24
1 Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica Marco Geuna Pubblicato in Conflitti, a cura di A.Arienzo e D. Caruso, Napoli, Dante & Descartes, pp.19-57 1. Machiavelli 1.1. la centralità della questione del conflitto per tutta la riflessione di Machiavelli Si può sostenere, in prima approssimazione, che per Machiavelli la politica è caratterizzata e segnata dall’esperienza del conflitto: il mondo della politica è dominato dal conflitto individuale e sociale. La politica si misura e si rapporta continuamente con conflitti di diversa natura. Con conflitti interni alla città, alla res publica, allo stato: conflitti fra parti diverse della città o, con altro linguaggio, fra gruppi politici e sociali differenti. E con conflitti esterni alla città, alla res publica: conflitti tra comunità politiche differenti, conflitti tra stati. La politica, pertanto, fa continuamente i conti con la possibilità e la realtà della guerra. Non è dunque un caso che Machiavelli dedichi parte cospicua della sua riflessione al tema della guerra e che il dialogo Dell’arte della guerra sia l’unica delle sue grandi opere pubblicate durante la sua vita. Si può affermare, poi, che la questione del conflitto abbia una sua indiscutibile centralità sia per il Machiavelli teorico politico, dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio fino al Discursus florentinarum rerum, sia per il Machiavelli storiografo, e basti pensare a quest’ultimo proposito al Proemio delle Istorie fiorentine, in cui prende le distanze dall’approccio di Leonardo Bruni e di Poggio Bracciolini proprio su questo terreno 1 . Centralità della questione del conflitto, dunque, tanto per intendere la lezione delle «cose antique», in particolare la vicenda della Roma repubblicana, il paradigma politico positivo, quanto per decifrare le esperienze moderne, ed in particolare la storia di Firenze, per molti versi il modello politico negativo. Sono necessarie, a questo punto, due rapide premesse. La prima. Nelle considerazioni seguenti muovo dall’assunto della sostanziale unitarietà della riflessione politica di Machiavelli, senza ipotizzare radicali svolte o discontinuità tra Il Principe e i Discorsi o tra Il Principe e le altre opere machiavelliane 2 . Condivido la prospettiva interpretativa secondo cui entrambe le opere, scritte nel breve volgere di alcuni anni, probabilmente tra il 1513 ed il 1519 3 , presuppongono una stessa cultura politica, formatasi e stratificatasi in un lungo arco di tempo, e sviluppano tesi antropologiche, politiche e storiche per molti versi convergenti 4 . La seconda premessa. E’ stato argomentato che nelle Istorie fiorentine, l’ultima grande opera del Segretario fiorentino, si possono individuare tanto un riepilogo del pensiero politico del Machiavelli quanto una delineazione di «nuove prospettive», di «nuovi pensieri» 5 . Non potrò dar conto di questi nuovi pensieri, di queste e di altre differenze d’accento, se non in rapidi rinvii in nota. E’ opportuna, in via introduttiva, anche una messa a punto terminologica. Noi, in questo volume e più in generale nella discussione filosofico-politica, usiamo il termine conflitto. E’ forse utile ricordare la pluralità di termini utilizzati da Machiavelli, sia nei Discorsi sia nelle Istorie fiorentine, per sviluppare le sue riflessioni. Egli si serve, innanzitutto, dei termini «disunioni» e «tumulti» 6 per riferirsi a quei conflitti fra le parti costitutive della città che trovano una sorta di composizione istituzionale e arricchiscono di leggi e ordini la vita politica della res publica, mantenendo viva la sua libertà; altre volte, per riferirsi a questo primo tipo di conflitti, usa le espressioni «controversie», «dissensioni», «differenzie», «romori» 7 . Ricorre, invece, alle espressioni «civili discordie», «intrinseche inimicizie» 8 , «guerre civili» per designare un altro tipo di conflitti, per riferirsi a quegli antagonismi che degenerano in scontro di «fazioni» e di «sette», e mettono a repentaglio la libertà stessa della res publica. Con questi termini, Machiavelli riesce a veicolare una riflessione sui conflitti assolutamente nuova e peculiare che lo colloca in posizione di marcata discontinuità rispetto alla tradizione antica e medioevale del pensiero politico occidentale; ma che lo situa anche ai margini, in una prospettiva altra, rispetto al cosiddetto progetto politico

Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politicaMarco GeunaPubblicato in Conflitti, a cura di A.Arienzo e D. Caruso, Napoli, Dante & Descartes, pp.19-57

Citation preview

Page 1: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

1

Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica Marco Geuna

Pubblicato in Conflitti, a cura di A.Arienzo e D. Caruso, Napoli, Dante & Descartes, pp.19-57

1. Machiavelli 1.1. la centralità della questione del conflitto per tutta la riflessione di Machiavelli Si può sostenere, in prima approssimazione, che per Machiavelli la politica è caratterizzata e

segnata dall’esperienza del conflitto: il mondo della politica è dominato dal conflitto individuale e sociale. La politica si misura e si rapporta continuamente con conflitti di diversa natura. Con conflitti interni alla città, alla res publica, allo stato: conflitti fra parti diverse della città o, con altro linguaggio, fra gruppi politici e sociali differenti. E con conflitti esterni alla città, alla res publica: conflitti tra comunità politiche differenti, conflitti tra stati. La politica, pertanto, fa continuamente i conti con la possibilità e la realtà della guerra. Non è dunque un caso che Machiavelli dedichi parte cospicua della sua riflessione al tema della guerra e che il dialogo Dell’arte della guerra sia l’unica delle sue grandi opere pubblicate durante la sua vita.

Si può affermare, poi, che la questione del conflitto abbia una sua indiscutibile centralità sia per il Machiavelli teorico politico, dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio fino al Discursus florentinarum rerum, sia per il Machiavelli storiografo, e basti pensare a quest’ultimo proposito al Proemio delle Istorie fiorentine, in cui prende le distanze dall’approccio di Leonardo Bruni e di Poggio Bracciolini proprio su questo terreno1. Centralità della questione del conflitto, dunque, tanto per intendere la lezione delle «cose antique», in particolare la vicenda della Roma repubblicana, il paradigma politico positivo, quanto per decifrare le esperienze moderne, ed in particolare la storia di Firenze, per molti versi il modello politico negativo.

Sono necessarie, a questo punto, due rapide premesse. La prima. Nelle considerazioni seguenti muovo dall’assunto della sostanziale unitarietà della riflessione politica di Machiavelli, senza ipotizzare radicali svolte o discontinuità tra Il Principe e i Discorsi o tra Il Principe e le altre opere machiavelliane2. Condivido la prospettiva interpretativa secondo cui entrambe le opere, scritte nel breve volgere di alcuni anni, probabilmente tra il 1513 ed il 15193, presuppongono una stessa cultura politica, formatasi e stratificatasi in un lungo arco di tempo, e sviluppano tesi antropologiche, politiche e storiche per molti versi convergenti4. La seconda premessa. E’ stato argomentato che nelle Istorie fiorentine, l’ultima grande opera del Segretario fiorentino, si possono individuare tanto un riepilogo del pensiero politico del Machiavelli quanto una delineazione di «nuove prospettive», di «nuovi pensieri»5. Non potrò dar conto di questi nuovi pensieri, di queste e di altre differenze d’accento, se non in rapidi rinvii in nota.

E’ opportuna, in via introduttiva, anche una messa a punto terminologica. Noi, in questo volume e più in generale nella discussione filosofico-politica, usiamo il termine conflitto. E’ forse utile ricordare la pluralità di termini utilizzati da Machiavelli, sia nei Discorsi sia nelle Istorie fiorentine, per sviluppare le sue riflessioni. Egli si serve, innanzitutto, dei termini «disunioni» e «tumulti»6 per riferirsi a quei conflitti fra le parti costitutive della città che trovano una sorta di composizione istituzionale e arricchiscono di leggi e ordini la vita politica della res publica, mantenendo viva la sua libertà; altre volte, per riferirsi a questo primo tipo di conflitti, usa le espressioni «controversie», «dissensioni», «differenzie», «romori»7. Ricorre, invece, alle espressioni «civili discordie», «intrinseche inimicizie»8, «guerre civili» per designare un altro tipo di conflitti, per riferirsi a quegli antagonismi che degenerano in scontro di «fazioni» e di «sette», e mettono a repentaglio la libertà stessa della res publica. Con questi termini, Machiavelli riesce a veicolare una riflessione sui conflitti assolutamente nuova e peculiare che lo colloca in posizione di marcata discontinuità rispetto alla tradizione antica e medioevale del pensiero politico occidentale; ma che lo situa anche ai margini, in una prospettiva altra, rispetto al cosiddetto progetto politico

Page 2: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

2

moderno, incentrato, da Bodin e Hobbes in poi, sul ruolo del potere sovrano e sulla neutralizzazione del conflitto da esso attuata9.

1.2. il conflitto interpretato: il caso di Roma ed il caso di Firenze Machiavelli elabora le sue riflessioni sulla questione delle «divisioni» e delle «inimicizie»10

che segnano la storia costituzionale delle città e dei corpi politici mettendo a confronto, innanzitutto, la vicenda di Roma con quella di Firenze. E questo avviene tanto nelle pagine dei Discorsi quanto nei capitoli delle Istorie fiorentine. In quest’ultima opera la comparazione delle due esperienze politiche è diretta ed esplicita. Si pensi, ad esempio, al celebre inizio del terzo libro: «Le gravi e naturali nimicizie che sono intra gli uomini, causate da il volere questi comandare e quegli non ubbidire, sono cagione di tutti i mali che nascano nelle città; perché da questa diversità di umori tutte l’altre cose che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro. Questo tenne disunita Roma; questo, se gli è lecito le cose piccole alle grandi agguagliare, ha tenuto diviso Firenze: avvenga che nell’una e nell’altra città diversi effetti partorissero; perché le inimicizie che furono nel principio di Roma intra il popolo e i nobili, disputando, quelle di Firenze combattendo si difinivano; quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavono; quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbono, quelle di Firenze al tutto la spensono; quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disagguaglianza grandissima quelle città condussono; quelle di Firenze da una disagguaglianza a una mirabile ugualità l’hanno ridutta. La quale diversità di effetti conviene sia dai diversi fini che hanno questi duoi popoli causata; perché il popolo di Roma godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava, quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che i nobili ne partecipassero, combatteva»11. Roma e Firenze vengono a rappresentare, così, esperienze politiche per molti versi opposte, quasi due tipi ideali: il conflitto assume in esse modalità differenti e genera effetti radicalmente diversi. Nelle pagine dei Discorsi, invece, la comparazione tra le due vicende costituzionali è meno diretta. Machiavelli sviluppa, infatti, la sua riflessione nel quadro di una considerazione più articolata delle repubbliche, delle loro caratteristiche di fondo e delle loro possibili tipologie, considerazione che lo porta a studiare accanto a quelle di Roma e di Firenze, le vicende di Sparta, di Atene, di Venezia.

Conviene senz’altro cominciare l’analisi dalle pagine dei Discorsi che rappresentano sicuramente la prima formulazione delle idee machiavelliane sul ruolo delle divisioni e delle inimicizie nella vita politica. Nei primi capitoli del primo libro, Machiavelli propone queste idee nel quadro di un ripensamento complessivo della storia costituzionale di Roma. E’ opportuno, pertanto, ripercorrere le tappe del suo ragionamento. I «primi ordini» di Roma, le sue prime strutture costituzionali, «furono difettivi»12: mancava infatti un ordine che rappresentasse adeguatamente le istanze del popolo. Roma non aveva ricevuto la sua costituzione tutta completa da un legislatore, come era avvenuto a Sparta con Licurgo. Ma «quello che non aveva fatto uno ordinatore lo fece il caso»: furono i tumulti tra i due «umori» della città, il popolo e i grandi, a fare della repubblica romana «una repubblica perfetta»13. Ai consoli ed al senato, organi istituzionali che esistevano a Roma dopo la cacciata dei Tarquini, venne affiancato anche l’istituto del tribunato della plebe; Roma divenne così una vera e propria repubblica mista, nella quale il consolato incarnava l’istanza monarchica, il senato quella aristocratica, e il tribunato quella democratica. A questa «perfezione» Roma «venne per la disunione della Plebe e del Senato», insiste Machiavelli: fu infatti il tumultuare della plebe contro l’arroganza dei nobili a portare ad istituire un organo, come quello del tribunato, preposto a vigilare proprio sulla «sicurtà della Plebe»14.

I tumulti «intra i Nobili e la Plebe», i conflitti tra gli umori della città, tra i grandi e il popolo, non vanno condannati, come nella tradizione avevano fatto molti interpreti, ma secondo Machiavelli vanno apprezzati perché condussero la repubblica romana alla sua perfezione e, più in generale, perché furono all’origine di ordini e di leggi in favore della libertà. La tesi proposta dal Segretario fiorentino è tanto radicale, quanto precisamente articolata. I tumulti, infatti, non hanno prodotto solo «ordini», ma anche «leggi» in favore della libertà. I tumulti hanno sì portato, come si è visto, alla creazione di un nuovo ordine, all’istituzione del tribunato della plebe; ma, più in

Page 3: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

3

generale, hanno prodotto anche numerose leggi in favore della libertà. Per comprendere appieno questa tesi è necessario prestare attenzione alla periodizzazione, alla cronologia, con la quale ragiona il Segretario fiorentino. Machiavelli sostiene che Roma si mantenne libera per circa quattrocento anni: «da’ Tarquinii ai Gracchi»15, dalla cacciata di Tarquinio il Superbo nel 510 a.C. all’elezione di Tiberio Gracco al tribunato nel 133 a.C. e all’uccisione di Caio Gracco nel 121 a.C. Se si tiene presente, poi, che il tribunato della plebe fu istituito per la prima volta nel 494 a.C. e, dopo alterne vicende, fu definitivamente ristabilito nel 449 a.C., si hanno gli elementi per comprendere tutte le implicazioni della tesi machiavelliana. Per circa quattrocento anni, nella storia di Roma, i tumulti si mantennero produttivi ed ebbero «buoni effetti»: portarono non solo nell’arco di alcuni decenni all’istituzione del tribunato, ma per lungo tempo furono all’origine di leggi «in favore della libertà». Se si guarda in controluce questa tesi, si ricava che Machiavelli suggerisce indirettamente che i tumulti non possono essere risolti una volta per tutte nemmeno dalla forma perfetta della costituzione mista. I tumulti riemergono sempre di nuovo e sempre di nuovo devono essere gestiti da chi si occupa attivamente di politica nella res publica. Anche la forma costituzionale perfetta non può mettere loro fine.

