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MARCELLO DE BARTOLOMEO VINCENZO MAGNI FILOSOFIA ELEMENTI DI FILOSOFIA: PERCORSI TEMATICI DI BASE, METODO E STRUMENTI ISBN 88-268-0686-1 In copertina: Eraclito, part. dell’affresco Scuola di Atene di Raffaello Sanzio (Stanze Vaticane). COLLANA DI SCIENZE UMANE Direttore di collana: Fausto Presutti Direzione Editoriale: Roberto Invernici Redazione: Fiammetta Cappellini Progetto grafico e videoimpaginazione: Massimiliano Micheletti Stampa: Rotolito Lombarda – Pioltello (MI) Con la collaborazione della Redazione e dei Consulenti dell’I.I.E.A. Si ringraziano: Ornella Sardo e Giuliana Volpe, per la traduzione e revisione dei brani antologici; Monica Rimoldi per la correzione delle bozze e revisione degli indici. Ogni riproduzione del presente volume è vietata. L’Editore può concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore ad un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti delle Opere a Stampa (AIDRO), Via delle Erbe, 2 – Milano, Tel./Fax 02/809506 © Istituto Italiano Edizioni Atlas 24123 Bergamo – Via Crescenzi, 88 – Tel. 035/249711 – Fax 035/216047 – E-mail: [email protected] ATLAS

MARCELLO DE BARTOLOMEO VINCENZO MAGNI FILOSOFIA DIDATTICI VIII... · Storia della filosofia e storia di problemi 15 MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO 16 A. Perché la filosofia?

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Page 1: MARCELLO DE BARTOLOMEO VINCENZO MAGNI FILOSOFIA DIDATTICI VIII... · Storia della filosofia e storia di problemi 15 MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO 16 A. Perché la filosofia?

MARCELLO DE BARTOLOMEOVINCENZO MAGNI

FILOSOFIAELEMENTI DI FILOSOFIA:

PERCORSI TEMATICI DI BASE,METODO E STRUMENTI

ISBN 88-268-0686-1

In copertina: Eraclito, part. dell’affresco Scuola di Atene di Raffaello Sanzio (Stanze Vaticane).

COLLANA DI SCIENZE UMANE

Direttore di collana: Fausto Presutti

Direzione Editoriale: Roberto Invernici

Redazione: Fiammetta Cappellini

Progetto grafico e videoimpaginazione: Massimiliano Micheletti

Stampa: Rotolito Lombarda – Pioltello (MI)

Con la collaborazione della Redazione e dei Consulenti dell’I.I.E.A.

Si ringraziano: Ornella Sardo e Giuliana Volpe, per la traduzione e revisione dei brani antologici;

Monica Rimoldi per la correzione delle bozze e revisione degli indici.

Ogni riproduzione del presente volume è vietata.

L’Editore può concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore ad un

decimo del presente volume.

Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’Associazione Italiana per i Diritti delle Opere a Stampa

(AIDRO), Via delle Erbe, 2 – Milano, Tel./Fax 02/809506

© Istituto Italiano Edizioni Atlas

24123 Bergamo – Via Crescenzi, 88 – Tel. 035/249711 – Fax 035/216047 – E-mail: [email protected]

ATLAS

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Quale didattica della filosofia?Come conservare l’alto profilo della filosofia (disciplina che non accetta addomestica-menti e banalizzazioni) con l’imprescindibile esigenza didattica di insegnarla a studentiche l’affrontano per la prima volta?È questo l’interrogativo fondamentale a cui intende rispondere questo nuovo Corso difilosofia per il triennio. Filosofia è un’opera che si allinea alle esperienze didatticheeuropee (in particolare tedesca e francese), facendo propri e adattandoli alla filosofiatutti gli strumenti didattici che hanno trasformato, in questi ultimi anni, l’insegnamentodi altre discipline scolastiche.

In tale ottica, Filosofia è, quindi, innanzitutto un’opera aperta, costruita sulla possibi-lità di passare dall’approccio sistematico del campo d’interesse e del percorso temati-co allo studio analitico di un autore o di un movimento di pensiero; dallo studio diret-to dei testi e dall’analisi testuale alla trattazione teorica o viceversa; dalle domande delpresente e da temi di attualità perenne alla riscoperta del ventaglio variegato e affasci-nante delle risposte che la storia millenaria del pensiero filosofico ci offre.

In tale prospettiva, Filosofia permette una pluralità di approcci didattici ed offre, in ognitomo, la possibilità di sviluppare:1. una filosofia per periodi e per movimenti, con la ricostruzione del contesto storicoe culturale in cui agiscono i vari autori;2. una filosofia per autori, in particolare per i grandi autori, che hanno segnato il cam-mino della storia della filosofia;3. una filosofia per testi, attraverso un’ampia antologia di brani con ricco apparato di note;4. una filosofia per concetti, attraverso le parole-chiave, le mappe e gli schemi con-cettuali;5. una filosofia per percorsi tematici (quelli che per importanza contraddistinguono losviluppo storico della filosofia: metafisica, etica, conoscenza, politica e diritto, linguag-gio e logica, scienza, tecnica e lavoro, estetica, storia, educazione) e per temi e pro-blemi (una serie di argomenti monografici che attengono sia al metodo filosofico, siaalle domande del presente e ai problemi sempre attuali).

Struttura dell’operaIl piano generale dell’opera prevede tre volumi divisi in più tomi, come da schemariprodotto nell’ultima pagina di copertina. Nel contesto generale del Corso, il Tomozero assume un’importanza particolare, perché funge da strumento fondamentale dimetodo e da punto di riferimento (da conservare per tutto il Triennio) per le ricerche, itemi e i problemi presentati nei vari tomi, e per facilitare una programmazione di indi-rizzo, che valorizzi meglio la specificità dei cicli scolastici in cui la filosofia viene everrà insegnata.

Tutta l’opera mira a trasformare lo studio della filosofia in un permanente esercizio dimetodo, atto a creare una capacità di analisi critica della realtà e di se stessi e solleci-tare la costruzione di una mentalità libera e tollerante, da spendere per capire l’im-mensa eredità di sapienza e di ricerca che ci precede e per dare il nostro contributo allasoluzione dei problemi che caratterizzano l’epoca di grandi trasformazioni in cui oggiviviamo.

L’editore

PRESENTAZIONE

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3INDICE GENERALE

1. PERCHÉ LA FILOSOFIA

LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA 8Che cos’è la filosofia? 8La filosofia come ricerca 9Alcune domande essenziali 9 L’uomo come problema 10La mia “filosofia” e le filosofie 10Perché studiare la filosofia? 11Filosofare e pensare per modelli 12Perché una storia della filosofia? 12Perché la filosofia greca? 14 Storia della filosofia e storia di problemi 15

MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO 16A. Perché la filosofia? 17Testo 1 Lo stupore e la ricerca filosofica 17Testo 1A Aristotele 17 Testo 1B A. Schopenhauer 18Testo 1C G. Morra 19B. Che cos’è la filosofia 20Testo 2 Filosofia per chi? 20Testo 3 La filosofia è “problema dell’uomo” 20Testo 4 In che senso siamo tutti filosofi? 22Testo 5 Domande perenni 23 Testo 6 La necessità del giudizio morale 24Testo 7 Alla ricerca della “pagina” perduta 25Testo 8 La filosofia e il “dingo” 26 Testo 9 Che fine ha fatto la filosofia oggi? 27C. Filosofia e storia della filosofia 29Testo 10 La filosofia greca e la civiltà occidentale 29Testo 11 Storia della filosofia 30Testo 12 Sistematicità e problematicità 31

2. PERCORSI TEMATICI DI BASE

LA METAFISICA 341. Significato e problemi 342. L’antichità classica 36La ricerca del Principio 36Fra Essere e Divenire 36L’essere fra trascendenza e immanenza 37La riforma della metafisica 393. Il Medioevo 40Dio e l’anima, volontà e amore 40Ragione e fede dopo Agostino 41Dio e il mondo nel Neoplatonismo

e nell’Aristotelismo medievale 42Analogia dell’essere

e riforma della metafisica aristotelica 43L’autonomia della filosofia 444. L’età moderna 44La metafisica rinascimentale 45La metafisica del soggetto 46 Tra materia e spirito 47La ricerca di un nuovo accordo fra metafisica,

scienza e religione 48I limiti della ragione e la critica della metafisica 485. L’Ottocento 50Il Romanticismo e l’Idealismo:

l’aspirazione all’infinito 50

La nuova metafisica dell’Io 51L’Assoluto come identità di spirito e natura 51Immanenza e storicità dello Spirito 52Tra spiritualismo e realismo 53 Il Positivismo e la condanna della metafisica 53La metafisica della volontà 54 L’affermazione del “Singolo” 55 Storicità dell’esistenza

e critica della metafisica come ideologia 556. Il Novecento 57Crisi della metafisica e “morte di Dio” 57La crisi della razionalità 57La fine delle “certezze” della coscienza 58Le nuove metafisiche dello spirito 58 Idealismo e Storicismo 59Scienze dello spirito

e problematicità della comprensione storica 59L’universo come campo di possibilità per l’azione umana 60 La riduzione fenomenologica della realtà 61 Critica della metafisica occidentale

e nuova ricerca del senso dell’essere 61 Metafisiche dell’esistenza 62Neotomismo e metafisica cristiana 63Il rifiuto neopositivista degli “enigmi” della metafisica 65Morte della metafisica? 66

L’ETICA 681. Significato e problemi 682. L’etica nella Grecia antica 70Etiche competitive nella Grecia arcaica e nella pólis 70Intellettualismo etico e misura assoluta del valore 71Etica contemplativa e ricerca della saggezza 723. Etica medievale e Renovatio Christiana 74Volontà, amore, carità 74 Coscienza, libertà e male 744. L’età moderna 77Un nuovo rapporto fra etica e religione 77Homo faber e scientia activa 78Il principio dell’autoconversione

e il problema dell’etica 79La schiavitù delle passioni e l’etica degli affetti razionali 80Limiti della scienza e ragioni del cuore 81Utile e sentimento morale nell’età dell’Illuminismo 81L’affermazione dell’autonomia della morale 825. L’Ottocento 84Romanticismo e Idealismo etico 84Moralità ed eticità 84Morale dell’ascesi

o ricerca di un fondamento religioso della morale? 85La morale dell’utilità 86Utopismo e Positivismo 876. Critica e negazione della morale

fra Ottocento e Novecento 88Marx e la morale come ideologia 88Nietzsche e il rovesciamento di tutti i valori 89Freud e la considerazione terapeutica della morale 897. Il Novecento 91Le etiche dello spirito 91Il problema dell’assolutezza e della relatività dei valori 92Il Pragmatismo e il problema della morale 93L’etica fenomenologica dei valori 94

INDICE GENERALE

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4INDICE GENERALE

Il vuoto di valori della società contemporanea e l’Esistenzialismo 94

Il Marxismo: il principio speranzacontro la mercificazione e reificazione dell’uomo 96

La critica della ragione strumentale 96 Cristianesimo e riflessione morale 978. Temi dell’etica contemporanea 98

FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ 1021. Significato e problemi 1022. L’età antica 104Dóxa e lógos 104Concetto, idea, forma 105Il canone, l’epoché e il viaggio dell’anima 1063. Il Medioevo 107La verità come illuminazione divina 107La questione degli universali 108Esperienza e verità 1084. L’età moderna 109L’antiaristotelismo rinascimentale 109Il problema del metodo 110Il problema del dualismo cartesiano 111I limiti della ragione 112Verità di ragione e verità di fatto 113Verum et factum convertuntur 113Analitica della ragione ed empirismo radicale 114La rivoluzione copernicana della conoscenza 1155. L’Ottocento 116Sentimento e ragione contro l’intelletto 116Il pensiero pone la realtà 117La filosofia trascendentale 117La dialettica della Ragione 118Il “velo di Maja” sul mondo 118La coscienza come “prodotto sociale” 119L’identificazione positivistica

fra conoscenza e conoscenza scientifica 1196. Il Novecento 120La conoscenza come interpretazione dei fatti 120Il “ritorno a Kant” 120L’intuizione, organo della filosofia 121Teorie idealistiche della conoscenza e dell’errore 121Il conoscere come intendere 122L’avalutatività della conoscenza 122“Crisi dei fondamenti” delle scienze

e nuove esigenze di rigore teorico 123L’identificazione fra pensiero e linguaggio 123I princìpi della verificabilità e della confermabilità 124Il principio di falsificazione 124La conoscenza nel Pragmatismo e lo Strumentalismo 125La conoscenza come rispecchiamento

e come ideologia 126L’intuizione fenomenologica delle essenze 127Interpretazione e circolo ermeneutico 128La ricerca dell’essere 128Sull’ermeneutica 129Limiti e funzioni del sapere: una domanda aperta 129

FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO 1301. Significato e problemi 1302. L’età classica 132Díke e isonomía dall’età arcaica alla pólis democratica 132La città “giusta” 133Ordine politico e ordine naturale 133Ellenismo: frattura fra individuo e potere 134

3. Il Medioevo 1344. L’età moderna 136Autonomia della politica e teoria della sovranità 136Lo spazio dell’utopia 136Conflitti religiosi e utopia della tolleranza 137Il Giusnaturalismo 137Assolutismo e nascita del pensiero liberale 138Riformismo illuministico,

Liberalismo e nuovo pensiero democratico 1395. L’Ottocento 140I “diritti dell’uomo” 140La teoria politica fra conservazione e Liberalismo 140Il pensiero democratico-riformatore 141Lo Stato etico 142Il pensiero “utopistico” 143La teoria comunista 144Il Positivismo politico e sociale 1446. Il Novecento 146Società di massa, dominio di élite e burocratizzazione 146Stato etico o Stato-governo 147La teoria formale del diritto 148Democrazia ed educazione 148Fra dittatura del proletariato

e ricerca di una nuova democrazia 148La teoria critica della società 150Cristianesimo e democrazia 1507. Il dibattito contemporaneo 151

FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA 1541. Significato e problemi 1542. L’età antica 156Linguaggio narrativo,

scrittura e nascita del pensiero astratto 156Contraddittorietà e non-contraddittorietà dei discorsi 156Autonomia di pensiero e linguaggio 157Il linguaggio, la dialettica

e la ricostruzione della verità delle cose 157L’órganon della scienza 158Una teoria del significato 1583. Il Medioevo 159Le parole, il Maestro interiore e l’allegoria 159 Scientia sermocinalis e teoria della suppositio 1594. L’età moderna 160La filosofia umanistica come scienza del linguaggio 160Il problema del metodo 160Linguaggio ed esperienza 161I procedimenti formali della ragione 162Logica e linguaggio della fantasia 162La logica e la dialettica trascendentali 1635. L’Ottocento 163Il linguaggio come espressione storica della ragione 163La riforma della logica: la dialettica 164L’interpretazione materialistica della dialettica 165La logica del pensiero positivista 166La logica matematica 1666. Il Novecento 168Sviluppi della logica matematica 168La linguistica strutturale 168Linguaggio, semiotica e teoria dell’azione 170La logica come teoria dell’indagine 170Linguaggio e pensiero rammemorante 171Il linguaggio, l’ermeneutica e l’essere 171L’ermeneutica del simbolo 171Il decostruzionismo nella scrittura 172L’identificazione fra logica e linguaggio 172

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5INDICE GENERALE

Alla ricerca del linguaggio “perfetto” 173La teoria dei giochi linguistici 174La filosofia come analisi degli atti linguistici 174

FILOSOFIA E SCIENZA 1761. Significato e problemi 1762. La società antica 178Le prime scienze greche 178Scienza e sapienza nella prima riflessione filosofica 178Valore e limiti delle possibilità conoscitive della scienza 179Autonomia dei saperi e aspetti della fisica aristotelica 179Specializzazione scientifica

e nuove esigenze di rigore teorico 1803. Il Medioevo 181L’organizzazione del sapere fra scienza e sapienza 181 Nuovi interessi scientifici 181Autonomia della scienza ed imaginationes,

esperimenti ideali 1824. L’età moderna 182Il cambiamento d’immagine della natura 183 Matematica: le idee dell’infinito

e di ordine necessario del mondo 183 La rivoluzione astronomica 183Lo sviluppo scientifico nel Seicento 184La concezione meccanicistica della natura 185Espugnare la natura e programmare

il progresso umano 185Autonomia della natura e nuovo principio di autorità 186L’idea di una mathesis universalis 187Critica dei limiti della scienza cartesiana

e ricerca del divino 187Scienza dei corpi e ordine geometrico del mondo 188 Un principio unitario dell’universo 188Lo sviluppo delle scienze matematico-naturalistiche

e storico-sociali nel Settecento 189La riflessione critica sulla scienza 1895. L’Ottocento 190La visione romantica della natura

e la sua critica alla scienza illuministica 190L’Idealismo e la critica della scienza 190Filosofia positiva e centralità della scienza 191Una nuova idea di scienza

e di enciclopedia del sapere 192L’evoluzionismo filosofico 193Le tendenze materialistiche 193I progressi delle scienze fisico-matematiche 193La teoria dell’evoluzione 194L’irrompere delle scienze umane e sociali:

la psicologia 194La nascita della sociologia 195L’economia politica “classica” e “marginalista” 1966. Tendenze critiche fra Ottocento e Novecento 197Ripensamenti critici sulle scienze 197La scienza come rassicurazione

e come strumento di dominio 197L’Empiriocriticismo come critica interna alla scienza 1977. Aspetti della rivoluzione scientifica del Novecento 198La revisione critica della scienza

ad opera della scienza 198I princìpi di relatività,

complementarità e indeterminazione 198Matematica e crisi dei fondamenti 199La rivoluzione psicoanalitica 199

Nuovi indirizzi nella psicologia 200Temi dell’antropologia culturale 201Indirizzi di sociologia 201Revisione della teoria economica marginalista 2028. La filosofia e le scienze 203Tempo della scienza e tempo della coscienza 203Il problema del rapporto tra scienze della natura

e scienze dello spirito 203La funzione pratica della scienza 204Crisi delle scienze europee

e ricerca di un nuovo significato dell’esistenza 204La scienza e il senso dell’esistenza 205La scienza e la trasformazione della società 206Linguaggio e logica della scienza 206L’ideale di una scienza unificata

e di un linguaggio perfetto 207La critica al Neopositivismo 207Dalla verificabilità alla falsificabilità 208Caratteri dell’epistemologia post-positivistica 208Le rotture epistemologiche 209 Il problema delle rivoluzioni scientifiche 209 Gli usi della scienza 210Scienza e cultura della complessità 210L’interrogarsi dell’epistemologo 211

FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO 2121. Significato e problemi 2122. Tecnica e lavoro nell’antichità 214Tecnica, lavoro artigiano e schiavitù 214La contrapposizione fra tecnica e sapienza 214 Tecnica e progresso umano 214Il rapporto fra téchne ed epistéme 2153. Il Medioevo 217Sapienza e lavoro servile 217Laboratores e “scienza dei congegni” 2174. L’età moderna 218Il Rinascimento

e la rivalutazione del lavoro produttivo 218La cultura tecnica nella nuova enciclopedia del sapere 218La potenza produttiva del sapere 219Tecnica, scienza e nuova immagine del mondo 220 Sviluppo tecnico-scientifico e idea del progresso 2205. Tecnica e lavoro nell’Ottocento 221Romanticismo e Idealismo:

il lavoro diviso e l’intervento umano sulla natura 221Industrialismo, Positivismo e sviluppo umano 222La critica marxista:

tecnica, potenza e mercificazione del lavoro 2236. Il Novecento 224Il mondo della tecnica: razionalità strumentale e disincanto 224Nietzsche: la tecnica come forma di dominio 224Homo faber, homo sapiens e umanesimo integrale 225Il lavoro nella filosofia marxista 225La critica della razionalità tecnica 2277. Temi e interrogativi del presente 228

L’ESTETICA 2321. Significato e problemi 2322. Arte e bellezza nell’antichità 2343. Il Medioevo 2364. L’età moderna 237Le arti nella nuova gerarchia dei saperi

e lo status dell’artista 237

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6INDICE GENERALE

Imitazione, finzione e verità 238Il problema del gusto 239Il riconoscimento dell’autonomia teorica dell’arte 2395. L’Ottocento 241L’Estetica del Romanticismo 241Oltre il Romanticismo 242Arte e condizionamento sociale 2446. Il Novecento 245Il ruolo delle avanguardie artistiche 245Estetica e scienze umane 246L’arte come soggettività e intuizione lirica 247Il problema delle tecniche

di comunicazione e riproduzione dell’opera d’arte 248 La dimensione critica dell’arte 249Arte e “verità” 250

FILOSOFIE DELLA STORIA 2521. Significato e problemi 2522. La società antica 254Critica del mito e origine della storiografia 254La storia come decadenza o come ciclo 254Prime teorie del progresso 255La storia come scienza 255La storiografia di Roma 2563. Il Medioevo 256Il nuovo senso divino

e provvidenziale della storia umana 256Mundus senescit 257 Nani sulle spalle di giganti 2574. L’età moderna 257L’antico come paradigma e il nuovo senso della storia 257Il modello naturalistico del ciclo

e la nuova storiografia politica 258Il primato dei moderni sugli antichi:

“la verità è figlia del tempo” 259La storia come scienza nuova 259L’età dei lumi, la storia e l’idea di progresso 260Antagonismo e sviluppo delle capacità umane 2615. L’Ottocento e il Novecento 262La storicità come dimensione dello spirito 262La dialettica storica dello Spirito 263La storia come “storia delle lotte di classe” 263La storia come evoluzione e progresso 264Crisi dell’idea di progresso 265Eterno ritorno, assenze di fini nella storia

e decisioni oltre-umane 265La fondazione critica della ragione storica 266Filosofia come metodologia della storiografia 267Storia e prassi rivoluzionaria 268L’antistoricismo strutturalistico 269L’ermeneutica e il problema della conoscenza storica 270Fine del moderno? 271

FILOSOFIA ED EDUCAZIONE 2721. Significato e problemi 2722. Il mondo antico 274La paidéia arcaica 274La pólis è l’insegnabilità della virtù 274La paidéia socratica 275

Ambiente educativo ed educazione nella società giusta 276Scholé e conoscenza teorica 276Educazione e ricerca della saggezza 2773. Il Medioevo 277Il Maestro interiore e il progetto di una cultura cristiana 277Scholae e Università 2784. L’età moderna 280Gli antichi come paradigma educativo 280L’educazione attraverso il gran libro della natura 280L’educazione nella Riforma protestante

e nella Riforma cattolica 281Insegnare tutto a tutti 281La critica dell’educazione tradizionale 281Fra ragione, esperienza e storia 282Educazione e riforma della società 2835. L’Ottocento 284Rivoluzioni politiche, Rivoluzione industriale

ed educazione 284Spontaneità della natura

e dimensione etico-religiosa dell’educazione 284L’educazione nazionale 285Herbart: scienza dell’educazione

e ruolo della psicologia 286Riformismo educativo nell’età

della Rivoluzione industriale 287La cultura positivistica

e le nuove esigenze di istruzione tecnico-scientifica 287Il Marxismo e il nesso fra istruzione e lavoro 2876. Il Novecento 288Dewey: l’educazione democratica 288La scuola attiva e l’esperienza montessoriana 289L’educazione come autoformazione dello spirito 289Fra la scuola e il lavoro 290Educazione cristiana, esercizio della libertà

e valore dell’esperienza lavorativa 290Scienze umane ed educazione 2917. Temi di riflessione nel mondo contemporaneo 292

3. “FARE” FILOSOFIA

METODO E STRUMENTI 2941. Significato e problemi 294La filosofia è una materia difficile? 294Come studiare un autore? 294Come si legge un’opera filosofica? 296Come leggere un’opera: alcuni esempi 297Esempio A Platone: Apologia di Socrate 297Esempio B Cartesio: il discorso sul metodo 302Esempio C John Stuart Mill: On Liberty 306 Come si legge un brano? 310

2. “Vedere” e visualizzare la filosofia 311Che cos’è una mappa concettuale 311Visualizzazioni grafiche 312Come costruire mappe, schemi e altre visualizzazioni 314Arte e filosofia 315

Indice dei nomi 318

N.B. Nella translitterazione delle parole greche è stato utilizzato il criterio convenzionale comu-nemente adottato dai testi didattici: si è posto l’accento grafico sulla sillaba tonica greca.

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PERCHÉLA FILOSOFIA1 PERCHÉLA FILOSOFIA1

Michelangelo Buonarroti, Il David, part. Firenze, Galleria dell’Accademia.

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LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

Che cos’è la filosofia?

È inevitabile che, iniziando questo corso di studi, si debbano porre almeno duedomande:

• che cos’è la filosofia? • Perché studiare filosofia?

Due domande, a cui è sempre difficile rispondere, ma che sono comunque ine-ludibili. La difficoltà nasce dal fatto che a quelle domande si può fornire unarisposta esauriente solo a studio inoltrato della disciplina, quando ci si è misuraticon i suoi principali problemi e sono state conosciute alcune fra le principali posi-zioni filosofiche. Solo misurandosi con il mondo vario delle filosofie è possibilerendersi conto che ogni sistema o indirizzo di pensiero esprime una determinataconcezione della filosofia e solo confrontando concezioni filosofiche diverse èpossibile accertare se – e fino a che punto – la filosofia possa aiutarci nel nostrosforzo di orientarci nel mondo.

Eppure non è possibile ignorare quelle domande, cominciare a parlare dei filoso-fi senza aver neppure tentato di rispondervi. Una prima indicazione sul “mondo”della filosofia è necessaria. Forse non si riuscirà a togliere alla filosofia quella carat-teristica, con la quale inizialmente si presenta, di “oggetto misterioso”, ma se nepotranno fornire le coordinate, tracciare un primo, sia pur provvisorio, identikit.

L’aspetto problematico della filosofia ci viene incontro immediatamente perchénon è possibile dire in modo univoco e una volta per tutte in che cosa consista edi che cosa si occupi, quale sia il suo oggetto. Se alla domanda “che cos’è la filo-sofia?” qui di seguito scrivessimo una definizione che recitasse “per filosofia sideve intendere...”, inizieremmo in modo scorretto, fornendo probabilmente o ladefinizione di filosofia, scelta tra quelle in circolazione, in cui noi autori ci rico-nosciamo, o addirittura la “nostra”. Tale approccio sarebbe scorretto perché sisarebbe fornita, spacciandola in qualche modo come la risposta, solo una dellerisposte possibili. Non si può dare, infatti, della filosofia una definizione univoca,accettata da tutti coloro che a vario titolo si occupano “professionalmente” delladisciplina, e la mancanza di una tale definizione dipende soprattutto dalla man-canza di un accordo su quale sia l’oggetto della filosofia.

Né può essere di aiuto l’etimologia della parola. Letteralmente “filosofia” signi-fica “amore della sapienza”, dai termini greci philéin (amare) e sophía (sapienza),ma questa etimologia non ci fornisce una definizione relativa al contenuto, aiconfini e alle finalità di questo campo d’indagine. Anzi ci porrebbe altri problemi,come ad esempio: che cosa si intende per “sapienza”, perché si deve cercare eamare la sapienza, ecc.

Né maggior risultato danno coloro che asseriscono che vi sono tante definizionidi filosofia quanti sono i sistemi filosofici elaborati nel corso dei secoli. O che perfilosofia si deve intendere ciò che di volta in volta nel corso dei secoli si è definitoper filosofia. In tal senso, solo lo studio dell’intero sviluppo della storia del pen-siero potrebbe fornire un quadro della varietà dei significati attribuiti a questa disci-plina. Si potrebbe allora dire che i volumi di questo corso intendono dare unarisposta ampia ed esauriente da questo punto di vista. Ma questa impostazione, perquanto formalmente corretta, è insoddisfacente per chi si accinge a studiare la filo-sofia e ha bisogno di qualcosa di più che un ventaglio di definizioni.

8LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

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9LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

La filosofia come ricerca

C’è un altro modo di rispondere alla domanda “che cos’è la filosofia?” ed èquello di farlo... con altre domande. Forse potrà meravigliare scoprire che alcunedi queste domande le conoscete già, le avete formulate o condivise voi stessi. Sisono presentate come quesiti dai quali, in qualche modo, non è possibile pre-scindere e ai quali si “deve” trovare risposta.

Li avrà suscitati la ricerca scientifica più avanzata, ad esempio quella nel campodella biologia umana: che cosa è la vita? L’embrione è già un essere umano, unapersona? E che cosa è un essere umano, una persona? Ma è possibile oppure nola manipolazione dell’essere umano? In base a quali criteri si può affermare chequesta manipolazione è bene oppure no? E chi può stabilire se è male o bene?

Oppure, affrontando una questione più generale: si deve mettere un limite allaricerca scientifica? E ancora una volta, chi ne ha l’autorità? In base a quali crite-ri, stabiliti da chi?

Al fondo di queste domande incontriamo temi e domande tipici della filosofia:che cos’è l’uomo, quali sono le sue possibilità, quali i suoi limiti, che cosa sonobene e male, quali sono i compiti ed i limiti della scienza.

Un filosofo del Novecento, Bertrand Russell, ha raccolto una specie di primoinventario degli interrogativi tipici della filosofia:

“Il mondo è diviso in spirito e materia, e, se lo è, che cos’è spirito e che cos’èmateria? Lo spirito è soggetto alla materia o è investito di poteri indipendenti?L’universo ha un’unità di scopi? Sta evolvendo verso qualche meta? Vi sono real-mente leggi di natura, o noi crediamo in esse soltanto per il nostro innato amoreper l’ordine? L’uomo è ciò che appare all’astronomo, una minuscola massa di car-bone impuro e di acqua, che striscia impotente su un piccolo ed insignificante pia-neta? Oppure è ciò che appare ad Amleto? Forse entrambe le cose insieme? Esisteun modo di vivere nobile ed un altro abbietto, o tutti i modi di vivere sono sem-plicemente futili? Se esiste un modo di vivere nobile, in che cosa consiste e comepossiamo raggiungerlo? Il bene deve essere eterno per meritare che gli si dia unvalore o val la pena di cercarlo anche se l’universo cammina inesorabilmenteverso la morte? Esiste qualcosa come la saggezza, o quella che sembra tale è sol-tanto l’ultimo perfezionamento della follia? A tali domande non si può trovarerisposta in laboratorio [...]. Lo studio di questi problemi, se non la loro soluzione,è compito della filosofia” 1.

Secondo Russell quegli interrogativi costituiscono un repertorio dei problemi dicui tradizionalmente la filosofia si è occupata e continua ad occuparsi. Problemiche la vita stessa suscita nell’uomo e che investono il senso stesso dell’esistenzadi ciascun individuo.

Quel repertorio rispecchia la concezione che Russell aveva dei problemi della filo-sofia, perciò, dal punto di vista di altre impostazioni, un simile repertorio sarebbeincompleto. Ad esempio, si potrebbe obiettare che non contempla come problemal’esistenza o meno di un principio divino capace di essere considerato l’origine e lacausa di tutto ciò che è; o non pone questioni relative alla politica e allo Stato.

In tutti i casi, si tratta di domande ricorrenti, ma “relativamente intrattabili”,commenta un filosofo contemporaneo, Salvatore Veca, “problemi cui sappiamodi essere destinati e a cui sappiamo al tempo stesso di non essere in grado di tro-vare mai una risposta definitiva, un argomento o una dimostrazione irresistibile”2.Eppure anch’essi sono ineludibili.

Una simile posizione porta a sostenere che individuare e formulare corretta-mente quel genere di problemi è già fare filosofia. In tal senso, quindi, potrem-mo considerare la filosofia come ricerca, una ricerca di tipo particolare. Ma visono anche altre posizioni per le quali la filosofia non è solo ricerca, ma anchepossesso della verità.

Alcune domande essenziali

Uno dei maggiori pensatori dell’età moderna, Immanuel Kant, vissuto inGermania nel ‘700, ha cercato di riassumere in quattro domande le questioniessenziali della filosofia:

1. Bertrand Russell,Storia della filosofiaoccidentale, vol. I,Filosofia greca, Lon-ganesi, Milano 1966.

2. Salvatore Veca,Questioni di vita econversazioni filosofi-che, Rizzoli, Milano1991.

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a. che cosa posso sapere?b. che cosa devo fare?c. che cosa posso sperare?d. che cosa è l’uomo?

Ad alcune di queste domande corrispondono – secondo una consolidata tradi-zione filosofica – grandi aree del sapere filosofico. Alla prima questione, difatti,rispondono la metafisica e la teoria della conoscenza, alla seconda le filosofiedella morale, del diritto e dello Stato. La terza costituisce il cardine della filosofiadella religione, in quanto esprime l’aspirazione fondamentale dell’uomo alla sal-vezza ultraterrena. Alla quarta, commenta Kant, dovrebbe corrispondere l’antro-pologia, o filosofia e scienza dell’uomo: “ma in fondo si potrebbe ricondurre tuttoall’antropologia, perché le prime tre questioni si riportano all’ultima”3.

Così lo stesso Kant vede nell’uomo il problema-chiave del filosofare.

L’uomo è l’origine e lo scopo ultimo del domandare. È l’uomo a interrogar-si intorno a se stesso: e la filosofia è uno dei modi con cui egli cerca dellerisposte.

L’uomo come problema

Se vi è un filo comune che attraversa e lega tutta la storia della filosofia riguar-da proprio il bisogno – quasi si potrebbe dire la necessità – di interrogarsi. È pro-prio la condizione umana a presentarsi come un problema, come il problema.Talune domande, forse banalizzate da una continua e meccanica ripetizione, simostrano con grande forza e significato in momenti diversi della vita umana: chisiamo, da dove veniamo, dove andiamo?

Anche quando la domanda della filosofia sembra riguardare l’essenza ultimadelle cose, questa domanda riguarda l’uomo. La ricerca filosofica investe e ponein questione il ricercatore stesso. Le domande filosofiche pongono in questionel’essere di colui che domanda, cioè il senso, l’origine e il destino della sua esi-stenza 4. “L’uomo – ha scritto il filosofo Pietro Prini – va verso la verità con tuttoil proprio essere, e dunque con tutte le differenze che ne fanno un essere deter-minato reale”5. La filosofia non è solo un “fatto di testa”, ma coinvolge tutto l’uo-mo, riguarda l’intero suo essere e l’intera sua esistenza.

La problematicità essenziale dell’uomo ha dato luogo anche a molte immaginie metafore vivide. Ha scritto ad esempio – nel Seicento – Blaise Pascal:

“Ecco il nostro vero stato: [...] noi ci spingiamo a forza di remi per un vastomare, sospinti da un capo all’altro, sempre incerti e sballottati. Qualunque ormeg-gio a cui pensiamo di attaccarci e tenerci saldi, vacilla e ci abbandona; e, se noilo inseguiamo, sfugge alla nostra presa, ci sguscia via e fugge in un’eterna fuga.Nulla si ferma, per noi. Questo è lo stato che ci è naturale, e tuttavia estremamentecontrario alla nostra inclinazione: bruciamo per il desiderio di trovare un assettostabile”6.

È un’immagine della condizione umana. Al di là della specifica concezione filo-sofica in cui si inquadra, altre metafore si potrebbero citare (e le incontreremo)per descrivere la complessità e la problematicità di tale condizione. Di fronte alproblema cruciale, costituito dal significato stesso della sua esistenza, l’uomo nonpuò disinteressarsi, rifiutarsi di cercare delle risposte, o comunque sostenere chela cosa non lo riguardi: siamo tutti “imbarcati” e “costretti a remare”, non possia-mo scegliere diversamente. Da questo punto di vista, la filosofia non è un hobby,ma una necessità per l’uomo.

La mia “filosofia” e le filosofie

Occorre partire dalla constatazione che tutti, in qualche misura, abbiamo una“filosofia” personale, cioè una concezione della vita, dei valori, un’idea del signi-ficato della nostra esistenza, ecc. Ma non per questo possiamo dirci “filosofi”.

3. Immanuel Kant, Lo-gica, Introduzione, III.

4. Martin Heidegger,Che cosa è la metafisi-ca?, Fratelli Bocca,Milano 1946.5. Pietro Prini, Intro-duzione critica alla sto-ria della filosofia, Ar-mando Editore, Roma1973.

6. Blaise Pascal Pen-sieri, Rizzoli, Milano1952.

10LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

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11LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

Le idee che ci siamo fatti sul mondo, infatti, sono spesso costituite da elementiacquisiti in modo passivo, cioè ricevuti e assorbiti meccanicamente dall’esterno(dall’ambiente nel quale viviamo), in modo occasionale e senza alcun nostro per-sonale contributo o, come si usa dire, senza alcuna “consapevolezza critica”.Idee che convivono in un insieme (la nostra visione del mondo) anche quando ri-sultano fra loro incompatibili, contraddittorie, perché le abbiamo fatte nostresenza averle preliminarmente vagliate e scelte in modo consapevole.

Eppure quelle idee sono tanto importanti da identificarsi con la nostra stessavita. Ecco perché è importante, anzi decisivo, impegnarci a fare i conti con quel-le idee e passare da una condizione di persone dotate di convinzioni acquisiteacriticamente ad una di soggetti criticamente consapevoli della propria visionedel mondo e di quella degli altri.

Perché studiare la filosofia?

Molti si chiederanno se questo interrogarsi serva a qualcosa. Alcuni ritengonodi no, se per “servire” si intende acquisire una qualche abilità pratica, una tecni-ca capace di produrre risultati concreti e visibili, immediatamente “spendibili”nel mercato dell’esistenza. Un antico luogo comune ci presenta il filosofo comeun uomo incapace di fare i conti con la realtà. Ne riporta un esempio uno deimaggiori filosofi di ogni tempo, il greco Platone, il quale ricorda un aneddoto suTalete, cioè su colui che è stato tradizionalmente considerato come il “fondatore”della filosofia occidentale: Talete, “mentre osservava le stelle e guardava in alto,cadde in un pozzo e si racconta che una servetta tracia, intelligente e spiritosa,l’abbia preso in giro dicendogli che si preoccupava di conoscere le cose del cieloe non s’accorgeva di quelle che aveva davanti ai piedi”7.

In modi analoghi continua a venir presentata la filosofia: una grande protagoni-sta del pensiero, che pone questioni, elabora idee, costruisce una varietà di argo-menti possibili, anche per confutare idee altrui, ma che non serve al vivere quo-tidiano dell’uomo, ai problemi “veri” che l’uomo deve affrontare e, quindi, nondeve essere presa sul serio.

Ma è proprio così? Si possono seguire diverse piste per cercare di dare una risposta.Innanzitutto si possono citare a sostegno della sua “utilità” proprio coloro che

hanno combattuto e osteggiato filosofi e filosofie. Nel passato, infatti, vi è statochi ha sentito minacciato il proprio potere politico o la propria autorità religiosadai filosofi. Non sono pochi i pensatori perseguitati o addirittura messi a morte perle proprie idee.

Basta ricordare, fra gli altri, Socrate e Giordano Bruno, per comprendere che leidee dei filosofi hanno turbato i sonni di molti. Se la filosofia fosse stata inutile einoffensiva nessun uomo di potere se ne sarebbe preoccupato.

Ma questa argomentazione non può bastare, se non si dice a che cosa serva lafilosofia. Per un verso, ovviamente, questa domanda si ricollega strettamente allaprima domanda: che cosa è la filosofia? E, in mancanza di una risposta univocaa quella, è altrettanto difficile rispondere anche a questa in modo univoco.

Ma se questa domanda resta, in qualche modo, in sospeso come la prima, sipuò ugualmente avanzare qualche considerazione sul perché di questo studio.Questo perché, naturalmente, può essere suggerito solo a titolo di risposta prov-visoria, in quanto non può sostituire le risposte possibili, trovate da ciascuno dinoi, che saranno anche il risultato di un confronto e di una riflessione con unavarietà di filosofi e concezioni.

Si può dire che lo studio della filosofia ha lo scopo di aiutarci a guardare afondo entro noi stessi ed entro il mondo in cui viviamo, per comprendere lanostra condizione, per orientare le nostre scelte e le nostre azioni. Per far que-sto essa ci porta spesso a rimettere in discussione le risposte date, le soluzionivia via trovate ai problemi.

A compiere questo tipo di lavoro ci aiuta l’impianto storico dato alla trattazio-ne della filosofia, che ci pone dinanzi alla varietà dei problemi, delle prospetti-ve e dei punti di vista che in ogni epoca, e da un’epoca all’altra, la riflessione filo-sofica ha prodotto.

7. Platone, Teeteto,174a, in Opere com-plete, vol. II, Laterza,Bari 1987.

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8. Ermanno Benci-venga, Giochiamo conla filosofia, ArnoldoMondadori Editore,Milano 1990.

Così, con questo suo carattere nello stesso tempo storico e problematico, lo stu-dio della filosofia può aiutarci a non accettare mai tesi prestabilite, “verità” indi-scutibili, concezioni garantite da autorità. In tal senso, l’ipse dixit (dobbiamoaccettare qualcosa per vero perché lui l’ha detto, chiunque egli sia) sembra quan-to di più lontano vi possa essere dallo spirito della filosofia.

Almeno tendenzialmente, infatti, la filosofia non dà mai niente per “acquisito”,senza analizzarne prima i fondamenti e le ragioni: è un ripensare e ridiscuteretutto. È dibattito e confronto, critica e dissenso, nel rispetto e nella tolleranza deglialtri e delle tesi altrui. Altrimenti è un’altra cosa. Per questo la filosofia “serve”come scuola di tolleranza, spirito critico e civile convivenza.

Non sembra poco in un’epoca ancora segnata dalla presenza di fenomeni diintolleranza, fanatismo, rifiuto del confronto di idee.

Filosofare e pensare per modelli

Ma la questione delle ragioni dello studio della filosofia può essere però affron-tata anche da un altro punto di vista, domandandosi come questo sapere possainserirsi in un progetto formativo.

Alla scuola, giustamente, si chiede una cultura che risponda alle domande ealle sfide del nostro tempo, che consenta di far fronte ad esse. Uno degli aspettiche caratterizzano la società contemporanea è la diminuzione delle certezze edelle verità consolidate e la crescita della complessità e delle incertezze: allorac’è spazio per la filosofia. Questa può aiutarci ad esempio (certamente non dasola, ma facendo comunque la sua parte) a comprendere quali siano le grandialternative in gioco oggi o in base a quali criteri si possa compiere una scelta piut-tosto che un’altra, fra quelle che appaiono possibili.

Per questo, è stato detto che la filosofia è una specie di scienza del possibile, diesercizio mentale volto a individuare scenari e campi di scelte nei quali – di voltain volta – sono in gioco le condizioni essenziali dell’esistenza di coloro che lecompiono.

Effettuare quel gioco di simulazione, cioè acquisire quel tipo di abilità intellet-tuale (non solo con la filosofia, perché possono contribuirvi altre discipline edesperienze culturali) è tanto più importante in una società e in un’età in cui sipongono continuamente problemi nuovi, mai affrontati prima, almeno con certecaratteristiche, e si determinano situazioni per le quali non vi sono risposte giàdate e confezionate8.

In particolare lo studio della filosofia – insieme a quello delle altre discipline –può contribuire ad affinare quelle capacità di pensare per modelli, di operare perprocedure ad alto livello simbolico-astratto, che costituiscono alcuni fra gli ele-menti fondamentali dell’“attrezzatura” mentale necessaria nella società contem-poranea. Le capacità di elaborazione logica, di formalizzazione e analisi delleinformazioni, la capacità di “simulare” un gioco a più variabili e di individuare“mosse” e “contromosse” in relazione a contesti e a obiettivi prescelti, costitui-scono gli obiettivi dell’insegnamento della filosofia, fanno cioè parte del normaleesercizio di apprendimento di concetti e problemi filosofici.

Oggi, per quei caratteri assunti dal cambiamento accelerato della società, nonè solo il filosofo a trovarsi in una situazione problematica di ricerca. Anche loscienziato deve mettersi continuamente in discussione, cioè deve essere in gradodi problematizzare ciò che sa, per essere all’altezza dei cambiamenti in atto.

Perché una storia della filosofia?

Ma se il filosofare poggia – essenzialmente – su interrogativi e problemi, per-ché, allora, studiare la storia della filosofia? E perché farlo iniziando proprio dallafilosofia greca?

La risposta – anche in questo caso – non è semplice, perché in altri Paesi (adesempio in Francia) o in altre epoche (ad esempio nell’Italia dei primi delNovecento) si sono scelte vie diverse da quelle dell’insegnamento storico di que-sta disciplina. La scelta di questa impostazione deriva certamente dalla presenza,nel nostro Paese, di una fortissima e consolidata tradizione storicistica nella cul-tura e, in modo particolare, nella filosofia. Ma non sembra un tipo di rispostacapace di soddisfare chi ha posto quella domanda.

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13LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

Si potrebbe dire che vale per la filosofia ciò che vale per l’identità personale diogni individuo: questa può essere considerata, in larga misura, come un’identitàstorica, cioè come un vivere in un presente che è il risultato non solo di una sto-ria personale e familiare, ma anche il punto di arrivo e il risultato di processi dilunga – o lunghissima – durata, che, in qualche modo, influiscono sulla stessapercezione di sé che ogni persona possiede. Ciò che si dice per ogni individuo,vale a maggior ragione per una cultura – quella contemporanea – nella qualesono presenti schemi e modelli di pensiero prodotti da una lunga tradizione sto-rica e che si mescolano a schemi e modelli di nuovo conio, prodotti o “importa-ti” nella nostra epoca.

La coscienza del significato di idee e convinzioni, con cui abbiamo quotidia-namente a che fare, può diventare più forte e profonda se si accompagna ad unaconsapevolezza del loro spessore storico-culturale.

Nel nostro caso, si tratta di ripensare le filosofie del passato per esercitarci acapire meglio il presente, le idee e i modi di pensare del presente.

Ma questo recupero del passato può essere operato partendo da due prospetti-ve che, se non sono antitetiche, esprimono comunque due esigenze diverse.

■ In un caso l’approccio alle filosofie le considererà in larga misura irripetibiliperché legate a condizioni storiche determinate, diverse dalle nostre, che vannoanch’esse conosciute. Vive in questa impostazione quello storicismo di cui si è giàfatto cenno, la preoccupazione di ricollocare il pensiero nel tempo e nella societàche l’ha prodotto, in rapporto ai problemi e alle questioni che quel tempo si èposto e che ha dovuto affrontare. Anche così si manifesta la dimensione criticadella filosofia: presentando una storicità del pensiero che si definisce soprattuttocome storicità delle domande e come tentativi coerenti di risposta, attraverso cuipossiamo esercitarci a comprendere meglio il senso e la portata delle nostre do-mande e delle nostre risposte. Proprio il nostro sforzo di intendere il passato, diinterpretarlo, può aiutarci a coglierne la lontananza, a distaccarci criticamente daesso, ma anche ad acquisire meglio il senso, la portata, la profondità dei proble-mi del nostro presente.

■ L’altra prospettiva considera quell’approccio storico inaccettabile. Innanzituttoperché lo accusa di aver dato luogo spesso a un modo freddo e distaccato di rico-struire il passato. Questa è però anche la conseguenza della convinzione che quelpassato è essenzialmente “inattuale” e, in qualche modo, inutilizzabile e non puòpiù parlare agli uomini d’oggi. Vi è invece un modo di guardare alle filosofie delpassato – soprattutto ad alcune – che le considera vive e attuali, capaci di parla-re agli uomini di tutte le epoche, espressione di verità e di saggezza, risposte chemantengono inalterato il loro valore, la loro attualità.

Dietro questo orientamento critico nei confronti dell’approccio storico vi è laconvinzione che “la verità” di una tesi filosofica sia indipendente dal tempo sto-rico in cui è stata espressa e che ciò che davvero conta sia la capacità di dimo-strarne la validità con argomenti adeguati. Vi è inoltre la convinzione che esistauna filosofia perenne, spesso identificata con la metafisica, con la ricerca delsenso ultimo della realtà e dell’esistenza umana, che alimenta e si alimenta delrapporto con filosofie, anche del passato, vive e operanti.

In realtà dobbiamo tener conto, nel nostro lavoro, delle ragioni di entrambe le pro-spettive.

Da un lato è difficilmente contestabile – è stato osservato – che “se lo storiconon vuole limitare la sua ricostruzione a una semplice parafrasi di ciò che un pen-satore ha detto, egli dovrà ricorrere a strumentazioni linguistiche e concettualidiverse da quelle utilizzate dal suo autore”: e tutto ciò non può non porre que-stioni teoriche di fondo.

Dall’altro è anche difficilmente contestabile il caso opposto: che, cioè, anchequando il discorso “miri al massimo di astrattezza e di generalità, difficilmenteesso potrà prescindere [...] da riferimenti e costruzioni concettuali che apparten-gono alla storia”. Senza dimenticare – si aggiunge ricordando un concetto espres-so da un filosofo americano del Novecento, George Santayana – che “chi ignorala storia è spesso condannato a ripeterla”9.

Comunque, qualunque sia l’approccio, è sempre da noi che dobbiamo prende-re le mosse, da ciò che già conosciamo o crediamo di conoscere, dalla nostraesperienza di “filosofi” che non sanno di esserlo, che si pongono comunque delle

9. Paolo Parrini, Filo-sofia e storia della filo-sofia. SWIF – CASPURLEI CISECA, Dipar-timento di filosofiadell’Università di Bari– Servizio WEB italia-no per la filosofia.

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domande di senso e cercano di trovarvi delle risposte: e che per questo debbonoessere posti in condizione di formulare meglio – con più coerenza e padronanzaconcettuale – quelle domande e quelle risposte.

Perché la filosofia greca?

Ma allora, non possiamo fare a meno di chiederci, perché cominciare propriodalla Grecia antica e non, ad esempio, dalle filosofie orientali, oppure da quelledell’età moderna?

Va, in primo luogo, riconosciuto che la scelta di partire dalla Grecia, per unaricostruzione storica dello sviluppo della riflessione filosofica, risponde ad un’an-tica e consolidata tradizione storiografica, che risale agli stessi filosofi greci. Og-gi, infatti, siamo ben consapevoli che quella scelta storiografica di partire dal pen-siero greco antico risponde in parte a un criterio di convenzionalità, poiché altre“filosofie”, cioè concezioni del mondo e della vita culturalmente elaborate ecomplesse, sono presenti già prima della nascita della filosofia occidentale nellecolonie greche dell’Asia Minore e comunque si affermano come sistemi com-plessi di pensiero parallelamente allo sviluppo della filosofia occidentale, adesempio nelle grandi civiltà della Cina e dell’India. Eppure vi sono diverse ragio-ni che inducono a partire dalla Grecia e dalla sua filosofia.

Una di queste è quasi ovvia: noi siamo figli ed eredi di quella cultura, che haformato, strutturato e prodotto lo stampo del nostro modo di pensare scientifi-co e filosofico. Solo in Grecia, inoltre, la filosofia si è venuta costituendo con unapparato disciplinare autonomo, dotato di linguaggi, strumenti analitici e obiet-tivi specifici, distinguendosi dalla religione o dalla scienza. Lì se ne è elaboratoil concetto e si è resa questa disciplina un prodotto specifico e originale dellacultura dell’Occidente.

Nella cultura greca si è inoltre venuta affermando la centralità della ragionecome strumento di comprensione della realtà e della razionalità come connotatodi fondo della realtà stessa. Nella filosofia greca è possibile ritrovare i paradigmifondamentali del pensiero filosofico occidentale: comprendere cioè strutture,contenuti e forme della razionalità che ancora oggi caratterizzano il mondo e lacultura occidentali.

Anche a questo riguardo si vedrà però che le valutazioni espresse intorno alla filo-sofia greca e al suo ruolo fondante sono ben diverse. Soprattutto la filosofia con-temporanea ha spesso considerato quella greca il luogo in cui si è prodotto il meglioe il peggio del pensiero occidentale: lì si è colto e quasi afferrato l’emergere dellaverità, ma lì si è anche smarrita, nascosta, occultata la verità. Vi è anche chi ri-dimensiona le “origini” greche, perché l’origine non è solo quella storica – ancorauna volta questo sarebbe un atteggiamento storicista. Secondo questa posizionequell’origine, quel fondamento essenziale e metastorico non appartiene a nessuno,neppure ai Greci.

Come si vede, anche sulla questione del “cominciare dalla filosofia greca”, siripropongono quei due atteggiamenti di fondo individuati in precedenza. Ma siribadisce quella ineliminabile problematicità che appartiene costitutivamente allafilosofia, per cui niente è scontato, ovvio, universalmente accettato.

Comunque, anche le considerazioni positive sull’origine greca del pensierooccidentale non hanno alle spalle, nelle nostre intenzioni, l’affermazione che lavera e unica civiltà, la vera e unica cultura, sia quella occidentale, in cui si sareb-be venuta a sviluppare al suo massimo grado la razionalità umana. Né intendonoridurre il valore e la specificità delle altre civiltà e culture. Occorre anzi ribadireche quella occidentale è solo una fra le grandi civiltà umane e che ha costruito lasua identità con l’apporto e l’interazione con altre civiltà.

Ma se, nella prospettiva di una educazione interculturale, vogliamo confron-tarci con le altre culture per realizzare un interscambio ed un reciproco arricchi-mento, occorre anzitutto avere un’idea di noi stessi, delle nostre radici e dellanostra identità culturale, sapendone valutare meglio genesi, caratteristiche e limi-ti. Senza alcuna intenzione egemonica nei confronti degli altri, ma convinti cheil dialogo con le culture “altre” richieda la consapevolezza della propria identitàculturale.

14LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

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15LA FILOSOFIA COME PROBLEMA E COME STORIA

Storia della filosofia e storia di problemi

Abbiamo raggruppato in dieci grandi aree tematiche i problemi fondamentaliche si trovano sviluppati nella storia della filosofia, costruendo in rapporto ad essealtrettanti percorsi tematici che ne colgano le domande cruciali e le risposte piùrilevanti che sono state fornite:

1. metafisica;2. etica;3. filosofia e conoscenza;4. filosofia del diritto e della politica;5. filosofia del linguaggio e logica;6. filosofia e scienza;7. filosofia, tecnica e lavoro;8. estetica;9. filosofie della storia;

10. filosofia ed educazione.

Questi dieci raggruppamenti tematici costituiscono ambiti di ri-flessione vastissimi, al loro interno molto articolati.

Questa ripartizione della filosofia in aree tematiche e lo stes-so ordine seguito nella successione dei diversi temi corrispon-dono ad una lunga tradizione filosofica. Ma è bene precisareche, come i raggruppamenti non vogliono essere una gabbiaper la filosofia, quell’ordine è del tutto convenzionale e nonprefigura alcun ordine gerarchico o di importanza degli ambiti.Anzi si vedrà che epoche e indirizzi di pensiero diversi ripro-porranno gerarchie diverse dei temi, dei saperi e degli oggettidel filosofare, quando non elimineranno alcuni ambiti o alcu-ne tematiche. Ogni pensatore, infatti, ha dato la priorità a unoo ad un altro tema filosofico e ha stabilito fra tali temi unagerarchia: per taluni l’etica, per altri la metafisica o la teo-ria della conoscenza, per altri ancora la scienza hannocostituito il nucleo centrale del pensiero. Quindi qualun-que graduatoria, in questa sede, sarebbe destituita di ognifondamento.

Ogni percorso tematico si apre con una breve – ed essen-ziale – definizione dell’ambito dei problemi di cui tratta. Taledefinizione va comunque considerata come provvisoria, perchéverrà continuamente arricchita e modificata nel corso dello stu-dio storico della filosofia e affrontata con un ventaglio di prospet-tive e di punti di vista diversi, che tenderanno a modificare i con-fini e il “paesaggio” stesso del campo di studio.

Germaine Richier, La spirale, 1956.Parigi, Musée National d’Art Moderne.

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MATERIALIPER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Che cos’è la filosofia? La risposta,abbiamo visto, dovremo cercarla alungo, nel corso degli studi, misurandocicon diversi filosofi e filosofie. E misurandocicon noi stessi, con il modo in cui ciascuno“vede” i problemi di cui si occupa la filosofia eperciò concepisce anche la filosofia.

Gli autori di cui sono riportati dei brani sono diorientamento diversissimo, vissuti in epochelontanissime o a noi vicine, o nostri contempo-ranei. Grandi filosofi del passato, oppure studio-si e docenti di filosofia. O persino – è il caso diGramsci – personalità politiche, che hanno riporta-to in brevi note delle considerazioni – sulla filosofia– realmente significative. Sono passi brevi nei qualinon bisogna tanto cercare risposte compiute quantoaltre domande e, insieme, scorci su ciò che ciascunodi quegli autori ha inteso per filosofia.

In quei passi troviamo almeno tre elementi distinti:

a. brevi considerazioni sullo stupore, sulla meraviglia,sulla curiosità, considerati come la molla che fa scatta-re la domanda filosofica;

b. una domanda su che cosa sia la filosofia;

c. riflessioni sulle filosofie come grandi sistemi di pensiero,oppure come insiemi di problemi.

■ Un primo gruppo di passi affronta il tema dello stupore, dellameraviglia, come fattori che spingono a fare filosofia: sono passiaccompagnati da un breve commento di uno studioso italiano(Morra).

■ Un secondo gruppo di brani (di Kant, Vanni Rovighi, Gadamer,Monaco, Gramsci, Bencivenga e altri) affronta il problema di checosa sia la filosofia.

■ Gli ultimi tre brani riguardano tre aspetti di rilievo di cui tenerconto in questo “apprendistato” allo studio della filosofia:

a. l’eredità greca e la cultura occidentale (Severino);b. la necessità che la nostra ricerca della verità faccia i conti con

la tradizione storica, sia cioè sostenuta da una sua assimilazionee revisione critica (Jaspers);

c. la “sistematicità” e la “problematicità” come aspetti dellevarie filosofie (Prini).

16MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Etienne-Martin: Il grido, 1963. Ginevra, Claude Givaudan.

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A. PERCHÉ LA FILOSOFIA?

LO STUPORE E LA RICERCA FILOSOFICATESTO 1

AristoteleTESTO 1A

La conoscenza è parte essenziale della natura umana. In un passo che apre una delle principali opere diAristotele, la Metafisica, il filosofo descrive la “gioia”, la felicità che dà il possesso della conoscenza, a comin-ciare da quella che produce la vista offertaci dallo scenario del mondo. Il desiderio di comprensione e lo stu-pore sono fonte di domande continue. Ad esse si tenta di rispondere in mille modi, anche con leggende econ miti, racconti di storie straordinarie di dei e di eroi: anch’essi sono comunque una risposta – un tentativodi risposta – e quindi una specie di “filosofare”. Aristotele vede una continuità fra il pensare comune – intes-suto di domande e abbozzi di risposta – e il filosofare, che è forma sistematica e coerente di porre problemie di cercar di risolverli. A questo aggiunge una sua considerazione sul carattere disinteressato di questo sape-re, sul fatto che esso non mira a conquistare vantaggi esteriori (ricchezze, onori, ecc.), ma il puro e semplicevantaggio della verità.

Tutti gli uomini tendono per natura alla conoscenza: ne è un segno evidentela gioia che essi provano per le sensazioni [...]. Gli uomini, all’inizio comeadesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché dap-principio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sape-vano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fron-te a problemi più complessi, quali le condizioni della Luna e quelle del Sole,e le stelle e l’origine dell’universo. Chi è in uno stato di incertezza e di mera-viglia crede di essere ignorante (perciò anche chi ha interesse per le leggen-de è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito è un insieme di cosemeravigliose); e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare conlo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi cercavano di conosce-re per puro amore del sapere e non per qualche bisogno pratico. E ne è testi-monianza anche il corso degli eventi, giacché solo quando ebbero a disposi-zione tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano comodità ebenessere, gli uomini incominciarono a cercare questa specie di conoscenza.È chiaro allora che noi ci dedichiamo a questa indagine senza mirare ad alcunvantaggio esteriore, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sée non per altro, così anche consideriamo tale scienza.

da Metafisica, I, 2, 982 b

17MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Puoi individuare, nel testo, diverse questioni che continuano ad essere attuali:a. davvero tutti gli uomini desiderano “sapere”? come è possibile “tradurre” il concetto aristotelico nei ter-mini della vita di oggi?b. ci sono altre ragioni, altri fattori più potenti della meraviglia, capaci di innescare la domanda filosoficae il bisogno di conoscere?c. che significato può avere l’attribuzione aristotelica di “filosofi” a coloro che riflettevano su leggende eracconti mitici e li facevano propri?d. è possibile anche oggi attribuire tale significato a forme di riflessione che si svolgono in forme non rigo-rosamente razionali?e. che rapporto c’è fra ignoranza, meraviglia e desiderio di conoscenza?f. è davvero possibile una riflessione del tutto “pura” e “disinteressata” nel campo del sapere?g. perché la riflessione diventa “disinteressata” solo quando si sono risolti i problemi materiali dell’esi-stenza? che rapporto c’è, allora, fra il lavoro (che procura quei mezzi) e il filosofare? c’è chi lavora soltan-to e chi pensa soltanto? perché e in che senso si può sostenere questo? e riportata all’oggi, che significatoassume tale affermazione?

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18MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Ad eccezione dell’uomo, nessun essere si stupisce della propria esistenza: maquesta s’intende tanto per tutti da se stessa, che nessuno vi bada. Nella paca-tezza dello sguardo degli animali parla ancora la saggezza della natura; per-ché in essi la volontà e l’intelletto non si sono ancora distaccati abbastanzal’uno dall’altra, da potersi, nel loro reincontro, meravigliarsi l’uno dell’altra.Così qui tutto il fenomeno aderisce ancora strettamente al tronco della natu-ra, dal quale è germogliato, ed è partecipe dell’inconsapevole onniscienzadella grande Madre1. Solo dopo che l’intima essenza della natura è ascesaattraverso i due regni degli esseri inconsapevoli e poi, dopo esser passata,vigorosa ed esultante, attraverso la serie lunga e larga degli animali, è giuntafinalmente, con la comparsa della ragione, ossia nell’uomo, per la prima voltaalla riflessione: allora essa si stupisce delle sue proprie opere e si chiede, checosa essa sia. La sua meraviglia però è tanto più seria in quanto essa qui sitrova per la prima volta con coscienza di fronte alla morte, e le si fa palese,più o meno, accanto alla caducità di ogni esistenza, anche la vanità di ogniaspirazione. Con questa riflessione e questa ammirazione dunque nasce ilbisogno di una metafisica, proprio unicamente nell’uomo: egli è quindi unanimal metaphysicum 2.

da Il mondo come volontà e rappresentazione, II 17

A. SchopenhauerTESTO 1B

In questo passo di Arthur Schopenhauer, un filosofo dell’Ottocento (tratto dalla sua opera maggiore, Il mondocome volontà e rappresentazione), si afferma che solo nell’uomo, solo con la ragione umana, nasce la mera-viglia. E nasce la coscienza della morte, la prospettiva del nulla e quindi la domanda cruciale se la vita abbiaun senso. Per Schopenhauer la risposta è negativa, perché egli ritiene che una Volontà cieca sospinga dal-l’interno ogni essere, trasformandosi in brama di vivere, in desiderio. Eppure anch’egli sostiene che propriola riflessione e la meraviglia aprono la via a un domandare che investe le ragioni ultime dell’esistenza: apro-no la via a una domanda metafisica.

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Nella parte finale, il passo pone problemi di interpretazione, la cui soluzione sarà possibile solo a studioavanzato. Eppure anche qui, sin dall’inizio, è possibile chiedersi, ad esempio:a. quale rapporto ci può essere fra una “saggezza della natura” che rende “pacato” lo sguardo degli ani-mali e quella che rende invece – potremmo dire sviluppando il ragionamento di Schopenhauer – “inquie-to” lo sguardo degli uomini?b. è possibile costruire un ragionamento positivo sull’inquietudine che nasce con il pensiero sul senso dellimite e della morte?c. davvero il senso del limite dell’esistenza deve necessariamente comportare dolore, frustrazione, sensodella “vanità di ogni aspirazione”? d. qual è l’immagine del termine “metafisica” che il brano ci offre?

1. La Natura.

2. Animale metafisico.

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19MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Il rapporto uomo-ambiente è un rapporto di distacco e di stupore. Ciò di cuil’uomo si stupisce è che le cose siano, e che siano come sono. Abbiamo vistoche i due più grandi filosofi antichi1 hanno posto l’origine della filosofia nellameraviglia. [...] E un filosofo tedesco contemporaneo, Max Scheler, in modoancora più esplicito, ha scritto: «La fonte che alimenta ogni ricerca metafisicaè la meraviglia che qualcosa in genere sia e non piuttosto il nulla».La filosofia è la risposta a questo stupore. Ogni ente che esiste potrebbe anchenon esistere, in quanto non è necessario che nel passato abbia avuto originee non è necessario che continui ad esistere nel futuro. Se vogliamo esprimer-ci in termini filosofici, dobbiamo definire questa situazione come la contin-genza di ogni ente. [...] La meraviglia, che sta all’origine della filosofia, si qualifica non solo comestupore, ma come esigenza di conoscere la verità. La meraviglia non ha alcu-na finalità utilitaristica, ma è tensione naturalmente umana verso la verità. Infondo, potremmo anche dire che l’oggetto della filosofia è la verità: non lesingole verità, che sono oggetto delle attività spirituali parziali, ma la Veritànella sua totalità. Non certo una verità considerata come una produzioneumana, ma quella Verità, la quale, per usare la toccante espressione di BaruchSpinoza2, «manifesta se stessa».L’uomo è un animale per la verità: nella curiosità del bambino, nel suo con-tinuo domandare «perché», come nella ricerca paziente e disinteressata delloscienziato si esprime la medesima tendenza a sapere come sono le cose. Lafilosofia, che è per natura contemplazione, ha per oggetto la verità. E la veritànon è dall’uomo prodotta o inventata, ma scoperta e trovata. L’etimologiadella parola con cui i Greci indicavano la verità ci aiuta a comprendere que-sto concetto. Verità, in greco, è a-létheia, cioè il non-nascondimento, la rive-lazione di ciò che era nascosto.

da Filosofia per tutti, La Scuola, Brescia 1990

G. MorraTESTO 1C

Il brano di Gianfranco Morra è tratto dal libro Filosofia per tutti e intende fornire una risposta ad alcuni deiprecedenti interrogativi. Naturalmente, essendo il brano molto ridotto, non è possibile ricostruire l’insiemedelle sue argomentazioni. Si delineano, però, nei pochi passi citati, alcune posizioni su che cosa egli inten-da per filosofia.

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Proviamo a riflettere insieme su:a. il rapporto uomo-ambiente, chiedendo se e quando vi sia distacco e stupore (presa di distanza, giudizioe rifiuto umano dell’ambiente) e se, nella stessa considerazione dello stupore che apre la via alla doman-da di sapere, non vi siano altri fattori, legati anch’essi al rapporto uomo-ambiente;b. il fatto che per l’autore lo stupore è dettato dal carattere contingente dell’esistenza degli esseri (contin-genti perché possono esistere o non esistere) e che tale carattere rinvia ad un Essere che ha in sé la neces-sità dell’esistenza e perciò è creatore degli esseri;c. il concetto di Verità che viene descritto, inteso come rivelazione di ciò che è nascosto, è da intendere insenso religioso? O è pensabile che dei filosofi abbiano sviluppato il ragionamento di Morra in una dire-zione diversa? In tal caso, a tuo parere, in che senso? La risposta, naturalmente, anche in questo caso toccaaspetti estremamente complessi, con cui ti misurerai lungo l’intero arco del tuo corso di studi. Eppure puoitentare di individuare qualche abbozzo di risposta, usando conoscenze e credenze di cui disponi.

1. Platone, attraversole parole di Socrate,ed Aristotele.

2. Filosofo olandesevissuto nel XVII secolo.

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20MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Io sono (dice Kant) uno studioso e sento tutta la sete di conoscere ciò chepuò conoscere un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questocostituisse tutto il valore dell’umanità; allora io disprezzavo il popolo che èignorante. È Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria èsvanita; ho imparato che la scienza per sé è inutile se non serve a valorizza-re l’umanità.

da Fragmente aus dem Nachlass

La filosofia di Jaspers1 trae linfa dai suoi problemi personali. Il pensiero sorgein lui, come in pochi altri filosofi, immediatamente dall’esistenza; egli ponel’intera vita al servizio del pensiero. Anche per questo motivo si occupa delproblema dell’uomo. [...]Questo atteggiamento filosofico determina il contenuto della filosofia diJaspers. Il suo pensiero ruota di continuo intorno all’uomo, alla cui cono-scenza è rivolta la sua passione spirituale. Studia medicina e psichiatria, conl’intento di “comprendere l’uomo come un tutto” e di “conoscere i confinidelle possibilità umane”. [...]

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Il passo di Kant ci spinge a queste possibili riflessioni:a. perché la “sete di conoscere”, pur essendo essenziale, non è tutto?b. perché la nostra umanità non può esaurirsi nel sapere? c. qual è l’effettiva utilità del sapere (e della filosofia)?d. come è possibile definire oggi l’“utilità” della filosofia?

B. CHE COS’È LA FILOSOFIA

FILOSOFIA PER CHI? I. KantTESTO 2

Nel breve passo che riportiamo, Immanuel Kant, un grande filosofo tedesco vissuto nel Settecento, riferen-dosi a Rousseau (altro grande filosofo francese della stessa epoca) afferma che il sapere (la filosofia) è benpoco se non è accompagnato da una visione più alta e comprensiva del valore di ogni uomo, da un sensopieno della dignità umana. La cultura non è tutto, è inutile se è sapere fine a se stesso e se non è unita alsenso dell’umanità. Kant non intende svalutare la filosofia come sapere, ma vuol sottolineare che la sua fun-zione vera sarebbe quella di aiutare tutti a vivere la propria umanità, cercando risposte a domande che sonouniversali.

LA FILOSOFIA È “PROBLEMA DELL’UOMO” W. WeischedelTESTO 3

In questo passo dell’opera La filosofia dalla porta di servizio dedicato al filosofo contemporaneo Karl Jaspers,Weischedel descrive il filosofare dello stesso Jaspers come un movimento di pensiero che si fonda su inter-rogativi che investono direttamente colui che li formula e a lui continuamente ritornano, come soggetto eoggetto privilegiato del filosofare.

1. Karl Jaspers (1883-1969), filosofo e psi-chiatra tedesco.

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21MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Soltanto chi è mosso intimamente dalla cura per l’uomo può fare filosofia,partendo dall’uomo e ritornando a esso. La filosofia per Jaspers è, infatti, un“curarsi di se stessi”. Questo è il modo d’essere fondamentale che impronta lasua intera opera. A partire da qui, egli si volge contro quella che definisce la“filosofia dei professori”: questa non è per lui “autentica filosofia”, bensì sol-tanto “discussione di cose che sono inessenziali per le domande fondamen-tali del nostro esserci”. In opposizione a questa tendenza, l’interesse di Jaspersper l’uomo nasce dall’osservazione vitale di che cosa gli accade nel presente.Ciò che conta in modo decisivo è che l’uomo afferri se stesso nella verità, chescelga se stesso, che si fondi su se stesso, e diventi così quello che è. [...] Perquesto motivo Jaspers chiama il proprio pensiero “filosofia dell’esistenza”.Una tale filosofia, infatti, rappresenta “il pensiero, mediante cui l’uomo vor-rebbe diventare se stesso”. L’esistenza non significa qui semplicemente ciòche noi siamo nella vita quotidiana; significa piuttosto l’esser-se-stesso comeestrema possibilità dell’uomo.Sarebbe tuttavia un fraintendimento qualora ritenessimo che Jaspers nel pen-siero dell’esser-se-stesso e della libertà parli di un fiero isolamento dell’uomo,come se la filosofia fosse alla fine un affare che riguarda il singolo nella suasolitudine. Pur con tutta la distanza che Jaspers prende rispetto agli altri uomi-ni, anzi, forse proprio grazie a questa distanza, è per lui decisivo che si com-prenda come l’esser-se-stesso sia possibile soltanto nella comunicazione congli altri; [...] “Noi diventiamo noi stessi solo nella misura in cui l’altro divienese stesso e diveniamo liberi tanto quanto l’altro diventa libero”. Da questaimpostazione derivano anche i postulati politici di Jaspers. Si tratta sempredella libertà dell’altro e, insieme, della corretta formazione del vivere in comu-ne. Essa deve estendersi fino alla comunità universale degli esseri ragionevo-li, nella quale soltanto Jaspers vede la possibilità di una vera democrazia.Questo lo spinge a richiedere un ordine mondiale universale, tanto più neces-sario dinanzi alla minaccia della bomba atomica, affinché l’uomo non distrug-ga se stesso.Il cammino lungo il quale l’uomo più giungere a se stesso è scandito di con-tinuo da scogli e da abissi. Per questo Jaspers può dire: “alla fine c’è il nau-fragio”. Già il solo tentativo di orientarsi nel mondo pensando e conoscendo,ossia il corso delle scienze, conduce inevitabilmente a fare esperienza deilimiti. Ci sono domande su domande che talvolta trovano risposte parziali; maladdove i problemi si fanno assoluti, esse rimangono del tutto irrisolte.Restano senza risposta, per esempio, le domande sul principio e la fine, sullafinitezza o infinità del mondo, oppure sul fondamento delle cose [...].L’uomo fa esperienza dei limiti in modo ancora più opprimente quando sivolge a se stesso, e tenta di comprendersi e di dar forma alla propria vita.Scopre, infatti, che il suo esserci è altro rispetto a quello delle cose.Improvvisamente precipita nella crisi, in quelle che Jaspers chiama le “ situa-zioni limite”. In esse l’uomo naufraga, e in modo ancor più profondo che neifallimenti delle scienze. Nelle situazioni limite l’uomo si rende conto che in sestesso è un nulla e che non può procedere con le sue sole forze; urta controil limite assoluto. Ciò accade, per esempio, quando si assiste alla morte diqualcuno, quando si pensa alla propria morte, nell’esperienza dell’irriducibi-lità della lotta, del dolore e della colpa o nel vissuto dell’immutabilità deldestino in cui ciascuno è preso. Queste situazioni limite sono “le situazioniultime che sono legate all’uomo in quanto tale e che sussistono inevitabil-mente con l’esserci stesso”. La ricerca su se stesso rivela che non vi sono vied’uscita; ogni atteggiamento si fa incerto; l’uomo si sente “ mancare il terrenosotto i piedi”. Le situazioni limite sono “come un muro contro il quale urtia-mo”. In esse l’esserci appare in un’ “ondeggiante incertezza”, nella “realtà diun naufragio totale”. Questo è ciò che rende l’immagine dell’uomo così con-fusa, e non solo nell’epoca attuale, in cui ciò emerge con particolare chiarez-za, ma in ogni tempo. Eppure, questa esperienza è necessaria perché “l’es-senza dell’uomo diviene consapevole di sé soltanto nelle situazioni limite” [...].“Noi diventiamo noi stessi, entrando a occhi aperti nelle situazioni limite”.

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22MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Questa è poi anche “la più profonda origine della filosofia” [...].“In un mondo che è divenuto completamente incerto, noi filosofando cer-chiamo di mantenere la direzione, senza conoscere la meta”.

da La filosofia dalla porta di servizio, Raffaello Cortina, Milano 1997

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Il passo ci induce a chiederci:a. in che senso si può dire che la filosofia è “curarsi di se stessi” e in che senso, invece, è anche un “curar-si degli altri”?b. in che senso la riflessione può aiutarci quando sentiamo il terreno mancarci sotto i piedi?c. che cosa potrebbe voler dire, nel nostro modo di vedere le cose, che nell’incertezza più totale delmondo cerchiamo di mantenere una rotta, una direzione, senza conoscere la meta?d. che senso potrebbe avere, secondo noi, il fatto che ci si muova senza conoscere la meta se nella vitaabbiamo bisogno di punti fermi, di punti cardinali, di certezze? da che punto di vista dobbiamo muovercianche senza conoscere la meta?e. oppure non condividi questo punto di vista di Jaspers?

IN CHE SENSO SIAMO TUTTI FILOSOFI? A. GramsciTESTO 4

In questi passi – che fanno parte dei Quaderni di Antonio Gramsci – si tocca il fatto che – in qualche misura– tutti siamo “filosofi”. Ma c’è filosofia e filosofia: • c’è quella del conformista, che si limita a ripetere i luoghi comuni dell’ambiente in cui vive, si accontentadelle idee che ha ereditato – e che sono eterogenee, come un bazar in cui vi sia tutto e il contrario di tutto;• c’è, però, anche quella di chi cerca di “mettere ordine” in quella congerie di idee e pregiudizi e – pur accet-tando sempre di essere partecipe di idee condivise da una comunità più vasta – le rivede criticamente, le filtra,sceglie, decide di essere guida di se stesso e di partecipare così, da protagonista cosciente, alla storia del mondo.

Occorre [...] dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono «filosofi»,definendo i limiti e i caratteri di questa «filosofia spontanea», propria di «tuttoil mondo» [...].Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsape-volmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasiattività intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezionedel mondo, si passa al secondo momento, al momento della critica e dellaconsapevolezza, cioè alla questione: è preferibile “pensare” senza averne con-sapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè “partecipare” auna concezione del mondo “imposta” meccanicamente dall’ambiente esterno,e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamentecoinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente (e che può essere il pro-prio villaggio o la provincia, può avere origine nella parrocchia e nell’«attivitàintellettuale» del curato o del vecchione patriarcale la cui «saggezza» dettalegge, nella donnetta che ha ereditato la sapienza dalle streghe o nel piccolointellettuale inacidito nella propria stupidaggine e impotenza a operare) o èpreferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e cri-ticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del proprio cervello, sce-gliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione dellastoria del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamentee supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità?

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23MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Nota. Per la propria concezione del mondo si appartiene sempre a un deter-minato raggruppamento, e precisamente a quello di tutti gli elementi socialiche condividono uno stesso modo di pensare e di operare. Si è conformistidi un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa o uomini-collettivi. Laquestione è questa: di che tipo storico è il conformismo, l’uomo-massa di cuisi fa parte? Quando la concezione del mondo non è critica e coerente maoccasionale e disgregata, si appartiene simultaneamente a una molteplicità diuomini-massa, la propria personalità è composita in modo bizzarro: si trova-no in essa elementi dell’uomo delle caverne e principii della scienza piùmoderna o progredita, pregiudizi di tutte le fasi storiche passate grettamentelocalistiche e intuizioni di una filosofia avvenire1 quale sarà propria del gene-re umano unificato mondialmente. Criticare la propria concezione del mondosignifica dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto cui ègiunto il pensiero mondiale più progredito. Significa quindi anche criticaretutta la filosofia finora esistita, in quanto essa ha lasciato stratificazioni con-solidate nella filosofia popolare. L’inizio dell’elaborazione critica è la coscien-za di quello che si è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto delprocesso storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di trac-ce accolte senza beneficio d’inventario2. Occorre fare inizialmente un taleinventario.

da Quaderni dal Carcere, II, Einaudi, Torino 1975

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Fra i numerosi problemi che suscita questa lettura proviamo a chiederci:a. in che senso si è “filosofi”, sia pure inconsapevoli?b. che cosa vuol dire essere “consapevoli” e “critici” della propria visione del mondo?c. in che senso e fino a che punto, con quali limiti, si può essere – in questo caso – protagonisti della sto-ria del mondo?d. in che senso, sempre in questo secondo caso, si è diversi pur rimanendo sempre degli “uomini-massa”?e. che cosa vuol dire “filosofare”, nel senso più alto descritto nelle ultime frasi del brano?f. condividi questo punto di vista, oppure hai obiezioni da fare su un aspetto – o su più aspetti – delle con-siderazioni di Gramsci?

DOMANDE PERENNI H. G. GadamerTESTO 5

Uno dei maggiori filosofi contemporanei, Hans Georg Gadamer, descrive in alcuni interrogativi di fondo ilsenso della ricerca filosofica: interrogativi estremamente complessi, che abbracciano un arco vastissimo ditemi e con cui ti misurerai lungo l’intero arco del tuo corso di studi. Eppure si può provare a vedere se nonsia possibile qualche abbozzo di risposta, usando conoscenze ed opinioni di cui disponiamo.

Sempre di nuovo si impongono le domande che muovono la nostra volontà disapere e che scaturiscono veramente dal nostro stupore davanti a ciò che ciappare estraneo. E non è forse “estraneo” tutto questo: inizio di tutto, durata efine? C’è il tempo in generale, o è solo “in noi”? Perché vi è in generale qual-cosa e non nulla? E che cos’è coscienza e autocoscienza, in cui è pur sempretutto? Come si deve comprendere, che questa “chiarità” in sé luminosa, che noichiamiamo coscienza, deve a un certo punto avere una fine?

da Gli strumenti del sapere contemporaneo, Vol. I, Le discipline, U.T.E.T., Torino 1985

1. Filosofia futura.

2. Senza essere statesottoposte a verificacritica.

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24MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Si possono dare varie definizioni della filosofia: una, molto antica, è ricercadelle cause prime; io preferisco quest’altra, che però coincide con la prima:ricerca della giustificazione delle valutazioni morali, cioè di quei giudizi coiquali diciamo: «questo è giusto, questo è bene, questo è male».È facile, infatti, sentir proclamare uno scetticismo o un relativismo morale,sentir dire che non ci sono valori assoluti, che tutte le morali si equivalgono,che non si può stabilire che cosa è bene e che cosa è male; ma è poi diffici-lissimo essere coerenti con questa teoria; anche colui che si professa scetticoin fatto di morale approva e condanna: se è colpito o offeso reagisce non soloprotestando, ma ritenendo di aver diritto di protestare, dicendo ingiusta l’of-fesa che riceve. E non solo quando uno è colpito nei suoi interessi, ma anchequando sente il racconto di uccisioni, di sofferenze, di miserie. Quando,come accade purtroppo frequentemente ai nostri giorni1, un uomo che rap-presenta una funzione sociale è ucciso, è facile leggere sui giornali: «È statoassassinato Tizio» o, più decisamente: «Tizio è stato barbaramente assassina-to», ma ci saranno anche scritte murali che dicono: «Tizio è stato giustiziato».Di fronte a questa disparità di giudizi non si può fare a meno di chiedersi:chi ha ragione?E la filosofia non è in fondo che questo: la ricerca di una giustificazione razio-nale delle valutazioni morali.Debbo spiegare cosa vuol dire “giustificazione razionale”. Vuol dire cercar divedere come stanno le cose. Questo avviene sia nella vita quotidiana comenella scienza.[...] Ora per giustificare razionalmente le valutazioni morali bisogna riferirsi auna concezione dell’uomo. [...] Bisogna arrivare a quelle “cause prime” dellequali parlava la prima definizione della filosofia.[...] Se uno poi dicesse: ma perché giustificare razionalmente le valutazionimorali? Le valutazioni si impongono con la forza. Risponderei che l’eserciziodella forza, del potere, cerca sempre di giustificarsi: chi detiene il potere cercasempre non solo l’obbedienza, ma il consenso, ossia cerca sempre di per-suadere che l’esercizio del suo potere è giusto, porta al bene – e questo impli-ca una filosofia –. Si dirà che chi ha il potere cerca il consenso solo perchéil consenso assicura il potere molto più del puro esercizio della forza, si diràcioè che chi ha il potere cerca il consenso solo come strumento di potere.Può darsi; ma questo implica il riconoscimento che il dar ragione delle pro-prie valutazioni è radicato nell’uomo; che l’uomo è naturalmente filosofo. E

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Possiamo riflettere su questi aspetti dell’interrogarsi di Gadamer:a. perché e in che senso si possono considerare a noi estranei l’inizio e la fine di tutto?b. in che senso, a livello intuitivo si può dire che il tempo è solo “in noi” e non “in generale”?c. ha senso chiedersi perché c’è qualcosa e non nulla? in caso di risposta positiva o negativa, perché e conquali argomenti è possibile dire qualcosa su tale quesito?d. perché si può dire che la coscienza e l’autocoscienza sono “pur sempre tutto”? e in che senso “tutto”?Per chi?e. davvero la coscienza è sempre “luminosa”? sai se vi sono termini opposti con cui è possibile designar-la e perché?f. perché la fine di tutto? Ogni essere umano se lo chiede: prova a elencare le varie risposte possibili comeschema su cui cominciare a riflettere, sapendo che molte di queste risposte le ritroverai nei vari filosofi.

LA NECESSITÀ DEL GIUDIZIO MORALE S. Vanni RovighiTESTO 6

Questo passo di Sofia Vanni Rovighi è tratto da uno scritto (Istituzioni di filosofia) nel quale l’autrice proponeun percorso di filosofia, scandendolo in tappe logicamente consequenziali. L’autrice, come punto di parten-za, sceglie il problema dei giudizi morali, che fanno parte della nostra vita quotidiana.È dunque la necessità morale di definire ciò che è bene o male a spingerci a filosofare?

1. Lo scritto risale aglianni Settanta, ai cosid-detti anni di piombodel terrorismo italiano.

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25MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Che cos’è la filosofia?Per rispondere in modo completo a questa domanda occorrerebbero interivolumi. Si può essere brevi solo parlando in modo sommario e allusivo. Unantico poeta persiano paragonava l’universo ad un grande manoscritto di cuiperò sono andate perse la prima e l’ultima pagina. Per questa ragione non èpossibile sapere come quel libro incominciasse né come probabilmente finirà.Filosofia è proprio la ricerca di quelle pagine e la storia della filosofia i suoirisultati. [...] L’incertezza della filosofia è più apparente che reale: i problemi ai qualivengono date risposte precise appartengono già al campo proprio di unaqualche scienza; quelli che ancora non trovano risposte rigorose, invece,appartengono ancora al regno della filosofia.Non c’è dubbio che il numero delle questioni incerte e di difficile soluzioneè ancora altissimo; anzi, ogni conoscenza nuova sembra aprire campi prece-dentemente impensati di ricerca. La saggezza, di conseguenza, deve ancoracrescere indefinitamente.Il valore della filosofia va prevalentemente visto nella sua incertezza. Il mondotende a divenire chiaro e ovvio solo per chi assume in modo non critico ilsenso comune, le opinioni della maggioranza, i pregiudizi cresciuti nella suamente senza l’intervento di un radicale spirito critico: per costoro la vita quo-tidiana non pone mai problemi difficili. Il filosofo, invece, sa che anche lecose quotidiane presentano in fondo problemi complessi. La filosofia sugge-risce dappertutto una molteplicità di possibilità che sfuggono a chi è domi-nato dalla ripetitiva tirannia del quotidiano.Ma il valore della ricerca filosofica non è solo di tipo conoscitivo: la ricerca diverità ci rende più liberi e migliori. La vita quotidiana degli uomini è per lopiù chiusa da una serie di interessi ristretti e privati: non mi riferisco solo aimeschini interessi istintivi, ma a tutte le esigenze, pur legittime, della vita quo-tidiana.

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Osserva e rifletti, fra le numerose questioni implicite nel breve passo riportato:a. quale giudizio morale, quale criterio usiamo nel dire che qualcosa è giusto e qualcosa no?b. qual è la critica che l’autrice rivolge allo scettico, cioè a colui che ritiene che non vi siano valori assoluti?c. quale risposta tu stesso potresti provare a fornire all’autrice, ove ti riconoscessi in una posizione “relati-vistica” dei valori?d. quali sono i valori (assoluti o relativi ) che attiviamo nella ricerca delle giustificazioni razionali dei giu-dizi morali?

ALLA RICERCA DELLA “PAGINA” PERDUTA C. MonacoTESTO 7

In questo brano Carlo Monaco cerca di descrivere il senso delle domande “originarie” e delle domande “ulti-me” della filosofia, riportandole all’idea – ripresa da un antico poeta persiano – della ricerca della prima edell’ultima pagina del manoscritto-universo che sono andate perdute. Secondo l’autore proprio l’incertezzasulle domande e sulle risposte che la filosofia formula costituisce il suo valore principale. Essa dipende dalfatto che la filosofia tende a “sporgersi” là dove la scienza non è ancora giunta, senza sapere se e come unaqualche risposta esauriente si potrà trovare.

alla domanda: – perché non imporre le valutazioni con la forza? – risponde-rei in modo ancora più radicale: se vogliamo chiamare opzione il preferire laragione alla forza, il cercar di vedere e far vedere, dirò che questa opzione staalla base della filosofia. Ma sta anche alla base di un comportamento chepossa chiamarsi umano.

da Istituzioni di filosofia, Editrice La Scuola, Brescia 1982

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26MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

La ricerca filosofica, al contrario, ci spinge ad abbracciare tutto il mondoesterno in modo tale che nulla di ciò che è umano ci risulti estraneo1. Conquesta apertura dello spirito l’uomo sarà capace di maggiore tolleranza, inquanto portato a riconoscere, nella loro interezza e serietà, le ragioni dell’al-tro.Ma la filosofia fornisce una diversa apertura mentale non solo nei confrontidei problemi umani, ma anche nei riguardi di tutto ciò che sta fuori dall’uo-mo (filosoficamente, il Non-Io). L’intelletto libero attribuirà grande valoreanche alle ricerche più generali e astratte, come se in ogni momento doves-se vedere Dio.La riflessione filosofica ci trasforma davvero in cittadini del mondo liberan-doci da molte miserie e schiavitù. La filosofia, in conclusione, è viva, non perle risposte che essa fornisce alle molte domande che ci premono, ma per lavitalità delle stesse domande.

da Conoscere la filosofia, Fuori Thema Edizioni, Bologna 1988

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Sulla base dei numerosi temi presenti nel breve passo, possiamo chiederci:a. quali sono le prime e le ultime pagine del manoscritto dell’universo che sono andate perdute?b. perché la filosofia è costituita dalla ricerca di quelle due pagine?c. ha senso andarle a cercare?d. oppure ha senso cercare solo una di quelle due pagine?e. è significativo il fatto che il valore della filosofia sia costituito dall’incertezza delle riposte?f. non è meglio accontentarsi delle risposte “precise” di questa o quella scienza?g. anche la filosofia deve cercare risposte precise?h. in questo caso, credendo di averle trovate, come giudicare gli “incerti”?

LA FILOSOFIA E IL “DINGO” E. BencivengaTESTO 8

Ermanno Bencivenga, studioso e filosofo contemporaneo, vede la filosofia come esercizio di alternative pos-sibili allo stato di cose esistente, cioè come elaborazione di modelli diversi di realtà e di pensabilità del reale,che può aiutarci a fronteggiare gli imprevisti che continuamente – nella società dell’innovazione tecnologicae scientifica – ci troviamo dinanzi.

Una volta i marsupiali dominavano il continente australiano, vi erano perfet-tamente adattati, poi qualcuno ci portò un cane e i marsupiali se la viderobrutta: il cane (successivamente inselvatichito, e diventato dingo) aveva cam-biato l’ambiente, reso più difficile la ricerca del cibo e necessarie nuove stra-tegie – strategie che quei simpatici antiquati mostriciattoli non avevano adisposizione. Consideriamo ora una cultura (umana) come l’insieme dellestrategie, degli strumenti, delle tecniche disponibili a una data comunità(umana), di qualunque dimensione (una tribù, un popolo, una razza, o anchel’umanità intera). È una cultura allora, intesa in questo senso, quel che si tra-smetterà da una generazione all’altra e questa trasmissione mediante appren-dimento (non per via puramente genetica) permetterà una più agile e versa-tile divisione dei compiti: qualcuno imparerà a fare scarpe, qualcun altro afare computer e qualcun altro ancora a fare discorsi. Che cosa succederebbe,però, se anche qui arrivasse un dingo e a un tratto tutte le strategie disponi-bili (per quante siano) non fossero più sufficienti? Se ce ne servissero dellealtre, delle nuove? Si potrebbe ovviamente ripartire da zero e procedere pertentativi ed errori, ma ci sarebbe il tempo? Per molti marsupiali non c’è stato.

1. Questo concettorichiama una famosaaffermazione delloscrittore latino Te-renzio: “Homo sum etnihil humani a mealienum puto”: sonoun uomo e nulla diciò che è umano mi èestraneo.

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27MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Filosofia? Che cos’è?Si ritiene comunemente che parlare di quel che è oggi la filosofia sia piutto-sto difficile, per diverse ragioni che possono essere ridotte a tre:a. perché non esiste la filosofia, ma esistono molte filosofie, molti modi eragioni per dirsi filosofi;

La situazione che ho prospettato è paradossale. Da un lato il nostro compor-tamento più efficace è quello cieco e automatico (avete mai provato a riflet-tere su quel che state facendo mentre scendete le scale? Con quali risultati?),e si tratta di un comportamento che in generale richiede una lunga educa-zione, una faticosa disciplina; dall’altro per proteggerci dall’imprevistodovremmo prepararci a «funzionare» anche in circostanze che non si sonoancora realizzate ma che (chissà?) potrebbero inopinatamente realizzarsidomani. Che cosa vuol dire questo? Dovremmo forse addestrare tutti a tuttele possibilità? Ma primo non sappiamo neanche quali sono, e secondo se ciprovassimo è probabile che nessuno finirebbe mai l’addestramento e quindinessuno farebbe mai niente.La filosofia è una risposta a questo paradosso, uno dei modi in cui una comu-nità riesce a interiorizzare un qualche senso del possibile, di come le cosepotrebbero andare, una qualche forma di diversità, una qualche coscienzadelle alternative, senza andare completamente in tilt. Lo fa utilizzando anco-ra una volta la divisione del lavoro: qualcuno fa scarpe, qualcuno fa compu-ter e qualcuno si occupa delle alternative. Il filosofo non è il solo a occupar-sene, ovviamente anche scrittori e pagliacci faranno la loro parte. E ogni cate-goria lo farà per motivi istituzionali diversi, sulla base di una diversa immagi-ne del proprio ruolo e dei propri scopi. I pagliacci lo faranno per divertire,gli scrittori per affascinarci con le loro storie e i filosofi con la scusa di capi-re come stanno le cose, di dare un fondamento solido e certo a ciò che cre-diamo e facciamo.

da Giochiamo con la filosofia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Chiediti, fra l’altro:a. quale tipo di “dingo” è venuto a sconvolgere il mondo negli ultimi anni ed ha costretto noi e gli altri adaffrontare situazioni nuove e impreviste?b. quali attrezzi la cultura umana deve fornirci per prepararci all’arrivo dei numerosi “dinghi” che il futu-ro potrebbe prepararci?c. come facciamo, da un lato ad acquisire il maggior numero possibile di automatismi, di condotte incon-sapevoli e abitudinarie, e dall’altro a prepararci a cambiarle, quando ciò si renderà necessario?d. qual è il contributo che – a tuo parere – la filosofia può fornirci in termini di attrezzatura contro gliimprevisti?e. perché i filosofi credono di “capire come stanno le cose” o fanno finta di crederlo?

CHE FINE HA FATTO LA FILOSOFIA OGGI? F. D’AgostiniTESTO 9

In questo brano Franca D’Agostini distingue tre tipi di difficoltà che si incontrano nel provare a risponderealla domanda su che cosa sia la filosofia. L’autrice comunque, si sofferma soprattutto su quella che è deter-minata dalla dichiarazione di “morte della filosofia” fatta da molti filosofi dell’Ottocento e del Novecento econ argomenti che sono essi stessi manifestazioni di “filosofie”.

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28MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

b. perché si parla più propriamente e frequentemente di filosofie “applicate”(della politica, della scienza, della logica, della religione ecc.) e non tantodella filosofia come sapere o atteggiamento di pensiero o stile argomentativopuro e sconnesso dalle sue applicazioni;c. perché c’è un diffuso sospetto che la filosofia “come tale” non esista, o siaun residuo inutile della cultura occidentale, un tipo di discorso eccentrico ogenerico, per lo più incapace di dialogare con le altre forme di sapere e dirispondere ai problemi posti dalla contemporaneità (per esempio: possono ifilosofi rispondere alle questioni ontologiche e morali poste dagli scienziati, onon ci riescono meglio, forse, gli scienziati stessi dall’interno delle loro disci-pline?).

Mentre le prime due ragioni corrispondono al riscontro di alcuni dati di fattopiù o meno evidenti, la terza implica una precisa presa di posizione sullarealtà attuale e sull’idea di filosofia: deve dunque definirsi come una posizio-ne “filosofica” essa stessa, e anche in un senso impegnativo.Ciò avviene non tanto o soltanto perché la filosofia ha l’imbarazzante tenden-za a collocarsi dialetticamente al di là dei propri limiti (secondo il classico man-dato aristotelico, per decidere di non fare filosofia bisogna pur sempre farefilosofia – e questo in fondo non fa che accentuare il disagio epistemologico1

nei confronti della disciplina); ma anche e soprattutto perché se c’è una posi-zione tipicamente “filosofica” riconoscibile nella storia del pensiero dal secon-do Ottocento a oggi è precisamente questa autocritica, autodetrazione, autori-duzione o anche autoconfutazione della filosofia. Se c’è una tendenza unita-ria del pensiero dal secondo Ottocento a oggi (contro ogni buona argomenta-zione pluralistica) è la riflessione sulla fine della filosofia, concepita come unaminaccia, un dato di fatto, un’opportunità positiva, un programma.Dichiarare con soddisfazione o con rammarico la fine presagita o avvenutadella filosofia è stata una delle più tipiche operazioni “filosofiche” nell’ultimosecolo. Naturalmente, si è trattato di un episodio o meglio di un percorsointerno di quella cultura della fine (endism) che domina la fase più recentedella modernità. Ma è probabile che la responsabilità e il ruolo della filosofiaall’interno della cultura della fine siano del tutto particolari e meritino di esse-re considerati con attenzione.Ambientarsi con la nozione di fine della filosofia è d’altra parte una delleprime operazioni da compiere per capire il pensiero contemporaneo. Nonsono altrimenti spiegabili certe figure problematiche di filosofi-artisti, filosofi-scrittori, filosofi negativi, filosofi-scienziati della società, filosofi ironici ecc., daKierkegaard a Jacques Derrida, da Marx a Richard Rorty, da Nietzsche aWittgenstein, Adorno, Jean-François Lyotard. L’idea che vi possa essere oggiun’immagine a grandi linee descrivibile della filosofia può dunque essereaccettata, a patto però di riconoscere che in tale immagine deve anche figu-rare il percorso dell’anti-filosofia, il “negativo” del pensiero filosofico, la suapratica di autocritica e di autoconfutazione tragica o ironica.

da Analitici e continentali, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Letto il brano, proviamo a chiederci:a. che cosa comporta il fatto che non esista la filosofia ma le filosofie, per chi cerca un orientamento nelmondo, cioè una sua filosofia?b. in che cosa consistono le numerose filosofie applicate di cui parla l’autrice? Prendendone una di cuiritieni di poter dire qualcosa (filosofia della politica, della scienza, ecc.), prova a chiederti in che cosa con-sista e quale possa essere il suo rapporto con una filosofia generale e non specifica (o applicata).c. Quali possono essere le ragioni addotte da quei pensatori citati (che non conosci ancora e che studie-rai più tardi) per dichiarare la fine della filosofia? Formula delle ipotesi su quali possano essere, nella nostraepoca, le ragioni per dichiarare finita o inutile la filosofia.

1. La difficoltà di capi-re se la filosofia ècapace o no di essereun sapere fondato.

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LA FILOSOFIA GRECA E LA CIVILTÀ OCCIDENTALE E. SeverinoTESTO 10

Il brano qui riportato apre lo scritto La filosofia antica del filosofo italiano Emanuele Severino. L’autore ritie-ne la nascita della filosofia un evento decisivo nella storia umana e prova a indicare alcuni aspetti che com-provino tale convinzione. Lo spazio linguistico, ad esempio. O quello della razionalità tecnico-scientifica, dicui egli trova la matrice proprio nella filosofia platonico-aristotelica.

La nascita della filosofia – in Grecia, nel VI secolo a.C. – è uno degli eventipiù decisivi nella storia dell’uomo. Si può dire addirittura che sia il più deci-sivo, se ci si rende conto che il modo in cui la filosofia si è presentata sin dalsuo inizio sta alla base dell’intero sviluppo della civiltà occidentale, e che leforme di questa civiltà dominano ormai su tutta la Terra e determinano perfi-no gli aspetti più intimi della nostra esistenza individuale. La filosofia grecaapre lo spazio in cui vengono a muoversi e ad articolarsi non solo le formedella cultura occidentale, ma le istituzioni sociali in cui tali forme si incarna-no, e infine il comportamento stesso delle masse. Arte, religione, matemati-che, e indagini naturali, morale, educazione, azione politica ed economica,ordinamenti giuridici vengono ad essere avvolti da questo spazio originario;e il cristianesimo e il linguaggio con cui la civiltà occidentale esprime ilmondo; e gli stessi grandi conflitti della storia dell’Occidente: tra Stato eChiesa, borghesia e proletariato, capitalismo e comunismo.In genere si pensa che a determinare una grande epoca storica non possaessere la filosofia (che è il lavoro di una élite ristretta, vissuta sempre al difuori dei luoghi dove si decidono le sorti del mondo), ma movimenti cheabbiano una presa immediata sulle masse, come la religione, e, per quantoriguarda la nostra civiltà, il cristianesimo. Dicendo che la filosofia greca aprelo spazio dove giocano le forze dominanti della nostra civiltà non intendiamoconfondere lo spazio col gioco che vi si conduce, ma rilevare che ogni giocodella nostra civiltà — e ormai ogni gioco della Terra — vien fatto all’internodi tale spazio e ne resta determinato così come i nostri movimenti sono con-dizionati dallo spazio fisico in cui veniamo a trovarci.Certo, il cristianesimo ha un rapporto diretto con le masse occidentali (lo stes-so discorso può essere fatto per il linguaggio che esse parlano) che la filoso-fia non possiede; ma il cristianesimo è divenuto ciò che esso è solo in quantola sua struttura concettuale portante è costituita dallo spazio originariamenteaperto dal pensiero greco. Anche il modo in cui noi oggi parliamo è determi-nato dalle riflessioni sintattico-grammaticali che agli albori dell’età modernapresiedono alla formazione delle lingue nazionali europee; ma, ancora unavolta, quelle riflessioni hanno la loro origine (attraverso la grande mediazionedella cultura latina) nei grammatici greci che analizzano il fenomeno del lin-guaggio alla luce delle categorie della filosofia greca. E un discorso analogo vafatto per la scienza, il cui apparato concettuale non è certo familiare alle masse,ma i cui effetti sono ormai percepibili da chiunque.La civiltà occidentale si presenta oggi come civiltà della tecnica, ossia comeorganizzazione dell’applicazione della scienza moderna all’industria. È daquesta organizzazione che i popoli privilegiati — ossia quelli che l’hannocostruita — ricevono tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere (e forse in futu-ro questo potrà accadere per tutti i popoli del pianeta); ma è ancora questaorganizzazione ad avere predisposto le condizioni dell’annientamento della

C. FILOSOFIA E STORIA DELLA FILOSOFIA

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razza umana in seguito ad una catastrofe nucleare. La situazione mondialecontemporanea è cioè incomprensibile se non si fa riferimento all’incidenzae all’incombenza su di essa da parte della tecnica; e la tecnica è a sua voltaincomprensibile se non viene pensata in relazione alla scienza moderna. Maè la filosofia, e precisamente la filosofia nella sua forma classica, cioè greca,ad aver aperto lo spazio all’interno del quale è stato possibile costruire ciòche chiamiamo “scienza moderna”.Tutti i parti sono dolorosi. A volte la partoriente muore dando alla luce la pro-pria creatura. La nascita della scienza moderna viene comunemente interpre-tata come un distacco traumatico, una separazione violenta della scienza dallafilosofia. Ed è certamente difficile contestarlo. Ma il difetto di questa inter-pretazione è di non aver occhi che per i dolori del parto e per la morte dellapartoriente, facendo così perdere di vista che, innanzitutto, ciò con cui si haa che fare è un parto, dove la partoriente, anche se soffre o muore, conse-gna la propria essenza al nuovo essere per il quale essa muore, ma nel qualetuttavia essa sopravvive.

da La filosofia antica, Rizzoli Editore, Milano 1984

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Evidentemente, data la complessità dei temi posti dall’autore, non è pensabile che chi inizia un corso di filo-sofia possa formulare delle risposte esaurienti. Il brano potrebbe quindi essere letto a studio ormai avanzato(giunto almeno fino ad Aristotele). Una sua lettura anticipata può soltanto aiutare ad esporre delle ragioni asostegno di una tesi (quella riportata dall’autore). In tal senso si può provare, ad esempio, a:a. tener conto di questa posizione (che è solo una delle posizioni possibili, non dimenticarlo mai) per indi-viduare motivi di studio della filosofia greca, cercando di anticipare ipotesi su quali possano essere i fat-tori di continuità fra pensiero greco e pensiero occidentale;b. interrogarsi sulla differenza fra l’influenza che una religione ha sulle masse e quella che ha la filosofiae chiedersi perché, allora, si insiste tanto sul carattere decisivo della nascita della filosofia, cioè chiedersisotto quale aspetto abbia occupato uno spazio essenziale nei confronti della civiltà moderna;c. interrogarsi sull’influenza che le strutture grammaticali e linguistiche hanno sulla cultura, quindi anchesui modi di pensare;d. porsi il problema del rapporto fra pensiero filosofico e pensiero scientifico e se questo sia pensabilecome rapporto fra madre e figlia.

Il modo con cui interroghiamo e rispondiamo è già determinato anche dallatradizione storica nella quale ci troviamo. E la verità nella sua origine la pos-siamo cogliere solamente nella nostra situazione storica, che si determinavolta per volta. [...] Niente deve essere dimenticato, se non vogliamo perdereogni sostegno e sprofondare. Ma tutto deve essere pensato partendo da unproprio motivo originario, se vogliamo che il nostro filosofare rimanga vera-mente tale. Per questo ogni assimilazione scaturisce dalla profondità dellanostra stessa vita. [...]

STORIA DELLA FILOSOFIA K. JaspersTESTO 11

Dal saggio La mia filosofia del filosofo del Novecento Karl Jaspers sono tratti alcuni passi dai quali si ricaval’intreccio strettissimo che vi è fra domanda filosofica e tradizione del passato. Questa tradizione rinnova innoi l’eterna domanda, accompagnandosi a modi nuovi di porsi. Pensieri del passato che galleggiano neltempo come involucri dottrinali vuoti, oggetto di studi eruditi (di una “storia della filosofia puramente ogget-tiva”, dice Jaspers), ma anche pensieri che ripresi nelle loro origini acquistano un significato nuovo: essi rivi-vono in modo nuovo in noi e ci permettono di stabilire un rapporto nuovo fra presente e passato storico.

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PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Il testo è abbastanza complesso, ma può essere letto guardando alle linee generali che espone, chieden-dosi, ad esempio:a. in che senso la tradizione opera a seconda di come interroghiamo e rispondiamo?b. non esiste anche una “rottura” con la tradizione che ci condiziona? ma allora, con quali strumenti è pos-sibile procedere senza utilizzare materiali culturali della tradizione?c. in che modo è possibile riscoprire il passato senza snaturarlo e rileggerlo alla luce dei problemi di oggi?

SISTEMATICITÀ E PROBLEMATICITÀ P. PriniTESTO 12

In questi passi tratti da un saggio del filosofo italiano Pietro Prini si sostiene che la filosofia è, allo stesso tempo,sistema e problema, è unità, compiutezza e coerenza di una molteplicità di conoscenze sotto un principio uni-tario e, allo stesso tempo, è apertura, “problematizzazione”, coinvolgimento del ricercatore. Entrambi gli aspet-ti sono necessari al pensiero filosofico e alla ricostruzione della storia della filosofia.

Il carattere proprio di ogni filosofare, qualunque sia il suo oggetto, è la siste-maticità. La differenza del filosofo da chi è soltanto una persona colta non stanel genere delle sue idee e neppure, naturalmente, nel numero di esse, mapiuttosto nel modo in cui le domina, le unifica e ne fa un corpo organico, cioèun sistema. Kant1 ha espresso forse nella maniera più chiara questa ideadistintiva del filosofare: «Sotto il governo della ragione le nostre conoscenzein generale non possono formare una rapsodia, ma devono costituire un siste-ma, in cui soltanto esse possono sostenere e promuovere i fini essenziali dellaragione stessa. Per sistema poi intendo l’unità di molteplici conoscenze rac-colte sotto un’idea». [...] Il sistema come «l’unità di molteplici conoscenze rac-colte sotto un’idea» costituisce l’ideale di ogni genuino filosofare. [...]

Ogni volta che noi facciamo della filosofia, ci troviamo di fronte a un proble-ma fondamentale e concreto da risolvere: questo è il modo in cui la storiadella filosofia esiste per noi. La filosofia si avvalora e si determina e si carat-terizza attraverso il modo con cui assume e mette a profitto la sua storia. [...]Non basta una trattazione puramente teoretica della storia della filosofia. Lafilosofia è prassi e implica un modo di vivere; il che significa, rispetto alla sto-ria della filosofia, che l’atteggiamento teorico di fronte ad essa diventa realesolo mediante la viva assimilazione dei suoi contenuti dai testi. [...] Pensieri, i quali in origine erano realtà, se ne vanno ora attraverso la sto-ria come residui dottrinali ormai vuoti; e ciò che un giorno era vita, diventaun mucchio di morti e secchi involucri concettuali, che presto sono l’oggettodi una storia della filosofia puramente oggettiva. [...]Nella storia della filosofia bisogna conoscere, senza dubbio, anche i concetti;ma bisogna soprattutto penetrarne il senso, partecipando attivamente al vivoe profondo travaglio di quel pensare passato. [...]Questo pensare genuino rimane come un mistero, che però attraverso la sto-ria può rivelarsi ad ognuno. Questo pensare nascosto fu un giorno realtà.Esso, se ha trovato forma e si è fissato in pensieri scritti, può essere di nuovoriscoperto, e in ogni tempo può ardere di una fiamma nuova.

da La mia filosofia, Einaudi, Torino 1946

1. Immanuel Kant(1724-1804), filosofotedesco.

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32MATERIALI PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Tuttavia questa esigenza che la filosofia sia organismo, totalità di parti intrin-secamente coordinate, non dev’essere confusa con la pretesa di concludere ilfilosofare in uno schema rigido ed immutabile da imporre alle altre forme delsapere. Il «sistema», in questo senso puramente estrinseco e formale, è piutto-sto il segno della morte della filosofia che non del suo compiersi nell’effetti-vo movimento della ricerca. In realtà, la ricerca filosofica, proprio in quantoè caratterizzata dall’esigenza della sistematicità, è tale che, a differenza di ognialtro tipo di ricerca parziale, investe e pone in questione il ricercatore stesso.La domanda filosofica, qualunque sia il suo oggetto, è una domanda radicalein cui è coinvolto anche il domandante, o anzi egli stesso in primo piano. [...]In un modo altrettanto evidente la connessione è stata riconosciuta nella pro-spettiva del pensiero metafisico, ai nostri giorni, da Heidegger2: [...] «Nessunadomanda metafisica può porsi, se non è posto in questione, come tale, coluiche fa la domanda, se non diventa dunque domanda egli stesso». [...]La problematicità è pertanto la seconda costante fondamentale di ogni filoso-fare. Essa è il momento critico che riapre ogni «sistema», per rivederne le con-clusioni o per integrarle nell’incessante accrescersi del sapere. La sistematicitàe la problematicità sono come la sìstole e la diàstole3 della vitalità filosofica.Una filosofia non sistematica è «rapsodica», come dice Kant, e inconcludenteed esposta a tutti gli equivoci delle interpretazioni arbitrarie; una filosofia nonproblematica è dogmatica, astratta e inibente l’effettivo progresso del pensie-ro. Ma la problematicità non è pertanto da intendere come una specie di para-lisi del giudizio che non può giungere ad affermazioni certe, bensì come ladisponibilità del pensiero a rivedere le proprie certezze nella misura in cui neapprofondisce e ne estende la verità.

da Introduzione critica alla storia della filosofia, Armando Armando Editore, Roma 1973

PISTE PER LA RIFLESSIONE E IL DIBATTITO

Dopo la lettura del brano, possiamo chiederci:a. perché e in che senso la sistematicità viene presentata – da Kant – come uno degli aspetti che differen-ziano il filosofo dalla persona colta? questa affermazione è convincente, può cioè realmente costituire unaspetto distintivo del filosofare rispetto ad altre discipline?b. che cosa vuol dire che il sistema non deve essere “rigido”?c. perché tale rigidità sarebbe – per Prini – la “morte della filosofia”?d. in che senso nella domanda filosofica (ma quale tipo di domanda?) è coinvolto anche “il domandante”?e. non esiste anche un limite alla “problematicità” e in che cosa consiste, per Prini ma anche, eventual-mente, per noi?

2. Martin Heidegger(1889-1976), filosofotedesco.

3. Sono le due fasicostanti e necessariedel ciclo cardiaco,alla base della circola-zione sanguigna.

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PERCORSITEMATICI DI BASE2 PERCORSITEMATICI DI BASE2

Donato di Pascuccio d’Antonio detto Bramante, Scala elicoidale del Belvedere (1510 ca.). Roma, Vaticano.

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LA METAFISICA

Che cos’è la metafisica?

Che cos’è la metafisica? Stando all’originario significato etimologico, il termine metafisica fa riferi-mento agli scritti di Aristotele relativi alla filosofia prima e storicamente ordinati “dopo quelli dellafisica” (metá ta physiká). Ma ne è stato dato anche un altro significato, interpretando la metafisica come quel sapere filosoficoche si occupa di ciò che è al di là (metá ) delle apparenze naturali o dei fenomeni naturali (physiká ).

Anche questo significato è ben lungi dal rappresentare una definizione generale, che sia largamentecondivisa nella filosofia. Bisogna riconoscere la irriducibile ambiguità della metafisica, e cioè la plura-lità di significati che le sono stati attribuiti, non solo nel corso della storia del pensiero, ma anche oggi.

Qualunque rassegna delle sue accezioni correrebbe il rischio di essere oggetto di critica e di confu-tazione da parte di chi riconoscerebbe validi pochi o uno solo dei significati che le vengono attribuiti.Ma soprattutto si rischierebbe di incorrere nella critica di coloro che negano radicalmente la possibilitàdi un discorso metafisico. Molto forte e radicata è, infatti, oggi una istanza – alcuni dicono un pregiu-dizio – antimetafisica.

■ Ma, di nuovo, in che cosa consiste la metafisica? Essa pone questioni cruciali. È stata presentata,ogni volta, dai filosofi, in termini e con contenuti diversi. Ma sempre, al fondo, con quell’aspirazioneirriducibile del filosofo a comprendere, ad afferrare la totalità del reale nel suo nucleo profondo, a rag-giungere ciò che è assoluto, andando al di là di ciò che è relativo, uno sforzo e una ricerca tesi a tro-vare un senso per la realtà, per l’esistenza umana.

Le domande della metafisica

■ Quali potrebbero essere considerate le due domande per eccellenza della metafisica? • La prima è: che cosa è l’essere? che potremmo anche formulare con una certa libertà: che cosa è

la realtà?• La seconda: perché c’è qualcosa invece che nulla?

Nel primo caso la metafisica vuole essere scienza della realtà in se stessa, sapere che sta a fondamentodi ogni altra scienza e, dunque, regina scientiarum.

Nel secondo caso la risposta rimanda a un principio assoluto, frequentemente di natura divina, capa-ce di rispondere positivamente a quella domanda. Si è detto che i due significati sono presenti inAristotele che parla di metafisica sia come scienza dell’essere in quanto essere (cioè dell’essere in gene-rale), sia come teologia (sapere che riguarda l’essere per eccellenza, cioè Dio).

■ Il riferimento ad un principio, assoluto, divino, capace di spiegare la realtà, di esserne il principioe il fondamento e anche il fine ha fatto sì che il cammino della metafisica si incrociasse con quellodella riflessione religiosa e teologica. Ciò è avvenuto in ambito cristiano (ma anche in quello ebraicoe in quello musulmano), in particolar modo nel pensiero medievale. Anche oggi, però, il pensiero diispirazione cristiana si pone come problemi specifici sia quello del rapporto tra metafisica e teologia,sia quello della possibilità o meno di poter fare affermazioni intorno a Dio, alla sua esistenza, alla suanatura.

34LA METAFISICA

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

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35LA METAFISICA

■ Si è detto, ancora, che si devefare una distinzione tra metafisichedell’immanenza, che tendono aelaborare una concezione dellatotalità della realtà, e metafisichedella trascendenza, che condu-cono all’affermazione di un prin-cipio posto al di là del mondo deldivenire, del mondo dell’esperienza.

■ Comunque, se si volesse cercare,per così dire, un minimo comun denomi-natore nella metafisica, si potrebbe dire che inessa si esprime uno dei movimenti originari ericorrenti del pensiero filosofico: il tentativo di ricon-durre la molteplicità delle cose ad unità. Questo princi-pio unificante di volta in volta ha assunto un aspetto diver-so e gli sono stati dati nomi diversi: Natura, Essere, Idea,Sostanza, Uno, Dio, ecc. In esso, comunque, si è manifesta-ta sempre la convinzione che sia possibile, per il pensiero,intendere, cioè cogliere, della realtà, quel che essa pre-senta di assolutamente necessario. In tal senso, la meta-fisica è stata da molti intesa come la forma più alta disapere filosofico, che ha come oggetto il livello piùelevato della realtà e che si occupa, anzi, in sensoproprio, della realtà.

■ Ma, a partire dal Settecento, un atteggiamentoantimetafisico si è fatto strada nel pensiero filosofico fino ad arrivare, soprattutto nel Novecento, a nega-re la possibilità stessa della metafisica, accusata, di volta in volta, di essere un discorso inverificabile,insignificante, una sorta di fuga dalla realtà, una pretesa conoscitiva priva di ogni fondamento, un’aspi-razione umana destinata ad essere continuamente frustrata.

Dell’impegno della filosofia – soprattutto della filosofia moderna – a rispondere alla domanda: checosa posso sapere? la metafisica è stata spesso la vittima illustre, posta al di là di ciò che l’uomo puòconoscere.

Ma vi è spazio oggi per un discorso metafisico? Per una pluralità di discorsi metafisici, di “visioni delmondo”, di ricerche dell’essere e del senso dell’essere? O solo per un unico discorso, quello dellaVerità, dell’Essere, nella convinzione rinnovata che la conoscenza umana possa arrivarci?

Questa è un’esigenza residuale, la bandiera di una filosofia di ispirazione religiosa, oppure può tro-vare spazio nella multiforme cultura filosofica contemporanea?

Auguste Rodin, Il pensatore,1881. Parigi, Musée Rodin.

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La ricerca del Principio

Ai primi filosofi è stato attribuito il merito di aver cercato, al di là della tradi-zione mitica (cioè dei racconti sulle origini degli dei o sulle gesta di dei, semi-deio eroi) e al di là delle spiegazioni “scientifiche” che venivano date a singoli fattio processi della realtà, il principio primo (arché), la fonte originaria di tutte lecose. Dal mythos al lógos – dal racconto mitico alla spiegazione razionale: è que-sta la linea di tendenza e il carattere distintivo attribuiti alla filosofia greca findalle origini. Certamente anche il mito, in Omero e in Esiodo, esprimeva un’i-stanza di ordine, coerenza e, dunque, razionalità. Ma tale istanza si è affermatasoprattutto con il pensiero filosofico e scientifico, quando al racconto mitico è su-bentrata la giustificazione (fondata sull’esperienza, su argomentazioni logicheecc.) delle tesi che vengono sostenute. Ogni affermazione può essere così con-trollata, verificata e confermata oppure criticata.

Il grande salto di qualità operato dalla filosofia stava nel ricondurre la molte-plicità delle cose ad un elemento unitario, capace di spiegarle tutte.

Tale principio, secondo l’interpretazione che ha fornito Aristotele (383-322a.C.), dai primi filosofi è stato identificato con un elemento materiale (l’acqua,l’aria, l’ápeiron o indeterminato) che è anche principio di vita. Solo gradualmen-te (e non senza ambiguità ed esitazioni) si è passati da un principio materiale aprincìpi immateriali.

In tal senso, il primo problema con cui si è avviata l’indagine metafisica hariguardato la natura (physis), di cui si è inteso individuare il principio d’ordine ed’organizzazione. La filosofia si è domandata quale fosse il principio – arché –che genera e governa la natura. Quel concetto di natura ha dunque compreso insé sia il principio della generazione sia ciò che è generato, cioè la molteplicitàdelle cose esistenti.

Altri, invece, hanno interpretato la physis non come “natura”, cioè come unarealtà a parte, ma come il tutto, la totalità di ciò che è. Pertanto hanno respintol’interpretazione naturalistica della prima filosofia e hanno individuato – anchenella riflessione dei primissimi pensatori e in particolare in Anassimandro (VI sec.a.C.) – soprattutto una domanda metafisica: qual è il Tutto, il fondamento dellamolteplicità delle cose, ciò che in sé comprende e avvolge ogni cosa? è l’illimi-tato? un’armonia nascosta e profonda? l’Essere?

Secondo quest’ultima interpretazione, quei filosofi avrebbero guardato allarealtà esistente cercando di individuare qualcosa al di là della realtà stessa, cioèal di là del mondo sensibile.

Fra Essere e Divenire

Un punto di transizione, una specie di crocevia fra queste due opposte tenden-ze potrebbe allora essere stato il Pitagorismo, come teoria nella quale si è cerca-to di attribuire al numero il carattere di Principio, di essenza ultima della realtà:l’arché sarebbe, quindi, stata costituita da entità matematico-geometriche (ilpunto fisico, l’unità) a partire dalle quali si è giustificata l’intera realtà, ma checostituiscono anche una realtà immateriale.

È stato comunque nella ricerca di Parmenide (VI-V sec. a.C.) e di Eraclito(seconda metà del VI sec. a.C.) che è venuta ad esprimersi compiutamente ladomanda metafisica. Parmenide, in particolare, viene considerato da molti ilpadre della metafisica occidentale. Il quadro in cui si inserisce la ricerca metafi-sica è quello di una possibilità di accesso alla Verità, al Lógos.

L’essere di Parmenide è eterno, ingenerato, immutabile, uno; ha i caratteri oppo-sti a ciò che è materiale, sensibile, soggetto al divenire ed afferma con maggiore net-tezza il distacco da ciò che è materiale. In tale contesto, la filosofia è soprattuttocontrapposizione del pensiero – e dell’oggetto del pensiero – all’esperienza sensi-bile, ai dati contraddittori che essa fornisce, è sforzo di pensare ciò che sottende l’e-sperienza stessa e di fronte a cui questa si manifesti come mera “apparenza”.

36LA METAFISICA

L’ANTICHITÀ CLASSICA2

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Già con il Pitagorismo si era delineato un pensiero dualistico, tale cioè da con-siderare coppie di realtà in opposizione tra loro, nelle quali un termine viene con-siderato positivo ed un altro negativo: positiva è l’anima, negativo è il corpo. Maè soprattutto Parmenide a radicalizzare i dualismi e a costruire opposizioni: l’es-sere contro il non-essere, la ragione contro l’esperienza sensibile, la realtà (l’es-sere) contro l’apparenza (il divenire), la verità (afferrabile solo con la ragione)contro l’opinione (frutto dell’esperienza sensibile).

Secondo l’interpretazione successiva di Aristotele, da un lato l’essere parmeni-deo coincide con la sostanza fisica della realtà (la Sfera), dall’altro si vede in essonon la raccolta delle cose esistenti (ónta ), cioè delle cose viste “tutte insieme”(come in un panorama nel quale sia possibile vederle una per una ed insieme allostesso tempo), ma l’insieme delle cose che sono, cioè la totalità del reale (ón)come la loro verità profonda, effettiva, essenziale. In tal senso, Parmenide non sisarebbe limitato a “generalizzare” le cose particolari, ma avrebbe visto in tale“generalità” delle cose la loro realtà autentica, che trascenderebbe ciascuna cosain quanto tale.

Uno sforzo di segno diverso, ma complementare, viene compiuto da Eraclito,con la sua teoria del divenire. Il cambiamento non è illusorio, come ritenevaParmenide, né sono illusori la molteplicità e il contrasto, la varietà degli esseri eil loro perenne conflitto: è la guerra, anzi, la madre di tutte le cose. Senza discor-dia e contesa, il mondo non sussisterebbe, perché proprio su tale contesa e disar-monia del reale si basa la legge della realtà, in esse consiste il lógos. Esso è laragione e la legge che governa il mondo. È quindi principio immateriale, anchese viene talvolta descritto – contemporaneamente – come fuoco, come principiomateriale. Tale legge è come un “segreto” della realtà, che solo i sapienti (i “desti”)riescono a cogliere, mentre tutti gli altri (i “dormienti”) non riescono a vedere.Anche qui ciò che è “comune”, il lógos, verrebbe a contrapporsi a ciò che è “pri-vato”, la ragione (lógos) verrebbe a contrapporsi all’esperienza.

La filosofia successiva dovrà continuamente fare i conti con queste opposizio-ni, di volta in volta mantenendole oppure cercando di superarle e negarle. DopoParmenide, infatti, ci si domanda: è possibile far convivere l’essere e il divenire?È possibile recuperare la possibilità di pensare la molteplicità e il divenire? È pos-sibile “salvare i fenomeni”?

La risposta è affermativa, da parte di Empedocle, Anassagora e Democrito. Essipropongono una pluralità di princìpi, che, oltre ad essere materiali, sono ancheeterni e immutabili come l’essere parmenideo: per Empedocle (primo decenniodel V sec. – 430 ca. a.C.) i principi sono l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco (e le forzecosmiche dell’Eros e della Contesa); per Anassagora (496 ca. -– 428 ca. a.C.) le“omeomerie” (cioè le infinite particelle qualitative); per Democrito (460 ca. – 370ca. a.C.) – che è stato considerato il primo autentico materialista della storia delpensiero – gli atomi. Mescolandosi e separandosi tra di loro, quegli elementi oprincìpi determinano il nascere e il perire delle cose. Generazione e corruzionesono dunque apparenti, reali sono solo i princìpi. Con le elaborazioni dei tre filo-sofi, i fenomeni non sembrano più essere il luogo della contraddizione, dell’im-possibilità di “pensare” la realtà molteplice dell’esperienza.

L’aspetto relativo alla pensabilità dell’esperienza costituisce l’asse centraleanche della riflessione dei Sofisti. Con loro, tale asse si sposta dall’oggettività allasoggettività, dalla natura alla pólis. Per Protagora (nato nel 486 ca. a.C.) l’uomoè la misura di tutte le cose , quindi una verità oggettiva, valida in assoluto, nonc’è. Gorgia (nato nel 485 ca. a.C.) rovescia seccamente la prospettiva diParmenide, affermando che nulla è, nulla cioè possiede i caratteri di assolutezzache Parmenide aveva attribuito all’essere. D’altra parte, anche se esistesse, quellarealtà assoluta dell’essere non sarebbe conoscibile (perché non avrebbe alcunrapporto con quel mondo dell’esperienza che costituisce l’unica fonte di cono-scenza per l’uomo), o comunque non sarebbe comunicabile.

L’essere fra trascendenza e immanenza

Ma è possibile fare a meno dell’Essere, cioè di una verità oggettiva, di una realtàimmodificabile, eterna e non transeunte, che sia misura oggettiva e assoluta nonsolo per la conoscenza ma anche per l’azione? Ed è possibile, inoltre, concepire

LA

META

FIS

ICA

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la realtà solo in modo naturalistico, come avevano fatto Empedocle, Anassagorae soprattutto Democrito? Tale è il problema di fondo, l’interrogativo su cui ruotala riflessione di Socrate, Platone e Aristotele.

Socrate (470/469 – 399 a.C.), in effetti, si concentra soprattutto sui discorsi (lógoi )relativi alle questioni della virtù e del sapere. In questa sua ricerca egli si pone il pro-blema di superare il relativismo sofistico, cercando di fondare nel soggetto, nell’ani-ma, una oggettività dei valori, soprattutto una consistenza oggettiva della virtù, chesia il contenuto di un nuovo sapere, cioè della conoscenza del bene e del male.Malgrado la potenzialità metafisica, costituita soprattutto dal concetto di anima, lariflessione socratica non appare di tipo metafisico.

A voler riprendere una delle suddivisioni che sono state proposte, si potrebbedire che Platone è il pensatore della metafisica della trascendenza (per l’afferma-zione di un mondo soprasensibile, quello delle idee, che è “altro” e superiore ri-spetto a quello del divenire), mentre quella di Aristotele sarebbe la metafisica del-l’immanenza, che individua la struttura della realtà nel mondo del divenire.

Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.) si muove al di là della prospettiva socratica. Ilproblema fondamentale che si pone è quello dell’ancoraggio dell’oggettività deivalori a una realtà extra-mentale. Svolgono questa funzione le Idee, cioè formeintellettuali pure che esistono di per sé, anche indipendentemente da ogni pen-siero che le pensi, e che sono la realtà. Sono soprattutto idee di valori morali, alsommo delle quali sta l’Idea del Bene.

Le Idee sono eterne, immutabili, ingenerate, immateriali. Sono una realtà spiri-tuale (non materiale, come quella dei naturalisti), che come tale è intelligibile,può essere cioè conosciuta solo mediante una funzione spirituale, quella con cuil’anima la pensa.

Mentre la realtà che è oggetto dell’esperienza sensibile è segnata dal muta-mento incessante (nasce e muore) ed è contingente (può esserci o non esserci), larealtà delle Idee è immutabile e necessaria. Le Idee perciò sono al di sopra delmondo del divenire (nel linguaggio mitico si dice che sono nell’iperuranio), sonoaltro rispetto a questo mondo, qualitativamente superiori ad esso, cioè trascen-denti rispetto al mondo del divenire.

L’opposizione tra il mondo dell’essere (le Idee) e quello del divenire non è totale,perché Platone afferma che le cose imitano le Idee e che partecipano delle Idee.

L’anima per Platone è immateriale e immortale perché è in essa che le Idee risie-dono e deve pertanto avere una natura capace di contenerle.

Per alcuni studiosi la tesi che l’essenza dell’uomo sia costituita dalla sua anima,sede della coscienza, della conoscenza e dei valori fondamentali, avrebbe avutoin Socrate e Platone un significato religioso, anticipando, sia pur parzialmente, l’i-dea cristiana dell’anima e compiendo così un’autentica “rivoluzione spirituale”.Per altri, invece, la “passione” e l’intensità di accenti che caratterizzano gli scrit-ti platonici sull’anima avrebbero avuto non una connotazione religiosa, ma unsignificato morale, di riconoscimento dell’avvenuto passaggio a una concezionepuramente interiore della morale, che ha fatto uscire il problema dell’anima dalcontesto religioso dell’Orfismo e del Pitagorismo.

In una fase successiva della sua riflessione, Platone sottoporrà a critica la suateoria delle Idee e, in particolare, il rapporto di imitazione e partecipazione traIdee e cose. Nel ripensarlo egli dichiara di dover consumare un vero e proprio“parricidio” rispetto a Parmenide, in quanto afferma che l’essere delle idee è mol-teplice e che il non-essere è, sia pure come diverso, cioè come diversità di ogniIdea dall’altra.

Resta, comunque, pur nel trascorrere del pensiero dialettico da un’Idea all’altra(“diversa” da essa), l’istanza di una scienza della totalità, di una concatenazionelogica necessaria che stringe la molteplicità degli enti ideali e che il pensiero ri-percorre e ricostruisce. Il significato del pensiero riposa quindi nella totalità orga-nica – seppur articolata – di quell’insieme, poiché questa costituisce il fonda-mento sia della realtà sia del pensiero.

Aristotele (383-322 a.C.) per un verso si separa nettamente dalla prospettivaplatonica di metafisica della trascendenza, ma, per un altro, fa sua l’istanza pla-tonica in un contesto diverso, ponendo la forma (e ricordiamo che il significato di“Idea” è forma) nella realtà sensibile. Ma Aristotele critica la teoria delle Idee, per-ché la considera incapace di costituire un valido principio di spiegazione.

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META

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ICAEgli vede le idee solo come inutili doppioni di ciò che deve essere spiegato. Ma

questa loro incapacità è la conseguenza della scissione operata da Platone tra ilmondo dell’essere (le Idee) e quello del divenire. Aristotele elabora una conce-zione diversa, di cui sono punti fondamentali l’unità del mondo (e, dunque, lanegazione e il superamento di ogni scissione) e la presenza dell’essenza dellecose nelle cose stesse.

Aristotele chiama filosofia prima la scienza teoretica (contemplativa, disinteres-sata), che ha il compito di conoscere la struttura della realtà. Essa è sia un’onto-logia, cioè scienza dell’essere, sia una teologia, cioè scienza dell’essere primo.

Il suo oggetto, l’essere, è la sostanza: e questa è un synolon, unione indivisibi-le di forma e materia. Ogni sostanza è un individuo e, dunque, reali sono solo gliindividui concreti.

In Aristotele l’essere può esser detto in una molteplicità di sensi e non in modounivoco, come in Parmenide. Anzitutto è sostanza, ciò che è in sé e che non habisogno di altro per sussistere, ma è anche accidente, ciò che è casuale e puòappartenere o meno a una sostanza (si può essere allegri o tristi, pallidi o rosei,ecc.). Essendo la realtà concreta delle cose soggetta a divenire, l’essere può esse-re sia potenza che atto: in ogni divenire, infatti, la materia è in potenza una formache può successivamente tradursi in atto, è un passaggio dalla potenza all’atto (adesempio passaggio dal marmo, dalla materia, alla statua, alla forma compiuta ein atto, che nel marmo era solo possibile o potenziale).

Oltre che come ontologia, la metafisica di Aristotele si configura anche cometeologia, come discorso sull’essere più alto, l’essere per eccellenza. Il Dio aristo-telico è il principio primo di ogni divenire, motore immobile e muove il mondonon come causa efficiente, ma come causa finale : Dio muove attraendo verso disé il mondo.

La sua funzione è dunque direttamente collegata ad una concezione delmondo, del mondo delle sostanze. Ma il mondo per Aristotele è eterno e Dio nonne è la causa prima, non lo “crea”; piuttosto la sua funzione è come quella di ungenerale rispetto a un esercito. Dio non è l’unico essere divino, poiché a muove-re ogni corpo del mondo celeste vi sono delle intelligenze divine. Qual è l’attivitàpropria di Dio? Il pensiero. E qual è l’unico oggetto degno del pensiero divino?Dio stesso. Dunque, il Dio aristotelico contempla se stesso, è pensiero del pen-siero.

L’anima, per Aristotele, è la forma dell’uomo e la sua caratteristica principale èla razionalità. Affermando che l’intelletto attivo, responsabile della conoscenza, èseparato, immortale ed esterno all’anima, Aristotele sembra sostenere la mortalitàdell’anima.

La riforma della metafisica

Dalla fine del IV secolo a.C., il pensiero metafisico subisce una correzione sudue aspetti fondamentali.

■ Il primo è costituito da un nuovo Naturalismo, cioè dalla negazione che larealtà ultima delle cose sia costituita da un principio immateriale, intelligibile (l’i-dea, la forma, l’atto puro o pensiero del pensiero). Esso si articolerà nei due movi-menti concorrenti dell’Epicureismo e dello Stoicismo.

L’Epicureismo richiama il materialismo di Democrito, la sua concezione atomi-stica, pur con alcune significative “correzioni” come l’attribuire il peso agli atomie ipotizzare una deviazione casuale degli atomi (il clinámen). Epicuro (341-270ca. a.C.) afferma l’esistenza degli dei, ma nega che si interessino e si preoccupi-no degli uomini, perché vivono beati negli intermondi.

Lo Stoicismo è, sì, legato all’idea di un Lógos, di una razionalità e necessitàcosmica, immanente al reale, ma afferma anche che tutto ciò che è, è corpo.Anche Dio è fuoco, forza vitale interna alle cose, “ragione seminale” degli esseri.

■ Il secondo aspetto è costituito dalla metafisica di Plotino (202/205 – 270) edal Neoplatonismo che – a partire dal III secolo d.C. – stabilirà una nuova sinte-si fra metafisica e religione e cercherà di offrire un’alternativa filosofica alla reli-gione cristiana.

39LA METAFISICA

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IL MEDIOEVO3

L’alternativa riguarda:• il tentativo di affermare la trascendenza dell’essere rispetto alle cose e – con-

temporaneamente – l’immanenza in esse;• l’idea dell’ineffabilità del Principio primo, dell’Uno, che, come fonte origi-

naria di tutte le cose, quindi come principio che si trova al di là di ogni differen-za, non può essere definito e nominato. Di lui possiamo dire ciò che non è (teo-logia negativa), piuttosto che ciò che è. Dall’Uno tutto deriva e discende – persovrabbondanza di essere e bene – secondo un processo di emanazione attraver-so una serie decrescente di gradi. Come fonte di ogni essere, l’Uno è “tutte lecose” ma, allo stesso tempo, è “al di là” di esse. Quindi ogni grado dell’essere hain sé – immanente – la forza che l’ha generato. Ma è anche trasceso da quellapotenza generativa infinita e originaria, ineffabile, che, tutto generando, tutto tra-scende restando immobile e mai impoverendosi, alterandosi o modificandosi col“trasferirsi” in altro. I vari gradi dell’essere, o Ipostasi, risultato dell’attività di ema-nazione dell’Uno, sono l’Intelletto, l’Anima del mondo, il mondo sensibile e lamateria. Quest’ultima è l’opposto dell’Uno, il “quasi nulla”.

Al processo discensivo dell’Uno corrisponde una possibilità di ascesa dell’anima,che intende ricongiungersi misticamente con l’Uno nell’estasi. Ma tale possibilitàresta al di fuori di qualsiasi forma razionale di comprensione: la metafisica tende anon identificarsi più con l’aristotelica “scienza dell’essere in quanto essere”.

40LA METAFISICA

La filosofia medievale appare a molti, ancor più di quella greca antica, l’“etàd’oro” della metafisica, soprattutto di quella della trascendenza: una metafisicache più che l’essere o le Idee ha al centro Dio.

È fin troppo facile collegare questa caratteristica con la connotazione cristianadella civiltà nel cui ambito l’intera cultura, e non solo la riflessione filosofica, sonoiscritte. La questione centrale del pensiero medioevale – della metafisica in parti-colare – sta nella possibilità di integrare, armonizzare e far convivere le verità reli-giose del Cristianesimo, dell’Ebraismo e dell’Islamismo con quelle espresse dalpensiero greco. Sarà più facile l’accordo con il Platonismo, soprattutto con la suavariante neoplatonica, più arduo il rapporto con l’Aristotelismo, che susciterà nelmondo cristiano e in quello islamico accesi dibattiti.

Nel suo aspetto fondamentale tale questione si definirà come problema del rap-porto tra fede e ragione. Nel quadro del confronto fra ragione e fede i problemifondamentali attorno ai quali – nel Medioevo – ruotano la riflessione e il dibatti-to sono:

1. la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, di conoscere oppure no la sua“natura”, il suo essere, i suoi caratteri; 2. il rapporto tra Dio e mondo, mediato attraverso il concetto di creazione; 3. la concezione (agostiniana o aristotelica) dell’anima, la sua immortalità omortalità.

Ma a queste questioni centrali se ne possono aggiungere ancora due, nel qua-dro della metafisica:

4. quella riguardante la natura e la sua autonomia o consistenza ontologica inrapporto a Dio sua causa 5. il problema del male, del suo statuto, del suo grado o meno di realtà.

Dio e l’anima, volontà e amore

Nella Patristica occidentale si afferma uno dei massimi pensatori cristiani:Agostino di Ippona (354-430). Egli contribuisce potentemente a costruire la cul-tura cristiana elaborandone i punti fondamentali ed affronta una serie di questio-ni a cui il pensiero cristiano cercherà di dare risposta.

Non vi è contrasto, per lui, tra Cristianesimo e vera filosofia. Ragione e fede nonsono definiti come due campi distinti.

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LA

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ICALa cultura cristiana è la riflessione su verità ed esperienze che si iscrivono nel-

l’ambito della fede, alla quale la ragione concorre ma senza avere un suo ruoloautonomo.

Il Platonismo, meglio sarebbe dire il Neoplatonismo, è la filosofia a cui eglimaggiormente attinge, perché ritenuta in grado di rispondere in modo più perti-nente a quelle esigenze. Ma su questioni cruciali la soluzione scelta sarà diversada quella neoplatonica e deriverà dalle fonti cristiane.

La metafisica agostiniana ruota attorno a due perni: Dio e l’anima. Dio crea per amore, non per necessità o per sovrabbondanza di essere, come

l’Uno di Plotino. L’anima è il luogo della ricerca di Dio, di un’esplorazione interiore lungo un

percorso al termine del quale c’è il riconoscimento della trascendenza, dellaverità di Dio.

Per Agostino, le Idee platoniche non sono più la realtà, il livello più elevato del-l’essere, ma sono il contenuto della “mente” divina, modelli secondo i quali Diocrea le cose. Agostino, inoltre, compie una correzione radicale della metafisicaneoplatonica: Dio non opera su una materia preesistente, né trae da sé il conte-nuto di ciò che produce, ma lo produce ex novo. Ove Dio generasse le cose peremanazione, osserva Agostino, non vi sarebbe un’effettiva differenza di “essere”(differenza ontologica) fra Dio e il creato, non vi sarebbe trascendenza, ma soloimmanenza di Dio nelle cose.

Con il concetto di creazione Agostino e il Cristianesimo introducono nellametafisica e nella teologia aristotelica e neoplatonica un concetto del tutto nuovo:quello di volontà. Dio è onnipotente non solo perché infinita potenza generatri-ce di tutte le cose, come in Plotino, ma anche perché è imperscrutabile e liberavolontà : egli non solo può tutto, ma può voler tutto, traendo tutto dal nulla.

Come in Plotino, comunque, l’azione creatrice di Dio dà luogo a un universogerarchico e ordinato, in cui ogni essere ha il suo posto.

Essere, vivere, intendere: questi sono i tre parametri secondo cui le creaturesono ordinate. Ogni creatura, proprio perché tale, è finita, limitata, molteplice.In tal senso – come limite, mutabilità, contingenza – il male viene concepito daun punto di vista metafisico. Al Manicheismo, alla sua concezione di un dio delmale in lotta con un principio divino del bene, Agostino contrappone la tesidell’impossibilità che vi siano due assoluti. Inoltre, poiché Dio creatore è sommobene, ontologicamente buone sono le creature e il male viene concepito comeuna mancanza, un non-essere.

Se la dimensione di Dio è quella dell’eternità, quella della creatura è il tempo.L’anima è la misura del tempo, come passato, presente e futuro. Ed è un’animaragionevole che si serve di un corpo. Proprio perché creata da Dio a sua imma-gine e somiglianza, l’anima ha inoltre una struttura trinitaria: è essere, sapere,volere. Il suo compito e la sua vita stanno nella ricerca, nella visione e nel pos-sesso di Dio.

Agostino e il Neoplatonismo saranno gli ispiratori e le “autorità” indiscusse dellametafisica medievale, almeno fino alla riscoperta di Aristotele nel XII secolo.

Ragione e fede dopo Agostino

Per tutto il periodo dell’Alto Medioevo prevarrà la tesi della filosofia comeancella della teologia (ancilla theologiae), della ragione strettamente subordinatae dipendente dalla fede. Solo a partire dall’XI secolo si verrà a consolidare unospazio della filosofia, ma si faranno anche più forti le polemiche dei sostenitoridel primato della fede. In quest’epoca, infatti, dialettici e antidialettici si contra-steranno duramente. I campioni dei due schieramenti saranno, rispettivamente,Pietro Abelardo (1079-1142) e Bernardo di Chiaravalle (1090-1153): il campio-ne della dialettica e della ragione, capace di rispondere al bisogno di compren-dere, e il sostenitore dell’umiltà come via per la salvezza e dell’“ignoranza” comeantidoto contro la presunzione della ragione e dei suoi cultori.

Apparirà invece ispirata ad una posizione di equilibrio fra queste due istanze laposizione di Anselmo d’Aosta (1033-1109), riassumibile nel motto fides quaerensintellectum, la fede che cerca di comprendere. Non verrà, con questo, ricono-sciuto uno spazio autonomo per la filosofia, ma si esprimerà un bisogno di com-

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prensione a cui la fede non può da sola dare risposta. Credo per capire, capiscoper credere: la ragione ha una funzione insopprimibile, pur nel riconfermato pri-mato della fede.

Il rapporto tra fede e ragione toccherà le punte più elevate di conflittualità nelXIII secolo, quando la conoscenza delle opere aristoteliche farà diffondere nellescholae una filosofia naturale priva dell’afflato religioso del Neoplatonismo.

Essa contribuirà a definire uno spazio della natura distinto da quello dellasovrannatura, uno spazio della ragione autonomo da quello della fede.Nell’Occidente, a sostenere l’autonomia della filosofia saranno gli averroisti latiniche, richiamandosi al filosofo arabo Averroè (1126-1198), si spingeranno quasi adaffermare una teoria della doppia verità, quella della ragione e quella della fede.

Toccherà a Tommaso d’Aquino formulare una posizione ispirata all’accordo ealla mediazione tra ragione e fede. Tommaso riconosce alla ragione uno spazio diautonomia, distinto ma “coordinato” con la fede. La ragione può arrivare a dimo-strare con le sue sole forze i preambula fidei, ad esempio l’esistenza di Dio e l’im-mortalità dell’anima. Non dovrebbe esserci contrasto tra ragione e fede, che deri-vano entrambe da Dio, ma se questo dovesse risultare si tratterebbe di contrastodovuto solo a falsa filosofia.

Questa posizione di equilibrio non catalizzerà attorno a sé un ampio accordo,ma susciterà, anzi, molte polemiche e nel XIV secolo sarà sostituita da una posi-zione di netta separazione fra ragione e fede. Questa frattura – col primato dellafede e della teologia – verrà infatti sostenuta sia da Duns Scoto che da Guglielmodi Ockham ed è stata interpretata in due modi diversi: alcuni vi hanno visto ilritorno e il trionfo della “santa ignoranza” contro la filosofia; altri, invece, vi indi-vidueranno lo spazio per un autonomo sviluppo della scienza e della filosofia.

Dio e il mondo nel Neoplatonismo e nell’Aristotelismo medievale

Le filosofie cristiana, islamica ed ebraica si misureranno con i due schemi fon-damentali della metafisica greca, il Platonismo e Neoplatonismo da un lato el’Aristotelismo dall’altro, talvolta contrapponendoli, talvolta cercando di compe-netrarli l’uno con l’altro.

Al Neoplatonismo si rifà la metafisica di Giovanni Scoto Eriugena (800 ca. –870 ca.), il maggior pensatore dell’Alto Medioevo, secondo lo schema, che ricor-rerà più volte, di Exitus e Reditus : tutte le cose dipendono da Dio, tutte le coseritornano a Dio. Dio, come in tutto il pensiero medievale cristiano, è al centrodella sua filosofia, è l’unica vera realtà. Egli è la natura, che Scoto ripercorre nellesue quattro divisioni:

1. Dio in se stesso come natura increata e creante; 2. Dio come natura creata e creante, cioè come le idee archetipe; 3. Dio come natura creata e increante, cioè come il mondo delle cose sensibili; 4. Dio come natura increata e increante, cioè come fine verso cui tendono tutte

le cose. In tal senso, Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio: una concezione,

questa, che verrà attaccata in quanto portatrice di un rischio di panteismo. L’uomoin questo contesto può, mediante la conoscenza intellettuale, riconoscere Dio intutte le cose e riportare il mondo a Dio.

Le filosofie islamica ed ebraica avranno una notevole incidenza sul pensiero del-l’occidente medievale e sulla sua metafisica. Al centro della riflessione vi sono alcu-ne tesi che derivano sia dal Neoplatonismo che dall’Aristotelismo.

a. Essenza ed esistenza (Avicenna, 980-1037) – nelle creature l’essenza nonimplica l’esistenza; solo in Dio essenza ed esistenza coincidono; Dio è l’esserenecessario, le creature sono esseri possibili, o contingenti.

b. Eternità del mondo (al-Farabi, 870 ca. – 950 ca.; Averroè) – dall’eternità delmovimento all’eternità e necessità del mondo.

c. Pluralità delle forme (Avicenna, Avicebron, 1020 ca. – 1058 o 1069 ca.) – inogni sostanza individuale vi è una pluralità di forme, non una forma sola.

d. La Volontà come essenza intermedia fra Dio e il mondo (Avicebron), o comun-que come libera decisionalità divina (Avicebron, Mosè Maimonide, 1135-1204).

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e. Unità dell’intelletto attivo (al-Kindi, VIII-IX sec.; al-Farabi, Avicenna): vi è unsolo intelletto attivo che pensa in tutti gli uomini. Ma Averroè sostiene che anchel’intelletto materiale o possibile non appartiene agli individui e che in questi,invece, l’anima è mortale.

Le tesi dell’Aristotelismo arabo, assieme alla conoscenza diretta delle opere diAristotele, apporteranno molte novità e motivi di contrasto nel dibattito metafisi-co del XII e soprattutto del XIII secolo.

Nell’Occidente cristiano già nella riflessione di Anselmo d’Aosta e nell’elabo-razione delle sue prove dell’esistenza di Dio si manifesta un forte peso dellarazionalità. Nel Monologion da tre aspetti del mondo – bene, essere e perfezione– si risale a Dio come Bene sommo, Ente sommo, Somma perfezione. Ma è laprova del Proslogion quella più famosa. Essa muove dall’idea di Dio per conclu-dere con il riconoscimento della sua esistenza. Vi è in ogni uomo l’idea di Diocome l’essere del quale non può essere pensato uno più perfetto. Se ha tutte leperfezioni, non può mancare di quella perfezione che è l’esistenza.

In altri filosofi e teologi le istanze razionalistiche sono ancor più evidenti e nellaposizione di Abelardo sugli universali si trova una concezione nella quale, aristo-telicamente, si afferma che solo l’individuo è sostanza, solo l’individuo è reale.

Posizioni contrapposte si manifestano sul problema della natura. Da una pro-spettiva platonica, nella scuola di Chartres, si esalta la potenza creatrice dellanatura, che viene considerata e studiata per se stessa. Ma sono soprattutto gli ari-stotelici – a partire dal XIII secolo – ad affermare l’autonomia della natura e la suapossibilità di operare e di valere di per sé. Gli antiaristotelici ribadiscono invecela tesi che riduce la natura a simbolo visibile di Dio: essa proclama Dio e non hauna sua consistenza. Tra questi vi è Bonaventura da Bagnoregio (1217/1221 ca.– 1274), che ripropone le tesi agostiniane e vede ovunque, in noi, sopra di noi efuori di noi (quindi anche nella natura) i segni della Trinità, del divino.

Analogia dell’essere e riforma della metafisica aristotelica

Al culmine della Scolastica, Tommaso d’Aquino (1221/1227-1274) cerca di rea-lizzare una sintesi armonica fra Cristianesimo e Aristotelismo. Al centro del suo pen-siero vi è la metafisica: metafisica dell’essere di Dio e dell’essere creato. Tommasonon accetta la sostanziale parità ontologica, presente in Aristotele, tra mondo dellesostanze e Dio, perché essa è incompatibile con un’impostazione cristiana.

Data l’infinita differenza fra Dio e le creature, l’uso del termine “essere” perdesignarli non può essere univoco, avente lo stesso significato, ma neppure puòessere equivoco, cioè del tutto diverso, poiché allora sarebbe impossibile a noi –esseri finiti – rapportarci e risalire a Dio. Esso è invece analogo, cioè simile, macon proporzioni diverse : tra l’essere delle cose e l’essere di Dio vi è una certasomiglianza e proporzione, ma in Dio essere, bene e perfezione sono presenti ingrado infinito, mentre in ogni altro essere lo sono in grado finito. Dio è l’essere,mentre tutte le altre cose l’essere lo posseggono solo per partecipazione.

La distinzione di essenza ed esistenza consente a Tommaso di definire due livel-li ontologici ben distinti: il primo è quello degli esseri contingenti, nei quali l’es-senza non implica l’esistenza (che possono quindi esistere ma anche non esiste-re); l’altro è quello di Dio, cioè dell’essere necessario, in cui l’essenza implica l’e-sistenza. Il mondo degli esseri contingenti dipende totalmente da Dio quanto allasua esistenza. La creazione necessaria viene rifiutata da Tommaso, perché Diocrea per libertà e per amore. Ma la creazione ab aeterno viene considerata razio-nalmente possibile e non in contrasto con la fede.

Il mondo creato è ordinato gerarchicamente in vari gradi secondo un criterio diperfezione decrescente. Tutto ciò che esiste è bene, in quanto creato da Dio; ilmale, dunque, non è un essere, ma una carenza di essere e di perfezione, un defi-cit. La natura, una volta creata, è autonoma nel suo essere e nel suo operare. Tom-maso rifiuta qualunque sua svalutazione o ridimensionamento, in quanto essa ècapace di svolgere, con le sue sole forze, i compiti che le sono assegnati.

In ogni essere vi è una sola forma e negli esseri corporei la materia, dotata diuna certa quantità e dimensione, è il principio di individuazione. L’uomo è unio-ne di forma e materia, di anima e di corpo. Tommaso afferma, insieme, l’unionestretta di anima e corpo e l’immortalità dell’anima.

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L’ETÀ MODERNA4

La separazione dell’intelletto da ogni organo, necessaria perché possa svolgereil suo compito, è il fondamento dell’immortalità. Contro gli Averroisti Tommasonega che l’intelletto sia unico per tutti gli uomini e rivendica ad ogni uomo il pos-sesso e l’uso dell’intelletto. L’interpretazione averroista di Aristotele è contrariaalla verità cristiana della presenza e dell’immortalità dell’anima individuale.

L’autonomia della filosofia

Il XIV e il XV secolo rifiutano la mediazione tomista tra fede cristiana e filoso-fia aristotelica e ne propongono la separazione. Ma tale separazione, anche quan-do si accompagna all’idea di una superiorità della teologia sulla filosofia, tendedi fatto ad aprire, alla filosofia ed alla metafisica, spazi nuovi di autonomia.

Giovanni Duns Scoto (1265 ca. – 1308) afferma, ad esempio, l’autonomia dellametafisica, a cui assegna come oggetto, aristotelicamente, l’essere in quanto esse-re, l’essere comune, che va inteso in senso univoco, ma può essere declinato invari modi.

La metafisica studia l’essere individuale, del quale viene affermato come prin-cipio di individuazione non la materia ma l’haecceitas, la “questità”, l’identitàirriducibile dell’individuo.

Essa può inoltre provare con un procedimento a priori (non a posteriori, comeaveva fatto Tommaso) l’esistenza dell’essere infinito, cioè di Dio. Ma solo la teologia– con il sostegno della rivelazione – può parlarne come Dio e l’essere delle creatureè il prodotto del fiat di Dio, l’effetto di un suo imperscrutabile atto di volontà.

In Guglielmo di Ockham (1280 ca. – 1347) l’affermazione metafisica centrale ècertamente quella che reali sono solo gli individui. In lui, più che una compiutateoria metafisica, c’è una critica dei concetti-base della metafisica: l’empirismoporta Guglielmo a eliminare tutti gli “enti” prodotti dalla metafisica, dalla “sostan-za” all’“intelletto agente”. Il rasoio di Ockham taglia – di fatto – la possibilità dellametafisica così come fino ad allora il pensiero medievale l’aveva intesa.

Si apre lo spazio per l’autonomia della scienza e per una teologia dell’onnipo-tenza divina che tutto può sulla base della sua volontà assolutamente libera.

L’età moderna non è un’età della metafisica nella stessa misura di quella medie-vale, che si era concentrata sulla trascendenza divina in una prospettiva marcata-mente religiosa. La cultura umanistica prima e quella scientifica poi cambianoprogressivamente gli equilibri all’interno della riflessione metafisica.

In una formula sintetica, si potrebbe parlare di un percorso da Dio all’io, oppu-re, per mettere in evidenza lo spostamento dell’asse dei saperi, dalla metafisicaalla gnoseologia.

Nella filosofia moderna si può infatti parlare sempre più di una metafisica del-l’io (volendo enfatizzare il ruolo rilevante assegnato al soggetto che conosce) esempre meno di una considerazione dell’io come sostanza. Se si afferma lasostanzialità dell’io, ancora una volta questa va a rinforzare la soggettività umana,perno del nuovo orizzonte culturale. Dio non scompare certo dalla metafisica, manon ne è più il protagonista assoluto: o perché è irraggiungibile e inconoscibile, operché l’attenzione crescente è per l’uomo e per la natura.

Ma è la possibilità stessa della metafisica, che, soprattutto a partire dalla fine delSeicento, viene messa in discussione. Al riguardo è da sottolineare la forte connes-sione che si stabilisce tra concezione della conoscenza umana e delle sue possibi-lità e metafisica. Si vedrà che spesso non viene negata una dimensione “sostanzia-le” o sovrasensibile, ma si mette in dubbio o si nega che l’uomo possa arrivare aconoscerla. Infine con Kant la metafisica verrà individuata come una tendenza edun’esigenza del sapere, ma anche come una sua “colpa”, cioè come il prodotto diuna ragione uscita dai suoi limiti costitutivi, e ne viene decisamente negata la pos-sibilità come scienza. All’uomo appartiene solo la conoscenza scientifica: la meta-fisica è fuori della sua portata. Ma si può parlare di una morte definitiva della meta-fisica? È un problema di fondo, questo, con cui tuttora si misura il pensiero.

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La metafisica rinascimentale

È difficile identificare una metafisica del Rinascimento, soprattutto se si pensa auna riflessione organica e sistematica. Il Rinascimento, particolarmente quello ita-liano, è periodo di ricerca e di riscoperte, ricco di temi che provengono da tradi-zioni culturali e filosofiche diverse. Dopo l’egemonia dell’Aristotelismo dellaScolastica, si torna al Platonismo, talvolta al Platonismo agostiniano. Non si trat-ta di un puro e semplice ritorno, ma di un ripensamento dei temi propri di quel-l’indirizzo di pensiero alla luce delle idee umanistiche e rinascimentali.

Il Neoplatonismo, ad esempio, afferma l’esistenza di una comune radice perfilosofia e religione e ritiene che si debba parlare di una pia philosophia, luogodell’incontro del Platonismo con il Cristianesimo. È comunque il progetto di unafilosofia religiosa e di una religione filosofica, per spiriti colti e raffinati, non certoper il popolo.

I nuovi spunti, tipici della cultura del tempo, si ritrovano in Nicola Cusano(1401-1464), il cui pensiero intreccia motivi neoplatonici e cristiani a motivi dellacultura rinascimentale.

Nella sua impostazione, la questione della conoscenza condiziona il discorsometafisico. Vi è un Dio infinito, inconoscibile per l’uomo, e vi è un uomo che puòindefinitamente crescere nella conoscenza, senza giungere mai alla conoscenzaassoluta: questa è la docta ignorantia. Un’“ignoranza” che rende problematica –o impossibile – una metafisica come scienza e rinvia quindi alla teologia e allarivelazione.

Ma nel definire il rapporto tra Dio e mondo la loro distanza ontologica sembraquasi annullarsi in base alla nuova idea di infinito: dall’infinito di Dio, infatti,deriva quello dell’universo, sia pure come contrazione dell’infinità divina e comenon-finitezza, non certo come infinita “potenza”, che è solo di Dio.

Marsilio Ficino (1433-1499) mette Dio al vertice di una scala gerarchica di tiponeoplatonico, distinguendolo dagli altri esseri. Nella tensione alla trascendenza ea Dio, un ruolo centrale è assegnato all’uomo, copula mundi. L’uomo è anima el’anima è amore che, per la sua posizione di cerniera tra mondo inferiore e supe-riore, può collegare il mondo inferiore a Dio.

Sull’anima si incentra anche la riflessione dell’Aristotelismo rinascimentale, maper concludere, con Pietro Pomponazzi (1462-1524), con la negazione della suaimmortalità.

Due appaiono i nuclei principali della metafisica naturalistica rinascimentale:uno spiccato atteggiamento antiaristotelico e la concezione della natura anima-ta. Bernardino Telesio (1509-1588) nella sua concezione della natura iuxta pro-pria principia, da interpretare secondo i suoi princìpi e non con riferimento acategorie metafisiche, come faceva Aristotele, si ricollega al naturalismo grecopresocratico. Due princìpi, caldo e freddo, agiscono su una massa materialeinerte: il risultato è una natura in cui ogni cosa sente. Tutto è materiale e sensi-bile. Anche l’anima dell’uomo lo è. Ma a quest’anima naturale (e qui sembraprevalere un atteggiamento di prudenza di fronte a esiti non compatibili con leverità cristiane) Telesio aggiunge un’anima spirituale e immortale, una formasuperaddita.

Il naturalismo telesiano verrà ripreso da Tommaso Campanella (1568-1639),che costruirà una metafisica delle tre primalità o princìpi fondamentali: potenza,sapienza e amore, che operano nella realtà naturale e umana. Ma soprattutto evi-denzierà un aspetto moderno nella considerazione dell’uomo, ancora una voltasecondo un’ottica conoscitiva: l’autocoscienza sensibile (se ogni cosa sente, pro-pria dell’uomo è la consapevolezza di sentire), che costituisce un segnale dellacrescita del soggetto nella filosofia moderna.

Ancor più segnata dal rapporto con la modernità, rappresentata dalla rivoluzio-ne copernicana, è la metafisica di Giordano Bruno (1548-1600). La sua è unaconcezione dell’infinito, che riprende, sia pure modificandola, quella di Cusano:infinito, infatti, è Dio, che è causa immanente della natura. Ma anche la natura èinfinita, perché se infinita è la causa, infinito è anche l’effetto. Dio è, dunque,natura naturans e natura naturata, causa ed effetto: una stessa sostanza con duefacce, come la statua di Giano bifronte. Il compito del filosofo diviene così laricerca del divino nella natura.

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Ma anche la scienza, in particolare con la rivoluzione copernicana, favoriscel’affermarsi di una visione infinita della natura: tolto infatti un centro dell’univer-so, la Terra, non ha senso sostituirlo con un altro, il Sole. L’universo è infinito enell’infinito non vi è né centro né periferia. Non vi è un solo mondo, ma infinitimondi.

La metafisica del soggetto

Nell’ambito del pensiero metafisico il Seicento si pone come compito la costru-zione di una nuova immagine del mondo che sostituisca quella – aristotelica egeocentrica – ereditata dal Medioevo e quella magica ed astrologica così diffusanel Rinascimento. Si afferma prevalentemente un pensiero sistematico, che rico-struisce la realtà sulla base di un principio unitario e con un metodo spessomodellato su quello del sapere scientifico matematico-geometrico.

È con Cartesio (1596-1650) che la metafisica elabora un nuovo concetto direaltà adeguato alla rivoluzione scientifica ed afferma la centralità del soggetto.Quella di Cartesio è, infatti, la prima compiuta metafisica del soggetto. La rocciasu cui viene costruito il nuovo edificio del sapere è la ragione, il cogito, non solocome attività ed autoconsapevolezza del pensiero, ma come res cogitans, sostan-za pensante. Solo il pensiero, la ragione, è il punto fermo capace di superare ildubbio e raggiungere l’evidenza, regola fondamentale del metodo cartesiano.

La res cogitans è sostanza, indipendente da tutto tranne che da Dio che la pone.Dio è sostanza in senso proprio. Per l’uomo la via per giungere a Dio passa neces-sariamente dal cogito. Affermata la res cogitans, l’itinerario della metafisica car-tesiana conduce dall’io a Dio. O meglio dall’idea di Dio, contenuta nel pensieroumano, come idea innata, fino all’esistenza di Dio.

L’argomentazione cartesiana si basa su una prova di tipo causale. Vi è nellamente umana un’idea che all’uomo non proviene dall’esterno e che non può avercreato lui stesso: l’idea di Dio come essere perfettissimo. A produrla può esseresolo chi abbia almeno altrettanta realtà e perfezione quanta è contenuta in quel-l’idea: quindi Dio esiste e solo lui può essere autore di quell’idea posta nella crea-tura come sigillo del creatore. Dio esiste come essere perfettissimo, perciò nonpuò ingannare l’uomo; è la garanzia che l’uomo non si inganna quando percepi-sce con l’intelletto qualcosa come evidente, cioè come idea chiara e distinta.

L’uomo percepisce, con questi caratteri, anche un’altra sostanza, quella mate-riale di cui è composta la natura: la res extensa, la sostanza estesa. Perché a que-sta sostanza l’intelletto riconosce come tratto fondamentale l’estensione, cioè ilfatto che occupi uno spazio.

Sulla concezione della res extensa e di ciò che da essa deriva Cartesio fonda ilmeccanicismo come modello di organizzazione della natura. Questa, una voltache Dio ha dato la “spinta iniziale” alla realtà estesa, si viene organizzandosecondo le sue leggi, che sono leggi di movimento. Anche l’uomo, ma solo inquanto essere corporeo, cioè res extensa, è da vedere e studiare in senso mecca-nicistico.

Nella concezione della natura è evidente l’incidenza della scienza moderna,fondata sulla riduzione della realtà naturale ai suoi aspetti quantitativi e matema-tizzabili. Cartesio – con la sua concezione della metafisica – compie una decisasemplificazione della realtà, riconducendola a tre sole sostanze: Dio, pensiero,estensione.

In qualche modo si potrebbe definire anche quella di Blaise Pascal (1623-1662)come una metafisica del soggetto, ma di un soggetto che rifiuta di essere inter-pretato secondo le categorie del pensiero matematico-geometrico e rivendica lasua originalità e irriducibilità a ogni altra dimensione della realtà. L’uomo puòessere conosciuto con l’esprit de finesse e non con l’esprit de geometrie.

L’indagine esistenziale di Pascal rivela che la condizione dell’uomo è attraver-sata da contraddizioni. La ragione non è capace di arrivare a una conoscenzacerta neppure della natura, perché le sfugge l’infinitamente grande e l’infinita-mente piccolo che la caratterizzano. Ma ancor meno è in grado di leggere e inda-gare la condizione dell’uomo. Fragilissimo fisicamente, l’uomo è grande per il suopensiero: è una canna che pensa, come lo definisce Pascal con una immaginedivenuta famosa. Non è né angelo né bestia, ma l’uno e l’altro. Cerca la felicità,

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ma la sua condizione è talmente misera da doverla nascondere a se stesso,distraendosi, cioè fuggendola con il divertissement, dedicandosi a qualunque atti-vità, dalla guerra alla politica, al divertimento, pur di non essere costretto a pen-sare alla propria condizione di miseria. A questa contraddizione si può sfuggiresolo affidandosi a Dio. Non a un Dio dimostrato dalla ragione, ma al Dio dellafede, al Dio che parla al cuore. Vale la pena di scommettere sull’esistenza di Dio,perché quello che si rischia, la propria vita, è finito e ciò che si otterrà è una vitaeterna e felice.

Tra materia e spirito

Cartesio lascia in eredità al pensiero successivo il problema del dualismo di rescogitans e res extensa. Sostanza estesa e sostanza pensante hanno caratteri assolu-tamente eterogenei: possono interagire l’una sull’altra? Se sì, come avviene?

A volte la soluzione data a quel problema porterà o alla negazione della res exten-sa a vantaggio della res cogitans o alla riconduzione della realtà alla sola res extensa.

Così anche in ambito protestante la concezione cartesiana della res extensaapparirà a rischio di materialismo e, perciò, contraria alla concezione cristiana.

A rafforzare questi timori e questi motivi di critica contribuirà notevolmente lafilosofia di Thomas Hobbes (1588-1679). A caratterizzare, infatti, il suo pensierosono sia un materialismo metodologico che un’istanza antimetafisica. Egli inten-de affermare non che la realtà sia materia, ma che noi possiamo conoscere solociò che è materiale. L’istanza antimetafisica, la negazione della possibilità diconoscere ciò che è al di là della realtà materiale, si era già fatta strada in altripensatori del secolo, come Francesco Bacone (1561-1626) e Galileo Galilei(1564-1642), i quali, criticando da punti di vista diversi l’Aristotelismo, avevanonegato la possibilità di conoscere l’essenza delle cose. Ma in Hobbes si traducenell’affermazione che si possono conoscere solo i corpi e il loro movimento, nonl’essenza delle cose.

È ancora l’onda lunga delle concezioni che nascono dalla rivoluzione scientifi-ca a fare sentire i suoi effetti. È ancora il meccanicismo a presentarsi come con-cezione egemone.

Della filosofia come sistema metafisico forse il maggior rappresentante è BaruchSpinoza (1632-1677). La sua è una concezione monista e immanentista: Dio èimmanente nella natura, che è, per così dire, un suo prolungamento. Dire con-cezione della realtà e concezione di Dio è la stessa cosa, infatti non vi è distan-za ontologica tra Dio e la natura. Si può anzi dire che Dio coincida con l’ordinegeometrico della natura. Questo non è più il Dio-persona del Cristianesimo, nél’Uno ineffabile di Plotino, ma richiama il Dio immanente della filosofia di Bruno.Da questo, comunque, si distingue per l’assenza di ogni antropomorfismo e fina-lismo. Il Dio-Sostanza spinoziano esprime infatti un modello di ordine matemati-co-geometrico e opera secondo leggi immutabili di natura geometrica.

Ora, dunque, il sommovimento prodotto dalla rivoluzione scientifica investeanche Dio e ne cambia la natura. Questo Dio, inoltre, in quanto fondamentodella realtà e dell’intellegibilità del mondo, non è imperscrutabile, ma è conosci-bile da parte della ragione.

Taluni vedono in questa metafisica spinoziana un semplice sviluppo del razio-nalismo cartesiano, in quanto riconduce l’essere alla sostanza divina. Altri inveceritengono che essa capovolga il senso della metafisica cartesiana, pur assumendo-ne i concetti-chiave: essa, infatti, non riconduce tanto l’essere a Dio quanto risol-ve Dio nell’essere, quindi costituisce una forma nuova di materialismo e ateismo.

Nel pensiero spinoziano, se Dio è l’unica sostanza, il pensiero e l’estensione nonpossono essere che due dei suoi attributi e le singole cose esistenti, gli esseri pen-santi come quelli estesi, non sono che modi, modificazioni di quegli attributi.

Nella natura non vi è finalismo, perché tutto opera secondo le leggi immutabi-li di Dio. Né vi è libertà, perché tutto avviene secondo necessità. O meglio, in Diocoincidono libertà e necessità, perché Dio agisce solo secondo la necessità dellasua natura senza che nulla lo costringa. Se Dio è causa immanente, nulla, nelmondo, è contingente, ma tutto è necessario. L’uomo può “risalire” a Dio fino agiungere all’“amor Dei intellectualis” e alla visione della realtà “sub specie aeter-nitatis ”, guardandola per così dire, dal punto di vista di Dio.

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La ricerca di un nuovo accordo fra metafisica, scienza e religione

Un esplicito esito materialistico del razionalismo scientifico poggiante sulla resextensa si manifesta solamente nell’età dell’Illuminismo, con i francesi Paul-HenriDietrich d’Holbach (1723-1789) e Julien Offray de La Mettrie (1709-1751). Inparticolare quest’ultimo riconoscerà alla materia, che è estensione e movimento,un principio attivo interno. Anche le funzioni psichiche (e il pensiero) verrannospiegate con la materia. L’anima stessa sarà concepita come materiale, l’uomocome uomo-macchina. Il dualismo di res cogitans e res extensa sarà così supera-to negando la res cogitans come sostanza spirituale indipendente.

Sin dalla seconda metà del XVII secolo, comunque, filosofi e scienziati avevanocercato di fronteggiare i pericoli di una caduta nel materialismo mediante elabo-razioni che rendevano compatibili esigenze religiose e concezioni scientifiche.

All’inizio del XVIII secolo è Isaac Newton (1642-1727) a riproporre tale accor-do. Per lui la natura è retta da leggi matematiche, ma Dio è caratterizzato dallalibertà e nessun rapporto di necessità lo lega al mondo. Il rapporto tra Dio e ilmondo è contingente. La scienza ha gli strumenti per conoscere la natura, ma lospazio del divino è solo lo spazio della fede.

Anche Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) vuole conciliare la scienzamatematico-naturalistica con la tradizione metafisica e religiosa. Lo fa innanzi-tutto rispettando le esigenze tipiche della ricerca scientifica e cioè la compren-sione delle differenze fra gli esseri e la spiegazione razionale degli eventi, graziea due princìpi-base: quello di ragion sufficiente e quello di identità degli indi-scernibili; in secondo luogo vuole conseguire il suo obiettivo ponendo a fonda-mento della sua concezione metafisica la spiritualità dell’essere, e, dunque, evi-tando i rischi del “materialismo” che sembrava provenire dal meccanicismo, dallares extensa.

Per Leibniz tutto è costituito da una infinita pluralità di centri di forza: le mona-di. Queste sono dei veri atomi spirituali, in quanto sono inestese, immateriali eindivisibili. Le monadi aggregandosi danno luogo a tutti gli esseri. Dio è la mona-de suprema, non solo perché è il creatore del mondo, ma anche perché è l’auto-re dell’armonia prestabilita tra gli aggregati di monadi. Infatti le monadi, nonpotendo subire modificazioni dall’esterno, sono garantite nella loro cor-rispondenza, soprattutto per quanto concerne il rapporto tra anima e corpo, datale armonia prestabilita. Dio come un perfetto e onnipotente orologiaio regola,mediante questa armonia, i loro rapporti, che sarebbero invece incomprensibili sespiegati attraverso una relazione di causalità. Il Dio di Leibniz crea il mondo perlibera decisione, scegliendolo tra gli infiniti mondi possibili. Il motivo di tale scel-ta è che questo è il migliore dei mondi possibili. Il male non è che il limite delbene, dovuto alla finitezza del mondo, ed è compensato dall’armonia complessi-va del mondo.

L’inglese George Berkeley (1685-1753), mosso da ancor più forti esigenze diordine religioso, nel Settecento reagirà al rischio del materialismo – derivante dal-l’esistenza di un mondo naturale indipendente interpretato meccanicisticamente– e muovendo da premesse empiriste giungerà a conclusioni di idealismo o di spi-ritualismo assoluto. Partendo dalla affermazione che l’essere consiste o si riduceall’essere percepito (esse est percipi ), egli giungerà a negare la realtà della sostan-za materiale. La natura non ha realtà materiale, ma spirituale, poiché ciò che noipercepiamo non deriva dalla materia ma da Dio, dal pensiero divino. Lo sboccodell’empirismo di Berkeley è così una metafisica non sensista, ma spiritualista.

I limiti della ragione e la critica della metafisica

Fra il Seicento e il Settecento, comunque, maturano nuove posizioni e istanzecritiche. Di esse sono espressione anzitutto le filosofie degli inglesi Locke eHume, in cui preliminare ad ogni discorso metafisico e decisiva è la risposta alladomanda: che cosa può conoscere l’uomo? Tale domanda prelude all’imposta-zione del criticismo kantiano. I due pensatori, a partire da una concezione empi-rista, mirano a porre in evidenza i limiti della ragione.

John Locke (1632-1704) non solo nega l’esistenza di idee innate, ma mette indiscussione uno dei concetti fondamentali della metafisica: quello di sostanza.

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Per Locke la sostanza non è che un’idea complessa, prodotta dalla ragione u-nendo diverse idee semplici, e che non corrisponde a qualcosa che esista real-mente fuori del nostro pensiero.

David Hume (1711-1776) conduce la critica ancor più a fondo, aggredendo iconcetti portanti sia della metafisica che della moderna scienza della natura.Poiché la conoscenza si basa solo su sensazioni, elaborate successivamente inbase a criteri di associazione, all’uomo è preclusa ogni conoscenza della realtàoggettiva. E se ci troviamo fra le mani qualche volume di metafisica scolastica, nelquale sia impossibile trovare ragionamenti astratti su quantità o numeri o ragio-namenti sperimentali su questioni di fatto, “allora gettiamolo nel fuoco”, affermaprovocatoriamente Hume, “perché non contiene che sofisticherie e inganni”.

La filosofia di Immanuel Kant (1724-1804) si colloca al crocevia dei problemiposti dal pensiero moderno. Per un verso la sua è una compiuta metafisica delsoggetto che conosce, intendendo con ciò che la filosofia critica è in grado didefinire quali sono gli elementi e le funzioni a priori della conoscenza umana.Ma, per un altro verso, proprio su questa base egli imposta il problema del nessotra teoria della conoscenza e possibilità della metafisica.

La domanda di fondo del criticismo kantiano è questa: è nelle possibilità dellaragione umana la conoscenza della metafisica? La sua risposta è negativa.L’uomo può conoscere le cose così come appaiono, i fenomeni, ma non puòconoscere la loro realtà in sé, i noumeni.

La metafisica non è possibile come scienza, poiché l’orizzonte dell’esperienzacircoscrive e limita le possibilità della conoscenza. La tendenza della ragione èquella di guardare al di là dell’orizzonte: ma quando essa compie tale atto – simuove cioè sul terreno della metafisica – cade inevitabilmente in errori, si muovesu un terreno che è quello dell’“illusione” (sia pure “trascendentale”) e non della“conoscenza”. La dialettica della ragione viene così interpretata come “dialetticadell’illusione”.

La terza parte della Critica della ragion pura, la Dialettica trascendentale, divie-ne così una critica della metafisica e della sua pretesa infondata di andare al dilà dei fenomeni. Le tre idee della ragion pura – quelle dell’anima, del mondo e diDio – che sono a fondamento della Psicologia razionale, della Cosmologia razio-nale e della Teologia razionale, non sono dimostrabili attraverso l’esperienzaumana. Infatti, nel caso dell’anima, si può dire che nel soggetto vi è un’attivitàconoscitiva, ma non si sa nulla sulle caratteristiche in sé del soggetto che cono-sce. Contro Cartesio Kant sostiene che, se era giustificata l’affermazione dell’esi-stenza del cogito, ingiustificato era invece il passaggio ad una “res” cogitans.

Inoltre, nel cercare di comprendere il mondo come totalità oggettiva, il soggettonulla può sostenere circa il suo carattere finito o infinito nello spazio e nel tempo,nulla sulla sua natura – semplice o composta di parti – , nulla sulla causalità libe-ra o sulla causalità necessaria come forma di relazione che gli è propria e nulla,infine, sull’esistenza di un Dio creatore del mondo. Nessuna delle tradizionaliprove dell’esistenza di Dio viene considerata valida. Non le prove a posteriori, per-ché nessuna può giungere a dimostrare l’esistenza di una causa prima, ma neppu-re quella a priori, legata all’argomento ontologico: l’esistenza non è infatti una per-fezione, ma una categoria che può essere usata solo in rapporto a un’esperienzapossibile. Dio, però, non appartiene al campo di un’esperienza possibile all’uomo.

L’edificio della metafisica viene così ad essere completamente distrutto. Solo nel-l’ambito della morale vengono recuperate le idee fondamentali della metafisica, cioèl’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e la libertà dell’uomo, ma vengono inte-se come postulati della ragion pratica, cioè come premesse necessarie alla morale enon come tesi dimostrabili frutto di una conoscenza.

Se si può parlare di una “metafisica” della moralità (Kant parla di “primato dellaragion pratica”, in quanto tratta del soggetto noumenico), essa si afferma, appun-to, fuori del campo vero e proprio su cui si è costruita e sviluppata la metafisica.Si tratterebbe allora di una metafisica volta a rassicurare il soggetto umano sullavalidità e sull’efficacia della sua azione nel mondo, ancorando tale azione a idee-forza, punti cardinali a cui egli possa sempre guardare con fiducia, come attore eprotagonista di una vicenda umana a cui sia comunque aperta una prospettiva diprogresso.

Anche quando nell’ambito della Critica del giudizio, cioè nel giudizio teleologi-

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co, si parla di Dio come autore dei fini della natura, non se ne parla nel senso chel’uomo possa dire qualcosa di oggettivamente valido sul finalismo della natura,poiché per far questo egli si dovrebbe porre (cosa che per lui è impossibile) dalpunto di vista di Dio.

Se di metafisica si può parlare, sul piano conoscitivo, lo si può fare conside-randola non come “scienza del fondamento”, non come scienza “dell’essere inquanto essere”, ma solo come scienza delle condizioni di possibilità del mondofenomenico, cioè delle forme trascendentali della “ragion pura” in quanto fonda-mento dell’ordine e della coerenza di quel mondo (ordine messo in discussionedall’empirismo radicale di Hume), come struttura di un mondo che è pur semprequello dell’“apparire” e non dell’“essere”. È stato osservato, in tal senso, che sitratterebbe di una metafisica della ragione e non dell’essere.

Spetterà comunque all’Idealismo tedesco sviluppare compiutamente questametafisica dell’Io, che in Kant è presente solo in forma implicita o parziale.

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L’OTTOCENTO5La critica kantiana della metafisica costituisce un punto di riferimento essenzia-

le per il dibattito filosofico dell’Ottocento. Anzi vi è chi ha detto che, se per meta-fisica si intende il sapere relativo alla realtà meta-empirica, con Kant si è definiti-vamente chiusa l’epoca della metafisica, dichiarata impossibile.

Allora, la metafisica muore nell’Ottocento? No, visto che è possibile rintracciareaspetti e momenti di una riflessione metafisica anche in epoche più recenti; essaassume però caratteri diversi non solo da quella medievale, ma anche da quellamoderna. La critica kantiana costringe a rivederne strumenti analitici e tesi, mabisogna tener conto anche dei grandi mutamenti culturali e storici. Nel XIX secolosi affermano alcuni grandi sistemi di pensiero che dichiarano “guerra alla metafisi-ca”. Ma a quale metafisica?

Il Romanticismo e l’Idealismo: l’aspirazione all’infinito

Metafisica, ad esempio, è una parte rilevante della filosofia romantica.I Romantici criticano l’Illuminismo e Kant per il loro atteggiamento anti-metafi-

sico e affermano la possibilità umana di cogliere, mediante l’intuizione, il Tutto.Ora, però, è soprattutto la natura ad esser concepita come il luogo in cui si mani-festa l’infinita potenza di Dio, anche se è solo nell’interiorità della coscienza chequesta potenza può essere avvertita. La natura, afferma Johann Wolfgang Goethe(1749-1832), è “l’abito vivente della divinità ”. Il sentimento della natura non èsensibile, bensì spirituale. Esso coglie la realtà vivente della Natura (sia pure comeun “enigma”, cioè come qualcosa che non può essere definito razionalmente) edè sentimento analogo a quello descritto da Kant nella Critica del giudizio, comefunzione nella quale è possibile cogliere l’unità fra natura e spirito, fra sensibile esoprasensibile.

Muta, rispetto a Kant, il valore che viene attribuito a tale tipo di conoscenza, cheè oggettivo e non soggettivo, come aveva ritenuto il filosofo di Königsberg, quin-di è ritenuto effettivamente in grado di attingere alla realtà noumenica.

È una specie di intuizione intellettuale a condurci alla realtà soprasensibile, afarci conoscere il mondo noumenico, il mondo come totalità. Kant non è negato,ma viene come oltrepassato dai Romantici, che sviluppano ed enfatizzano,assolutizzandoli, aspetti che nella sua speculazione mantenevano un carattere diforte problematicità.

L’Idealismo è il risultato di questo oltrepassamento, che si potrebbe definirecome il passaggio all’infinito. O come la dottrina metafisica che afferma la pre-senza dell’infinito nel finito. Quella idealistica è una metafisica di tipo nuovo, per-ché, appunto, pone l’infinito, il divino, l’assoluto, cioè la dimensione propria dellametafisica della trascendenza, nel finito e lo risolve per intero nel finito. Dunque

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è una metafisica dell’immanenza, ma di tipo ben diverso da quelle che abbiamoincontrato fino ad ora. Non solo perché abolisce la trascendenza come dimen-sione altra e superiore rispetto al finito, ma soprattutto perché pensa l’assolutocome divenire, come “storia”.

Comunque, gran parte della riflessione idealistica, quella di impronta ro-mantica, è segnata da un’impossibilità: l’impossibilità di realizzare l’infinito nelfinito, quindi anche di auto-realizzarsi. La metafisica idealistica di Hegel sembraperò far eccezione, poiché mira a identificare pienamente infinito e finito.

La nuova metafisica dell’Io

Molti aspetti del Romanticismo sono presenti nel pensiero di Johann GottliebFichte (1762-1814), nel quale si affermano il primato e l’assolutezza dello spirito.

Pur prendendo le mosse dal Criticismo kantiano, l’Idealismo fichtiano va ben oltrei confini e i limiti che Kant poneva alla conoscenza dell’assoluto e trasforma unafilosofia del finito – il Criticismo – in una filosofia dell’infinito. Kant aveva ritenutoche non fosse possibile all’uomo attingere la realtà in sé delle cose. L’Idealismo siafferma invece come l’unico tipo di filosofia che permette all’uomo di sollevarsi finoal principio unitario della realtà ultima delle cose, identificato come Spirito.

L’Assoluto viene identificato non tanto con un essere trascendente e immutabilenella sua compiutezza e perfezione, ma come divenire e processo continuo di rea-lizzazione dell’Io. Un processo che avviene essenzialmente attraverso il finito e fasì, quindi, che per l’Idealismo l’infinito viva nel finito, sia concepibile proprio comeimmanenza. Così il finito da un lato perde una propria consistenza ontologica, ma,dall’altro, viene innalzato a luogo privilegiato in cui vive e si realizza l’infinito.

Con l’idealismo di Fichte il processo che ha caratterizzato la filosofia moderna,cioè la riscoperta del soggetto, lo spostamento dall’oggetto al soggetto del bari-centro del sapere, si traduce in una specie di metafisico protagonismo dell’Io, inassoluta creatività e libertà: una dimensione, questa della libertà, che Kant avevaindividuato come costitutiva della sola sfera pratica e che viene ora riferita anchealla sfera teoretica.

L’Io in quanto principio del vero sapere, della scienza, non è un assoluto sostan-ziale, come il Dio di Spinoza, non è qualcosa che è, bensì è ciò che deve essereda noi prodotto: è quindi un principio pratico, non teoretico.

Fichte ha riassunto la sua tesi del carattere pratico della costruzione umana delsapere in tre princìpi fondamentali: l’Io pone se stesso; l’Io pone il non-Io; l’Iooppone, nell’Io, a un non-Io divisibile un Io divisibile. In altri termini, l’Io è lacondizione originaria della conoscenza e viene da noi colto attraverso un’intui-zione intellettuale mediante la quale a fondamento di ogni rappresentazione e diogni sapere c’è l’io puro, il puro pensare. Ma, ponendo se stesso, l’Io pone anchequalcosa che è altro da sé, cioè il non-Io, la natura, che ha i caratteri opposti all’Io.Se l’Io è unità, attività, libertà, la natura è molteplicità, passività, necessità.

Limitati dal non-io, gli uomini, come io empirici, sono in grado, in quanto sog-getti morali, di tendere continuamente al superamento del non-io, in uno sforzoincessante e senza fine. Così la metafisica di Fichte si configura come Idealismoetico. Questo connotato etico si riscontra anche nella contrapposizione tra ilsostenitore della metafisica dell’oggetto e quello della metafisica del soggetto, trail dogmatico e l’idealista, che non riguarda solo le concezioni, ma prima di tuttogli orientamenti profondi che ispirano la loro vita. Se il dogmatico è irrimediabil-mente segnato da una “schiavitù spirituale ”, in quanto convinto dell’esistenza diuna “cosa in sé”, di una realtà che gli è estranea e che lo sovrasta e pone limitiinsormontabili al suo agire, l’idealista, invece, ha fede nel primato dello spirito,nell’indipendenza del soggetto dall’oggetto, nella libertà e nell’autonomia morale,in quanto rifiuta l’idea di una “cosa in sé” e trova in se stesso la presenza delsoprasensibile, di una forza spirituale che è irriducibile a quella materiale.

L’Assoluto come identità di spirito e natura

In parte alternativo a quello di Fichte vuole essere il modello teorico propostoda Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854). La sua non è più solo unametafisica dell’Io, del soggetto nella sua infinita libertà, ma una metafisicadell’Assoluto, che pur sempre vive e si realizza nel finito.

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Schelling, a differenza di Fichte, non considera la natura come meccanismo enecessità, ma la concepisce come “preistoria dello spirito”, spirito “inconscio”. Ildistacco da Fichte sta appunto nel fatto che la natura non è solo un non-io, poichéin sé contiene il principio della sua vita e del suo svolgimento. Assoluto, dunque,non è solo l’Io, bensì anche la natura. Anzi l’Assoluto non è né spirito, né natura,ma la fonte dell’uno e dell’altra: è l’identità di spirito e natura. Anche per Schellingil carattere originario dell’assoluto è la libertà, cioè il suo essere incondizionato.

La novità maggiore della metafisica schellinghiana è rappresentata dalla conce-zione della natura come spirito inconscio, come un organismo vivente, una tota-lità organica nella quale il Tutto è la ragion d’essere delle parti e il movimento diqueste – caratterizzato dal conflitto, dalla polarità delle forze – trova la sua spie-gazione profonda nell’economia del Tutto. Questa concezione della natura è piùin linea con la sensibilità e la cultura romantiche.

Decisamente romantica è anche la tesi che l’Assoluto come identità possa esse-re l’oggetto dell’intuizione estetica, dell’opera d’arte e non della filosofia. La meta-fisica di Schelling si conclude così con il primato dell’arte.

Immanenza e storicità dello Spirito

L’Idealismo si afferma, comunque, soprattutto come Storicismo – e questo è unodei maggiori elementi di novità del suo pensiero metafisico.

Nella metafisica classica la dimensione dell’essere era l’“eterno”, ciò che nonperisce e non muta. Nella critica kantiana l’essere si era risolto nella ragione, con-cepita come condizione della possibilità del conoscere, quindi dell’affermarsi diun ordine universale e necessario – come tale intemporale – dei processi dellarealtà fenomenica, che è invece caratterizzata dalla temporalità.

Con l’Idealismo – e segnatamente con la filosofia di Georg Wilhelm FriedrichHegel (1770-1831) – è la temporalità stessa a prospettarsi come dimensione costi-tutiva del reale, come fondamento della sua razionalità, cioè come storicitàdell’Assoluto: l’“eterno” si “temporalizza”, il “divino” assume una dimensioneessenzialmente storica.

L’Assoluto è e si compie come razionalità. Tutto ciò che è reale è razionale, tuttociò che è razionale è reale : lo sviluppo complessivo del mondo si identifica conil pieno dispiegamento della ragione, la logica si identifica con la metafisica. Maquesta non è più la vecchia metafisica dell’essere. L’essere è per Hegel solo ilpunto di partenza del sistema della realtà, è la determinazione più generica e piùvuota, tanto da essere dichiarata identica al nulla.

La realtà – proprio nella sua natura razionale, nel suo significato essenziale – èstoria, passaggio, divenire, è unità dell’infinito col finito: l’Infinito è sintesi di tuttele determinazioni finite. L’assoluto è spirito, principio attivo, razionalità calatanelle cose stesse; è l’intero, cioè l’insieme dei momenti costitutivi dello svilupporazionale della realtà.

In tale visione dell’assoluto non scompaiono le differenze e le opposizioni. Quisi verifica la rottura di Hegel con il Romanticismo e con Schelling. L’assoluto nonè più, infatti, oggetto di un’intuizione estetica, né si pone come un’indifferenziataidentità di natura e spirito, di soggettività e oggettività (quasi come “la notte in cuitutte le vacche sono nere”), ma è il “movimento della verità in se stessa ”, è esibi-zione del reale nella sua razionalità costitutiva, quindi può essere oggetto solo diuna scienza filosofica, di un sapere concettuale compiuto.

Torna il primato della filosofia, come dialettica. L’assoluto è movimento dialet-tico. Non solo posizione, tesi, ma anche negazione, opposizione, antitesi. Ma èsempre in grado di superare l’opposizione, di produrre la negazione della nega-zione, la sintesi. Questo è il concreto: non il dato immediato, ma l’unità degli op-posti, il loro relazionarsi proprio attraverso quell’opposizione, il loro essere ciòche sono proprio in quanto momenti conflittuali di un processo più ampio, che licomprende entrambi. Il movimento dialettico è processo costitutivo, struttural-mente necessario, sia del pensiero che della realtà. È un modo d’essere e di ope-rare interno al pensiero e alla realtà.

La realtà è processo, opposizione, mutamento continuo, ma secondo sequenzelogiche che ne costituiscono il filo conduttore, la razionalità. L’assoluto sta appun-to in questa sintesi superiore di cambiamento e permanenza, di trasformazione edi eternità dello spirito. E la ragione non è pura idealità, cioè “dover essere” con-

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trapposto all’“essere”, la romantica, dolorosa lacerazione che porta il finito a ten-dere incessantemente verso l’infinito senza mai realizzarlo. Per Hegel c’è pienacoincidenza fra essere e dover essere.

La filosofia costituisce così “il proprio tempo colto col pensiero”. Il propriotempo e, insieme, il passato che contiene in sé il presente. La stessa filosofia hege-liana viene concepita come il momento culminante di un processo storico com-plessivo. E poiché la filosofia è l’ultimo dei gradi dello Spirito assoluto, con la filo-sofia hegeliana si compie il processo in cui consiste l’assoluto.

Tra spiritualismo e realismo

Nell’Ottocento, comunque, non si afferma solo la grande metafisica idealistica,ma è presente anche lo Spiritualismo cristiano, di cui sono principali esponentiMaine de Biran e Rosmini, e il realismo di Herbart che, però, hanno una inciden-za relativa nella filosofia del tempo.

Per François-Pierre Maine de Biran (1766-1824) è possibile attribuire ai proces-si interiori della coscienza un fondamento metafisico, spirituale che è alla base diogni religione, poiché è anche ricerca, sforzo, tensione dell’anima verso Dio.

Antonio Rosmini (1797-1855) basa essenzialmente la sua filosofia sull’idea diessere, che è a fondamento dei giudizi conoscitivi, è universale e innata e soprat-tutto, come idea dell’essere possibile, costituisce una forma oggettiva della realtà,ha quindi un valore ontologico in quanto la mente la intuisce in sé come qualco-sa di innato e diverso da sé. È proprio da essa, cioè pensando l’essere ideale, chesi pensa qualcosa di necessario, universale ed eterno, dotato degli stessi caratteridi quell’idea dell’essere e sua causa adeguata, cioè Dio.

Vincenzo Gioberti (1801-1852), invece, è fautore di un ontologismo, cioè diuna teoria dell’essere assoluto, Dio, che supera la dimensione puramente menta-le dell’idea dell’essere e parte da ciò che – ontologicamente – si pone come datooriginario, cioè dall’essere reale, dall’Ente. Enuncia una formula ideale con cuicerca di descrivere il rapporto e il processo che lega Dio al mondo, l’Ente all’esi-stente: l’Ente crea l’esistente, l’esistente ritorna all’Ente.

Il pensiero di Johann Friedrich Herbart (1776-1841) si presenta come Realismo,cioè come posizione contrapposta all’Idealismo: la realtà viene affermata comedel tutto autonoma dall’Io che la pensa. La filosofia guarda al di là dell’esperien-za, verso la realtà effettiva delle cose, affermandosi come metafisica, nella qualel’essere viene studiato come posizione assoluta, indipendente dal pensiero. Lametafisica descrive il mondo come composto da una molteplicità di reali, centriimmateriali di forza, che interagiscono fra loro con atti di autoconservazione, cioècon la tendenza di ciascun reale a resistere all’azione perturbatoria operata daaltri reali. Comunque ogni reale è concepito in sé, nella sua struttura costitutiva,nella sua essenza semplice, al di fuori delle relazioni che nell’esperienza lo lega-no ad altri reali. Dio è il fondamento ultimo della realtà.

Il Positivismo e la condanna della metafisica

Del tutto diversa è la tendenza che si manifesta col Positivismo. Con esso la scien-za viene privilegiata come l’autentico sapere umano. Si rifiutano spiegazioni dellarealtà che non siano fondate sull’esperienza e sui risultati della scienza. Ne conse-gue un’aperta, serrata critica della metafisica, della quale viene proclamato il defi-nitivo superamento. Anche il Positivismo, però, come il Romanticismo e l’Idealismo,si sforza di fornire una prospettiva unitaria della realtà, cercando di determinare imolteplici nessi che esistono fra gruppi di fenomeni apparentemente diversi.

In Auguste Comte (1798-1857), la metafisica costituisce uno stadio di sviluppodell’umanità, che si colloca fra altri due stadi, quelli teologico e positivo. Ciò cheComte condanna nella metafisica – evoluzione dello stadio teologico – è la pre-tesa di spiegare la realtà facendo riferimento a essenze, princìpi astratti. Nello sta-dio metafisico, che segna il passaggio dell’umanità “tra l’infanzia e la virilità”, gliuomini hanno sostituito la fantasia con la ragione e i soggetti sovrannaturali, chedominavano (e spiegavano) nelle rappresentazioni teologiche, con entità e forzeastratte, con essenze più o meno occulte. Ma tali essenze sono considerate comerealtà assolute, sono inverificabili e incapaci di fornire una spiegazione dei feno-meni che non sia meramente verbale.

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Alla metafisica viene riconosciuto il merito di aver messo in crisi e poi dissoltoil vecchio ordine teologico. Ma essa si è dibattuta in controversie senza fine, arro-gandosi la pretesa di fissare in un determinato sistema di princìpi la “verità” comeposizione assoluta. Solo superando lo stadio metafisico ed entrando nello stadiopositivo (o “scientifico”) l’umanità potrà costituire un nuovo definitivo ordineintellettuale e politico-sociale. Nell’ultima fase della sua attività Comte trasfor-merà questa idea in una prospettiva religiosa, sia pure di una “religione dell’U-manità”, concepita come Grande-Essere, entità collettiva in cui si raccolgono legenerazioni che si sono succedute nella storia.

La critica di John Stuart Mill (1806-1873) alla metafisica, nella sua forma hege-liana allora molto diffusa anche in Gran Bretagna, è fondata sulla convinzione cheessa sia il frutto di un pensiero prelogico, magico e irrazionale. Ad esso bisognacontrapporre un pensiero razionale e scientifico e lottare per abolire la metafisica,tra le maggiori responsabili della schiavitù spirituale dell’umanità.

Herbert Spencer (1820-1903) propone invece l’Evoluzionismo come una teoriafilosofica generale, cioè come modello interpretativo della realtà nel suo com-plesso. Proprio per questa sua pretesa di spiegare qualsiasi fenomeno dell’univer-so usando il principio di evoluzione al di là del suo campo specifico di applica-zione scientifica (quello biologico), il positivismo spenceriano verrà accusato dipresentare un evidente carattere metafisico. D’altra parte Spencer, riprendendo ladistinzione kantiana tra ciò che è conoscibile e ciò che non lo è, tra fenomeno enoumeno, tra ciò che è condizionato e l’incondizionato, afferma che la scienzadeve inevitabilmente misurarsi con il problema del mistero, di ciò che resta inspie-gabile. Risalendo continuamente la catena degli esseri, da ciò che è condizionatoa ciò che lo condiziona, cioè alla sua causa, la scienza giunge ad avvertirel’“incondizionato”, l’assoluto, come qualcosa che è, nello stesso tempo, esistentee inconoscibile.

Una presenza che – come tale – pone la scienza a contatto con la religione, mache investe lo stesso rapporto fra scienza e metafisica, come sforzo della menteumana di afferrare, appunto, l’“incondizionato”, le ragioni ultime e originariedella realtà, senza poter attingere a questo livello.

Di metafisica si è parlato anche a proposito del Materialismo della filosofia posi-tivistica tedesca, criticandolo. Anche i materialisti, infatti, hanno cercato di defi-nire i princìpi ultimi di spiegazione della realtà, individuandoli nella materia enella forza. La reazione a questa “metafisica” materialistica porterà alcuni filosofie scienziati ad esprimere un punto di vista agnostico affermando che vi sono enig-mi del mondo che non potranno mai essere del tutto risolti dalla scienza, o a pro-porre un ritorno a Kant, cioè un ritorno a un abito di cautela critica nei confrontidi ciò che sfugge alla conoscenza scientifica, di riflessione sulle condizioni di pos-sibilità del conoscere.

La metafisica della volontà

“Controcorrente” rispetto alle dominanti tendenze idealistiche e positivistiche simuovono Kierkegaard e Schopenhauer. La loro critica della razionalità si rivolgesia contro l’idealismo hegeliano sia contro l’apologia positivista della scienza edel progresso. All’ottimismo metafisico hegeliano e all’ottimismo scientista delPositivismo si contrappone una visione drammatica della condizione umana e l’i-dea di una irriducibile non-razionalità del reale.

Per Arthur Schopenhauer (1788-1860) il mondo non è realtà e razionalità e nep-pure movimento dialettico, ma solo rappresentazione, finzione, illusione. Larealtà profonda delle cose è costituita da una forza cieca, oscura, irriducibile adaltro: la volontà. Il mondo – come tale – è privo di senso, cioè il senso del mondovisibile, del mondo dell’esperienza, è fuori di esso, fuori dall’esperienza.

Possiamo avvertirlo già col nostro corpo, possiamo cogliere, entro noi stessi, unavita oscura e profonda, un tumulto di desideri, una brama di vivere, uno sforzo euna tensione che sono irriducibili al pensiero e che Schopenhauer denomina Vo-lontà, un cieco impeto che attraversa il nostro corpo e che viene identificato comeuna forza diffusa in tutti gli altri corpi, nella natura intera e che sottende ogni feno-meno ed evento – materiale o umano. Essa è l’autentica cosa in sé, il noumenokantiano.

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Disperdendosi in una miriade di realtà particolari, la volontà è come lacerata,scissa in sé, arrestata e deviata dal proprio cieco sforzo, e avverte tutto questocome mancanza, bisogno, dolore: “il mondo è l’inferno”, è, al contrario di ciò cheaveva ritenuto Leibniz, il peggiore dei mondi possibili.

Unica via di superamento di tale stato di cose è l’annientamento della volontà,l’ascesi, cioè la negazione dell’essere, il rifiuto di attaccarsi a qualsiasi realtà, ope-razione con cui il mondo non è più mondo ma si annulla, puramente e semplice-mente, per l’individuo.

L’affermazione del “Singolo”

A differenza del pensiero di Schopenhauer, quella di So/ren Aabye Kierkegaard(1813-1855) è una filosofia dell’esistenza, del Singolo, che si iscrive in una pro-spettiva religiosa e per la quale l’unica via d’uscita dall’angoscia di vivere e dalladisperazione è la scelta di Dio.

Al centro del pensiero di Kierkegaard è il Singolo, contrapposto alla prospettivadell’infinito hegeliano (che ingloba in sé tutto, anche il singolo, credendo di poterrisolvere all’interno di una prospettiva dialettica tutte le contraddizioni dellarealtà).

In nome della concretezza dell’esistenza, viene condotta una critica di fondoalla filosofia speculativa di Hegel, che riduce la realtà a universalità del pensiero.La coincidenza hegeliana di pensiero ed essere è come un sesto e sconosciutocontinente in cui il pensiero emigra abbandonando l’esistenza e chiudendosi nellapropria autosufficienza, come se davvero potesse bastare a se stesso. La dialetticahegeliana, con la sua pretesa di superare le contraddizioni della realtà grazieall’attività mediatrice del pensiero, non ha alcunché di valido. La realtà, vista nellaprospettiva del singolo, è costituita, invece, da contraddizioni radicali e, cometali, insuperabili. Gli opposti non sono affatto un et...et. Essi sono del tuttoinconciliabili e la dialettica è un aut...aut, un’alternativa radicale, uno sceglierefra l’uno e l’altro opposto. Tale scelta è decisione libera, ma in essa il singolo giocatutto se stesso, l’intera sua esistenza, in quanto scegliendo egli diviene ciò chesceglie e decide su di sé.

Il singolo è la categoria fondamentale per la comprensione della realtà, insiemea quella di possibilità. È infatti la possibilità, non la necessità, a costituire il modod’essere fondamentale del singolo, il suo concreto esistere. La necessità implicauna dimensione del reale che è fuori del tempo, perché è già ciò che deve esseree non conosce cambiamenti. La possibilità è invece temporalità, un divenire con-tinuo, incessante, ma senza mete prefissate. Implica quindi una perenne instabi-lità del vivere. Pone l’individuo di fronte ad alternative drastiche (possibilità “disì”, possibilità “di no”) che lo paralizzano e lo gettano nell’angoscia.

È l’irruzione della trascendenza ad aprire la possibilità, per il singolo, di noncadere nella disperazione di non poter essere se stesso e di non trovare rispostaalla propria angoscia. Ma il Dio di Kierkegaard non ha a che fare né con lo Spiritoimmanente di Hegel, né con la divinità trascendente della “vecchia” metafisica.L’irruzione della trascendenza nel finito suscita paradosso e scandalo: essa si ponefuori dei quadri della razionalità, fa appello al singolo a rischiare nel rapporto conl’assoluto.

Storicità dell’esistenza e critica della metafisica come ideologia

Di nuovo da una impostazione antiidealista e antihegeliana e ancora una voltacon l’intento di recuperare la realtà negata o “rovesciata” da Hegel, si configuranegli esponenti della Sinistra hegeliana prima e poi in Marx e in Engels la criticaalla metafisica nel suo ultimo stadio, quello hegeliano, appunto. Questa critica èla condizione preliminare per liberare la filosofia dal suo vizio d’origine: non pen-sare la realtà per se stessa, ma come altro da sé.

Fra i primi, è soprattutto Ludwig Feuerbach (1804-1872) a condurre una criticaa fondo della filosofia speculativa di Hegel. Questi ha risolto la realtà nel pensie-ro e l’uomo nella ragione, nello spirito assoluto. Quella filosofia speculativa man-tiene ancora in sé l’impostazione della teologia: come nella teologia l’essenzaumana viene trasferita – e oggettivata – nella trascendenza divina, così in Hegel

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l’essere dell’uomo viene proiettato – e oggettivato – nella trascendenza del pen-siero, nel “pensiero dell’uomo posto al di fuori dell’uomo”. Lo spirito assoluto è ilfrutto dell’alienazione dello spirito finito dell’uomo, è cioè lo spirito stesso del-l’uomo trasformato in qualcosa di astratto, nel quale l’uomo è “estraniato da sestesso”, nelle stesse forme in cui si realizza l’alienazione religiosa.

Anche Karl Marx (1818-1883) critica la filosofia speculativa hegeliana perchébasata su un meccanismo di inversione e di rovesciamento fra pensiero e realtà.Hegel, per il vizio speculativo-metafisico proprio del suo idealismo, parla della“cosa della logica”, cioè di un essere astratto e fittizio e non della “logica dellacosa”. Bisogna rimettere a camminare sui piedi quella realtà dialettica che Hegelha messo a camminare sulla testa. Ma l’esito di questa operazione non è l’astrat-ta essenza umana, a cui giunge Feuerbach, ma il carattere dialettico e storico delfinito stesso. Il soggetto della realtà non è l’astratto spirito, ma gli uomini nelladeterminatezza della loro condizione storica, nelle condizioni reali in cui produ-cono e riproducono la loro esistenza. Non si può però risolvere il carattere “spe-culativo”, rovesciato, metafisico del pensiero filosofico se nonandando a ritrovare la radice prima dell’alienazione umana che,secondo Marx, si compie sul terreno economico. I pensieri stes-si degli uomini, le loro idee, quindi anche le loro speculazionimetafisiche, non possono essere che un riflesso delle loro“condizioni materiali di vita”. Per liberare l’uomo dall’aliena-zione non basta quindi la critica, come pensava la sinistrahegeliana: occorre la práxis, l’azione concreta, laprassi rivoluzionaria. La filosofia (con la metafisi-ca) non serve più: “I filosofi si sono limitati a inter-pretare il mondo in modi diversi; si tratta ora ditrasformarlo”. Siamo alla morte della filosofia, ocomunque a una “dichiarazione di morte” neiconfronti della metafisica.

Di metafisica è stato accusato non il pen-siero di Marx, ma quello di Friedrich Engels(1820-1895) che ha elaborato una “metafi-sica” materialista e dialettica, in antitesialla metafisica in quanto tale, sostenitrice, asuo avviso, di una visione statica e rigida, con-tro la (sua) dialettica che comprende il diveniredella realtà.

Jean Arp, Coppa chimerica, 1947.Roma,

Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

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Crisi della metafisica e “morte di Dio”

Ancor più radicale è la critica a cui Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900),alla fine dell’Ottocento, sottopone la metafisica e – con essa – l’intera razionalitàoccidentale, ritenuta negatrice della vita, del lato “dionisiaco” dell’uomo. Tale cri-tica è simboleggiata dall’annuncio della morte di Dio, cioè della metafisica, e dellastessa possibilità di un mondo “altro” e più “vero” di quello dell’“apparenza”.

L’“illusione metafisica” ha origine in Platone, che ha posto le Idee, il mondosovrasensibile, come il “mondo vero”, degradando il mondo del divenire e dellasensibilità a mondo dell’apparenza, svalutando come “inautentico” il mondo incui viviamo. La metafisica ha contribuito ad alimentare negli uomini un atteggia-mento di rinuncia alla vita. Ma per il pensiero occidentale la dimensione dellametafisica è stata la dimensione di Dio. Così per Nietzsche crisi della metafisicae “morte di Dio” appaiono come due facce dello stesso processo. L’annuncionietzschiano della morte di Dio sembra portare a compimento quel processo disecolarizzazione che era iniziato con la crisi del Medioevo e con l’avvento e losviluppo della società e della scienza moderne.

Nelle sue intenzioni ciò vuole essere uno smascheramento di tutti i valori consoli-dati intorno ai quali si è costruita la civiltà occidentale, di cui egli vuole essere criti-co spietato: “rovesciare idoli è il mio mestiere”, afferma, poiché bisogna distruggeree criticare per creare nuovi valori, per affermare una nuova potenza dello spirito e peraprire una nuova epoca, quella dell’Ubermensch, dell’Oltreuomo o “Superuomo”.

La metafisica è il prodotto di filosofie che hanno cercato un concetto, un signi-ficato “nascosto” del mondo e hanno ignorato il mondo che è davanti ai nostriocchi. Esse hanno privilegiato facoltà come la “ragione” o la “coscienza” a spesedi altre, ad esempio a spese degli istinti e delle passioni, che hanno tentato disoffocare e reprimere. Eppure le costruzioni della metafisica, che pretendono diergersi al di sopra delle passioni e degli interessi degli uomini, esprimono di fattoproprio tali interessi e passioni. Socrate è il simbolo, l’emblema di tale pretesa, diquesta “tirannia della razionalità” affermata contro la “tirannia dell’istinto”.

Nell’annuncio “Dio è morto!”, Nietzsche comunque fa intendere di non esserelui a “uccidere” Dio, ma che sono gli stessi uomini dell’Occidente cristiano ad aver-lo fatto. Si è cioè consumata la metafisica, una visione delle cose nella quale a fon-damento del mondo è stato sempre cercato e riconosciuto un principio assoluto. Ladichiarazione della morte di ogni metafisica vuol essere soprattutto rivelazione del-l’assenza di ogni fondamento : del fatto che dobbiamo imparare a vivere comesospesi nello spazio vuoto che la morte di Dio spalanca all’uomo, senza più puntidi riferimento. Vivere con noi stessi, con le nostre passioni e dolori, e nient’altro.

Da qui il significato che vien dato al nichilismo di Nietzsche: l’annullamento deimiti della metafisica (e della ragione, dell’universalità e assolutezza dei valori,ecc.) e la consapevolezza che la tentazione a ricorrere a nuovi miti è semprepresente, perché forte è la tentazione a rifugiarsi in illusioni capaci di tranquilliz-zarci, di darci sicurezza.

La crisi della razionalità

Nel XX secolo si sviluppa la crisi dei modelli tradizionali della metafisica clas-sica, dei modelli di razionalità che avevano contrassegnato l’età moderna, maanche di molte delle idee diffuse dal Positivismo ottocentesco. Vecchie e nuove“certezze” vengono messe in discussione e accantonate, ma anche riprese, ripro-poste, discusse. Lo stesso dibattito sulla metafisica non poteva non riflettere talevarietà di opzioni teoriche. Se per metafisica si intende la capacità di attingere larealtà nella sua essenza ultima, anche senza accettare una prospettiva di trascen-denza, il discorso metafisico è in qualche modo presente in numerosi filosofi delNovecento, che, nel confronto-scontro con la scienza e con la filosofia dellascienza, rivendicano il diritto della filosofia a raggiungere la dimensione autenti-ca della realtà che sfugge al pensiero scientifico.

IL NOVECENTO6

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La fine delle “certezze” della coscienza

Anche la psicoanalisi – come la filosofia di Marx e Nietzsche – è stata intesa –di fatto – come forma di “smascheramento” e messa in discussione delle consoli-date “certezze” della cultura occidentale. Con essa, cade l’identificazione dellapsiche con la sola coscienza. Accanto a questa, ma anche in opposizione ad essae fuori di essa, Sigmund Freud (1856-1939) scopre l’inconscio come un attore chesi muove secondo sue logiche, del tutto diverse da quelle della coscienza, e checostituisce comunque una presenza inquietante per l’individuo. Il soggettoumano si presenta, quindi, come il campo di battaglia di forze potenti, in conflit-to tra di loro, che spesso sfuggono al controllo della parte cosciente. Con la psi-canalisi crolla un’immagine complessiva dell’uomo.

È lo stesso Freud a essere convinto della portata “filosofica” (e “anti-metafisica”)della sua teoria, quando afferma che con la descrizione conflittuale, lacerata, dellapersonalità operata dalla psicoanalisi viene a cadere ogni presunzione e“megalomania” dell’uomo. È la terza grande “sconfitta” dopo la rivoluzione coper-nicana e l’evoluzionismo darwiniano. Con Copernico, l’uomo non era più appar-so come il centro dell’universo. Con Charles Robert Darwin (1809-1882), si erarivelato solo uno dei molteplici prodotti dell’evoluzione. Con la psicoanalisi, “nonsolo l’Io non è più padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarsenotizie riguardo a ciò che avviene inconsciamente nella sua vita psichica”.

Le nuove metafisiche dello spirito

Ma il Novecento segna anche una dura critica al modello positivistico e il ripro-porsi del pensiero metafisico. Si accusano Positivismo e “scientismo” di avereimpedito e negato – con il loro approccio – ogni accesso a una realtà più profon-da e autentica. Si muove dalla premessa fondamentale dell’impossibilità – per lascienza e per un pensiero che la prenda a modello – di attingere la realtà nellasua “essenza” ultima. Solo alla filosofia, a una ragione concepita al di là e al disopra dell’intelletto scientifico e dell’esperienza sensibile o, ancor più, a forme diintuizione intellettuale o di intuizione estetica, viene attribuito il privilegio dicogliere la realtà suprema dei valori, delle essenze, del divino. Se le scienze per-mettono di migliorare l’efficienza del vivere, la filosofia sembra tornare all’anticoruolo di “regina della verità”, di luogo e rifugio nel quale ritrovare il senso auten-tico di sé e del mondo.

Tale critica alla scienza e allo “scientismo” positivistico è particolarmente evi-dente nelle nuove forme di metafisica spiritualistica e idealistica che si afferma-no specialmente in Francia e in Italia. Contro il materialismo e il riduzionismonaturalistico viene riaffermato il primato della vita dello spirito, irriducibile allanatura, e, con esso, il primato della sfera interiore della coscienza, che, negli spi-ritualisti, torna ad essere il luogo privilegiato della comunicazione con la tra-scendenza, con Dio.

Il maggiore esponente di tale tendenza è Henri Bergson (1859-1941). Eglidescrive la realtà come slancio vitale, evoluzione creatrice che solo l’intuizioneintellettuale, e non l’intelletto scientifico, è in grado di afferrare e comprendere.

Contro il Positivismo, egli rivendica alla filosofia un ruolo di primo piano.Mentre la scienza, attraverso l’intelligenza e l’esperienza, coglie e ordina i fattidella materia inerte, la filosofia, mediante l’intuizione, ci permette di immergercinei processi più profondi della realtà: nella coscienza coglie la realtà dei processitemporali come durata reale e nel mondo avverte la presenza e l’opera di un’e-voluzione creatrice, cioè dello slancio originario della vita, di un processo che,pur essendo evoluzionistico, è da intendere come il prodotto di una forza spiri-tuale e creatrice.

La cultura positivista aveva privilegiato una visione della realtà tutta centrata suifatti e sulle loro relazioni quantitative. L’approccio alla vera realtà delle cose è,invece, quello fornito dalla metafisica, che entra nella realtà stessa, mentre lascienza vi gira attorno. La scienza, collocandosi all’esterno della cosa, si pone daun certo punto di vista e si esprime con simboli, riconducendo l’oggetto a cosegià conosciute. La metafisica non usa simboli, né si rifà ad alcun punto di vista,perché si colloca all’interno della cosa e coglie la sua essenza come incommen-surabile con ogni altra. La scienza si ferma al relativo, la metafisica arriva all’as-

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soluto. L’una usa l’analisi, l’altra l’intuizione, sostenuta dalla simpatia, con laquale ci trasportiamo all’interno di una cosa per afferrare e – in qualche misura –“identificarci” con ciò che essa ha di unico.

L’intuizione della realtà è stata offuscata e dimenticata a tutto vantaggio delmondo della intelligenza e della scienza, con l’effetto di spersonalizzare l’uomo,di rendere la sua coscienza povera e passiva, esteriorizzata, frammentata neltempo, sempre più dipendente e smarrita in un mondo di cose. Il punto di vistanuovo, quello della filosofia e della metafisica, vuol dire invece, per Bergson,“riprendere possesso di sé”, attestarsi al livello più profondo della coscienza.

Idealismo e Storicismo

Anche il Neo-idealismo ripropone – con Gentile e Croce – l’hegeliana identitàfra pensiero e realtà e raffigura lo spirito come orizzonte immanente, non tra-scendente, di razionalità dialettica. Si tratta di due filosofie dell’immanenza, con-trapposte sia alla filosofia della trascendenza dello Spiritualismo cattolico e delNeo-tomismo che alle filosofie del Positivismo e del Marxismo.

Nell’Attualismo di Giovanni Gentile (1875-1944) l’intera realtà viene ricondot-ta all’unità del pensiero, anzi all’atto del pensiero pensante, alla sua infinita pro-duttività: “l’oggetto si risolve nel soggetto” e niente ha valore di spirito, se nonviene risolto nel soggetto che lo pensa. Gentile vuole operare una riforma delladialettica hegeliana affermando il primato della soggettività trascendentale delpensiero, intesa come attività creatrice, come un conoscere e un fare strettamen-te intrecciati fra loro. Afferma il primato dell’atto in atto, del pensiero pensante sulpensiero pensato, e in ciò richiama Fichte. Gentile non accetta l’idea di poterguardare ai diversi momenti di sviluppo della vita dello spirito (la natura, la logi-ca, lo spirito soggettivo, ecc.) come fasi dotate di una pur relativa autonomia, cioècome “dati del pensiero”, senza considerare ogni volta questi momenti comeespressione diretta dell’attività del pensiero che li pensa e così li pone.

Nello Storicismo assoluto di Benedetto Croce (1866-1952) è la vita stessa, larealtà, ad essere storia, “nient’altro che storia”, storia dello Spirito, dell’infinitorealizzarsi dell’assoluto, che è una razionalità immanente alla realtà, una razio-nalità dialettica, operante concretamente nella storia.

Per Croce vale il carattere immanentistico dell’idealismo hegeliano, ma il movi-mento dello spirito non è contraddistinto, come in Hegel, da opposizioni, né èbasato sullo sviluppo triadico di tesi, antitesi e sintesi e sulla continua negazionedei momenti del processo in un momento superiore. Esso è invece caratterizzatodal distinguersi di quattro momenti (arte, filosofia, economia e morale) che sonole forme fondamentali ed eterne della vita dello Spirito. La dialettica crociana èsegnata dal nesso dei distinti, non dalla dialettica degli opposti.

Non è possibile la comprensione dell’universale se non come universale con-creto, storico; e non c’è storia senza una comprensione teorica dei fatti accadu-ti. I problemi della filosofia sono quindi reali, non astratti. La filosofia si occupasolo di ciò che è concreto, di ciò che è effettivamente avvenuto o sta avvenendo:qualsiasi problema della filosofia va affrontato unicamente “in riferimento ai fattiche lo hanno fatto sorgere e che bisogna intendere per intenderlo”.

Scienze dello spirito e problematicità della comprensione storica

Diverso è l’orientamento dello Storicismo tedesco, vicino più a Kant che aHegel. Vuole essere uno storicismo non metafisico ma problematico, volto a defi-nire una critica della ragione storica, sganciandola comunque dall’idea positivi-stica del sapere, poiché diverso è il concetto di “scientificità” per le scienze mate-matico-naturalistiche e per le “scienze dello spirito”, in quanto diverso è il campodi realtà a cui la loro indagine si rivolge. Ma, anche se di spirito si parla l’ap-proccio ad esso non è filosofico-metafisico, ma scientifico.

La conoscenza storico-sociale studia ciò che è interno all’uomo, mentre quellanaturalistica studia ciò che è esterno. L’individuo che indaga la società e la suastoria e che cerca di comprenderla è anch’esso parte in causa, da un lato ogget-to e punto di incrocio di una molteplicità di azioni sociali e dall’altro egli stessosoggetto storico, agente volontario, fattore causale: “colui che indaga la storia è lo

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stesso che fa la storia”, afferma Wilhelm Dilthey (1833-1911) riprendendo unconcetto vichiano. Ma conosce ciò che ha prodotto solo da un punto di vista,senza averne una conoscenza onnilaterale. La realtà delle scienze dello spirito ècostituita da soggetti individuali. Tali scienze sono, quindi, scienze dell’individua-le. Loro oggetto è l’io, la sua Erlebnis, cioè la sua esperienza vissuta.

Pur con la sua connotazione anti-positivistica, anche Dilthey, come i Positivisti,ritiene che compito delle scienze (e delle stesse scienze dello spirito) sia giungerealla conoscenza delle leggi che regolano e connettono il mondo morale, evitandoqualsiasi “metafisica della società e della storia”. Proprio per evitare tale metafisi-ca, egli distingue nettamente il metodo aprioristico, metafisico, di Hegel da quel-lo delle scienze dello spirito, che è metodo concreto, ispirantesi al modello dellapsicologia, che è analitico e descrittivo. Tale scienza è il fondamento delle scienzedello spirito, poiché offre un metodo che ci porta dentro il vissuto storico.

L’universo come campo di possibilità per l’azione umana

Il Pragmatismo, che attribuisce al sapere scientifico una funzione essenzial-mente pratica, come produttore di schemi utili per l’esperienza, sembrerebbeorientato ad un atteggiamento anti-metafisico ma le posizioni espresse sono piùsfumate e articolate.

Tale vuole essere, ad esempio, l’orientamento di Charles Sanders Peirce (1839-1914). Egli ha fiducia nella scienza, non nella metafisica. Questa o è un “borbottìosenza significato” o è “totalmente assurda”; inoltre alimenta le divisioni fra gliuomini e non è in grado di orientare efficacemente la loro condotta. La scienza èinvece un modello di indagine razionale, aperto e perfettibile, mirante a realizza-re conoscenze certe e utili e, solo in tal senso, “definitive”. Solo al suo modellodeve richiamarsi la filosofia che, spazzati via come inutili e dannosi i “rifiuti” dellametafisica, deve concentrarsi su problemi suscettibili di controllo e verifica.

Malgrado ciò, anche Peirce ha elaborato una “metafisica ipotetica” (così chia-mata perché si basa su ipotesi esplicative), centrata sul caso, su un’idea di conti-nuità di spirito e materia e sulla persuasione che l’amore costituisca una forzaevolutiva dell’universo. Tale “metafisica” è fondata sul realismo e, dunque, sulrifiuto di ogni idealismo, anche se su di essa vi è stata un’influenza della filosofiadella natura di Schelling.

Più esplicito è l’orientamento di William James (1842-1910) a favore dellametafisica. Non viviamo in una realtà unica, “oggettiva” e compatta. L’universostesso viene descritto come un campo di possibilità, una pluralità di direzioni pos-sibili che può prendere l’azione umana. Ognuno di noi è un mondo di mondi:non esiste alcun “io” in senso proprio, che sia cioè sempre identico a se stesso.Ognuno di questi mondi è irriducibile agli altri, avendo suoi criteri di ordine erilevanza e anche “tempi” diversi. L’universo è per James un multiverso, cioè unsistema aperto e perfettibile, le cui prospettive e i cui destini sono “sospesi ad unse”. In esso l’uomo opera sulla base della credenza, o volontà di credere, che ri-guarda tutto ciò che non è verificabile e si lega strettamente alla possibilità del-l’uomo di realizzarsi nel mondo. L’uomo può compiere anche scelte di tipo meta-fisico, se queste sono considerate utili o necessarie ad un’azione efficace nelmondo. Tale scelta è legittima, perché la credenza è capace di provocare la suastessa conferma: “la fede in qualcosa può contribuire a crearla”, la vita acquistavalore e senso per chi crede che essa lo abbia. Il futuro può avere un carattere dipositività se noi vogliamo che l’abbia. La fede può diventare creatrice di bontà.

Si presenta invece più problematico l’atteggiamento di John Dewey (1859-1952) di fronte alla metafisica. Il suo pragmatismo strumentalista si fonda su unateoria dell’esperienza incentrata sulla relazione dinamica uomo-ambiente,mutuata dal Positivismo. Dall’Hegelismo Dewey ha tratto l’idea del divenire e diuna realtà non interpretata in senso meccanicistico, ma concepita come una tota-lità nella quale le parti risultano l’un l’altra organicamente connesse. La cono-scenza si manifesta come forma di controllo del rapporto uomo-ambiente, guar-da quindi al risultato, all’efficacia di una data ipotesi, di un dato progetto di inter-vento. Le idee sono solo gli strumenti che l’uomo – nella sua esistenza precaria –usa per affrontare e risolvere i problemi che incontra. Il senso e il valore di veritàdi un’idea, di una proposizione, risiedono in questo, nient’altro che in questo.

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Nell’esperienza umana entrano i desideri e le passioni e non solo le idee. Adimostrarlo, c’è il peso che nell’esperienza dell’umanità hanno, ad esempio, lafollia, l’ignoranza e la morte. E c’è il peso che ha avuto la metafisica.

La riduzione fenomenologica della realtà

Diverso è l’orientamento che muove la fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938), basato sulla rivendicazione di una filosofia come scienza rigorosa, con laquale intervenire sulla crisi ideale e culturale dell’Europa e su quella delle scienzeeuropee, divenute così pervasive eppure incapaci di dare senso alla realtà e al lorostesso sviluppo. In un’epoca nella quale ci si sente sempre più “in balìa del desti-no”, la scienza sfugge ai problemi del senso o non-senso dell’esistenza umana.

La fenomenologia si muove contro la “superstizione del fatto” che ha caratte-rizzato il Positivismo e lo Scientismo e critica la metafisica occulta, surrettizia,presente nel “naturalismo” e nei concetti-base della scienza positivistica. Questaaveva identificato la scienza con il sapere matematico-naturalistico, che, per volerridurre tutto a processi misurabili e quantificabili, era giunto a considerare comeuna cosa anche la coscienza.

La fenomenologia, invece, intende tornare alla coscienza come luogo nel qualeogni realtà ed aspetto dell’esperienza assume un significato.

La sottolineatura del carattere originario, irriducibile, della coscienza e del valo-re della soggettività umana diviene più evidente negli ultimi anni di vita e dimeditazione di Husserl e, per diversi studiosi, avvicina le sue posizioni a quelledell’Idealismo, ad uno “spiritualismo trascendentale” che si richiama a Leibniz,prima ancora che a Cartesio.

Problematica e complessa si presenta ogni prospettiva di trascendenza dellacoscienza in direzione di altro da essa, come nel caso del problema di Dio, di cuinon si esclude in linea di principio una possibilità di ricerca. Ma, come ha affer-mato criticamente una sua allieva ebrea, poi convertita al Cattolicesimo e mortanei lager nazisti, Edith Stein (1891-1942), proprio per l’impianto della fenome-nologia, che riporta tutto alla coscienza, l’intelletto “non troverà mai un puntofermo” e relativizzerà tutto, anche Dio stesso.

Di fronte all’impostazione “idealistica” di Husserl (che aveva chiamato il suopensiero “Idealismo trascendentale”), diversa e di tipo marcatamente realistico èl’impostazione di Nicolai Hartmann (1882-1950). Egli guarda soprattutto allarealtà dell’oggetto della conoscenza, che si colloca al di là della relazione sog-getto-oggetto. Compito della filosofia è non solo individuare la sfera dell’essere insé, cioè dell’essere irriducibile al pensiero, ma anche di avvicinarsi il più possibi-le ad esso, per definirne le strutture essenziali e la costituzione mediante un’onto-logia critica.

Critica della metafisica occidentale e nuova ricerca del senso dell’essere

Altrettanto complesso e problematico è il raffronto fra le varie filosofie dell’esi-stenza del Novecento e la ricerca metafisica.

Martin Heidegger (1889-1976) riprende il programma husserliano di ridaresenso e valore ai saperi rompendo l’“oggettivismo” naturalistico della scienza edell’ideologia positivistica. Ma non riconduce i saperi all’assoluta soggettivitàdella coscienza. Le scienze si pongono la questione di questa o quella “regione”dell’essere. La filosofia dell’esistenza s’interroga invece sull’essere in generale: è“ontologia”. Soprattutto, essa si interroga sul senso dell’essere per quel particola-re “ente che proprio noi, gli interroganti, siamo sempre”, per l’Esser-ci.

Per Heidegger la razionalità occidentale si è identificata con la razionalità scien-tifica e tecnica. Su questa razionalità si è venuto costruendo il dominio mondialeeuropeo-moderno. È una razionalità occupata a costruire un mondo fondato sulnumero, l’organizzazione, la pianificazione, l’efficienza produttiva. La sua, più cheessere critica della scienza e della tecnica, è critica della loro pretesa di porsi comel’unico pensiero ritenuto valido: il pensiero calcolante, proprio di un soggetto cal-colatore: un pensiero che calcola e pianifica, pensiero ordinante e organizzante,pensiero di una tecnica che manipola le cose e che domina e sfrutta la Terra.

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Le radici della crisi dell’Occidente vanno ritrovate alle fonti della razionalitàoccidentale, alle origini della metafisica. Con la ricostruzione della storia dellametafisica non viene posta solo una questione di ordine culturale. In ogni meta-fisica, infatti, una civiltà o una società delinea una specie di “pre-comprensione”,di visione del mondo collettiva, vincolante, nella quale una civiltà o una societàsi riconosce e nella quale situa e interpreta quello che avviene, tutto ciò che acca-de – o può accadere – nel mondo.

Heidegger riprende la rilettura critica di Nietzsche della storia della razionalitàoccidentale, da Socrate fino al Positivismo, e individua in Platone l’origine dellametafisica e un punto di svolta nella concezione della verità. Se fino a lui si eraconsiderata la verità come disvelamento dell’essente stesso, quasi un’autorivela-zione dell’essere, ora, con la dottrina delle Idee, che è una dottrina della “visio-ne”, l’uomo è colui che vede e l’idea è il veduto: la verità non è più un disvela-mento dell’essente, ma è l’esattezza dello sguardo, cioè un modo d’essere del-l’uomo nei confronti dell’essente.

Da lì ha preso le mosse la concezione di un soggetto, l’uomo, che produce ecostruisce l’immagine del mondo, anzi riduce il mondo a tale immagine. Ma alfondo di questa concezione sta il difetto originario della metafisica, che ha scam-biato l’essere con l’ente. Ha cioè ridotto l’essere agli enti, alle “cose”. Più cheuna metafisica, è stata ed è una fisica, che ha concepito l’essere come pura “pre-senza”.

In questo spostamento d’asse sta l’origine della malattia della metafisica. In etàmoderna questa impostazione platonica diverrà, da Cartesio in poi, centralità delsoggetto conoscente, darà luogo alla razionalità della scienza e della tecnica. Inquesta storia ad essere dimenticati, occultati, sono stati proprio l’essere e la suaverità come disvelamento. Tutto il periodo della metafisica è il lungo periodo del-l’oblio dell’essere.

Si comprende quindi perché – per Heidegger – sia fondamentale tornare a porsiil problema dell’essere e del senso dell’essere, che è poi il problema del senso edella attuale mancanza di senso della realtà umana. Cercare il “senso dell’esse-re” significa aprirsi di nuovo all’essere, alla ricerca del “senso dell’essere”, dispor-si all’ascolto dell’essere.

Bisogna dare spazio a un pensiero rammemorante, non razionale, un pensierodisposto a cercare, ad aprirsi alla verità, nel linguaggio e nella poesia. Heideggeraffida a un linguaggio fortemente metaforico e innovativo il compito di vincere ledifficoltà, di oltrepassare la metafisica e di rintracciare l’essere. La verità, comenella radura di un bosco, mostra l’apertura alla luminosità, al chiarore crescentedella luce, ma anche convive e si alterna con l’oscurità.

Metafisiche dell’esistenza

In Karl Jaspers (1883-1969) la ricerca esistenziale e sul senso dell’essere si aprealla trascendenza e alla fede. Il compito della filosofia è quello della chiarifica-zione dell’esistenza. Anche per Jaspers esistere vuol dire esistere nel mondo eorientarsi nel mondo significa cercare l’essere, rispondere all’interrogativo sulsenso dell’essere.

I limiti della nostra ricerca sono due: da un lato il fatto, il contesto dato in cuisin dall’inizio veniamo a trovarci e che non è prodotto da noi; dall’altro la tra-scendenza, ciò che si colloca oltre l’orizzonte in cui ci troviamo.

Se il filosofare trova la sua ragion d’essere nel cercare la risposta alla doman-da “che cos’è l’essere?” questa ricerca conduce sempre a un fallimento. Nellaricerca senza sosta che compio non giungo mai all’essere, ma sempre ad unessere. L’essere non mi si presenta né come concetto che sotto di sé racchiudaogni essere, né come totalità interiore di cui la molteplicità degli esseri sia mani-festazione, né tantomeno, dice Jaspers, come un essere specifico che sia l’origi-ne del tutto. Tutte le metafisiche tradizionali sono negate come impossibili inlinea di principio.

Anche la ricerca filosofica sembra quindi condurre al fallimento. Avvertendoil distacco dall’essere, provando la ferita e il dolore per la mancanza dell’esse-re, avvertiamo e proviamo il naufragio, lo scacco della nostra esistenza: “Sepretendo di cogliere l’essere in quanto essere sono irrimediabilmente votato alnaufragio”.

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In tal modo sembra affermarsi un dissidio insanabile fra ragione filosofica ed esi-stenza. Se è vero che la ragione senza l’esistenza è vuota e che l’esistenza senzala ragione è cieca (afferma Jaspers parafrasando Kant), è anche vero che la ragionee l’esistenza non riescono mai a rapportarsi completamente, non si incontrano enon si compenetrano mai del tutto fra loro.

Ma proprio qui, nello scacco e nel naufragio a cui porta la ricerca dell’essere,nella presa di coscienza dell’irriducibile finitezza umana e dell’impossibilità direalizzarci attraverso l’essere, si verifica il manifestarsi della trascendenza, avvie-ne l’apertura dell’esistenza alla trascendenza dell’essere.

Nella ricerca filosofica fa il suo ingresso la metafisica, come chiarificazionedelle vie che conducono verso la trascendenza. L’esistenza va verso l’assoluto,come ciò che è al di là e che, come tale, è inafferrabile. Quello che viene rico-nosciuto come il limite costitutivo dell’esistenza, cioè l’irriducibile finitezza dellacondizione umana, diviene esso stesso il luogo della trascendenza, è cioè annun-cio dell’essere, inserimento della trascendenza entro l’esistenza come sua dimen-sione ineliminabile.

Ma l’essere, di fronte alla nostra volontà di afferrarlo, sembra comportarsi comechi lascia solo dei resti, delle tracce, nelle forme degli oggetti. L’annuncio del-l’essere, scrive Jaspers, avviene nella forma della cifra, del simbolo, da partedell’Uno (cioè di Dio). La “cifra” è il modo di parlare di ciò che resta “invisibile”.Un modo di parlare allusivo, un “detto” che continuamente rinvia al “non detto”,a ciò che resta al di là e che è “alterità” e “differenza” assoluta.

Hanno particolarmente questa caratteristica di cifra le situazioni-limite, nellequali l’individuo avverte di trovarsi come di fronte a un muro, situazioni necessi-tanti, che si presentano come scelte obbligate e nelle quali si evidenziaquell’impossibilità dell’esistere, di un esistere “autentico”. Situazioni di cui non èmai possibile cogliere il senso ultimo, ma che ci permettono – proprio per la loroproblematicità e drammaticità – di avvertire la presenza dell’essere, della tra-scendenza.

Non si può parlare di presenza di temi metafisici nella filosofia di Jean-PaulSartre (1905-1980), centrata sulla coscienza. Sartre ripete con Cartesio che all’i-nizio non vi può essere altra verità che quella espressa dal penso dunque sono,la soggettività umana individuale. La sua filosofia si può considerare, dunque, insenso lato, una “metafisica dell’esistenza”, intendendo con ciò mettere in rilievouna descrizione della condizione esistenziale dell’individuo come condizione diun essere che è nel mondo. Da Husserl Sartre riprende la tesi dell’intenzionalità,affermando che ogni coscienza è, nello stesso tempo, “posizione di un oggettoche la trascende”.

Ma quella che egli descrive è una condizione di scissione della coscienza. Lacoscienza, infatti, da un lato è proiezione di sé nel mondo, è coscienza di qual-cosa, quindi è un essere-nel-mondo. Dall’altro, in quanto immaginazione, è pro-duzione di irrealtà, è distacco dal mondo, è libertà, ma come nullificazione delmondo. Attraverso la coscienza il nulla viene immesso nel mondo. Da un lato lecose, dall’altro la negazione delle cose: questo è l’essere ed insieme il nulla entrocui circola l’esistenza. Da un lato c’è un’esistenza gettata nel mondo, fra le cose:è quello che Sartre chiama l’essere-in-sé, l’essere cosa fra cose. Dall’altro c’è l’es-sere-per-sé, cioè il distacco dalla realtà, la nullificazione della realtà e dellacoscienza stessa.

Neotomismo e metafisica cristiana

In campo cattolico, proprio nel Novecento, con la corrente di pensiero dellaNeoscolastica si è cercato di riaffermare il valore del pensiero tomista e, dunque,anche il valore della metafisica, come risposta sul piano filosofico a un processodi secolarizzazione, che ha trovato nel pensiero dell’Ottocento e del Novecentoun potente veicolo di elaborazione e di trasmissione.

Temi centrali del Neotomismo sono: la riaffermazione della metafisica aristote-lico-tomista, il realismo gnoseologico, la critica della filosofia moderna e del sog-gettivismo, in particolar modo dell’Idealismo, ma tutto con connotati ed aspettinuovi, generati proprio dal confronto con le teorie e con i problemi della filoso-fia contemporanea.

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Tra i suoi intenti più ambiziosi, vi è quello di riproporre e riaffermare le ragionie le possibilità della metafisica, come discorso intorno all’essere, secondo la tra-dizione aristotelico-tomistica e come discorso che consente di parlare razional-mente di Dio, dimostrandone l’esistenza e, attraverso l’analogia, alcuni caratteri.

Jacques Maritain (1882-1973), ad esempio, riconosce a Tommaso il merito diavere fondato l’autonomia della filosofia dalla teologia mediante quel principio dianalogia (cioè di somiglianza fra i diversi esseri) che permetteva di affermare l’u-nità del tutto senza confondere l’essere di Dio e l’essere delle creature. Con quelmodello analogico Maritain intende superare il duplice riduzionismo operato dalPositivismo e dall’Idealismo (la riduzione dello spirito alla materia nel primo casoe della materia allo spirito nel secondo) e afferma una prospettiva di umanesimointegrale, di pieno riconoscimento sia naturale che sovrannaturale dell’uomo.

Emmanuel Mounier (1905-1950) afferma, invece, il personalismo, cioè la cen-tralità del principio ontologico della persona, con una specifica connotazionesociale, comunitaria, che lo differenzia da quello della tradizione esistenzialisti-co-religiosa e con cui egli prende le distanze sia dall’individualismo che dal col-lettivismo. Per Mounier la persona si basa su tre dimensioni fondamentali: lavocazione, l’incarnazione, la comunione. Nel primo caso essa “medita” sul suoposto e sui suoi doveri nella comunione universale. Nel secondo essa “si ricono-sce” nella sua concreta determinazione storica e “si impegna” dando testimo-nianza di sé. Nel terzo essa realizza la “rinuncia a se stessi, che è iniziazione aldono di sé e alla vita in altri”.

Gustavo Bontadini (1903-1990) ha riproposto la centralità del pensiero metafi-sico classico – cioè della teoria dell’essere – attraverso un’indagine critica com-piuta all’interno della gnoseologia moderna e contemporanea. Tale gnoseologia ècaratterizzata dal dualismo gnoseologico, cioè da un’alterità fra gli ordini del pen-siero e della realtà esterna. Per superare tale dualismo occorre comprendere chel’esperienza ha una struttura globale, non riducibile alle forme soggettivistico-tra-scendentali e all’empirismo. L’esperienza è divenire, quindi è caratterizzata dalprincipio di contraddizione, mentre il principio logico della non contraddizioneinterviene sul non-essere dell’esperienza mediante l’esigenza insopprimibile del-l’essere, non più contraddetto dall’atto creativo dell’Essere-Dio.

Altri – in campo sia cattolico che protestante – utilizzeranno la critica diNietzsche e di altri “maestri del sospetto” (come Marx e Freud) per individuareterreni nuovi in cui recuperare il senso della trascendenza, della tensione costitu-tiva dell’esistenza umana verso l’essere, verso Dio, in una società che si ricono-sce essere ormai secolarizzata, “senza Dio”, dominata da interessi, idee e poten-ze terrene. Riaffermeranno così – in molteplici forme di pensiero e di ricerca filo-sofica e teologica – la legittimità e la dignità di una filosofia cristiana che rappre-senta una parte essenziale – anche se spesso rimossa – della tradizione filosoficaoccidentale.

Particolare importanza – nel filone del cosiddetto esistenzialismo cristiano – hala riflessione di Gabriel Marcel (1889-1973). Egli pone al centro della riflessionel’io, cioè, concretamente, la mia effettiva esistenza, e coglie due tendenze essen-ziali del vivere: l’avere e l’essere. Con la prima tendiamo alle cose, cerchiamo dirapportarci intellettualmente e praticamente ad esse per controllarle, possederle emanipolarle, ma in realtà ne siamo posseduti e manipolati, siamo cose fra cose.Con la seconda tendiamo a noi stessi, alla nostra interiorità, e cogliamo quell’in-sopprimibile originalità e creatività che caratterizza l’essere della coscienza.Mentre la sfera dell’esteriorità è quella del dato, dell’apparire delle cose, la sferadell’interiorità è quella del mistero, il mistero dell’essere divino che ha radici innoi stessi, nella nostra intimità più profonda. E questa è la sfida più alta che lanostra esistenza debba affrontare.

Altrettanto significativa è la riflessione di Maurice Blondel (1861-1949). Essanasce da una domanda di senso (dal chiedersi cioè se la vita umana abbia signi-ficato) e si conclude con il riconoscimento della religione cristiana come la rispo-sta più adeguata a quella domanda. La sua è una filosofia dell’azione, perché èquesta – e non il pensiero – a costituire il dato centrale dell’esperienza umana,segnata dal permanente contrasto fra la volontà e quello che essa riesce a realiz-zare. Questa contraddizione, l’insoddisfazione che essa continuamente genera,alimenta nell’uomo una domanda di senso che trova la sua risposta solo nel rico-noscimento della trascendenza, nell’esistenza di Dio.

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Il rifiuto neopositivista degli “enigmi” della metafisica

A differenza di molte posizioni di pensiero con le quali o si riafferma la neces-sità della metafisica o comunque – pur respingendo la metafisica “classica”, con-siderata ormai superata in base alla metafora nietzschiana della “morte di Dio” –si cercano vie nuove per recuperare un “senso dell’essere”, dal Neopositivismovengono seccamente respinti gli “enigmi” e le “oscurità impenetrabili” dellametafisica, il non-senso di questioni che si rivelano improponibili perché inveri-ficabili. Quegli enigmi vengono considerati come problemi “privi di senso” nonsolo perché non suscettibili di una verifica empirico-sperimentale, ma anche per-ché mal posti sul piano logico-linguistico.

Si contrappongono così – a quelle metafisiche – le proposizioni della scienza,che non rinviano a un’“essenza”, a un “al di là” del dato. Il nucleo costitutivodella filosofia e delle scienze è il linguaggio. La filosofia, anzi, s’identifica conuna “critica del linguaggio”.

La metafisica – anche la metafisica “realista” – viene esclusa dall’immaginescientifica del mondo perché costruita su termini privi di significato, oppure orga-nizzati in un sistema logico-concettuale non rigoroso. Rudolf Carnap (1891-1970), ad esempio, a proposito del nulla heideggeriano, afferma che esso costi-tuisce un esempio di uso metafisico del linguaggio: “nulla” è un termine cheviene trattato come se fosse una realtà, inserito in proposizioni del tutto inverifi-cabili e, dunque, destituite di senso, o meglio, prive di significato conoscitivo, névere né false, ma dotate solo di significato emotivo o estetico.

La metafisica non è scienza, ma “poesia”. Eppure, malgrado la severa criticaformulata nei confronti dei diversi sistemi di pensiero, anche il Neopositivismoha una sua “concezione del mondo”, sia pure di tipo scientifico, cioè costruisceproposizioni la cui verità non è verificabile e questo gli verrà ripetutamenteimputato.

Anche per Ludwig Wittgenstein (1889-1951) gran parte dei problemi tradizio-nali della filosofia sono da scartare perché non riguardano né il campo dell’espe-rienza né quello del linguaggio formale e perciò non possono essere raffiguratiadeguatamente (“Il pensiero è una proposizione dotata di senso”). Sono quindiprivi di senso, tali da portare a pseudo-proposizioni che mancano della necessa-ria connessione con l’esperienza oppure sono privi del rigore logico-formale. Adesempio, sono pseudo-proposizioni quelle che parlano del mondo come una“totalità”, poiché questa non è un “fatto” accertabile.

Ciò non significa, comunque, che i problemi che la filosofia pone siano da sot-tovalutare: si tratta, infatti, di problemi “vitali”. Essi, però, non sono trattabili coni metodi propri del sapere scientifico, quindi sfuggono a ogni possibilità di anali-si e di riflessione rigorose e corrette

Alla filosofia spetta un compito di grande importanza: quello di chiarificazionelinguistico-concettuale. Essa deve chiarire il significato delle proposizioni, quindideve tracciare i limiti del pensiero, individuando i confini tra ciò che è pensabilee dicibile e ciò che non lo è, sulla base dei requisiti logici che deve avere ogniuso significante del linguaggio. Essa è quindi un’attività, non un sistema teorico.

Wittgenstein afferma che “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere ”. Solosuperando le proposizioni della metafisica si vede rettamente il mondo: il lin-guaggio viene usato per esprimere la proibizione ad entrare nel mondo dellametafisica.

Ma così si condannavano al silenzio aspetti fondamentali e decisivi dell’espe-rienza umana, lasciati al discorso privo di senso della filosofia, intesa in senso tra-dizionale. Sono quindi possibili almeno due interpretazioni. La prima è cheWittgenstein abbia riproposto la tesi kantiana dell’impossibilità della metafisicacome scienza : è una tesi che ha avuto profonda influenza sul nascente movi-mento neopositivista. La seconda è che per Wittgenstein contasse proprio ciò dicui “bisogna tacere”, poiché si colloca al di là di ciò che può essere detto con pro-posizioni atomiche e molecolari.

Con la seconda fase della sua riflessione – cioè con la teoria del giochi lingui-stici – non riferendosi più a realtà “ultime”, ad “essenze”, i linguaggi della filoso-fia e delle scienze perdono qualsiasi connotazione ontologica. Dipendono uni-camente dalle loro regole d’uso. La filosofia diventa una specie di terapia: re-

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stituendo le parole dal loro uso metafisico all’uso effettivo che di esse si fa nellavita quotidiana, essa permette di scoprire i non-sensi in cui spesso cadiamo quan-do adoperiamo, appunto, le parole, al di fuori del loro contesto d’uso.

Morte della metafisica?

Si deve concludere che il Novecento, che esprime in vari ambiti filosofici posi-zioni molto articolate e sfumate, abbia raggiunto la certezza che vi è almeno undiscorso, quello metafisico, che, con il consenso pressoché generale, salvo alcu-ne frange, sia da considerare privo di fondamento e di senso e perciò da esclu-dere definitivamente dall’ambito della filosofia?

Per non pochi filosofi contemporanei la risposta sarebbe questa, anche se varia-mente motivata. Ma qua e là è possibile rintracciare posizioni diverse, che sonochiaramente avvertibili o che si possono intravedere, forse, anche là dove sareb-be difficile attenderselo.

Così la filosofia analitica, erede del secondo Wittgenstein, analizzando il lin-guaggio ordinario, riconosce che anche quello della metafisica può avere senso enon si limita a questo, perché al suo interno vengono elaborate opere di metafi-sica, intesa come descrizione filosofica della realtà, ontologia degli oggetti o de-gli eventi. Anche Karl Raimund Popper (1902-1994), che dal principio di verifi-cazione, proprio del Neopositivismo, passa a quello di falsificazione, riconosceuna funzione positiva alla metafisica, come anticipatrice di concezioni e visioni,intuitive e non falsificabili, che successivamente la scienza tradurrebbe in unaforma rigorosa.

Ma è lo stesso Heidegger, o l’Heideggerismo, che ha dato una spinta al ripen-samento della metafisica. Per un verso Heidegger afferma che siamo entrati inun’epoca “post-metafisica”, perché la storia della metafisica si è chiusa e ritienenecessario criticare la metafisica, soprattutto quella greca, di cui il mondo dellatecnica sarebbe l’inveramento e la realizzazione; ma per altro verso il suo supe-ramento, che è un “attraversamento” della metafisica, ha avviato una nuovaepoca di riconsiderazione della storia della metafisica, di cui anche la ermeneu-tica, soprattutto quella di derivazione heideggeriana, è un esempio e un sintomo.Quello che è stato chiamato il riflusso verso la metafisica passa proprio daHeidegger, che della metafisica critica non l’oggetto, ma il linguaggio, la pretesadi parlare dell’essere come fa la scienza. La dimensione e la categoria della tota-lità è presente ancora in lui e la sua riscoperta e riproposizione della filosofiagreca presocratica, di autori come Anassimandro, Eraclito e Parmenide non sonoforse la riproposizione – dal punto di vista del “pensiero rammemorante” dellametafisica – di una metafisica diversa, ma che cerca la via verso la dimensionenascosta della realtà, dell’essere da intravedere, da svelare?

Si è detto che paradossalmente anche il testo di Jürgen Habermas (1929) sulpensiero post-metafisico che contiene una critica alla metafisica dell’età moder-na, da Cartesio a Hegel (accusata di essere caratterizzata dal pensiero della tota-lità, dell’assolutezza, della teoria, come attività contemplativa, tutti aspetti inac-cettabili per il pensiero contemporaneo), ha risvegliato l’attenzione per la metafi-sica e suscitato posizioni contrarie a quella di Habermas. Oltretutto alcuni hannodetto che la critica di Habermas colpisce solo una metafisica neoplatonizzante oidealistica.

Ma una positiva riproposizione della metafisica avviene in Francia e in Italiaspesso muovendo da una prospettiva cristiana o influenzata dal Cristianesimo. ÈAristotele che viene riconsiderato e il suo discorso intorno all’essere. In Italia èEnrico Berti (1935) che ripropone – da una prospettiva aristotelica e tomista – unametafisica problematica e dialettica, che muova dal mondo dell’esperienza per“vedere se, per caso, esso non abbia bisogno di Dio per essere spiegato, per esse-re reso completamente intellegibile, o comunque per avere un senso”.

Giovanni Reale (1931) ripropone invece la tradizione platonica come pensierometafisico che contiene un messaggio per gli uomini di tutte le epoche, essendoorientato verso l’affermazione di un principio trascendente, che renda ragione delmondo sensibile. Platone sarebbe il capostipite di una “metafisica dello spirito” acui si può facilmente collegare la prospettiva cristiana.

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Recentemente anche Umberto Eco (1932) ha aperto l’ultima sua opera (Kant el’ornitorinco ) con un saggio dedicato al problema dell’essere, nel quale riconosceche l’essere è indefinibile, ma che vi è comunque uno “zoccolo duro dell’esse-re”, cioè delle linee di resistenza dell’essere, con cui dobbiamo fare i conti e chesono dei limiti “oggettivi” per la nostra possibilità di fare affermazioni sull’essere(ci sono delle cose che non si possono dire). Ma “dire perché l’essere”, che è ladomanda della metafisica, significa cercare una risposta che rinvia ai sintomi, alletracce, agli indizi, ai “brevi cenni” che l’essere ci fa, quando “ci lascia capire chec’è una promessa da capire [...]. E ci consegna così all’avventura infinita dellacongettura”.

Una posizione forte e isolata è, invece, quella dell’affermazione della necessitàdi ritornare ad una ontologia di tipo parmenideo (Ritornare a Parmenide) da partedi Emanuele Severino (1929). La storia dell’Occidente è la storia di un’alienazio-ne originaria nichilista, che nasce dall’accettazione della realtà del divenire e,quindi, dalla persuasione che “l’essere sia niente”. Occorre riproporre con forzail principio dell’impossibilità che “l’essere non sia”, per smascherare una civiltà euna cultura che ha trasformato la metafisica in un progetto razionale di potenzae di dominio.

Ma spunti e prese di posizione non possono cancellare un diffuso discredito perla metafisica, il rifiuto per una prospettiva di pensiero che pretenda di attingereuna dimensione di trascendenza e di assolutezza, di cogliere l’essenza riposta, larealtà ultima del mondo e delle cose, rifiuto forte di un pensiero che ha vivissimoil senso del limite e dell’incertezza come dati costitutivi del sapere umano. Forsese uno dei problemi su cui la filosofia oggi si interroga è quello del conferimentodi senso a ciò che gli uomini fanno e alla situazione in cui vivono, si può capireche qualcosa a cui si dà il nome di “metafisica”, ma che ha caratteri ben diversida ciò che lungamente si è inteso con questo termine, possa significare il bisognodi elaborare “visioni del mondo” molteplici, problematiche e aperte, senza pre-tesa di assolutezza e di padronanza della Verità.

Gio Pomodoro, La folla, 1967. Milano, Studio Marconi.

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L’ETICA

Che cosa è l’etica

Etica (dal greco éthos, che significa “comportamento”, “costume”) è la parte della filosofia che ha peroggetto il bene, il quale deve determinare la condotta umana.

■ Molteplici sono le definizioni e i significati che le sono stati attribuiti, non riconducibili ad unnucleo di significati comuni. Spesso viene usato come sinonimo di morale. In alcuni casi la si intendecome scienza descrittiva che studia i comportamenti degli uomini. Ma prevalente è la definizione di stu-dio dei criteri e dei princìpi che orientano, o dovrebbero guidare, la condotta e in base ai quali sonoformulati i giudizi di valutazione relativi al bene e al male.

Si può chiamare l’etica anche “filosofia della morale”. Diversi pensatori tendono però a distinguere ilpiano dell’eticità, cioè dell’insieme dei valori che si sono affermati in una società storicamente deter-minata, da quello della moralità, che invece attiene alla riflessione tesa a determinare che cosa sia benee che cosa male.

■ Nella storia del pensiero sono state date definizioni della moralità fra loro diverse, perché diversisono stati i criteri e i princìpi in base ai quali valutare come moralmente giustificabile (cioè “buono”)un determinato tipo di scelta e di condotta.

■ Una determinata etica si riferisce a particolari princìpi o valori, cioè oggetti delle scelte morali. Iltermine “valore” è stato usato in particolare nel XIX secolo, volendo intendere con esso ciò che siapprezza, che si approva, che si preferisce nelle scelte individuali. Si è potuto dire che nell’etica con-temporanea il tema dei valori è parso occupare lo spazio della morale.

Ai valori si richiama un tipo particolare di giudizio, chiamato giudizio di valore, in cui quel principioviene applicato come criterio per valutare se una data azione sia “buona” o meno. Ma quando ci chie-diamo che cosa siano questi giudizi di valore, la risposta non è semplice: possono essere consideraticome giudizi conoscitivi, nei quali viene definito appunto ciò che è bene e ciò che è male, in base acriteri che si ritengono in qualche misura “razionali”, oppure giudizi valutativi, che non tendono tantoa definire quanto a valutare se ciò che è stato fatto (o si vuole fare) sia bene o male, e possono dipen-dere anche da ciò che non è ragione, ma, ad esempio, “sentimento” del bene o del male.

■ Nella storia del pensiero morale si ha un’oscillazione di posizioni. Queste vanno dalla convinzio-ne che esistano valori assoluti a quella, opposta, della relatività di tutti i valori: si va cioè dalla tesi cheesistano princìpi eterni e immutabili, sui quali si deve fondare la condotta ed ai quali essa si deve richia-mare, a quella che i valori siano diversi a seconda dei contesti di civiltà in cui hanno origine e da cuidipendono, oppure derivino da opzioni diverse, da orientamenti diversi che si affermano fra individui egruppi sociali all’interno della stessa civiltà. Sia pure schematizzando, si potrebbe parlare di un’eticadella certezza (o delle certezze) e di un’etica dell’incertezza.

■ Possono esservi inoltre etiche intellettualistiche, poggianti su giudizi conoscitivi, ed etiche volon-taristiche, nelle quali il primato spetta non all’intelletto, ma alla volontà, o comunque a forme di cer-tezza dipendenti dalla fede, dal sentimento, da emozioni, ecc.

■ Kant ha riassunto il senso del problema morale con la domanda che cosa devo fare? Altri con l’in-terrogativo che cosa è bene? (a cui corrisponde il suo simmetrico opposto, che cosa è male?). In questocaso, evidentemente, il bene viene considerato come il fine della condotta, cioè come un principio acui fare riferimento come regola del proprio agire pratico.

68L’ETICA

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

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69L’ETICA

■ Ma l’etica può anche non pro-porsi di definire i fini a cui l’azionedeve tendere e i mezzi necessari allaloro realizzazione: può porsi, invece, ilcompito di individuare i motivi che spin-gono il soggetto umano ad agire. Nel primocaso si sottolinea il carattere normativo, cioè pre-scrittivo, dell’etica, legato a comandi e a valori, nel secondo quello descrittivo, rivelatore appunto deimoventi dell’azione. Vi sono, ad esempio, motivi

a. di pura sopravvivenza, che spingono gli individui a compiere le loro scelte;b. che guardano al piacere che da una certa azione può derivare;c. di calcolo utilitario, che rendono una data azione preferibile ad altre;d. dettati dalla coscienza e dalla convinzione che solo un dato tipo di condotta sia razionale, si leghi

cioè ad un aspetto (la razionalità) che è ritenuto costitutivo della stessa natura umana.

Le domande dell’etica

Vastissimo è il campo degli interrogativi etici. Possiamo ricondurlo comunque ad alcuni problemi-chiave, su cui ha ruotato buona parte della riflessione morale.

■ Ci si è chiesti, ad esempio: qual è il fondamento su cui poggiano i princìpi morali, la fonte da cuiscaturiscono, ciò che ne garantisce la legittimità? è la volontà divina? è la consuetudine, cioè sono leforme assunte dal costume, dagli usi e dalle abitudini di ciascun popolo nel corso della sua storia? o èla natura umana, il fatto che l’uomo sia un “animale razionale”?

■ Che cosa permette di considerare buona un’azione: il fatto che essa abbia buon esito, quindi risul-ti utile? e che cos’è davvero “utile”: il conseguimento di un risultato legato al proprio interesse perso-nale oppure di un risultato conforme agli interessi della comunità di cui si è parte o a quelli dell’“uma-nità” in generale?

■ Ma c’è di più: cosa conta maggiormente in un giudizio morale, il compimento di un’azione (il fattoche essa abbia realmente portato a risultati positivi) oppure che, qualunque sia stato il suo esito, siarisultata buona soprattutto l’intenzione che l’ha ispirata e guidata?

■ Vi è, infine, la questione della felicità, dello stretto legame fra il “bene” (e la “virtù” dell’individuoche bene opera) e la felicità. Anzi, per molti secoli (o comunque nella filosofia antica) il bene è statoriposto proprio nella felicità (si è cioè affermata una morale eudemonistica (dal greco eudaimonía, feli-cità).

Ma che cosa è la felicità? Qui, naturalmente, i pareri divergono notevolmente, tanto che si è potutodire che ogni individuo ha la “sua” idea di felicità. Proprio per tale varietà di significati e “sfumature”del concetto di felicità, si è negato che ad esso possa essere ancorata una morale.

Eppure, è stato obiettato, come si può considerare la virtù del tutto indifferente o estranea alla felicità?Come è concepibile che proprio chi meriterebbe di più – il virtuoso – debba essere infelice, perché vota-to a una vita di rinunce, di sacrifici? ed inoltre che cosa dà, realmente, felicità: agire bene, avere quindila coscienza a posto, oppure, di nuovo, perseguire il proprio utile, soddisfare comunque le proprie esi-genze? e quali esigenze? ma si può essere felici, o questo della felicità non è che un miraggio di cui l’uo-mo non riesce a fare a meno?

Antoine Pevsner: Mondo, 1947.Parigi, Musée National d’Art Moderne.

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Etiche competitive nella Grecia arcaica e nella pólis

I concetti-base del pensiero etico della Grecia sono quelli di areté, eudaimoníae díke, traducibili rispettivamente con “virtù”, “felicità” e “giustizia” (anche se que-sta traduzione non rende pienamente il significato dei termini greci). Sono terminiche subiscono – col tempo – trasformazioni che ne modificano profondamente ilsenso originario e che appaiono – di norma – strettamente connessi fra loro, sotto-lineando l’intreccio di etica e politica, tipico della cultura greca antica.

L’etica arcaica e, successivamente, l’etica della pólis, si fondano essenzialmen-te su modelli di valore di tipo competitivo, legati a lungo alle virtù militari del-l’eroe in guerra.

Nell’età eroica l’areté è patrimonio della nobiltà e agathós, cioè “buono”, è solo ilnobile, mentre gli altri sono incapaci di virtù (e, in tal senso, sono kakói, “cattivi”).

Al di là dell’ordine divino e della volontà di Zeus, a cui ogni norma e azionemorale – in ultima istanza – vengono ricondotte, vi sono alcuni aspetti che carat-terizzano in modo specifico la virtù dell’eroe. Essa è privilegio degli áristoi,dell’aristocrazia nobiliare, non è frutto di apprendimento, ma è trasmessa ere-ditariamente dalla stirpe. È individuale, viene mostrata dall’eroe, ma ad essa siaccompagna un’idea di responsabilità collettiva, basata sia sul legame di sanguedell’eroe con la stirpe e con la propria famiglia, sia sull’obbligo sociale della philía(o “amicizia”), che impone di fare sempre “bene agli amici e male ai nemici”.

Unico limite invalicabile all’azione dell’eroe è l’hybris (o “tracotanza”) con cuitalvolta egli viene meno all’obbligo di obbedienza al comando divino o cerca diinfrangere i limiti insuperabili a lui imposti dal destino. In tal caso la colpa del-l’eroe ricade anche sulla sua discendenza.

La virtù (una virtù eminentemente maschile) consiste in un insieme di qualità,la principale delle quali (non la sola) è la capacità di combattimento, la virtù eroi-ca. Essa è sorretta dal thymós, cioè da una fortissima carica emotiva, in primoluogo dall’ira, che dà irresistibilità all’azione dell’eroe sul campo di battaglia. Ilcoraggio con cui questi sfida la morte è la vera misura del valore, che è tanto piùelevato quanto maggiore è l’angoscia che la prospettiva di morire suscita. È il suc-cesso dell’azione dell’eroe a determinare il rispetto, la considerazione sociale:onore e fama, che i poeti tramandano con i loro canti, sono i soli che possonodargli soddisfazione, felicità (eudaimonía).

Per la donna il sistema dei valori è diverso. La sua areté è la bellezza, ma anchela fedeltà. La prova della virtù è la capacità di stare al proprio posto fra le paretidomestiche e di gestire accortamente l’amministrazione familiare. La riservatezzae il pudore sono inoltre connotati indispensabili della sua virtù. Anche dal con-cetto di areté si può notare il ruolo subalterno che la donna svolge nella vitasociale.

Con l’affermazione della civiltà della pólis si assiste a una profonda trasforma-zione dei sistemi di valore, pur nel quadro dell’identificazione dell’etica con lapolitica. Continuano a permanere modelli di tipo aristocratico che, però, tendonoa cambiare di contenuto, in corrispondenza con i profondi mutamenti sociali eculturali determinati dal nuovo orizzonte urbano e politico. La virtù non ha più iconnotati guerrieri, ma si sublima nella kalokagathía, cioè in un ideale di “bel-lezza e bontà” che compete solo agli áristoi, ai “migliori” per sangue e stirpe.

Anche in questa fase, comunque, il modello etico preminente resta quello com-petitivo, ma il coraggio guerriero perde i connotati individualistici legati alla per-sonalità eccezionale dell’eroe e si trasforma in virtù civica, cioè in capacità col-lettiva di combattimento per la difesa della patria.

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Oppure la virtù è quella economica, l’emulazione nel lavoro cantata da Esiodogià nell’età arcaica.

Ma è con i Sofisti, nel V sec. a.C., nel periodo della massima potenza di Atene,che si avverte il cambiamento profondo nella definizione e nella riflessione sullavirtù che lo sviluppo politico e culturale della pólis ha reso possibile. Si rafforzal’identificazione della virtù morale con la virtù politica, ora legata alla capacitàdell’individuo di partecipare alla vita della pólis democratica e di affermarvisi.Così il bene e il male tendono a identificarsi con ciò che è utile o dannoso all’in-dividuo o alla città, perché l’uomo, con le sue esigenze e aspirazioni, è la misu-ra di tutte le cose (Protagora, V-IV sec. a.C.). Le leggi scritte della pólis sonoanch’esse il frutto della volontà umana e non dipendono da qualche divino fon-datore della città; non sono quindi immutabili, ma possono essere di volta in voltacambiate, se lo si ritiene necessario.

Più in generale i Sofisti affermano il carattere relativo, cioè non assoluto, deivalori morali ed appaiono quindi ai contemporanei come eversori dei valori dellatradizione, anche perché per loro l’areté non è più ereditaria, ma può essereacquisita attraverso l’educazione e l’esercizio. L’areté dei Sofisti si caratterizzacome un insieme di capacità indispensabili all’individuo per avere successo.

Intellettualismo etico e misura assoluta del valore

Con la crisi della pólis, soprattutto della pólis ateniese, si manifestano nuove esi-genze etiche. In particolare Socrate e Platone affermano la necessità di nuovivalori, contro quelli della competizione e del successo che hanno prodotto solodisordine, guerra e rovine. Il soggetto di ogni moralità deve essere l’anima, chenella ricerca e nel giudizio su ciò che è bene ha uno dei suoi compiti fondamen-tali, se non quello principale. Socrate e Platone sono contrari al relativismo deiSofisti: i criteri di valutazione della condotta umana non devono essere legati allecircostanze o all’utile degli individui ma, al contrario, devono ispirarsi a princìpistabili e certi, a una misura oggettiva in base alla quale ogni individuo – attraver-so l’uso della ragione – possa riconoscere con sicurezza ciò che è bene e ciò cheè male. Il bene e il male vengono identificati con il vero e il falso, quindi con lacapacità della ragione di riconoscerli e farli propri: si afferma in pieno l’intellet-tualismo etico.

Nell’ambito della vita morale e dell’attività politica occorre sapere ciò che si fa,afferma Socrate (470/469 – 399 a.C.). Quindi la virtù è sapere e per questo è inse-gnabile. Il nuovo sapere etico deve rispondere alla varietà delle situazioni in cui,nella pólis, la vita degli individui viene a trovarsi.

La virtù è la consapevolezza etica, la capacità di valutare in ogni situazione checosa sia bene e che cosa male: ciò vuol dire che il sapere etico è sempre aperto,mai irrigidito in dogmi.

Socrate afferma che tale orientamento deve ispirarsi a due criteri di fondo:a. quello di sapere di non sapere, che si traduce in un atteggiamento di peren-

ne vigilanza critica e di esame preliminare della bontà o meno delle scelte che siè chiamati a compiere;

b. quello di una ricerca comune, attraverso il dialogo, di valori e orientamentivalidi per il nostro cammino.

Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.) intende andare oltre Socrate, nella definizionedell’areté. È necessario legare il giudizio morale a una misura assoluta, a un metrodi valutazione oggettivo rappresentato dalle Idee. Guardando alle Idee, l’intellettoriesce a individuare la tavola di valori a cui la condotta umana deve affidarsi.

Platone conferma la tesi, già sostenuta da Socrate, dell’autonomia della sceltamorale dell’individuo. Scegliere il bene o il male dipende solo da noi. Se, infatti,l’azione morale deriva dalla conoscenza del bene e del male, siginifica che siamoresponsabili dei nostri atti e il destino dipende dalle nostre scelte e non è dovutoal Fato.

Nessuna città – afferma Platone, riconfermando la connessione di etica e poli-tica – può essere ricostruita senza un adeguato rinnovamento morale e questodeve essere radicato in valori oggettivi, cioè in una idea del Bene verso cui ten-dere ed a cui occorre ispirarsi per raggiungere la massima perfezione possibile.

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La virtù per eccellenza della pólis è la giustizia, lo svolgimento del compitosociale assegnato a ciascuno. Così ciascuna delle tre classi in cui si articola lapólis platonica avrà una virtù dominante: la sapienza i governanti, il coraggio idifensori, la temperanza i produttori (virtù, quest’ultima, condivisa con le altredue classi).

Anche nell’individuo la virtù viene descritta in termini di giustizia. Infatti anchel’individuo, come la pólis, ha una struttura dell’anima articolata in tre funzionidistinte: la razionalità, l’emotività e i desideri. Ad ognuna di queste corrispondo-no le virtù che Platone ha attribuito a ciascuna classe sociale: rispettivamente lasapienza, il coraggio e la temperanza. Il comando deve essere esercitato dall’ele-mento razionale. L’etica platonico-socratica ha un carattere eminentemente razio-nalistico perché la direzione della condotta può essere assunta solo dalla funzio-ne in base alla quale sia possibile “conoscere” il vero e il bene. L’elemento ani-moso deve obbedire quindi alla ragione ed esserle – nello stesso tempo – alleatoper controllare la parte concupiscibile dell’anima, tenendo a freno i desideri eimponendo la “temperanza”. Solo con la piena valorizzazione della ragione econ il completo svolgimento dei compiti sociali a cui ogni individuo viene chia-mato, il singolo e la collettività possono conseguire il massimo di felicità che èloro umanamente possibile.

Ma in Platone vi è anche una morale come ascesi, come distacco dalle cose sen-sibili, come salita al mondo del vero essere, al mondo delle Idee, mondo sovrasen-sibile e divino, pervenendo al quale si consegue la sapienza.

Ad Aristotele (383-322 a.C.) dobbiamo la definizione di etica come scienza chestudia l’azione umana.

L’etica, insieme con la politica, costituisce l’ambito delle scienze pratiche, quel-le che, appunto, studiano le norme delle azioni. Aristotele innova profondamen-te sia l’etica che la politica platoniche. In entrambi i campi, egli non guarda tantoa un modello ideale di virtù e di pólis, quanto all’analisi di comportamenti e dicriteri di comportamento e di sistemi costituzionali. Non fa, ad esempio, dell’eti-ca una scienza rigorosa, basata su una misura assoluta (quella costituita dallarealtà delle Idee, in particolare dell’idea del Bene), ma una riflessione che ha peroggetto una varietà di situazioni e di esperienze nelle quali occorre – di volta involta – scegliere la condotta più opportuna.

Il fondamento di legittimazione dei princìpi dell’etica e della politica è – essen-zialmente – la natura. Negli esseri umani si esplica in particolare attraverso laragione, che ne è l’essenza.

La virtù concerne il fine ultimo dell’esistenza, quello che, una volta realizzato,dà la felicità. La virtù nell’uomo consiste nell’esercizio della ragione. Aristotelesupera l’idea socratico-platonica dell’unità della virtù e rifiuta la tesi platonica delparallelismo fra funzioni dell’anima e classi sociali.

In particolare, egli distingue due classi di virtù: le virtù dianoetiche e le virtù etiche.Le prime – soprattutto la sapienza e la saggezza – riguardano l’esercizio della

sola ragione. Le seconde riguardano l’azione regolatrice che la ragione deve svol-gere sulla parte irrazionale dell’anima, visto che l’uomo è continuamente sospin-to anche dalle emozioni e dai desideri. Le virtù etiche consistono nell’individua-zione e nella scelta – in ogni situazione – di un comportamento basato sul crite-rio del giusto mezzo fra due eccessi opposti, sotto il superiore potere regolatoredella saggezza, cioè di una virtù dianoetica.

La forma di vita più eccellente, capace di dare la felicità, non è quella di chiricerca i piaceri o di chi, impegnandosi nell’attività politica, ricerca gli onori (per-ché entrambi fanno dipendere la felicità da qualcosa di esterno all’individuo), maquella che si basa essenzialmente sull’attività del pensiero, sulla sapienza. È lavita del filosofo a esercitare e a sviluppare la più alta funzione dell’anima, l’intel-ligenza per se stessa, in piena indipendenza ed autosufficienza, realizzando cosìun piacere elevato e stabile.

Etica contemplativa e ricerca della saggezza

In Aristotele la vita contemplativa si afferma come modello di esistenza supe-riore a quello della vita attiva. A lungo la cultura dell’Occidente manterrà il pri-mato della contemplazione, riconoscendo in essa il tipo di vita capace di dare la

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felicità. Pur facendo ancora della pólis il quadro di riferimento della sua conce-zione etico-politica, Aristotele delinea per molti versi una prospettiva nuova, chesi afferma compiutamente nell’età ellenistico-romana.

Con la fine della pólis e con il sorgere di grandi imperi il potere si allontana dal-l’individuo, si trasforma in dominio ristretto nelle mani di sovrani e di corti su cuiè difficile, o praticamente impossibile, intervenire ed esercitare qualche in-fluenza. Lo stretto legame di etica e politica si allenta, in alcune filosofie quasiscompare. La legittimazione della condotta non risiede più in un sentire comunedella comunità (divenuta ormai una realtà sovranazionale, cosmopolitica), maviene cercata in qualcos’altro: la natura, la coscienza dell’individuo, la divinità.

Nella cultura ellenistica, tra le parti che compongono la filosofia, si afferma ilprimato dell’etica, il cui obiettivo fondamentale è la ricerca della felicità. Ma è lasaggezza la sola a poter garantire la felicità e il saggio stoico, epicureo, o scetti-co (come prima il saggio cinico, cirenaico o megarico e come, più tardi, il saggiodel Neoplatonismo) si caratterizza per l’impegno con il quale cerca di consegui-re un controllo ed una padronanza di sé, di conquistare uno spazio interiore nelquale possa affermare la propria autonomia.

Anche nelle età arcaica e classica si erano affermate tendenze e orientamentitipici di un’“etica della saggezza”, alcuni dei quali caratterizzati da una fortecomponente religiosa e altri, invece, legati a una visione individualistica dellaricerca del bene. In questo senso si pronunciavano i movimenti orfico-pitagorici(grazie ai quali si scopre la dimensione dell’anima e il valore spirituale dell’asce-si, della rinuncia a gran parte delle istanze e dei piaceri corporei) e la filosofiamorale di Democrito (460 ca. – 370 ca. a.C.), convinto della necessità di mante-nere un potere di controllo e di regolazione della ragione sulle passioni, per rag-giungere l’euthymía, cioè la tranquillità dell’animo.

Ma è con il definitivo tramonto della città-Stato che la ricerca della saggezzadiventa una nota dominante del pensiero, anche se le vie seguite da essa sonomolto diverse.

Per lo Scetticismo è saggio colui che rifiuta ogni certezza, che resta quindiimpassibile e indifferente davanti al disordine del mondo e non prende posizio-ne, ma segue soltanto le regole e le consuetudini della comunità in cui vive, senzaaffermare che cosa siano in sé, in assoluto, il “bene” o il “male”.

Per l’Epicureismo un equilibrio interiore può essere acquisito soltanto liberan-dosi dal timore degli dei e della morte e scegliendo di soddisfare i bisogni natu-rali e necessari. Il fondamento dell’etica è perciò la natura. L’etica epicurea èbasata sulla ricerca del piacere, è, dunque, edonismo (hedoné in greco significa“piacere”). Non ogni piacere va perseguito, ma solo quello catastematico, cioè inriposo, che implica assenza di dolore e di turbamento ed è fonte di felicità.

Per lo Stoicismo saggio è colui che riesce a vivere in accordo con la natura.Questa è governata non dal gioco casuale degli atomi (come per Epicuro) ma dallógos, cioè da una legge razionale e necessaria. Perciò la virtù è vivere secondoil Lógos. Saggio è colui che riconosce e fa propria quella legge necessaria, rifiu-tando come indifferente o dannoso tutto ciò che non rientri in questa razionalitàdivina. Proprio attraverso il riconoscimento di questa razionalità cosmica, il sag-gio stoico viene portato a riconoscere e ad accettare il proprio posto nel mondo,quindi la necessità di adempiere i doveri che egli ha nei confronti del prossimo e,in generale, dell’umanità. Doveri, questi, che si estendono anche ad azioni che,pur non essendo perfette, risultano preferibili ad altre e sulle quali si fonda laresponsabilità sociale dell’uomo.

Nell’età della crisi della Repubblica e della prima affermazione dell’impero diRoma, lo Stoicismo sembra offrire al mondo della cultura e della politica un’eti-ca dell’officium, cioè dell’adempimento dei propri doveri di fronte alla comunità,riavvicinando l’etica alla politica.

Nel corso dell’età imperiale comincia però ad affermarsi un orientamento disegno opposto, di carattere marcatamente etico-religioso, rappresentato dalNeoplatonismo. Nella filosofia di Plotino (202/205 – 270 d.C) si afferma una pro-spettiva di salvezza che si rivolge ai filosofi, ai pochi che possono affrontare l’a-scesa dell’anima all’Uno, al divino principio della realtà, liberandosi gradual-mente dai legami con il mondo delle passioni e della sensibilità. Il ritorno all’Unosi compie con l’esperienza dell’estasi, la ricongiunzione con l’Uno.

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Volontà, amore, carità

L’ansia di liberazione che pervade questa epoca trova risposta nella “BuonaNovella” (Vangelo), nel messaggio di Gesù Cristo, che offre a tutti gli uomini lasalvezza e la riconciliazione con Dio, realizzando la promessa contenuta nellibro sacro degli Ebrei, la Bibbia.

L’etica del Medioevo si sviluppa sotto il segno della rivoluzione cristiana, chesegna una svolta radicale rispetto all’Ellenismo.

Alla ricerca della saggezza si sostituisce la ricerca della salvezza. Il fondamen-to di legittimità dei princìpi morali sta nella Rivelazione cristiana. Chiamato adiventare un uomo nuovo, chi crede nel messaggio di liberazione di Cristo devecambiare radicalmente la propria vita compiendo una conversione radicale (ometánoia) dal peccato alla “nuova vita”, alla fede. In questa prospettiva vienevalorizzata la volontà che è decisionalità interiore, forza di scelta, di orienta-mento della vita umana. La conversione viene descritta come morte al peccato ecome una nuova nascita. Si fonda su un atto spirituale – etico e religioso allo stes-so tempo – con cui il credente nega se stesso (“muore” alla carne, al peccato), sicon-verte, cioè inverte la direzione della vita e così facendo conquista una nuovadimensione e prospettiva spirituale dell’esistenza, la “verità”, la luce che si con-trappone alle tenebre.

Resta, fra i concetti-chiave di un’etica cristiana, l’idea della felicità, che avevadominato l’etica greca: ma essa è ora possibile solo come effetto della ricerca edel possesso di Dio, cioè come beatitudine.

Assumono inoltre una nuova centralità oltre al concetto di volontà, quelli diamore, peccato, male, grazia divina. È senza dubbio l’amore il valore più nuovo eprofondo del Cristianesimo anche da un punto di vista morale. L’etica cristiana siriassume in due comandamenti di amore: l’amore di Dio e l’amore del prossimo.

Agostino (354-430) ha descritto i nuovi concetti di felicità e amore affermandoche essi, in realtà, si identificano, poiché riguardano entrambi la ricerca ed ilgodimento di Dio. L’uomo è ciò che ama, ed è chiamato a scegliere fra due amori:quello per le creature e quello per il Creatore. Il trascendimento dell’amore dellecreature, che è amore di sé, è possibile grazie all’amore dell’uomo per Dio, a cuicorrisponde l’amore di Dio per l’uomo: Dio interviene mediante la Grazia e parlaall’uomo nella sua anima, nella sua interiorità, chiamandolo a sé.

L’amore non è più l’eros platonico ma è la charitas, con cui si identifica Diostesso. La carità è l’atto con cui Dio innalza a sé le creature e queste guardano alui, operando allo stesso tempo per realizzare fra loro un legame di solidarietà, diamore del prossimo.

L’idea dell’amore ispira la grande mistica cristiana del Medioevo, l’idea di unarigenerazione spirituale dell’uomo, basata sull’umiltà e sull’amore di Dio.

Coscienza, libertà e male

Nel pensiero di Agostino si afferma con forza il primato della volontà, che è ilprimato dell’amore.

Il ruolo assegnato alla volontà come luogo della decisione, della scelta dell’uo-mo, permette di affrontare una questione che l’intellettualismo etico della filoso-fia greca (in particolare l’intellettualismo socratico) non era riuscito a risolvere:cioè il problema che si pone quando, pur sapendo razionalmente che cosa sia ilbene, l’individuo decide e sceglie una via diversa, quella del male.

Proprio il problema del male morale, del peccato, insieme a quello dellalibertà, contrassegna lo sviluppo dell’etica cristiana. Da dove deriva il male? Setutto dipende da Dio, che è bene assoluto, qual è l’origine del male? Perché l’uo-mo, creato da Dio, è stato capace del peccato? E su che cosa si fonda la salvez-za dell’anima? Sulla libera decisione dell’individuo o solo sulla grazia divina?

ETICA MEDIEVALE E RENOVATIO CHRISTIANA3

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Sono stati i Padri della Chiesa a indicare inizialmente i termini della questione ea suggerire alcune indicazioni che verranno accolte nella dottrina della Chiesa.Anzitutto quella che concepisce il male come non-essere, come hanno sostenutoprima Origene (185 ca. – 253 ca. d.C.) e Gregorio di Nissa (seconda metà del IVsec. d.C.), poi Agostino. Il male è un non-essere, cioè assenza di bene, non un prin-cipio maligno, attivo nel mondo, come affermavano le eresie gnostica e manichea.

Soprattutto Agostino segna anche in questo campo il percorso successivo dellafilosofia medievale. L’uomo, secondo lui, pecca quando ama le creature più cheil Creatore. Non che le creature siano in sé male, perché in quanto opera di Dio,somma bontà, sono esse stesse buone, ma nella gerarchia dell’essere le creaturesono inferiori a Dio, sono meno perfette, non sono né eterne, né immutabili. Ilmale morale è attribuito, da Adamo in poi, all’uomo, alla sua scelta di viveresecondo il proprio volere invece che secondo Dio.

Proprio riflettendo sul tema del peccato originale e della grazia, Agostino for-mulerà alcune fra le sue tesi più discusse. Con il peccato originale, quello diAdamo, l’uomo ha introdotto nel mondo il male morale. In Adamo ha peccatotutto il genere umano. L’uomo, dopo il peccato, mantiene il libero arbitrio, manon è più libero, infatti la libertà è la capacità di fare il bene : è proprio tale capa-cità che è venuta meno con quel peccato. Da qui l’affermazione agostiniana,espressa contro il monaco Pelagio, del primato assoluto della grazia divina nellasalvezza: essa è un dono di Dio, che è dettato da una decisione imperscrutabilee che viene concesso non a tutti ma solo ad alcuni.

Vi saranno filosofi e teologi, come ad esempio Anselmo d’Aosta (1033-1109),che riaffermeranno l’idea agostiniana che la libertà è solo un’effettiva e positivacapacità di fare il bene, mentre la possibilità di fare il male è espressione di debo-lezza, non di libertà da parte dell’uomo e richiede perciò l’intervento della graziadivina.

Altri, fra i quali Giovanni Scoto Eriugena (800 ca. – 870 ca.) e Pietro Abelardo(1079-1142), riproporranno invece le tesi del libero arbitrio, come libertà di pec-care o non peccare.

Viene ribadita così dalla filosofia cristiana una posizione già espressa da Socratee Platone e poi confermata da Aristotele e dai filosofi dell’età ellenistica, relativaalla coscienza e alla responsabilità morale dell’individuo. La scelta etica ha luogoanzitutto nella coscienza dell’individuo: perché è qui, nell’intenzione o meno dicompiere un atto, più che nelle conseguenze dell’atto stesso, che si valuta la suabontà o malvagità. Con il Cristianesimo, comunque, il valore dell’intenzionalitàdella coscienza assume un significato nuovo, poiché si lega al problema della sal-vezza dell’uomo e si determina come problema della persona, cioè di una sog-gettività umana spirituale nella quale l’individuo viene ad assumere un significatoed un valore universali, perché riconosciuta nella sua dignità intrinseca.

Sono soprattutto Abelardo e Tommaso d’Aquino a sviluppare – dopo Agostino –l’etica cristiana nella direzione di questo riconoscimento del ruolo dell’anima,della coscienza, dell’intenzionalità.

Abelardo propone una forma di Socratismo cristiano basato sulla necessità diconoscere se stessi e sulla tesi del libero arbitrio dell’uomo. Questi non ha un’in-clinazione naturale al male. Gli istinti sono qualcosa di naturale, non di peccami-noso. Il peccato nasce solo dal consenso che vien dato ad alcune tendenze.L’etica di Abelardo pone al centro non l’azione, ma l’intenzione dell’individuo,che è il fattore decisivo, perché è da essa che dipende la qualità morale di un’a-zione. La stessa azione compiuta da due persone può essere buona in un caso ecattiva in un altro a seconda dell’intenzione che la muove.

Non si può parlare di “peccato originale” per i discendenti di Adamo (perchéessi non hanno responsabilità per il peccato del progenitore e ne portano semmaila “pena”, non la “colpa”) e neppure per i cosiddetti “infedeli”, perché essi sem-plicemente ignorano la parola di Dio, senza averne colpa.

La riflessione di Tommaso d’Aquino (1221/1227 – 1274) cerca di saldare il mes-saggio cristiano di salvezza alla prospettiva etico-politica dell’Aristotelismo, nellaquale le norme morali – come quelle politiche – poggiavano su un fondamento dilegittimità naturale e non divino. Egli cerca di rendere la visione aristotelica com-patibile con la prospettiva cristiana, affermando che l’uomo possiede ef-fettivamente una disposizione naturale (o sinderesi, come l’aveva chiamata anche

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Bonaventura, 1217/1221 ca. – 1274), che gli permette di intendere i princìpi pra-tici. Ma il peccato originale ha indebolito quella naturale inclinazione al bene eha generato una disposizione a commettere altri peccati. La sinderesi, inoltre, dasola non basta, poiché l’uomo ha a che fare con situazioni concrete nelle quali –caso per caso – è chiamato ad operare le sue scelte.

La coscienza è appunto la sede dell’esame della situazione concreta, sullaquale esprime un giudizio sull’applicazione dei princìpi morali universali, cioèun’intenzione. La volontà interviene successivamente e decide, talvolta contrav-venendo al giudizio della coscienza e operando in modo diverso da quell’inten-zionalità. Il peccato è appunto l’atto volontario con cui ci si allontana dalla ragio-ne, dall’ordine universale dei princìpi che la ragione intende. Nel rapporto tralibero arbitrio e grazia, Tommaso propone una tesi che contempera l’uno e l’al-tra. Secondo lui il libero arbitrio dell’uomo dipende dalla ragione. L’uomo ha undoppio potere: “può, infatti, volere e non volere, agire e non agire: può, anche,volere una cosa o un’altra, fare una cosa o un’altra. Tutto ciò è proprio della ragio-ne”. Dio, quindi, nell’ordinamento provvidenziale del mondo, prevede anche ilgiudizio e la decisione autonoma dell’uomo, senza annullarne la libertà. Cosìcome non l’annulla la grazia, che aiuta l’uomo a raggiungere il fine a cui natu-ralmente tende.

Agli inizi del XIV secolo un’ulteriore svolta nella rifles-sione morale viene operata da Giovanni Duns Scoto(1265 ca. – 1308) e Guglielmo di Ockham (1280 ca. –1347), i quali separano nettamente la morale laica dallamorale religiosa: la prima, infatti, vale sul piano naturalee sociale e non contribuisce alla salvezza degli indivi-dui. Duns Scoto sottolinea poi come – a differenza di ciòche aveva affermato Tommaso – nella scelta delbene sia la volontà, non l’intelletto, il fattore deci-sivo. Inoltre, secondo Guglielmo di Ockham,poiché il mondo è una realtà contingente, nonnecessaria (cioè ogni cosa esistente è talesolo grazie all’onnipotente volontà diDio e poteva anche non essere), l’uomodispone di un’effettiva libertà di scelta fraalternative opposte. Solo tale capacità discelta rende l’uomo responsabile dei suoiatti. Dio ha concesso all’uomo libertà discelta e perciò neppure il papa può metter-la in discussione.

Auguste Rodin, La mano di Dio, 1897.Parigi, Musée Rodin.

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L’etica – insieme alla politica – rappresenta uno degli elementi portanti del pen-siero moderno, tanto da ridimensionare – per molti versi – il ruolo di sapere-guida che la teologia e la metafisica avevano svolto nella cultura e nella filosofiamedievali.

In questo mutamento di asse – a cui contribuisce anche lo sviluppo della scien-za moderna – si esprimono alcuni cambiamenti profondi prodottisi nel mondo enella cultura occidentali. Innanzitutto l’attenzione nuova che viene prestata almondo dell’uomo, alla “città” dell’uomo. In secondo luogo l’attenzione che vieneprestata alla “natura umana”, che viene studiata e analizzata cercando di indivi-duarne princìpi e meccanismi di funzionamento, prefigurando una nuova antro-pologia e concezione dell’uomo.

Un nuovo rapporto fra etica e religione

L’etica recepisce ed elabora nuovi valori e criteri di comportamento. È acco-munata alla politica da un’identica volontà di affrancamento dalla religione, a cuiper tutto il periodo medievale era stata collegata e subordinata. Tale è, ad esem-pio, l’impostazione del pensiero dell’aristotelico Pietro Pomponazzi (1462-1524),il quale, mettendo in discussione la dottrina dell’immortalità dell’anima, sganciala morale dall’idea di un premio o di una punizione dopo la vita terrena ed affer-ma con forza la tesi di una piena autonomia della morale dalla religione: la virtùè premio a se stessa. Ma questa tendenza non è generalizzata né continua, comedimostrano la Riforma protestante e la Riforma cattolica.

Il Rinascimento esprime un’esaltazione dei valori civili, ma ha anche un altroversante, quello del Neoplatonismo, di cui Marsilio Ficino (1433-1499) è il mag-giore esponente. Nella gerarchia degli esseri l’anima dell’uomo ha una posizionecentrale perché è capace di collegare il mondo inferiore con quello superiore.Essenziale, in questa prospettiva spirituale, è il legame d’amore che nasce comeamore della bellezza e come guida verso l’autore di ogni bellezza, cioè versoDio. Sia pure esprimendosi in forma nuova, non viene quindi meno il tema e ilproblema di una tensione religiosa alla base dell’etica.

Soprattutto nel Rinascimento europeo la dimensione religiosa ritorna al centrodella riflessione e delle preoccupazioni degli intellettuali. Il tema del Rinascimentocristiano, del ritorno all’autentico spirito cristiano, è centrale nella filosofia di E-rasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536), come aspirazione al veroCristianesimo e conseguente critica del formalismo e del ritualismo religioso. Era-smo si ispira ad un Socratismo cristiano, ai valori dell’interiorità, della pace edella tolleranza. Il suo pacifismo umanistico, però, (così come quello di TommasoMoro, 1478-1535) si scontra con la drammatica realtà di un’epoca nella quale leguerre sono frequenti. Soprattutto con il divampare della Riforma protestante siapre un lungo periodo di conflitti, guerre civili, lotte senza quartiere contro glieretici, scatenati da Protestanti e Cattolici. Non vi è spazio per la tolleranza e lapace invocate dagli umanisti. Anche Erasmo sarà costretto a schierarsi. Polemizzacon Martin Lutero (1483-1546) riaffermando il valore fondamentale dell’eticarinascimentale, la libertà dell’uomo, contrapposta alla tesi della schiavitù umana– dopo il peccato originale – avanzata dal De servo arbitrio di Lutero.

La Riforma protestante ripropone un’etica su base esclusivamente religiosa, cheha di nuovo al centro il problema del peccato e della grazia, recuperando temi eimpostazioni propri del pensiero agostiniano nella polemica antipelagiana.Dopo il peccato originale l’uomo non è più libero, non è più in grado di fare ilbene. I dieci comandamenti non hanno tanto il compito di indicare quello chel’uomo deve o non deve fare, quanto di manifestare l’impossibilità per l’uomo diadempierli e rispettarli, poiché senza l’aiuto di Dio egli non può che peccare.Distrutta l’originaria libertà, solo Cristo può salvare l’uomo donandogli con la gra-zia una nuova libertà. Anche Giovanni Calvino (1509-1564) negherà la libertà

L’ETÀ MODERNA4

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umana e riaffermerà il primato assoluto di Dio nella salvezza. Gli uomini sonopredestinati fin dall’eternità alla salvezza o alla dannazione.

La risposta cattolica – con il Concilio di Trento – riproporrà invece la soluzionetomista.

Homo faber e scientia activa

È soprattutto nel primo Rinascimento che nell’etica sembra manifestarsi unalacerazione tra valori religiosi e valori terreni, tra morale ascetica e recupero divalori umani. Una lacerazione, questa, che è uno dei segni del passaggio d’epo-ca che si sta realizzando.

Motivo ricorrente è quello della dignità dell’uomo, della sua eccellenza. Adesempio, Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) fa consistere la dignità el’eccellenza dell’uomo nella libertà come possibilità di decidere la sua stessanatura ed il proprio destino con le sue scelte. Sta a lui, infatti, decidere se diventa-re simile alle bestie o innalzarsi fino a Dio.

Nel sostenere la centralità dell’uomo vi è il distacco critico dall’etica medieva-le che non mancava certo di considerazione per il valore dell’uomo ma a questosovrapponeva, come valori massimi, quelli della trascendenza e della vita ultra-terrena, mentre tendeva a vedere nella natura umana soprattutto i segni del “pec-cato” e a porre – come suo fine ultimo – una mèta che non era di questa terra.Invece la virtù rinascimentale è eminentemente terrena, è virtù e capacità dell’in-dividuo di affermare se stesso dominando e vincendo la fortuna.

Il primo Rinascimento italiano, che ha una forte connotazione morale, tematiz-za la centralità dell’attività umana, anzi afferma il primato della vita attiva sullavita contemplativa, sulla theoría esaltata dal pensiero greco e su quella sapienzareligiosa che la cultura medievale aveva posto come il modello più alto di vita cri-stiana. L’homo sapiens riscopre le sue originarie funzioni di homo faber. Questoprimato va oltre la politica e oltre il Rinascimento. Per molti permea di sé l’interaetà moderna, come suo carattere costitutivo. Si è parlato – in tal senso – dell’affer-marsi di una concezione “pragmatistica” della vita (da prágma, azione), di unavisione nella quale il fare è superiore al conoscere. Un “fare” che tenderà, con iltempo, a dominare la stessa scienza.

Questo ideale umano di vita affonda le radici nella civiltà urbana. È la città –non il monastero – il nuovo spazio della realizzazione umana. L’uomo si realiz-za nella vita civile e sociale, nella dimensione politica. È un modo nuovo e diver-so di intendere il valore tipicamente cristiano della carità, come collaborazione econvivenza con gli altri, un modo che si esprime anche sul piano religioso. Adesempio nel mondo protestante le tesi sulla “schiavitù umana” dopo il peccatooriginale, sull’onnipotenza divina e sulla predestinazione alla vita eterna o alladannazione si traducono – sul piano etico – in un’idea di vita come servizio checonferma i nuovi orientamenti della cultura e della filosofia moderne. Soprattuttoquella calvinista non è una morale della rassegnazione e della disperazione: essapoggia, infatti, sull’impegno dell’uomo nella vita civile alla ricerca dei segni dellabenevolenza divina. Un impegno, questo, che richiede una vita rigorosa ed auste-ra e la messa al bando dei piaceri mondani a cui indulgevano uomini e donne nelRinascimento.

L’impegno nella vita civile si manifesta, in particolare, nel lavoro, che i calvini-sti vivono come valore e non come condanna divina. Quella calvinista è infattiuna morale del successo nell’attività economica, che viene ricercato non per sestesso, ma per la gloria di Dio e come segno della sua benevolenza.

Nel passaggio fra il Cinquecento e il Seicento, l’etica di Giordano Bruno (1548-1600) esprime un senso nuovo della natura e dell’uomo. Se il tema centrale dellasua filosofia è quello dell’infinità del mondo, prodotto dall’infinita e immanentecausalità divina, l’etica ha come fine proprio la ricerca del divino nella natura.Tale ricerca è mossa dalla passione del conoscere, da un eroico furore. Tale furo-re è, sì, amore e contemplazione della bellezza divina nell’universo, della fonteinfinita e divina della realtà a cui l’uomo deve ricongiungersi; ma è anche impe-gno e sforzo di realizzazione umana attraverso il lavoro, che confermano il carat-tere attivo e umanistico della sua etica.

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L’ideale “pragmatico”, operativo, dell’etica moderna si conferma nell’ideanuova di scienza che si esprime – tra il Cinquecento e il Seicento – nella rifles-sione di Francesco Bacone (1561-1626). Alle sottili discussioni dell’etica tradi-zionale, al suo modello contemplativo, egli contrappone un modello di saggezzache è del tutto aperto sul mondo, è impegno a cercare – con la scienza e le sueapplicazioni tecnico-produttive – i mezzi per realizzare nel mondo un benesserecollettivo.

L’ideale rinascimentale e baconiano dell’homo faber troverà espressione com-piuta, nell’Ottocento, con l’avvento della società industriale.

Il principio dell’autoconservazione e il problema dell’etica

Nella nuova dimensione – attiva e scientifica – dell’etica sei-settecentesca assu-me un valore nuovo l’antico tema stoico delle passioni. Esse non sono più il nemi-co che la ragione deve combattere e schiacciare, ma costituiscono un aspettofondamentale della vita affettiva dell’uomo.

Sono l’effetto dell’azione delle cose sull’uomo, manifestazione e reazione emo-tiva dell’animo umano a quell’azione. Diventano – per molti pensatori delSeicento e del Settecento – oggetto di analisi razionale e di scienza, come espres-sione e mezzo dell’operare umano sulla realtà, fattori produttivi esse stesse, seben conosciute e sapientemente regolate.

Questa nuova considerazione delle passioni traspare già in alcuni orientamentitipici del Rinascimento italiano.

Ad esempio, il tema epicureo del piacere, respinto e condannato da non pochipensatori dell’antichità e, soprattutto, da quelli del Medioevo, perché espressionedegli aspetti “inferiori” della natura umana, viene recuperato da Lorenzo Valla(1407-1457), che ritiene il piacere un valore del tutto compatibile con il Cri-stianesimo, tanto da concepire la beatitudine come divina voluptas, piacere divino.

Con il Rinascimento, comunque, il tema di una condotta orientata dalle pas-sioni si afferma soprattutto sottolineando il tema dell’autoconservazione, comeespressione stessa della vita della natura. Ogni essere vivente tende alla propriaautoconservazione, cerca ciò che la favorisce e fugge ciò che le nuoce. La mora-le umana non può non tenerne conto, non può cioè rimuovere da sé tale ten-denza naturale: buona sarà soprattutto l’azione che serve a “conservare” e ad“incrementare” la vita dell’individuo, rendendola più durevole e allo stesso tempopiù ricca e intensa.

Ma tutto questo non riduce la condotta a puro egoismo? e come può una mora-le fondarsi sull’egoismo? come si può parlare di una morale fondata sul solo egoi-smo e sull’autoconservazione dell’individuo? come si giustificano quelle forme dicondotta palesemente non egoistiche ma altruistiche, quelle, ad esempio, nellequali l’uomo si dimostra capace di sacrificarsi per i suoi simili, fino a rischiare lapropria vita?

Bernardino Telesio (1509-1588) cerca di rispondere a tali interrogativi affer-mando l’esistenza, accanto a un’anima naturale che tende alla propria autocon-servazione, anche di un’anima spirituale, di una forma aggiunta (superaddita) allaprima, che giustificherebbe le condotte altruistiche.

Anche nel Seicento, nel secolo della scienza, si avverte la complessità e deli-catezza del problema del rapporto che esiste fra tendenze “naturali” ed esigenze“spirituali” dell’animo umano, fra tendenza all’egoismo e tendenze altruistiche.L’impatto della nuova riflessione scientifica sull’ordine tradizionale dei valoririschia di essere devastante.

Cartesio (1596-1650) lascia fuori la morale e la religione dal suo programma diricerca razionale, limitandolo al solo ambito del sapere metafisico e scientifico.Propone una morale provvisoria (in attesa di trovare il fondamento dell’evidenza)che di fatto risulterà definitiva. Accettare i valori tradizionali in campo morale ereligioso, mantenere la coerenza nelle scelte, rinunziare ai propri desideri a favo-re dell’ordine razionale del mondo, scegliere la filosofia come ragione di vita:queste sono le regole “provvisorie”. Anche quando in seguito tornerà sulla que-stione, Cartesio riaffermerà sempre il primato della ragione sulle passioni.

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Questa prudenza cartesiana viene accantonata da altri filosofi, ad esempio dal-l’inglese Thomas Hobbes (1588-1679), il quale estende alla vita morale il nuovomodello scientifico di razionalità. Hobbes analizza il comportamento umano,descrivendolo come una reazione dell’individuo ai moti esterni dei corpi che lo“colpiscono”. È un movimento vitale che in ogni essere vivente si presenta comeistinto di conservazione. L’uomo è egoista (homo homini lupus: l’uomo è un lupoper ogni altro uomo), opera per amore di sé e in vista della propria autoconser-vazione.

La virtù dipende dalle passioni e, in particolare, dalla passione fondamentale,che è il desiderio di potere, poiché è a tale desiderio che possono essere ricon-dotte le altre specie di desiderio (di ricchezze, conoscenze, onori, ecc.).

Quella di Hobbes non è una morale di valori assoluti: bene è ciò che favoriscequell’istinto, male ciò che lo ostacola; ameremo il primo e odieremo il secondo.Poiché agiscono secondo questo meccanismo, gli uomini non possiedono lalibertà del volere.

In Hobbes vi è un collegamento tra etica e politica, visto che lo Stato vieneidentificato con quel principio dell’utilità e dell’interesse che fonda la morale.Egoismo e assolutismo in questa concezione sono, in qualche modo, comple-mentari.

Ma come si può distinguere fra morale e diritto, se le due forme di comando siidentificano nella legge statale? e, soprattutto, come si può distinguere fra coman-do del potere giusto e comando ingiusto?

La schiavitù delle passioni e l’etica degli affetti razionali

A tali interrogativi tenterà di rispondere l’etica “scientifica” di Baruch Spinoza(1632-1677). Essa si fonda su una considerazione unitaria della realtà da partedella ragione secondo il modello matematico-geometrico (more geometrico). Egliconcorda con Hobbes sul fatto che anche la condotta umana debba essere stu-diata scientificamente e che le passioni e le azioni umane siano considerate comese si trattasse di linee, di piani, di corpi, cioè come proprietà e non come vizidella natura. Anche in Spinoza, come in Hobbes, la tendenza fondamentale del-l’uomo, la sua essenza, sta nel conatus, cioè nello sforzo di autoconservazione.Se favoriscono questo sforzo, i moti emotivi dell’uomo, gli “affetti”, vengono dalui considerati come azioni, in quanto accrescono la sua potenza e capacità diagire. Quando invece gli affetti ostacolato o negano quella tendenza e determi-nano una diminuzione della potenza umana, essi sono delle passioni. Nel primocaso la passione fondamentale è la gioia, nel secondo è la tristezza.

Ebbene le passioni “positive”, cioè le “azioni”, che incrementano e intensifica-no l’esistenza, che le danno senso e possibilità di sviluppo, sono quelle che por-tano ad azioni solidali e comunitarie, le azioni attraverso le quali l’uomo ricono-sce nel prossimo non un “lupo” ma un “dio”. Homo homini deus, affermaSpinoza. Tale prospettiva etica rovescia completamente il senso della teoria diHobbes: perché non l’egoismo ma l’altruismo, non l’assolutismo monarchico mail sistema democratico garantiscono effettivamente il rispetto del “comando” dellanatura nell’uomo, quello dettato dal conatus, o sforzo di autoconservazionedell’individuo.

Quella spinoziana vuole essere un’etica della liberazione dell’uomo dallaschiavitù delle passioni: una liberazione non dalle passioni in quanto tali, ma soloda quelle che depotenziano il suo sforzo di conservazione. Una passione puòessere mutata unicamente attraverso una passione più forte e di segno contrario.Il compito dell’uomo non è distruggere, negare le passioni, ma trasformarle,salendo ad una conoscenza via via più adeguata.

Il punto d’arrivo del processo di liberazione umana sarà l’amor Dei intellectua-lis, dove per amore intellettuale di Dio si intende la conoscenza della realtà nellasua unità e totalità, ricondotta all’unica sostanza che è Dio. Questo amore non èun perdersi mistico in Dio, ma una capacità di vedere la realtà nella sua totalità,di mettersi “dal punto di vista di Dio”, guardando le cose sub specie aeternitatis.

Ma l’uomo è dotato di libertà? Si può rispondere in maniera sia affermativache negativa. Per Spinoza libertà e necessità coincidono, perché tutto obbediscea legami necessari e la libertà è l’accettazione e il riconoscimento di questanecessità.

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Limiti della scienza e ragioni del cuore

Alla pretesa del razionalismo matematico-scientifico di essere strumento emodello di ogni conoscenza fanno argine due posizioni, che si affermano laprima nel tardo Rinascimento e la seconda in pieno “secolo della scienza”: sonole posizioni di Montaigne e Pascal.

In Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) si palesa l’“autunno” delRinascimento, poiché nella sua riflessione viene alla luce un netto cambiamentodell’orizzonte di valori che la cultura rinascimentale aveva orgogliosamente pro-clamato. La riflessione morale di Montaigne ha pur sempre al centro l’uomo, anzil’io stesso che pensa, riflette. Si presenta, sul modello socratico, come indaginesu se stessi, sulla condizione umana. Ma, a differenza di altri pensatori del suotempo (e dei due secoli successivi), che riterranno possibile una comprensionecompiuta, “scientifica”, della natura umana, Montaigne evidenzia – nella suariflessione etica – un costante senso del limite: limite nei poteri conoscitivi del-l’uomo, quindi limite della stessa possibilità di comprendere la realtà umana e ilsignificato ultimo dell’esistenza e accettazione della stessa morte come limitecostitutivo della vita umana. La saggezza sta nell’accettazione di questo limite enella ricerca di un equilibrio tra passioni e ragione.

Blaise Pascal (1623-1662) si oppone apertamente al Cartesianismo (oCartesianesimo), al modello razionale e matematico di spiegazione della realtà.Egli, infatti, ritiene vi sia un ambito che la ragione non è in grado di conoscere:quello del cuore. Vi sono ragioni che la ragione non è in grado di comprendere.Il cuore indaga la complessità e la contraddittorietà della condizione umana.L’uomo non è né angelo né bestia, dunque bisogna criticare sia chi lo esalta siachi lo disprezza. È un “re decaduto” che aspira alla condizione perduta.

La sua condizione attuale è di miseria: vorrebbe essere amabile e si scopreodioso, cerca la felicità e trova solo miseria e morte. Fa di tutto per nascondere lasua vera situazione, dandosi a diverse attività: giochi, lavoro, guerre. È la distra-zione, il divertissement. Abbandonare questo stato di miseria gli sarà possibile sericonoscerà che esso è il frutto di una condizione di peccato, di assenza di Dio,e si convertirà al Dio cristiano.

Il suo cristianesimo giansenista implica una morale austera, il rifiuto del lassismoaccomodante dei Gesuiti. Questo viene aspramente criticato dal Giansenismo,perché si ritiene che attenui il senso del peccato e l’impegno totale che la mora-le cristiana richiede al credente.

Utile e sentimento morale nell’età dell’Illuminismo

Nell’Illuminismo, che caratterizza la cultura del Settecento, l’indagine analiticae critica della ragione investe in pieno non solo la realtà naturale, ma anche lasocietà umana, con le sue contraddizioni e i suoi problemi. Comunque, anche sesegna un parziale distacco dalla cultura del Seicento, l’Illuminismo continua amuoversi entro alcune linee portanti elaborate in campo morale e politico daquella cultura.

Nell’etica prevale il modello di una morale naturale, che pone la felicità comefine terreno e che è sempre più sganciata dalla religione e, dunque, da un desti-no e da una finalità ultraterreni, che però non vengono negati. Generalizzata è laconvinzione che sia possibile realizzare il miglioramento e il progresso dell’uo-mo. Questo quadro deriva da concezioni diverse, ma che prendono le mosse dal-l’analisi della natura umana.

A voler schematizzare le tendenze prevalenti le si potrebbe sintetizzare con lacoppia contrapposta di termini egoismo-altruismo, che si accompagna spesso aduna concezione – rispettivamente – pessimista o ottimista della natura umana.Comunque, la ricerca dell’utile individuale non viene considerata in opposizionea quella dell’utile collettivo; anzi, alcuni ritengono che il perseguimento dell’in-teresse individuale porti al raggiungimento anche di quello sociale.

Così Voltaire (François-Marie Arouet 1694-1778) pone l’utile alla base dell’agi-re umano. L’utile è individuale, ma spinge gli uomini al miglioramento dellasocietà in cui vivono. Egli rifiuta sia una concezione ottimista che una concezio-ne pessimista della condizione umana, convinto com’è che la situazione sia, sì,

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resa drammatica dalla presenza del male, ma che l’uomo, accettando serena-mente la sua condizione, possa operare per migliorarla.

Sul versante del materialismo, il superamento della separazione cartesiana di rescogitans e res extensa porta sul piano morale a rafforzare la tendenza a valutarepositivamente i moventi e i fini naturali degli uomini, intesi come esseri fisici.

Il piacere è il fine della vita dell’uomo, secondo Julien Offray de La Mettrie(1709-1751). Beni per l’uomo sono le ricchezze, i piaceri e il potere politico,secondo Paul-Henri Dietrich d’Holbach (1723-1789), in una prospettiva nellaquale coincidono l’interesse individuale e quello collettivo.

La riflessione morale dell’Illuminismo inglese si caratterizza per il rifiuto di rico-noscere un fondamento unicamente “razionale” dell’etica, individuando l’esi-stenza di una forma di sentimento morale sulla quale essa viene a costituirsi e perla convinzione che gli uomini siano mossi non solo dall’egoismo ma anche da unaltruismo originario. Ad esempio, Anthony Ashley Cooper di Shaftesbury (1671-1713) e Francis Hutcheson (1694-1746) vedono nell’uomo la presenza di unsenso morale, cioè di un sentimento che guida la condotta dell’uomo portando-lo a cercare il bene e a fuggire il male. È come una disposizione originaria, di tiponon intellettuale, a reagire positivamente ai problemi che la realtà continuamen-te pone all’uomo. Questo senso morale si traduce in un sentimento di approva-zione o di disapprovazione per le azioni altrui e nostre.

Una forma più complessa di etica “naturalistica” è quella di David Hume(1711-1776). Egli sostiene che i sentimenti morali sono, sì, naturali, ma, nellaforma in cui oggi si presentano all’uomo, costituiscono il frutto di un lungo pro-cesso di sviluppo delle società umane. Oggi, infatti, per vincere le passionidistruttive disponiamo di sentimenti morali che poggiano sull’utilità sociale e acui sono collegati l’altruismo e un sentimento di simpatia che lega ogni individuoagli altri. Un tema, questo della simpatia come partecipazione alle fortune o allemiserie altrui, che è centrale anche nella teoria etica dell’economista Adam Smith(1723-1790), per il quale essa è all’origine di tutti i sentimenti morali.

In Hume, comunque, la riflessione morale assume un carattere teoreticamenterilevante per il fatto che poggia su quella che – nel Novecento – verrà appuntodesignata come “legge di Hume”: vi è una differenza costitutiva fra giudizi divalore e giudizi di fatto, fra le proposizioni (quelle morali e giuridiche) in cuiviene enunciato un comando e quelle nelle quali si formula un giudizio di realtà;una differenza che poggia su quella – di tipo linguistico-concettuale – fra il ter-mine deve (ought ) e il termine, o copula, è (is). Non si può passare arbi-trariamente dalla conoscenza alla valutazione, dal riconoscimento di ciò che larealtà è all’affermazione che tutto questo deve anche essere, alla valutazione cheè bene che tutto questo sia.

Fra il giudizio scientifico e quello morale viene quindi stabilita una differenzacostitutiva ed è anche in tale forma che il filosofo rafforza l’esigenza di un rico-noscimento dell’autonomia della morale.

L’affermazione dell’autonomia della morale

Una posizione teorica del tutto nuova, a cui faranno riferimento non poche con-cezioni morali del mondo contemporaneo, è costituita dall’etica di ImmanuelKant (1724-1804), con la quale l’esigenza di autonomia della morale – giàespressa da Hume e da altri filosofi – troverà una forma compiuta di attuazione,troverà cioè un suo ben definito statuto teorico ed epistemologico, grazie allachiara distinzione – operata da Kant – fra conoscenza e azione, fra “ragion pura”e “ragion pratica”, fra essere e dover essere.

L’etica di Kant si contrappone a quelle di Hume e degli altri teorici settecente-schi: è alla ragione umana – non a un sentimento morale di altruismo o simpatia– che spetta il compito di determinare a priori la legge morale. L’uomo obbediscea una legge di cui egli stesso, in quanto essere razionale, è autore. L’unica mora-le valida è quella autonoma (autonoma, ad esempio, dalla conoscenza scientifi-ca, dalla fede religiosa, da sentimenti o interessi materiali degli uomini), ogni altraè invece eteronoma, cioè fondata su leggi esterne all’uomo e alla ragione. Ete-ronome, sono, ad esempio, le morali che identificano il bene morale con la

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volontà di Dio e quelle che lo identificano con il piacere e la felicità, con le leggidello Stato, con il sentimento e il senso morale, con l’educazione, con un idealeoggettivo e assoluto di perfezione.

La morale kantiana si fonda – in particolar modo – sul principio del dovere, sulriconoscimento della centralità della persona umana e sulla negazione di interes-si particolari.

Nell’uomo, in cui vi sono sia ragione che sensibilità, la legge morale non puòessere spontaneamente adempiuta, ma si configura come obbligo, come dovere.Questo è un compito e un impegno di tutta l’esistenza. All’uomo, proprio per lapresenza in lui della sensibilità, non è possibile la santità, la piena e totale con-formità alla legge morale della ragione: la virtù, come adeguamento alla leggemorale, non è mai un fatto definitivo. Essa deve presentarsi all’uomo come unimperativo morale, come un comando che ha il carattere dell’universalità (siatale, cioè, che chiunque possa farlo proprio e possa agire in base ad esso) e cheva adempiuto in quanto ha valore in se stesso e non è quindi mezzo per qualchealtro fine.

La morale kantiana si regge sull’idea “il dovere per il dovere”, sul rispetto deldovere, e come tale verrà spesso riproposta nei due secoli successivi.

La legge morale si presenta inoltre come un imperativo categorico, che coman-da non i contenuti della legge morale, ma la forma dell’azione perché essa possaessere considerata morale. Fondamentale, a tal fine, è l’intenzione che presiedeall’azione morale: essa soltanto è in potere dell’uomo, mentre non lo è l’azionemorale stessa. Universalità del criterio che presiede all’azione morale, l’umanitàcome fine, l’uomo come legislatore morale universale: sono questi i tre aspettifondamentali che compongono l’imperativo categorico.

Con Kant viene infatti meno un caposaldo dell’etica occidentale e cioè che chifa il bene sia anche felice. La felicità, secondo lui, attiene ad un ambito, quellodel desiderio, che nulla ha a che fare con la virtù. Ma questo apre un grave pro-blema poiché il sommo bene a cui tende la volontà umana è la sintesi di virtù efelicità. Senza la felicità il sommo bene come oggetto della volontà verrebbemeno e, dunque, anche la morale.

A risolvere questa aporia Kant fa intervenire tre postulati della ragion pratica:l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio, la libertà.

• La libertà è il vero asse portante della morale kantiana: tutto il discorso suldovere e sull’imperativo non avrebbe senso se l’uomo non fosse capace di unacausalità libera. Essa è condizione primaria della possibilità di scelta e di respon-sabilità, quindi anche di ogni merito.

• L’immortalità dell’anima è la seconda condizione, visto che in questa vitanon si dà felicità in cambio di virtù.

• Terza condizione è Dio, in quanto unico essere che possieda la facoltà digarantire all’uomo virtuoso la meritata felicità.

Questi postulati, o presupposti indimostrabili, confermano che solo a livellomorale sia attingibile quella dimensione sovrasensibile che a livello conoscitivoè, invece, irraggiungibile. In questa possibilità sta il primato della ragion pratica.

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Il pensiero morale conosce, nel XIX secolo, nuovi sviluppi e tendenze, che, purfacendo i conti con l’elaborazione di Kant e dei pensatori dell’età moderna, nonpotranno non tener conto delle esperienze fondamentali con le quali il secolodeve misurarsi: dalla delusione per il fallimento della Rivoluzione francese, allanascita di un pensiero socialista che progetta una nuova società, al trionfo dellascienza e della tecnica legato alla Rivoluzione industriale.

Sia l’etica di matrice religiosa che quella di tipo razionale arretrano, lasciando spa-zio a nuove concezioni, legate o a nuove correnti culturali come il Romanticismo eil Positivismo o a nuovi sistemi di pensiero. Lungo tutto il secolo l’attacco all’eticatradizionale prosegue, trovando sempre più ascolto nelle borghesie europee e – pertaluni versi – nel proletariato industriale.

Romanticismo e Idealismo etico

Un posto preminente viene assegnato dal Romanticismo al sentimento, conce-pito come una forza di natura spirituale nella quale è possibile conciliare la natu-ra e lo spirito, la conoscenza e la moralità, il sensibile e il soprasensibile.

In tale riflessione viene da più parti criticata e messa in discussione la contrap-posizione kantiana fra legge morale e inclinazioni sensibili – cioè desideri e sen-timenti – da taluni giudicata come una forma di ascetismo moderno, incompati-bile con le tendenze più profonde della natura umana.

Anche un pensatore vicino al kantismo come Johann Christoph Friedrich Schiller(1759-1805) cerca, ad esempio, di sfuggire alla rigidità e all’astrattezza del rigori-smo kantiano proponendo un’educazione estetica nella quale si realizzi un’armo-nia fra la dignità morale dell’uomo e la grazia che è tipica della vita artistica.

Una fortissima tensione morale e ideale anima poi la prima elaborazione dellafilosofia idealistica. Questa, in Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), si affermacome un Idealismo etico. In essa da un lato viene riaffermato il primato kantianodella ragion pratica e dall’altro si fonda tale primato sull’Io infinito, sull’infinitacreatività dello spirito umano, descritto come perennemente proteso verso unapiena – anche se mai compiuta – realizzazione di sé. Questa tensione verso l’as-soluto è infatti un compito infinito, perché nello sforzo di realizzazione di sé l’Ioinfinito, che vive in ogni uomo, deve continuamente superare il non-io, la natu-ra, senza che tale superamento possa mai avvenire definitivamente. La libertà èl’infinito processo di liberazione dal non-io. In questo l’uomo può indefinitamen-te progredire e il dotto, l’intellettuale, ha il compito di indicare la via e di guida-re l’umanità verso le tappe future del suo sviluppo: è l’educatore dell’umanità.

Per Fichte, la stessa scelta della filosofia, la decisione di essere dogmatici o idea-listi “dipende da quello che si è come uomo”. Chi sceglie la prima filosofia ha unatteggiamento passivo ed è sottomesso alla schiavitù spirituale, mentre l’idealistacrede nella propria autonomia morale, nella libertà.

Moralità ed eticità

Negli sviluppi dell’Idealismo verrà confermata la tesi kantiana e fichtiana che lamoralità sia espressione e affermazione della libertà dell’uomo. Ma tale tesi verràinquadrata in una prospettiva storico-politica più ampia. Ad esempio, perFriedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854) la moralità può affermarsi solosul terreno concreto della storia, con le sue tensioni e i suoi conflitti. Quindi ilterreno autentico della moralità non è tanto – o soltanto – l’esperienza che di es-sa compie il singolo, l’individuo, quanto quello più generale dell’etica, cioè delladislocazione della morale sul piano della storia e della vita collettiva, in cui ven-gano a conciliarsi e ad essere garantite le libertà individuali.

Tale percorso trova la sua espressione più compiuta nel pensiero di Georg WilhelmFriedrich Hegel (1770-1831). Egli afferma il primato dello Spirito, punto d’arrivo deldivenire dialettico e razionale dell’Assoluto, e lo identifica con la libertà.

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La sua prospettiva, centrata sul “farsi dell’assoluto”, lo porta a criticare i limitidelle precedenti concezioni della morale. Di quelle a lui più vicine critica sia larousseauiana e romantica legge del cuore, di fronte alla quale il mondo continuaad andare avanti a modo suo, senza curarsi dei sentimenti e delle aspirazioni deisingoli, sia la legge kantiana del dover essere, che si è espressa anche nelle astrat-te idealità dei rivoluzionari. Anche in questo caso la moralità del “cavaliere dellavirtù” fallisce di fronte al corso delle cose, che non può esser piegato dalle istanzeindividuali. La critica a Kant si appunta soprattutto su un dover essere che nongarantisce la propria realizzazione e resta come pura aspirazione.

Per Hegel non è la moralità, ma l’eticità il vero luogo del compimento dello spi-rito a livello morale: uno Spirito che è in grado di realizzare i propri fini nei valo-ri storici di un popolo, quello che vive concretamente negli usi, nei costumi, nellareligione, nelle istituzioni storiche di un popolo. L’eticità vive e opera soprattuttoa livello di vita collettiva, nelle istituzioni e nella storia delle società umane. Siafferma, cioè, come spirito oggettivo. In esso la sfera individuale, interiore, dellamoralità, si contrappone a quella del diritto, che impone una data condotta dal-l’esterno, con la forza della legge.

La conciliazione di questi due momenti contrapposti si ha solo nella sfera del-l’eticità, cioè della famiglia, della società civile e, soprattutto, dello Stato, in cuisi realizza l’unità della famiglia e della società civile. Solo nello Stato si affermapienamente il contenuto etico della condotta degli individui, poiché esso è l’or-ganismo superiore del quale ciascuno viene a far parte e nel quale partecipa allosviluppo storico dello Spirito. La ragione vive nella dimensione etica dello Statoperché in questo si afferma come “universalità dotata di forza” e trova il supera-mento dell’egoismo individuale.

Morale dell’ascesi o ricerca di un fondamento religioso della morale?

Le tesi hegeliane verranno apertamente e da più parti contestate.Una prima forma di critica e contrapposizione la troviamo nelle concezioni che

– in piena età della Restaurazione – propongono vie ascetiche di liberazioneumana, oppure ripropongono, in forme tradizionali o con posizioni teoriche deltutto nuove e originali – una prospettiva di fondazione religiosa della morale.

Del primo tipo è la morale di Arthur Schopenhauer (1788-1860), per il qualela prospettiva etica è una delle vie di liberazione dal dolore che caratterizza l’in-tera esistenza umana. Una liberazione dal fattore che determina tale sofferenza eche viene identificato in una volontà cosmica, che in noi si manifesta come vitaoscura e profonda, come tumulto di desideri e brama di vivere.

Se l’arte – un altro mezzo che abbiamo a disposizione – libera solo tempora-neamente dalla volontà, l’etica costituisce invece un mezzo più efficace e dure-vole poiché afferma – contro i motivi della volontà, che assillano e spingono l’indi-viduo a desiderare tutto – dei quietivi della volontà, cioè delle ragioni che per-mettano di placarla, o perlomeno di allentarne il morso.

Ciò è possibile solo scegliendo atteggiamenti e tipi di condotta che conducanoal superamento dell’egoismo: scegliendo la giustizia, che è negazione della prati-ca di sopraffazione dell’uomo da parte dell’uomo (e che è riconoscimento della“dignità” di ogni essere umano) e scegliendo la compassione, un atteggiamentodi amore del prossimo basato essenzialmente sul riconoscimento di un comunedestino di dolore con gli altri uomini. Ma anche l’etica della compassione nonbasta, poiché non riesce ad annullare del tutto la volontà, cioè il “patire”, il sof-frire, che è insito in quel “com-patire”. Schopenhauer suggerisce allora come viad’uscita l’annientamento della volontà attraverso l’ascesi, la negazione in sé dellavolontà di vivere fino a raggiungere la noluntas (= non volontà), che sola permet-te di conseguire una vittoria definitiva sulla Volontà.

Nella prima metà dell’Ottocento a posizioni di spiritualismo religioso si rifannoaltre concezioni della morale. Ad esempio quella di François-Pierre Maine deBiran (1766-1824), per il quale la sfera della moralità è quella dell’interiorità del-l’anima e si fonda sull’amore, cioè su una forza che ha il suo fondamento fuoridell’anima, in Dio. O la concezione di Antonio Rosmini (1797-1855), che iden-tifica il bene morale con l’essere e critica Kant perché il bene non è affatto il pro-dotto dell’autonomia della ragione, ma ha la sua fonte nella trascendenza divina.

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Del tutto originale è la posizione di colui che è considerato il fondatore dell’e-sistenzialismo religioso, So/ren Aabye Kierkegaard (1813-1855). Egli afferma cheil singolo si trova – nella propria esistenza – di fronte ad aut-aut, cioè ad alterna-tive radicali, a scelte che è libero di fare ma nelle quali gioca tutto se stesso, inquanto scegliendo in un modo o nell’altro egli diviene ciò che sceglie.

Kierkegaard descrive tale aut-aut come possibilità di scelta fra tre stadi di vitanettamente distinti e alternativi fra di loro: lo stadio estetico, lo stadio etico e lostadio religioso.

• La vita dell’esteta è esteriorità, apparenza. La profonda disperazione interioreche si nasconde dietro la condotta dell’“esteta”, costruita interamente sull’appa-renza, porta gradualmente al compimento della scelta etica, superamento dellostadio estetico.

• Lo stadio etico è quello nel quale si è chiamati a superare quell’atteggiamentodi indifferenza, di non-scelta, di non-impegno che era tipico dell’esteta romantico.

La scelta – propria dello stadio etico – è invece assunzione di responsabilità,ancorata al matrimonio e al lavoro. Quelle etiche sono scelte che radicano nellacomunità sociale e fanno dell’uomo un membro di questa comunità.

• A mettere in crisi la vita etica è il senso di un’irriducibile tendenza al pecca-to, di una disposizione al male, che è presente in ogni uomo. La scelta che haportato allo stadio etico può quindi essere superata da una scelta del tutto diver-sa, capace di condurre a uno stadio religioso dell’esistenza. Esso è il luogo diun’esperienza in cui il singolo deve abbandonare ogni riferimento alla dimensio-ne etica – all’eticità hegeliana – per affidarsi totalmente a Dio: Abramo è prontoa sacrificare a Dio il suo unico figlio, Isacco, in nome di tale obbedienza. Ma èproprio in questo rapporto di “timore e tremore” con Dio, in un rapporto assolu-to con l’assoluto, che il singolo può realizzare se stesso.

La morale dell’utilità

Come in ogni altro campo della vita sociale e culturale, la Rivoluzione industria-le produce cambiamenti anche nelle concezioni della morale. Non pochi pensato-ri si pongono il problema di quale debba essere una morale adeguata alla societàindustriale, che costituisce qualcosa di radicalmente diverso dalle forme precedentidi associazione umana. Tali pensatori si identificano nelle correnti dell’Utilitarismoe del Positivismo.

L’Utilitarismo, in quanto identifica il bene con l’utile, cioè con le conseguenzemaggiormente positive per colui che effettua una determinata azione, costituisceuna posizione molto lontana dalla filosofia morale kantiana, dal suo rigorismo,dalla sua sottolineatura del valore dell’“intenzione” (e non delle “conseguenze”)come criterio di valutazione morale della condotta. L’utilitarismo costituisceancora oggi una delle tendenze della filosofia morale.

Non pochi l’hanno osteggiato – e lo osteggiano – perché lo ritengono portatoredi una concezione egoistica della condotta, legata cioè solo al calcolo dell’utileindividuale. In realtà, proprio su questo nodo centrale hanno riflettuto – e rifletto-no – i suoi sostenitori, che hanno cercato in vari modi di giustificare e comporrela ricerca dell’utile individuale con quella di un utile generale, o comunque este-so al maggior numero possibile di persone.

Tale è stata, ad esempio, la ricerca condotta ai primi dell’Ottocento dall’ingle-se Jeremy Bentham (1748-1832), per il quale il criterio fondamentale dell’azionemorale era la sua utilità, cioè la sua capacità di procurarci qualche bene o pre-servarci da qualche male.

Alla base della condotta deve esserci un’aritmetica morale, un calcolo di pia-ceri e dolori, cioè un’analisi dei piaceri e dei dolori che possiamo attenderci sce-gliendo una condotta invece di un’altra.

Obiettivo della morale e della legislazione è promuovere, nella società, “la mas-sima felicità per il più grande numero di persone ”. Bentham ha scelto la via quan-titativa del calcolo di piaceri e dolori perché solo questa – a suo parere – per-metteva di fornire un criterio “oggettivo”, su cui fosse possibile discutere e, soprat-tutto, misurare gli effetti probabili di una scelta, la quantità di benessere e di sof-ferenze che essa comporterebbe ove venisse effettuata. Ogni altro criterio era dalui considerato arbitrario.

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Eppure la questione che ha aperto con la sua posizione riguarda proprio la dif-ficoltà (o impossibilità, a seconda delle interpretazioni) di “calcolare” piaceri edolori. Ci si è chiesti: come è possibile confrontare piaceri diversi (o dolori diver-si) e, soprattutto, come è possibile confrontare la “percezione” che di piaceri edolori hanno persone diverse? e come è possibile distribuire equamente quei“beni” che pure si vorrebbe concedere al maggior numero di persone? Non puòverificarsi, infatti, il caso che, anche aumentando al massimo il monte comples-sivo di beni disponibile per una comunità, in mancanza di un equo criterio per laloro distribuzione, tali beni verrebbero assegnati in modo non equo, cioè iniquo,aumentando le differenze fra individuo e individuo?

Su questi – ed altri – interrogativi si è misurato il pensiero morale dopoBentham. Già in John Stuart Mill (1806-1873) vengono ad affermarsi tesi diverseda quelle di Bentham, frutto di una revisione critica del suo utilitarismo.

Pur ponendo anch’egli l’utile, il piacere, la felicità a fondamento della condot-ta umana, Mill, a differenza di Bentham, sottolinea che esiste non solo una quan-tità, ma anche una qualità dei piaceri. Ogni individuo ha una sua gerarchia di pia-ceri e perciò le sue scelte – quando non siano di danno agli altri – vanno giu-stificate in base a quelle gerarchie di qualità.

D’altra parte l’utilitarismo di Mill sottolinea con egual forza il valore sia dellaricerca dell’utile individuale sia dell’altruismo, cioè della ricerca della felicità gene-rale, anche ove ciò comportasse una somma di dispiaceri per l’individuo. Vi sonodelle condotte disinteressate, che ci inducono a preoccuparci della felicità di altri odell’umanità intera, anche se questo, sottolinea Mill, non contraddice affatto a quel-la tendenza al perseguimento della felicità personale.

Utopismo e Positivismo

Le contraddizioni determinate dalla Rivoluzione industriale favoriscononell’Ottocento – con lo sviluppo di teorie politico-sociali designate col termine di“utopismo” – anche talune considerazioni di ordine morale riguardanti i fenome-ni di costume indotti da quei processi industriali o le prospettive etiche che unnuovo ordine sociale potrebbe aprire all’umanità.

Claude-Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (1760-1825), ad esempio, ritie-ne che mentre nelle precedenti epoche storiche la guerra costituiva il principalefine della vita sociale, o comunque delle classi dirigenti, ora, con l’industralizza-zione, tale fine si identifica con la produzione, cioè con lo sviluppo crescente dellaproduzione e circolazione dei beni. Ed afferma quindi che non il valor militare, mal’amicizia s’impone come valore nuovo, coesivo, di questa società.

Per l’inglese Robert Owen (1771-1858) la moralità e il vizio sono in larga misu-ra determinati dalle condizioni sociali in cui vivono gli individui: è quindi crean-do condizioni nuove e più favorevoli di vita per tutti che sarà possibile sviluppa-re pienamente le potenzialità umane e affermare un’effettiva moralità della con-dotta – intendendo questa anche nei termini della morale tradizionale e nonnecessariamente come morale “nuova”.

Decisamente innovatrice, anzi alternativa rispetto ai valori della tradizione, siconfigura invece l’utopia sociale e morale del francese Charles Fourier (1772-1837), per il quale l’armonia sociale può essere conseguita solo attraverso unamorale non repressiva, ma volta a soddisfare e ad armonizzare le passioni umane,realizzando anche nuove condizioni comunitarie di vita nei falanstèri 1.

Per Auguste Comte (1798-1857), con cui si avvia il Positivismo, l’etica è internaalla sociologia in quanto le sue norme esprimono il livello di integrazione socialedell’individuo. All’uomo è connaturato l’impulso sociale che solo può garantire lasopravvivenza della specie. Perciò la sempre più completa e perfetta integrazionedell’individuo nella società costituisce per Comte un fattore indispensabile al pro-gresso umano e all’affermazione piena dell’umanità nel singolo. In particolare,come compito della nuova fase storica e come uno dei compiti primari della filo-sofia positivistica, Comte vede quello di favorire il passaggio da una morale teolo-gica a una morale industriale, basata su un’idea di utilità collettiva.

Tale orientamento si accentuerà nell’ultima fase della sua vita, nella quale si tra-sformerà in una specie di religione dell’umanità, del Grande-Essere, entità collet-tiva nella quale ogni individuo deve identificarsi, vincendo le tendenze egoisti-

1. Edifici costruiti epensati per ospitarecollettività di più di1000 lavoratori.

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Marx e la morale come ideologia

Una radicale revisione e un vero e proprio rovesciamento della morale si verifi-cano – nell’Ottocento e nel Novecento – con le posizioni di Marx, Nietzsche eFreud. Tutti e tre questi autori mostrano l’altra faccia delle norme e delle idee mora-li, una faccia nascosta che ne svela matrici e meccanismi di altra natura e che, dun-que, contesta non solo l’autonomia della morale, ma anche la sua validità.

Nel Marxismo sembra configurarsi – sia pure implicitamente – una teoria“sociologica” della morale. Friedrich Engels (1820-1895) e Karl Marx (1818-1883) descrivono in termini realistici le condizioni della classe operaia inglese edaffermano che i “vizi” degli operai, delle donne e dei figli del proletariato, sonola conseguenza delle condizioni di abbrutimento in cui essi sono costretti nellavoro e nelle città industriali. Ma questa loro riflessione si allarga fino alla criti-ca e alla negazione di tutte le concezioni che hanno affermato l’autonomia delleidee morali.

Secondo la concezione materialista della storia, non è la coscienza che deter-mina la vita, ma è la vita che determina la coscienza. La coscienza (e la stessacoscienza morale) è un prodotto storico, un prodotto sociale, si risolve cioè nellerelazioni storicamente prodottesi fra gli uomini. Poiché le idee sono un riflessodelle condizioni della vita materiale, sono cioè le idee delle classi dominanti, ilcambiamento delle idee (anche delle idee morali) può essere solo il frutto di uncambiamento dei processi materiali di vita, del modo di produzione che carat-terizza una data società.

Così alla crisi e al crollo del modo di produzione feudale ha corrisposto il crol-lo dei valori spirituali dell’etica medievale cristiana, a cui la borghesia ha sosti-tuito un unico valore, rappresentato dal denaro.

Marx ritiene giunto il momento di progettare e avviare la realizzazione dellarivoluzione per la liberazione della classe operaia e, con essa, dell’umanità inte-ra. Non sarà con la forza delle idee, ma solo con la forza di un soggetto storiconuovo, il proletariato, che si potrà cambiare il mondo: quindi con una forza pra-tica, perché “l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi ”.

Più tardi Engels chiarirà che anche le idee – quindi le idee morali – intervengo-no nei processi storici, cioè reagiscono alla base economica che le ha espresse eprodotte.

che. In tale nuova visione l’etica si renderà autonoma dalla sociologia e assurgeràal rango di scienza suprema, fondata su ciò che di più profondo vive nell’uomo,cioè sui sentimenti.

L’inglese Herbert Spencer (1820-1903) estende la teoria dell’evoluzione allamorale. I valori morali evolvono insieme alla specie umana. Essi impongonoobblighi, doveri che rispondono alle esigenze connesse con l’evoluzione dellaspecie. Il principio di utilità che guida la condotta degli individui viene da luiripensato alla luce non dell’immediato tornaconto di un’azione, ma delle esigen-ze di sviluppo e miglioramento della specie attraverso l’azione individuale.

Anche il comando morale è un prodotto dell’evoluzione: esso è frutto di unalunghissima sedimentazione di condotte coerenti ed appare come principio apriori nell’individuo, anche se – sul piano dell’evoluzione – ha un fondamentoempirico. Ad esempio, mentre alle origini dell’umanità il principio fondamentaledella condotta era quello della hobbesiana “guerra di tutti contro tutti”, lo svilup-po della specie ha portato all’affermarsi del principio opposto, quello dell’altrui-smo, che appare ora la condotta morale più adeguata alle esigenze della speciee può comportare – per l’individuo – il sacrificio di sé e della propria vita.

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CRITICA E NEGAZIONE DELLA MORALE FRA OTTOCENTO E NOVECENTO6

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Ci si è chiesti spesso se vi sia un’“etica” marxiana. Innanzitutto va escluso chela critica di Marx al capitalismo nasca da un giudizio di ordine morale: i capita-listi non vanno affossati perché sono “cattivi”, ma perché non sono in grado diguidare lo sviluppo delle forze produttive. Si potrebbe, però, dire che vi è unaforte spinta verso un’“etica della liberazione” del proletariato: liberazione dall’a-lienazione, che ha radici nella base economica capitalistica e nello sfruttamentodell’uomo sull’uomo e che si attua nell’attività produttiva da parte dei capitalisti,detentori della proprietà dei mezzi di produzione. La rivoluzione è il processo chedovrebbe condurre al comunismo come riappropriazione di tutta la ricchezzamateriale e spirituale prodotta, come umanesimo pienamente realizzato, passag-gio al “regno dell’uomo”.

Nietzsche e il rovesciamento di tutti i valori

Una critica delle mistificazioni della morale viene espressa da FriedrichWilhelm Nietzsche (1844-1900).

Egli supera l’originaria adesione alla filosofia di Schopenhauer, accusandola, peril suo ascetismo, di predicare una mortificazione delle energie vitali dell’individuo.

Annunciando la morte di Dio, Nietzsche proclama inoltre la crisi irreversibiledel pensiero filosofico e della morale dell’Occidente e afferma l’idea di una tra-svalutazione di tutti i valori, da realizzare mediante l’uso di un metodo genea-logico. Tale metodo costituisce un esercizio critico, un’azione di smaschera-mento delle motivazioni reali della condotta umana, al di là delle finzioni ipo-crite con cui esse vengono oscurate e nascoste: smascheramento di ciò che èdietro alla morale comune e alla morale cristiana, che Nietzsche ritiene stru-menti di dominio dei deboli sui forti. In particolare, la morale cristiana vieneconsiderata una morale del risentimento dei deboli contro i forti. Il conformismodella civiltà moderna, la predicazione del dovere, dell’obbedienza e dell’ugua-glianza sono figlie della morale del risentimento e s’identificano con il filistei-smo, con la manifestazione di un’ipocrisia sociale e di massa, che maschera lavera natura della morale.

Anche nel mondo interiore le cose non “sono” quel che “appaiono”: così leazioni morali, che riteniamo ispirate a valori, sono in realtà dettate da motividiversi da quelli che si mostrano. Questi motivi possono essere identificati conl’istinto di conservazione, per il quale l’uomo agisce con “l’intenzione di procu-rarsi un piacere e di evitare il dolore”. Il fondamento essenzialmente egocentri-co ed utilitario della condotta viene occultato dalla morale, che combatte aper-tamente il principio dell’utile. La morale è una forma di rassicurazione, fornisce“certezze” come la religione e la metafisica: di qui l’alleanza dell’asceta e delsanto contro il comune “nemico interiore”, cioè contro l’istinto di autoconser-vazione, e di qui le rinunce e i tormenti che accompagnano l’invenzione del“peccato”.

Di fronte alla “menzogna” della morale corrente Nietzsche propone una radi-cale inversione di valori. Contro le morali negatrici dei valori della vita, la sua èuna morale che è fedele alla terra e dice sì alla vita. È una morale aristocratica,un’etica dei migliori, di piena affermazione, forte e gioiosa, delle energie vitalidell’individuo.

Freud e la considerazione terapeutica della morale

Nel Novecento, anche la psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939) metterà indiscussione e sconvolgerà alcuni punti fermi della concezione tradizionale dellamorale.

La psicoanalisi dà una immagine dell’uomo ben diversa da quella su cui si eraattestata la società borghese, asburgica o vittoriana, perbenista e “razionale”. Dadove nascono nell’io le esigenze morali? Dal bisogno di controllare le pulsioniistintuali. L’io è il campo di battaglia di forze potenti, in conflitto tra di loro, chespesso sfuggono al controllo della parte cosciente. L’Io si presenta come la poten-za psichica che, dovendo fronteggiare una forza estranea che gli sfugge e gli sioppone, contrasta e nega l’inconscio, rimuovendo e respingendo soprattutto lepretese della sessualità.

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Due princìpi si scontrano nell’io. La forte spinta istintuale presente nella nostravita – a partire dalle pulsioni sessuali – è regolata dal principio del piacere. L’ioinvece segue il principio di realtà, che implica spesso una rinuncia alla soddisfa-zione immediata, o comunque un rinvio del conseguimento del piacere. Ma lepulsioni sessuali non accettano di essere regolate dal principio di realtà, così tral’io e la sessualità si determina una permanente tendenza al conflitto. Laddovetale conflitto non trova una composizione provvisoria, si produce la nevrosi. Lepulsioni sessuali che risultano inaccettabili per l’io vengono rimosse, allontanatedalla coscienza. Esse, comunque, non cessano di agire, ma cercano altre vie, altripercorsi per manifestarsi.

Freud vede operante nell’uomo anche una pulsione di morte, una permanentetendenza aggressiva, che gli fa riprendere l’hobbesiana affermazione dell’homohomini lupus. L’uomo civile per difendersi dagli effetti nefasti dell’aggressività hadovuto barattare la possibilità di soddisfare le sue pulsioni istintuali per un po’ disicurezza. Ma questa repressione degli istinti voluta dalla civiltà spiega come mail’uomo contemporaneo non sia felice.

In questo quadro l’etica appare come lo sforzo della civiltà per control-lare le pulsioni aggressive degli uomini, che minacciano di distruggere lasocietà incivilita, ponendo restrizioni alla vita sessuale e proponendo ilraggiungimento – impossibile secondo Freud – dell’ideale di amare ilprossimo come se stessi. Freud definisce l’etica “un esperimento tera-peutico” che, attraverso gli imperativi del Super-io, cerca di raggiungerequel risultato che non è stato possibile raggiungere in alcun altro modo. IlSuper-io, la fonte interiore del comando morale, è costituito dall’inte-riorizzazione dei comandi e dei divieti che genitori ed educatorihanno rivolto al bambino e che rispecchiano i valori di un mondo, diuna società. Centrale, per la coscienza morale, è il senso di colpa,che deriva dalla tensione tra il Super-io e l’Io e si manifesta comebisogno di punizione.

Considerando l’opera del Super-io dal punto di vista della curadelle nevrosi, Freud critica l’eccessivo peso dato a imperativi e divie-ti e la scarsa attenzione per la felicità dell’uomo. Come psicoanalistacombatte le pretese eccessive del Super-io, è scettico sulla possibi-lità che si possano produrre cambiamenti in senso riformatorenella nostra civiltà, poiché ritiene che alcune difficoltà siano ine-renti all’essenza stessa della civiltà, siano ad essa costitutive;quindi teme che anche in futuro vi saranno repressione e soffe-renze.

Henry Moore, Figura di forma di foglia n. 1, 1952.

Much Hadham (Herts), Collezione Mary Moore.

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Ancora più varia e articolata è la presenza di teorie morali nel Novecento sulle qualiincide il pensiero di Marx, Nietzsche e Freud e la loro critica della morale. Sono lostesso sviluppo della società industriale moderna e le vicende e le lacerazioni semprepiù dolorose e drammatiche del secolo a porre in primo piano la questione del signi-ficato dell’esistenza umana e a creare problemi sempre più complessi di ordine mora-le nell’individuo e fra gli individui.

Si è parlato, ad esempio, di anomia (con Emile Durkheim, 1858-1917) perdescrivere il venir meno o la disintegrazione delle norme, dei valori che lo svi-luppo di questa società determina. Nelle società moderne gli individui, perso ilriferimento ai valori tradizionali, hanno un grado insufficiente di integrazionenella collettività. Così, abbandonati a se stessi, animati da desideri senza limiti,coinvolti in una competizione reciproca permanente, essi si aspettano molto dallavita e le chiedono molto, ma, per la sproporzione tra le aspirazioni e le soddisfa-zioni, si espongono a insoddisfazioni e sofferenze, che spiegano, ad esempio, ilfenomeno dell’aumento dei suicidi.

La filosofia, le scienze umane, il pensiero religioso e politico offrono analisicontrastanti di tale anomia e, soprattutto, soluzioni contrapposte sul piano etico.

Le etiche dello spirito

Una delle tendenze che si affermano sin dagli inizi del secolo e con cui si tentadi fornire un’analisi ed una risposta al problema morale della società contempo-ranea è quella costituita dallo Spiritualismo e dall’Idealismo. Sono concezionidiverse, ma caratterizzate dalla comune opposizione alla cultura positivista, alsuo scientismo e al suo materialismo. Di fronte a un mondo sempre più domina-to dalla razionalità della tecnica, esse si richiamano, sia pure attribuendogli diver-se accezioni e significati, allo spirito e a un suo rinnovato primato. Questa con-cezione spiritualista riafferma la centralità della coscienza, della vita interiore, deisentimenti. Comporta spesso la riaffermazione delle istanze morali, talvolta dimatrice religiosa, che si esprimono nella sfera intima della coscienza. La realtàesterna viene concepita come semplice mezzo per il conseguimento dei fini ulti-mi della vita dell’uomo, dei valori spirituali a cui essa si orienta e nei quali sol-tanto può trovare una sua compiuta ed autentica realizzazione.

Per Henri Bergson (1859-1941) non solo la coscienza ma l’intera realtà è crea-tività infinita, è fluire, durata, vita, slancio creatore.

Nella coscienza, comunque, la libertà non ha un valore assoluto, poiché nel-l’individuo esiste un io parassitario che ostacola e rischia sempre di sovrapporsiall’io fondamentale, a causa di un’incompiuta formazione di sentimenti, statimentali, idee. La libertà sembra quindi affermarsi solo quando riesce a prevaleresu quelle tendenze frenanti, “parassitarie”, e quando i singoli atti esprimono com-piutamente l’impronta della personalità di chi li compie.

Le due tendenze in conflitto sono a fondamento di due modelli opposti disocietà e di morale. La società chiusa è regolata – oltre che dalle abitudini – danorme giuridiche costrittive e da imperativi morali altrettanto prescrittivi. Implicitain quest’orientamento morale vi è la necessità di difendersi dagli altri, quindi vi èil fine della conservazione individuale e sociale. La fonte dell’obbligazione mora-le è l’esigenza sociale e non la ragione (come pensava Kant). La società apertanon è dominata dall’amor di patria (cioè da esigenze di auto-difesa) ma dall’a-more dell’umanità. Essa ha il suo fondamento in una morale assoluta, nella qualepredominano lo slancio e l’iniziativa degli individui e si sviluppa una vita mul-tiforme, ricca, perennemente sollecitata a progredire, aperta allo sviluppo dell’u-manità intera. È una morale che richiede l’eroismo, perché si affermi un ideale diamore, che è fondato in Dio.

Afferma il primato dello spirito anche l’idealismo di Giovanni Gentile (1875-1944), ma lo intende come soggettività trascendentale del pensiero, come attivitàcreatrice, come un conoscere e un fare strettamente intrecciati fra loro. La mora-lità ha il suo principio ultimo nell’atto del pensiero, che è un atto di libertà con il

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quale il soggetto vince la passività e l’inerzia e supera l’orizzonte particolaristicodell’interesse individuale. Sii atto: questo è l’autentico imperativo morale. Sullamoralità ha fondamento lo stesso diritto e anche lo Stato, come per Hegel, è Statoetico, l’“assoluto” nel quale riconfluisce e trova la sua ragion d’essere il “relati-vo”, che è costituito dagli individui stessi, i cui interessi più profondi vengono acoincidere con la “missione” storica e spirituale dello Stato nazionale.

Benedetto Croce (1866-1952) – come Gentile – vede nell’Idealismo l’unicaconcezione della vita e del mondo che possa favorire una “rivoluzione intellet-tuale e morale” in Italia, una rivoluzione eminentemente spirituale. Ma egli con-cepisce la morale come uno dei momenti autonomi della vita dello spirito, voltoalla volizione dell’universale, cioè al perseguimento del bene e della virtù, che ènettamente distinto dalla sfera dell’utile, relativa all’economia e all’esercizio sta-tuale della forza. A differenza di ciò che aveva affermato Gentile, Croce non ridu-ce la moralità a statualità, a politica. La moralità trascende la politica perché tra-scende la sfera dell’utile e costituisce il culmine della vita dello spirito. È l’affer-marsi della libertà, sia come esigenza che come realtà costituita dall’azione mora-le: Croce ha chiamato il suo liberalismo religione della libertà.

Il problema dell’assolutezza o della relatività dei valori

In un contesto culturale diverso, cioè nella Germania fra gli ultimi decennidell’Ottocento e i primi del Novecento, il Neokantismo e lo Storicismo tedescoincentrano il discorso morale sull’etica dei valori e definiscono lo spazio dell’eti-ca distinto da quello della scienza: l’uno è il campo dei giudizi di fatto, l’altroquello dei giudizi di valore. A dividere i pensatori di questo periodo è soprattuttola tesi della assolutezza o relatività dei valori.

Secondo i neokantiani Wilhelm Windelband (1848-1915) e Heinrich Rickert(1863-1936), mentre la scienza formula giudizi di fatto, la filosofia formula giu-dizi di valore, è cioè “scienza dei valori necessari e universali”. Il giudizio mora-le permette di descrivere il significato di un fatto rispetto a un valore e i valori ven-gono riproposti come una misura assoluta del vivere, che ha il suo fondamentonon in una realtà metafisica o in un essere trascendente, ma nella ragione, cheviene descritta come coscienza normale, capace di prospettare agli uomini fina-lità superiori e norme di comportamento coerenti.

Per molti esponenti dello Storicismo tedesco tutto questo non è accettabile. PerGeorg Simmel (1858-1918), ad esempio, non esiste una verità “assoluta”. Laverità è solo relativa. Le stesse categorie kantiane sono storicamente determina-te. Né il dover-essere può essere disancorato dal soggetto empirico nel quale simanifesta: ogni visione del mondo si lega alla vita degli individui e muta col mu-tare di questa. I valori sono quindi relativi, non assoluti.

Ma altri due esponenti dello Storicismo tedesco, Ernst Troeltsch (1865-1923) eFriedrich Meinecke (1862-1954), tentano di evitare il relativismo dei valori. Ilprimo afferma che quando si parla di relatività dei valori lo si può fare solo rife-rendoli a qualcosa di assoluto che li comprende, ad un a priori religioso. Il secon-do afferma che – al di là del relativismo storico – esiste una realtà che non muta:ed è la coscienza, concepita nella sua specificità e “assolutezza” spirituale.

Per Wilhelm Dilthey (1833-1911) la storia è costituita da visioni del mondo,cioè da proiezioni del soggetto umano nella storia, modi in cui la realtà si orga-nizza in riferimento a un valore dominante. Gli eventi storici hanno una connes-sione dinamica a scopi e a valori.

Max Weber (1864-1920) distingue anzitutto i due piani dei fatti e dei valori: ilprimo riguarda sia la natura sia la società ed è oggetto di proposizioni scientifi-che, non valutative, il secondo riguarda, invece, il giudizio morale sulla condot-ta ed è oggetto di proposizioni valutative. Il giudizio morale può riguardare, a suavolta, le conseguenze dell’azione, oppure i princìpi a cui essa si ispira. Vi sonodue diversi livelli della vita morale, nei quali è presente l’idea kantiana del dove-re: l’etica della responsabilità e l’etica dell’intenzione.

Etica della responsabilità è quella di chi, prima di agire, valuta le conseguenzedella propria azione. È quindi espressione di un agire razionale rispetto alloscopo. Questo è il modello di comportamento tipico della società capitalistica:

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quello dell’imprenditore che opera un calcolo economico in base al quale cercadi “ottimizzare” l’uso dei mezzi in relazione ai risultati cercati (e che si ritrovaanche nell’operare dello scienziato o dell’ingegnere). Il comportamento non èquindi valutato in base alla sua rispondenza a valori, ma in relazione alle sue con-seguenze. Qui la considerazione etica punta più sui mezzi che sui valori.

Etica dell’intenzione è quella, più aderente alla visione kantiana, di chi operaunicamente sulla base di scopi aderenti alle proprie convinzioni ed ai quali siattribuisce un valore indipendentemente da quello che sarà il loro esito. Conta, inessa, solo la corrispondenza del comportamento a un determinato valore. Quindisi lega all’agire razionale rispetto al valore, che, a differenza del precedente tipodi condotta, segue uno scopo non utilitario ma ideale.

Vi sono quindi decisioni che impegnano la responsabilità dell’individuo e dal cuiesito dipende il senso stesso della sua esistenza, e scelte, altrettanto impegnative,legate a convinzioni profonde, intensamente sentite, che talvolta pongono l’indi-viduo contro il mondo, contro il senso comune: sono, ad esempio, quelle cheemergono dalle pagine – altissime – dell’evangelico Discorso della montagna.

Il Pragmatismo e il problema della morale

Forte è il legame che nel Pragmatismo si stabilisce fra conoscenza e azione. Inesso il pensiero viene considerato soprattutto dal punto di vista della sua effica-cia, dei suoi effetti pratici. Il valore di un’idea o di un sistema di idee è costituitosoprattutto dalla sua capacità di orientare l’azione umana, cioè di produrre deiprincìpi per l’azione.

Essenziale, in Charles Sanders Peirce (1839-1914), è il ruolo che nella cono-scenza hanno le credenze, cioè le convinzioni basate su un sentimento che ten-dono a trasformarsi in abitudine. Grazie alle credenze la conoscenza si affermacome un fatto non solo teoretico ma anche pratico, in quanto mira a definire cri-teri e princìpi per la condotta e a produrre negli individui abitudini tali da aiutar-li a reagire in modo adeguato al presentarsi di determinate circostanze.

Tesi centrale del pragmatismo di William James (1842-1910) è che ogni idea,ogni concetto abbia solo un valore pratico, cioè valga per l’incidenza che puòavere sulla condotta. Vere, quindi, sono unicamente le idee che ci permettono di“andare avanti”, di collegare fra loro in modo soddisfacente i vari aspetti dellarealtà e che si dimostrano, in tal senso, utili, cioè efficaci per l’uomo e per la suaazione nel mondo.

Rispetto a Peirce, James sottolinea con maggiore forza il ruolo della volontà dicredere nella vita dell’uomo. La credenza riguarda la morale, oltre che la religione,e riguarda i rapporti umani (come avviene, ad esempio, nell’amore). In ogni caso ri-guarda ciò che non è verificabile, quindi dà validità a scelte basate su istanze meta-fisiche, se esse sono ritenute utili o necessarie ad un’azione efficace nel mondo.

Di John Dewey (1859-1952) è la concezione chiamata strumentalismo, stretta-mente legata alla relazione dinamica uomo-ambiente, al carattere incerto e insta-bile dell’esistenza e al conseguente ruolo strumentale che ha l’intelligenza peraffrontare e risolvere le situazioni problematiche. Anche l’etica, come la scienza,è strumento per conseguire risultati essenziali: in particolare persegue l’obiettivodi elevare e arricchire di significati la vita umana. Dewey segue un indirizzodichiaratamente antispiritualistico.

L’etica non costituisce una dimensione a sé, staccata dall’esperienza, cioè dallecondizioni concrete in cui gli uomini vivono. I valori non sono indipendenti dallanatura, ma sono qualità proprie a determinati eventi. Occorre distinguere fra valo-ri di fatto (legati a beni desiderati nella loro immediatezza) e valori di diritto(legati a beni desiderabili in quanto ragionevoli). Proprio l’incremento dei valoridi diritto nella società umana costituisce il segno del suo progresso.

Non è inoltre possibile separare la morale come teoria dei fini dall’esistenza deimezzi che sono necessari per attuarli. I fini nascono da bisogni e interessi da sod-disfare e richiedono mezzi adeguati di attuazione, da cui non possono esseredisgiunti. Così si determina una circolarità fra mezzi e fini, in quanto, appenaattuati, i fini si trasformano in mezzi per il conseguimento di fini ulteriori oppure,al contrario, i mezzi si trasformano in fini. Occorre superare l’idea che esistanofini “superiori” e fini “inferiori”, fini “assoluti” (imposti come dogmi) e fini solo

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“relativi”. La moralità non appartiene né ad una sfera trascendente né alla solasfera interiore: essa è impegno, iniziativa nel mondo, realizzazione di risultati.Alla morale va esteso lo “spirito della scienza”, cioè quel senso di problematicitàe di apertura che è proprio dei saperi scientifici e che ha permesso all’uomo diconseguire tanti positivi risultati.

L’etica fenomenologica dei valori

Fra le realtà e le forme culturali che sono oggetto dell’indagine fenomenologi-ca proposta da Edmund Husserl (1859-1938) vi sono anche quelle relative allavita morale. Esse però vengono trattate in modo contemplativo e, per così dire,neutrale, senza che il filosofo partecipi alla varietà degli interessi e degli scopi chesottendono. Anche di quelle realtà il pensiero fenomenologico cerca di indivi-duare il significato essenziale che presentano all’intenzionalità della coscienza.

Spazio per una considerazione morale è offerto dal rapporto con l’altro.All’interno della coscienza sono percepiti, oltre al mondo, anche gli altri.L’“altro”, dunque, è in qualche modo immanente in me, anche se avverto che èdiverso da me. Posso comunicare con lui e sentire – attraverso l’empatia – lanostra comune umanità: comprendo la fondamentale somiglianza dell’altro a mee viceversa. L’empatia mi consente di penetrare nell’altro, di “mettermi nei suoipanni”, anche se resta fondamentalmente altro e diverso da me.

L’effettiva applicazione dell’indagine fenomenologica all’etica si ha solo conMax Scheler (1874-1928). È necessario fondare l’etica su contenuti, cioè su valo-ri aventi il carattere dell’universalità e della necessità. È possibile riconoscere edescrivere tali valori attraverso l’analisi fenomenologica dei sentimenti dellacoscienza. Questi sono una forma di esperienza i cui oggetti, pur risultando inac-cessibili all’intelletto, sono “autenticamente oggettivi”, cioè sono valori. Essi sonoa priori, eterni, assolutamente evidenti: l’imperativo che prescrive tali contenuti,tali valori, non è “ipotetico”, come riteneva Kant, ma “categorico”.

Il luogo dei valori morali è la persona. Alla base dell’intenzionalità verso i valo-ri c’è un puro sentire, cioè un’intuizione sentimentale, un atto del sentire che èun atto preferenziale, con il quale la coscienza antepone un valore ad altri, secon-do un ordine, una gerarchia che ha al suo culmine la simpatia e l’amore, cheScheler considera dei princìpi costitutivi di ogni agire morale, in quanto la mora-le è interpersonale, sociale.

L’italiano Antonio Banfi (1886-1957) ha esteso la considerazione fenomenolo-gica dell’etica all’éthos, al costume del popolo di cui un individuo fa parte. Esso,insieme alla responsabilità personale dell’individuo per le scelte e decisioni cheegli prende, costituisce la polarità che alimenta la tensione morale e ne determi-na la problematicità. La morale comprende entrambi i termini del rapporto e nonrisolve (come in Hegel e Gentile) il significato dell’esistenza individuale nell’uni-versalità dello Stato etico.

Il vuoto di valori della società contemporanea e l’Esistenzialismo

Per l’Esistenzialismo la filosofia non si limita alla contemplazione, ma divieneatto esistenziale, cioè impegno e ricerca di una dimensione del vivere, coerenteed autentica, quindi acquista una dimensione pratica. Questa filosofia descrive ilsoggetto umano nella sua singolarità, come essere finito e percorso da incertezzee angosce: dinanzi all’uomo non c’è più ormai nessun mondo di valori a cui fareriferimento e capace di orientarlo nella sua vita. L’etica si configura come costru-zione di un’esistenza autentica, come ricerca del senso dell’essere, che è anchesenso dell’esistenza umana.

Il pensiero di Martin Heidegger (1889-1976), ponendo la questione del sensodell’essere, cerca di rendere trasparente l’essere a colui che lo cerca e per il qualel’essere costituisce un problema. Questo è l’essere determinato dell’uomo, cioè ilDasein (o “esser-ci”) e si caratterizza come intenzionalità, tensione verso altro,trascendimento di sé. È un essere-nel-mondo e un essere-con-altri, apertura versoil mondo degli oggetti e delle persone, che si identifica con l’utilizzabilità di talioggetti e persone. L’uomo è progettualità, possibilità. Il suo modo d’essere speci-fico è quello di dover ogni volta prendere decisioni, di dover ogni volta impe-gnare tutto se stesso.

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L’esistenza può esser vissuta in due modi: come vita inautentica oppure inmodo autentico.

Inautentico è il disperdersi nella banalità della vita quotidiana, scegliere di tra-scorrere la propria vita disperdendosi e alienandosi fra le cose, trasformandosi inuna cosa fra cose, vivendo la propria esistenza come routine.

Anche se tutto, compresa la vita morale, sembra condurre l’uomo all’inautenti-cità del vivere, il morire, la possibilità e l’inevitabilità del morire, è ciò che stac-ca l’individuo da quella trama di relazioni che lo irretisce e lo svuota. Il morirepone cioè l’uomo di fronte al nulla, lo mette in discussione come esistente. Essoè una permanente possibilità. Quindi non si tratta di fuggire la morte (perché èimpossibile) ma, al contrario, di accettare pienamente la morte, di trasformare l’e-sistenza in un essere-per-la-morte, in un vivere in funzione del morire, in unadecisione che anticipa – in noi – quel che comunque avverrà, favorendo una con-dotta coerente con tale presa di coscienza. Lo stesso presente perde la sua insi-gnificanza, si trasforma in istante nel quale ritroviamo il senso di noi stessi in con-tinuità con la nostra storia, con quello che Heidegger chiama il nostro destino.

Anche per Karl Jaspers (1883-1969) la filosofia ha – come compito – lachiarificazione dell’esistenza di quel singolo che sono io. Dimensione esistenzialedell’uomo è la ricerca dell’essere, come mancanza dell’essere nel mondo dellecose e degli uomini. Una mancanza che genera inquietudine, alimenta uno statodi insoddisfazione e spinge alla ricerca. Al culmine di tale ricerca dell’essere vi èil riconoscimento del limite costitutivo dell’esistenza, cioè dell’irriducibile fini-tezza della condizione umana. Il passaggio che l’uomo può compiere è il saltodall’Immanenza alla Trascendenza, per giungere al principio originario dell’Esserestesso. In questo salto si fonda la libertà assoluta dell’esistenza, ma l’essere non silascia afferrare e sembra comportarsi come chi lascia tracce. L’annuncio dell’es-sere avviene nella forma della cifra, del simbolo, che si manifesta soprattutto nellesituazioni-limite, nelle quali la trascendenza si annuncia proprio mentre l’indivi-duo avverte di trovarsi come di fronte a un muro.

Per Jean-Paul Sartre (1905-1980) la riflessione esistenziale è riflessione e anali-si della coscienza. Questa, oltre a essere-nel-mondo, è libertà che annulla l’esse-re e ne nega l’opacità, il meccanismo causale. Così l’esistenza umana è progetto,libertà, scelta continua. Ma questa libertà è anche indifferenza di ciò che vienescelto: tutte le scelte si equivalgono. La vita è priva di senso, non ha attrattiva. Lanausea si estende su tutta l’esistenza. E gli altri? “Gli altri sono l’inferno”, un o-stacolo per la mia libertà.

Nel dopoguerra, anche in seguito alle esperienze politiche e umane da lui vis-sute in quegli anni e al dialogo che apre con le posizioni marxiste, l’analisi esi-stenziale di Sartre assume aspetti e potenzialità positive. Il filosofare diviene soste-gno critico alle scelte e alle assunzioni di responsabilità. La dimensione “proget-tuale” della libertà non è più concepita come indifferenza delle scelte, ma comeresponsabilità assoluta del soggetto e delle sue scelte. L’uomo, dice Sartre, saràquello che avrà progettato di essere. Egli è totalmente responsabile della suaesistenza, non solo per sé ma per tutti gli uomini. Chi sceglie, sceglie per sé e pertutti gli altri uomini. In ultimo, la teoria della libertà diviene teoria della libera-zione dall’oppressione.

La libertà non è più l’“incondizionato”, ma è dialettica fra condizionamentoche la situazione determina sull’individuo (delimitandone anche il campo dellepossibilità a lui date) e ri-condizionamento di quella situazione, cioè sforzo dioltrepassamento della situazione stessa.

Secondo Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) la coscienza ha sempre a chefare con un corpo, infatti tramite il corpo si entra in rapporto con gli altri e con lasituazione storica. Merleau-Ponty, a differenza del primo Sartre, non intende ilrapporto intersoggettivo come antagonismo, ma come comunicazione e solida-rietà. Non vi può essere una libertà incondizionata, ma solo una libertà inseritain una rete di condizionamenti e di possibilità. Noi siamo sempre inseriti in unasituazione. La mia libertà è un essere-con-gli-altri.

Nicola Abbagnano (1901-1990), infine, descrive l’esistenza umana come pos-sibilità, ma la intende in senso positivo, come sforzo e impegno di stabilire rap-porti positivi con il mondo, di costruire un’umanità più libera, una società piùaperta.

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Il Marxismo: il principio speranza contro la mercificazione e reificazione dell’uomo

Una nuova considerazione del fenomeno morale emerge da talune posizionidel Marxismo occidentale, nelle quali si affermano tendenze soggettivistiche eanti-economicistiche, di rivalutazione del ruolo attivo della “sovrastruttura”, cioèdelle idee e delle esigenze dei soggetti rispetto al condizionamento operato su diloro dalla “struttura” economico-sociale.

Già agli inizi del secolo Eduard Bernstein (1850-1932), nella sua opera di revi-sione della teoria di Marx aveva recuperato l’etica kantiana della libertà, affer-mando il principio della dignità della persona umana come base per promuove-re processi di trasformazione democratica della società.

Antonio Gramsci (1891-1937) interpreta il Marxismo come filosofia della pras-si, cioè come teoria e concezione del mondo legate all’azione, alla lotta per ilsuperamento della società capitalistica. Per lui le ideologie – e quindi anche leidee morali – hanno, sì, la loro sede in determinati contesti economico-sociali epolitici, ma sono anche il luogo in cui i soggetti prendono coscienza dei conflit-ti reali. Il suo concetto di egemonia esprime, fra l’altro, la capacità di direzione diun’intera società da parte di una classe sociale, e capacità di direzione intellet-tuale e morale – non solo politica ed economica – di quella società. Compitoessenziale del partito rivoluzionario e degli intellettuali organici della classe ope-raia deve essere, quindi, quello di realizzare – allo stesso tempo – una trasforma-zione politica e sociale e una riforma intellettuale e morale della società italiana.

Anche György Lukács (1885-1971) non afferma più la supremazia del fattoreeconomico, né un rigido determinismo economico rispetto alla dimensione sog-gettiva, “spirituale”. Rilevante da un punto di vista etico è la riproposizione dellateoria marxiana della reificazione prodotta dalla società capitalista. Così i rap-porti umani si presentano come rapporti tra “cose”, sono cioè “mercificati”,indipendentemente e contro la stessa volontà umana. Con il feticismo delle mercii rapporti sociali tra produttori assumono forme fantastiche di rapporti tra cose.Solo la rivoluzione può liberare i rapporti umani dalla reificazione.

Nell’ultimo periodo della vita Lukács ha esplorato la complessità dei rapportiche collegano l’etica alla trama dei rapporti umani storicamente determinati, stu-diando soprattutto le forme della vita quotidiana, cioè il riflesso che i processigenerali della società hanno sulla vita dei singoli e sui rapporti inter-individuali.

Ernst Bloch (1885-1977) connette il Marxismo ad una visione della storia fon-data sul principio speranza, cioè su una tensione di tipo “escatologico”, di rige-nerazione radicale dell’umanità attraverso l’attuazione del comunismo. L’uomovive proteso verso il futuro, verso un orizzonte di possibilità. A caratterizzare lanatura umana sono l’inquietudine e la tensione continua verso il futuro, essa èmancanza, ma una mancanza nella quale si afferma una disposizione positiva,una coscienza della possibilità di realizzazione. Non solo l’alienazione economi-ca descritta da Marx, dunque, ma anche un’alienazione che ha origine da un’in-compiutezza costitutiva della natura umana. Lo spirito dell’utopia è una tensioneproduttiva delle coscienze che è volta a soddisfare quella carenza d’essere, quel-la mancanza. Esprime bisogni umani profondi ed è caratterizzato dall’entusiasmo.Senza quell’entusiasmo, senza quella tensione ideale e utopica, il movimentorivoluzionario è condannato al fallimento.

La critica della ragione strumentale

L’ispirazione critica del pensiero marxista nei confronti dell’universo capitalistaviene ripresa dalla scuola di Francoforte. Essa sottopone ad una serrata analisi sia levisioni dogmatiche del Marxismo sia la ragione strumentale di Weber; tale ragioneestende all’uomo il dominio che è stato capace di stabilire sulla natura: un potereautoritario, che domina ogni rapporto umano e condanna l’individuo, il soggetto.

Per Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), il mondo costruito dalla razionalità strumentale capitalistica è un’organiz-zazione priva di ogni scopo oggettivo dal punto di vista morale. La ragione èdiventata “finalità senza scopo”, ha represso tutti gli istinti dell’uomo ed ha anchedistrutto come pregiudizi o falsi valori tutti i fini. In questo vuoto ha trovato spa-

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zio il dominio dei “forti”, delle classi borghesi, si è quindi affermato il totali-tarismo. La ragione si è risolta nel suo opposto, la civiltà si è rovesciata in barba-rie. L’uso dei mezzi di comunicazione di massa e l’assunzione, da parte dellafamiglia, di un ruolo autoritario, hanno prodotto inoltre forme di dominio chesono state “interiorizzate” da coloro che, secondo Marx, avrebbero dovuto esse-re i soggetti fondamentali della liberazione dal capitalismo, cioè dagli operai.

Herbert Marcuse (1898-1979) esamina il problema del rapporto fra individuo esocietà dal punto di vista della felicità dei singoli, dell’eros, e connette, a tal fine,la tesi freudiana della repressione degli istinti e dei desideri con la teoria criticadella società. Egli vede cioè la “società del benessere” come quella in cui l’azio-ne repressiva delle tendenze individuali – già evidenziata da Freud – viene adessere generalizzata, estendendosi a tutti gli strati della società. Essa soffoca letendenze spontanee e la creatività dei singoli perché si preoccupa di realizzareuna piena integrazione degli individui nelle strutture e nei sistemi di regole dellasocietà stessa. L’aumento della produttività del lavoro e del tempo di non-lavorodovrà incrementare attività nelle quali gli individui possano coltivare se stessi, leproprie capacità creative e consentire un libero esprimersi dell’eros, un affermar-si della spontaneità, della creatività e della comunicazione umane.

Per Erich Fromm (1900-1980) occorre operare una scelta di fondo fra avere edessere: l’avere è quello della società capitalistica e dei consumi, l’essere è quellodella realizzazione dei bisogni più profondi dell’uomo. Fra i valori che occorrepromuovere vi sono quelli della vita, della libertà e della liberazione del lavoro.Tutti devono essere messi in condizione di realizzarsi pienamente e di esercitarel’arte di amare.

Cristianesimo e riflessione morale

Anche all’interno del mondo cattolico la riflessione morale conosce momenti digrande intensità. La cultura cattolica del Novecento si apre al dialogo con i prin-cipali indirizzi e orientamenti di pensiero del nostro tempo.

Grande influsso avrà la filosofia dell’azione di Maurice Blondel (1861-1949) sulsorgere di un movimento – quello modernista – che verrà condannato dalle auto-rità ecclesiastiche. Ma – al di là del dibattito teologico – di Blondel verrà recepi-ta soprattutto l’analisi sulla volontà, cioè sul permanente contrasto fra la volontàe quello che essa riesce a realizzare, sulla sproporzione che sussiste fra la tensio-ne infinita della volontà che produce l’azione ed i risultati, sempre parziali, a cuidà luogo. Un contrasto e una sproporzione che possono trovare una composizio-ne solo nella prospettiva religiosa cristiana.

Per Gabriel Marcel (1889-1973), fautore di un esistenzialismo cristiano, l’uomoha dinanzi a sé una alternativa radicale: quella tra Avere ed Essere. Occorre sce-gliere: o perdersi nel mondo del possesso e della tecnica, che è il mondo del-l’oggettivazione, o vivere il mistero dell’essere nel quale si è coinvolti e che ci tra-scende. L’alienazione del mondo contemporaneo sta nel predominio dell’averesull’essere, prodotto di un atteggiamento che vuole impadronirsi dell’oggettodella conoscenza.

Jacques Maritain (1882-1973) – nel quadro di un recupero pieno della prospet-tiva neotomista – propone invece un umanesimo integrale, in cui l’uomo è vistonella pienezza del suo essere sia naturale che sovrannaturale e che, soprattutto,mira a costituire una nuova civiltà centrata sul riconoscimento e sulla valorizza-zione della persona. Alla base dell’etica neotomista c’è un’idea metafisica del-l’essenza dell’uomo, della sua dimensione ontologica: è proprio la considerazio-ne di tale natura a garantire la sua “dignità” e “sacralità”. I caratteri della nuovacristianità dovranno poggiare – secondo Maritain – sul riconoscimento della sacralibertà dell’uomo, del pluralismo e dell’autonomia dell’ordine temporale, in basealla quale il bene della vita civile è un valore ed un fine ultimo nel proprio ordi-ne, anche se subordinato al fine ultimo assoluto.

Emmanuel Mounier (1905-1950) pone il personalismo al centro della sua con-cezione cristiana. Per essere completa, la rivoluzione del nostro tempo dovrà esse-re personalista e comunitaria. La persona si realizza perseguendo valori che sonoposti all’infinito, scegliendo qualcosa che valga più della vita.

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La riflessione morale ha preso, negli ultimi decenni, una molteplicità di direzio-ni. Vi sono posizioni che continuano a richiamarsi a teorie generali, a visioni e ainterpretazioni globali della realtà e altre che sono, invece, circoscritte ad ambitidelimitati di indagine. Così pure vi sono etiche descrittive ed altre prescrittive, aseconda che si limitino a descrivere norme e valori esistenti oppure si impegninoa indicare quali valori debbano essere accettati e rispettati. Le teorie si distinguo-no, inoltre, per avere un fondamento o individualistico o sociale.

Un primo gruppo di teorie etiche è costituito dalla filosofia analitica, dal neo-uti-litarismo e dal neocontrattualismo.

La filosofia analitica ha preso le mosse dalla riflessione di George Edward Moore(1873-1958) e del “secondo” Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Il Neopositivismoaveva considerato l’etica del tutto priva di contenuti conoscitivi. Per la filosofiaanalitica è invece possibile una trattazione “filosofica” dell’etica dal punto di vistadel suo linguaggio. L’etica, cioè, non deve stabilire la verità o falsità delle normemorali, ma deve studiare il loro uso, deve studiare l’impiego che delle proposizio-ni etiche fanno i soggetti “parlanti”. È ricerca e chiarificazione concettuale di unparticolare tipo di linguaggio – quello morale – e accertamento della correttezzadell’uso di quelle proposizioni rispetto alle regole prescritte dal sistema linguisticodi cui esse fanno parte.

Moore ha riproposto la cosiddetta legge di Hume, ha cioè drasticamente separa-to l’ambito dell’etica da quello della conoscenza: il verbo “dovere” (su cui si fondal’etica) non è derivabile dal verbo “essere” (su cui si fondano l’esistenza e la cono-scenza della realtà), cioè le asserzioni prescrittive non possono esser confuse conquelle descrittive. È un errore logico desumere ciò che “si deve fare” da ciò che “è”(ad esempio dalla descrizione di valori diffusi in una società e comunemente rico-nosciuti come tali).

L’oggetto dell’etica non è analizzabile. Anzi, non è un oggetto vero e proprio, mauna qualità non-naturale, un predicato attribuito a determinate realtà e azioniumane: è il “buono”, cioè una nozione semplice (come quella di “giallo”), che puòesser colta solo mediante un particolare tipo di intuizione, può esser “prescritta”ma non può esser “descritta” facendola derivare da qualcosa d’altro (ad esempioda presupposti metafisici).

Il Neoutilitarismo si sviluppa dall’elaborazione ottocentesca di Bentham e Mill.Da un lato indica uno specifico contenuto dell’azione morale (la massima felicitàpossibile per il maggior numero di persone, già affermata da Bentham) e dall’altronon vuole essere un’etica prescrittiva, in quanto non indica che cosa, con-cretamente, sia o dia felicità. Pur rifacendosi a Bentham e Mill, comunque, i soste-nitori del Neoutilitarismo novecentesco presentano una novità rilevante rispetto aquesti due filosofi, in particolare rispetto al primo: considerano come criterio mora-le non tanto le conseguenze piacevoli o spiacevoli di un’azione, quanto le prefe-renze dei soggetti. La novità non è di poco conto: mentre il piacere e il dolorecostituivano (o comunque miravano ad essere) una qualche “unità di misura”, lepreferenze costituiscono, come è evidente, un universo variabile, pluralistico, poi-ché mutano a seconda dei soggetti.

Il problema, a questo punto, diventa quello della gerarchia delle preferenze, diquali siano le preferenze “migliori” rispetto ad altre. Se, cioè, si guarda alla regolaa cui un’azione si è ispirata, quando è possibile dare a tale regola una rilevanzamorale? Quali sono i criteri generali in base ai quali si possano ritenere ben fon-date, valide, quelle regole, in quanto capaci di produrre gli effetti desiderati?

John Harsanyi (1921) suggerisce il criterio dell’imparzialità, cioè delle preferen-ze che vengono considerate da un soggetto in modo imparziale. Ma quando è pos-sibile ritenere imparziale l’atteggiamento di un soggetto? Harsanyi risponde utiliz-zando il concetto di equiprobabilità: immagina una situazione nella quale i diver-

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si soggetti possano realmente valutare in modo “disinteressato” l’opportunità(quindi la validità) di una norma morale in quanto siano ignari della loro posi-zione sociale, quindi non possano valutare quella norma in base ai loro partico-lari interessi, al loro personale tornaconto. Si parla di “equiprobabilità” perché, inquella situazione ipotetica, vi sarebbe per tutti un’eguale probabilità di occuparele varie posizioni sociali.

Per Richard Mervyn Hare (1919), invece, sono significative – sul piano morale– le preferenze universalizzabili. Egli ritiene che il criterio di validità di una rego-la debba essere quello kantiano della generalizzabilità della regola stessa, nelsenso che essa possa essere considerata universale, possa essere estesa a tutti isoggetti: non sempre e comunque, ma solo ove si verifichino determinate, speci-fiche circostanze.

Rifiutando l’impostazione intuizionistica di Moore o una morale del sentimen-to, Hare descrive le attività morali in termini di regole razionali, che “prescrivo-no” un dato tipo di comportamento e che noi siamo liberi di adempiere o meno.

Egli inoltre svolge una serrata critica del fanatismo morale, di quell’atteggia-mento che tende ad imporre ad altri come “assoluti” i propri pretesi princìpimorali. Contro il fanatico morale Hare adotta un’efficace tecnica argomentativa,consistente in esperimenti mentali con i quali chiede al “fanatico” di immaginarsidi occupare il posto di colui a cui vuole imporre i propri princìpi: chiede, adesempio, al fanatico razzista, anti-semita, come si comporterebbe ove venisse asapere che egli stesso è di origini ebraiche (una situazione nient’affatto parados-sale, perché già verificatasi nella Germania nazista).

Anche il Neocontrattualismo politico di John Rawls (1921) fonda il propriomodello di società “giusta” su criteri morali. Esso si distingue dall’Utilitarismo inquanto guarda non a ciò che sia utile fare, ma a ciò che si deve fare, perché “giu-sto”. Anche in questo caso, come in quello di Harsanyi, a valutare la “giustezza”o meno di una norma si suggerisce una situazione ipotetica nella quale i sogget-ti siano liberi, disinteressati, guidati dalla ragione e, soprattutto, ignari della loroposizione particolare, della loro convenienza egoistica rispetto a quella norma.

In altri termini, Rawls descrive con un esperimento ideale un modello contrat-tualista nel quale gli individui si trovino in una “posizione originaria”, in una con-dizione nella quale vi sia come un “velo di ignoranza” dei diversi soggetti suquale sia il loro effettivo status sociale ed in cui, inoltre, le scelte siano ispirate alcriterio del maximin, cioè di una preferenza accordata ai bisogni dei soggetti chesi trovino nella condizione socialmente peggiore. Vi è qui un chiaro orientamen-to democratico, volto a preferire le scelte capaci di riequilibrare – in qualche mi-sura – la condizione dei soggetti più deboli.

In alternativa a queste posizioni si pone la teoria dello Stato minimo di Nozike von Hayek, caratterizzata da un estremo individualismo.

Secondo Robert Nozik (1938), se si tolgono le esigenze di sicurezza che loStato deve fornire contro il furto, la frode, la violenza, la garanzia dell’esecuzio-ne dei contratti, per tutto il resto ogni intervento dello Stato risulta lesivo per idiritti naturali degli individui.

Secondo Friedrich August von Hayek (1899-1992), non vi è alcun “arbitro” chesia legittimato a garantire un’equità nella distribuzione delle risorse, quindi ogniazione di protezione sociale, volta in qualche misura a “redistribuire” la ricchez-za sociale ai ceti meno favoriti, viene ad interferire con i diritti individuali. Solola redistribuzione “volontaria” è ammissibile. Sono teorie che indicano modelli dicondotta e di organizzazione sociale particolarmente diffusi – nel mondo occi-dentale e in particolare in quello anglosassone – a partire dagli anni Ottanta.

Un orientamento diverso è espresso dalla cosiddetta filosofia pratica, fondatasul recupero dell’etica aristotelica. Il paradigma aristotelico viene assunto sia perla sua capacità di fondare teoreticamente gli ambiti di validità della filosofia dellaprassi rispetto alla filosofia teoretica, sia per la presenza della pólis, cioè di unorizzonte civile e politico nel quale la riflessione morale veniva a iscriversi.

Hans Georg Gadamer (1900), ad esempio, nella sua riflessione ermeneuticaripropone la phrónesis (o saggezza) di Aristotele come spazio autonomo rispetto

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a quelli della teoria e della tecnica. Un’autonomia simile a quella dell’ermeneu-tica “filosofica”, che Gadamer distingue dalla “filosofia prima” (o metafisica) edalla “tecnica” dell’interpretazione.

La maggiore esponente di questo indirizzo etico-politico è Hannah Arendt(1906-1975), che afferma il primato della vita activa, della politica. Per lei, ledimensioni privata e pubblica, morale e politica dell’agire sono interconnesse.L’etica individuale si muove in uno spazio comunitario, la politica guarda ai finietici dell’interazione umana. Come Aristotele aveva distinto fra poiésis e práxis,fra produzione e azione morale e politica, così la Arendt distingue fra tre model-li di comportamento: il labor, l’attività volta a produrre mezzi di sussistenza e asoddisfare bisogni; il work, l’operare per trasformare il mondo; l’action, l’azioneetico-politica.

• Il primo è il modello dell’edonismo, di un comportamento volto a usare ilmondo per i “confort” dell’esistenza.

• Il secondo è il modello dell’etica strumentale e dell’agire tecnico-scientifico,per i quali è valida solo la condotta efficace, produttiva di risultati. Entrambi imodelli rientrano nel concetto aristotelico di poiésis.

• Il terzo è invece il modello etico per eccellenza, perché è volto a valorizzarela persona come soggetto consapevole, non distribuito fra le cose e alienato inesse.

I totalitarismi che si sono imposti nel Novecento sono la conseguenza dellapassività dell’uomo e delle sue facoltà. Il venir meno di una capacità di giudica-re, di saper discriminare “bene” e “male” ha effetti devastanti e ha prodotto la“banalità del male”, come, ad esempio, gli orrori nazisti dei campi di concentra-mento. Senza capacità di ben giudicare non si possono stabilire rapporti soddi-sfacenti tra gli uomini.

C’è inoltre un filone dell’etica contemporanea che si misura con i problemiposti dalla società tecnologica, che investe cioè i problemi di responsabilità pla-netaria dell’uomo di fronte ai processi di manipolazione tecnica della natura e didegradazione dell’ambiente.

Così la bioetica si occupa dei problemi aperti dagli sviluppi della biologia edella medicina in una grande varietà di campi, dall’ingegneria genetica ai tra-pianti, mentre l’etica ecologica affronta le questioni attinenti al rapporto fra uomoe ambiente e alle prospettive catastrofiche che l’attuale modello di svilupporischia di aprire per le generazioni future.

Nel pensiero di Michel Serres (1930) si parla della necessità di porre fine allaguerra dell’uomo contro l’uomo e degli uomini contro la natura. I due processisono concomitanti. Sull’ecosistema gravano minacce enormi. Il mondo è un siste-ma globale. Oggi l’umanità si trova come dislocata al limite stesso della sua sto-ria globale. Per questo, l’antico contratto sociale che ha dato luogo alla civiltàumana e ha permesso, in qualche misura, di regolarne i conflitti, deve sviluppar-si in un contratto naturale nel quale da un lato, come soggetto, ci sia l’uomo, edall’altro, sempre come soggetto, ci sia la natura.

Hans Jonas (1903-1993) chiede che si affermi un nuovo principio di responsa-bilità. Egli critica il prometeismo oggi imperante, cioè l’idea di una possibilità illi-mitata di intervento dell’uomo sulla natura mediante lo sviluppo della tecnica. PerJonas la biosfera costituisce un limite ultimo dell’attività umana, quindi anche unlimite per l’etica. Mentre la tecnica conduce a pratiche distruttive o manipolato-rie (basate su una manipolazione illimitata della natura inanimata e vivente, finoalla manipolazione genetica), l’etica sorge da un nuovo senso del pericolo, dauna minaccia che grava sulle generazioni future. L’imperativo categorico di taleetica è: che ci sia un’umanità! Un imperativo etico che è anche imperativo onto-logico, in quanto investe – heideggerianamente – lo stesso essere o Esser-ci del-l’uomo. L’etica globale si configura, quindi, come etica della conservazione delmondo, che Jonas contrappone all’etica del progresso.

Anche Agnes Heller (1929) afferma l’esigenza di una morale della respon-sabilità, nella quale l’individuo sia in grado di giustificare le scelte che compie

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liberamente e di farsi carico delle conseguenze che da esse possono derivare. Lasua elaborazione nasce dalla cosiddetta “scuola di Budapest” – che si richiama-va a Lukács – e da una critica alle esperienze di socialismo “realizzato” nel Nove-cento e si è andata progressivamente allontanando dal Marxismo originario.Costante, comunque, nella sua elaborazione etica, è l’approccio antropologico.Esso si fondava – nella fase marxista – su un’analisi degli istinti e affetti da un latoe dei bisogni e dei tratti della personalità umana dall’altro, cioè dei due livellicostitutivi della natura umana: quello biologico-istintuale e quello psico-sociale.In particolare, la rilettura da lei compiuta delle opere fondamentali di Marx dalpunto di vista dei bisogni umani ha dato una forte connotazione soggettivistica alsuo Marxismo: i bisogni costituivano anche indicazioni di valore, in quanto lanecessità del loro soddisfacimento rappresentava una direttiva primaria per lacondotta individuale e politica.

Successivamente, la Heller si è posta il problema della fondazione di una mora-le intersoggettiva e della responsabilità, nella quale il soggetto sia in grado di moti-vare in modo sufficiente – di fronte agli altri – le ragioni della propria condotta. Taleproblema costituisce un’alternativa etica di fronte all’etica individualistica (nellaquale il singolo è considerato arbitro delle scelte morali): un’alternativa tuttoraaperta a qualsiasi sbocco possibile.

Un’etica della differenza, dell’alterità che sussiste fra me e il prossimo, è allabase del pensiero ermeneutico di Emmanuel Lévinas (1905-1995). È un’etica cherespinge nettamente la tendenza – tipica della tradizione metafisica occidentale –ad assorbire e identificare l’altro a sé, spogliandolo della sua alterità. L’Altro vainvece riconosciuto come tale, con una sua totale autonomia, un suo compiutoorizzonte di senso. Occorre evitare di ridurlo a noi stessi con un uso totalizzantedelle nostre categorie interpretative.

Questo approccio critico all’ermeneutica costituisce uno dei fondamenti teori-ci del multiculturalismo contemporaneo, cioè di una delle prospettive attraversocui si intendono affrontare i problemi – di estrema complessità e rilevanza politi-co-culturale – determinati dagli attuali processi migratori su scala planetaria.

Una prospettiva etico-politica originale, che ha preso le mosse dalla Scuola diFrancoforte, è quella di Jürgen Habermas (1929), fondata sull’agire comunicati-vo. In questa elaborazione Habermas è venuto a incontrarsi con la riflessione – ditipo linguistico – di Karl Otto Apel (1922). Habermas è preoccupato del prolife-rare – spesso conflittuale – di codici etici e propone un illuminismo anche incampo morale, come opera di rischiaramento delle coscienze nella quale possadelinearsi e affermarsi la prospettiva di un superiore stadio di sviluppo dellasocietà.

Così alla razionalità tecnologica egli contrappone la razionalità discorsiva, cheè comunicativa e pratico-emancipativa. Essa presuppone la formazione collettivadi volontà mediante procedure discorsive, di comunicazione e confronto libere,cioè sottratte a ogni forma di controllo e condizionamento e aperte alla parteci-pazione e al contributo di ciascuno.

Una connotazione etica della comunicazione fra più individui si stabiliscequando questa viene basata su significati condivisi, cioè quando essa sia unacomunicazione orientata all’intesa, volta a ricercare l’accordo – su basi universa-li – nel significato delle idee e dei valori su cui i diversi soggetti si confrontano. Ilproblema – etico e politico allo stesso tempo – è quello di favorire in ciascunmembro della società delle competenze comunicative nelle quali abbia una fun-zione primaria la capacità di riconoscere le molteplici forme di disturbo e distor-sione della comunicazione che si verificano sia con le interferenze e intromissioniocculte del potere, sia per la presenza diffusa di pregiudizi e ideologie.

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FILOSOFIA E CONOSCENZA:IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

La gnoseologia è l’indagine sui processi della conoscenza, sul loro fondamento e sul loro esito.

■ Alcuni suoi problemi essenziali attengono all’origine della conoscenza. Ci si è domandati se sidebba individuare la fonte della conoscenza nell’esperienza sensibile o nell’intelletto.

Un problema lungamente dibattuto ha riguardato il carattere innato o acquisito dei contenuti e deiprincìpi conoscitivi. Prima di una qualunque conoscenza la nostra mente è come una tabula rasa, cioènon contiene alcuna informazione, alcun dato, oppure ha in sé, fin dall’inizio, idee o princìpi delsapere?

Vi è infine la questione centrale, fondamentale – per alcuni la questione – quella attinente la verità diciò che viene affermato, derivante dal rapporto che viene istituito fra soggetto conoscente ed oggettodella conoscenza.

■ Che cosa è la verità? A lungo si dirà che la verità sta nell’adeguamento del soggetto che conosceall’oggetto conosciuto. Dietro questa concezione vi era la convinzione che la ragione umana fosse ingrado di conoscere l’oggetto, la realtà in sé delle cose, la loro intima essenza. Per questo motivo laconoscenza era strettamente connessa alla metafisica, cioè al sapere che scopriva tale struttura dellarealtà.

Accanto a questa impostazione c’è quella che ha messo in discussione o ha negato la possibilità diuna conoscenza oggettiva e per conseguenza ha messo in dubbio la possibilità della conoscenza meta-fisica, quando non è arrivata a negare l’esistenza stessa di quegli “oggetti” privilegiati della metafisica.Laddove si è giunti ad affermare una verità, questa non poteva che riguardare le cose così come si pre-sentano a noi, non come sono in se stesse.

Nella domanda di Kant: “Che cosa posso sapere?” vi era un’impostazione che, invece di mettere l’ac-cento sul primato dell’oggetto conosciuto, riteneva essenziale mettersi dal punto di vista del soggettoche conosce e domandarsi possibilità e limiti della conoscenza. Il problema della conoscenza si pone-va nella domanda kantiana non solo come problema di che cosa, ma anche di come all’uomo fossepossibile sapere. Ci si chiede, cioè, quali siano le fonti a cui il soggetto attinge per conseguire delle co-noscenze vere, o comunque attendibili (l’esperienza sensibile? le idee della ragione?), e quali, infine,siano i fondamenti del ragionamento corretto.

Molti sono gli interrogativi posti in rapporto alla verità, a partire da quello fondamentale già citato:Che cosa è la verità?

• Vi è una sola Verità o ve ne sono tante? ognuno ha la sua personale verità o è possibile trovare unfondamento comune di verità? e se vi è la verità, possiamo realmente conoscerla oppure possiamo solocercarla senza mai poter dire di averla trovata?

• E ancora: la verità di qualsiasi affermazione sembra dipendere dalla sua corrispondenza con unostato di cose esistente: la proposizione “la neve è bianca” è vera solo se effettivamente la neve è bian-ca. Chi potrebbe mettere in discussione questa idea di verità?

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

102FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

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• Eppure ci si è chiesti: se tutto quel chepensiamo è un fatto mentale, se cioè ogninostra idea – impressione o concetto – èsolo nella mente, chi può garantirci cheessa corrisponda effettivamente alla cosache viene pensata?

• Ed inoltre: qual è la natura della verità?è il frutto di una rivelazione divina, oppureè un prodotto della mente umana?

In questo secondo caso, fin dove può arri-vare la nostra possibilità di conoscere laverità?

• Non dobbiamo stare attenti a non pre-sumere troppo dalla nostra capacità diconoscere e fare così il “passo più lungodella gamba”? Perciò, non sarà necessarioconoscere preliminarmente quali siano ilimiti della nostra capacità conoscitiva?

■ Un’altra questione-chiave della cono-scenza ha riguardato l’individuazione delsapere che realizzava la conoscenza vera, ilgrado più alto di conoscenza.

Schematicamente si può dire che l’alter-nativa ha riguardato la filosofia o la scien-za, che rispettivamente rappresentavano laconvinzione della conoscibilità della realtàin sé delle cose o delle cose così come ci sipresentano, della loro “apparenza”. Finoalla Rivoluzione scientifica del XVI secolo èprevalsa la tesi del primato conoscitivodella filosofia, successivamente sostituitoda quello della scienza, anche se contrasta-to in modo ricorrente dalla riaffermazionedel valore della filosofia.

103FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Umberto Boccioni: Linea unica della continuità nello spazio, 1913.Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna.

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Dóxa e lógos

L’inizio della gnoseologia può esser fatto risalire a Eraclito e Parmenide. Essiinfatti contrappongono alla conoscenza sensibile e al suo prodotto, l’opinione(dóxa), la conoscenza propria della ragione, il lógos, ritenuto lo strumento unicoe insostituibile per “vedere” la realtà in sé. Nella loro filosofia per la prima voltaappare chiara la connessione, che si incontrerà anche in seguito, tra teoria dellaconoscenza e concezione della realtà, metafisica.

Eraclito (seconda metà del VI sec. a.C.) concepisce la ragione, il lógos, fonda-mentalmente come l’“intima natura delle cose, che ama nascondersi”, quindicome una legge oggettiva della realtà, visibile solo agli occhi della ragione. Ma,perciò, anche come discorso della ragione impegnata nella ricerca di quell’armo-nia interna alle cose, come la fonte soggettiva della conoscenza.

Parmenide (VI-V sec. a.C.) identifica, invece, il pensiero e l’essere. L’essere èeterno, ingenerato, immutabile, uno. Quindi possiede caratteri opposti a ciò che,materiale, sensibile, soggetto al divenire, costituisce il mondo dell’apparenza,della dóxa o opinione. Solo la ragione è in grado di cogliere l’essere, anzi pen-sare è “pensare l’essere” (non il non-essere, che come tale è “impensabile”).Mentre la conoscenza sensibile giunge ad affermare la molteplicità delle cose, laragione le concepisce solo come un tutto (l’essere, appunto): “le cose tra lorodistanti sono dalla mente saldamente unite”, afferma Parmenide. Mentre la viadell’esperienza è contraddittoria, quella della ragione è non contraddittoria: ilprimo requisito di una conoscenza razionale pura è che non si contraddica.Invece coloro che basano le loro conoscenze su ciò che vedono, odono, ascolta-no ciò che è riportato da altri, ecc. sono incoerenti, “uomini a due teste” li chia-ma il filosofo, perché mescolano essere e non-essere, affidandosi alla conoscenzasensibile, che mette assieme ciò che non può essere messo assieme, cioè essere enon-essere, il divenire appunto.

Empedocle, Anassagora e i Sofisti attribuiscono invece alla conoscenza un fon-damento non più razionale, ma empirico.

Empedocle (primo decennio del V sec. a.C. – 430 ca. a.C.) sostiene che “il simi-le conosce il simile” (che cioè si conosce la terra con la terra, l’acqua con l’acqua,ecc.); Anassagora (496-428 ca. a.C.) sostiene che “il dissimile conosce il dissimile”(che si conosce, ad esempio, ciò che è caldo per contrasto con ciò che è freddo).

I Sofisti, particolarmente con Protagora (nato nel 486 ca. a.C.), sostengono chela conoscenza è sensazione e muta da uomo a uomo e in ogni uomo da momentoa momento: l’uomo è la misura di tutte le cose, afferma Protagora. È il relativismognoseologico. La verità è relativa ad ogni uomo, poiché è l’uomo il criterio dimisura della verità. Se sento qualcosa come dolce, per me quella cosa è dolce; sela sento come salata, per me è salata, se ritengo una certa scelta giusta sarà giu-sta. Una verità oggettiva non c’è. Una misura sovra-individuale esiste, ma anch’es-sa non è assoluta, e non si configura propriamente come vera. È costituita dallacittà, dalla società in cui il soggetto vive: “vero” è solo quel che la pólis conside-ra tale, cioè utile. Ma tale sarà quello che, nella dialettica delle opinioni a con-fronto nella città, si afferma come “vero” ai più.

Ma è Democrito (460 ca. – 370 ca. a.C.) a segnare un salto di qualità nella teo-ria della conoscenza. Sulla base della sua concezione atomista della realtà, eglispiega le percezioni sensibili come il prodotto dell’urto di atomi “leggeri”, imma-gini (éidola) delle cose, sui nostri organi di senso. Egli, soprattutto, opera unadistinzione essenziale fra ciò che nella conoscenza è soggettivo e ciò che èoggettivo. Le qualità soggettive delle cose (suoni, sapori, odori, ecc.) sono il frut-to dell’incontro tra gli aggregati atomici dei corpi e quelli che costituiscono gliorgani sensoriali degli uomini; le qualità oggettive (gli atomi e lo spazio) sono

L’ETÀ ANTICA2

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invece la struttura costitutiva delle cose, la quale può essere colta e “vista” solodalla ragione, non dagli organi sensoriali. Tale distinzione verrà riproposta nell’etàmoderna (come opposizione tra qualità “secondarie” e qualità “primarie” dellecose) e costituirà uno degli aspetti essenziali dell’immagine della natura che verràfornita dalle scienze fisico-matematiche.

Concetto, idea, forma

Socrate (470/469 – 399 a.C.) rifiuta il relativismo gnoseologico dei Sofisti e siimpegna in una ricerca volta a determinare il significato univoco, non arbitrario esoggettivo, dei valori, che è possibile condurre solo nel dialogo e attraverso il dia-logo. Ti esti (che cosa è?) è la domanda che Socrate pone agli interlocutori. Eglichiede che di un valore (coraggio, amicizia, santità, bellezza, bontà, ecc.) si cer-chi l’essenza (il “che cosa”), come un concetto o modello di riferimento, a cuiguardare come principio per la propria condotta.

Per Socrate il fondamento della conoscenza è “dentro” l’uomo: gnóthi seautón,conosci te stesso, è il motto ed il principio ispiratore della ricerca socratica. Il cen-tro dell’uomo è l’anima, come capacità di visione intellettuale delle cose.All’anima razionale, non alla conoscenza sensibile, compete la ricerca di ciò cheè universale. È il dialogo il “luogo” in cui attuare questa ricerca: una comunica-zione autentica, effettiva, fra persone, non basata su tecniche di persuasione comequelle dei Sofisti. L’ironia socratica dissolve le apparenti “certezze” dell’interlo-cutore, lo costringe ad ammettere di “non sapere” e, partendo da tale consapevo-lezza di “sapere di non sapere”, lo porta a guardare entro se stesso, a cercare,insieme agli altri, la verità.

Questo è un impegno incessante, perché la verità non è data una volta per tutte.È destino dell’uomo riavviare continuamente la ricerca, senza mai accontentarsidelle conoscenze acquisite: l’uomo è filosofo, perché ricerca la sapienza, mentresolo il dio è sapiente.

La verità nasce dalla ragione e dall’anima di colui che ricerca, aiutato daSocrate. Questi adotta un’arte, quella della maieutica, che è arte di far partorire,di aiutare gli altri a “far nascere” entro se stessi la verità. Da Socrate ricevono glistimoli, la sollecitazione a “partorire” la verità, ma poi toccherà a loro farla nasce-re. La verità non si trasmette, ma la si cerca e la si genera dentro di sé.

Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.) sembra riprendere la tesi socratica, sviluppan-dola nel senso di affermare che quello che l’uomo conosce, non lo apprende ex-novo, perché conoscere è ricordare. Apprendere per l’uomo significa recuperarequel che ha appreso e che aveva dimenticato. Così nei dialoghi di Platone, Socratecon opportune domande fa ricordare allo schiavo conoscenze di geometria.Platone vuol dire che tra soggetto che conosce e oggetto conosciuto vi sono carat-teri essenziali comuni, infatti l’anima razionale è della stessa natura, immaterialee immortale, di ciò che conosce: le Idee. La scienza, la conoscenza in sensoautentico e pieno, è solo quella dell’essere, cioè della realtà assoluta delle Idee,mentre quella del mondo sensibile è una conoscenza parziale, inautentica, per-ché riguarda ciò che si colloca fra il non-essere e l’essere (il divenire).

L’Idea è la stabile essenza della realtà, il suo principio d’ordine, il suo fonda-mento autentico ed essenziale, che è quindi fondamento oggettivo della verità edei valori. L’Idea non è un semplice contenuto della mente (o piano del concet-to), ma è una realtà, anzi è la realtà.

Qual è la funzione che l’Idea svolge nella conoscenza? Ad esempio, affermaPlatone, l’eguale in sé è un’idea che usiamo per confrontare cose diverse, ma essa èal di là e diversa da tutte le cose uguali, né la ricaviamo da queste: anzi, è proprioperché la possediamo che possiamo dichiarare “uguali” quelle cose. È criterio di giu-dizio (in base ad essa giudichiamo qualcosa come uguale a un’altra oppure no).

L’Idea è criterio e modello di perfezione, a cui guardiamo per poter determina-re le proprietà delle cose e delle azioni che giudichiamo. Le Idee appartengono aun mondo diverso da quello dell’esperienza: sono intelligibili e non sensibili, quin-di possono essere pensate e comprese solo dall’intelletto.

Per Platone la conoscenza può essere rappresentata mediante una linea divisain quattro parti: le prime due costituiscono la conoscenza sensibile, le altre duequella intellegibile, le prime sono relative al mondo sensibile, le altre a quello

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106FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

intellegibile. La conoscenza sensibile si suddivide in impressione e percezione: laprima è la pura e semplice impressione sensibile; la seconda, invece, ci fa crede-re nell’esistenza di oggetti esterni a noi, al di là delle immagini fornite dai nostriorgani sensoriali.

La conoscenza intellegibile si articola in pensiero discorsivo (dianoetico) e pen-siero noetico: il primo è quello della scienza, che da una premessa non dimostratagiunge a conclusioni certe; il secondo è proprio della ragione filosofica, che cioffre la possibilità di vedere la realtà delle Idee, cioè l’essenza ultima delle cose.Per questo Platone afferma il primato della dialettica, della filosofia sulla scienza:solo la prima è la vera conoscenza del vero essere, delle idee.

La dialettica è conoscenza della realtà, cioè delle Idee. