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Il matematico con le scarpe gialle Romanzo di Carlo Zamparelli Prima stesura: Novembre 2011 Febbraio 2012 Prima revisione: 31 marzo 2012 Seconda revisione: 25 aprile 2012 Terza revisione (diff. riservata): 12 maggio 2012 Quarta revisione (diff. pubblica): 4 giugno 2012. Quinta revisione: 7 maggio 2013.

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Il matematico con

le scarpe gialle

Romanzo di

Carlo Zamparelli

Prima stesura: Novembre 2011 – Febbraio 2012Prima revisione: 31 marzo 2012Seconda revisione: 25 aprile 2012Terza revisione (diff. riservata): 12 maggio 2012Quarta revisione (diff. pubblica): 4 giugno 2012.Quinta revisione: 7 maggio 2013.

Opera originale diCarlo ZamparelliVia Manzoni 11 - 56125 PisaTel. 050-503969 328-0583302e-mail: [email protected]

Edizione fuori commercio193000 battute - 200 KB (Word 2007) -Codice Decimale Dewey (CDD): 853

In copertina: Disegno di Marta Zamparelli © 2013 - http://cargocollective.com/martazamparelli

Tutti i diritti riservati.Non è consentito effettuare copie, anche parziali, del presente lavoro, se non dietro esplicita autorizzazione dell’autore.

In questo romanzo, ad esclusione delle prime due pagine del primo capitolo, personaggi, luoghi e circostanze sono esclusivo frutto della fantasia dell’autore. È ferma convinzione dello stesso, però, che la realtà spesso superi la fantasia.

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Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt.(Orazio – Epistola a Bullazio – Ep. I, XI, 27)

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INDICE

Capitolo 1 pag. 7

Capitolo 2 pag. 15

Capitolo 3 pag. 26

Capitolo 4 pag. 31

Capitolo 5 pag. 40

Capitolo 6 pag. 47

Capitolo 7 pag. 61

Capitolo 8 pag. 69

Capitolo 9 pag. 78

Capitolo 10 pag. 85

Capitolo 11 pag. 93

Capitolo 12 pag. 101

Capitolo 13 pag. 108

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Capitolo 1

Cominciava ad albeggiare. Il treno era fermo chissà dove e non accennava a voler riprendere la corsa verso il nord. Il cuccettista bussò alla porta, erano le cinque e mezza e c’erano novanta minuti di ritardo.

Guglielmo si distese ad assaporare almeno un’altra ora di dormiveglia, confidando nella successiva fermata di Livorno per prepararsi con tutto comodo a scendere a Pisa. Da Livorno a Pisa ci sarebbero voluti almeno quindici minuti e lui dormiva vestito e con i documenti in tasca. Teneva le scarpe e il bagaglio a portata di mano, per terra ai piedi della cuccetta.

Sentì il treno ripartire. Il buio dello scompartimento e il russare ritmico degli altri passeggeri lo cullarono in un torpore cui si abbandonò e che lentamente lo fece scivolare in un mondo di sogni dove quel treno sferragliava pigramente ancora lontano dalla meta, forse in Calabria, forse poco prima di Roma. Poi una nuova fermata. Non seppe distinguere fra sogno e realtà – non volle - e il suo assopimento giustificò quella fermata come frutto della sua fantasia. Dopo neanche un quarto d’ora, però, lo stridio del treno che rallentava lo costrinse a destarsi del tutto. Probabilmente quella era Livorno. Ricostruì mentalmente gli attimi nei quali si era appisolato e, sollevata appena una striscia della tendina, ne cercò conferma nei marciapiedi e nelle pensiline metalliche che sapeva essere tipiche di quella stazione. Un paio di passeggeri, scesi dal treno, si allontanavano lungo i binari fra i saluti di chi era lì ad aspettarli; il capotreno era pronto a dare il via per la ripartenza.

Di colpo riconobbe la stazione di Pisa. Cercò di frenare il tuffo al cuore che gli chiedeva una rapida decisione sul da farsi. Mentalmente si vide già alla stazione successiva, alla ricerca di un treno per tornare indietro. Forse era ancora

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possibile essere a destinazione a un orario decente. Si arrese, seduto sulla cuccetta nel buio e nel silenzio dello scompartimento. Nessun rumore, nessuna voce gli giungeva più dal marciapiede, lì sotto al treno. Poi una porta fu chiusa rumorosamente e lui, come schiaffeggiato da quel rimbombo, infilate le scarpe, agguantato il cuscino e la valigia, si fiondò per il corridoio, aprì la porta della carrozza e si ritrovò inebetito a guardare il treno che lentamente ripartiva. Un passeggero, sportosi da un finestrino, gli gesticolava qualcosa, quasi lo volesse salutare o rallegrarsi con lui per la prontezza dimostrata. Era troppo intontito per rispondergli. Solo quando il treno scomparve, oltre la curva del ponte sull’Arno, si rese conto che era quel compagno di viaggio diretto in Liguria che aveva la cuccetta accanto alla sua.

Si stropicciò gli occhi, fece un grande respiro e, tenendo il guanciale fra le gambe, si riassettò i pantaloni e la camicia che gli pendeva da tutte le parti. Poi finalmente si mosse in direzione del sottopassaggio. Sentiva solo il rumore dei suoi passi e dei pensieri, ancora impastati di sonno, con i quali cercava di fare l’appello delle cose che era riuscito ad agguantare nel precipitarsi giù. Gli era andata bene: sentì nella tasca dei pantaloni la presenza del portafoglio e si complimentò con se stesso per aver avuto l’idea di usare solo una pratica ventiquattr’ore. Aveva con sé anche il guanciale che aveva portato da casa per dormire più comodamente. Nella frenesia di scendere dal treno aveva abbandonato la busta che l’aveva contenuto e lo teneva stretto sotto un braccio; sembrava uno di quei fagotti che portavano gli emigranti nei primi del ‘900. Immaginava di dover offrire la stessa pietosa immagine. Per fortuna la stazione era deserta.

Fece due passi e si fermò sotto la targa con il nome di quella città per assaporare tutta la sua buona sorte. Riprese a camminare ma il rumore che facevano le scarpe lo indusse nuovamente a fermarsi per guardarle con attenzione.

Aveva ai piedi un paio di mocassini di pelle gialla, a punta, di un paio di numeri più grandi. Il piede ci sguazzava dentro e il rumore era quello di due vecchie ciabatte. Riconobbe quell’orrore e fu subito preso da un’irrefrenabile

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risata pensando a quando il suo ex compagno di viaggio si sarebbe accorto dello scambio. Le scarpe che aveva lasciato in treno, a quell’omone, non gli sarebbero certamente entrate. Poi lo rivide gesticolare dal finestrino mentre il treno ripartiva e l’ilarità si tramutò in smarrimento.

Era domenica mattina e la piazza della stazione iniziava pigramente la sua vita: due barboni ripiegavano i cartoni che erano serviti da giaciglio, il giornalaio sistemava le locandine dei quotidiani e qualche turista si aggirava sotto i portici indeciso su dove andare. Una macchina della Polizia sostava al di là della fontana e un taxi arrivava per prendere posto accanto alla pensilina alla fine del marciapiede.

L’albergo che aveva scelto, La Fenice, era in una strada secondaria a poche centinaia di metri; si incamminò con lo sguardo fisso sul selciato. Non avrebbe saputo dire se provava maggiore imbarazzo per quel guanciale che, imbracciato, lasciava sventolare una leziosa federa a fiorellini, o per le sue nuove scarpe da buttero maremmano.

Volle darsi un minimo di contegno. Per la frenesia di scendere dal treno si ritrovava in maniche di camicia. Non che sentisse freddo, ma ritenne opportuno tirare fuori dalla ventiquattr’ore giacca e cravatta. Sedette su una panchina e completò rapidamente l’operazione. Per un istante sospettò che quell’abbigliamento potesse rendere, per contrasto, ancora più orripilante quanto portava ai piedi. Richiuse la valigetta, si alzò in piedi, si lisciò la giacca e, guardandosi in uno specchio immaginario, mentre raddrizzava il nodo della cravatta, decise invece che almeno una parvenza di rispettabilità l’aveva riacquistata.

Nell’incrociare qualche passante si arrestava con studiata indifferenza; stringeva l’elegante valigetta nera, unico segno di normalità che giustificasse la sua presenza in quel luogo, e attendeva che quello si allontanasse. Con la coda dell’occhio scrutava poi le reazioni negli sguardi che si sentiva piovere addosso e, passo passo, guadagnava terreno per raggiungere l’albergo.

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Entrò nella hall con lentezza, come pattinando, per evitare il cigolio delle scarpe e il rumore dei tacchi sul pavimento. Si incollò al bancone della reception, cercando alla sua base qualche rientranza dove nascondere i piedi. Tirò fuori i documenti e prese nervosamente a passarsi il guanciale da un braccio all’altro sotto lo sguardo incuriosito ma professionale del portiere.

“Sul treno altrimenti non riesco a dormire…” balbettò, senza che alcuno lo avesse interrogato.

“Professor Guglielmo Santucci, vero? Ah… ecco… ecco qua la prenotazione da parte della Scuola Normale. Una sola notte, vero? Ma lei… “, e il portiere tossicchiò un paio di volte, “lei… è un professore della Normale?”.

“Quasi, sì… certamente”, rispose Guglielmo. Avrebbe voluto eliminare quel “quasi” dalla sua risposta, ma un tono conciliante gli sembrò più adatto. Nella situazione in cui si trovava avrebbe gradito comprensione più che ammirazione.

Mentre il portiere gli consegnava la chiave chiese:“Ci sono altri ospiti prenotati dalla Normale?”.“Oltre a lei c’è solo... ah, ecco… il professor Caputo,

ma non è ancora arrivato. Vuole che gli lasci un messaggio da parte sua?”.

“No, grazie, non c’è bisogno… lo conosco appena… no, no… grazie… veramente gentile”.

Riprese la valigetta che aveva poggiato con ostentazione sul ripiano del banco, si sistemò meglio il fagotto sotto il braccio e si diresse verso l’ascensore. Una volta in stanza, chiuse a chiave e si lasciò andare sul letto.

Pensando a quel signore che gesticolava contro di lui mentre il treno si allontanava, si appisolò. Ma lo rivide in sogno, minaccioso e volgare. Quell’individuo baffuto non voleva comprendere come fossero andate veramente le cose: sbraitava che gliela avrebbe fatta pagare, che lo aveva rovinato, che a Genova aveva un importante appuntamento di lavoro cui aveva dovuto rinunciare. Vagava per le strade di Pisa, bestemmiando contro quel professore siciliano che non riusciva a trovare. Guglielmo si rintanava nei portoni più bui del centro; era scalzo, si era disfatto delle scarpe gettandole in

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un cassonetto della spazzatura. Forse, invece, avrebbe dovuto metterle da parte, restituirle, spiegarsi, chiedere scusa. Fuochi d’artificio illuminavano i suoi inutili nascondigli. L’ex compagno di viaggio lo aveva individuato e lo inseguiva lanciandogli contro mortaretti e lingue di fuoco.

Si svegliò oltre mezzogiorno, sudato e stanco quasi fosse veramente stato inseguito per tutta Pisa da chi reclamava le proprie scarpe. Con gli occhi ancora chiusi si sforzò di rivedere il sogno dall’inizio, nella speranza che anche quell’assurdo scambio di calzature ne facesse parte.

Invano. Si sporse dal letto per verificare.Quelle scarpe, per terra accanto al comodino, lo

riportarono bruscamente alla realtà: un paio di mocassini, deformati e con l’interno annerito dall’uso. La loro punta aguzza era rivolta all’insù, il loro colore di un giallo acido, scrostato e orrendamente crepato. Sul davanti, in corrispondenza della monta c’era una borchia metallica, il tacco era alto e rastremato.

Guglielmo non aveva altri vestiti di ricambio, così come non aveva altre scarpe. L’indomani alle otto, alla Scuola Normale, era fissata l’apertura del convegno per l’inaugurazione del centro di matematica “De Giorgi” e occorreva al più presto trovare una soluzione. Era domenica, i negozi erano ovviamente chiusi e l’indomani non avrebbe fatto in tempo a comprare un nuovo paio di scarpe. Inoltre, trattandosi di lunedì, forse i negozi avrebbero aperto solo il pomeriggio.

Come avrebbe mai potuto presentarsi con quelle cose ai piedi? Avrebbe fatto la figura del matematico barbone, fuori di testa, e non già del professionista che voleva apparire. Sarebbe diventato la favola dei colleghi, e la storiella del matematico con le scarpe gialle si sarebbe aggiunta alle tante da sempre associate a certe figure, ai carabinieri, agli scienziati distratti, ai matti. A Siracusa tutti avrebbero riso di lui, amici, parenti e, soprattutto, i colleghi di scuola. Con che coraggio avrebbe potuto presentarsi in classe?

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Pensava a Lorenzini, il professore di educazione fisica, che girava per la scuola con la camicia fuori dai pantaloni, e a tutto il fastidio che provava ogni volta che lo incrociava per i corridoi. Si figurò oggetto dello stesso ribrezzo, da parte degli alunni, dei bidelli, dei colleghi.

Era ora di pranzo; forse avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma la ritrosia verso quelle scarpe lo tenne ancora bloccato a lungo, scalzo, nella stanza dell’albergo senza decidersi sul da farsi. Chiedere aiuto al collega di cui gli aveva parlato il portiere? Ma chissà chi era quel Caputo. Esperienze passate lo avevano convinto che il più comune sentimento nei rapporti fra matematici era l’invidia, cui spesso seguiva una ricerca di pecche professionali da sbandierare trionfalmente a tutti. E lui di pecche ora ne aveva proprio due, gialle, orrende, che lo avrebbero messo alla berlina con più facilità che se avesse pubblicato un articolo ricopiato pari pari da vecchie riviste scientifiche.

“Camurria delle camurrie!” disse a voce alta. “Tento di risolvere un problema” - era questo il

pensiero che lo aveva fatto sbraitare con il suo consueto motto di insofferenza - “e lui mi si ingigantisce sotto il naso. Finché non sarò presentabile devo assolutamente evitare di incontrare questo Caputo. Sai le risate che si farebbe…”

Forse avrebbe potuto fare un tentativo, cercare un negozio miracolosamente aperto anche di domenica, un mercatino rionale, un negozio di scarpe usate, un ciabattino… Pensò pure di tentare con sfacciataggine un tentativo di baratto o di acquisto con qualche extracomunitario. Pensò dove avrebbe potuto rubare un paio di scarpe normali, forse nello stesso albergo, di notte, quando qualche ospite avesse messo le proprie fuori dalla porta per il servizio di guardaroba. No, era troppo rischioso: sicuramente il portiere dell’albergo si era accorto delle sue strane scarpe e le inevitabili lamentele del malcapitato cliente gli avrebbero fatto venire qualche sospetto. Oltre che per matematico barbone sarebbe passato anche per matematico ladro.

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Il nome di quel collega gli tornava fastidiosamente in mente. “Caputo… Caputo… vuoi vedere che anche lui si è laureato a Pisa ai miei tempi? Ma allora mi conosce… e se è lui a venirmi a cercare? Mi potrei fare trovare in camera, dire che non mi sento tanto bene… ma non ho neanche un paio di pantofole… non credevo che mi sarebbero servite”.

Passava dallo sconforto alla rabbia. Lo sentiva che non doveva partire, e poi per che cosa? Una inaugurazione di un centro di studi matematici… lui che della matematica, con gli alunni che si ritrovava, cominciava ad averne piene le tasche.

“Bene”, si diceva, “abbiamo fatto questo viaggio, abbiamo rivisto Pisa dopo vent’anni, ma ora basta. Domani si riparte e al diavolo la Normale, i sapientoni, la crittografia e tutti quegli studi che ho dovuto tirare fuori dal cassetto dopo tanti anni. Domani sono di ritorno a Siracusa, ho già il biglietto, mi inventerò qualcosa: una malattia, un rinvio della cerimonia, un cambiamento di programma… Aspettiamo e non parliamone più”.

Saltò il pranzo e sonnecchiò ancora per qualche ora.

Per uno strano destino si ritrovava nello stesso albergo dove, decine di anni prima, in occasione della laurea, avevano dormito i suoi genitori. Ricordava perfettamente di averlo, all’epoca, scelto lui: economico, ma principalmente lontano dal centro e dalla sede della Scuola Normale dove invece lui aveva l’alloggio e dove aveva trascorso insonne la notte precedente l’esame. Erano arrivati un paio di giorni prima, da Siracusa, con lo stesso treno che ora aveva preso lui; anche loro di mattina all’alba. Li aveva accompagnati in albergo e non li aveva rivisti se non il giorno della laurea, confusi fra centinaia di altri parenti.

Immerso in questi pensieri attendeva non sapeva neanche lui cosa. Poi con ribrezzo calzò quelle scarpe, riuscendo, con due paia di calzini, a evitare almeno il fastidio che provava ai piedi nello sguazzarvi dentro. Doveva uscire e trovare qualcosa da mangiare.

“Guarda un po’ che ora mi tocca anche fare la fame” pensò fra sé e sé. “Maledetta città e maledetta questa mania dei

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convegni e delle celebrazioni… proprio un bell’inizio per le vacanze di quest’anno. Neanche il tempo di finire con le lezioni che…”.

Ogni anno il professor Santucci arrivava alla fine dell’anno scolastico con una tale frenesia di voler chiudere i conti, che anche il più banale contrattempo gli rovinava l’umore per interi giorni. Figuriamoci in questa occasione! Erano le ultime settimane di scuola quando il preside gli aveva comunicato l’invito al congresso. Lo sapeva, se lo sentiva, che quel giorno non sarebbe stato come tutti gli altri. In effetti era cominciato proprio male; era arrivato in classe trafelato e in notevole ritardo. Il suo umore era talmente nero che lo aveva infastidito perfino il vecchio bidello Annarumma che al portone lo aveva salutato con la solita cordialità:

“Coraggio, professore, siamo alla fine! Cosa fa di bello quest’estate?”.

In quella squallida stanza di albergo, ormai a Pisa, ci pensava e ripensava. Ripercorreva tutti gli attimi di quella giornata e continuava a bestemmiare e a inveire: “camurrie, camurrie e solo camurrie!”.

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Capitolo 2

Quella mattina, a Siracusa, era arrivato a scuola veramente in ritardo. Il traffico di chi si intestardiva a voler percorrere con costosi fuori strada gli stretti vicoli del quartiere, l’aveva bloccato a lungo in estenuanti incolonnamenti. Era entrato in classe come se qualcuno per il corridoio lo stesse inseguendo. Gli alunni, nel vederlo entrare più nero del solito, si erano subito zittiti e ordinatamente si erano ricomposti nei banchi con gli occhi chini sul testo di trigonometria, già aperto alla pagina della nuova lezione.

Senza alcun cenno di saluto si sistemò in cattedra cercando di recuperare il tempo perduto: frugò affannosamente nella borsa e, tirati fuori il registro e un paio di libri, li sistemò allineati davanti a sé; una dopo l’altra, con meticolosa precisione, accostò tre penne al registro.

Iniziò la lezione: “Oggi parleremo delle formule per trasformare somme

di seni e coseni di angoli diversi in prodotti e viceversa… prendete pagina quarantacinque”.

Il professor Santucci sfogliava il libro di testo, lentamente, valutando la lunghezza dell’argomento che si preparava a spiegare. Iniziò ricopiando alla lavagna uno specchietto che riportava sinteticamente le sei formule di prostaferesi e le tre di Werner.

Riempita la lavagna, dovendo tuttavia dare qualche indicazione su ciò che aveva scritto, tornò svogliatamente a sedersi in cattedra e prese a leggere a voce alta qualche definizione e qualche ragionamento sulla dimostrazione e sull’utilità di quegli strumenti matematici. I ragazzi, rassegnati a questo modo di procedere, ascoltavano con finto interesse, fidando nel fatto che l’indomani, all’interrogazione, il

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professore avrebbe verificato solamente la loro capacità mnemonica per quelle espressioni.

“Quindi domani vi interrogo. Vi interrogo su queste nove formule. Potete saltare le prime pagine e andare direttamente alla tabella di pagina cinquanta”.

“Scusi, professore”, disse un ragazzo dal fondo dell’aula, “non ho capito a che serve trasformare una somma in un prodotto… mi sembra più semplice fare un’addizione che non una moltiplicazione”.

“Ne parleremo, ne parleremo… per adesso imparatele così come sono, queste formule”, rispose il professore con fare sbrigativo mentre riponeva le sue carte nella borsa. “Con questa domanda mi confermate che siete i soliti zucconi. Quanto tempo abbiamo perso a capire l’utilità di scrivere un polinomio come prodotto di due polinomi più semplici? È inutile, siete come i bambini delle scuole elementari che sanno fare le addizioni ma si ingarbugliano con le tabelline… se è così, allora non c’è speranza, non capirete mai l’eleganza della matematica. Ma d’altra parte”, concluse a bassa voce, “in questa scuola non si può pretendere di più. Solo latino, greco e filosofia…”.

La lezione fu più breve del solito. Prese a passeggiare lentamente per la classe, immerso nei propri pensieri, e si avvicinava ogni tanto alle finestre a guardare il paesaggio lì attorno: una distesa di tetti e vecchie case che, per la loro contiguità, lasciavano solo intuire la presenza dei tanti vicoli che collegavano la scuola con il lungomare da una parte e con il centro del quartiere di Ortigia dall’altra. I ragazzi avevano già tirato fuori i libri per la lezione successiva e stavano ripassando qualcosa nell’attesa.

Non si accorse dell’arrivo della professoressa di italiano.

“Ciao Guglielmo, che fai?” gli si rivolse la collega.“Nulla, è stata proprio una giornata nera. Prima il

traffico, poi non avevo portato gli appunti che mi servivano… ho dovuto finire la lezione prima del tempo. Scusami Teresa”.

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“Mi ha detto il preside che alla fine delle lezioni ti vuole parlare. Che è quella faccia? Mi sembra di aver capito che… pare che sei diventato importante…”, disse Teresa mentre lui, bloccatosi in una posa ebete, attendeva quella che sicuramente sarebbe stata una rogna.

“Si dice in giro, sai come si spargono subito queste notizie… sembra che ti attendano a Pisa per un convegno che non ho capito bene cos’è… cose di matematica”.

Guglielmo inghiottì con difficoltà e si precipitò alla porta limitandosi a rispondere:

“Poi ti dirò di che si tratta… altro che importante. Ora scappo che mi aspettano ancora tre ore di lezione. Ciao”.

Mentre, per il corridoio, stava cercando di ricordare se la classe dove era atteso fosse a destra o a sinistra, sentì provenire dalla porta dell’aula un trambusto di ragazzi che chiedevano alla professoressa notizie su ciò che stava per abbattersi sulla testa del loro professore.

Sentì chiaramente un ragazzo chiedere a voce alta:“É successo qualcosa di grave, professoressa? Il

professore è scappato via come se gli avesse comunicato la morte del suo gatto”.

Le risate scomposte di sottofondo gli impedirono di sentire altro. Era lo stesso ragazzo che poco prima gli aveva posto quelle domande sulle formule da imparare a memoria.

“É proprio un disgraziato”, pensò e si avviò a testa bassa per il corridoio.

Guglielmo Santucci, laureato con pieni voti in matematica alla Scuola Normale di Pisa, era da circa venticinque anni professore di ruolo presso il liceo classico “Tommaso Gargallo” di Siracusa, lo stesso liceo che aveva frequentato da ragazzo e che aveva mantenuto la propria sede in un antico convento del centro storico. La vetustà dell’edificio, le lapidi in latino lungo i bui corridoi, le scale consunte dai secoli, tutto ciò che nei lontani anni ’70, da ragazzo, lo aveva intimorito, ora lo accompagnava ogni mattina con piacere. Quell’immoto passar del tempo gli dava

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l’illusione di poterne essere ancora padrone. Almeno fra quelle mura scolastiche.

Nei vari consigli d’istituto si era sempre trovato in minoranza nel perorare la causa di mantenere in vita, magari con qualche lavoro di restauro, l’antico convento sede della scuola. Il preside e la maggioranza dei colleghi erano per chiedere alla Provincia la ricerca di nuovi locali, in una zona della città molto più accessibile e con tutti i requisiti di modernità ed efficienza che, dicevano, avrebbero invertito il fenomeno del calo delle iscrizioni.

Era un problema che si dibatteva da anni. Guglielmo confidava in una burocrazia che, ne era certo, avrebbe mantenuto immutata la situazione ancora per molto tempo, di sicuro fin oltre il suo pensionamento. Era ormai chiaro che gli ultimi anni della carriera li avrebbe trascorsi in quel liceo. Più che attaccamento alla scuola o alla missione di insegnante, la sua era pura e semplice ritrosia verso novità di qualsiasi tipo. Per quanto avesse sempre manifestato insoddisfazione per il ruolo di professore di matematica in un liceo classico, dove quella materia veniva appena prima dell’educazione fisica, in fondo era riuscito a camuffare anche con se stesso quell’insofferenza, raggiungendo un equilibrio fatto di abitudini, comodità ed esperienza di vita.

Dimostrava più dei suoi cinquanta anni, sia per l’aspetto fisico che per l’abbigliamento, sempre rigorosamente scuro, giacca e cravatta, e spesso fuori moda. Era di bassa statura, e con un’andatura a passi piccoli e frettolosi sembrava sempre che cercasse un posto dove rintanarsi. Una calvizie avanzata faceva risaltare una testa sproporzionata per il suo esile corpo. Quando era seduto, quel capo sembrava non aver pace, in una continua oscillazione alla ricerca di un precario equilibrio. Il volto, che al di sotto di una spaziosa fronte si chiudeva su un mento appena sporgente, era senz’altro molto meno espressivo di quel continuo tentennare. Qualche ruga gli solcava le gote, così incavate da indovinarne l’ossatura sottostante.