Nell’argomentare che «se i tumulti furono cagione della creazione de’ tribuni meritano somma laude», nel sostenere più in generale che essi partorivano «buoni effetti», Machiavelli sa perfettamente di esprimere un punto di vista radicalmente nuovo. Ed è pienamente consapevole di dover controbattere una tesi molto radicata, di dover argomentare «alcune cose contro la opinione di molti che dicono Roma essere stata una repubblica tumultuaria, e piena di tanta confusione che se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra repubblica»16. Sono stati fatti molti e meritori sforzi, e penso in particolare ai lavori di Gennaro Sasso17, per comprendere chi fossero i molti che tenevano quella opinione, per identificare cioè i pensatori cui Machiavelli intendeva consapevolmente contrapporsi. Si sono menzionati così Tacito e Sallustio, l’Agostino del De civitate Dei, e pensatori a lui più prossimi nel tempo, come gli umanisti Francesco Barbaro e Bernardo Rucellai. In questa sede non posso toccare questa questione; mi sembra più rilevante approfondire i ragionamenti di Machiavelli, le concettualizzazioni che egli elabora riflettendo sui casi esemplari di Roma e Firenze.

1.3. il carattere costitutivo e non trascendibile dei conflitti nella vita politica E’ possibile fin da ora, ripensando ai passi appena citati dei Discorsi e delle Istorie, mettere in

luce una prima tesi di carattere generale. Quella del carattere costitutivo e non trascendibile dei conflitti nella vita politica di ogni città o res publica. I conflitti si radicano, infatti, in quelli che Machiavelli chiama, usando un termine della medicina antica, diffuso ancora nella medicina rinascimentale, i due «umori» presenti in ogni città: il popolo e i grandi18. I conflitti sono l’esito dell’esistenza in ogni corpo politico di due gruppi che perseguono fini radicalmente diversi. Nel libro terzo delle Istorie, come si è visto, Machiavelli sostiene che «da questa diversità di umori tutte le altre cose che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro». Ma già nel nono capitolo del Principe aveva osservato: «In ogni città si truovono questi dua umori diversi: e nasce, da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi, ed e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo; e da questi dua appettiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti: o principato o libertà o licenza»19. Nel quarto capitolo del primo libro dei Discorsi la tesi viene ripetuta in termini sostanzialmente identici: Machiavelli accusa coloro che «dannono i tumulti intra i nobili e la plebe» di non comprendere «come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma»20.

Si noti la precisione e l’insistenza machiavelliana: «in ogni città», «in ogni republica». La scissione, la differenziazione, del corpo politico, è originale e costitutiva. Non è sopravvenuta e portata da fattori esterni. Il conflitto è intrascendibile proprio perché Machiavelli parte da una pluralità costitutiva del corpo sociale e politico. I soggetti della vita politica non sono solo, e esclusivamente, soggetti individuali, come sarà per Hobbes e le teorie contrattualistiche

Page 4: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

4

seicentesche, ma anche, ed in primo luogo, soggetti collettivi, gli «umori», il popolo e i grandi. Machiavelli pensa le comunità politiche, le res publicae, ricorrendo alla metafora dell’organismo vivente. Le concettualizza come corpi misti21, le cui parti stanno tra loro e alla totalità così come gli umori di un organismo vivente stanno tra loro e al corpo nel suo insieme. Ma se la scienza medica antica riteneva che il corpo umano fosse composto di quattro elementi, e che la salute del corpo dipendesse dall’equilibrio reciproco di questi quattro umori, Machiavelli nel tematizzare i corpi misti, i corpi politici, sostiene che sono composti soltanto di due umori, senza fornire peraltro ragioni di questa semplificazione.

Troppo complicato è, in questa sede, chiedersi quale sia la radice di questi due umori. E’ stato osservato giustamente che «non è possibile ricavare una definizione sociologica o economica dei due ‘omori’ machiavelliani»22. Si può almeno sottolineare che i due umori presenti in ogni corpo politico veicolano valori diversi: in particolare, si rapportano in modo diverso rispetto al valore della libertà. La radice dei due umori è probabilmente una radice antropologica, una radice che fa riferimento ai modi possibili, per gli uomini, di intendere e fare esperienza della libertà. «Una piccola parte di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri» viene ricordato in un altro passo dei Discorsi23.

Va riconosciuto, peraltro, che esistono altri passi e altri testi, penso qui al capitolo cinquantacinquesimo del primo libro dei Discorsi ed al Discursus florentinarum rerum, nei quali Machiavelli sviluppa un altro tipo di ragionamento. Non presenta il corpo misto della repubblica come composto di due umori, con precise caratterizzazioni antropologiche, ma delinea le parti della città facendo riferimento a puntuali condizioni economico-sociali: rinvia all’esistenza di una «pari equalità» fra i cittadini o alla presenza di «gentiluomini», «quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente»24, o prospetta il corpo dei cittadini come composto non di due gruppi, ma di tre condizioni, di «tre diverse qualità di uomini (…) cioè primi, mezzani e ultimi»25. Si tratta di un altro vettore o percorso della riflessione machiavelliana, percorso limitato ad un gruppo contenuto di passi e di testi, percorso che non posso seguire in questa occasione nella quale preferisco attenermi alle concettualizzazioni che ricorrono con costanza nelle teorizzazioni del Segretario fiorentino.

1.4. i buoni effetti dei tumulti: la fisiologia dei conflitti Riflettendo sulla vicenda romana, Machiavelli è portato ad affermare che i conflitti possono

essere produttivi, è spinto a riconoscere che può esistere una fisiologia dei conflitti. Egli ne è così convinto da intitolare il cruciale quarto capitolo del primo libro dei Discorsi in modo lapidario: «Che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella repubblica»26.

Si tratta ora di comprendere meglio, più a fondo, che cosa il conflitto possa produrre. Quali possano essere gli effetti di un conflitto come quello che ha avuto luogo a Roma. In quel capitolo, la risposta di Machiavelli è innanzitutto che un tale conflitto genera «leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà». Ordini, in primo luogo: come si è visto, l’istituzione del tribunato della plebe. Con ordini si può intendere, dunque, magistrature e organi di tipo costituzionale. E, poi, leggi, leggi ordinarie: Machiavelli critica «coloro che dannono i tumulti tra i nobili e la plebe» proprio per il fatto che non considerano «come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascono dalla disunione loro»27.

«In beneficio della pubblica libertà», «in favore della libertà»: i tumulti non generano leggi e ordini qualsiasi, ma leggi e ordini in grado di mantenere la libertà. Machiavelli mette, dunque, in relazione tumulti e libertà. La libertà è il risultato delle leggi e degli ordini scaturiti dai tumulti. E questa, potremmo dire, è una convinzione di fondo del Segretario fiorentino, una sua tesi di carattere generale. Non per niente Machiavelli la riprende in un altro decisivo capitolo del primo libro dei Discorsi, il trentasettesimo, osservando: «E benché noi mostrassimo altrove come le inimicizie di Roma intra il senato e la plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in favore della libertà, e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria, dico come per questo non mi rimuovo da tale opinione»28. Machiavelli non si rimuove, non

Page 5: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

5

si discosta, «da tale opinione»: i tumulti, le inimicizie, possono essere fattori di libertà, possono mantenere la libertà in una res publica.

Nel quarto capitolo del primo libro aveva battuto su questo punto, osservando tra l’altro: «Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove sieno tanti esempli di virtù, perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano». Questo passo mi consente due osservazioni. In primo luogo, mi permette di sottolineare che per Machiavelli ordine e conflitto non sono concetti che si escludono reciprocamente. I «tumulti», le «disunioni» creano e garantiscono una forma di ordine: la repubblica romana, infatti, non deve essere definita «in alcun modo con ragione una repubblica inordinata». In secondo luogo, di registrare come per il Segretario fiorentino gli ordini e le leggi non devono essere considerati un prius, ma un risultato, un portato di un momento logicamente precedente, appunto quello delle disunioni e dei conflitti. Questo naturalmente non può essere affermato per gli ordini e le leggi di tutte le repubbliche. Non vale per Sparta, che secondo la ricostruzione dei Discorsi ricevette il suo corpo di leggi per intero da Licurgo. Ma vale sicuramente per Roma, la repubblica per molti versi paradigmatica nel ragionamento machiavelliano.

L’analisi dei buoni effetti che i tumulti partorivano non può dirsi affatto conclusa. Basti ripensare al titolo già ricordato del quarto capitolo del primo libro: la disunione fece non solo libera, ma «potente» la repubblica romana. Il conflitto produce non solo libertà, ma espansione politico-militare. Bisogna ritornare con la mente all’alternativa drammatica su cui riflette Machiavelli: «o tu ragioni d’una repubblica che voglia fare uno imperio, come Roma, o d’una che le basti mantenersi. Nel primo caso gli è necessario fare ogni cosa come Roma; nel secondo può imitare Vinegia e Sparta»29. Da un lato, la repubblica che sta «in brevi termini», e che riesce a contenere i conflitti interni, tenendo il popolo fuori dalla gestione della cosa pubblica: è il caso di Sparta e di Venezia. Dall’altro, la repubblica che amplia: è il caso di Roma. La repubblica che amplia, proprio per garantire la sua sicurezza e sopravvivenza, non può escludere il popolo dal governo, non può non dar sfogo all’umore del popolo. E deve accettare i tumulti che conseguono dal riconoscimento del suo ruolo, deve governare e trasformare produttivamente le disunioni che così si vengono a creare: «se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato, per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo; se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta»30. La scelta di Machiavelli fra queste alternative è univoca e senza esitazioni: «bisogna nello ordinare la republica pensare alle parte più onorevole, e ordinarle in modo che quando pure la necessità le inducesse ad ampliare, elle potessono quello che avessono occupato conservare. E per tornare al primo ragionamento, credo ch’e’ sia necessario seguire l’ordine romano, e non quello dell’altre republiche, perché trovare un modo mezzo infra l’uno e l’altro non credo si possa; e quelle inimicizie che intra il popolo ed il senato nascessino, tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario a pervenire alla romana grandezza»31.

L’ordine romano è l’assetto costituzionale da imitare: ordine che riconosce un ruolo politico al popolo, accetta i tumulti che scaturiscono dal confronto fra gli umori della città, e fa sì che ordini e leggi in favore della libertà emergano proprio dalle disunioni e dai tumulti. In questo quadro, la capacità militare del popolo, il suo coraggio e la sua efficacia nel combattere, non sono che l’altra faccia della sua partecipazione alla cosa pubblica che si esprime nei tumulti. Non si può avere l’una senza avere l’altra. Per Machiavelli, la partecipazione del popolo alla cosa pubblica che si esprime nei tumulti e la sua capacità militare che permette alla repubblica di ampliare e di creare l’impero, sono inscindibilmente legate: «volendo Roma levare le cagioni de’ tumulti, levava ancora le cagioni dello ampliare»32.

1.5. la presa di partito popolare ed anti-aristocratica di Machiavelli La difesa machiavelliana del ruolo della disunione e dei tumulti veicola, dunque, una

valutazione positiva del ruolo politico del popolo ed esprime una precisa polemica anti-

Page 6: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

6

aristocratica. Nel quarto capitolo del primo libro dei Discorsi, Machiavelli insiste sul fatto che «ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo»33. E ricorda che «i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi»34. Non può stupire che quando Machiavelli si interroga poi sul problema «dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà», dove vada cioè collocato un potere di ultima istanza in grado di difendere la libertà, di fronte all’alternativa «o nel popolo o ne’ grandi», la sua risposta sia ancora univoca, e privilegi la soluzione romana che, a suo giudizio, poneva la «guardia della libertà» nel popolo. Se è vero che in alcuni capitoli finali del primo libro dei Discorsi, ed in particolare quelli che vanno dal cinquantatreesimo al cinquantasettesimo, Machiavelli esprime alcune riserve sulle effettive capacità politiche del popolo ed attenua i toni della sua polemica anti-aristocratica, mi sembra che il quadro complessivo non ne esca sostanzialmente mutato35.

La valutazione positiva delle disunioni e dei conflitti, è stato suggerito molte volte, rappresenta un’aperta rottura, una marcata discontinuità, rispetto ad alcune assunzioni chiave, ad alcune convinzioni di fondo, condivise da tradizioni diverse del pensiero politico antico e medievale. Sostenere che i tumulti partoriscono «buoni effetti» significa, innanzitutto, prendere le distanze dall’idea classica di ������� (homonoia), ricorrente in tutta la riflessione greca36, idea ripresa e riproposta in più passi tanto da Aristotele quanto da Polibio37. Significa, altresì, contrapporsi consapevolmente e lasciarsi alle spalle l’idea ciceroniana di «concordia ordinum», con le sue valenze filo-aristocratiche. In quegli anni, come si sa, non era ancora conosciuto il testo del De re publica: quel primo libro nel quale Cicerone aveva proposto, sulle orme di Polibio, la sua interpretazione dell’idea di costituzione mista e soprattutto quel secondo libro nel quale aveva presentato la concordia come «artissimum atque optimum omni in re publica vinculum incolumitatis», sostenendo che «quae harmonia a musicis dicitur in cantu, ea est in civitate concordia»38. Era però ben noto il testo del De officiis, nel quale Cicerone sviluppa assunti analoghi. Sostiene, infatti, che tra i «fundamenta rei publicae» va considerata «concordiam primum, (…) deinde aequitatem»; condanna poi senza appello i governanti che nella comunità politica privilegiano interessi particolari: «qui autem parti civium consulent, partem neglegunt, rem perniciosissimam in civitatem inducunt, seditionam atque discordiam»39.

La tesi machiavelliana rappresentava una netta rottura anche nei confronti di elaborazioni a lui più vicine. E’ stato mostrato che la cultura pre-umanistica di matrice retorica, da Orfino da Lodi a Giovanni da Viterbo fino a Brunetto Latini, aveva dato rilievo all’ideale della concordia, riprendendo, accanto al Cicerone del De officiis, il Sallustio che nel Bellum Jugurthinum sosteneva «Nam concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur»40. E’ stato ricordato, altresì, che nella tradizione politica fiorentina, da Remigio de’ Girolami a Dino Compagni, da Dante a Savonarola, era diffusa la convinzione che le fazioni costituissero una minaccia mortale per la libertà cittadina e che pertanto ogni discordia dovesse essere proscritta come faziosa41. Le posizioni di Machiavelli si allontanavano con decisione da queste tesi, così come prendevano le distanze dalle posizioni filo-veneziane diffuse da molti pensatori dell’umanesimo civile a lui più vicini: da Giorgio di Trebisonda a Francesco Filelfo, da Pietro Crinito a Bernardo Ruccellai, si era venuto infatti elaborando nel giro di alcuni decenni un vero e proprio mito di Venezia, e dell’eccellenza del suo governo stretto che aveva fatto fiorire la repubblica evitando discordie e conflitti. Il nome di Bernardo Ruccellai consente di ricordare, infine, un referente più prossimo a Machiavelli: le discussioni che si tenevano a Firenze nelle cosiddette pratiche, negli ultimi anni del Quattrocento, discussioni nelle quali Bernardo Ruccellai intervenne a più riprese. Ebbene, in tali discussioni il tema della concordia civium si saldava con un elogio di Venezia e del suo governo e veniva ad esprimere con costanza una posizione filo-aristocratica42. Non è dunque casuale, allora, che la valutazione positiva dei tumulti e delle disunioni, e più in generale la preferenza per il modello romano rispetto a quello veneziano, andassero di pari passo, nel pensiero di Machiavelli, con una presa di posizione filo-popolare e anti-aristocratica.

