesto perché facesse quel mestiere, riteneva che si trattasse di un discorso privato. Se mai avesse un giorno voluto parlargliene lo avrebbe fatto lei, senza bisogno di insistenti e fasti-diose domande. Frequentare Anna era servito a colmare in parte la grande amarezza provata per la morte di sua moglie. Per un certo periodo si era con-vinto che nulla avesse più senso, e solo quando si trovava con Anna riusciva a fingere che la vita procedesse serenamente come lui aveva sempre desiderato. Anna arrivò puntuale alle otto, ben sapendo che Sergio odiava aspet-tare. Salì sulla Ford Fiesta del commissario chiedendogli: «Ciao Sergio, hai già deciso dove andiamo stasera?» «Certo, anche se non ho prenotato.» «E se troviamo tutto pieno che figura ci fai? Esci con una donna e poi rischi di fare queste figuracce?» Lui le sorrise, e guardandola negli occhi rispose: «Non mi perdonerei mai una brutta figura con te.» «Dove si va?» «Un locale in centro, vicino a via Condotti.» «Ah, ho già capito, quel ristorante di cui mi hai sempre parlato ma non mi ci hai mai portata… come si chiama?» «Da Settimio.» «Bene, sono proprio curiosa di scoprire se si mangia bene come spesso mi racconti.» Conversarono del più e del meno fino a quando, dopo aver terminato il primo piatto a base di pesce, Anna gli chiese: «Devi parlarmi di qualcosa?» «Sì» rispose Sergio «vorrei chiederti due favori.» «Dimmi.»

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«Mia madre è anziana. Vive sola. Be’, non proprio sola, sta da lei una badante moldava, una bravissima signora. Le va a fare la spesa tutte le mattine…» «Non prenderla troppo alla larga raccontandomi vita, morte e mira-coli della badante. Sai che mi piacciono i discorsi diretti» lo inter-ruppe Anna. Sergio allora continuò la conversazione in maniera più diretta. «Ok. Mia madre vorrebbe vedere che io mi rifaccio una vita. Non le piace sapere che soffro di solitudine. Vorrei che tu venissi una volta con me da lei. Mi basta una volta sola.» «A fare la parte della fidanzata?» «Ecco, sì, esatto. La parte della fidanzata.» «Non ho mai provato a recitare la parte della fidanzata. Deve essere divertente!» esclamò sorridendo. Poi si fece seria: «Mi stai chiedendo di recitare, vero?» «Sì, per quanto riguarda questa richiesta assolutamente sì.» «Cosa intendi per “questa richiesta”?» «Vedi, Anna, vorrei chiederti un’altra cosa.» «Dimmi.» «Noi abbiamo sempre parlato di viaggi. Solo che poi restiamo sem-pre a Roma, anche nelle estati afose come questa. Io avrei bisogno di partire. É da più di cinque anni che non mi muovo di casa, pratica-mente da quando mia moglie si è ammalata. Perché non la smettia-mo di immaginarci in viaggio e poi invece restiamo sempre qui? Perché non partiamo davvero? «Come una coppia di fidanzati?» «Non ti sto chiedendo di diventare la mia compagna. Ormai ti cono-sco e so che mi diresti di no.» «E allora? Cosa mi stai chiedendo?» chiese lei sospettosa. «Un po’ di normalità. Durante il viaggio potrei fare finta con me stesso che tutto stia andando bene.» «Che hai trovato una compagna» insistette lei «e prima o poi mi chiederai di più.» Lui stette in silenzio. Non era quello che aveva pensato nel momento che le esponeva la sua richiesta, ma forse era proprio vero ciò che

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Anna aveva subito intuito. Forse lui non voleva ammetterlo neanche con se stesso. Stettero un po’ in silenzio, poi lei riprese: «Hai già pensato a dove andare in vacanza?» Sergio fece cenno di sì con la testa. «Dove, allora?» «Abbiamo entrambi la passione del deserto. Pensavo allo Yemen. Viaggio organizzato, senza rischi. É la prima volta e non me la sento di trovarmi catapultato in un viaggio avventura. La prima settimana di settembre dovrei avere abbastanza ferie.» Anna stette in silenzio per un paio di minuti, mentre lui la osservava non sapendo bene se sperare in un sì o in un no. «Ci penso» gli rispose lei infine. «É più di quello che sperassi.» «Però se ti dico di sì mi devi promettere che una volta tornati a Ro-ma tutto torna come ora.» «Promesso.» «E io pago la mia parte del viaggio.» «Ma non della cena di stasera!» Allora fu Anna a sorridere.