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Alla fine delle lezioni Guglielmo si attardò nell’androne della scuola. Attendeva Teresa per sapere da lei cosa si stesse spettegolando fra i colleghi in merito a quanto, poco prima, gli aveva comunicato il preside. Si trattava di un invito che la Scuola Normale di Pisa aveva diramato alle scuole superiori per la partecipazione dei professori di matematica a un convegno scientifico.

I ragazzi sciamando allegramente verso la strada lo urtavano distratti. L’androne risuonava di schiamazzi e del frastuono dei tanti motorini posteggiati lì fuori, fra il portone e il cancello che dava sul vicolo. Per darsi un contegno si mostrava interessato alle tante circolari che la scuola affiggeva in una bacheca accanto alla lapide con la descrizione in latino della città, tratta dalle Verrine di Cicerone. Il vecchio bidello Annarumma lo guardava da lontano.

Intravide Teresa scendere dalle scale per avviarsi verso l’uscita. Accentuò l’interesse per quegli avvisi, sperando di esserne distolto da un saluto che gli desse l’occasione che stava aspettando.

“Ancora qua, Guglielmo? Non hai fretta di tornare a casa?” disse lei, passandogli alle spalle.

“Stavo leggendo… vuoi sapere poi cosa voleva il preside? Ma sicuramente già lo sai, la notizia sarà di dominio pubblico ormai, no? A che servirebbero altrimenti i bidelli?”.

“Fregatene, Guglielmo. Non stare sempre sulla difensiva… Io ho capito solo che la scuola deve mandare un rappresentante a un convegno di cervelloni… ma non ho capito che convegno è. Raccontami tu, non fare il misterioso”.

“No, no, certo. Vorrei evitare i soliti pettegolezzi… sai, come quando ci si accapiglia per le gite scolastiche all’estero. Proprio io poi! Che non ho mai accompagnato nessuna classe… ma è una mia scelta, non mi sto mica lamentando. Insomma, ora alla Normale di Pisa stanno organizzando una manifestazione per l’inaugurazione di un centro di studi intitolato a un grande matematico di quella scuola… il prof. Ennio De Giorgi, e hanno pensato di invitare tutti i suoi ex allievi… a me hanno chiesto di presentare qualcosa sui suoi

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studi. É tutto qua. Ma è così lontana Pisa...”. E si zittì pensieroso, volgendosi nuovamente alla bacheca.

“Come ti invidio…”.Passarono altri professori, qualche ragazzo ritardatario

e finalmente anche Guglielmo si avviò fuori seguendo Teresa. “Veramente preferirei non andarci, ma come si fa

ormai? Come faccio a tirarmi indietro? Non lo sapevo che fosse già tutto organizzato; ma lo sai quanti giorni dovrei perdere?”.

“Scherzi? Prendila come una vacanza. Sapessi come piacerebbe a me visitare quella città... e poi con tutto pagato, albergo, aereo…”.

“No, in aereo a Pisa no. In aereo mai. Se proprio ci devo andare è meglio il treno; c’è il treno adatto, il Siracusa – Torino. Quanti viaggi ho fatto su quel treno da studente… ma allora avevo almeno trent’anni di meno. Come faccio ora ad assentarmi da casa per tutti questi giorni?”.

“Infatti, se prendi l’aereo al massimo si tratterà di uno o due giorni. Bah, io non ci rinuncerei proprio”. Teresa fece cenno di volerlo salutare.

Guglielmo si sentiva in imbarazzo e sotto accusa per quella manifestazione di ritrosia. Le si pose di fronte e disse tutto d’un fiato:

“É solo che quella città mi intristisce un po’… É come se ci avessi lasciato qualcosa che forse non posso più ritrovare”.

“Non puoi o non vuoi? Comunque ora ti saluto, devo proprio andare. Ciao”.

A bassa voce, mentre Teresa si era già allontanata di qualche passo, rispose a se stesso:

“Può anche darsi che non voglio. Che importanza ha? Di sicuro so solo che non voglio prendere l’aereo… e per nessuna ragione al mondo”.

A scuola i colleghi malignavano sempre su questa sua ritrosia a servirsi dell’aereo, dicendo che lui lucrava sulla diaria, sulle ore di viaggio e sulla possibilità di saltare più giorni di lezione. Non era del tutto falso: se veramente doveva sottostare al supplizio di nuovi luoghi, nuovi letti su cui

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dormire, nuove facce da conoscere, almeno che ne potesse ricavare qualcosa.

Poi mascherava questa scelta con ironia:“Perché tutta questa furia? Ci scappa l’idea di riscrivere

la riforma della scuola? O dobbiamo consegnare al ministro, subito subito, la nuova Divina Commedia per inserirla nel programma di italiano? … è una grande presunzione questa del dominio del tempo! Tutto subito e presto, vero? É anche immorale!”.

Gli rispondevano, sghignazzando: “Allora perché non ci vai con la diligenza? Peccato che

ne abbiano soppresso il servizio”.

Aveva posteggiato la macchina accanto a quella di Lorenzini, il giovane supplente di educazione fisica, che, sopraggiungendo con passo dinoccolato e col sorriso stampato sulla faccia, gli chiese:

“Come va Guglielmo? Il tuo mal di schiena?”. “Chissà perché Lorenzini si preoccupa tanto della mia

salute”, pensò Guglielmo, ma si limitò a un semplice: “Bene, grazie. Tutto superato”.

“… eee dai!”.“Sì, ciao Lorenzini… Ah, guarda che ti sei dimenticato

di infilare la camicia nei pantaloni. Vedi? Da dietro ti pende tutta”.

“…eee dai!” gli dicevano molti dei colleghi più giovani; giovani quasi fossero suoi figli. Nelle fugaci conversazioni, nel salutarsi o nel rispondere positivamente a inutili discorsi, sfornavano una cantilena dalle vocali striscianti a coinvolgerlo in un patto non voluto: “…eee dai!” Specialmente Lorenzini era una mitraglia di “e dai!” sia con gli allievi, sia con i colleghi; il darsi del tu, praticamente, lo aveva imposto lui.

Il professor Santucci, anche dopo molti anni di servizio, continuava a dare del lei alla maggior parte dei colleghi, specialmente al preside, con una fierezza che cresceva sempre più di fronte ai finti rapporti camerateschi cui assisteva. “Ora ci tocca dare del tu anche ai bidelli”, pensava,

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“e poi anche aiutarli a pulire le aule”. Solamente con Teresa gli era sempre venuto spontaneo il tu.

Si avviò verso casa guidando nervosamente e pensando alla figura che aveva fatto, poco prima, in quel veloce colloquio con Teresa. Arrivò in via Roma, sotto casa, nell’ora di maggior traffico e iniziò la vana ricerca di un posteggio libero. Si era detto infinite volte che sarebbe dovuto andare a piedi: la scuola non distava poi tanto da casa. Era lo stesso itinerario che aveva fatto per anni da ragazzo. A piedi non ci avrebbe impiegato più di dieci minuti, ma la pigrizia gli faceva fare cose che era lui stesso il primo a giudicare irrazionali.

Cominciò con pazienza a fare più e più giri attorno all’isolato, sul lungomare, attraverso vicoli e piazzette, dicendosi che prima o poi qualcuna di quelle macchine posteggiate avrebbe lasciato libero un posto: erano centinaia ed era statisticamente impensabile che per ognuna di esse il tempo di sosta fosse più lungo della mezz’ora che era disposto a trascorrere girando per il quartiere. Nessun tempo è infinito; tutto prima o poi finisce, qualcuno completerà le compere. Qualcuno andrà via a pranzo da amici, qualche mamma dovrà pur andare a prendere il figlio a scuola.

“Che camurria!” gli scappò ad alta voce dopo il decimo giro, a passo d’uomo, rasente le altre macchine parcheggiate. Era un’esclamazione di insofferenza che usava sempre suo nonno.

A casa Maria si accorse subito dell’umore nero di Guglielmo. Non che gli altri giorni rincasasse con il sorriso sulle labbra, ma certamente qualcosa lo turbava più del solito.

“Niente, niente. Le solite camurrie: non si può mai stare in pace”.

Maria, in silenzio, aspettava che il marito si sfogasse. Sapeva che era inutile cercare di confortarlo.

“A fine mese devo andare a Pisa … devo fare una conferenza su quel professore della Normale con cui mi sono laureato… ma è così lontana che dovrei prendere l’aereo!”.

“Che sarà mai!” disse Maria.

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“No, l’aereo no! Al massimo ci vado in treno. É così comodo il treno!”. Poi volendo cambiare discorso: “Cosa c’è di buono da mangiare?”.

Non voleva fare con Maria la stessa parte che aveva fatto poco prima con Teresa. Con obiettività si rivedeva in quel dialogo che, aleggiandogli ancora dentro, lo turbava e infastidiva forse più della stesso invito che gli aveva appena consegnato il preside.

“Ho preparato la cecina che ti piace tanto… neanche a farlo apposta, così ti sembrerà di essere già a Pisa. Me ne hai sempre parlato con tanto piacere”.

Un barlume di serenità accese lo sguardo di Guglielmo. Cambiando tono si lanciò in un lungo e nostalgico monologo:

“Cecina e castagnaccio… lo mangiavamo in quei locali, odorosi di frittura, su dei tavolacci unti… mi sembra che uno si chiamasse il Montino… eravamo così accalorati nelle nostre discussioni che ci sembrava di essere ancora fra i banchi dell’università. La sera poi tornavamo in collegio con i tovagliolini di carta pieni di formule e di dimostrazioni sulle quali finivamo sempre per litigare. Vedessi come ci guardavano gli altri ragazzi! Ma noi eravamo i normalisti… mica poco”.

“A proposito”, lo interruppe Maria, “è tornato poco fa Filippo, hanno avuto l’ultimo compito in classe di matematica. Vedi se ti riesce di farti dire qualcosa… è rintanato come al solito nella sua stanza davanti al computer”.

Guglielmo si avvicinò alla porta del figlio e da uno spiraglio gridò:

“A tavola! Spegni quell’affare!”.“Che palle, papà!”.A tavola, fra padre e figlio, ci si mise di mezzo anche la

cecina.“Io questa non la mangio”, disse Filippo, “mi sembra

segatura fritta”.“Com’è andato il compito? Hai portato il testo che poi

lo guardiamo?”.“Ho fame…”.

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“Almeno provala… era sulle scomposizioni delle frazioni? Era difficile?”.

“Normale”.“Normale come? Scommetto che hai fatto i soliti errori

nel semplificare le…”.“Uffa papà… tanto io uso un altro metodo… la

professoressa dice che vuole quello”.“Ma l’hai capito? Che metodo è?”.“Normale”.“Vabbè, fai come vuoi… ma guarda che non stiamo

parlando di formule magiche… se non capisci cosa stai facendo fermati e chiedi. La tua professoressa non avrà nulla in contrario se le dimostri che alla fine tutto torna lo stesso. E ci puoi anche trovare gusto in un metodo alternativo”.

“Tu mi fai solo sbagliare… la professoressa mi ha detto che se devo fare l’inverso di una frazione devo solamente scambiare il numero di sopra con quello di sotto… tutta la storia che mi hai spiegato, dividere per uno la frazione… moltiplicare, anzi no, dividere il numero uno con un altro numero uno sotto… insomma non ci ho capito un cavolo e poi non serve a nulla”.

“Dopo pranzo ne parliamo per bene...”.“Ma c’è solo questa segatura da mangiare? Possiamo

parlare d’altro?”.“No, non possiamo e se non ti va accomodati pure…

mi hai proprio rotto le scatole”. Il suo tono e il suo viso non riuscirono a trattenere la rabbia con la quale accompagnò due sonore manate sul tavolo.

“E finché non finisce la scuola te lo sogni il canottaggio… caro mio… Hai capito? Dico a te, presuntuoso che non sei altro!”.

Filippo prese una mela e sparì nella sua stanza lasciando Guglielmo e Maria a guardarsi muti negli occhi. Lei avrebbe voluto dire qualcosa ma sentiva che il marito non avrebbe accettato alcun aiuto. Era così teso che qualunque parola l’avrebbe fatto esplodere. Guglielmo scostò la cecina davanti a sé e si mise a passeggiare nervosamente per la stanza.

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“E poi io mi lamento dei miei alunni” disse ad alta voce. “Sono tutti dei disgraziati… cosa pretendono di sapere? Ma l’hai sentito? Dice che io lo faccio sbagliare… che non capisco niente… lui invece, un quattordicenne… Ci mancava anche questa”.

Maria provò a intervenire:“Lo sai come è fatto, no? É nell’età della

presunzione… lascialo maturare. Non ci pensare più. Raccontami invece di questa conferenza che devi fare a Pisa… possiamo partire assieme, ti va? Non andiamo mai da nessuna parte…”.

“Non ti ci mettere anche tu con questa storia. Non parto, va bene? Così sono tutti contenti… i miei cari colleghi, il preside, i bidelli… tutti quei deficienti che sono bravi solo a parlare male alle spalle. Ogni volta la solita storia: come parti? Quando parti? Perché prendi il treno? Quanti giorni ti fermi? Che vadano tutti al diavolo”.

La sera, la tempesta sembrava essere svanita. Guglielmo era tornato a essere il pacato professore Santucci di sempre e, armato di guide turistiche e cartine della Toscana, tirato fuori un vecchio orario ferroviario, aveva studiato quel viaggio il cui pensiero gli aveva rovinato la giornata. Aveva preso qualche appunto su un minuscolo foglio di carta e lo aveva riposto nel portafoglio per quando, l’indomani, si sarebbe recato all’agenzia di viaggi. Dopo cena, finalmente, soddisfatto come se avesse già fatto il biglietto, il viaggio, partecipato al congresso e fatto ritorno a Siracusa, il professor Santucci si appisolò in poltrona davanti al televisore.

Maria rimase sveglia a seguire, accanto a lui, un telefilm di fantascienza e Filippo continuò l’esilio nella propria stanza.

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Capitolo 3

Mancavano un paio di settimane all’inaugurazione del centro studi di matematica intitolato al famoso professore Ennio De Giorgi. Morto cinque anni prima, nel 1996, quel luminare aveva occupato la cattedra di analisi matematica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa fin dagli anni ’60 ed era considerato il più grande matematico italiano dei tempi moderni. Con la sua opera scientifica aveva aperto prospettive prima inimmaginabili alla matematica mondiale. Oltre che grande matematico era stato anche un uomo di grande umanità, fede e impegno civile.

Guglielmo era stato suo allievo dal 1970 al 1975 e si era laureato con una tesi sulle proprietà additive dei numeri interi, prima fra tutte la famosa congettura sulla scomposizione di qualsiasi numero pari nella somma di due numeri primi. Non era certamente arrivato alla dimostrazione di quella congettura, che resisteva indimostrata sin dal 1742, ma la sua dissertazione ne faceva intravedere una possibile strada alla luce dei nuovi studi di analisi applicata ai numeri interi.

Era sicuramente in gamba Guglielmo. De Giorgi lo incitava sempre ad approfondire i suoi studi sulla teoria dei numeri e lui, inorgoglito, gli andava appresso dedicando ogni energia alla matematica. Quando lo pigliava qualche momento di sconforto per quegli studi sui quali aveva forse costruito troppi castelli in aria, si consolava pensando che anche il suo maestro aveva avuto simili dubbi, ma che a suo tempo li aveva brillantemente superati.

Gli dava solo enormemente fastidio il fatto che i parenti, gli amici e quanti della matematica avevano una conoscenza superficiale, lo vedessero come un essere alieno capace di svolgere a mente le operazioni più difficili.

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Immancabilmente, a tavola, di fronte a una torta o a un panettone, qualcuno gli diceva sempre:

“Guglielmo, fai tu le fette tutte uguali, tu che sei un matematico”. E gli venivano indirizzati riverenti sorrisi.

La sua carriera, dopo la laurea, era proseguita con il

dottorato. I suoi studi sui numeri primi erano molto apprezzati; erano gli anni nei quali iniziavano a svilupparsi sofisticati sistemi di crittografia che si basavano proprio su quei numeri. Aveva quindi deciso di intraprendere la carriera universitaria, buttandosi alle spalle tutte le remore per un lavoro che aveva temuto essere troppo avulso dalla realtà.

Purtroppo non aveva fatto i conti con il clima di competizione che, tanto più presente quanto più alta la posta in gioco, permeava quell’ambiente, e che mal si sposava con il suo carattere. Le difficoltà, gli ostacoli tecnici, le invidie e gli sgambetti dei colleghi, riacuivano in lui i mai sopiti dubbi sulla validità delle proprie scelte. Rimase a Pisa ancora un paio di anni ma si isolò definitivamente, rintanandosi in un mondo che ormai consisteva solo in una anonima scrivania presso la sede della Scuola, in una piazza impreziosita dalle eleganti architetture del Vasari e in una via - via Santa Maria - dove alla Domus Galileiana passava i pomeriggi a leggere i manoscritti di Ettore Maiorana. Fra quelle carte, ancora non del tutto pubblicate, ricercava forse la scintilla che riaccendesse l’ardore per la matematica.

In quegli anni si allontanò lentamente anche dal vecchio professore De Giorgi che, uomo dalla religiosità profonda, spaziava sempre più tra la scienza e la fede. Guglielmo iniziava a sentirsi abbandonato e tradito anche da lui: si sentiva un pesce fuor d’acqua, perdendo sempre più di vista il vero significato delle scienze matematiche. Non era avvezzo a quei discorsi di carattere sociale sulla responsabilità degli uomini di cultura nel promuovere l'amicizia e la comprensione tra i popoli. Non comprendeva come il suo maestro potesse passare con disinvoltura dalla teoria sulle equazioni differenziali alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Era inoltre sempre più difficile poter fruire

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del tempo che De Giorgi dedicava alla didattica. Il suo maestro, divenuto socio di Amnesty International, indirizzava ormai la maggior parte delle proprie risorse alla liberazione di matematici caduti sotto i rigori di vari regimi politici.

Fu così che aveva deciso di partecipare a un concorso per le scuole pubbliche secondarie. Vinta la cattedra, era rientrato a Siracusa dove la sua vita prese subito una piega di monotona routine.

Aveva superato la trentina e, qualche anno dopo, aveva sposato Maria, figlia di un conoscente del padre che viveva, pochi portoni più in là, nella sua stessa via. Le famiglie si conoscevano e si frequentavano già da tempo, ma lui, che per la lunga permanenza a Pisa, aveva allentato le antiche conoscenze, la incontrò per la prima volta quando, poco prima di un Natale, uscendo dalla cattedrale si era fermato, con i propri genitori, sul sagrato a scambiare convenevoli. Maria si era mostrata interessata per quanto lui raccontava. Stava anche lei per laurearsi, in biologia, e guardava quel giovane professore di matematica con uno sguardo che tradiva curiosità per la vita che aveva fatto da studente, a Pisa, alla Normale, nella più prestigiosa università d’Italia.

Era una bella ragazza Maria. Lunghi capelli neri le scivolavano sulle spalle, inquadrando un volto ovale, di una regolare e semplice bellezza mediterranea. I suoi occhi azzurri erano come quelli di tante donne palermitane, così azzurri da stentare a crederle siciliane. Era anche spigliata quella ragazza.

Quel primo incontro fu breve e fugace. Ma non tanto da impedire che l’aspetto gioviale e rassicurante di Maria lo scotesse tutto. Il primo pensiero che ebbe, dopo essersi salutati, fu:

“Guglielmo, non vorrai mica rinunciare anche a questo?”.

Aveva superato i trent’anni. Cosa avrebbe dovuto aspettare ancora?

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Per Natale le regalò uno splendido foulard di seta, con tanti fiori gialli dai petali larghi come quelli dei papaveri, e iniziò così la loro frequentazione.

Trascorsero vent’anni. Maria si era laureata, si erano sposati e qualche anno dopo era nato Filippo. Vivevano nella vecchia casa di famiglia, in via Roma, dove il padre di Guglielmo aveva riservato loro tutto l’appartamento al primo piano. Le giornate si seguivano identiche: la mattina a scuola e il pomeriggio a riposare in poltrona con qualche lettura di libri che aveva dimenticato di possedere. Nel continuo impegno di organizzare i suoi spazi e le sue esigenze, lo stare a casa non lo annoiava affatto.

Il pomeriggio, a seconda delle necessità, si sedeva a una delle tre scrivanie che aveva nello studio. Erano quasi identiche fra loro, di noce scuro, in stile classico e austero, con due file di cassetti ai lati e una alzatina sul piano di scrittura. La stanza, molto grande, gli permetteva il piacere di avere tre posti di lavoro distinti: il primo per i lavori scolastici, il secondo per le faccende casalinghe e personali, tasse, documenti, scadenze, e altre “camurrie” che voleva sempre avere sotto mano. L’ultima scrivania, era dedicata agli svaghi, o meglio alle sue manie: vi componeva scritti pseudo letterari, disegnava qualcosa e curava una raccolta di francobolli. C’era pure un computer ma lo usava poco.

“Se un problema non ha soluzioni, che forse me le trova lui?” diceva.

Nello studio, alle spalle di ogni scrivania aveva sistemato, con identica suddivisione tematica, una capiente libreria fino al soffitto. Un tavolino completava l’arredamento, con accanto due comode poltrone in pelle; in una di quelle, dopo pranzo, si appisolava in attesa di decidere a quale scrivania si sarebbe poi seduto.

La parete accanto alla porta era ricoperta da grandi cornici, alcune dorate, in stile barocco, altre in legno chiaro lucidato a spirito. Gli spazi residui erano riempiti con portaritratti ovali. Era un trionfo di cornici di tutte le misure e

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di varia foggia, tutte rigorosamente vuote, senza alcuna immagine, a mostrare solamente porzioni di muro incorniciate.

Talvolta scendeva nello scantinato del palazzo dove da ragazzo aveva passato il tempo a giocare al meccanico o al piccolo chimico. Vi andava in religiosa visita, a osservare quello che ormai era diventato un sacrario. Il locale era pieno di tutta l’attrezzatura che si può immaginare, dalla falegnameria alla meccanica, dall’idraulica alla chimica. Teneva tutto in ordine in appositi armadi accanto ai banchi da lavoro. Passava in rassegna le sue dotazioni e ricordava malinconicamente il tempo andato.

Come gli sarebbe piaciuto che il figlio si invaghisse di quel ben di dio di attrezzature!

Purtroppo con Filippo, il figlio ormai quattordicenne, era una continua incomprensione. Il ragazzo si burlava del genitore e delle sue manie, e lui non capiva come oggi ci si potesse divertire con tutti quei giochi elettronici di cui era piena la sua stanza.

Gli interessi connessi al ruolo di professore erano, così, confusamente mescolati con nostalgie e rimpianti per altre attività che l’età e la pigrizia gli impedivano di portare avanti come avrebbe voluto.

La stessa pigrizia la mostrava anche nel preparare le lezioni. A casa il tempo che passava alla scrivania scolastica era molto inferiore a quello che passava seduto agli altri due posti di lavoro. Si aggiornava professionalmente poco e di mala voglia. Evitava di far fare ai ragazzi compiti scritti, che altrimenti poi avrebbe dovuto correggere, e alla fine dell’anno arrotondava abbondantemente i voti con una alta percentuale di promozioni.

“Ma che mi importa”, pensava, “ancora un paio di anni e sarò in pensione. Ho tante altre cose da fare”.

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Capitolo 4

Arrivò il giorno fatidico della partenza. Era un sabato di giugno del 2001 e il lunedì successivo, a Pisa, era fissato quel congresso di matematica cui era stato invitato. I suoi impegni scolastici erano finiti da poco e quel pomeriggio il professor Guglielmo Santucci si ritrovò alla stazione di Siracusa, con oltre un’ora di anticipo sulla partenza del treno dell’Etna, lo stesso treno Siracusa – Torino che aveva preso per anni da studente. Non aveva voluto essere accompagnato. D’altro canto sarebbe stata un’assenza di soli due giorni e lui scherzando aveva salutato Maria dicendole:

“Non parto mica per la Patagonia. Tu piuttosto bada a Filippo… Ora che è finita la scuola vedrai che passerà tutto il tempo con gli amici al circolo dei canottieri. Servisse almeno a qualcosa… fra tanti altri sport più tranquilli che poteva fare... Ci vediamo martedì. Ti telefono prima, così puoi venirmi a prendere alla stazione”.

“Mi raccomando, chiamami”, fece Maria. “Con questa tua mania di non volere il telefonino non saprei proprio come fare per rintracciarti. Aspetta, aspetta… perché non te ne porti uno di Filippo. Ne ha tre di telefonini; se glielo chiedi, uno per qualche giorno te lo presta di sicuro”.

“Neanche per sogno, ho vissuto benissimo per cinquant’anni senza averne bisogno… e se il mondo è cambiato, peggio per lui!”.

Aveva con sé tutto l’essenziale in una valigetta ventiquattr’ore: un pigiama, biancheria di ricambio, qualche appunto di matematica e un paio di libri. Schiacciato fra il pigiama e l’Inferno di Dante c’era un sacchetto di carta con un panino che si era preparato per la cena. Aveva fatto la valigia già dalla mattina e più volte l’aveva ispezionata per verificarne

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il contenuto. Non voleva che fosse inutilmente pesante o ingombrante. Aveva, infatti, anche un altro bagaglio da portare con sé: un guanciale infilato in una grande busta di carta.

“E questo che è?” gli aveva chiesto Maria quando, prima di pranzo, i bagagli erano già allineati nell’ingresso, accanto alla porta.

“So io come si dorme in quelle maledette cuccette… ne ho fatti di viaggi su quel treno! Non ti preoccupare che te lo riporto il cuscino. Se non dormo bene arrivo tutto rintronato. Ricordo che quando viaggiavo per andare all’Università c’era sempre qualche anziano signore che si metteva in pigiama e pantofole… come lo guardavo con ironia! Beata gioventù! Bisogna arrivarci a una certa età per essere più indulgenti e capire queste necessità, non credi?”.

“Certo, certo… ma sei proprio buffo con questo fagotto. Potevi prendere un cuscino più piccolo… ma perché, non lo danno più in treno?”.

“Sì, per le bambole. …ma chi se ne frega delle apparenze. Se parto, parto come dico io”.

“Piuttosto… pensi che ti sia sufficiente un panino per cena?”.

“Ci ho già pensato. Non vedo l’ora di assaggiare le favolose arancine che fanno sul traghetto. Ci sarò proprio ad ora di cena, già sento il loro sapore… che frittura quella!”.

Il suo scompartimento era vuoto, ma era ancora presto. Poi arrivò un gruppo di quattro o cinque uomini, vocianti e accalorati per la quantità di bagagli che portavano. Si somigliavano tutti e, quasi una squadra di operai in un trasloco, fra concitate raccomandazioni e imprecazioni dialettali, cominciarono a far passare dal finestrino enormi valigie, scatoloni di cartone e involti che emanavano odore di formaggio e agrumi. Per un attimo Guglielmo temette che a partire fosse tutta quella congrega e, infastidito, si era scelto il posto accanto al finestrino da dove assisteva a quelle manovre. Quando però le retine sopra i sedili furono tutte colme di pacchi e le valigie sistemate anche sotto i sedili, sonori schiocchi di baci e abbracci appassionati gli fecero intendere

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che a partire era uno solo. Il treno partì, Guglielmo ringraziò la buona sorte e volle quasi ringraziare anche quel signore cercando di intavolare un discorso di circostanza:

“Scende a Torino? Sembra che non ci sia molta gente oggi su questo treno… meglio così, speriamo che strada facendo non salga nessun’altro”.

Il signore, dai capelli bianchi e la faccia bruciata dal sole, che sembrava più vicino ai settanta che ai sessanta, pareva non aver sentito. Era ancora tutto teso a controllare la disposizione dei bagagli, ne spostava qualcuno, verificava che non potessero cadere, e, borbottando fra sé e sé manifestava preoccupazione per quando, all’arrivo, avrebbe dovuto scaricarli:

“Speriamo bene, a Torino…”. Poi, quasi si fosse accorto della presenza di Guglielmo, aggiunse:

“Sì a Torino… mia figlia si è sposata là. Vado a conoscere mio nipote che è nato da poco… un nipote torinese. Speriamo proprio che alla stazione ci sia mio genero… con tutti questi marazzi! Ma se non ce lo porto io il pecorino e l’olio buono, loro dove lo trovano a Torino? Lei è siciliano, non è vero?”.

“E così è nonno… auguri”.“É bello essere nonni. Questo è il mio quarto nipote.

Gli altri, fortuna loro, abitano qua a Siracusa”.“E che fa di bello suo genero a Torino?”“Ha una piccola ditta di lavori elettrici, riparazioni,

cose piccole insomma. Il grande, invece, è rimasto quaggiù e fa il muratore. Quando posso gli do una mano anch’io. Ci arrangiavamo e tiravamo avanti. E lei, anche lei scende a Torino?”.

Guglielmo pensava che quel signore poteva avere la stessa età di suo padre. E tutti quegli scatoloni tenuti assieme da nastri adesivi e spaghi gli ricordavano quelli che, quando era studente, gli giungevano da Siracusa. Lo colse, rapidissima e fastidiosa, la visione di un pacco che, pieno di mandarini, una volta aveva ritirato dalla portineria della Scuola. Il pacco era danneggiato e, nel portarlo su in camera, si era sventrato tutto, lasciando uscire una cascata di mandarini che erano

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rotolati giù per lo scalone monumentale della Normale fra l’ilarità del portiere e di qualche professore che passava.

Alle altre stazioni non salì nessuno fino a Giarre. Quel signore aveva chiuso la porta dello scompartimento come se così avesse potuto impedire l’ingresso di altri passeggeri.

“Tanto sono prenotati” disse Guglielmo. “Se hanno il posto entrano”.

Infatti, con un gesto teatrale, un uomo spalancò la porta. Entrò e rimase in piedi davanti a Guglielmo, attendendo che lo raggiungesse un compagno che evidentemente viaggiava con lui. I due nuovi arrivati confabularono un po’ per trovare la migliore sistemazione alle loro sacche e si sedettero accanto al signore anziano. Quello che era entrato per primo si rialzò di scatto brontolando e abbassò il finestrino.

Guglielmo li aveva di fronte e attendeva di poterli guardare con calma per capire con chi avrebbe dovuto trascorrere la notte.

Il treno ripartì e nessuno si mosse per richiudere il finestrino. Il sole non era ancora tramontato. Il tepore di quei giorni di giugno e la lentezza con cui il treno avanzava, rendevano piacevole quel po’ d’aria che entrava.

“Così cambiamo l’aria…” disse quello che aveva aperto il finestrino. Era leggermente più alto dell’amico e ambedue mostravano di avere una trentina d’anni.

Guglielmo li studiava di sottecchi, volgendosi poi con indifferenza a far intendere che era assorto a guardare la spiaggia che scorreva fuori sotto gli ultimi raggi di sole. Uno dei due, quello più alto, aveva un abbigliamento che non poteva non notarsi: una giacca di pelle chiara scamosciata, tutta ornata di frange, e un paio di scarpe a punta dello stesso colore cui mancavano solo un paio di speroni. La capigliatura spostava però l’immagine del cow-boy che inizialmente se ne poteva avere, verso quella dell’hippy o del capellone: un’immagine di qualche decennio prima che raramente ormai si vedeva in giro. I capelli gli lambivano le spalle e lui sembrava fiero di quei folti baffi che con cura maniacale si

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lisciava in continuazione. Accavallava le gambe, accarezzandosi le calzature come se fossero la cosa più preziosa che avesse. Poi di tanto in tanto si lasciava scivolare sul sedile, e, lungo com’era, si ritrovava quasi con le ginocchia a contatto con quelle di Guglielmo .

L’altro era una insignificante figura di uomo non ancora uomo, di ragazzo cresciuto. Portava un giubbino verde da cacciatore, senza maniche, e con dappertutto tante piccole tasche dalle quali sporgevano le cose più disparate: penne, fotografie, strani cilindri metallici e treccine di fili colorati.

Più che due amici sembravano due soci in affari non troppo raccomandabili, o due persone in cerca di lavoro. Presero a parlare fra loro e dall’accento non sembravano siciliani. Potevano essere piemontesi, forse liguri: Guglielmo non aveva mai avuto orecchio per gli accenti.

Tirarono fuori dai borsoni delle carte che parevano piante di città, un pacco di fotografie e iniziarono a commentare divertiti qualcosa che, per quella parlata stretta e chiusa, Guglielmo non riusciva a capire. Qualche fotografia intravista di sfuggita mostrava cieli notturni e sfondi su un mare illuminato a festa. Quello con il giubbino verde passava all’altro qualche fotografia scegliendola fra le tante. Da come gliela porgeva, con un movimento lezioso della mano destra che stringeva la foto solo fra pollice e indice, Guglielmo con un sussulto si accorse che gli mancavano due dita, troncate di netto alla base del palmo. Si volse altrove per non metterlo in imbarazzo e tirò fuori dalla valigetta i suoi appunti di matematica.

Il viaggio continuò, con quei due intenti a sfogliare e approvare le loro fotografie e lui a rivedere ancora una volta la presentazione di matematica che avrebbe dovuto fare il lunedì mattina a Pisa. Il signore anziano si era addormentato con la bocca aperta.

Il capellone sembrava il più spavaldo dei due; pareva un capetto che desse ordini a un tirapiedi. Parlava a voce alta e chiedendo ora un foglio, ora una foto particolare, si lasciava andare a ghigni di soddisfazione e a stridule risate che poi

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interrompeva nel notare che Guglielmo posava sul tavolino la sua presentazione di matematica.

“Chiudiamo il finestrino, no?” disse a un certo punto il capellone.

“Sì, sì, faccia pure” gli rispose Guglielmo e, incoraggiato da quel mozzicone di frase che gli era stata rivolta:

“Siete di ritorno dalle vacanze in Sicilia?”.“No, lavoro, lavoro… eravamo a Giarre per la festa

dell’Assunta di agosto”.“Turismo?”.“Fuochi d’artificio, botti e girandole”. Con il

movimento verso l’alto di una mano chiusa a pugno, sparò un mortaretto, accompagnando il gesto con un suono che svegliò di soprassalto il vecchio seduto all’altro capo del sedile. “Abbiamo avuto l’appalto per i fuochi… un colpo grosso. Non avremmo mai creduto di poter sfondare anche in Sicilia… sa noi a Rapallo siamo abbastanza conosciuti, ma qui da queste parti… sa come vanno queste cose… mi pare di capire che lei è siciliano. Conosce Rapallo? Conoscerà sicuramente Portofino ma è tutta aria fritta, è una città finta, fatta apposta per i turisti. Venga a Rapallo, vedrà che forza!”.

“Scusi… avevo visto le foto che mi sembravano quelle di una vacanza”.

“É il nostro campionario, vede quanti esempi di giochi pirotecnici? Sono dell’anno scorso per la festa della patrona di Rapallo, una festa importante, …una gara fra i quartieri e noi abbiamo beccato il primo premio. Queste foto, ma anche queste altre… vede?, le portiamo sempre con noi, così le facciamo vedere ai clienti”. Poi rivolto al compagno, con una luce di esaltazione negli occhi:

“É fatta, eh Lucio? Appena arriviamo, subito al lavoro… facciamo il bis dell’anno scorso. Completiamo il lavoro per la Madonna di Montallegro e a metà luglio ci dedichiamo tutti all’Assunta di Giarre. Abbiamo proprio trovato i nostri santi in Paradiso. …eee… dai! …eee… dai, Lucio! Altro che napoletani… è finita la pacchia per loro!”.

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A Guglielmo venne spontaneo di pensare a Lorenzini, il giovane collega di educazione fisica:

“Anche questo buzzurro con il vezzo dell’eee… dai! Quello sempre con la camicia di fuori, questo con certe scarpe che sembra un vaccaro”.

“É un lavoro pericoloso, vero?” chiese, tanto per mostrare interesse.

Quello più giovane alzò una mano per mostrarla a Guglielmo. Con le due dita mancanti sembrava voler fare le corna. Poi, agitando il capo per annuire, tutto serio disse:

“Guardi qui, pare proprio di sì”.Guglielmo avrebbe voluto continuare, fare intendere

che qualcosa di quelle tecniche la conosceva, che da ragazzo aveva fatto anche lui prodezze con gli esplosivi, ma si astenne per evitare una eccessiva manifestazione di simpatia verso due figuri che in fondo avrebbe dovuto sopportare solo per una notte.

I due continuarono a sfogliare documenti; ogni tanto quello con il giubbino da cacciatore tracciava segni di matita su dei fogli e l’altro annuiva. Pur con solo tre dita manovrava la matita con i gesti eleganti di un vescovo benedicente. Guglielmo riprese il suo studio. Taormina era alle spalle e fra meno di mezz’ora sarebbero arrivati a Messina per l’imbarco sul traghetto.

“Che cavolo questi siciliani…” fece il capellone al suo socio. “Hanno già quotato tutto in euro. Almeno potevano mettere accanto le lire… fai questo conto, Lucio. Mannaggia alla virgola, si potesse togliere… moltiplica questi euro per… quant’è l’euro? 1936,27 mi pare, vediamo se con le lire ci orientiamo meglio”.

Guglielmo non si lasciò sfuggire l’occasione per intervenire; e non da esperto di pirotecnica:

“Eh sì, con questi cambi ora faremo tutti un bel pasticcio… d’altra parte la virgola e quelle cifre, quello zero virgola ventisette, ci porterà sempre a lire con la virgola. Il numero zero virgola ventisette non è riducibile a una frazione

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semplice e solo con cento euro, o duecento, trecento e così via si possono ottenere lire intere senza virgola”.

“Accidenti! Ma lei è un professore di matematica? Mi era parso che fosse, non so, un ingegnere, un tecnico… tutti quei disegni colorati…”. Il capellone indicava la presentazione Power Point che Guglielmo aveva lasciato sul tavolino in bella mostra.

Si era rotta la diffidenza e Guglielmo, pavoneggiandosi tutto, oppose ai fuochi d’artificio e alle feste paesane, i piaceri della matematica, la Scuola Normale di Pisa e il convegno che l’aspettava. Quei due non sembravano per nulla interessati ma lo ascoltavano per fare passare il tempo.

Si rese conto di stare esagerando e troncò il discorso, pensando come veramente al mondo ci fossero mestieri tanto distanti fra loro. Forse anche persone.

Sulla nave traghetto si era fatta ora di cena.“Venga su con noi professore, mi hanno detto che qui

la rosticceria è favolosa. Così ci racconta meglio questa storia dei numeri primi. Pensi che avevo capito che i numeri primi erano i primi numeri… quelli fino a dieci”. Poi sghignazzando, rivolto all’amico e tirandolo per le mani:

“Tu al massimo puoi contarli fino a otto, vero Lucio?”. “Che cavolo ne potete capire voi di numeri primi!

Bifolchi!”, pensò, e poi, con aria gentile:“Grazie, ho portato qualcosa da mangiare. Aspetto

qui”.

Quando il cuccettista preparò le cuccette per la notte, Guglielmo si raccomandò con lui di avvisarlo poco prima dell’orario di arrivo a Pisa. Glielo aveva già chiesto, alla partenza, ma ritenne utile insistere:

“Sa, ho paura di non svegliarmi per tempo. Arriva a Pisa alle cinque e mezza, vero? Magari mi chiama prima di Livorno. Grazie, grazie ancora”.

Mentre gli altri compagni di viaggio attendevano nel corridoio, tirò fuori il suo guanciale e, levatosi le scarpe, si

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distese nella cuccetta in basso che poco prima gli era servita da sedile. Il guanciale ne occupava tutta la profondità.

Si era levata la giacca e l’aveva ben ripiegata dentro la valigetta, con la cravatta in una tasca. I documenti li teneva con sé, nella tasca posteriore dei pantaloni.

Sentiva per il corridoio il fuochista capellone che rideva con l’amico. Da uno spiraglio della porta ne poteva scorgere le gambe che, con ritmici colpi di tacco sul pavimento, evidenziavano le pause fra una risata e l’altra.

Nel buio dello scompartimento, in attesa di un sonno che faticava ad arrivare, si rivide da ragazzo, sullo stesso treno e in una identica cuccetta. Anche allora si girava inquieto ora su un fianco ora sull’altro. Anche allora c’era sempre qualche anziano signore dalla tosse rauca. Anche allora gli scricchiolii delle altre cuccette non gli davano tregua.

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Capitolo 5

E così, dopo vent’anni, rivedeva Pisa con una nuova e più assillante inquietudine. Più pesante di qualunque altra mai provata in quella stessa città, quando vi sbarcava per sostenere qualche esame universitario.

Dopo essersi ritrovato ai piedi quell’orrendo paio di scarpe, si era rintanato in un albergo vicino alla stazione e lì aveva passato tutta la mattina e gran parte del pomeriggio a studiare un piano d’azione. Il problema di quelle scarpe si era sovrapposto a qualsiasi altro impegno.

A pomeriggio inoltrato era finalmente riuscito a evadere dalla stanza; era sceso a piedi fermandosi, guardingo, ai pianerottoli dei vari piani ed era pure riuscito a evitare il portiere.

Per prima cosa, affamato com’era, si fiondò alla mensa dei ferrovieri, nella piazza della stazione a due passi dall’albergo. Quella mensa faceva orario continuato. Fra tanti operai con le tute sporche e con gli scarponi da lavoro si sentì talmente a proprio agio che, mangiando con piacere, non si rese conto che il tempo passava e che rischiava di non riuscire a portare a termine ciò che si era proposto.

La cosa più urgente era fare un tentativo, casomai qualche negozio fosse ancora aperto, qualche grande magazzino, qualche ciabattino. Escluse però il centro e si diresse in periferia, passando l’Arno sul ponte che, lasciando a destra il quartiere delle Piagge, conduceva a una zona un tempo scarsamente urbanizzata. Ricordava abitazioni unifamiliari con cortili e giardinetti, qualche negozio che vendeva un po’ di tutto e poi spazi verdi che, sempre più ampi, si fondevano con la campagna pisana, con sullo sfondo la presenza del monte Serra.

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Fra un “Ma che ci vado a fare da queste parti?” e un “Che alternativa ho?”, camminò per oltre mezz’ora, inaspettatamente poi rinfrancato dalla constatazione che invece in questi ultimi vent’anni la zona si era trasformata in città a tutti gli effetti, quindi anche con probabili nuove attività commerciali.

Incrociò un extracomunitario, rallentò l’andatura fino a fermarglisi di fronte. Quello, speranzoso di poter vendere qualcosa, attaccò subito la sua nenia. Guglielmo, con gli occhi a terra a scrutare le scarpe di quel poveraccio, taceva e pensava a come mettere su il discorso. Ma a parlare era solo l’altro: continuava a elencare la sua mercanzia mostrando accendini, ciondoli e fazzolettini. Non valeva la pena di continuare; quell’uomo era talmente alto da dover avere almeno un paio di numeri di più e poi si trattava di scarpe sportive, in similpelle, con vistose bande oblique rosse. Sempre meglio delle sue, ma quel baratto non era proprio la soluzione che cercava.

Riprese a camminare. Il venditore, in una lingua sconosciuta, da lontano gli indirizzava parole che non sembravano proprio di saluto. Guglielmo non se ne curò, tutto assorto sul da farsi.

C’erano anche molti passanti, bambini e anziani signori che tornavano a casa, ma con loro non ci avrebbe proprio provato: era troppo grande la vergogna da superare. Però, che belle ed eleganti scarpe aveva qualcuno!

Iniziò a fare buio e si ritrovò all’inizio di un lungo viale alberato, vicino ai resti di un antico acquedotto. Non volle credere ai propri occhi quando intravide tre o quattro vetrine illuminate a giorno con sopra una enorme insegna: Scarpamondo. Sembrava un supermercato specializzato in calzature.

Affrettò il passo, attraversò la strada senza guardare null’altro lì attorno, con gli occhi fissi sulle vetrine, con il cuore che gli batteva come quando un naufrago avvista da lontano una scialuppa di salvataggio. Il negozio era chiuso e, come spiegava un cartello, avrebbe riaperto solo il lunedì pomeriggio. Rimase a guardare le vetrine: decine e decine di

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scarpe, di tutti i modelli, molte giovanili e sportive ma molte anche del modello che gli sarebbe proprio andato a genio. La strada era deserta; anche nel parco lì di fronte non c’era anima viva. E se avesse osato? Se avesse cercato una bella pietra, un mattone, una spranga, per sfondare uno di quei vetri, arraffare l’oggetto del desiderio e scappare? Non sembravano vetri corazzati e non c’era neanche traccia di sistema di allarme.

“Ma via, Guglielmo! A che punto siamo ridotti!” si disse.

Immobile, non sapeva decidersi. Si passava le mani sulle tempie ad allontanare il calore che sentiva pulsargli dentro. Stava per prendere una decisione per qualcosa che, per quanto riprovevole, sentiva ciononostante ineluttabile. A tal punto era stregato da quella miriade di scarpe, separate da lui solo da un insignificante spessore di vetro. Nel giardinetto di fronte avrebbe sicuramente trovato qualcosa di adatto allo scopo. Si fece forza, diede un ultimo sguardo alla vetrina, attraversò la strada, raccattò una grossa pietra e tornò poi sicuro davanti al negozio senza ulteriori tentennamenti.

Che inutile disastro stava per combinare! Meno male che se ne accorse per tempo! Le scarpe della vetrina erano tutte spaiate, una sola scarpa per modello. A che sarebbe servita tanta audacia?

Rinunciò, ma pur deluso ringraziò il destino. Poteva veramente finire male. Qualcuno avrebbe potuto sentire il rumore del vetro infranto e affacciarsi alle finestre. Inoltre non era neanche sicuro che sarebbe riuscito a frantumare la vetrina al primo colpo. Meglio così.

Però… però, lì in fondo, oltre quegli stivali, quei mocassini neri sembravano proprio essere appaiati e, a occhio, della misura giusta. Rinconsiderò il piano con più calma e determinazione di prima. Si spostò lungo la strada oltre il negozio, attraversò la strada un paio di volte per studiare da lontano i palazzi circostanti ed eventuali imprevisti che sarebbero potuti nascere, quando, lì dietro, in alto, su una nera muraglia, intravide la sagoma di un poliziotto armato accanto a una garitta. Era capitato nel quartiere Don Bosco e quello era il

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carcere di Pisa, sorvegliato notte e giorno lungo tutto il perimetro. Rabbrividì per lo scampato pericolo.

Prima di allontanarsi, però, si volle togliere una soddisfazione. Si avvicinò all’ingresso del negozio dove aveva scorto, sulla porta a vetri, il cartello con gli orari di apertura e, con aria disgustata, prese a leggerlo sillabando le parole con il solo movimento delle labbra:

“SI INFORMA LA GENTILE CLIENTELA CHE L’ORARIO DEL NEGOZIO È

09,00 - 13,00 E 16,00 - 20,00 DAL MARTEDÌ AL SABATO 16,00 - 20,00 IL LUNEDÌ”

Dalla posizione in cui era non poteva essere visto dalle guardie carcerarie. Con concitati movimenti tirò fuori dalla giacca una penna e brandendola come un’arma si avventò sul foglio cancellando con un frego l’intero primo rigo. Poi finalmente si allontanò soddisfatto, dicendosi:

“Gentile clientela? A parte il fatto che è meno ripugnante rivolgersi ai clienti piuttosto che alla clientela… che gliene frega se io sono gentile o meno? Che lo siano almeno loro! E poi è ovvio che un cartello di informazioni informa che…”.

Pensava al barista di Siracusa dove, sotto casa, si fermava spesso per un caffè. Tante volte si era ripromesso di cambiare bar. Non ne poteva proprio più di quel modo mellifluo di fare:

“Buongiorno, professore. Cosa prende, gentilmente?”. E poi ancora:

“Ecco, pronto il caffè, gentilmente... Arrivederla, gentilmente...”. Con un cenno di inchino e un sorriso idiota quel barista poi passava a servire un altro cliente. La cosa più ributtante era che molti si mostravano grati per tanta gentilezza.

Riprese la peregrinazione, con l’intento di raggiungere, se non proprio il centro, almeno zone meno periferiche della città. Camminava ormai senza speranza alcuna. Incontrò altri

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extracomunitari ma tutta la sua baldanza – ammesso che ne avesse mai avuta – era definitivamente esaurita. Si sedette a riposare su una panchina, in uno slargo di fronte alla riva dell’Arno. Non sapeva bene dove si trovava. Sapeva solo che avrebbe dovuto riattraversare il fiume e fare ritorno in albergo. Non c’era più nulla da fare, l’indomani con una scusa avrebbe telefonato alla Normale per disdire il proprio intervento e poi avrebbe atteso il treno della sera per tornare a Siracusa. E con un paio di scarpe nuove. Voleva ben vedere! Il pomeriggio, prima della partenza, quel negozio sarebbe stato sicuramente aperto e ormai sapeva come raggiungerlo. Era un gioco da ragazzi e l’incubo sarebbe finalmente terminato. Non c’era neanche bisogno di spiegare alcunché a casa o a scuola.

“Le solite cose, le solite barbose conferenze di matematica”, avrebbe detto a tutti. Che ne avrebbero potuto sapere loro?

“Però, come sono precisi qui a Pisa” pensò, osservando la fila dei cassonetti della spazzatura che, allineati, chiudevano il lato opposto di quello slargo. C’era quello per il vetro, quello dell’organico, quello della carta e… cos’era quello giallo?

Si avvicinò e lesse:

ASSOCIAZIONE SAN VINCENZO DE PAOLIRACCOLTA ABITI USATI

Abiti? Allora anche scarpe! Si diede del cretino per non averci pensato prima.

Una signora con un fagotto di stracci si avvicinò al cassone giallo, e passandogli accanto lo salutò con un cenno del capo, quasi lo conoscesse.

“Vuoi vedere che si è accorta delle mie scarpe e mi ha scambiato per un barbone bisognoso d’aiuto?” pensò Guglielmo.

Rispose al saluto con un sorriso e, con il massimo di cordialità che riuscì a tirar fuori, si offrì di aiutarla nell’inserire quel fagotto nel cassonetto.

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La signora lo ringraziò calorosamente, poi si allontanò mentre lui, tornato nel mondo delle proprie angosce, biascicava e balbettava da solo:

“Niente… niente… non si può…”. Il cassonetto era dotato di un sistema antieffrazione e

una chiusura di sicurezza a tamburo rotante, quasi una ghigliottina, gli aveva troncato di colpo ogni residua speranza.

Tornò a buttarsi sulla panchina. Dopo questi puerili insuccessi volle ragionare con calma, con distaccata professionalità, da professore di matematica. Prese ad analizzare il problema da varie angolature elencando le variabili e le incognite, una per una, casomai ne avesse tralasciata qualcuna. Vide i dati scorrere su una grande lavagna; c’erano proprio tutti, anche quelli palesemente assurdi: lo scasso della vetrina, il baratto con qualche extracomunitario, la richiesta di aiuto a passanti sconosciuti, il furto in albergo, la ricerca di una moschea dove i fedeli lasciano incustodite le scarpe, l’acquisto in una farmacia di zoccoli per uso medico, la ricerca nei cassonetti dell’immondizia...

Il problema, ad onta di un numero così alto di variabili, aveva però una sola soluzione: abbandonare Pisa il prima possibile. L’aveva già intuito da tempo, …era talmente semplice!

Non c’era neanche bisogno di avvisare la Normale. Chissà quanti erano gli invitati! Chi mai si sarebbe accorto della sua mancanza? A questo dettaglio, comunque, ci avrebbe pensato meglio l’indomani.

Qualcos’altro, però, lo turbava ancora. Non sapeva bene cosa, ma era sicuro di aver sottovalutato qualche aspetto. Non era tranquillo, sentiva che qualche passaggio, analizzato meglio, avrebbe fatto crollare tutto il teorema.

Era sempre seduto su quella panchina accanto al fiume. Un giovane gli passò davanti. Guglielmo lo seguì con lo sguardo sembrandogli che avesse qualcosa di familiare. La stessa età, la stessa corporatura ma principalmente la stessa

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camicia fuori dai pantaloni. Tale e quale a Lorenzini, il giovane professore di educazione fisica di Siracusa.

“Ma allora è una persecuzione! Anche qua quel cafone?”.

Quando ormai il ragazzo era sparito dalla sua visuale capì finalmente ciò che aveva trascurato. Quel ragazzo, il suo collega Lorenzini e il capellone del treno si fusero in un’unica persona. E vide come in un lampo il legittimo proprietario delle scarpe gialle presentarsi a Pisa, magari l’indomani mattina e proprio alla Normale, a reclamare quanto aveva perduto. Tipi come quello ci tengono al loro bizzarro abbigliamento, e, da come se lo ricordava, da come si pavoneggiava in treno, doveva ritenere quelle scarpe più preziose degli stivaletti di Garibaldi. Era un tipo talmente primitivo e rozzo che sarebbe stato capace di tutto: una chiassata durante il convegno o una denuncia se lui, come aveva appena deciso, non fosse stato presente. Avrebbe potuto creargli problemi anche in seguito. Era stato troppo ingenuo Guglielmo a fargli sapere che era di Siracusa, che faceva il professore di matematica in un liceo e che l’indomani avrebbe partecipato a quello stramaledetto congresso. Inoltre, dagli appunti che durante il viaggio aveva più volte posato sul tavolino, poteva anche aver carpito il suo nome.

Maledizione, questa sì che era una vera camurria!

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Capitolo 6

L’indomani mattina, nuovamente all’alba, il professor Guglielmo Santucci si trovava alla stazione lungo lo stesso marciapiede dove tutto, esattamente ventiquattro ore prima, era cominciato. Avrebbe preso lo stesso treno che proveniva da Siracusa, con l’intenzione di scendere a Rapallo, poco prima di Genova. Il viaggio sarebbe stato talmente breve, e similmente la permanenza in quella città, che avrebbe potuto riprendere di sera, direttamente da lì, lo stesso treno ma in direzione sud. Aveva deciso: l’avventura pisana era finita.

Da un treno locale, sul marciapiede accanto al suo, scendevano lavoratori, studenti e tanta altra gente che il giorno feriale richiamava in città. Molti sparivano inghiottiti dal sottopassaggio, altri si fermavano in corrispondenza del binario dove era Guglielmo, per prendere di lì a poco lo stesso treno per Torino. Il marciapiede si riempiva sempre più di passeggeri in partenza. Dal loro abbigliamento, dal bagaglio e dall’età, Guglielmo si fece l’idea che fossero pendolari settimanali, provenienti da tutta la provincia e pronti a iniziare una nuova settimana di lavoro, chi a La Spezia, chi a Genova, chi a Torino. Erano tutti così immobili con lo sguardo fisso nel vuoto che nessuno badò alle sue scarpe gialle. Il guanciale, almeno quello, era stato opportunamente abbandonato nell’armadio della camera d’albergo. Un problema in meno, anche se però ora occorreva trovare una giustificazione plausibile per quando sarebbe tornato a casa. Ma era un problema talmente risibile, rispetto a ciò che doveva ancora affrontare, che non ci pensò più di tanto.

Nel montare sulla carrozza che gli si fermò davanti, ebbe un attimo di apprensione. Solo un attimo, giusto il tempo

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di cacciare via con aria spavalda l’immagine di quel capellone pirotecnico che - ma era mai possibile? – lo stava aspettando sul treno. Si sistemò sullo strapuntino di legno vicino alla porta della carrozza. Il treno era pieno e molte persone rimasero in piedi nei corridoi o, strette le une alle altre, nello spazio davanti a lui. Dal quella posizione poteva osservarne da vicino le scarpe: scarpe di lavoratori, scarponi di gente avvezza ai cantieri. In tanta calca nessuno poteva notare le sue, e, comunque, non aveva da temere nulla: non si trovava fra colleghi né fra quelle frotte di studenti che durante la ricreazione lo incrociavano per i corridoi della scuola. A ogni buon conto spinse i piedi indietro, sotto lo strapuntino, assumendo la posa di un insignificante passeggero rannicchiato su un sedile di legno. Aveva posato a terra la valigetta nera e, senza quell’impiccio di guanciale al seguito, iniziò a sentirsi a proprio agio. Si aggiustò il nodo della cravatta e pensò che, addirittura, sarebbe potuto passare per un impiegato, un ragioniere o un agente di commercio che iniziava la settimana di lavoro lontano da casa.

Subito dopo la partenza, in corrispondenza dell’attraversamento dell’Arno, gli si aprì uno scenario da mozzafiato. Pisa gli si mostrava da una prospettiva per lui inusuale. Il fiume luccicava di rosso sotto i riflessi del sole che si intravedeva venir su dalle selle del monte Serra. Sembrava un teatrino con le montagne per sfondo e un liquido nastro sinuoso a dividere case, strade, viali. I lungarni, la chiesetta della Spina con i suoi bianchi pinnacoli, la cittadella medioevale con le mura di mattoni rossi, le verdi e maestose chiome dei platani lungo i viali, gli passarono rapidamente davanti come tante cartoline per turisti. Il cielo era limpido e i riflessi dorati del sole facevano brillare le vetrate dei palazzi gialli e ocra lungo le sponde del fiume. Le strade ancora deserte, la campagna che circondava la città, la via Aurelia che compariva a tratti parallela ai binari, tutto lo stupiva e lo faceva sentire estraneo a quei posti che invece avrebbe dovuto conoscere molto bene.

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Aveva dimenticato tanta bellezza o non l’aveva mai vissuta?

In effetti i suoi anni da studente erano stati anni di clausura; gli impegni per lo studio lo avevano tenuto lontano da qualsiasi altro interesse. Conosceva bene la piazza dei Miracoli, la torre pendente e il prato sempre brulicante di turisti, ma solo perché erano nello stesso quartiere della sede della Scuola. Ogni tanto si concedeva qualche passeggiata da quelle parti, ma poi tornava all’università o in camera a studiare.

Il treno sbucò fuori da una fitta pineta e poco dopo si fermò alla stazione di Viareggio.

“Ecco dove sarei potuto scendere ieri con tutta calma e poi tornare indietro”, si disse, mentre i cartelloni del carnevale gli rammentavano che non aveva mai messo piede neanche in quella città. Non ne aveva mai visto il famoso carnevale, pur essendo un posto a così pochi chilometri da Pisa.

Il sole illuminava a pieno la costa, la Versilia aveva già qualche stabilimento balneare aperto e sulla spiaggia si affaccendavano bagnini, operai e ragazzi intenti a lisciare la sabbia, piantare cabine e lunghi tavolati. Il clima era quasi estivo, la primavera agli sgoccioli, e Guglielmo non poteva non pensare alle spiagge della sua città dove, in quel momento, avrebbe voluto trovarsi. Come ogni anno avrebbe passato l’estate sdraiato al sole a non pensare a nulla, facendo passare il tempo a osservare qualche nuvola estiva scivolare bianca e soffice sul cielo terso della sua Siracusa.

Quell’immagine di clima estivo cozzò, all’improvviso, con le cime di alcune montagne che delimitavano quella striscia di pianura dove, dal lato opposto, si susseguivano tante località balneari. Cime innevate? Eppure non sembravano particolarmente alte. E poi con la temperatura di quei giorni…

La successiva fermata alla stazione di Carrara chiarì l’equivoco. Erano le famose cave di marmo che in lontananza, con il loro biancore, avrebbero ingannato chiunque.

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Passata la Toscana, il repentino cambio di paesaggio lo spinse, nonostante tutto, ad abbandonare lo scomodo sedile su cui si trovava. Ignorando ogni imbarazzo, stiracchiò le sue gambe e fece appena un passo per incollarsi al finestrino. Sentì il tono muscolare riprendere possesso dei suoi arti rattrappiti. Noncurante dei vicini, abbassò il finestrino: voleva respirare a pieni polmoni e riprendersi dall’apnea nella quale stava rischiando di completare quel breve viaggio.

Il mare era scuro e spumeggiante; era tutto un susseguirsi di rupi, scogli e anfratti. Sbucando all’improvviso da brevi gallerie, il treno sembrava continuare la corsa sospeso sul ciglio di un burrone a picco sull’acqua.

Che occasioni perdute! Quante volte quel compagno di La Spezia lo aveva invitato a passare un fine settimana a casa sua. Gli avrebbe fatto vedere le Cinque Terre, diceva che lì a Vernazza suo nonno aveva una casa di pescatori che sembrava un covo dei pirati e che sarebbe stato il posto ideale per gli ultimi ripassi prima degli esami. Ora le vedeva le famose Cinque Terre, anche se di sfuggita e da un finestrino del treno. Un rumoroso sospiro di rimpianto fece voltare un passeggero che come lui stava affacciato al finestrino. Per darsi un contegno disse:

“Non credevo fossero così belle queste Cinque Terre…”.

“Non è di queste parti lei, vero?”.“Sono siciliano e di mare me ne intendo, ma questo

devo ammettere che non ha nulla da invidiare al nostro”.“É vero è un posto unico… mare, paesini e subito

dietro montagne e sentieri percorribili solo a piedi. Un Paradiso! L’ideale per chi vuole trovare la pace e riconciliarsi con se stesso. Basta solo un buon paio di scarpe e avventurarsi fino a perdersi”.

“Buone scarpe, sì. Ci vuole sempre un buon paio di scarpe nella vita”.

Quelle battute spensero le luci sulla scena che si era incantato a guardare, e, tornato a sedere sullo strapuntino, visse la parte rimanente del viaggio come un conto alla

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rovescia per l’inizio di una giornata ancora tutta da organizzare.

La prima cosa da fare era vedere se anche a Rapallo il lunedì mattina i negozi erano chiusi. Forse, trattandosi di una località turistica, gli orari dei negozi sarebbero stati diversi e con un po’ di fortuna… Poi, e in ogni caso anche con le scarpe gialle ancora ai piedi, era necessario rintracciare quella ditta… e prima possibile, obbligatoriamente in mattinata, per anticipare qualsiasi mossa di quel tipo. A chi chiedere aiuto o informazioni? L’unica cosa su cui poteva contare era il ricordo della fisionomia del cow boy e del suo aiutante. Nessun nome o indirizzo. Però una carta da giocare ce l’aveva: ricordava benissimo che gli aveva raccontato di una certa festa che si faceva ogni anno, una festa molto importante cui partecipavano tutte le ditte di fuochi d’artificio del luogo. Si trattava di trovarne una qualunque e poi, domanda su domanda, con un po’ di fortuna…

Forse la sorte aveva finalmente iniziato ad avere compassione per il professor Santucci.

Di fronte alla stazione di Rapallo, all’angolo di una via che, leggermente in discesa, si indirizzava verso il mare, un negozio di scarpe sembrava che lo stesse aspettando. Era lì, proprio davanti a lui. A testa bassa, con il busto proteso in avanti e con la valigetta ventiquattr’ore che, per il passo di marcia, oscillava avanti e indietro, passò la piazza, scansò un autobus urbano che gli strombazzò dietro e si trovò davanti al negozio. Chiuso.

Un cartello appeso alla porta citava solo la domenica come giorno di chiusura. Ma ovvio: era partito così presto da Pisa che non era ancora orario di apertura. Però il più era fatto. Un’ora di attesa e finalmente… Non poteva non aprire. Un negozio di articoli casalinghi, lì accanto, indicava le 8,30 come orario di apertura; non c’era alcun motivo che quello delle scarpe facesse diversamente.

Come una sentinella iniziò a passeggiare avanti e indietro fra le vetrine e la porta d’ingresso. Si fermava davanti

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all’ultima vetrina e sorrideva a un modello di mocassini neri che aveva individuato; poi si voltava verso la piazza, gonfiava il petto e con passo marziale tornava davanti all’ingresso. Sbirciava dentro e ricominciava la passeggiata. La vita sembrava essere tornata a sorridergli e lui ricambiava quel sorriso indirizzandolo ai passanti che incrociava. Avrebbe voluto scambiare con loro qualche parola, qualche convenevole, tanto per sentirsi in una situazione di normalità: un normale signore, distinto, in attesa di qualcosa o di qualcuno. Distinto? Veramente con ancora quelle scarpe gialle ai piedi non si sarebbe detto, ma l’inattesa fortuna gli aveva fatto dimenticare quel particolare. Ai cenni di saluto che meccanicamente prese ad aggiungere ai sorrisi verso quei passanti, molti tiravano via dritto, infastiditi. Un signore che usciva soddisfatto dal bar accanto, invece, si fermò chiedendogli:

“Ha bisogno di qualcosa? Ci conosciamo?”.“Nulla, nulla, grazie… volevo solo dirle che è proprio

bella questa città. Siamo a Rapallo, non è vero?”.Il signore si allontanò con un’espressione di

perplessità.“Grazie… mi scusi” gli gridò dietro Guglielmo.

Aveva ancora molto tempo da passare e si concesse, quindi, un ottimo cappuccino e una di quelle paste con l’uvetta che, presentate come specialità liguri, lo avevano subito incuriosito.

“Il negozio qui accanto, apre alle otto e trenta, vero?” chiese al barista.

“Si alle otto e mezza”.“Anche oggi che è lunedi?”.“Anche oggi”.“E vende scarpe, vero?”.“Si, proprio scarpe”.“É proprio fortunato lei ad avere un negozio di scarpe

accanto”.“…”

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Avrebbe potuto attendere comodamente seduto a un tavolino ma, trangugiato il cappuccino e ancora con la bocca allappata da quel dolcetto che non voleva andare né su né giù, per non rischiare si rimise di guardia alla porta del negozio di scarpe.

“Però niente male il dolce con l’uvetta… e poi che gentili tutti… certo sono un po’ cari quei mocassini ma certe cose non hanno prezzo. In fondo era da tempo che avrei dovuto comprare un nuovo paio di scarpe” pensava, e si beava per come era iniziata la giornata.

Arrivò un ragazzo ad aprire il negozio.“Scusi, ancora cinque minuti, signore… ora arriva il

titolare”.“E se non arriva? Lei può vendere lo stesso, non è

vero?”.“No, no… la cassa la tiene lui… ma è questione di

poco. Se nel frattempo vuole accomodarsi”.“Grazie preferisco aspettare fuori. Ma non è malato il

titolare, vero? No, dicevo… così per dire… avrei già deciso il modello. Glielo indico in vetrina? Non serve neanche provarle… Non sono per me. Potrebbe già, nell’attesa, cercare il numero quarantuno, così poi non le faccio perdere tempo”.

Quasi contemporaneamente giunse il titolare e Guglielmo gli si fece incontro con i soldi già contati in mano. Il ragazzo, pensando di non essere visto, faceva dei segni al padrone toccandosi la tempia con il dito indice. Era andato tutto così bene che Guglielmo fece finta di non aver visto, e, per non rovinarsi l’umore, con l’aria di voler perdonare l’offesa si limitò a dire:

“Tu non puoi capire… sei troppo giovane”.Ringraziò, salutò e uscì per strada a passo veloce.“Non serve provarle… tanto non sono per me” aveva

detto, per affrettare l’acquisto ed evitare la vergogna di sfilarsi quelle che aveva ai piedi.

Si guardò attorno alla ricerca della prima panchina utile per il cambio di calzature. Passavano però troppe persone e dovette ripiegare sui bagni della stazione.

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Le scarpe gialle erano ora sistemate in una lussuosa scatola di un rinomato negozio di Rapallo. Una confezione regalo da consegnare, come segno di rappacificazione, a chi sapeva lui.

La città di Rapallo si era animata in fretta, vuoi per essere un lunedì, vuoi per essere l’inizio di una stagione turistica e balneare che sembrava promettere bene.

Prima di procedere oltre, doveva sbrigare la faccenda dell’assenza al convegno. Non poteva rischiare che qualcuno, non vedendolo fra i partecipanti, lo chiamasse a casa o a scuola.

Rientrò nel bar dove era stato poco prima, per cercare un telefono pubblico. Il barista, riconoscendolo, lo squadrò preoccupato:

“Ha aperto… ho sentito il rumore della saracinesca”. E gli indicò l’uscita.

“Si, si… ho fatto. Sapesse che belle scarpe che hanno!”. Con un passo indietreggiò dal bancone per mostrarle al barista. Poi sottovoce:

“C’è un telefono pubblico qui? Sa, è una cosa di una certa urgenza”.

“Veramente non l’abbiamo, ma…”. Il barista lo guardava con l’aria di attendersi qualche escandescenza. “Faccia pure con questo… è il mio privato ma faccia pure… è una urbana vero?”.

“Dovrei chiamare Pisa, mi attendono per un convegno ma… non avevo le scarpe giuste, almeno fino a poco fa, ma ormai è troppo tardi… mi scusi per lo sfogo, capisco che le può sembrare strano ma…”.

“Si sbrighi, si sbrighi… non c’è bisogno che mi spieghi nulla. … e la faccia breve”.

Il barista si allontanò, controllandolo da lontano dall’altra estremità del bancone.

Con le scarpe nuove si sentiva un altro. Un elegante paio di mocassini neri, dalla pianta larga e con la monta bassa; proprio come piacevano a lui. Ogni tre passi, come un

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bambino che indossa per la prima volta i sandaletti che ha sempre desiderato, si fermava ad ammirarli; poi ripiegava una gamba indietro, godeva nel vedere la suola lucida e pulita e respirava a pieni polmoni l’aria frizzante che veniva su dal mare. Prese a camminare con piacere verso il centro, godendo di tutte le novità che gli capitavano sott’occhio. Pensava che la zona migliore per iniziare le sue ricerche fosse quella che si affacciava sul golfo. Dopo tanti carruggi, vicoli, case linde e variopinte, e un’insolita architettura di antichi palazzetti ora in stile liberty, ora con portali di ardesia e affreschi sulle pareti, si ritrovò sul lungomare, da dove si dominava tutta la circonferenza del golfo. Sembrava di affacciarsi su un lago, tanto l’acqua era immobile. In fondo a quel lago si apriva la via verso il golfo del Tigullio, e ancora oltre l’orizzonte.

Negozietti di articoli nautici, botteghe artigiane che vendevano ricami, eleganti ristoranti e tanti angoli verdi con aiuole dove, come opere d’arte, cespugli di pitosfori erano sagomati ora a forma di delfino ora a forma di veliero, indicavano chiaramente la vocazione turistica del posto. Non si sarebbe aspettato di vedere, ovunque, così tante palme, alte e curate come piante da fiore, fra una aiuola e l’altra. Erano piante che gli ricordavano i giardini della sua città.

Da una parte del golfo si ergeva, come sostenuta da uno scoglio in mezzo al mare, una costruzione che pareva un antico castello di difesa contro le incursioni barbaresche; dall’altra parte era tutta una giungla di alberi, pennoni e velature. Era uno spettacolo incantevole, ma non era venuto a Rapallo per fare il turista.

Indeciso sulla direzione da prendere gli capitò sott’occhio una cartoleria che aveva all’interno un internet point. Guglielmo non aveva mai utilizzato quei servizi; a stento con il computer di casa era in grado di ricevere le email e vedere le previsioni del tempo. Intuiva che con quello strumento avrebbe ora potuto facilmente effettuare una ricerca per qualche nome o indirizzo utile.

“Ci vorrebbe mio figlio” pensò, e proseguì oltre.

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Un vigile urbano lo indirizzò all’ufficio della pro loco. Ebbe la conferma che i giochi pirotecnici a Rapallo erano un vanto per l’intero paese: l’imminente festa del patrono, con i fuochi d’artificio, era assolutamente da non perdere. Lo riempirono di depliant e cartine turistiche, ma per quanto riguardava le ditte che cercava, non erano in grado di fornirgli alcuna indicazione.

“Lei è un rappresentante di articoli pirotecnici?” gli chiese la ragazza al banco informazioni. Sembrava voler fare di tutto per aiutarlo.

“Ne vengono tanti in questo periodo. Può provare a sentire al Comune, forse all’assessorato cultura e spettacoli le potranno dare qualche indicazione. Sono loro che organizzano la festa”.

Il Comune era dalle parti della stazione ferroviaria e lui, lasciato il mare alle spalle, dovette rifare tutta la strada che aveva percorso poco prima. Ma era piacevole respirare un clima di cittadina vacanziera e poi, con le nuove scarpe ai piedi, si sentiva in grado di passeggiare fino a sera.

Il resto della mattinata passò fra un ufficio e l’altro, alla ricerca dell’impiegato che – ne erano tutti certi – aveva il bando di partecipazione ai festeggiamenti e i nominativi delle ditte che si erano presentate.

“Però il bando è scaduto da tempo”, gli fece un ometto seduto a una scrivania che traballava ogni volta che vi si appoggiava per sfogliare qualche documento.

“Veramente io cerco solamente una persona… non sono di queste parti e non ho… cioè so solo che organizza quei fuochi e devo consegnargli qualcosa di importante”.

“É uno di Rapallo, una ditta? Come si chiama? Vediamo… “. Finalmente sembrava aver trovato l’elenco che stava cercando.

“Purtroppo so solo che è un signore alto, sulla trentina con i capelli lunghi e due grandi baffi… credo che sia il titolare di una ditta del posto”.

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“E non conosce il nome di questa ditta?”. L’impiegato mostrava segni di insofferenza. Cominciò, comunque, a scorrere col dito il suo elenco:

“Dunque, dunque…ditta Capone, Napoli… Fuochi d’arte dei fratelli Mignavacca, Castellamare di Stabia…, Rosati, Salerno… vediamo, vediamo… no, queste sono le cooperative dei barcaioli… ha detto che le interessano solo…”.

Guglielmo si agitava sulla sedia e, posando sulla scrivania il pacco con le scarpe che si era trascinato per tutta la mattina assieme alla valigetta, disse con un filo di voce:

“Ma io ora queste a chi le do? Che camurria…”.“Come dice?”.“…tutte ditte di altri posti… non è possibile… sono

sicuro che…”.“Aspetti, aspetti… ecco, certo anche noi a Rapallo

abbiamo le nostre ditte, ci mancherebbe altro. Vede?”, e iniziò a elencare qualche nome, saltando qua e là fra le sue carte.

Con un grande sospiro di sollievo, Guglielmo si ricompose sulla sedia. Finalmente poteva sperare in una positiva soluzione al suo problema.

Con l’aiuto di una pianta di Rapallo localizzò la posizione delle sei o sette ditte che erano venute fuori dagli elenchi del comune. Erano tutte in zone periferiche, addirittura alcune dalle parti delle colline verso il promontorio di Portofino.

Non si perse d’animo e pianificò un giro che minimizzasse i suoi spostamenti. Aveva gli indirizzi precisi e chiedendo ai passanti trascorse tutto il resto della giornata percorrendo strade e vicoli che lentamente si arrampicavano alle spalle di Rapallo.

Ogni volta che individuava da lontano quello che sarebbe potuto essere un laboratorio di fuochi pirotecnici, si arrestava timoroso e ripassava la parte che aveva deciso di tenere. Massima cortesia, umiltà e nessuna difesa del proprio comportamento. Con quei tipi non si poteva sperare di avere comprensione… non voleva rischiare di passare per insolente.

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E se lo avessero trattato male, aggredito anche fisicamente? Se il bifolco possessore delle scarpe gialle gli avesse vomitato addosso tutta la rabbia e l’astio che sicuramente da tempo stava covando? L’aveva capito già alla stazione di Pisa. L’aveva capito che lui se l’era legata al dito. Cos’altro poteva altrimenti indicare quello scomposto gesticolare dal finestrino mentre il treno ripartiva?

Era pronto a tutto. Anche a subire violenza, purché l’argomento si chiudesse lì. Meglio questo che una reazione che lo avrebbe smascherato di fronte a tutti. Nessuno a casa sapeva ancora nulla, nessuno a scuola, nessuno fra i colleghi di Pisa. Doveva essere pronto a subire per tornare a vivere serenamente come se nulla fosse successo.

Avrebbe forse voluto dei soldi? Avrebbe reclamato dei danni per qualcosa? Se fosse servito a troncare la discussione era pronto anche a quello.

Con la massima umiltà, si presentava in quei laboratori, quasi sempre fatiscenti costruzioni di campagna, e fattosi presentare il titolare era sempre la solita recita.

Con voce flautata spiegava che non era un rappresentante, che il suo era un caso personale, che cercava un signore alto e baffuto, che era un suo conoscente e che aveva un pacco urgente da consegnargli.

Molti gli rispondevano con diffidenza, altri con una frettolosità che indicava fastidio. A volte sembravano anche voler addurre delle giustificazioni sul loro operato, nonostante Guglielmo facesse di tutto per non sembrare l’ispettore che tutti forse credevano. La risposta era sempre la stessa:

“Non ne sappiamo niente. Da noi è tutto in regola, buongiorno”.

Era proprio un bell’ambiente. Altro che omertà.

La giornata volgeva al termine, delle sette ditte ne aveva visitate solo quattro e disperava ormai di potercela fare. Se quel tipo avesse già messo in atto qualcosa contro di lui, era troppo tardi per correre ai ripari. Era definitivamente sconfitto. Non gli rimaneva altro che rientrare in città se non voleva perdere anche il treno che l’avrebbe riportato a Siracusa.

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Avvilito, saltò la cena e bivaccò nella sala di attesa della stazione.

Forse avrebbe dovuto telefonare a Maria e confermare, come nulla fosse stato, il rientro a casa per l’indomani mattina. Avrebbe preso il treno da Rapallo, anziché da Pisa, ma non sarebbe cambiato proprio nulla, né l’orario né il giorno d’arrivo.

Faceva passare tempo temendo che un tremolio della sua voce, per telefono, potesse tradire un segreto che invece doveva continuare a occultare a tutti i costi. Anche l’involto con le scarpe gialle era un segreto da seppellire definitivamente.

Si volse a guardarsi intorno alla ricerca di un cestino della spazzatura dove abbandonare una volta per tutte quel corpo del reato. Un grande manifesto pubblicitario sul muro di fronte lo fece rimanere a bocca aperta. Forse non era ancora tutto perduto.

Ecco come si chiamava la festa di Rapallo: la festa della Madonna di Montallegro. Quel baffuto vaccaro gli aveva detto che l’anno precedente era stato proprio lui a vincere il palio pirotecnico. Ricordava bene quei discorsi: i sestieri, la gara, la premiazione. Doveva trattarsi di un premio importante, conosciuto da tutti. Sarebbe stato facile risalire al nome del vincitore.

Finalmente fece la telefonata.“Ciao, Maria… sì tutto bene… sì, ti dico. Purtroppo il

convegno si prolunga anche a domani e il mio intervento ancora non c’è stato. Parto domani sera, ti richiamo”.

“Non ti preoccupare, pensa piuttosto a prenderla come una vacanza”.

L’invito di Maria a considerare quel viaggio come una vacanza, gli fece venire in mente l’idea di lasciarsi una porta aperta alle spalle:

“Sì, sì… qua ci sono tanti colleghi che in effetti non pensano ad altro. A proposito, sai chi ho incontrato? Quel mio vecchio compagno di La Spezia, Fiorelli, te ne ho parlato,

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ricordi? Mi ha invitato per il fine settimana a casa sua… ti farò sapere cosa faccio. Ciao. Salutami Filippo”.

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Capitolo 7

E così Guglielmo aveva deciso di pernottare a Rapallo per tornare, l’indomani, a far visita a quell’impiegato comunale dalla scrivania traballante.

Trovò un bell’albergo sul lungomare. Non badò a spese e, per la prima volta da quando era arrivato a Pisa, riuscì a non pensare a quel paio di scarpe che lo avevano seguito dappertutto. Dopo una cena a base di gamberetti e calamari fritti che si volle concedere con magnanimità, si addormentò leggendo qualche terzina dell’Inferno che aveva nella valigetta. Riuscì anche, forse per la prima volta, ad assaporarne il ritmo e la musicalità, senza badare a tutti quei numeri che aveva annotato a matita in corrispondenza dei versi.

Quelle sfilze di numeri erano il frutto di una sua vecchia passione ed erano il motivo che l’aveva spinto a portare con sé quel libro. Quando voleva rilassarsi si cimentava a tramutare, come in un cifrario, le lettere in numeri: li sommava, li raggruppava e ne sommava le cifre, verso per verso, terzina per terzina, canto per canto, alla ricerca di un antico e misterioso codice medioevale. Si impegnava in quel passatempo come con un cruciverba, e – il progetto andava avanti da anni – era quasi arrivato alla fine dei 402.844 caratteri, delle 101.607 parole, dei 14.233 versi, delle 4711 terzine dell’intera Divina Commedia. Una scoperta che aveva fatto era che, fra i numeri rappresentativi di ciascun verso, la frequenza dei numeri primi andava a crescere passando dall’Inferno al Purgatorio, al Paradiso. Qualcosa voleva pur dire. In questa ricerca di significati occulti, per il momento, era riuscito solamente a dare un senso al verso conclusivo del Paradiso. Quel finale, riepilogativo di tutta la

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teologia dantesca, era associato a un numero primo, il tredici, che, ad onta della sua infausta fama, era anche il numero dei possibili poliedri archimedei che Dante, ancor prima di Keplero, conosceva bene per averli utilizzati nella struttura dei suoi mondi extraterreni.

Qualche volta aveva intrapreso con Teresa, la collega di italiano, un discorso sulla simbologia della Divina Commedia. Voleva farsi confermare o chiarire quanto aveva letto in certe pubblicazioni non proprio di carattere letterario.

Quella sera, in quell’albergo di Rapallo, aveva invece esclusivamente assaporato la poesia di quel sommo.

Leggendo, si arrestava di tanto in tanto e risentiva le osservazioni di Teresa:

“Buttali quei libri, Guglielmo. Mi sembri uno che confonde l’astrologia con l’astronomia… da te questo non me lo aspettavo proprio.”

Teresa aveva ragione. Lesse con piacere fino a notte fonda e sprofondò nel sonno fra le braccia di Virgilio.

Lasciata la valigetta in albergo, alle otto e mezza dell’indomani, martedì, si ripresentò dunque in Comune, con il pacco delle scarpe gialle in mano.

“Forse ci siamo… questa volta lei mi sarà sicuramente d’aiuto”, disse all’impiegato con il quale aveva parlato il giorno prima.

“Se posso, volentieri… ha scoperto qualcosa?”.“Tutto! La ditta che cerco è quella che l’anno scorso ha

vinto il palio pirotecnico per la festa di Montallegro”.“Come no, certo… la ditta Max Fuochi, di Massimo

Pirolisi… è del sestiere Costaguta. Un bravo ragazzo”.“Costaguta? Ecco, lo sapevo… era così lontano che

ieri non ho fatto in tempo… è stato proprio gentilissimo. Le posso offrire un caffè? Facciamo due passi… non so proprio come ringraziarla. Posso fare qualcosa per lei? Se mi lascia il nome le faccio avere qualcosa di tipico dalla Sicilia. Sa, io sono di Siracusa, conosce i dolci di mandorla? Lo zibibbo delle nostre parti? I fichi secchi con le noci… Ho capito… lei sta pensando ai favolosi tarocchi di Lentini… forse ancora si

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trovano. Appena rientro… mi permetta di farle questo omaggio. In Liguria di certo non li trova. Mi dia solo il tempo di consegnare queste scarpe”, e sollevò, agitandolo, lo scatolo che le conteneva, “sa, sono molto importanti per quel signore che mi ha detto lei… sapesse come le aspetta!”.

Se quell’allibito impiegato comunale non lo avesse interrotto, si sarebbe lanciato in un racconto senza fine, tanto era grato, emozionato, e rosso in viso.

“Ho capito, ho capito”, fece l’impiegato, “lei quindi è un fabbricante di scarpe… forse è un modello fatto su misura… comunque non si disturbi, sul serio… le ho solo dato un’informazione pubblica. Mio dovere”.

Per liberarsi di Guglielmo si alzò dal tavolo per accompagnarlo fuori.

“Grazie ancora. Buona giornata”.Guglielmo percorreva il corridoio voltandosi ogni due

passi verso il suo benefattore. Sollevava il pacchetto delle scarpe, glielo indicava con l’altra mano e continuava, accennando inchini, a mandargli benedizioni.

Questa volta prese un taxi. La contrada Costaguta era abbastanza fuori città, oltre il torrente Boate, in direzione di Santa Margherita Ligure.

Per aver il tempo di presentarsi con tutta calma, si fece lasciare all’inizio della contrada. Voleva camminare e pensare. La vallata tutt’attorno era l’ideale per ritemprarsi e ritrovare la calma e la sicurezza di cui aveva bisogno. Era una strada di campagna con poche abitazioni, leggermente in salita e con tante curve che si aprivano spettacolarmente sul paesaggio di Rapallo con il suo golfo. Lungo il ciglio sinistro, tanti ulivi delimitavano piccoli appezzamenti di terreno che proseguivano in basso, trattenuti da muri a secco. Un odore di erbe, di spezie, di basilico, si fondeva con il colore rosa malva e fucsia della buganvillea. Rami colmi di grappoli di quei fiori venivano giù come cascate dalle ringhiere di semplici costruzioni.

Sulla destra, dove il terreno accennava a diventar costa più irta, dominavano le querce e qualche albero di castagne.

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Ancora oltre, lecci, alcuni a cespuglio, selvatici, molti imponenti e frondosi.

“Sembra il paradiso terrestre!” pensò Guglielmo. “Quel bifolco, se abita in questi posti, non può essere poi così malvagio… l’ha detto anche l’impiegato del comune… un bravo ragazzo, ha detto”.

Si voleva infondere coraggio, farsi cullare da quell’armonia di colori e di odori che lo circondavano, ma non ci riusciva. Non riusciva a rimuovere dalla mente l’immagine di quel signore – doveva chiamarlo così ora, aveva un nome e doveva trattarlo con gentilezza – che, in treno, aveva fatto il suo ingresso nello scompartimento come un pistolero che spalanca la porta del saloon. Continuava a vederlo mentre parlava con l’amico, accavallava le gambe e mostrava le sue scarpe gialle con una fierezza da uomo spiccio e superiore.

Non c’era altro da fare che farsi pecora, accettare le sue rimostranze, sbrigarsi e tornare via.

Dopo una curva intravide, sulla destra, uno slargo con qualche costruzione in fondo: una casa in mattoni rossi con inserti in pietrame e subito accanto un paio di casotti che parevano stalle o fienili. Alla casa in muratura, di due piani, era addossata sul lato minore una specie di veranda vetrata che si affacciava anch’essa sullo spiazzo in terra battuta. Si sarebbe potuta scambiare per una fattoria di contadini, ma non si vedevano né animali né attrezzi agricoli.

Era quello il suo capolinea: sul muro della veranda, fra due grandi finestre, una scritta di un rosso sbiadito diceva: “Max Fuochi – Scenografie pirotecniche”.

Bussò alla porta principale della casa. Dalle vetrate della veranda, attraverso una cortina di polvere, si intravedeva l’interno, uno stanzone buio che sarebbe apparso disabitato se non fosse stato per qualche colpo di martello e qualche voce di persona che ne veniva. Dopo un tempo che gli sembrò lunghissimo, mentre stava pensando che forse era meglio tornare sui suoi passi, venne ad aprire una vecchietta che con

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fare arzillo gli chiese cosa cercasse. Dall’interno, una voce maschile e catarrosa urlò:

“Lucia, chi è alla porta?”.“Mi scusi, signora… non vorrei disturbarla… cercavo

solo il signor Pirolisi, Massimo Pirolisi… sono… sono…”.Si risentì la voce dell’uomo:“Lucia! Chi diavolo è? Vedi un po’ chi è”. E

contemporaneamente dall’uscio fece capolino una testa canuta, avvizzita dal sole, e con una pipa di schiuma in bocca.

“Buongiorno”, ripeté Guglielmo, “mi scusino tanto…”. Poi, rivolto alla donna:

“Devo consegnare un pacco a Massimo Pirolisi. Abita qua?”.

“Massimo è mio figlio. Lei è del comune? É per quella pratica? Proprio mezz’ora fa è sceso in paese, ha detto che aveva delle cose da fare… è sempre in giro lui, ma torna subito. Può dire a me”.

“No, no, non sono di queste parti…” e tentennava indeciso su cosa dire. Il vecchio con la pipa lo scrutava dalla fessura dell’uscio. La madre riprese:

“Ho capito, lei è il signore di Carrara che Max mi ha detto che sarebbe passato in questi giorni… se è per lavoro deve proprio parlare con lui”.

“Ah, lei è la madre… no, no, è una cosa personale… io sono… sono un suo amico, cioè ci siamo conosciuti al… non ho avvisato prima ma… sicuramente lui mi aspetta. Mi scusi se non mi sono presentato, sono il professor Guglielmo Santucci. Sa, io insegno matematica”.

L’uomo, che stava ancora col busto dentro l’uscio, si fece largo e uscito fuori si avvicinò a Guglielmo tendendogli la mano. Uno sguardo di gentilezza cancellò quell’aspetto burbero che Guglielmo aveva inizialmente associato alle urla e alla tosse catarrosa di poco prima. La moglie lasciò i due sullo spiazzo e rincasò.

Rinfrancato per come si erano messe le cose, Guglielmo, girandosi attorno, riprese vigore e speranza. Era una vera fortuna che il capellone non fosse a casa e stava per convincersi che la cosa migliore da fare era di consegnare la

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scatola con le scarpe al padre, pregandolo di portare le sue scuse al figlio. Guglielmo sorrideva al vecchio, come per ringraziarlo anticipatamente di tanta gentilezza, ma i suoi pensieri erano tutto un turbinio di incertezze. Consegnare la scatola e andare via? Aspettare per porre al capellone personalmente le sue scuse? In fondo sembrava tutta brava gente, disponibile ed educata. Lo avevano accolto senza diffidenza, come un amico del figlio. Non era proprio il caso di fuggire, specie ora che tutto sembrava stare per sciogliersi come neve al sole.

“E poi”, si disse rapidamente, “un po’ di coerenza! Non ho penato tanto per incontrarlo di persona? Vai avanti Guglielmo! Succeda quel che deve succedere!”.

Decise, così, di attendere il ritorno del capellone e si voltò di nuovo verso il vecchio che manifestava l’evidente piacere di intrattenerlo.

“E lei, professore, anche lei è in fermento per la festa di Montallegro? Massimo in questi giorni non si interessa d’altro… è talmente intrattabile che non ci si può parlare, ma vedrà che torna subito. Ha lasciato un lavoro importante da fare”. Indicava con il braccio la veranda lì accanto.

“Ma, venga, venga dentro che lo aspettiamo nel laboratorio… venga professore”.

Entrarono a casa e, da una porta interna, il padre del fuochista condusse Guglielmo in un box vetrato che era uno spazio ricavato in un angolo della veranda dal quale si poteva controllarne l’interno. La veranda era un laboratorio: due persone erano sedute a un tavolo con enormi fagotti di carta per le mani; li avvolgevano con delle cordicelle nere come a volerne fare dei pacchi e li impilavano su dei carrellini. Altri carrelli, al centro della stanza, erano pieni di sacchi nei quali si intravedevano delle polveri colorate. Gli attrezzi appesi alle pareti, i barattoli aperti sui tavolacci di legno, i cumuli di segatura per terra, tutto faceva somigliare quel laboratorio a quello di un falegname. Era invece la zona di confezionamento dei fuochi pirotecnici.

Li raggiunse la madre di Massimo:

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“No, no, venga dentro in salotto. Se mio figlio la trova qui ci fa una sfuriata… sapesse che caratteraccio ha quel ragazzo! Non vuole estranei fra i piedi, è capace di prendersela anche con lei”. Poi rivolta al marito che, senza darle retta, si era trovato un angolino per fumare con calma la pipa:

“Sembra che non lo conosci tuo figlio… piglia ogni cosa con tale rabbia che non ci si può proprio ragionare. Io vi ho avvisati, fate come vi pare”. E se andò nelle altre stanze della casa.

Si sentì squillare un telefono.“Lucia, il telefono!” urlò il vecchio, girandosi verso la

porta.“Chi era?” ricominciò poco dopo. “Lucia, chi era al

telefono?”.La vecchia rispose da lontano:“Il signore di Carrara, cercava Massimo… e non urlare.

Un po’ di pazienza, perdio! Ecco da chi ha preso tuo figlio”.

Guglielmo era rimasto in piedi a guardare al di là del vetro che lo divideva dal laboratorio; uno dei due che erano intenti a confezionare le bombe, gli fece un cenno di saluto. Rispose con un movimento del capo forzatamente disinvolto. Poi, per darsi un contegno, voltosi al vecchio, fissando la sua pipa disse:

“Ma qui si può fumare? Non è pericoloso?”.“Per carità… veramente in questa stanzetta siamo al

sicuro, comunque ha ragione… no. Ma se non ho la mia pipa mi sento sperduto… mi raccomando non dica nulla a Massimo. Ora la metto via. Piuttosto mi spieghi meglio… ha detto che ha un pacco per mio figlio?”.

“É una storia lunga… un po’ imbarazzante per la verità. Ho conosciuto suo figlio un paio di giorni fa, in Sicilia e, parlando parlando, mi ha affascinato con i suoi fuochi pirotecnici. No, no… il pacco”, e lo strinse contro il petto, “il pacco non c’entra… forse è meglio che sia lui a spiegarle che…”.

“Ne avrà combinata un’altra delle sue, sicuro” fece il vecchio.

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“O l’ho combinata grossa io” pensò Guglielmo. “Ma ormai dove vado? Povero me… meno male che almeno i genitori sembrano ragionevoli, alla mano… forse potranno aiutarmi loro”.

Il tempo passava e Guglielmo, contando con i passi le dimensioni di quel loculo, cercava di dominare la sua trepidazione ascoltando in silenzio le chiacchiere che gli faceva il vecchio.

Seppe che era stato pescatore e che l’azienda di fuochi pirotecnici era tutta opera di Massimo: ci lavorava con un cugino e un altro ragazzo, quelli che aveva visto al di là del vetro. Ma allora quello che l’aveva salutato poco prima era il ragazzo incontrato in treno assieme a Massimo? In effetti gli era sembrata una faccia nota, ma in quell’ambiente, in penombra…

Il vecchio gli raccontava che l’altro figlio invece non ne voleva sapere nulla di quel lavoro e aveva messo su a Rapallo una palestra di arti marziali.

“Perfetto!” si lasciò sfuggire Guglielmo, e il rumore di un furgone che si fermava sullo spiazzo sembrò arrivare al momento giusto per quell’esclamazione.

Dalle vetrate si vedeva un furgoncino bianco, con sulla fiancata il nome della ditta.

Uno sportello si aprì e ne venne fuori un uomo baffuto e dalla chioma fluente. Era proprio lui: il fuochista Max, il Mangiafuoco di Pinocchio, il pistolero giustiziere. Aveva una tale fretta che richiuse lo sportello con una pedata, mentre si avviava veloce alla porta di casa.

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Capitolo 8

“Lei qui? Professore… ma è proprio lei? Sapesse cosa mi ha fatto passare…”, fece entrando nell’ufficio. Sbuffando si buttò a sedere. Guglielmo, di fronte, in piedi e più bianco di una statua, continuava a tenere fra le mani, con i muscoli contratti, quella scatola con le scarpe gialle da cui non riusciva più a separarsi. Il vecchio aveva sgombrato il campo.

Da come Max lo scrutava c’era solo da attendere che fosse lui a fare la prima mossa. Nessuna difesa, nessun tentativo di giustificazione, d’accordo. Guglielmo era pronto ad ammettere tutto, a dire sempre di sì, ad assecondarlo in tutto. Voleva delle scuse ufficiali? Bene. Voleva un nuovo paio di scarpe? Avrebbe saputo dove comprarle. Voleva soldi? Nessun problema.

Gli occhi di Max erano fissi su quelli di Guglielmo. Guglielmo non sapeva se parlare o aspettare.

Una sonora risata lo fece trasalire. Il fuochista, il mangiafuoco, lo guardava e rideva, rideva di cuore, agitando le mani, sollevando i piedi a mostrare le sue scarpe. Rideva e rideva, senza potersi più arrestare. Si alzò, andò incontro al povero Guglielmo e, con sonore pacche sulle spalle, lo sospinse di là dove stavano i genitori.

“Ma sapete chi è questo signore?” disse ai due vecchi, incuriositi dalle risate. “Sapete chi è? Il professore del treno… quel siciliano di cui vi ho raccontato, quello che mi ha fregato le scarpe”.

“Veramente fregato… non proprio…” fece Guglielmo con un filo di voce. “Anche io in fondo… sì, sì, ha ragione lei, certo… ha perfettamente ragione. Vede, sono venuto…”.

L’ilarità di Max si trasmise anche ai genitori. Sembrava che qualcuno stesse raccontando una gustosa barzelletta. Per educazione anche Guglielmo si sforzò di ridere. Guardava

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Max e rideva se anche lui rideva. Si arrestava quando lui accennava a voler dire qualcosa.

“Non mi sono mai divertito tanto quanto quella mattina… ricorda? Ricorda che ho pure cercato di avvisarla quando il treno stava per ripartire? Troppo tardi… E poi all’arrivo, con le sue scarpette… ma che numero porta lei? Zoppicavo… e dovevo spiegare a tutti cosa era successo. Neanche nelle comiche di Stanlio e Ollio. Ma ridevo di più pensando a lei, così distinto e riservato… chissà come avrà fatto… e ridevo perché non ce lo vedevo proprio un matematico serio serio come lei con quelle scarpacce. Mi ha fatto proprio passare dei momenti indimenticabili”.

“Ma… ma…”. Dalla bocca di Guglielmo non uscì altro.

“Si ricorda di mio cugino? Ora glielo chiamo, è di là al laboratorio… quanto ci abbiamo scherzato su! Diceva che in fondo ci avevo guadagnato, le scarpe di un famoso matematico… ma non si preoccupi professore, le ho conservate bene. Ora gliele prendo… non le ho praticamente neanche usate… aspetti”.

Riprese a ridere, camminando avanti e indietro per il corridoio, guardandosi le scarpe – normali scarponcini da lavoro – e mimando un’andatura claudicante. Agitava la mano bonariamente verso il viso di Guglielmo, chiamando contemporaneamente a gran voce il cugino.

“In effetti anch’io”, lo interruppe con coraggio Guglielmo, “anch’io le ho conservate le sue, sono venuto apposta… se lei volesse scusarmi mi leverebbe un gran peso dalla coscienza”.

“É venuto fin qui apposta? Ma scherza? Per quelle mie vecchie scarpe?”.

“Ma allora… allora… allora lei non ce l’ha con me!”.Guglielmo, finalmente, si sedette sulla prima sedia che

trovò.

In breve si ritrovarono come due vecchi amici. Passarono a darsi del tu. Ogni titubanza di Guglielmo verso quelle forme che normalmente avrebbe considerato troppo

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cameratesche, svanì sotto le macerie di un muro difensivo che aveva troppo stupidamente iniziato a costruirsi attorno.

Si rese conto che quelle difese, quelle perplessità e quei sensi di colpa non avevano più motivo di esistere.

Max portò Guglielmo in laboratorio a mostrargli con orgoglio ciò che stavano preparando per l’imminente festa di Rapallo. La scatola con le scarpe gialle finì in un angolo, assieme ai ritagli di cartone da buttare. La madre di Max incartò quelle di Guglielmo e le mise nell’ingresso per quando si sarebbero salutati.

Oltre al laboratorio di confezionamento dei botti, sul retro c’era il vero e proprio cuore della ditta. Era il posto dove si preparavano le miscele esplosive, si pesavano, si amalgamavano e si dava loro la giusta forma e posizione all’interno del cartoccio.

Max gli spiegava le differenze far i vari esplosivi, gli esplosivi di lancio, costituiti essenzialmente da polvere nera e utilizzati per il lancio, i razzi, gli inneschi, le micce e le spolette; gli esplosivi fulminanti, destinati alla confezione di tutti i fuochi per produrre scoppi violenti accompagnati da lampi di luce; gli esplosivi di spaccata, usati per i fuochi che debbono spaccarsi proiettando violentemente una rosa di colori.

Tutta l’attrezzatura era di legno o, se metallica, di ottone: bilance, pestelli, mestoli, frantoi. Sulle pareti, come in un’antica farmacia, tanti contenitori con i più svariati composti chimici per creare la voluta colorazione dei fuochi. Ognuno aveva la sua etichetta: sali di stronzio, bario, cloruro e carbonato di rame, e poi ancora zolfo, alluminio in polvere, magnesio, antimonio, manganese, titanio, etc. etc.

Guglielmo si sentiva a suo agio e annuiva soddisfatto per le spiegazioni che gli dava Max. La chimica era sempre stata una delle sue passioni e molte conoscenze su quegli argomenti le possedeva fin da ragazzo, fin da quando giocava al piccolo chimico.

“Queste sono le quantità per un loro immediato impiego”, gli spiegava Max. “Il magazzino vero e proprio è in

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quegli edifici là fuori, per motivi di sicurezza. Gli esplosivi e i composti pericolosi li tengo ben separati e sotto chiave”.

“…già, qua si potrebbe innescare anche una detonazione, e non una semplice deflagrazione. Non è vero? Si potrebbe distruggere mezzo paese…” fece Guglielmo, pavoneggiandosi nel mostrare di conoscere la differenza fra i due fenomeni chimici.

“I materiali detonanti per la verità sarebbero vietati… ma, ormai li usano tutti e certe cose si possono fare solo con quelli. Hai visto a Sydney per l’inaugurazione delle Olimpiadi? Come credi che abbiano ottenuto quegli effetti spettacolari?”.

Ciò che affascinava Guglielmo era la simbiosi fra scienza, tecnica e artigianato che vedeva in quelle attività. Chiedeva e si informava con curiosità anche delle cose più insignificanti che cadevano sotto il suo sguardo e invidiava quel mondo di cui da ragazzo aveva intravisto il fascino. Non serviva a nulla avere una laurea, forse neanche in chimica; il piacere che immaginava si potesse provare era sicuramente più grande di qualunque soddisfazione ricavata dallo studio teorico di quei fenomeni.

Sul retro della casa c’era uno spazio all’aperto, protetto solo da una tettoia. Guglielmo non l’aveva notato. Oltre, per centinaia di metri, solo terra battuta e qualche cespuglio. Era la zona di montaggio e di prova dei mortai per il lancio dei botti. Li costruiva artigianalmente lo stesso Max, con saldatrici e macchine per il taglio e la sagomatura dei metalli.

“Guarda questi”, gli fece, “questi tubi di lancio li ho fatti venire apposta dalla Cina. Quest’anno voglio sperimentare qualcosa da rimanere a bocca aperta. Stamattina ero proprio andato in Questura per consegnare i libretti di omologazione. Sai con queste cose non si scherza… sono armi… e ogni anno ne inventano di sempre più sofisticate e pericolose. Ho il patentino per i fuochi di IV categoria io, ma ogni volta ci vuole un visto particolare”.

Quei nuovi mortai sembravano piuttosto degli obici o dei tubi per il lancio di missili terra-aria. Mettevano una certa

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inquietudine, ma Max era eccitato come un bambino di fronte a un nuovo giocattolo. Erano corredati di leverismi, torrette rotanti e ingranaggi per il loro puntamento.

“E li sai usare?” chiese Guglielmo.“É questo il problema… sono gestiti da dati

computerizzati, vedi questi sensori? I dati si impostano manualmente ma vengono fuori dai calcoli di balistica in funzione di tutti questi parametri… altezza, distanza, peso della carica di lancio, peso totale della bomba… e anche in funzione della velocità del vento e dell’umidità dell’aria. In questi giorni ci sto studiando sopra”.

A Guglielmo brillavano gli occhi. Avrebbe voluto metterci le mani sopra, sperimentare quegli aggeggi come faceva da ragazzo nel laboratorio sotto casa.

“Potrei venire qualche altro giorno, quando li hai messi a punto?”.

“Con piacere… così magari mi dai qualche consiglio. É tutto spiegato passo passo, ma non si sa mai… capitasse di dover usare anche i numeri primi… ancora non li ho digeriti”.

La risata di Max fece tornare in mente a Guglielmo i discorsi che avevano fatto in treno.

Tornando a casa passarono dal retro, costeggiando una baracca che sembrava avere di solido solo un massiccio portone in legno pieno di chiavistelli e catene. Anticipando la curiosità di Guglielmo, Max con fare sbrigativo disse:

“Nulla di interessante… meglio starne alla larga, è materiale pericoloso”.

Guglielmo non poté esimersi dal fermarsi a pranzo. La madre di Max aveva insistito tanto. E poi, in verità, gli si era aperto lo stomaco, lo sentiva così vuoto e leggero come ormai sentiva alleggerirsi anche la mente.

Una zuppiera fumante troneggiava al centro della tavola da pranzo.

“Ottima!” disse Guglielmo dopo la prima cucchiaiata. “La facciamo anche noi in Sicilia…”.

“Eh, no, caro professore”, rispose la vecchia, “questa è solo ligure… la mesciüa: ceci, cannellini e farro… ma l’olio

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deve essere di queste parti… il nostro olio è il segreto della ricetta. …a crudo, mi raccomando”.

Aveva ragione. Quella sinfonia di sapori era talmente esaltata dal condimento, olio e pepe nero, da far dimenticare i suoi semplici e comuni ingredienti.

“E io che credevo che in Liguria si mangiassero solo le trenette al pesto”. Guglielmo si pentì della stupida osservazione che aveva fatto e assunse un’aria meditabonda guardandosi attorno.

La casa parlava ancora dell’antico mestiere del vecchio. Su una parete, come un drappo, era appesa una logora rete da pesca e per terra, in un angolo, una canna e qualche attrezzo di cui lui non conosceva l’uso.

“Di sicuro mangerete sempre pesce fresco”. Indicava l’attrezzatura da pesca.

“Ormai pesco solo per passatempo, qualche volta la domenica… mi sono ridotto alla canna da pesca, vede professore come passano gli anni?”. Il vecchio aveva un tono velatamente nostalgico.

Su di un cassettone, pieno di centrini a pizzo, c’erano le fotografie dei due figli da bambini, un’immagine della Madonna in trono, e un souvenir di qualche viaggio fatto a Roma: una di quelle palle di vetro con dentro il Colosseo e la neve che ci cade su se la si capovolge.

“Ora, caro professore, in suo onore… conosce il ciuppin? Max ne va proprio matto. Ciuppin con pane abbrustolito. Sentirà che sapore! Scusi per la pentola… mi scusi se la considero come uno di famiglia”.

Max allungò il collo ad annusare. L’aroma di pesce in brodo si diffondeva dappertutto.

“Mamma, ci hai messo solo il capone o anche scorfano e gallinella?”.

“Assaggia e stai zitto. Sempre a criticare. Fai parlare il professore, piuttosto. Che gliene sembra professore? Ecco aspetti che le metto prima il pane abbrustolito”.

“Grazie, grazie… è veramente ottimo. Complimenti signora”.

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Alla fine del pranzo rimasero ancora a tavola a parlare, a bere vino bianco, a sgranocchiare qualche biscotto di mandorle e ad assaggiare un dolce a base di caffè che chiamavano sacripantina.

“La sacripantina da noi è come il botto finale dei fuochi d’artificio. Ho dato questo nome a un nuovo botto che ho sperimentato l’anno scorso”, disse Max soddisfatto.

La televisione, in un angolo, era rimasta accesa e stava trasmettendo un servizio di una emittente locale sulla imminente festa della Madonna di Montallegro. Venivano mostrate le riprese dell’ultimo palio pirotecnico e il giornalista intervistava il parroco del santuario. La madre di Max si allontanò dalla tavola per ascoltare meglio.

“Che ipocrita”, disse Max, “sembra che la riuscita della festa dipenda tutta da lui e dalla parrocchia… questi pretacci, sempre fra i piedi. Sembra di essere tornati al medioevo, il Papa da una parte e l’imperatore dall’altra”.

Il padre annuiva, alzando gli occhi al cielo, fra una tirata e l’altra di pipa.

“Non dire bestemmie”, intervenne la madre. “Basta già quel senza dio di tuo padre…”.

“Ma guardalo come si gonfia tutto! Sembra il padrone del paese”, continuò Max.

Poi rivolto a Guglielmo: “Anche da voi, vero? Girando per tanti paesini, laggiù,

ho dovuto faticare per trattare più con i parroci che con i sindaci. Siamo proprio sotto il loro potere, altro che manifestazioni popolari… Saprei bene io dove piazzarle le bombe che stiamo preparando”.

La madre, stizzita, spense la televisione e iniziò a sparecchiare.

Guglielmo tornò a piedi fino a Rapallo. Aveva voglia

di camminare per digerire tutto quel ben di dio.Nel salutarlo Max gli aveva detto:“Se prima di ripartire non hai di meglio da fare, torna

pure a trovarci. Anzi, perché non ti fermi a Rapallo fino alla

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festa, telefoni a tua moglie e la fai venire; vi assicuro, che passerete una vacanza indimenticabile”.

Aveva voglia di camminare anche per pensare e avere il tempo di sbrogliare quel problema che aveva quasi dimenticato e che ora gli stava rovinando la sensazione di benessere provata in quelle ore. Cosa avrebbe dovuto dire a casa? Come era rimasto di preciso con Maria? Poteva fare impunemente ritorno a Siracusa, come niente fosse stato? E se qualcuno dalla Scuola Normale l’avesse cercato?

Volontariamente allungava la strada per i vicoli dei quartieri che attraversava. Era pomeriggio inoltrato e il mese di giugno manteneva il sole alto a illuminare le strade. Il fascino di quei luoghi lo indusse a mettere momentaneamente da parte ogni preoccupazione. Erano ancora troppo vivide le immagini e le sensazioni provate in quella casa del fuochista. Rideva delle ridicole paure che aveva avuto e, con passo saltellante, faceva oscillare la busta, con le sue vecchie scarpe che la madre di Massimo gli aveva restituito. Era destino che, o per un motivo o per un altro, avesse sempre in mano un pacco di scarpe. Un destino contro cui fece volentieri un gestaccio con il dito medio dell’altra mano.

Mano mano che si avvicinava al centro, vagheggiava che forse una vacanza non sarebbe stata per nulla una cattiva idea. Avrebbe così accontentato Maria, e forse anche Filippo. Aveva intravisto sul lungomare un paio di circoli velici e qualche scuola di canottaggio che sarebbe stata perfetta per il figlio. Prima, però, avrebbe dovuto motivare la sua presenza a Rapallo e spiegare come mai da Pisa era finito nella riviera ligure, lui che già al momento della partenza aveva manifestato la solita ritrosia ad allontanarsi da casa. Ci avrebbe pensato con calma. Per il momento si lasciava trascinare dalla pendenza dei carruggi e rivide ciò che aveva visto frettolosamente il giorno prima: il lungomare, il golfo, il castello… Era ancora pomeriggio e nel silenzio di un paese che riposava dopo il turbinio della mattina, tutto gli appariva affascinante.

Da lontano, al centro della strada che seguiva l’andamento del golfo, vide venire verso sé un ragazzo e una

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ragazza che correvano affannati, probabilmente verso qualche appuntamento. Il loro scalpiccio sul selciato li precedeva allegramente: lui teneva per mano la ragazza, sopravanzandola leggermente e tirandola a sé come per farle fretta. Potevano avere circa quindici, sedici anni, e negli sguardi che si scambiavano si leggeva tutta la loro giovinezza. La ragazza manifestava, con l’andatura sbilenca e con i muscoli del volto contratti, di aver raggiunto i propri limiti, ma perseverava grata e fiduciosa dell’amore che lui le trasmetteva con quella stretta.

Incrociandoli, nel volto del ragazzo vide suo figlio. Lo volle vedere, e sfacciatamente lo salutò con un caloroso: “Ciao!”.

“Si goda la vacanza” gli si rivolse la ragazza, sorridendo con una smorfia di affanno; e subito dopo, già defilata oltre: “La scuola è finita. La scuola è finita.” Aggiunse qualcos’altro ma Guglielmo non la sentì.

La strada costeggiava il mare, dal porto al castello, formando un arco di circonferenza, poi completato, alle sue estremità, da verdi declivi che chiudevano il golfo interno separandolo dal più grande golfo del Tigullio. Se non fosse stato per quel varco fra i due specchi d’acqua, si sarebbe potuto dire che il golfo di Rapallo aveva un perimetro perfettamente circolare.

Un aereo solcava il cielo, lasciando dietro di sé una lunga scia bianca che poi si frammentava in tante nuvolette leggere, come spruzzi di brina o di neve fresca.

Gli si presentò davanti l’immagine della palla di vetro sul cassettone della casa di Massimo e un’idea lo fulminò all’istante. Studiò meglio l’orizzonte, il percorso del lungomare, valutò a occhio distanze e altezze dei promontori e un gioco di fuochi e di stelle luccicanti gli illuminò la fantasia. Avrebbe voluto parlarne subito a Massimo. Si ripromise di andarlo a trovare.

“Domani, domani… per adesso devo perfezionare l’idea e, soprattutto, devo studiare bene il panorama di notte”.

Con questi pensieri attese il tramonto.

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Capitolo 9

Ormai conosceva bene la strada. La periferia di Rapallo, il diradarsi di un paese che si tramutava in borgo, in spazi fioriti e in stradine di una campagna che mostrava tutta l’operosità di quella gente, lo attiravano come mai avrebbe immaginato. Rapallo l’aveva veramente stregato; godeva di sensazioni mai provate prima. Lui che, per pigrizia, a Siracusa, anche per poche centinaia di metri, usava sempre l’auto. Non era il tipo, Guglielmo, da lasciarsi andare al piacere di una passeggiata, alla scoperta di una nuova strada o di un angolo di città troppe volte trascurato.

Questa volta era diverso. Camminava e sembrava non avere neanche fastidio per il sole che gli batteva sulla nuca. Aveva lo stesso abbigliamento con il quale era sbarcato a Pisa. Si limitò solo ad allentarsi il nodo della cravatta e tirato fuori un fazzoletto dalla giacca ogni tanto se lo passava sulla fronte, distrattamente, come se il caldo che sentiva fosse il giusto prezzo da pagare per quella piacevole camminata. Avrebbe voluto gettarsi la giacca sulle spalle ma, nonostante quell’ambiente lo incoraggiasse a lasciarsi andare, era ancora forte in lui il ritegno verso un’immagine di sé che non voleva dare.

Da lontano, mentre già si vedeva lo spiazzo dove era il laboratorio, gli sembrò di vedere Max assieme al cugino e a un altro signore. Stavano trasportando qualcosa dal casotto che fungeva da magazzino, caricandola nel bagagliaio di una vecchia Citroen 2CV color rosso fuoco, posteggiata lì accanto.

Erano anni che non vedeva quella macchina. Il padre, come regalo per il dottorato, gli aveva comprato una FIAT 127 che sosteneva fosse più comoda e più seria della 2CV che invece lui avrebbe tanto desiderato.

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“Chissà se mio figlio, vedendone una, l’apprezzerebbe… ma cosa potrebbe mai dire quello sgraziato veicolo a un ragazzo di oggi?” pensò fra uno sbuffo e l’altro, rallentando il passo per riprendersi dalla fatica della lunga camminata.

“Ciao professore”, gli fece Max da lontano. “Aspettami

dentro che arrivo subito”. Poi rivolto a Lucio:“Accompagna il professore dentro… sbrigati, vai…

intrattienilo tu. Noi abbiamo finito”.Mentre Guglielmo, preceduto da Lucio, si avviava

verso la porta del laboratorio si sentì il borbottio della Citroen che stentava a mettersi in moto e Max sbraitare ad alta voce contro quello sconosciuto:

“Cavolo d’un carrarese! Hai proprio la testa più dura del marmo. Ti avevo raccomandato di non posteggiare qui… hai una marmitta che sembra uno sputa-fuoco. Come se non le sapessi queste cose. Aspetta almeno che chiudo”.

Lucio si girò preoccupato, ma per non darlo a intendere prese a stringere calorosamente la mano a Guglielmo per salutarlo, ma principalmente per sollecitarlo a sbrigarsi a entrare.

“Buongiorno, professore, ci si rivede eh? Venga, venga dentro. Si ricorda di me, vero?”.

Nella stretta di mano Guglielmo sentì la mancanza di qualcosa, si rammentò dell’incidente alle dita del ragazzo, rabbrividì e ritrasse prontamente il braccio.

“Qual buon vento?” disse Max, rientrando anche lui.“Ho avuto una idea favolosa… ieri passeggiavo sul

lungomare e guardando il golfo pensavo a quei lanciabombe che mi hai mostrato. Una idea di cui volevo parlarti”.

“Lucio, Lucio!” fece Max con l’aria distratta di chi non sta ascoltando. “Scusa un attimo professore… Sentimi bene Lucio, ne sono rimasti due… per ora gli è sufficiente quello. Vedi di metterli bene da parte… o forse è meglio disfarsene, mi raccomando; non credo che a noi serviranno”.

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Poi rivolto a Guglielmo:“Scusami… era impegnato con quella persona…

dicevi?”.“Hai dei clienti anche in Toscana? …era di Carrara

quello con la Citroen rossa, mi è parso di capire. Affari dappertutto, eh?”.

“No, solo un amico cui dovevo un favore… Ma dimmi con calma, dimmi”.

Lucio uscì dal laboratorio e Guglielmo spiegò quanto aveva pensato la sera prima guardando il golfo.

“Quanti sono quegli aggeggi che stai mettendo a punto?”.

“Quattro”.“Pochi, ma forse qualcosa si può tentare. Ascolta e

dimmi se sono fesserie. Io di pirotecnica non ne capisco nulla, ma di matematica e geometria sì”.

“Matematica?”.“Per la precisione si tratta di geometria analitica…

Senti: il golfo di Rapallo è quasi perfettamente circolare; noi mettiamo due mortai sul lungomare, il terzo oltre il castello e l’ultimo accanto al porto turistico. Tutti e quattro inclinati e puntati verso uno stesso punto, in alto, in corrispondenza del centro del golfo… Poi sincronizziamo le parabole di lancio in modo che tutti e quattro raggiungano lo stesso punto nello stesso istante, e… bum! La grande bomba fa il suo spettacolo”.

“É una parola…”.“Aspetta, non è finita. Nella fase ascendente ogni botto

durante la traiettoria dovrebbe lasciare una scia persistente di stelle fino all’impatto con gli altri tre. Ti immagini? Non so se è possibile… ma sarebbe una cupola di fuoco come poggiata sul mare e poi alla sommità il gran finale”.

“Sì, sì, le scie luminose sono fattibili… le uso sempre, ma non credo possibile questa sincronizzazione che dici. Le traiettorie le calcolo, certo, ma non sono mai così perfette… è proprio per questo che si indirizzano versi luoghi sicuri, così un errore non fa danni. Basta un po’ di vento, una carica di lancio non perfetta… e…”.

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“Però che favoloso spettacolo che sarebbe: quattro, o di più, l’ideale sarebbero sei, otto… un cappello luminoso che si forma sul golfo, un’architettura di una cupola che prende fuoco”.

“Ma se ancora non ho ben capito quali valori impostare su quei tubi… Non pensavo proprio che fosse così difficile usarli”.

“É proprio questo che ti volevo proporre”.Max lo lasciava parlare ma sembrava distratto da

qualcosa: seguiva con lo sguardo i movimenti di Lucio che andava e tornava dalla veranda vetrata e poi, svogliatamente, chiedeva a Guglielmo di continuare.

“Vedi cosa intendo”, fece Guglielmo, scarabocchiando qualcosa su un foglio di carta. “Qui potremmo piazzare i lanci e qui programmiamo l’intersezione delle quattro parabole, guarda… si tratta di un semplice problema di balistica… di geometria dello spazio”.

Disegnava parabole, angoli di tiro, circonferenze, frecce che si intersecavano e ogni tanto, fermandosi a pensare, scriveva qualche formula che poi ricopriva con freghi neri della penna.

“No… hai ragione… è talmente lungo il percorso che basta un qualunque disturbo… il vento per esempio. La formula di correzione ce l’avrei, anche per l’attrito dell’aria… in teoria è semplice. Ma… “.

Di colpo si illuminò ricordando quanto gli aveva detto il giorno prima Max. Riprese con maggior foga:

“Mi hai fatto vedere che su ogni mortaio è montato un anemometro e un igrometro, è vero? Allora è fatta. Fidati Max. Fammi pensare meglio, sono sicuro di farcela. Io ti calcolo tutti i dati e tu devi solo preoccuparti di confezionare la bomba e di inserire quei dati. Mi serve soltanto una carta topografica del golfo”.

La mattinata passò in fretta, con Guglielmo che si mise a studiare i mortai e Max che andava e tornava dall’ufficio al

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laboratorio accanto. Lucio e l’altro ragazzo avevano ripreso la attività di confezionamento dei botti.

Prima di pranzo Max si scusò di doversi assentare un paio di ore:

“Ti inviterei volentieri a pranzo, ma non so quando torno… comunque la tua idea forse può funzionare… Vediamoci domani e ne parliamo con più calma. Ora devo scappare. Ciao professore. Se vuoi un passaggio ti lascio in paese”.

“Grazie… vedo ancora una cosa e poi vado via anch’io. No, grazie, una buona camminata mi stimola le idee. Ciao”.

Nell’ufficio di Max si sentiva a disagio. Temeva di dare l’impressione di chi fruga fra le cose altrui e quando, ogni tanto, si affacciava il vecchio con la pipa, si sentiva in dovere di scusarsi:

“Bene, bene… lascio questi appunti per Max per quando rientra… è proprio un bel laboratorio…”.

Dall’altra parte del vetro Lucio sollevava lo sguardo e lo salutava, agitando la sua mano destra che più che simpatia gli trasmetteva pena e turbamento.

Guglielmo uscì sullo spiazzo davanti casa.Gli si fece incontro la vecchia madre: aveva l’aria di

volerlo intrattenere. Guardava lontano, poi guardava lui ma non accennava a dire nulla.

“Massimo ha detto che non crede di poter tornare tanto presto”, disse Guglielmo per rompere l’imbarazzo che sentiva nel silenzio della vecchia.

“Si l’ho sentito andar via… è un periodo, questo, che è più irrequieto del solito. Sempre fuori, senza orari”.

“Si avvicina la festa di Montallegro, ed è normale che sia pieno di impegni. Mi sembra molto sicuro del fatto suo”.

“No, no, non è solo questo… gli altri anni era diverso. Ora non me ne parla neanche più… ha qualche cosa che lo tiene sulle spine. Una madre le sente queste cose”.

“Non saprei proprio… certo ora la sfida per quei fuochi si sta facendo più seria”.

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“Mi dica la verità… mi scusi se mi permetto… anche lei ha un figlio, è vero? Mi dica, lei lo sa dove è scappato con tanta fretta? …gliene ha parlato? A me stamani non mi ha neanche salutato e poi, così, come se qualcuno lo inseguisse…”.

“Non si preoccupi, signora, saranno le solite autorizzazioni e i certificati che deve presentare in Questura. Si, mi sembra che mi ha detto così… non stia ad angustiarsi”.

“Speriamo siano solo certificati…” e rincasò, lasciando Guglielmo solo nello spiazzo.

Cosa avrebbe potuto fare di più per quella vecchia? Erano le solite angustie di una madre anziana e troppo apprensiva. Anche se conosceva Max da neanche un paio di giorni aveva fatto il possibile per tranquillizzarla sul carattere del figlio. Tutto sommato, ridimensionate le impressioni iniziali e messe finalmente a tacere le paure che si era portato appresso per giorni, ora il capellone, il cattivo mangiafuoco, gli sembrava solamente un giovane entusiasta del proprio lavoro. Forse di modi un po’ spicci e non eccessivamente gentili, ma non certo un avventuriero… aveva la responsabilità di una ditta e ci sapeva proprio fare. Era normale che fosse sempre a sbrigare faccende, cercare clienti, organizzare le manifestazioni, darsi da fare per la riuscita della festa.

Quella festa, pensava Guglielmo, era veramente un evento importante. La vecchia madre poteva stare tranquilla.

Guglielmo passeggiava, restio a rientrare nel box del laboratorio. Aveva già studiato per bene i quattro nuovi mortai, aveva preso nota delle informazioni necessarie al loro funzionamento e, in attesa di poter finalmente dedicarsi ai calcoli veri e propri, era indeciso se andare via o trattenersi ancora.

Si fermò a osservare, all’estremità del grande spiazzo, poco distanti dalla casa, i due casotti che fungevano da magazzino e gli tornò alla mente la macchina rosso fuoco che al suo arrivo aveva visto posteggiata lì accanto. Risentì il tono allarmato di Massimo quando si era rivolto a quello

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sconosciuto, rivide l’imbarazzo con il quale Lucio lo aveva fatto entrare in casa, e le parole della vecchia gli risuonarono come se lei fosse ancora al suo fianco.

Scacciati quei pensieri, riprese baldanzoso la via del ritorno.

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Capitolo 10

Era da tempo immemorabile che Guglielmo non provava più il piacere di confrontarsi con nuovi e difficili problemi di matematica. Ora ne aveva uno per le mani e, senza neanche volerlo, si ritrovò a pensare e visualizzare mentalmente formule e diagrammi. Fece tutto il percorso di ritorno in città come in trance, con gli occhi fissi su immaginarie lavagne colme di astrusi calcoli matematici. Arrivò in centro senza rendersi conto di dove si trovasse.

Si chiuse in albergo e fino a ora di cena riempì una decina di fogli di appunti. Poi in serata, sul lungomare, verificò mentalmente il buon risultato di quei calcoli e andò a dormire soddisfatto.

Aveva messo da parte tutto il resto: lo strano comportamento di Max, le parole della madre, l’assurdo prolungarsi del soggiorno a Rapallo, il biglietto del treno per il ritorno ormai scaduto, i vestiti di ricambio che non si era portato, le spese impreviste che stava facendo. La moglie, il figlio, i colleghi che l’avevano atteso a Pisa; tutto svanito d’incanto. Era come se non avesse mai fatto quel viaggio in treno da Siracusa a Pisa, e poi fino a Rapallo. Erano scene di un film comico che rivedeva con fastidio; a tal punto quella pellicola, ora giudicata a mente fredda, si stava rivelando dozzinale. Forse se ne sarebbe potuta salvare solo una scena: la scena di un signore di mezz’età, basso e stempiato, su un marciapiedi di una stazione deserta, all’alba, che, con un guanciale sotto braccio, osserva inorridito le proprie scarpe senza riconoscerle. Ma anche quella era una scena di una comicità forzata, grottesca, artefatta.

Quel film, decisamente, non l’aveva per nulla divertito. Tanto valeva cancellarlo dalla propria memoria.

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L’indomani mattina, anziché correre nuovamente da Max, vagabondò pigramente lungo i moli del porticciolo. I calcoli erano completati, la cosa poteva funzionare veramente e voleva premiarsi dimostrando a se stesso di saper gioire anche di tante altre cose; piccole forse, ma troppo a lungo trascurate; un orizzonte lontano, un colore inusuale del mare, il gonfiarsi di una vela al vento.

Indubbiamente, come matematico ci sapeva ancora fare. Ora si voleva ritrovare, però, anche nelle vesti di una persona qualunque che sappia godere di una vacanza, in posti nuovi, con nuove persone, nuovi cibi e nuovi odori. Anche se non era iniziata proprio così, la sua permanenza a Rapallo stava lentamente diventando il frutto di una piacevole scelta personale. Era la fine di giugno e quel periodo dell’anno sembrava fatto apposta.

Il porticciolo gli ricordava quello di Siracusa, ma questo era un vero gioiellino, con tutte le barche a vela allineate, con le colonnine per i rifornimenti numerate e funzionanti, con i cestini della carta straccia al loro posto e con i camminamenti di legno così lucidi e puliti da sembrare installati da appena un giorno. La gente andava con passo disteso e tranquillo, senza il vociare disordinato della sua città. E come era differente il verde della vegetazione che attorniava il golfo! Così ben curato, di un colore deciso, forte e intonato al blu profondo delle acque del golfo.

Il paesino sembrava sonnecchiare tranquillo, come per una siesta dopo un lauto pranzo, senza sciatteria, senza il fastidio dello scirocco, senza la pigrizia di chi fa solo trascorrere il proprio tempo ai tavolini di un bar. In quel posto, sia gli abitanti che i tanti turisti che incontrava, gli sembravano personaggi di un angolo di mondo e di mare dimenticato.

Avrebbe voluto andare un po’ in giro, oltre quei promontori che vedeva in lontananza: a Portofino, a San Fruttuoso, in qualcuno dei paesini delle Cinque Terre. Purtroppo si era ripromesso di andare da Max nel primo pomeriggio e il tempo non gli sarebbe bastato.

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“Come sarebbe bello vivere da queste parti”, si disse.In fondo cosa lo legava a Siracusa? La moglie non

lavorava e di sicuro, per come la conosceva, l’idea le sarebbe andata proprio a genio. Il figlio avrebbe trovato un ambiente più vicino ai propri interessi, aveva un’età tale che si sarebbe ambientato in pochissimo tempo e poi ne avrebbero giovato anche i suoi studi, così a due passi da Genova, per non parlare di Pisa. Al momento dell’università dove altrimenti sarebbe andato? Che università avrebbe scelto? Magari lontano dalla Sicilia, e già si vedeva, lui con Maria, soli in quella vecchia casa di Siracusa.

Era l’ultima occasione: cinquant’anni appena compiuti. Sarebbe stato sicuramente ancora in grado di affrontare un trasloco, e non solo dal punto di vista fisico. Per quanto riguardava il lavoro avrebbe potuto chiedere un trasferimento, oppure vivere con le ripetizioni di matematica che, sicuramente, in un posto di vacanze, pieno di vacanzieri con figli al seguito, non sarebbero mancate. Vacanzieri ricchi con figli rimandati in matematica. Due, tre mesi di ripetizioni gli avrebbero reso più di un intero anno scolastico. Ma poi chi l’aveva detto che doveva continuare a fare l’insegnante? Avrebbe potuto chiedere di andare in pensione in anticipo e qualche altra attività per arrotondare l’avrebbe sicuramente trovata, nel campo del commercio, come consulente, come operatore turistico. Era una città talmente viva e sveglia che non avrebbe avuto difficoltà economiche, neanche nella malaugurata ipotesi di non riuscire a ottenere il trasferimento e di non avere diritto all’anticipo della pensione.

Gli frullò per la testa di proporsi a Max come socio. Sarebbe stato un lavoro divertente e creativo. Tanto per mettere sul tappeto tutte le variabili in gioco, si ripromise anche di informarsi su come aprire una azienda pirotecnica tutta sua. Avrebbe puntato sulla specializzazione e innovazione, forte di una cultura scientifica, matematica, fisica e chimica, che finalmente poteva mettere a frutto. Avrebbe fatto qualcosa di nuovo e, dato l’apprezzamento che i giochi pirotecnici godevano da quelle parti, avrebbe potuto creare un centro di eccellenza.

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“Hai visto che miseri laboratori hanno tutti quei fuochisti?” si ripeteva. “Hai visto che non sono altro che ex pescatori o contadini convertiti a un mestiere che fanno solo per tradizione e senza alcuna cultura alle spalle?”.

Erano sogni ad occhi aperti che lasciava fluire liberamente, come quando, nella risoluzione di qualche problema matematico, dava libero sfogo alle ipotesi più improponibili. Era consapevole delle assurdità che rimuginava. Talvolta questo metodo l’aveva premiato. Il più delle volte si era trattato solo di un piacevole ma inutile esercizio mentale.

Nel rientrare dalla passeggiata – fra una fantasia e l’altra si era spinto oltre il molo del porto turistico – non sapeva se volgere lo sguardo a destra sullo specchio d’acqua, o a sinistra sulle numerose costruzioni liberty e neoclassiche che testimoniavano il glorioso passato di quel borgo marino.

Gli alberghi si susseguivano numerosi, intervallati da bar, ristoranti, caffetterie e sale da tè. Quello che aveva scelto non era niente male, sicuramente caro ma si complimentava per quella scelta pur frettolosamente presa, pochi giorni prima, in preda alla delusione di un viaggio inutile. Ci passò davanti e proseguì oltre: non era ancora sazio di vedere. Ogni piccolo particolare, un’edicola intravista su un muro, un balcone fiorito, una lapide su un elegante palazzo, lo spingevano a casaccio per vie e vicoli nei quali si perdeva con piacere.

Quante lapidi su quei muri! Una era in memoria di tre rapallesi garibaldini, partiti al seguito dei Mille, tante altre indicavano la casa dove aveva soggiornato qualche famoso personaggio: Nietzsche, Roosevelt, Guy de Maupassant, Hemingway, Freud, Kandinskij, e chissà quanti altri ancora.

“Se tante persone così importanti e così di cultura hanno scelto questo posto”, pensava, “un motivo ci sarà pur stato”.

Storia e turismo si intrecciavano a ogni piè sospinto. Chissà però che prezzi avevano le case! Tanto per curiosità entrò in una agenzia immobiliare lungo la strada che conduceva al palazzo comunale. Seppe che Rapallo aveva il

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vanto in tutta la riviera ligure del più basso prezzo degli immobili. Questo, come gli spiegò un gentilissimo impiegato, derivava dalla massiccia presenza di seconde case, per lo più di proprietà di milanesi e torinesi, con un’offerta che sovrastava la richiesta.

“Pensi”, gli disse l’impiegato dell’agenzia, “che Rapallo, fra tutti i comuni medio grandi d’Italia, è al quinto posto per gli introiti comunali derivanti dall’ICI”.

“Quindi, mi immagino”, gli fece Guglielmo, “che non ci sia da lamentarsi per i servizi pubblici, trasporti, scuole…”.

“Proprio così. Magari oggi non è più il tempo di quando ci veniva a villeggiare Soraya, ma io personalmente questa città non la cambierei con nessun’altra in Italia… ci si vive come in paradiso, ci si conosce tutti; e il nostro clima, poi, dove lo mette? Conosco tanti professionisti che lavorano a Genova o a la Spezia ma abitano qui… trenta chilometri e sono a casa”.

Dopo un veloce sguardo al palazzo comunale e alle lapidi che ricordavano eventi storici della prima guerra mondiale a lui ignoti, ormai troppo stanco per approfondire oltre, sazio di cultura e di curiosità, decise che era ora di cercare un ristorante.

Dopo pranzo, quando nella hall dell’albergo chiese la chiave della stanza, tornò a rendersi conto che stava vivendo da esule ormai da troppo tempo: prima da fuggiasco, ora da incosciente, in un posto all’altro capo d’Italia dal quale non aveva più dato notizie a casa. Involontariamente glielo rammentò il portiere, chiedendo:

“Il signore si trattiene ancora?”.“Veramente non saprei… ha ragione, ma vede… sto

aspettando la conclusione di un affare. Domani mattina saprò essere più preciso. Non le dispiace vero?”.

Poi continuando solo a se stesso:“Devo proprio decidermi a telefonare. Chissà cosa sta

pensando Maria. Domani le faccio una sorpresa… prima però

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voglio concludere questo progetto con Max e poi vediamo… avrò le idee più chiare”.

Si avviò in camera per un riposo pomeridiano prima di rifare con tutta calma la strada che lo avrebbe riportato da Max. Stentava a riconoscersi: normalmente, in simili circostanze, con quei fogli pieni di calcoli e con quell’idea che gli frullava per la testa, avrebbe saltato pranzo e riposo per correre a mettere un punto fermo sulla faccenda.

“La mamma se lo sentiva che saresti venuto”, gli disse Max.

La giornata lavorativa era finita, il laboratorio era chiuso e la vecchia stava trafficando con sedie e sgabelli che portava sullo spiazzo davanti la porta di casa.

“Buonasera professore”, gli fece la vecchia. “Ha visto come si sono allungate le giornate? Si ferma a cena con noi, vero? Guardi che spettacolo qui fuori. D’estate ceniamo spesso qui, come in una scampagnata, con il sole che ci tramonta lentamente davanti. Ma ancora è presto… vada, vada pure a chiacchierare con Max, penso a tutto io”.

Lo guardò con gratitudine, si voltò verso Max che era rimasto in disparte sul limitare dello spiazzo, dove aveva accolto Guglielmo, e continuò nel lavoro.

“Vedo che hai studiato” disse Max. “Tutti quei

fogli…”“E i compiti mi sono venuti proprio bene. Avevo

ragione io”.“Spiegami con parole semplici cosa vorresti fare. Vieni

andiamo dentro sul mio tavolo che si ragiona meglio”.“Vedrai, vedrai…”.Ricomparvero, raggianti ambedue, dopo oltre un’ora.

La vecchia chiamò il marito che venne fuori dalla casa con l’immancabile pipa in bocca e, fra un convenevole e l’altro, fecero sistemare Guglielmo a capotavola. Aveva di fronte il panorama che si srotolava al di sotto di una collinetta, verso la

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costa e verso il chiarore del giorno che andava lentamente smorzandosi.

“Ma se partiamo con questo progetto, caro professore, dovrai essere presente anche tu alla festa… vedi di organizzarti; è fra meno di una settimana”.

“Infatti, pensavo di approfittarne e fare venire su anche mia moglie; ci vediamo la festa e poi rimaniamo qualche altra settimana a Rapallo. Ho anche voglia di vedere le Cinque Terre… ho visto al porto che c’è un servizio di battelli”.

“Ottima idea. É tutto OK allora. Domani porto questo progetto in Questura… le solite autorizzazioni; ogni nuova figura pirotecnica deve essere programmata per bene e ci vuole il parere degli artificieri della polizia. Ma a me la danno subito l’autorizzazione. Il sindaco e il questore ci tengono a fare uno spettacolo di grido. Ci mancherebbe altro!”.

“Che bella città che è Rapallo! Mia moglie ne sarà contentissima; speriamo che riesca a convincere anche mio figlio”.

“Se può esserti d’aiuto fagli sapere che qui da luglio in poi è pieno di tedeschine… i giovanotti vengono apposta da Genova. Quanti anni ha tuo figlio?”.

“Se fosse per me rimarrei tutta l’estate”. Poi dopo un silenzio pensieroso, Guglielmo riprese:

“Anzi sai che ti dico? Non hai per caso bisogno di aiuto? Hai altre iniziative in programma, non è vero? Mi offro volontario… mi diverte proprio questo lavoro… sempre se non sono d’impiccio”.

“Che dici mai? Non potrei sperare in meglio… ma mi sento in imbarazzo… Senti, se ti va, potrei ospitarti con tua moglie e tuo figlio a casa mia. É vero, mamma” disse rivolto alla vecchia che pendeva dalle sue labbra. “É vero che abbiamo disponibile la stanza di Piero?”.

“Sicuro… da quando tuo fratello vive per conto suo questa casa si è fatta grande…”.

Iniziò la cena e i discorsi continuarono fra i racconti delle meraviglie che Guglielmo aveva visto durante la passeggiata mattutina, da una parte, e i sogni ad occhi aperti di

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Max sull’effetto che avrebbero fatto i fuochi, dall’altra. Max si agitava sulla sedia. Muoveva le mani col pugno chiuso come a mimare il lancio dei botti, sibilava con le labbra strette, ricreava con la bocca il suono delle esplosioni e, rimestando l’aria in cerchio, faceva ricadere milioni di stelline colorate e infuocate. La madre serviva le pietanze e non osava interrompere quella animata conversazione. Il vecchio padre interveniva ogni tanto solo con cenni di assenso o per dire:

“Sì, sì…”.“Ma lo sapete a cosa potremmo arrivare?” fece Max

con un bicchiere di vino in mano.“Dobbiamo brindare al futuro della rinomata ditta Max

Fuochi. Al campionato di Omegna… ogni anno, sul lago d’Orta, ci sono i più famosi giochi pirotecnici del mondo. Vengono ditte da ogni nazione e finisce sempre che vincono i cinesi. A noi ci è sempre mancato qualcosa per essere al loro livello… ma ora… che ne dici professore? Li freghiamo per bene. Anzi… studiami pure una traiettoria per lanciarglielo nel di dietro”. Un gestaccio della mano e una sonora risata accentuarono il concetto.

Guglielmo fece solo un mezzo sorriso; era preda dei pensieri con i quali stava già facendo una telefonata divenuta ormai veramente improcrastinabile.

L’indomani era la prima cosa che avrebbe fatto.

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Capitolo 11

“Pronto, Maria…”.“Ma dove sei finito? È tutta la settimana che aspetto

che ti fai vivo. Stai bene?”.“Sì, sì… sono a Rapallo, sai nella riviera ligure…”.“A Rapallo? E che cavolo ci fai a Rapallo? Io ti

credevo ancora a Pisa… ti costava troppo una telefonata?”.“É una storia lunga… sai quel mio collega di università

di La Spezia… Fiorelli… comunque ti volevo dire… É proprio un bellissimo posto di mare”.

“Ma allora non sei a Pisa? E il convegno? Meno male… sapessi che ansia…”.

Un sospiro e un tono più basso nella voce di Maria gli smorzarono il coraggio col quale aveva iniziato la telefonata. Qualcosa in Maria tradiva preoccupazione. Rispose:

“Come meno male? Che vuoi dire? Meno male cosa?”.“Non hai saputo? C’è stato un attentato proprio lì, a

Pisa… hanno messo una bomba in una università, un laboratorio… non ho capito bene… pare ci siano feriti, forse un morto. L’ho sentito alla radio appena sveglia e non sapevo proprio come fare a rintracciarti… stavo per telefonare a quella scuola dove c’era il convegno, ma non avevo il numero… Grazie al cielo hai telefonato tu. Ma ti rendi conto? Te ne vai in giro, ci lasci senza notizie, a Pisa fanno esplodere le bombe, e tu dici di essere a Rapallo…”.

“Credimi, non ne sapevo niente… vedrai che saranno le solite manifestazioni di qualche gruppo studentesco… è una città calda Pisa. Comunque io sono qui da un paio di giorni… sono qui perché… perché… ti ricordi che te lo avevo detto? Sono stato con quel mio collega… Che c’è di male? Anzi è proprio questo che volevo dirti… Che fa Filippo ora che è finita la scuola? E tu? Sì, cioè… mi era venuta un’idea”.

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“Ma quando torni, insomma?”.“Piuttosto, perché non mi raggiungete qua, tu e Filippo,

facciamo un paio di settimane di vacanza e… vedrai che posti… un posto da viverci per tutto l’anno… che ne pensi?”.

Un silenzio all’altro capo del telefono costrinse Guglielmo a un veloce esame. Si ripeté mentalmente le quattro parole che aveva appena scambiato con la moglie. Si era forse spinto troppo in avanti con quei confusi progetti del giorno precedente?

“Pronto… ci sei?”.“Sì, ci sono… ma che idee ti vengono… proprio tu che

sembrava che stessi partendo per l’esilio. Così all’improvviso? Scusami… sono ancora tutta agitata per la notizia della bomba… parlavano dell’università e…”.

“Ma quando è stato di preciso? Non ti ricordi di che università parlavano? … e hai parlato con qualcuno della Normale? …comunque… come vedi sono vivo e vegeto… Allora non vuoi farla una bella vacanza? Pigli l’aereo e sabato ci vediamo… ti vengo a prendere, a Genova o a Pisa”.

“Ma non così. Dovrei disdire l’appuntamento con il dentista… e poi come? Sai che sono spese… Ma Rapallo è vicino a Pisa?”.

“Insomma… se non ne approfittiamo ora… io ho il viaggio già pagato… Senti, parlane anche a Filippo e poi ci risentiamo di pomeriggio. Ora devo andare… intanto mi informo per qualche pensione qui vicino. Ti richiamo io. Ciao”.

Non era il caso di spiegare oltre qual era la vera motivazione di tanto entusiasmo. Anche a cena, la sera prima, con Max, si era tenuto sulle generali: certo, gli aveva esternato tutto il proprio interesse per le attività pirotecniche, ma di scelte più radicali non ne aveva volutamente parlato. Erano pensieri e desideri che dovevano maturare ancora un po’. Se Maria fosse veramente venuta per una vacanza di un paio di settimane, forse l’argomento si sarebbe chiarito e sviscerato più facilmente. Forse si sarebbe risolto spontaneamente da solo.

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Era o non era lei quella più propensa a nuove avventure? Non si lamentava sempre che a Siracusa faceva una vita di provincia lontana dal mondo?

Per il momento non voleva scoprirsi troppo. Dal tono perplesso di Maria capiva che aveva fatto la figura di chi non ha la testa sulle spalle. Maria lo conosceva troppo bene e l’improvvisa proposta di vacanza, già solamente quella, l’aveva sicuramente insospettita. Per fortuna erano perplessità facilmente smontabili e si capiva benissimo che lei era a un passo dal cogliere al volo quell’offerta. Non era il momento di parlare d’altro.

Aveva la curiosità di sapere come era finita con l’autorizzazione della Questura e come era stato giudicato il progetto della cupola di fuoco sul mare. Voleva anche parlare con Max, se non altro, per sfumare un po’, anche con lui, tutto l’entusiasmo con il quale, la sera prima, si era offerto di dargli una mano.

Guglielmo cominciava a pensare che forse era stato troppo precipitoso. Si sarebbe potuto trovare in una strada senza ritorno, e alla sua età certe scelte poi si pagano care. Con un figlio in un momento così delicato… e che fare poi della casa di Siracusa? E chi avrebbe badato ai genitori, ormai non più autosufficienti? Una miriade di pensieri su stupide cose e impegni da portare a termine, gli scorreva caoticamente innanzi: trovare una casa, studiare la disposizione del mobilio, tutti quei libri che possedeva, il parcheggio per l’auto sotto casa, il cambio della banca, i documenti di residenza, il medico di famiglia, la scuola di Filippo…

Mentre rinnegava quelle fantasie che, appena il giorno prima, aveva dato per fattibili, contemporaneamente confidava nel fatto che, al minimo accenno, sarebbe stata proprio lei, Maria, a decidere anche per lui. Era inutile, per il momento, continuare a organizzare qualcosa. Anche con Max sarebbe stato opportuno tirarsi indietro e attendere gli eventi.

Nel pomeriggio avrebbe convinto Maria. Le avrebbe proposto semplicemente una vacanza di una settimana, in un posto dove - doveva convincersi che era questa la verità – lui

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aveva fatto il turista, alla conclusione dei due giorni di congresso a Pisa. Nient’altro.

Si vedeva già all’aeroporto ad aspettare Maria. Avrebbe preso una macchina a noleggio e l’avrebbe portata a Rapallo…

Assolutamente no! Se si fosse incontrata con Max? Sarebbe crollato il castello che aveva costruito e sarebbe venuto fuori tutto: la sostituzione delle scarpe, la ricerca del legittimo proprietario, la diserzione dal convegno. Si rendeva perfettamente conto che erano state solo sue risibili ossessioni, ma non sarebbe mai riuscito a raccontarle. Gli altri non avrebbero capito né giustificato quelle fobie, proprio perché troppo risibili per essere state occultate con tanto accanimento.

Si ripromise allora di informarsi meglio su qualche altro posto della riviera per quella vacanza che, nonostante tutto, sentiva necessaria.

Ritenendo adatto qualche paesino delle Cinque Terre, chiese a un giornalaio una guida turistica di quei posti. Comprò anche un quotidiano, casomai venisse riportata la notizia dell’attentato di cui gli aveva parlato Maria. Nelle pagine di cronaca c’era quanto cercava.

La notte precedente – le notizie erano ancora frammentarie dati gli orari di chiusura dei giornali – a Pisa, alla sede del CNR, erano stati fatti esplodere un paio di ordigni che avevano danneggiato la portineria e ferito gravemente una guardia giurata. L’indomani (oggi per chi leggeva il giornale), al CNR di Pisa si sarebbero festeggiati i quindici anni dal primo collegamento della rete Internet in Italia. Erano previsti quattro giorni di incontri ed eventi scientifici, per celebrare ciò che aveva cambiato il modo di comunicare di una intera società.

Guglielmo cercò un posto per sedersi. Quella notizia lo turbava e immalinconiva al tempo stesso. Conosceva bene quei laboratori; da studente vi aveva passato le nottate a forare le schede per i calcolatori dell’epoca.

Tornò irrequieto all’articolo del giornale.

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Dalle prime indiscrezioni, l’atto terroristico era da ricollegare alle azioni di protesta e di dissenso che vari gruppi estremisti portavano avanti da tempo contro ciò che ritenevano la causa primaria del male oscuro della globalizzazione economica e sociale. Una scritta nera rinvenuta sul muro di cinta, accanto al luogo dell’esplosione, avvalorava la tesi della pista anarchica: GAT, con la lettera A all’interno di un cerchio. Un gruppo di estremisti clandestini che altre volte aveva fatto parlare di sé: il Gruppo Anarchici Toscani.

La guardia giurata era stata coinvolta quando, notando dei movimenti sospetti per la strada, era uscita dalla portineria. Due individui erano subito fuggiti a bordo di una moto e lui era stato investito in pieno dallo scoppio di un ordigno posizionato proprio lì accanto. Fortunatamente una seconda bomba era stata trovata inesplosa poco lontano. Gli artificieri della Questura avevano potuto verificare che si trattava di un ordigno rudimentale, confezionato con un esplosivo tristemente noto per essere stato più volte utilizzato in azioni terroristiche. Era un esplosivo comunemente utilizzato anche per usi civili, nelle miniere o nelle cave di marmo.

Guglielmo rimase imbambolato con il giornale in mano. Non voleva dare retta alle sensazioni che provava. Arrivare a tanto gli sembrava veramente mostruoso. Anche lui odiava cordialmente Internet e tutti i deliri di onnipotenza connessi a quel mondo, ma una cosa era criticare, un’altra mettere le bombe, uccidere chi poi magari, come quella guardia, non c’entrava nulla con l’informatica.

Ma non erano questi i veri pensieri per i quali si era bloccato inebetito, con il giornale che lentamente scivolava per terra. Stentava a portare razionalmente in superficie un turbamento ben più profondo.

Doveva trattarsi di una coincidenza. Carrara è la sede storica degli anarchici, e non solo toscani; gli esplosivi per gli usi civili hanno spesso la stessa composizione delle polveri usate nei fuochi d’artificio; e quand’è che aveva visto quella sgangherata Renault rossa che stava caricando qualcosa dal deposito di Max?

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“…cavolo d’un carrarese…” aveva bestemmiato Max.

No, non poteva essere. Vuoi che un cavatore di marmo si rivolga a un pirotecnico, con tutti gli esplosivi di cui può disporre per il proprio lavoro? Era strano… sicuramente doveva trattarsi di una coincidenza fortuita. Non poteva essere altrimenti. Cercò di cacciare via l’immagine di Max che gli si stava prepotentemente formando in mente. Figurarsi… aveva già sbagliato una volta a giudicare quel tipo: l’aveva ingiustamente trasformato in un mostro, in un vendicativo, quasi in un avanzo di galera. Doveva andarci cauto con le sue ossessioni.

Per non perdere tempo si servì di un taxi. Si fece lasciare sullo spiazzo della casa di Max e vide con piacere il furgoncino posteggiato al solito posto. Max era in casa. Non sapeva bene perché, ma lo considerava un buon segno.

Il laboratorio sembrava deserto: nessun rumore e nessuna traccia di persone al lavoro. Bussò e come avesse innescato un ordigno, sentì dall’interno un improvviso fragore di sedie spostate, passi di persone e il vocione del vecchio che tuonava:

“Fermi tutti! Ci penso io… Ci parlo io!”.La porta si aprì. Il vecchio lo guardò stupito e,

smorzando la voce, fece:“Ah, è lei professore? Scusi l’accoglienza, ma siamo

tutti con i nervi a fior di pelle… avrà sentito… che disastro, che vergogna…”.

Dietro al vecchio c’era tutta la famiglia, la vecchia moglie, il cugino e un giovane, alto e muscoloso, all’incirca dell’età di Max e che, dalla somiglianza, doveva essere il fratello. Lo fecero entrare, muti e con gli occhi bassi. Nessuno gli presentò quel giovane. Lucio non lo salutò neanche e sembrava volersi allontanare.

La vecchia non disse una parola. Guglielmo intuì qualcosa e l’abbracciò come fosse sua madre.

“Lei dev’essere il professore che…”, gli fece il giovane.

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Guglielmo si limitò ad annuire non trovando cosa dire. “Mi chiamo Piero, sono il fratello di Max. Venga,

venga…”. Lo spingeva fuori con aria decisa.

“Siamo tutti caduti dalle nuvole. Io sono arrivato prima possibile, l’ho saputo per telefono e sapesse come ho trovato quei poveri vecchi… da non crederci. Ho potuto ricostruire qualcosa da quanto mi ha detto Lucio. Era presente anche lui quando sono arrivati i carabinieri”.

“Carabinieri?”.“Sì, dice che lui e Max avevano appena aperto il

laboratorio… un paio di ore fa…”.

Più Piero raccontava, più Guglielmo avrebbe voluto scappare, sprofondare e nascondersi come fosse stato lui l’artefice dell’attentato a Pisa. Ma che c’entrava Max? Non osava fare alcuna domanda, né Piero sembrava al corrente dell’attentato, o almeno non ne voleva parlare.

Raccontava solamente che erano arrivati in quattro, tre in divisa e uno, che sembrava il capo, in borghese. Erano armati come se stessero cercando un pericoloso bandito. Potevano essere state le sette o poco più. Avevano un mandato di perquisizione e non volevano spiegare nient’altro. Max e Lucio, che erano avvezzi a quei controlli, avevano subito tirato fuori tutte le carte, le autorizzazioni e le licenze del loro laboratorio; ma loro niente, non gli interessava nulla di quelle carte. Si erano fatti aprire il magazzino… quello là, e avevano cominciato a tirare fuori sacchi, scatoli, contenitori di tutti i tipi. Sembravano sapere bene cosa cercare.

Fra di loro non parlavano. Solamente uno, venendo fuori dal magazzino con un sacco di carta mezzo pieno, evidentemente con qualche sostanza pirotecnica dentro, aveva esclamato al capo:

“Trovato”.“E cos’era?” chiese Guglielmo, pur sapendolo

benissimo.“Non so, Lucio mi ha detto una sigla… non ricordo…

uno dei soliti materiali che maneggiano loro. Ah, ricordo… ha

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detto ANFO o qualcosa di simile. Ma tutto in regola, con tanto di bolla di acquisto…”.

“E allora?”.“Niente da fare. Hanno detto che Max doveva venire

con loro in caserma per accertamenti e sono andati via con le sirene spiegate”.

“Quindi non si sa di cosa lo accusano? Possibile che… e dove lo hanno portato?”.

“Stavo giusto per andare a parlare con qualche avvocato… sentiamo come dobbiamo muoverci. Non so proprio cosa aspettarmi… sembra un brutto sogno… Ma io lo conosco bene Max, può dare l’impressione del facilone ma con le leggi è sempre stato più che preciso. Mai una contestazione, mai un verbale…”.

“Se posso fare qualcosa…”.“No, no, grazie… l’ho portata qui fuori perché,

capirà… i miei sono talmente distrutti che non vogliono parlare con nessuno. Li scusi… è già stato tanto gentile a venire fin quassù… se vedo Max gli porto i suoi saluti. Ora mi scusi veramente”, e lasciò Guglielmo sullo spiazzo.

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Capitolo 12

Maria non rispondeva. Guglielmo, con la cornetta in mano, vagava mentalmente di stanza in stanza a rincorrere, all’altro capo del telefono, quegli squilli che cadevano nel vuoto. Il telefono dello studio era in una posizione scomoda, su una mensola, stretto fra file di libri; Maria dalla cucina ci avrebbe messo ancora del tempo per rispondere.

“Quando torno ne debbo fare mettere uno nel corridoio”, si disse. “Potrei far posto eliminando le vecchie riviste che tanto non legge più nessuno”.

Il telefono continuava a squillare. Anche quello che era nella camera di Filippo.

Era sempre lui il primo a rispondere.“Chiudi mamma, è per me”. E per oltre mezz’ora chi

telefonava avrebbe trovato la linea occupata. Chissà cosa aveva da dirsi di così importante con i compagni. E lo vedeva mentre tenendo con una mano il telefono smanettava sul computer o cercava freneticamente qualcosa fra le cianfrusaglie di elettronica che teneva sulla scrivania. Per un attimo rivide se stesso, alla stessa età, solo che la scrivania era un tavolaccio in una cantina, e al posto delle apparecchiature elettroniche c’erano viti, bulloni e cuscinetti.

Lasciò il figlio, che neanche si era accorto della sua presenza, e si fermò un attimo in corridoio. Era buio, non riceveva luce da alcuna finestra. Vi si aprivano solo le porte dello studio e delle camere da letto.

La finestra dell’albergo di Rapallo in cui si trovava, invece, inondava la camera con la luce calda di una giornata già inoltrata.

Passò nel suo studio; sulla libreria il telefono squillava ancora. Spalancò il balcone che dava su via Roma e uscì a farsi baciare dal sole di Siracusa. Sporgendosi appena, alla fine

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della via poteva scorgere una striscia di mare che brillava. A sinistra il brulicare di tanta gente, chi rincasava, chi usciva soddisfatto da qualche negozio, chi con calma e tranquillità pareva non sapere dove andare. Tutte quelle persone gli tennero compagnia, finché la linea non cadde e si ritrovò, con una cornetta in mano, in un paese straniero, in una stanza d’albergo che non gli diceva nulla.

Ripensava alla visita dei carabinieri e alle parole che gli aveva detto Piero. Era la prima volta che si incontravano ed era strano che a farsi avanti non fosse stato Lucio. In effetti fra tutti era quello che aveva manifestato più imbarazzo che dispiacere. Non era stato proprio lui ad accoglierlo in quella maniera sfuggente, la mattina della Renault rossa, mentre Max terminava di parlare con quel signore di Carrara?

Lucio doveva per forza aver capito che i carabinieri non erano venuti per una semplice perquisizione. Era consapevole del fatto che non si trattava solo di detenzione di materiale vietato e sicuramente cominciava a temere anche per se stesso. Ma gli altri, sapevano anche loro?

In ogni caso l’idea che ormai Guglielmo si era fatta era chiara. Era una faccenda pericolosa; anche per lui che aveva, con tanta familiarità, frequentato la casa di un dinamitardo.

Ripensava alla vecchia madre di Max e ne capiva tutta l’angustia.

E se i carabinieri avessero cercato anche lui? Se Max, per difendersi, avesse raccontato che la sera precedente era a casa, e che oltre ai genitori avrebbe potuto testimoniare anche un amico ospite a cena? Ma a che sarebbe servito? Anche ammesso che non fosse implicato in prima persona, un’accusa di favoreggiamento non gliela levava nessuno. Le indagini si sarebbero estese alla ditta, ai parenti, alle sue amicizie e alle sue recenti frequentazioni.

Avrebbe dovuto testimoniare anche lui. Anche non volendolo sarebbe stato costretto. Decise che avrebbe confermato la propria presenza, in un paio di occasioni, in quella casa. Come ospite occasionale. Nulla di

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compromettente. Si, forse aveva visto quella macchina rossa che caricava qualcosa nel bagagliaio, ma che ne sapeva lui dei commerci di Max? E poi da lontano non avrebbe potuto né sentire di cosa parlavano né vedere bene quell’interlocutore. Lui era andato da Max solo in visita di amicizia: voleva parlargli di una certa faccenda per la quale si era offerto di aiutarlo.

Che faccenda? Si sa come si ampliano a macchia d’olio le indagini, i sospetti, i collegamenti. Da quando conosceva Max? Che rapporti aveva con lui? Un professore di matematica venuto apposta dalla Sicilia? Via, non scherziamo…

Chi avrebbe mai creduto alla storiella delle scarpe gialle? Sai le risate dell’ispettore. Ma la buona fede era dalla sua parte. A patto di cedere alla gogna che ne sarebbe seguita.

Avrebbe citato il portiere dell’albergo di Pisa, che aveva sicuramente visto quelle scarpe, il negoziante di Rapallo dove aveva comprato i nuovi mocassini, l’impiegato del comune… e poi il corpo del reato era ancora lì, ricordava benissimo dove erano state buttate quelle maledette scarpe gialle; in un angolo del laboratorio. Forse doveva andare a recuperarle e tenersele ben strette: sarebbero potute servire.

Pazienza! Doveva per forza andare tutto storto. Continuare ad andare storto, così come tutto era cominciato. Ma meglio la vergogna che il carcere. L’avrebbero capito anche a casa. Era pronto a mettersi a nudo. Era pronto a pagare. In fondo se l’era cercata lui, con quella psicosi, con quella fobia ossessiva del giudizio altrui di cui non riusciva a liberarsi.

“Devi imparare a ridere anche di te stesso”, gli aveva detto una volta Maria.

Facile a dirsi, ma di che avrebbe dovuto ridere, ora, in questo incubo dal quale non riusciva a venire fuori?

Non rimaneva altro da fare che tornare dai vecchi genitori di Max e, con una scusa, chiedere se poteva riavere indietro le scarpe gialle. Non riusciva, però, a trovare una motivazione da addurre senza far trapelare i suoi sospetti. Per

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la verità non trovava neanche il coraggio per fare quel passo, così sfacciatamente fuori luogo. Era come chiedere, a un funerale, se ci si poteva portare a casa i vestiti del defunto con la motivazione che tanto a lui non sarebbero serviti.

Ancora con queste maledette scarpe gialle!No. Basta, ora era veramente troppo. Al diavolo le

scarpe, al diavolo queste ubbie, al diavolo anche Rapallo. Se ci fosse stato bisogno di lui sapevano dove trovarlo. Avrebbe saputo come affrontare la situazione, all’occorrenza anche mettendosi in ridicolo. Questo problema lo stava facendo ammattire.

La sua casa era a Siracusa; dall’indomani sarebbe stato lì, nel suo studio, con i suoi libri, con la sua poltrona. Avrebbe preso il caffè sotto casa e ringraziato quel gentilissimo barista, avrebbe rivisto un porto e un mare che di storia e di bellezza ne aveva cento volte più di Rapallo e sarebbe tornato a fare ciò che in fondo sapeva fare benissimo. Il suo compito era quello di essere un bravo professore di matematica. Era stimato da tutti e aveva una moglie e un figlio invidiabili. Volete sapere altro? Chiedete pure. Sono pronto a spiegarvi ogni cosa. Volete ridere? Ascoltate…

Uscì da quel buio tunnel, deciso a rifare la telefonata che Maria sicuramente aspettava. Pocanzi doveva essere uscita per fare qualche compera. Ma ora si era fatta ora di pranzo e lei sarebbe stata a casa. Guglielmo aveva deciso, ma per confermare a se stesso questa risolutezza doveva ancora fare qualcosa.

Rimandò la telefonata al pomeriggio.

Scaraventò nel cestino dei rifiuti le sue vecchie scarpe che gli aveva riconsegnato la madre di Max e, tirato in fuori il petto, prese a osservarsi allo specchio. Vedeva un uomo spaurito, con la barba lunga di una settimana, una camicia sgualcita e sporca e con una giacca invernale per nulla adatta al tepore che entrava dalla finestra. Forse era anche per quella

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giacca, indossata ininterrottamente per tutta la settimana, che si sentiva così accalorato.

Ad apertura dei negozi si procurò ciò di cui aveva impellente bisogno: un paio di jeans, una camicia a quadri a maniche corte, biancheria di ricambio e tutto l’occorrente per la barba. In un negozio di articoli sportivi acquistò un borsone di tela, con sui fianchi immagini di barche a vela su uno sfondo azzurro. In una agenzia di viaggi, di fronte al castello, fece il biglietto per il ritorno e decise che poteva finalmente telefonare a Maria. L’indomani sarebbe stato a Siracusa.

Rientrando in albergo, costeggiò da lontano il castello. Una squadra di operai stava montando delle incastellature, quasi a imbrigliarlo in una trama di tubi. Erano i preparativi per la festa che si sarebbe svolta da lì a pochi giorni: tutti gli avevano sempre parlato di spettacolari cascate di fuoco, che simulando un incendio e scivolando lungo le pareti del castello, avrebbero chiuso i giochi pirotecnici.

Si chiese se provava rammarico. Solo tristezza. Per distrarsi passò dall’altra parte della strada per

curiosare più da vicino su quei lavori. Il cielo, di un azzurro cinerino, si specchiava sull’acqua tutt’attorno alle mura del rudere. Di tanto in tanto pesci guizzanti ne rompevano la perfetta superficie: piccoli e veloci come sardine.

Imboccò lo stretto e breve istmo che collegava il fortilizio alla terraferma. Alcuni bambini giocavano a rincorrersi e a nascondersi dietro resti di muri e dentro nicchie ricavate nello spessore del bastione. Guglielmo, disturbando il loro gioco, non si muoveva e guardava, come dalla tolda di una nave, l’orizzonte del golfo davanti a lui.

Il lungomare, alle sue spalle, era completamente occupato dai bar e dai ristoranti che vi si affacciavano: dovunque piccoli recinti, formati da piante in vaso, con tavolini sotto enormi ombrelloni o all’ombra di alte piante di palma. I primi turisti della stagione, con braccia e gambe che, pallide, fuoriuscivano da magliette e pantaloncini appena comprati, succhiavano granite e gelati, bevevano enormi beveroni colorati e giocavano distratti con i variopinti ombrellini cinesi che ornavano i bicchieri. Qualcuno studiava

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con impegno la guida, altri aspettavano, con la macchina fotografica pronta, che si presentasse qualcosa di interessante da fotografare.

“Sembra di stare alla marina, a Siracusa…” pensò Guglielmo, e si volle sedere anche lui a uno di quei tavolini. C’era ancora tempo per la telefonata.

Si guardava attorno e, senza volerlo, si ritrovò a fare un gioco che spesso faceva osservando da lontano persone sconosciute. Ogni tanto passava qualcuno e lui con l’immaginazione gli cuciva addosso ipotetici scenari: uno era un agente di commercio, vedovo, e in procinto di cambiare lavoro per motivi economici; lo si vedeva dal modo di vestire e dallo sguardo nervoso. Quel trentenne, invece, si era trasferito da poco in città, la parlata era meridionale, non era sposato ed era in cerca di lavoro. A qualche ragazzo cuciva addosso ambizioni e talenti, in un gioco di verifiche e smentite per gli studi che attualmente, secondo lui, stava seguendo. Avrebbe voluto fermarlo per dirgli:

“Gli studi di matematica non fanno per te. Tu dovresti tirare fuori tutto il meglio che hai… dovresti… saresti un perfetto architetto”.

Era solamente un gioco, una distorta e parziale amplificazione di segni colti epidermicamente: un paio di pantaloni sdruciti, i capelli disordinati, la fretta manifestata nel camminare, il modo di parlare.

Così Guglielmo osservava anche se stesso. Si volgeva indietro nel tempo e trovava nella propria infanzia le motivazioni per ciò che, da adulto, era diventato. Si tormentava in assurde analisi della propria vita. Voleva testardamente trovare una tranquillità interiore semplicemente rifugiandosi in un mondo che, però, era troppo lontano per poterlo ricordare con obiettività.

“Ma poi”, gli veniva da dire con rabbia, “cosa mi importa del passato e della felicità di allora? Io voglio essere felice adesso…”.

“Aveva ragione mio padre, quando diceva che fare l’ingegnere o il chimico era un mestiere dai mille rischi… dovrei essergli grato per avermi fatto diventare quello che

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sono. In fondo da uomo maturo non ho mai fatto lo sforzo di piacermi, ma solo di giustificarmi. Se vivessi la vita giorno per giorno, se fossi veramente io a fare questa scelta forse somiglierei di più a Maria. Che solarità che ha e che fiducia nella vita!”.

Il pensiero di Maria gli ricordò che la telefonata non poteva più aspettare. Si avviò verso l’albergo lasciandosi alle spalle, il lungomare, il golfo, il castello.

”Pronto, Maria, come va?”.“Benissimo, e tu? Allora… vuoi proprio che venga? Ho

quasi la valigia pronta…”.“E Filippo?”.“É questo il problema… dovrei lasciarlo solo… dice

che non può saltare gli allenamenti. Ma se è per pochi giorni, potrei… cosa ne pensi?”.

“In effetti… senti, rimandiamo a un’altra occasione, ti dispiace? E poi, anche economicamente… facendo quattro conti… Forse è meglio”.

“E tu allora?”.“Allora cosa?”.“Sì, insomma… quando torni?”.“Parto domani pomeriggio. Mi puoi venire a prendere a

Catania, all’aeroporto… il volo da Genova arriva alle sedici”.“In aereo? Sei sicuro? Ma… ma… prendi l’aereo?”.“In aereo, certamente… si vede che ho fretta di tornare.

Perché, ti dispiace?”.

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Capitolo 13

La settimana più lunga della sua vita era finita. Erano passati solo sette giorni, ma lui si sentiva come se stesse tornando da un viaggio durato sette anni.

Sospinto dalla calca dei passeggeri che si affrettavano a uscire dalla zona di riconsegna dei bagagli, intravide da lontano Maria. Lei sembrava non l’avesse individuato. Guglielmo agitò una mano figurandosi con trepidazione, nello sguardo di lei, la perplessità di chi non è sicuro di aver riconosciuto la persona attesa.

“In fondo sono stati solo sette giorni”, si disse, e, con la sacca a tracolla e la ventiquattr’ore in mano, le si fece incontro con il suo consueto incedere a piccoli passi.

“Non ti avevo visto”, disse Maria, “vestito così… ti sei rinnovato il guardaroba? Sembri un figurino… fatti vedere”.

“Non avevo vestiti di ricambio… come va? Sei venuta da sola?”.

“No, Filippo è lì in fondo. Andiamo? E queste?”, indicando le sue scarpe.

“Hai visto? Come mi stanno? Era un pezzo che avevo deciso di comprarne un paio nuovo”.

Filippo, sbuffando per l’attesa, gli si fece incontro. Squadrò il padre, gli si fermò di fronte e man mano che lo osservava con più attenzione, cambiava quegli sbuffi in fischi di approvazione. Quasi avesse visto una bella ragazza.

“Fico, papà!” esclamò, “sembra proprio una sacca marinara… me la regali? É perfetta per i miei allenamenti… a te non serve, vero papà?”.

Guglielmo si tolse la sacca dalle spalle e la mostrò, orgoglioso, al figlio e alla moglie, voltandola dal lato dove si

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vedeva un bel disegno di velieri sullo sfondo azzurro della tela cerata.

“Sì, certo… a me non serve più. Ti ho anche portato un altro regalo…”

“Per ora andiamo”, intervenne Maria.“No, no, aspetta è proprio qui…” disse Guglielmo,

notando lo sguardo di gratitudine del figlio.“Speriamo che la misura sia giusta”. Tirò fuori dal

borsone una maglietta da canottaggio con i quattro stemmi delle repubbliche marinare.

“Fico, papà! Fichissimo!”. Filippo gli strappò la maglietta dalle mani. Lui gli lesse qualcosa negli occhi e, curvatosi appena, ricevette un bacio sulla guancia.

“E io?” fece, scherzando, Maria.“Per ora questo…” la strinse baciandola sulla bocca,

“ho una sorpresa anche per te. Poi a casa”. Uscendo, per avviarsi alla macchina, Guglielmo

indugiò un attimo guardando la porta scorrevole della sala arrivi. Un cartello indicava gli orari di apertura e chiusura dell’aeroporto: “…chiuso dalle ore 00.00 A.M. alle ore 05.00 A.M.”. Strusciò un dito su quella inutile precisazione, “A.M.”, accanto all’orario “00.00” e poggiò per terra la sacca.

Si toccò il petto ma non aveva la sua solita giacca e non trovò la penna che normalmente teneva in una tasca interna. Fu solo un attimo. Lisciandosi con le mani la camicia a quadri, disse alla moglie:

“E questa non ti piace? Ormai è tempo di maniche corte…”.

In macchina Guglielmo prese a raccontare come aveva trascorso la settimana, tutti i bei posti che aveva visto, la gentilezza di quel collega di La Spezia che l’aveva ospitato, il mare così diverso da quello di Siracusa, il paese di Rapallo…

Maria lo ascoltava con piacere. Filippo voleva sapere tutto sulle scuole di canottaggio che lui raccontava di aver visto.

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“E le imbarcazioni? Le hai viste le imbarcazioni?”, gli chiedeva ancora Filippo.

“E a Pisa? Com’è andata con la tua presentazione? Hai ritrovato i tuoi vecchi colleghi?” gli chiese Maria.

“Un figurone. Sono ancora un matematico che si sa far valere… cosa credi?”.

“Non l’ho mai dubitato”.“Ho incontrato pure qualcuno che ha cambiato

lavoro… o meglio, che si arrangia con lavori dove la matematica non è proprio al primo posto. Sai quelle applicazioni che…”.

“Ti trovo proprio bene; ti ha fatto bene questa rimpatriata a Pisa…”, disse Maria. Poi lasciando un attimo il volante, gli agitò scherzosamente contro una mano in segno di minaccia: “Però questa me la paghi… potevo venire anch’io. Non me la conti giusta. Chissà cosa hai combinato da quelle parti”.

“Sì, sì, scherza pure”.“Non ti ho mai visto scegliere da solo una camicia o un

paio di scarpe. …e i blu jeans all’ultima moda? Quando poco fa sei uscito dalla consegna bagagli ci mancava solo che tenessi pure la camicia fuori dei pantaloni”.

“Sei forte, papà”, interloquì Filippo.“…le scarpe… forse per quelle, sì, ho avuto qualche

difficoltà nella scelta. Ma hai visto come mi stanno bene? Hai da ridire su questa scelta?”.

“No, no, scherzavo. Piuttosto il cuscino?”.“Quale cuscino?”.“Quello che ti eri portato in treno”.“Ah… quello… quel maledetto fagotto. Non sapevo

proprio come fare in aereo, con il borsone e la valigetta… l’ho lasciato lì”.

“Con la federa della zia Antonietta? E così ora mi hai spaiato un completo da letto matrimoniale… ma dove l’hai lasciato?”.

“Che vuoi che sia? Ho pensato che poteva servire a qualcuno che si poteva trovare, così all’improvviso, in difficoltà… sai qualcuno che non riesce a prendere sonno…

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sai quanti barboni ci sono a Genova? Ho visto un centro di raccolta di abiti usati e l’ho lasciato… sapessi come mi hanno ringraziato”.

“Ma sei rincretinito?”.“Mai stato più serio. D’altra parte avevo deciso che non

mi sarebbe più servito…”.“Ma a me sì…”.“Non credo proprio che farò mai più un viaggio così

lungo in treno”. “Potevi almeno levare la federa”.“Era di una leziosità veramente ributtante… ne ho

approfittato per fare piazza pulita”.Il discorso si arenò. Passando lungo la costa a nord di

Siracusa, si vedevano alcuni bagnanti sulla spiaggia.“Ora ci aspetta un’estate di riposo…” disse Maria.

“Puoi mettere per un po’ da parte la matematica … che ne pensi se prendessimo una cabina a mare… all’Arenella?”.

“Ottimo. Niente di meglio per ricaricarsi prima di affrontare un nuovo anno scolastico”.

L’estate passò veloce. In città, per strada, molti ripresero a salutarlo “Buongiorno professore!”, il barista sotto casa gli preparava gentilmente il caffè e lui aveva preso a fare lunghe passeggiate, stupendosi di non aver mai notato particolari, un portone, un negozio, una ringhiera scrostata sul lungomare, che dovevano pur aver fatto parte dei percorsi mattutini per andare a scuola.

Si avvicinava l’inizio del nuovo anno scolastico. Andava ogni giorno a crogiolarsi al sole dell’Arenella e quando incontrava qualche alunno, lo salutava con ampi gesti delle mani.

“Ci rivediamo fra poco, professor Santucci”, gli dicevano. “Purtroppo le vacanze stanno finendo…”.

A un ragazzo che avrebbe fatto l’ultimo anno di liceo disse:

“Coraggio, coraggio… vedrai che sarà l’anno più importante… Il programma non è difficile; il difficile sarà fare la scelta giusta per il dopo”.

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Era tornato a essere il professor Guglielmo Santucci. Per quanto riguardava le sue di scelte, si riteneva finalmente pago di quella che aveva inizialmente ritenuto di non aver mai fatto. Programmava l’inizio dell’anno scolastico e già si rivedeva in classe fra i suoi alunni.

“Quest’anno vedrete, ragazzi”, pensava, “vedrete se non vi ci faccio appassionare alla matematica”.

Un giorno, a pranzo, Filippo stava raccontando della squadra di canottaggio e di come il loro istruttore li riteneva ormai pronti per le gare provinciali della categoria cadetti, che si sarebbero svolte a fine settembre a Cefalù. Guglielmo chiedeva se gli equipaggi fossero già stati formati, sapendo bene che il figlio aveva una predilezione per il quattro con.

“Il mister si è convinto… ha visto che, sui 1500 metri, ho proprio il ritmo giusto per il quattro con”.

“Prodiere o capovoga?”.“Per ora prodiere, ma se mi alleno ancora…”.Maria ascoltava con interesse. Guardava il figlio

quattordicenne, guardava le sue braccia muscolose di uomo fatto e il suo viso così radioso da leggervi dentro tutto il sole e tutto il mare che lo nutrivano. Era felice per lui; era felice per l’interesse che Guglielmo mostrava per quello sport. Distolto lo sguardo dal figlio e rivolto a Guglielmo, disse:

“Lo accompagniamo anche noi, a Cefalù, vero?”.Suonò il campanello della porta.“Vado io”, disse Filippo.

Tornò con uno scatolone di cartone.“Era il corriere… è per te, papà. Viene da Pisa”.Guglielmo, col boccone in bocca, scostando

bruscamente la tavola, agguantò al volo la bottiglia del vino che stava per rovesciarsi e, strappato di mano il pacco a Filippo, cominciò a girarlo e rigirarlo. La fronte gli si era imperlata di sudore.

Da Pisa? Che fossero gli atti del congresso? Non sembrava possibile: la scatola era troppo grande e troppo leggera per contenere libri.

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Lesse attentamente la bolla di spedizione: il nome del mittente lo fece trasalire. Sventrò la scatola e ne trasse fuori un guanciale con una leziosa federa a fiorellini. Maria e Filippo lo guardavano attendendo che dicesse qualcosa.

Prese il fagotto e, messoselo sotto un braccio, iniziò con passo goffo e saltellante ad andare ora verso la moglie, ora verso il figlio.

Rideva, rideva e rideva. Una risata incontenibile gli impediva di parlare.

“Sapete cosa…”, ma non riusciva a dire altro. Più loro lo guardavano sbigottiti, più lui riprendeva a ridere. Rideva di cuore, con sussulti su tutto il corpo, con le lacrime che gli scorrevano ma finalmente libero, libero dai propri incubi, libero di raccontare, libero di ridere.

Rideva; rideva… come rideva Max quando gli erano state restituite le scarpe gialle.

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