Page 7: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

7

1.6. i modi del conflitto: «alcun esilio o violenza in disfavore del commune bene» Vorrei ora richiamare l’attenzione sui modi in cui si esplicava il conflitto in Roma e in

Firenze. Sui diversi modi che ci possono fornire anche delle spiegazioni dei diversi effetti. Ripartiamo dunque dalle pagine dei Discorsi. Machiavelli osserva che «i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, e radissime sangue»43. Questa caratteristica dei tumulti è centrale per il Segretario fiorentino, che nel decisivo quarto capitolo del primo libro dei Discorsi la mette in rilievo per altre due volte con affermazioni sostanzialmente identiche. Argomenta così che chi rifletterà sui tumulti, «chi esaminerà il fine di essi, non troverà ch’egli abbiano partorito alcun esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà»44. Alcun esilio o violenza: i tumulti si condussero a Roma per circa quattrocento anni senza fare ricorso alla violenza privata e all’esclusione dalla lotta politica, all’esilio. Il conflitto trovò a Roma modalità di manifestazione e di composizione che non portarono alcun soggetto, sia esso individuale o collettivo, ad essere escluso dal conflitto stesso, ad uscire dal conflitto. Il punto è cruciale. E Machiavelli ritorna sulla questione con il suo tipico ragionare oppositivo nella pagina già ricordata delle Istorie fiorentine: «le inimicizie che furono nel principio in Roma intra il popolo e i nobili, disputando, quelle di Firenze combattendo si difinivano; quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavono». Disputando o combattendo: vi sono modalità diverse di praticare il conflitto. Esiste un crinale per il quale il conflitto rimane nella fisiologia della vita politica, si organizza quasi fosse una disputa, e non degenera nell’esperienza della stasis, della guerra civile.

Il ragionamento di Machiavelli in quelle pagine delle Istorie merita di essere seguito da vicino: «la quale diversità di effetti conviene sia dai diversi fini che hanno questi duoi popoli causata; perché il popolo di Roma godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava, quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che i nobili ne partecipassero, combatteva»45. A Roma il popolo non solo richiedeva il riconoscimento della sua esistenza da parte dei nobili, come avvenne nella prima fase che si concluse con l’istituzione del tribunato, ma riconosceva l’esistenza dei nobili e delle loro istanze: «godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava». Fu probabilmente questo mutuo riconoscimento che fece sì che i tumulti non partorissero «alcun esilio o violenza in disfavore del commune bene», che fece sì che l’idea di un bene comune venisse mantenuta e che la ricerca di una qualche forma di bene comune non fosse abbandonata46.

A Firenze questa sorta di riconoscimento vicendevole fra i due umori non avvenne: il popolo voleva essere «solo nel governo, sanza che i nobili ne partecipassero». La catena di violenze e di esili che caratterizzò la storia della città derivò da questa volontà di dominio unilaterale, da questo tentativo di prevalere completamente sull’altra parte. Dall’esperienza del mancato mutuo riconoscimento, si potrebbe dire con altri termini47.

1.7. una radicale reinterpretazione della dottrina del governo misto o della costituzione mista Muovendo da questa valutazione positiva delle disunioni nell’esperienza politica romana,

Machiavelli propone una radicale reinterpretazione della dottrina del governo misto o della costituzione mista. Nei Discorsi ricorda che nella repubblica romana «tutte le tre qualità di governo [avevano] la parte sua». Precisa, anzi, che «non si tolse mai, per dare autorità agli ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie, né si diminuì l’autorità in tutto agli ottimati per darla al popolo; ma rimanendo mista, fece una repubblica perfetta»48. Si potrebbe sostenere, però, che il concetto di governo misto venga assunto nella forma, ma radicalmente rovesciato nella sostanza49. In un cornice di ispirazione classica50, i passi machiavelliani enucleano, in realtà, un contenuto radicalmente nuovo. Se nella tradizione erano rintracciabili matrici diverse della teoria del governo misto, una matrice aristotelica ed una matrice polibiana, almeno, tutte le diverse interpretazioni e riformulazioni convergevano sul fatto che il governo misto doveva essere pregiato perché garantiva la stabilità della res publica realizzando la concordia. Machiavelli, invece, viene a sostenere che la

Page 8: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

8

stabilità, insieme alla libertà, è conseguita soltanto tenendo vive le disunioni, le tensioni, nel corpo misto della repubblica.

Non abbiamo solo l’elogio delle disunioni al posto di quello della concordia, ma cambia del tutto il significato della tanto cercata stabilità. Se nelle prospettive tradizionali il governo misto veniva presentato in una prospettiva statica, Machiavelli lo tematizza, invece, in una prospettiva del tutto dinamica. In un contesto come quello interstatuale in perenne tensione e mutamento, stabilità non significa statica perfezione, ma capacità di movimento. Si conserva stabile, permane, non chi resta immobile, ma chi si rapporta continuamente al contesto, chi si muove alla sua stessa velocità, chi sa avere riscontro con i tempi. Una continua tensione interna alla repubblica, dunque, per rapportarsi alla tensione che esiste al suo esterno. Un continua tensione tra grandi e popolo, e tra organi costituzionali diversi, per far fronte alla tensione che continuamente esiste tra quei corpi politici che senza sosta cercano la loro sicurezza tentando di aumentare la loro potenza. Le strutture costituzionali, pertanto, non vanno valutate nella loro astratta e statica perfezione, ma per la loro capacità di rapportarsi alle sfide dei tempi, alla qualità dei tempi. Con questo approccio radicalmente dinamico, Machiavelli non solo pone in stretta relazione politica interna e politica estera, ma stringe insieme, in modo inseparabile, politica e storia.

1.8. la patologia dei conflitti Machiavelli è ben consapevole del fatto che le disunioni possono degenerare, possono aprire

le porte alla guerra civile. La vicenda della degenerazione e della fine della repubblica romana e la travagliata storia della repubblica fiorentina stanno continuamente a ricordarglielo.

Per il Segretario fiorentino, i conflitti rimangono produttivi, non diventano patologici, soltanto a due condizioni. La prima. Se «sanza sette e sanza partigiani si mantengono»51: se la lotta politica non assume una dimensione personalistica. La seconda. Se i conflitti non hanno per oggetto «la roba», ma gli «onori», le cariche pubbliche: se non hanno, dunque, un carattere privato, un carattere economico. Questi sembrano essere i due principali requisiti perché le disunioni e i tumulti non si trasformino in rovinose discordie civili.

Machiavelli ha sempre condannato con asprezza le divisioni che danno luogo a partigiani e a fazioni. Anche nei primi capitoli del primo libro dei Discorsi, nel quale tesse l’elogio delle disunioni che fecero grande la repubblica romana. Nel settimo, ad esempio, ricorda che quando i conflitti degenerano si diffonde la paura e i cittadini ricorrono alle «vie private»: «la paura cerca difesa, per la difesa si procacciano partigiani, da’ partigiani nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle»52. Nel trentasettesimo capitolo del primo libro, poi, mette in luce che «si ricorse ai rimedi privati» soprattutto quando la plebe volle «con la nobiltà dividere gli onori e le sostanze», quando volle con la legge agraria attingere alla roba. La «contenzione della legge agraria» fu però la causa «della distruzione della repubblica»: «perché la nobiltà romana sempre negli onori cedé sanza scandoli straordinari alla plebe; ma come si venne alla roba, fu tanta la ostinazione sua nel difenderla, che la plebe ricorse per isfogare l’appetito suo a quegli straordinari che di sopra si discorrono»53. Quando il conflitto assume forme privatistiche ed economicistiche assume forme violente54 e non è più produttivo di libertà. Attenendosi a questo criterio, Machiavelli divide la vicenda della repubblica romana in due periodi: nel primo, che va dalla caduta dei Tarquini al tribunato dei Gracchi, la disunione produsse buone leggi e buoni ordini, nel secondo, che va dai Gracchi alla fine della repubblica, emblematicamente rappresentata dalla figura di Cesare, le dissensioni e i tumulti degenerarono in scontro violento fra sette, tra fazioni, e condussero alla perdita della libertà.

Si possono introdurre, a questo punto, due osservazioni. La prima. Molti teorici contemporanei hanno messo al centro della loro riflessione l’idea di conflitto, cercando di individuare meglio soggetti, modalità, soluzioni possibili dei conflitti. Alessandro Pizzorno, in particolare, ha cercato di rintracciare una genealogia ed elaborare una tipologia «delle tre componenti dell’idea di conflitto che riceviamo dalla tradizione del pensiero politico». Ha distinto così conflitti di riconoscimento, conflitti d’interesse, e conflitti ideologici o conflitti che hanno per

Page 9: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

9

posta la verità. Ha peraltro precisato che distinguendo queste componenti «possiamo pensare i conflitti reali scorgendo in essi, di volta in volta, la prevalenza dell’una o dell’altra componente, senza che per questo vengano escluse le altre. (…) Sarà inteso che in conflitti caratterizzati da una componente, anche le altre potranno essere presenti, seppur attenuate»55. Se si usa questa tipologia per ragionare su Machiavelli, si potrebbe sostenere innanzitutto che i conflitti che egli pregia, le disunioni che per quattrocento anni segnarono la storia della repubblica romana, possono essere considerati, essenzialmente, conflitti di riconoscimento. Si potrebbe argomentare, poi, che i conflitti che Machiavelli teme, i conflitti che hanno per posta la roba e non gli onori, sono proprio i conflitti di interesse. E riconoscere, infine, che i conflitti che hanno per posta la verità non sono tematizzati in modo articolato da Machiavelli, che pur si interroga su di essi a più riprese.

Cade qui la seconda osservazione. Machiavelli ha esperienza di conflitti politici, fra gruppi e fazioni nella città o fra corpi politici e stati, ragiona su conflitti sociali, come quelli che si svilupparono a Roma in occasione della richiesta e poi della promulgazione della legge agraria o quelli che esplosero a Firenze con il tumulto dei Ciompi, ma non ha piena esperienza di radicali conflitti ideologici o conflitti sulla verità. Di quei conflitti cioè che seguiranno alla frattura della Res publica Christiana e con le guerre di religione segneranno la storia europea: di quei conflitti sui quali rifletterà Hobbes e ai quali cercherà di dare risposta con la creazione dell’ordine artificiale del Leviatano. Da questo punto di vista, dal punto di vista dei conflitti sulla verità, si può ricordare che il conflitto più radicale che Machiavelli giunge a individuare e riconoscere è quello tra i valori e gli assunti dell’educazione antica, della religione antica, incentrata sul valore della partecipazione politica, dell’ «onore del mondo», della «mondana gloria», della «grandezza dello animo» e della «fortezza del corpo», ed i valori e gli assunti della religione cristiana (o, meglio, dell’ interpretazione della religione cristiana «secondo l’ozio e non secondo la virtù»), assunti per i quali si glorificano «più gli uomini umili e contemplativi che gli attivi» e si pone «il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane»56. L’ordinatore di nuove repubbliche non potrà fare a meno di considerare anche i problemi posti da questo nuovo radicale conflitto.

1.9. la trasformazione di natura dei conflitti: dalla fisiologia alla patologia Se si ritorna ai ragionamenti machiavelliani proposti nelle pagine dei Discorsi e delle Istorie,

la domanda che immediatamente viene da porsi è la seguente: è possibile evitare che i conflitti da fisiologici diventino patologici? Si tratta di ricercare, di mettere in luce, le radici antropologiche della trasformazione della natura dei conflitti. Si tratta di guardare alle dinamiche della mala contentezza, su cui ha scritto pagine di grande finezza Gianfranco Borrelli57. E’ necessario, dunque, ripensare alcune tesi machiavelliane presentate sì in più contesti, ma emblematicamente proposte in forma sintetica e concisa proprio nel trentasettesimo capitolo del primo libro dei Discorsi. Gli uomini non solo «sogliono affliggersi del male», ma anche «stuccarsi del bene»; gli uomini combattono non solo per necessità, ma per ambizione, «la quale è tanto potente ne’ petti umani che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona». Ancora: «gli uomini stimano più la roba che gli onori», una convinzione di fondo di Machiavelli, da lui spesso ripetuta. E queste sono affermazioni antropologiche che valgono erga omnes: valgono per i grandi, ma valgono anche per il popolo.

Se guardiamo allora alle dinamiche della mala contentezza58 possiamo forse comprendere la radice ultima e il carattere inevitabile delle trasformazioni delle forme politiche. Possiamo comprendere anche Firenze, e la storia dei suoi conflitti, la ragione per cui in quella città le divisioni andavano moltiplicandosi, come ricorda ad esempio il Proemio delle Istorie: «Ma di Firenze si divisono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti, rimasta superiore si divise in due»59.

Machiavelli, ragionando sull’esperienza di Roma e di Firenze, non si limita dunque ad elaborare degli idealtipi, per così dire, che vanno a comporre una tipologia dei conflitti politici. Ma si interroga sulla dinamica dei conflitti, sulle loro trasformazioni nel vivo della storia. Il caso di Roma gli ha mostrato la possibilità che il conflitto da produttivo si muti in distruttivo, che la fisiologia ceda il passo alla patologia. Misurandosi con queste trasformazioni, Machiavelli sviluppa

Page 10: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

10

la sua analisi in due direzioni: da un lato, si interroga sulle radici antropologiche di questi mutamenti, soffermandosi in particolare sulle dinamiche della mala contentezza che investono tutti gli uomini, sia quelli appartenenti al popolo sia quelli appartenenti ai grandi; dall’altro, si interroga sulle possibilità di intervento politico, sulla possibilità di bloccare il cambiamento di natura dei conflitti, sulla possibilità di evitare che i conflitti da produttivi divengano distruttivi. Due sono, in sostanza, le possibilità di intervento da lui prospettate: il mantenere ricco l’erario pubblico e poveri i privati cittadini ed il far leva su uno strumento come la religione, la religione dei romani e non la religione cristiana. Nel capitolo dei Discorsi in cui ricostruisce gli scandoli, messi in moto dalla legge agraria, si sofferma proprio sulla prima misura: «le repubbliche bene ordinate hanno a tenere ricco il pubblico e gli loro cittadini poveri»60. Tale misura dovrebbe favorire l’austerità e la virtù dei singoli, ponendo un qualche freno alla ricerca della roba. Il ricorso ad una religione come quella dei romani, poi, si giustifica perché essa contribuisce a mantenere «buona e unita» la repubblica, contribuisce cioè a porre un argine alle tendenze personalistiche e dissociative, alla formazione di sette e di partigiani: i romani, insiste Machiavelli, «si servivono della religione per riordinare la città e seguire le loro imprese e fermare i tumulti»61. Entrambe le possibilità di intervento intraviste da Machiavelli per bloccare la possibile degenerazione dei tumulti, la possibile trasformazione della natura dei conflitti, non sembrano però avere un’efficacia di lungo periodo62. Altre dinamiche da lui individuate sembrano renderle presto o tardi vane, dinamiche riconducibili proprio a quegli assunti antropologici messi in luce nel trentasettesimo capitolo del primo libro dei Discorsi. Ma non mi posso soffermare qui sulle tensioni presenti nella riflessione del Segretario fiorentino, sull’esistenza di vettori non conciliabili nel suo pensiero.

1.10. conflitti interni e conflitti esterni: tumulti ed impero Si è detto che Roma, la repubblica romana, può essere considerata il paradigma, il modello

politico di Machiavelli. Ma Roma è la repubblica che amplia, che si espande, che alla fine da vita all’impero. Ci si potrebbe chiedere perché Roma si espande, per quale ragione Roma è portata ad espandersi. La risposta di Machiavelli è lapidaria, fin dal primo capitolo del primo libro dei Discorsi: gli uomini non possono «assicurarsi se non con la potenza»63. La risposta del Segretario fiorentino va cercata, dunque, non solo nel suo modo di concepire le relazioni fra i corpi politici, i rapporti fra gli stati, ma anche e soprattutto nelle sue assunzioni antropologiche. Se «gli uomini fossero contenti a vivere del loro e non volessero cercare di comandare altrui» il problema non si porrebbe. Ma gli uomini sono tristi e «salgono da un’ambizione ad un’altra». L’arena internazionale, inoltre, sembra consentire solo quelli che chiamiamo giochi a somma zero. Tra gli stati, come tra gli individui, è «come se fusse necessario offendere o essere offeso»: pertanto gli uomini non possono «assicurarsi se non con la potenza», le repubbliche non possono sopravvivere se non ampliando continuamente i loro domini. La potenza sembra essere l’unica chiave della sopravvivenza. Proprio perché non si può fare a meno di ricercare la potenza, bisogna favorire la partecipazione del popolo nelle istituzioni e le disunioni che questo porta con sé. Le repubbliche come Venezia che escludono gran parte del popolo dalla partecipazione al governo sono in realtà deboli ed esposte al variare della fortuna.

Per Machiavelli, come è stato osservato molte volte, vi è un nesso inscindibile tra virtù civile e virtù militare, tra conflitti interni e conflitti esterni, tra politica e guerra. La virtù ha dunque una dimensione di potenza ed è capace, attraverso il conflitto interno ed esterno alla repubblica, di raggiungere risultati che sono degni di essere ricordati dai posteri64. Sono possibili, a questo punto, solo due precisazioni. La prima. Quando Machiavelli si interroga sul problema della guerra, nelle sue riflessioni non vi è spazio per ragionamenti circa la legittimità o la legalità della guerra. Machiavelli, cioè, è del tutto estraneo alle preoccupazioni ed alle coordinate concettuali della tradizione della guerra giusta: a quelle concettualizzazioni sistematizzate da Tommaso nella celebre quaestio 40, De bello, della IIa IIae della Summa Theologiae, concettualizzazioni che sarebbero state riprese e riformulate di lì a qualche anno da Vitoria nel De iure belli. Basti pensare alle celebri considerazioni del quarantunesimo capitolo del terzo libro dei Discorsi: «dove si dilibera al tutto

Page 11: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

11

della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà»65.

La seconda precisazione. Roma è la repubblica che ampia, che estende anno dopo anno le sue conquiste territoriali. Ma le conquiste territoriali, con le loro esigenze, ad esempio la proroga dei comandi militari, la «prolungazione degli imperii», mettono in moto dinamiche che conducono alla fine del vivere libero, alla fine del regime repubblicano, e all’avvento dell’impero, del governo non dei molti ma di uno solo. Machiavelli si sofferma su tali dinamiche, ma non sembra forse avvertire a pieno la contraddizione che sta al cuore del suo modello politico, all’antinomia per cui la repubblica, portando alla formazione dell’impero, è esposta ad un inesorabile destino di autodistruzione: «la libertà rende possibile la conquista; ma la conquista distrugge la libertà»66.

1.11. la politica del minor male Queste considerazioni sul ruolo delle disunioni, dei tumulti, nel pensiero di Machiavelli mi

consentono di formulare, in fine, due osservazioni di carattere generale sulla sua riflessione teorica. La prima. E’ stato sottolineato, di recente, che uno degli aspetti più interessanti della riflessione machiavelliana è la sua attenzione al «governo della legge»67. Se si può sostenere che Machiavelli presta attenzione al problema della regolarità della legge nella repubblica, se si può persino affermare che tende a contrapporre la repubblica come forma di governo della legge a tutte le forme di governo degli uomini, mi sembra però che con queste affermazioni si colga soltanto un aspetto della riflessione del Segretario fiorentino. Che non pensa il problema della repubblica e dei suoi ordini soltanto in maniera sincronica e statica, ma soprattutto in modo diacronico e dinamico. E la sua riflessione sulle divisioni e le inimicizie, sui vari tipi di conflitti che segnano la vita delle repubbliche, sta continuamente a ricordarcelo. Mi sembra, cioè, che uno degli aspetti centrali e più ricchi di implicazioni teoriche della sua riflessione sia proprio l’attenzione per come nascono e si istituiscono gli ordini e le leggi, per come si corrompono, per come si possono eventualmente «ridurre ai principii»68.

La seconda osservazione. In un mondo segnato più che dalla ciclicità polibiana, dalla contingenza, dal continuo mutare della fortuna, dalla qualità sempre cangiante dei tempi cui fare riscontro69, la politica si configura per Machiavelli come arte del minor male. Ripensiamo per un attimo all’alternativa tra repubblica che sta in brevi termini e repubblica che amplia, tra Sparta e Venezia, da un lato, e Roma, dall’altro. Machiavelli, come abbiamo visto, esprime la sua preferenza per l’assetto romano, che coniuga conflitto interno ed espansione all’esterno. Ma non si cela che anche questo assetto istituzionale è precario ed ha inconvenienti: all’interno può sfociare in antagonismi che aprono la porta alla guerra civile, all’esterno può innescare dinamiche che alla lunga corrodono le basi del governo repubblicano stesso e favoriscono l’avvento del governo di uno solo. Non è casuale pertanto che proprio ragionando su questi dilemmi, Machiavelli giunga a formulare la sua tesi di carattere generale sulla politica come pratica che deve misurarsi sempre con inconvenienti e non può mai dar vita ad ordini perfetti, come pratica del minor male, si potrebbe dire70. Vale la pena di rileggere il celebre passo del capitolo sesto dei Discorsi: «Ed in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene, che non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro. Pertanto se tu vuoi fare uno populo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi maneggiare a tuo modo; se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta. E però in ogni nostra diliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti, e pigliare quello per miglior partito, perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai»71. Concezione della politica come arte del minor male, concezione tragica della politica, che era stata proposta in termini quasi identici nel capitolo ventunesimo del Principe72.

Page 12: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

12

2. dopo Machiavelli: percorsi del repubblicanesimo moderno In questa seconda parte del mio contributo, vorrei soffermarmi rapidamente su alcuni momenti

del repubblicanesimo moderno, per segnalare come le tesi di Machiavelli sulla fecondità dei conflitti siano state sì avversate da molti, ma anche riprese da più pensatori in più contesti. La discussione storiografica sul repubblicanesimo moderno, negli ultimi decenni, è stata così vasta e articolata, ha coinvolto così tanti studiosi di così diversi paesi, che non si può nemmeno pensare di schizzarne le linee principali in poche battute. Mi limito a ricordare che si è discusso con accanimento su quali eredità filosofiche e politiche siano confluite nella tradizione repubblicana, se prevalentemente quella greca o quella romana; su quali termini-concetti siano propri del linguaggio repubblicano e lo rendano riconoscibile tra i diversi linguaggi politici; sul giudizio complessivo da portare su tale patrimonio concettuale, da considerare nel suo insieme come sostanzialmente antimoderno, per quanto importante sia stato nei dibattiti tra Cinque e Settecento, o come un retroterra di idee di grande interesse che può essere ripensato e riproposto nei dibattiti filosofico-politici contemporanei. Vita activa e vivere civile, virtù e corruzione erano, a giudizio di John Pocock, i termini chiave del lessico repubblicano, da lui presentato come una riformulazione originale di nozioni di matrice aristotelica e di provenienza polibiana. Quentin Skinner ha insistito, invece, sul fatto che il lessico dell'umanesimo civile e della tradizione repubblicana doveva molto alla cultura romana, a filosofi come Cicerone e a storici come Sallustio e Livio, ed ha visto al cuore del tradizione repubblicana un originale tentativo di pensare la libertà, quel tentativo di individuare un nesso inscindibile tra libertà individuale e libertà collettiva che, a suo giudizio, può essere riformulato con profitto nelle discussioni contemporanee sul futuro della libertà e della democrazia. Ma tutto questo è molto noto.

E’ noto altresì che l’attenzione alle singole configurazioni storiche della tradizione repubblicana, l’attenzione al repubblicanesimo olandese piuttosto che a quello ginevrino o a quello olandese, ha portato alla luce l’esistenza di una pluralità di modi di declinare l’eredità dell’umanesimo civico e di Machiavelli. E’ sembrato, ad un certo punto, che non si potesse più parlare di repubblicanesimo in generale, ma di differenti repubblicanesimi. E’ apparso inevitabile, di conseguenza, interrogarsi innanzitutto sul nucleo concettuale minimo necessario per riconoscere l’esistenza di teorie repubblicane, per poter parlare sensatamente di repubblicanesimo, un nucleo composto inevitabilmente di vari elementi, elementi istituzionali ed elementi di valore. Ed è parso necessario, poi, distinguere varie famiglie di teorie repubblicane, all’interno di una più ampia tradizione: si è discusso così, ad esempio, di un repubblicanesimo aristocratico e di uno democratico. Sono convinto che studiare il modo in cui è stato recepita, o avversata, la tesi machiavelliana sulla positività dei conflitti venga incontro a questa esigenza e consenta di distinguere in modo significativo famiglie diverse di teorie repubblicane.

2.1. la presa di partito di Guicciardini L’approccio di Machiavelli al problema dei tumulti e delle disunioni della repubblica romana

suscitò scandalo nella cultura politica fiorentina. Francesco Guicciardini, per primo, lo sottopose a severa critica tanto nel Dialogo sul reggimento di Firenze, steso e più volte rivisto negli anni che vanno dal 1521 al 1526, quanto nelle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, redatte tra il 1529 ed il 1530. Nel primo libro del Dialogo, troviamo Bernardo del Nero, il personaggio con cui nella sostanza Guicciardini si identifica, affermare: «a me non pare che el modo del governo di Roma fussi di qualità da fondare tanta grandezza: perché era composto in modo da partorire molte discordie e tumulti, tanto che non avessi supplito la virtù delle arme, che fu tra loro vivissima e ordinatissima, credo che non arebbono fatto progresso grande»73. Guicciardini separa i due elementi che Machiavelli aveva strettamente uniti: la struttura costituzionale di Roma, che consentiva al popolo di esprimere la sua ambizione, e la capacità di ampliare, di realizzare ampie conquiste territoriali. Roma giunse a «grandezza» nonostante i tumulti e le disunioni: sostanzialmente perché mantenne intatta nel corso del tempo la sua capacità militare, perché tenne «la disciplina militare tanto viva».

Page 13: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

13

I tumulti non sono all’origine ultima della grandezza militare di Roma, come in Machiavelli, ma rappresentano una forma pericolosa di degenerazione politica. Per Guicciardini, il modello da seguire, nel momento in cui si ripensano le istituzioni fiorentine, è Venezia e non Roma. Il governo veneziano «essendo durato già centinaia di anni florido e unito come ognuno sa, non si può attribuire alla fortuna o al caso»: rappresenta con le sue istituzioni la forma migliore di governo misto. La concordia che domina tra i veneziani ha le sue cagioni nel fatto che «el governo è ordinariamente amato da quelli che ne partecipano, e gli ordini sono vivi e bene intesi»74. La critica radicale dell’esemplarità del modello romano, della deprecabile repubblica tumultuaria, e l’adozione del modello veneziano, rappresentano una precisa ed esplicita presa di posizione anti-machiavelliana. Presa di posizione che si ritrova in molte pagine delle Considerazioni. Guicciardini ripropone, innanzitutto, il giudizio sulla Roma repubblicana già formulato nel Dialogo: dopo aver osservato che le divisioni «non possono essere laudabile, né si può negare che non fussino dannose», ripete che «non fu dunque la disunione tra la plebe ed el senato che facessi Roma libera e potente, perché meglio sarebbe stato se non vi fussino state le cagione della disunione». La ripresa dell’ideale classico della concordia e l’adesione al modello veneziano emergono in molte pagine: tra le tante, si può forse ricordare la celebre e sprezzante affermazione secondo cui «laudare la disunione è come laudare in uno infermo la infermità, per la bontà del remmedio che gli è applicato»75. Anche nelle Considerazioni, dunque, Guicciardini non nasconde la predilezione per il governo stretto ed il severo giudizio sulle capacità del popolo di autogovernarsi: «el popolo, per la ignoranzia sua, non è capace di diliberare le cose importante», pertanto «presto periclita una repubblica che rimette le cose a consulta del popolo».

2.2. tra Harrington ed i commonwelthmen Se si prende in considerazione un altro momento particolarmente favorevole alla formulazione

di teorie repubblicane, gli anni della rivoluzione inglese e del cosiddetto interregno, emerge che molti pensatori non ripresero la tesi machiavelliana, che già aveva suscitato scandalo in Guicciardini e nella cultura fiorentina. Primo fra tutti Harrington, che dichiarò esplicitamente di allontanarsi, a questo riguardo, dalle considerazioni del Segretario fiorentino. L’autore di Oceana76, infatti, non valutava in modo positivo il conflitto politico-sociale: proponeva come ideale politico Venezia e non Roma, proprio per la stabilità delle istituzioni della prima e soprattutto per l’assenza di quelle tensioni, di quelle lotte, che a suo giudizio avevano perso la seconda.

E’ possibile rintracciare, più in generale, una serie significativa di differenze tra la riflessione di Harrington e quella di Machiavelli. Harrington presta un'attenzione particolare ai momenti istituzionali: alle competenze ed ai rapporti tra le due camere, alle procedure elettorali, e così via. In Machiavelli, per dirla con estrema semplificazione, l'attenzione cade, non solo sui momenti istituzionali, ma anche sulla virtù necessaria a creare e a conservare quelle istituzioni e sulla virtù indispensabile a dare loro nuova vita quando siano entrate in crisi e sia venuto il tempo di «ridurle ai principii». Se in Machiavelli è presente una scelta filopopolare, in Harrington è rintracciabile una presa di partito di segno opposto. Harrington è convinto che esista una «natural aristocracy» e non ha esitazione a sostenere che «the wisdom of the few may be the light of mankind». Argomenta che a tale aristocrazia riunita in Senato spetta il compito di dibattere le questioni politiche, da sottoporre poi all’assemblea popolare che ha il compito di decidere. Se Harrington dichiarava di apprezzare Machiavelli, il «learned disciple» degli antichi, «the only politician of later ages», non cessava in realtà di confrontarsi con Hobbes. E di Hobbes condivideva la preoccupazione per l’ordine e l’apprezzamento per la concordia. Non si può dimenticare che fin dalle prime pagine del Leviathan, fin dalla Introduzione, Hobbes aveva messo in chiaro che dell’Artificiall Man, dello stato, «Concord, [is] Health; Sedition, Sicknesse; and Civil war Death».

Dopo la restaurazione, fu invece Algernon Sidney a riprendere le prospettive dei Discorsi machiavelliani nella sua opera di teoria politica, non casualmente intitolata anch’essa Discourses. In una sezione che reca come titolo «No Sedition was hurtful to Rome, till through their Prosperity some men gained a Power above the Laws», argomenta in piena fedeltà al Segretario fiorentino che

Page 14: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

14

«whilst the Romans were in the way to this, no sedition did them any hurt: they were composed without blood; and those that seemed to be the most dangerous, produced the best laws»77. Sidney si pone nella stessa prospettiva di Machiavelli, poi, quando elabora una valutazione positiva tanto della virtù militare quanto dell’espansione. Al pari del Segretario fiorentino preferisce Roma a Sparta: la repubblica che estende i suoi territori alla repubblica che non pratica la conquista. Alcune delle sezioni dei suoi Discourses concerning Government sono intitolate «That is the best Government, which provides best for War» o «Civil Tumults and Wars are not the greatest Evils that befall Nations»78. Sidney, però, cerca di integrare il linguaggio del repubblicanesimo con elementi del linguaggio della tradizione della legge di natura: pretende, ad esempio, che la guerra di acquisizione condotta dalla repubblica sia una guerra giusta, che siano rispettate, cioè, le condizioni poste dallo jus ad bellum e dallo jus in bello.

Sidney venne seguito sul terreno dell’apprezzamento delle tesi machiavelliane sul ruolo dei tumulti e delle disunioni da Walter Moyle che, nell’Essay upon the Constitution of the Roman Government, giungeva ad argomentare che «the popular seditions under the commonwelth (...) reformed and perfected the Roman government»79. Nei primi decenni del Settecento le tesi di Machiavelli furono direttamente richiamate e discusse da un altro commonwelthman: Thomas Gordon. In un’operetta dedicata alla rivisitazione di un momento decisivo della storia romana, The Conspiration, or, the Case of Catilina, ad esempio, possiamo leggere una dichiarazione come la seguente: «And yet I shall not scruple to maintain, tho’ it may startle some men at first view, that all these virtue, order, and good discipline proceded from the tumults and civil broils that arase in the city of Rome»80. La valutazione positiva dei conflitti viene poi riproposta in alcune delle Cato’s Letters: in quella del 17 marzo 1721, così, possiamo trovare un’affermazione di tenore generale come la seguente: «these opposite views and interests will be causing a perpetual struggle: but by this struggle liberty is preserved, as water is kept sweet by motion»81.

2.3. tra Montesquieu e Ferguson Se passiamo in terra francese, può forse emergere che una serie di idee analoghe vennero

formulate da Montesquieu, che se non può essere ritenuto un pensatore «formellement républicain», deve però essere considerato un tramite fondamentale della trasmissione delle idee repubblicane al secondo Settecento82. Nelle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence Montesquieu prende una posizione analoga a quella di Machiavelli sul problema dei tumulti e delle divisioni che segnarono la storia di Roma. «On n’entend parler, dans les auteurs, que des divisions qui perdirent Rome; mais on ne voit pas que ces divisions y étoient nécessaires, qu’elles y avoient toujours été et qu’elles y devoient toujours être. (…) Il falloit bien qu’il y eût à Rome des divisions: et ces guerriers si fiers, si audacieux, si terribles au dehors, ne pouvoient pas être bien modérés au dedans. Demander, dans un État libre, des gens hardis dans la guerre, et timides dans la paix, c’est vouloir des choses impossibles». E trae anch’egli dall’esperienza della storia romana delle indicazioni di portata più generale, delle regole generali della politica. Scrive, infatti: «Et, pour règle générale, toutes les fois qu’on verra tout le monde tranquille dans un État qui se donne le nom de république, on peut être assuré que la liberté n’y est pas. Ce qu’on appelle union dans un corps politique est une chose très équivoque (...). Il peut y avoir de l’union dans un État où on ne croit voir que du trouble»83. Nell’ Esprit des Lois questa idea viene in qualche modo ripresa e riproposta nei passi in cui Montesquieu tratta dell’Inghilterra. Se nelle Lettres persanes aveva già osservato che in Inghilterra «l’on voit la liberté sortir sans cesse des feux de la discorde et de la sédition», nell’opera maggiore non solo la presenta come «una nation où la république se cache sous la forme de la monarchie», ma soprattutto come «une nation toujours échauffée», «plus aisément conduite par ses passion que par la raison»84.

La valutazione machiavelliana del ruolo della disunione e dei tumulti non viene però fatta propria da Rousseau, che pur riprende altre idee cardine del Segretario fiorentino e della tradizione repubblicana e non ha esitazioni a proporre una lettura obliqua del Principe, presentandolo come il libro dei repubblicani. Nel secondo capitolo del quarto libro del Contrat social mette invece in

Page 15: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

15

chiaro che la divisione tra patrizi e plebei rappresenta «un vice inherent au corps politique», in virtù del quale si hanno «deux Etats en un»85. Com’è noto, Rousseau non apprezza la diversità dei punti di vista, le differenze, nelle assemblee della Repubblica fondata sul contratto: egli è convinto infatti che «plus les avis approchent de l’unanimité, plus aussi la volonté générale est dominante».

Si può invece ricordare un pensatore scozzese che si mise nella stessa linea concettuale di Montesquieu, facendo tesoro tra l’altro di varie suggestioni presenti nella filosofia di Shaftesbury86: Adam Ferguson. Nell’Essay on the History of Civil Society, critica i valori che stanno prevalendo nelle «polished societies» del suo tempo e ironizza sugli appelli al refinement e alla politeness che significano, a suo giudizio, soltanto rinuncia alla virtù ed affievolimento dello spirito pubblico. Ferguson attribuisce pieno valore alla partecipazione ai public affairs, alla dedizione alla public life, una partecipazione ed una dedizione che sono necessariamente conflittuali. E spende intere pagine dell'Essay e dei Principles ad elaborare un vero e proprio elogio del conflitto. Afferma così: «The rivalship of separate communities, and the agitations of a free people, are the principles of political life, and the school of men»87. Ferguson è talmente convinto che i conflitti svolgano un ruolo positivo nella vita sociale e politica, che fa della tendenza a confliggere una costante, un carattere permanente, della natura umana: «Mankind not only find in their condition the sources of variance and dissension; they appear to have in their minds the seeds of animosity, and to embrace the occasions of mutual opposition, with alacrity and pleasure». Giunge persino a scrivere: «He who has never struggled with his fellow-creatures, is a stranger to half the sentiments of mankind»88. I cittadini divergono e si scontrano per le loro opinioni; riuniti in partiti, si oppongono per le scelte politiche da assumere a livello dello stato. Le comunità politiche sono in uno stato di continua tensione vicendevole: Ferguson sottolinea anche il ruolo positivo dell'emulazione fra gli stati e a volte della stessa guerra. La libertà scaturisce solo dal conflitto dei cittadini virtuosi; l'ordine politico è quello che consente alle differenze, alle dissonanze, di emergere e che le sintetizza ad un livello superiore. Ciò che spegne la libertà è la tranquillity, la unanimity che si hanno nelle nazioni moderne in cui il cittadino si disinteressa degli affari pubblici e si dedica alle sue occupazioni private: «When we seek in society for the order of mere inaction and tranquillity, we forget the nature of our subject, and we find the order of slaves, not that of free men»89.

2.4. una possibile tipologia Dopo questo rapido excursus, mi chiedo se non sia possibile distinguere nell’ambito del

pensiero politico del Sei e del Settecento due gruppi di teorie repubblicane. Un gruppo di teorie machiavelliane ed un gruppo di teorie che, per comodità, chiamerò non-machiavelliane. Le prime attribuiscono un ruolo positivo ai conflitti politici che si mantengono entro certi canali istituzionali; le seconde sono portate ad escludere il conflitto politico dalla fisiologia del corpo politico; le prime non propongono una nozione sostantiva di bene comune; le seconde ritengono che debba esistere una nozione di bene comune condivisa da tutti i cittadini; le prime vedono l'ordine politico emergere dal conflitto; le seconde delineano un ordine politico che, esclusi i conflitti, è in qualche modo da sempre fissato; le prime assumono come modello Roma, città della feconda disunione tra senato e plebe; le seconde, Venezia, città del governo stretto90.

Se questa distinzione ha qualche fondamento, può aiutarci a ripensare alcuni problemi relativi alle continuità e alle discontinuità presenti nella tradizione repubblicana. E’ stato spesso sostenuto, da John Pocock e da altri storici sulla sua scia, che il cittadino virtuoso dei repubblicani moderni non è altro che la riproposizione dello zoon politikon di aristotelica memoria. Ma se ci riferiamo a quella serie di pensatori che ho chiamato machiavelliani, a quei pensatori che vedono la libertà scaturire dalle discordie, dalle lotte, dai tumulti, appare che l’ordine politico da essi teorizzato difficilmente può essere considerato come una riproposizione dell’ordine aristotelico. L’ordine politico tematizzato da Aristotele è un ordine già da sempre dato: è per natura, non per convenzione. La vita politica buona non prevede, nella sua fisiologia, il conflitto. Nell'agorà ci dovrebbero essere relazioni agonali, determinate dalla volontà di eccellere, ma non ci dovrebbe essere spazio per il conflitto: tra i cittadini non dovrebbero esistere differenze così radicali da poter

Page 16: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

16

essere all'origine di veri e propri conflitti. Se questo è vero, i pensatori machiavelliani che riconoscono l’esistenza di umori diversi nella res publica, e la produttività del loro confronto conflittuale, difficilmente possono essere considerati dei semplici riformulatori della tesi aristotelica dell’uomo come zoon politikon. L’individuo da essi teorizzato è impegnato nella vita di una nuova repubblica, non è più il cittadino della polis ateniese. Esiste una discontinuità almeno tra questo gruppo di teorie della tradizione repubblicana e il patrimonio concettuale aristotelico.

Assumere come criterio discriminante il modo in cui viene tematizzato il problema dell’ordine e del conflitto consente di distinguere non soltanto la teoria politica di Machiavelli e dei pensatori machiavelliani dalle teorie repubblicane di matrice aristotelica, ma anche dalle teorie repubblicane che ripropongono l’ideologia della concordia ordinum di matrice ciceroniana, sulle quali si è più volte soffermato Quentin Skinner. Machiavelli elabora, come si è visto, una teoria politica che rappresenta una discontinuità radicale anche nei confronti delle teorie repubblicane pre-umanistiche e umanistiche che, contro il pericolo costituito dall’emergere delle fazioni, riprendevano la lezione del De officiis e insistevano con vigore sull’importanza della concordia nella vita civile. La teoria machiavelliana dei due umori, la teoria secondo cui in ogni repubblica esistono uomini che vogliono comandare e opprimere gli altri, ed altri uomini che vogliono star contenti del loro, perseguire i loro interessi senza opprimere gli altri, è una teoria che in nuce riconosce l’esistenza di una pluralità di valori e fini nella res publica. Dare rilievo al momento della disunione e dei tumulti, come fanno Machiavelli e i pensatori machiavelliani, vuol dire riconoscere che nella res publica non esiste una concezione condivisa del bene, vuol dire prendere atto del fatto che gli individui perseguono una pluralità di valori e fini, che possono entrare in conflitto gli uni con gli altri.

2.5. un lettore italiano di Machiavelli: Vittorio Alfieri Si può notare che nell’excursus storico precedente, sui pensatori sei e settecenteschi, non

ricorre nemmeno una volta il nome di un pensatore italiano. Ho già accennato al fatto che la tesi di Machiavelli relativa alla produttività dei tumulti suscitò scandalo nella cultura cinquecentesca fiorentina, venendo duramente avversata da Guicciardini. Potrebbe essere interessante chiedersi se e quando tale tesi venne ripresa da pensatori italiani. Non ho le competenze per fornire risposte plausibili. Molti studi sono stati dedicati, anche negli ultimi anni, alla presenza di Machiavelli nella cultura italiana tra Cinque e Settecento, alla sua controversa fortuna91. Ma è possibile che il terreno debba essere dissodato ulteriormente e la ricerca condotta in più direzioni. Posso soltanto richiamare l’attenzione su un pensatore che non si soffermò solo sul Principe, ma che lesse con grande attenzione i Discorsi, e riprese la tesi della fecondità dei conflitti nella repubblica: Vittorio Alfieri.

E’ noto che Vittorio Alfieri venne mosso dalla sollecitazione dell’amico Francesco Gori Gandellini a leggere le opere del Segretario fiorentino e che «invasato di quel suo dire originalissimo e succoso» si mise a scrivere «i due libri della Tirannide»92. Il Della tirannide, appunto, in due libri, scritto nel 1777, e Del principe e delle lettere, in tre libri, composto a partire del 1778, sono i testi in prosa che ci restituiscono il suo incontro con Machiavelli, che ci consentono di ricostruire la sua interpretazione del pensiero del Segretario fiorentino. Nel capitolo nono del libro secondo de Del principe e delle lettere, Machiavelli è presentato come «il solo vero filosofo politico» che l’Italia «abbia avuto finora»93: «profondissimo in tutto ciò che spetta ai governi, nella sublime e intera cognizione e sviluppo del cuor dell’uomo inimitabile maestro, è stato e merita d’essere capo-setta fra noi»94. Alfieri, prima di tutto, propone una lettura obliqua del Principe, com’era costume nella cultura europea, da Alberico Gentili, a Spinoza, a Rousseau, e come tra gli italiani avrebbe fatto, proprio nello stesso anno, anche Giuseppe Maria Galanti, nel suo Elogio del Machiavelli. Alfieri sostiene così che le «massime immorali e tiranniche» esposte nel Principe «dall’autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambiziose ad avvedute crudeltà dei principi che non per insegnare ai principi a praticarle»95. Ma, come sarà anche per Galanti,96 sono sopratutto i Discorsi ad interessare ad Alfieri, ad essere da lui considerati il

Page 17: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

17

testo-chiave: «All’incontro, il Machiavelli nelle storie, e nei discorsi sopra Tito Livio, ad ogni sua parola e pensiero, respira libertà, giustizia, acume, verità, ed altezza di animo somma: onde chiunque ben legge, e molto sente, e nell’autore s’immedesima, non può riuscire se non un focoso entusiasta di libertà, e un illuminatissimo amatore d’ogni politica virtù»97.

Di questa libertà Alfieri aveva discorso a lungo nelle pagine dell’opera precedente, Della tirannide, costruita tutta sull’opposizione tirannide-repubblica. Nel settimo capitolo del primo libro, dedicato ad una critica degli eserciti permanenti, della «moderna milizia» che «colla sua perpetuità annulla (…) l’apparenza stessa del vivere civile», troviamo Alfieri argomentare: «Non accade nella tirannide, come nelle vere repubbliche, che le interne dissensioni vengano ad esservi una parte di vita; e che, saggiamente mantenutevi ed adoprate, vi accrescano la libertà. Ogni diversità d’interesse nella tirannide, accresce al contrario la pubblica infelicità, e la universal servitù»98. Nei capitoli successivi il tema è sviluppato a più riprese. Nell’undicesimo, dedicato alla critica «della nobiltà», «uno dei maggiori ostacoli al viver libero», Alfieri ritorna sulla vicenda della repubblica romana e sostiene innanzitutto che «Roma non fu veramente libera e grande, che alla creazion dei tribuni». Sviluppa poi un ragionamento che mi pare pienamente fedele alla sostanza dell’argomentare machiavelliano, se non alla lettera. Mette in luce, infatti, l’esistenza di due tipi di conflitti, di due tipi di dissensioni. Distingue così tra «disparità di opinioni» e «disparità di interessi»: le prime mantengono e sviluppano la libertà, le seconde possono porle termine, soprattutto quando un interesse prevalga completamente sull’altro. Il suo ragionamento si apre con un puntuale rinvio a quanto sostenuto da Machiavelli nei Discorsi, e poi sulla sua scorta da Montesquieu. Vale la pena di seguire da vicino il testo: «Fu dottamente e con sagacità osservato, prima dal nostro gran Machiavelli, e con qualche maggior ordine poi da Montesquieu, che quelle gare stesse fra la nobiltà ed il popolo erano state per più secoli il nerbo, la grandezza e la vita, di Roma: ma la sacra verità comandava pur anco, che si osservasse da codesti due grandi, che quelle dissensioni stesse ne erano state poi la intera rovina; e il come, e il perché, ampiamente da essi indagar si doveva. E io mi fo credere, che se tali due sommi avessero voluto, od osato spingere alquanto più oltre il loro riflessivo ragionamento, avrebbero essi indubitabilmente assegnato per principalissima cagione di una tale intera rovina la ereditaria nobiltà». Alfieri interpreta i grandi ed il popolo machiavelliani non come due umori che rinviano a costanti antropologiche, ma come termini che designano due precise classi sociali. Egli pensa e progetta, però, una repubblica senza nobiltà. Osserva così: «Che se le dissensioni, o per meglio dire le disparità di opinioni, sono necessarie in una repubblica per mantenervi la vita e la libertà, bisogna pur confessare che le disparità d’interessi dannosissime vi riescono, e di necessità mortifere ogniqualvolta l’uno dei due diversi interessi interamente la vince. Ora, mi pare innegabile, che ogni primazia ereditaria di pochi genera un interesse di conservazione e di accrescimento, diverso e opposto all’interesse di tutti. Ed ecco il vizio radicale, per cui ogniqualvolta in uno stato esisterà una classe di nobili e sacerdoti, a parte del popolo, saranno questi lo scandalo, la corruzione, e la rovina di tutti»99. Alfieri pregia un conflitto, una dissensione, non tra gruppi sociali, agglutinati attorno a precisi interessi, ma un conflitto di opinioni in un popolo non più diviso da precise gerarchie. Come Montesquieu, guarda anch’egli all’Inghilterra come possibile modello di repubblica, non senza aver precisato però che in Inghilterra la nobiltà è stata privata di molto potere: «una nobiltà dunque così felicemente rattemperata, come la inglese lo pare, per certo riesce assai meno nociva che ogni altra; e al potersi veramente far utile al pubblico, altro forse non le mancherebbe che di non essere ereditaria». In quel contesto, la dissensione è «permanente e vivificante», la libertà è ancora legata al conflitto, ma ad un conflitto che assume modalità nuove: «Si osservi in oltre, che se in alcuna cosa la repubblica inglese pare più saldamente costituita che la romana, si è nell’essere in Inghilterra la dissensione permanente e vivificante, non accesa fra i nobili e il popolo come in Roma, ma accesa bensì fra il popolo e il popolo, cioè fra il ministero e chi vi si oppone. Quindi, non essendo questa dissensione generata da disparità di ereditario interesse, ma da disparità di passeggera opinione, ella vien forse a giovare assai più che a nuocere; poiché nessuno talmente aderisce ad una parte, ch’egli non possa spessissimo passare dalla contraria;

Page 18: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

18

nessuna delle due parti avendovi interessi permanentemente opposti, e incompatibili col vero bene di tutti»100.

Sul terreno del rapporto tra conflitto e libertà, così come su altri terreni, Alfieri riformula idee del Segretario fiorentino. Non può stupire, allora, che nel capitolo conclusivo del Della tirannide, spiegando perché non si predispone a comporre un’altra opera, un Della repubblica, presti ancora omaggio al suo contributo: «E mille e mille altre cose io mi troverei costretto a premettere a quella Repubblica mia; le quali cose per essere già state dette meglio ch’io non le direi mai, massimamente da quel nostro divino ingegno del Machiavelli, (…) inutili per sé stesse riuscirebbero»101

3. dopo Machiavelli: il problema del conflitto nel repubblicanesimo contemporaneo La costellazione del repubblicanesimo contemporaneo è molto articolata. Forse è meglio

riconoscere che esistono vari repubblicanesimi contemporanei, molto diversi gli uni dagli altri, per ricostruzioni storiografiche e tesi di fondo di carattere normativo. Si va da John Pocock a Quentin Skinner, da Michael Sandel a Philip Pettit, da Claude Lefort ad Antonio Negri. Se la discussione sul repubblicanesimo negli anni sessanta era nata in ambito storiografico, si è andata spostando negli ultimi due decenni sempre più in campo teorico-politico o filosofico-politico. Pensatori diversi si sono misurati con l’eredità di Machiavelli, hanno identificano alcune sue idee-chiave, che in varie forme hanno ritenuto ancora feconde per affrontare i problemi dell’oggi. In questa variegata costellazione di storici, teorici politici e filosofi, vi sono in particolare alcuni pensatori che hanno riproposto e riformulato il tema machiavelliano dell’inevitabilità e della produttività dei conflitti. Mi soffermo solo su due autori, appartenenti a contesti culturali diversi: Claude Lefort e Philip Pettit. Dedico poco più di un cenno ad ognuno di essi: si tratta solo di suggestioni per una ulteriore ricerca.

Di Claude Lefort, innanzitutto, va ricordato che è l’autore di un’importante opera sul Segretario fiorentino, Le travail de l’oeuvre. Machiavel, apparsa nel 1972, con le sue ponderose 776 pagine. Si tratta tanto di una raffinata analisi della storiografia su Machiavelli, da Francesco De Sanctis a Ernst Cassirer a Gerhard Ritter, da Antonio Gramsci a Leo Strauss, quanto di un saggio interpretativo delle strutture concettuali della riflessione machiavelliana. Secondo Lefort, il contributo fondamentale di Machiavelli consiste nella scoperta del carattere irriducibilmente conflittuale della politica. Se la politica classica considera la stasis, la discordia, un male da evitarsi, Machiavelli scopre nell’opposizione di due desideri antitetici, quello dei grandi di dominare e quello del popolo di non essere dominato e di vivere libero, l’elemento costitutivo dello spazio politico e sociale. A differenza di Marx, Machiavelli ha compreso che il conflitto non è superabile: fu la risorsa principale del dinamismo della repubblica romana. Ed il conflitto è la fonte stessa di quella che Lefort definisce l’invenzione democratica: sostiene infatti che «la società democratica si istituisce soltanto in virtù della sua divisione». Meglio: essa esiste e si mantiene soltanto grazie a questa divisione. E’ da questa prospettiva machiavelliana che Lefort ripensa l’opposizione tra democrazia e totalitarismo, in una serie di studi, da L’invention démocratique a Écrire à l’épreuve du politique102, in cui vengono pubblicati non a caso anche importanti saggi sulla tradizione repubblicana moderna.

La democrazia non è soltanto una specifica forma di governo, ben più radicalmente per Lefort è quella modalità di organizzazione della società che riconosce al proprio interno la legittimità del conflitto. Al contrario, il totalitarismo si definisce, si presenta, come quella modalità di organizzazione della società che procede ad una potente negazione del conflitto, mettendo in atto una logica identitaria e di totale dominio nei confronti del reale e delle sue differenze.

Se si abbandona il contesto culturale francese e si prende in considerazione quello anglosassone, si può fare riferimento a Philip Pettit e alla nozione di contestatory democracy da lui proposta nelle pagine di Republicanism. A Theory of Liberty and Government103, testo pubblicato nel 1997. Pettit è un filosofo politico di formazione analitica che per lungo tempo si è occupato di teorie della giustizia104, di teorie dell’agire razionale e di teorie dei giochi, di questioni di metaetica

Page 19: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

19

e di etica pratica, e persino di problemi di filosofia del diritto, relativi alla giustificabilità delle pene105. E’ un filosofo, però, che spinto dai suoi interessi teorici, dal problema di individuare una definizione convincente di libertà, ha incontrato la tradizione repubblicana e ha compiuto un lungo viaggio in quella che una volta veniva chiamata la storia delle idee per identificare i suoi tratti salienti, riproponibili all’attenzione contemporanea. Sulle orme di Quentin Skinner, ritiene che il concetto di libertà fatto proprio dai pensatori repubblicani sia il primo aspetto della loro riflessione da riportare alla luce e riformulare per le sfide dell’oggi. Pettit è convinto che i pensatori della tradizione repubblicana abbiano elaborato un concetto di libertà non riconducibile alla classica dicotomia resa celebre da Isaiah Berlin; sostiene che essi hanno delineato i tratti di un originale terzo concetto di libertà, per il quale la libertà è vista non come assenza di interferenza, ma come assenza di dominio. Non si possono approfondire qui le analisi storiche e concettuali relative a questa terza concezione della libertà, sviluppate in modo articolato nella prima parte del volume; conviene piuttosto accennare alla seconda parte del volume nella quale Pettit presenta l’insieme delle istituzioni che a suo giudizio si possono far discendere da una tale concezione della libertà, disegna cioè il profilo dello stato che rende possibile l’esperienza della libertà come assenza di dominio. Quello che Pettit propone non è un repubblicanesimo che dà spazio alla partecipazione politica diretta, ma piuttosto un repubblicanesimo che si preoccupa di predisporre le garanzie costituzionali, gli artifici istituzionali, perché venga preservata la libertà come assenza di dominio. Pettit si sofferma su di un insieme di garanzie costituzionali, tipiche in realtà degli stati costituzionali di diritto: si va dalla richiesta che il governo operi per leges e sub lege, alla previsione non solo della canonica separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, ma anche alla delineazione di altre forme di distribuzione del potere. Quel che è interessante è che Pettit riconosce che anche con questo genere di procedure e di artifici istituzionali vi sarà sempre un margine più o meno ampio di discrezione nell’operato del governo. Per evitare che questo margine di discrezionalità sia fatto valere contro gli interessi e le scelte del popolo è, a suo giudizio, importante introdurre delle possibilità istituzionali di contestazione dell’operato del governo. Emerge, così, un’altra parola chiave del libro: contestability, la possibilità di contestazione. Pettit delinea e propone «l’ideale di una democrazia basata non su un presunto consenso dei cittadini, ma piuttosto sulla possibilità da parte del popolo di contestare qualsiasi provvedimento governativo». Vincoli costituzionali e contestatory democracy sono dunque necessari per consentire il pieno dispiegamento della libertà come assenza di dominio.

Un ultimo elemento merita di essere menzionato, in relazione alla pratica della contestazione legittima: quello della vigilanza, che deve essere mantenuta sulle azioni delle autorità. «I normali cittadini devono farsi carico di quell’eterna vigilanza che costituisce il prezzo della libertà repubblicana» sostiene Pettit. La vigilanza repubblicana, «tesa a mantenere sul chi vive le autorità», la vigilanza pronta a trasformarsi in contestazione, è una delle facce della virtù civica, di quel senso civico che è necessario alla sopravvivenza della repubblica democratica. Forse non è sbagliato leggere in questa nozione di una continua possibilità di contestazione da parte dei cittadini la riformulazione dell’idea machiavelliana del popolo come guardia della libertà e riconoscere, più in generale, che anche per Pettit la libertà si configura come il risultato del conflitto.

Ma si potrebbero fare altri nomi di pensatori che sono ritornati a leggere Machiavelli, meglio, questo Machiavelli, per far fronte alle sfide del presente106. Non è casuale che quando il progetto politico moderno, incentrato sulle categorie di Stato, di sovranità, di rappresentanza, sembra essere entrato in una crisi irreversibile, si ritorni ai suoi testi, che sviluppano prospettive per molti versi a quello estranee. Le tesi del Machiavelli sul ruolo delle disunioni nella vita politica e sul rapporto tra conflitti e forme giuridiche continuano ad inquietare i contemporanei. 1 Cfr. N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, a cura di F. Gaeta, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 68-70; [d’ora in poi rinvierò a questa edizione con l’indicazione abbreviata Istorie fiorentine]. 2 Sulla discontinuità tra Principe e Discorsi, si veda la classica tesi di H. BARON, Machiavelli: the Republican Citizen and the Author of «The Prince», in «The English Historical Review», LXXVI, 1961, pp. 217-253, tr. it. in H. Baron, Machiavelli, Milano, Anabasi, 1994, pp. 7-65; sulle palesi differenze tra Principe, da un lato, e Arte della guerra e

Page 20: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

20

Istorie fiorentine, cfr. F. GILBERT, The Composition and Structure of Machiavelli’s «Discorsi», in «Journal of the History of Ideas», 1953, tr.it. in F. Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, Bologna, il Mulino, 1977², pp. 223-252: 244-245. 3 Di recente Mario Martelli ha osservato: «Raramente è dato trovare acque così tempestose come quelle attualmente solcate dalla navicella degli studi machiavelliani. Su niente c’è accordo: non sulla cronologia e sulla storia redazionale del Principe; non sulla storia redazionale e sulla cronologia dei Discorsi; non sul significato del concetto e dell’ente “principato civile”; non sull’attribuzione del cosidetto Dialogo o discorso intorno alla nostra lingua (…)». Cfr. M. MARTELLI, Machiavelli e Firenze dalla Repubblica al Principato, in J.-J. Marchand, a cura di, Niccolò Machiavelli. Politico storico letterato, Roma, Salerno, 1996, pp. 15-31, p. 15. Francesco BAUSI ha sostenuto che la redazione dei Discorsi si estese fino al 1523-24: cfr. F. BAUSI, Introduzione, in N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, Roma, Salerno, 2001, t. 1, pp. ix-xxxiii, in particolare pp. xv-xviii. 4 Contro la tesi di H. Baron, seguo l’interpretazione e la cronologia proposta da G. SASSO, Niccolò Machiavelli, I. Il pensiero politico, Bologna, il Mulino, 1993³, pp. 328-331 e pp. 349-356. Si veda anche G. INGLESE, Discorsi sopra la prima Deca diTito Livio di Niccolò Machiavelli, in A. Asor Rosa, a cura di, Letteratura italiana. Le Opere, Torino, Einaudi, 1992, I, pp. 943-1008. 5 G. SASSO, Niccolò Machiavelli, I. Il pensiero politico, cit. p. 15. cfr. G. SASSO, Niccolò Machiavelli, II. La storiografia, Bologna, il Mulino, 1993, p. 485. 6 Cfr. N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, introduzione di G. Sasso, premessa al testo e note di G. Inglese, Milano, BUR, 1996² [d’ora in poi rinvierò a questa edizione con l’indicazione abbreviata Discorsi]; per il termine tumulti, si veda, ad esempio, Discorsi I.4.2, p. 70; I.4.5, p. 71; I.5.17, p. 74; I.6.5, p. 75; I.8. 5, p. 83; I.17.13, p. 107; per il termine disunioni, cfr. ad esempio, Discorsi, I.2.36, p. 69; I.4.1, p. 70. 7 Per controversie, cfr. Discorsi I.6.2 e I.6.4, p. 75; per dissensioni universali, cfr. ivi I.6.25, p. 77; per differenzie, cfr. ivi I.4.6, p. 71; per romori, cfr. Discorsi I.3.9, p. 70. 8 Per le due espressioni, cfr. ad esempio, Istorie fiorentine, p. 68. 9 Per una collocazione della riflessione politica di Machiavelli in una posizione diversa, altra, laterale, rispetto a quella della statualità moderna e dei suoi teorici, cfr. C. GALLI, Il volto demoniaco del potere? Alcuni momenti e problemi della fortuna continentale di Machiavelli, in R. Caporali, a cura di, Machiavelli e le Romagne, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1998, pp. 101-126; C. GALLI, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 33-37. 10 Divisioni e inimicizie sono due termini generici che vengono di volta in volta qualificati da Machiavelli: ad esempio, cfr. Discorsi, I.6.3, p. 75; ivi, I.37.22, p.142; Istorie fiorentine, III.1, pp. 212-213. 11 Istorie fiorentine, III.1, p. 212. 12 Discorsi, I.2.31, p. 68. 13 Ivi, I.2.30, p. 68 e I.2.36, p. 69. 14 Ivi, I.3.9, p. 70. 15 Ivi, I.4.5, p. 71. 16 Ivi, I.4.2, p. 70. 17 Cfr. G. SASSO, Machiavelli e i detrattori, antichi e nuovi, di Roma. Per l’interpretazione di «Discorsi» 1 4, (1978), ora in ID., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano – Napoli, Ricciardi, 1987, t. 1, pp. 401-536. 18 Sull’utilizzazione machiavelliana della teoria degli umori, si veda, tra gli altri: A. PAREL, The Machiavellian Cosmos, New Haven, Yale U.P., 1992, passim; da ultimo, M. GAILLE-NIKODIMOV, A la recherche d’une definition des institutions de la liberté. La medecine, langage du politique chez Machiavel, in «Astérion. Revue de philosophie, histoire des idées, pensée politique», I, 2003, n. 1, pp. 70-86; M. GAILLE-NIKODIMOV, Conflit civil et liberté. La politique machiavéllienne entre histoire et médecine, Paris, Champion, 2004, in particolare pp. 61-101. 19 N. MACHIAVELLI, Il Principe, nuova edizione a cura di G. Inglese, Torino, Einaudi, 1995: IX.2, p. 63. 20 Discorsi, I. 4, 5 p. 71. Secondo Paul Larivaille i termini umore / umori ricorrono diciassette volte nel testo dei Discorsi, cfr. P. LARIVAILLE, La pensée politique de Machiavel. Les Discours sur la première décade de Tite Live, Nancy, Presses Universitaires de Nancy, 1982, p. 227, n. 10. 21 Cfr. Discorsi, II.5.16, p. 309 e, soprattutto, ivi, III.1.3, p. 461. 22 G. INGLESE, Note, in Discorsi, p. 204, n. 5. Non appare accettabile la lettura di C. LEFORT, Le travail de l’oeuvre. Machiavel, Paris, Gallimard, 1972, pp. 474-521: Lefort propone un’interpretazione latu senso materialistica delle disunioni e parla di «fecondité de lutte de classes» p. 476. 23 Discorsi, I.16, 23, p. 105 24 Ivi, I.55.18, p. 175. 25 N. MACHIAVELLI, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentiis Medices, in ID., L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard e G. Masi, Roma, Salerno, 2001, pp. 621-641, in particolare p. 633. Su questo testo, da ultimo, cfr. F. RAIMONDI, Il paradigma-Firenze nel Discursus florentinarum rerum di Machiavelli: in principio sono i conflitti, i conflitti governano, in M. Scattola, a cura di, Figure della guerra. La riflessione su pace, conflitto e giustizia tra Medioevo e prima età moderna, Milano, Franco Angeli, 2003, pp. 145-175.

Page 21: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

21

26 Discorsi, I.4.1, p. 70. Tra le interpretazioni recenti di questo cruciale capitolo dei Discorsi, cfr. T. MÉNISSIER, Ordini e tumulti selon Machiavel: la république dans l’histoire, in «Archives de philosophie. Recherches et documentation», LXII, 1999, n. 2, pp. 221-239 ; F. DEL LUCCHESE, «Disputare» e «combattere». Modi del conflitto nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli, in «Filosofia politica», XV, 2001, n.1, pp. 71-95. 27 Discorsi, I.4.5, p. 71 per questa citazione e ivi, I.4.7, p. 71, per la precedente. Per la tematizzazione machiavelliana della differenza tra ordini e leggi, cfr. ivi, I. 18.7-12, p. 109. 28 Discorsi, I.37.22, p. 142. Su come vada interpretata, poi, questa libertà esistono interpretazioni discordanti. Gennaro Sasso ha insistito sul fatto che soggetto e protagonista della libertà, per Machiavelli, è innanzitutto lo Stato: «Quel che insomma conta, per Machiavelli, non è che i cittadini siano ‘liberi’, ma che lo stato sia effettivamente ‘padrone’ del suo contenuto, politico e sociale, - e perciò ‘duri’. O se si preferisce: perché lo stato sia padrone del suo contenuto, e perciò duri, - per questo, e in questo senso, i cittadini debbono essere liberi. (…) La libertà non è perciò che il termine che comprende in sé gli specifici attributi dello stato ‘bene ordinato’, nella sua forma regia, e sopra tutto, in quella ‘repubblicana’», G. SASSO, Niccolò Machiavelli, I. Il pensiero politico, cit., pp. 512-13. Quentin Skinner ha proposto invece un’interpretazione che mette in primo piano la libertà individuale, sostiene che quella teorizzata da Machiavelli va considerata una forma di libertà negativa, connette peraltro saldamente libertà individuale e libertà collettiva: cfr. Q. SKINNER, Liberty before Liberalism, Cambridge, Cambridge U.P., 1998, tr.it. La libertà prima del liberalismo, Torino, Einaudi, 2001; Q. SKINNER, Machiavelli on virtù and the maintenance of liberty, in ID. Visions of Politics, II. Renaissance Virtues, Cambridge, Cambridge U.P., 2002, pp. 160-185. 29 Discorsi, I.5.13-14, p. 74 30 Ivi, I.6.21, p. 77 31 Ivi, I.6.36-37, p. 79 32 Ivi, I.6.19, p. 77 33 Ivi, I.4.8, p. 72 34 Ivi, I.4.9, p. 72 35 Si potrebbe ricordare, ad esempio, che Machiavelli dedica il capitolo cinquattottesimo del primo libro dei Discorsi, al tema La moltitudine è più savia e più costante che uno principe. Di parere opposto, cfr. F. BAUSI, I ‘Discorsi’ di Niccolò Machiavelli. Genesi e strutture, Firenze, Sansoni, 1985, p. 57: «Tutto ciò attesta con sufficiente chiarezza la lenta, parziale ma evidente trasformazione dell’atteggiamento politico machiavelliano nei Discorsi rispetto al trattato sulle repubbliche: trasformazione che potremmo sintetizzare come passaggio da posizioni filopopolari a un atteggiamento ‘moderato’, incline a smorzare i toni della polemica antiottimatizia (e antiveneziana)». 36 Cfr. A. MOULAKIS, Homonoia. Eintracht und die Entwicklung eines politischen Bewußteins, München, List, 1973. 37Ancora di recente, Carlo Ginzburg richiamava l’attenzione sul fatto che la storiografia non ha ancora stabilito su quali edizioni Machiavelli avesse letto la Politica di Aristotele, ed eventualmente l’Etica Nicomachea, proponendo alcune congetture. Cfr. C. GINZBURG, Machiavelli, l’eccezione e la regola. Linee di una ricerca in corso, in «Quaderni storici», XXXVIII, 2003, n. 112, pp. 195-213, in particolare pp. 205-206. 38 M.T. CICERONE, De re publica, II, 42, 69, in ID., Opere politiche e filosofiche, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Torino, Utet, 1986, I, p. 290 39 M.T. CICERONE, De officiis,II, 22, 78, in ID. Opere politiche e filosofiche,cit., I, p. 742. 40 Cfr. Q. SKINNER, Machiavelli’s Discorsi and the pre-humanist origins of republican ideas, in G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli, eds., Machiavelli and Republicanism, Cambridge, Cambridge U.P., 1990, pp. 121-141.; Q. SKINNER, Visions of Politics, II. Renaissance Virtues, cit., pp. 10-118. Il passo di Sallustio è in Bellum Jugurthinum, X.7. 41Si veda, da ultimo, F. BRUNI, La città divisa. Le parti e il bene comune da Dante a Guicciardini, Bologna, il Mulino, 2003. 42 Cfr. Consulte e pratiche della Repubblica fiorentina. 1498-1505, a cura di D. Fachard, con prefazione di G. Sasso, Genève, Droz, 1993. Tra le discussioni delle pratiche degli anni precedenti si veda quella del 13 giugno 1497, dedicata alla questione: «che modi et via siano da tenere circa l’unione de cictadini et fargli concorde insieme». Sui dibattiti nelle Consulte e Pratiche, cfr. F. GILBERT, Florentine Political Assumptions in the Period of Savonarola and Soderini, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1957, tr.it. in Machiavelli eil suo tempo, cit., pp. 67-114. 43 Discorsi, I.4.5, p. 71. 44 Ivi, I.4.7, p. 71 e cfr. ivi, I.4.6, p. 71: «in tanto tempo per le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne condannò in denari». 45 Istorie fiorentine, III.1, p. 212, per questa e la citazione precedente. Per un’analisi dei caratteri peculiari della riflessione machiavelliana sui conflitti condotta nelle Istorie fiorentine, cfr. G. BOCK, Civil discord in Machiavelli’s Istorie fiorentine, in Machiavelli and Republicanism, cit., pp. 181-201 ; G. SASSO, Il conflitto sociale. Un intermezzo storico-teorico, in Id. Niccolò Machiavelli, II. La storiografia, cit., pp. 167-216; F. DEL LUCCHESE, «Disputare» e «combattere». Modi del conflitto nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli,cit., in particolare pp. 80-95. 46 Sulla nozione di bene comune nel pensiero di Machiavelli, si veda ora il pregevole saggio di G.M. BARBUTO, Machiavelli e il bene comune. Una politica ossimorica, in «Filosofia politica», XVII, 2003, n. 2, pp. 223-244.

Page 22: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

22

47 Sulle implicazioni filosofiche della nozione di riconoscimento, si vedano da prospettive diverse, A. HONNETH, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, tr.it. Milano, Il Saggiatore, 2002; P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance. Trois études, Paris, Stock, 2004. 48 Discorsi, I.2. 35 e 36, p. 69. 49 Seguo da vicino l’interpretazione proposta da R. ESPOSITO, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, Napoli, Liguori, 1984, pp. 147-154. 50 A lungo è prevalsa la tesi del debito machiavelliano nei confronti del VI libro delle Storie di Polibio. Per un’analisi ormai classica delle affinità e delle differenze tra le due trattazioni, si veda G. SASSO, Machiavelli e la teoria dell’anacyclosis, e, Machiavelli e Polibio. Costituzione, potenza, conquista, ora in ID., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, cit., t. 1, pp. 3-65 e 67-118. Di recente, alcuni storici hanno sottolineato l’importanza della trattazione di Dionigi di Alicarnasso nelle Antiquitates: cfr. G. PEDULLÀ, La ricomparsa di Dionigi. Niccolò Machiavelli tra Roma e Grecia, in «Storica», X, 2004, n. 28, pp. 7-90; M. GAILLE-NIKODIMOV, Conflit civil et liberté. La politique machiavéllienne entre histoire et médecine,cit., pp. 29-30 e 78-79. 51 Istorie fiorentine, VII.1, pp. 451-452. Il brano merita di essere letto per intero: «Ma prima voglio alquanto, secondo la consuetudine nostra ragionando, dire come coloro che sperano che una repubblica possa essere unita, assai di questa speranza s’ingannano. Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle repubbliche e alcune giovono. Quelle nuocono che sono dalle sette e da partigiani accompagnate, quelle giovano che sanza sette e sanza partigiani si mantengono. Non potendo adunque provvedere uno fondatore di una republica che non sieno inimicizie in quella, ha a provvedere almeno che non vi sieno sette». E’ un’ulteriore affermazione machiavelliana dell’intrascendibilità, dell’insuperabilità, dei conflitti. 52 Discorsi, I.7.10, p. 81. 53 Ivi, I.37.25, p. 142. 54 Ivi I.37.16, p. 141: «e si accese per questo tanto odio intra la Plebe e il Senato che si venne nelle armi e al sangue, fuori d’ogni modo e costume civile». 55 A. PIZZORNO, Come pensare il conflitto, in Le radici della politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 187-203, p. 195 per le due ultime citazioni. 56 Discorsi, II.2. 27-32, pp. 298-99. Già molti anni fa Isaiah Berlin aveva richiamato l’attenzione su questo aspetto della riflessione di Machiavelli. Cfr. I. BERLIN, The Originality of Machiavelli, in M.P. Gilmore, ed., Studies on Machiavelli, Firenze, Sansoni, 1972, pp. 147-206; poi in I. BERLIN, Against the Current. Essays in the History of Ideas, London, Hogarth, 1979, tr. it. Controcorrente. Saggi di storia delle idee, Milano, Adelphi, 2000, pp. 39-117. Non penso però che si possa seguire Berlin quando conclude che nel pensiero di Machiavelli si da soltanto un conflitto tra due etiche, e non anche un conflitto tra etica e politica. 57 Cfr. G. BORRELLI, Conflitti, innovazioni, “ mala contentezza”: Machiavelli tra filosofia e politica, in Id., Non far novità. Alle radici della cultura italiana della conservazione politica, Napoli, Bibliopolis, 2000, pp. 15-38. 58 Sulle dinamiche della mala contentezza e, più in generale, della corruzione, si veda ora D. TARANTO, Sulla «corruzione» in Machiavelli: tra temporalità e privato, in ID., Le virtù della politica. Civismo e prudenza tra Machiavelli e gli antichi, Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 127-146. 59 Istorie fiorentine, Proemio, p. 69. 60 Discorsi, I.37.8, p. 140. 61 Ivi, I.13, p. 97. Sul tema cfr. E. CUTINELLI-RENDINA, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1998, in particolare pp. 153-252. 62 Sulle difficoltà, le aporie, del ricorso alla misura del «tenere ricco il pubblico e gli loro cittadini poveri», si vedano le considerazioni di G. SASSO, Niccolò Machiavelli, I. Il pensiero politico, cit., pp. 532-544; sulle difficoltà del ricorso allo strumento della religione, si vedano le osservazioni di R. Esposito, Ordine e conflitto. Machiavelli e la letteratura politica del Rinascimento italiano, cit., pp. 218-220. 63 Discorsi, I.1.15, p. 62. 64 Si veda, da ultimo, C. GALLI, Guerra e politica: modelli d’interpretazione, in «Ragion pratica», VIII, 2000, n. 14, pp. 163-196, in particolare pp. 170-172. 65 Discorsi, III.41.5, p. 563. 66 G. SASSO, Niccolò Machiavelli, I. Il pensiero politico, cit., p. 528. 67 Cfr. M. VIROLI, Machiavelli, Oxford, Oxford U.P., 1998, pp. 5-6 e 115-131; si veda anche M. VIROLI, Il repubblicanesimo di Machiavelli, in ID., a cura di, Libertà politica e virtù civile. Significati e percorsi del repubblicanesimo classico, Torino, Fondazione Agnelli, 2004, pp. 1-29, in particolare pp. 2-5. 68 Sulla questione, cfr. T. BERNS, L’originaire de la loi chez Machiavel, in G. Sfez, M. Senellart, a cura di, L’enjeu Machiavel, Paris, PUF, 2001, pp. 123-140; F. DEL LUCCHESE, Della iustitia, ne havete non molta, et dell’armi non punto: diritto e conflitto in Machiavelli, in ID. Tumulti e indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza, Milano, Ghibli, 2004, pp. 241-264. 69 Si veda, tra gli studi più recenti, M.E. VATTER, Between Form and Event. Machiavelli’s Theory of Political Freedom, Dordrecht, Kluwer, 2000, in particolare la parte seconda Machiavelli’s theory of history: modes of encounter between action and time, pp. 133-218.

Page 23: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

23

70 Cfr. G. SFEZ, Machiavel, la politique du moindre mal, Paris, PUF, 1999 ; G. FERRONI, Machiavelli, o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Roma, Donzelli, 2003. 71 Discorsi, I.6.20-22, p. 77. 72 Il Principe, XXI. 24, p. 152: «Né creda mai alcuno stato potere pigliare sempre partiti sicuri, anzi pensi di avere a prenderli tutti dubi; perché si truova questo, nell’ordine delle cose, che mai si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in un altro: ma la prudenza consiste in sapere conoscere le qualità degli inconvenienti e pigliare el men tristo per buono». 73 F. GUICCIARDINI, Dialogo del reggimento di Firenze, a cura di G.M. Anselmi e C. Varotti, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 105. 74 Ivi, p. 158. 75 F. GUICCIARDINI, Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, in N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1983, pp. 528, per questa e le due citazioni precedenti. Sul pensiero di Guicciardini, da ultimo, cfr. G.M. BARBUTO, La politica dopo la tempesta. Ordine e crisi nel pensiero di Francesco Guicciardini, Napoli, Liguori, 2002. 76 Cfr. J. HARRINGTON, The Commonwealth of Oceana, ed. by J.G.A. Pocock, Cambridge, Cambridge U.P., 1992, pp. 33 e 218-220. Sul pensiero di Harrington, fondamentali sono gli studi di Blair WORDEN, James Harrington and the Commonwealth of Oceana, 1656; Harrington’s Oceana: Origins and Aftermath, 1651-1660; in D. Wootton, ed., Republicanism, Liberty and Commercial Society, 1649-1776, Stanford, Stanford U.P., 1994, pp. 82-138 e 422-434; tra i lavori italiani, si veda da ultimo: E. CAPOZZI, Costituzione, elezione, aristocrazia. La repubblica ‘naturale’ di James Harrington, Napoli, ESI, 1996. 77 Cfr. A. SIDNEY, Discourses concerning Government, ed. by T.G. West, Indianapolis, Liberty Fund, 1990, pp. 153-54. Sul pensiero di Algernon Sidney, si veda J. SCOTT, Algernon Sidney and the English Republic, 1623-1677, Cambridge, Cambridge U.P., 1988; Id., Algernon Sidney and the Restoration Crisis, 1677-1683, Cambridge, Cambridge U.P., 1991; tra i contributi italiani, G. CAMBIANO, Polis. Un modello per la cultura europea, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 256-259; C. CUTTICA, Il primato della politica: Algernon Sidney commonwelthman, in F. De Michelis Pintacuda – G. Francioni, a cura di, Ideali repubblicani in età moderna, Pisa, ETS, 2002, pp. 145-160. Alcune pagine sul «républicanisme conflictuel de Sidney» si trovano in S. AUDIER, Les théories de la république, Paris, La Découverte, 2004. 78 A. SIDNEY, Discourses concerning Government, II. 23 e 26, cit., pp. 209-216 e 259-263. 79 W. MOYLE, Essay upon the Constitution of the Roman Government, in Two English Republican Tracts, ed. by C. Robbins, Cambridge, Cambridge U.P., 1969, pp. 242-243. 80 T. GORDON, The Conspirators, or, the Case of Catilina, 1721, in J.A.W. GUNN, Factions No More. Attitudes to Party in Government and Opposition in Eighteenth Century England, London, Frank Cass, 1972, pp. 84-85. 81 J. TRENCHARD and T. GORDON, Cato’s Letters, ed. by R. Hamowy, Indianapolis, Liberty Fund, 1995, vol. 2, p. 504. Sulla libertà conflittuale tematizzata nelle Cato’s letters, da ultimo: V. SULLIVAN, The Civic Humanist Portrait of Machiavelli’s English Successors, «History of Political Thought», XV, 1994, pp. 73-96, in particolare pp. 87-96. Per un’interpretazione differente si veda M.P. ZUCKERT, Natural Tights and the New Republicanism, Princeton, Princeton U.P., 1994. 82 Si veda quanto sostiene C. LEFORT , Foyers du républicanisme, in ID. Écrire à l’épreuve du politique, Paris, Calmann-Levy, 1992 , pp. 181-208, in particolare pp. 181-191. Tra gli studi italiani, da ultimo : M. PLATANIA, Repubbliche e repubblicanesimo in Montesquieu, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», XXXV, 2001, 147-192; T. CASADEI, Modelli repubblicani nell’Esprit des lois. Un ‘ponte’ tra passato e futuro, in D. Felice, a cura di, Libertà, necessità e storia. Percorsi dell’Esprit des Lois di Montesquieu, Napoli, Bibliopolis, 2003, pp. 13-74. 83 MONTESQUIEU, Considérations sur le causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, in Oeuvres complétes, publiées par Roger Caillois, Paris, Gallimard, 1949, pp. 119. 84 MONTESQUIEU, Lettres persanes, in Oeuvres, cit., vol. I, p. 336; Esprit des Lois, in Oeuvres, cit., vol. II, p. 304 e p. 577. 85 J.-J. ROUSSEAU, Du contract social, IV.2, in Oeuvres complètes,sous la direction de B. Gagnebin e M. Raymond, Paris, Gallimard, 1964, t. 3, p. 439. 86 Cfr. G. CAMBIANO, Shaftesbury e la politica degli antichi, in G. Carabelli e P. Zanardi, a cura di, Il gentleman filosofo. Nuovi saggi su Shaftesbury, Padova, Il Poligrafo, 2003, pp. 81-110. 87 A. FERGUSON, An Essay on the History of Civil Society, 1767, ed. by D. Forbes, Edinburgh, Edinburgh UP, 1966, p. 61. 88 A. FERGUSON, An Essay, cit. p. 20 e p. 24 per le ultime due citazioni. Si veda anche, ad esempio, A. FERGUSON, Essay, cit., pp 220-21, 256, 259. Cfr. inoltre A. FERGUSON, Principles of Moral and Political Science. Being Chiefly a Retrospect of Lectures delivered in the College of Edinburgh, Edinburgh, 1792, vol. 1, p. 267 e vol. 2, pp. 508-512. Per il diverso atteggiamento mostrato da Ferguson nella History of the Progress and Termination of the Roman Republic, cfr. D. FRANCESCONI, L’età della storia. Linguaggi storiografici dell’Illuminismo scozzese, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 227-277.

Page 24: Machiavelli ed il ruolo dei conflitti nella vita politica - Marco Geuna

24

89 A. FERGUSON, An Essay, cit., p. 269 in nota. Sul tema del conflitto nel pensiero di Ferguson, da ultimo, L. HILL, Eighteenth-Century Anticipations of the Sociology of Conflict: The Case of Adam Ferguson, in «Journal of the History of Ideas», 62, 2001, n. 2, pp. 281-299. Mi permetto di rinviare anche a M. GEUNA, Republicanism and Commercial Society in the Scottish Enlightenment: The Case of Adam Ferguson, in M. van Gelderen – Q. Skinner, eds., Republicanism. A Shared European Heritage, Cambridge, Cambridge U.P., 2002, vol. 2, pp. 177-195 e M. GEUNA, La tradizione repubblicana e l’Illuminismo scozzese, in L. Turco, a cura di, Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico, Padova, Il Poligrafo, 2003, pp. 49-86. 90 Riprendo qui la tipologia ed alcune considerazioni proposte in M. GEUNA, La tradizione repubblicana ed i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, in «Filosofia politica», XII, 1998, n. 1, pp. 101-132, in particolare pp. 119-120. 91 Cfr. G. PROCACCI, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma–Bari, Laterza, 1995; G. BORRELLI, a cura di, Machiavelli e la cultura politica del meridione d’Italia, Napoli, Archivio della Ragion di Stato, 2001; M. ROSA, Dispotismo e libertà. Interpretazioni ‘repubblicane’ di Machiavelli, Pisa, Edizioni della Normale, 2005 (1a ed. Bari, Dedalo, 1964). 92 V. ALFIERI, Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, I, p. 205. 93 V. ALFIERI, Del principe e delle lettere, in Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, I, p. 182. 94 Ivi, p. 181. 95 Ivi, p. 182. 96 Cfr. G.M. GALANTI, Discorso … intorno alla costituzione della società e del governo politico preceduto dall’Elogio del Segretario fiorentino, Napoli, 1779, p. 19: «Ma queste cose non si leggono poi nelle altre Opere di Machiavelli, per credere ch’egli ne facesse conto e le amasse. Ne’ discorsi sopra T. Livio niuna cosa egli più vi detesta delle ingiustizie, della tirannia, e delle oppressioni: da per tutto vi respira un amor violento della libertà, del buon ordine, della giustizia, della virtù e del bene pubblico». Sull’Elogio di Niccolò Machiavelli del Galanti, da ultimo, cfr. N. DI MASO, Il repubblicanesimo di Vincenzo Cuoco. A partire da Machiavelli, Firenze, CET, 2005, pp. 49-65. 97 V. ALFIERI, Del principe e delle lettere, cit., p. 182. 98 V. ALFIERI, Della tirannide, in Scritti politici e morali, cit., I, p. 39 e p. 40. 99 Ivi, pp. 60-61 per questa e le due citazioni precedenti. 100 Ivi, pp. 61-62. 101 Ivi, p. 104. 102 Cfr. C. LEFORT, L’Invention démocratique. Les limites de la domination totalitaire, Paris, Fayard, 1981; C. Lefort, Essais sur le politique, XIXe-Xxe siècles, Paris, Seuil, 1986 ; C. LEFORT, Écrire à l’épreuve du politique, Paris, Calmann-Levy, 1992; per una prima introduzione al pensiero di Lefort, cfr. H. POLTIER, Claude Lefort. La découverte du politique, Paris, Michalon, 1997; per un approfondimento, si vedano gli studi raccolti in C. HABIB et C. MOUCHARD, a cura di, La démocratie à l’oeuvre. Autour de Claude Lefort, Paris, Éditions Esprit, 1993. 103 P. PETTIT, Republicanism. A Theory of Freedom and Government, Oxford, Oxford U.P., 1997; tr. it. Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Milano, Feltrinelli, 2000. 104 Cfr. P. PETTIT, Judging Justice. An Introduction to Contemporary Political Philosophy, London, Routledge, 1980; P. PETTIT and C. KUKATHAS, Rawls: A Theory of Justice and Its Critics, Stanford, Stanford U.P., 1990. 105 Cfr. J. BRAITHWAITE and P. PETTIT, Not Just Deserts. A Republican Theory of Criminal Justice, Oxford, clarendon Press, 1990 106 Un sostenitore di una forma di repubblicanesimo conflittualistico, in Italia, è Luca Baccelli: cfr. L. BACCELLI, Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Roma, Carocci, 1999, in particolare pp. 169-175; L. BACCELLI, Critica del repubblicanesimo, Roma-Bari, Laterza, 2003.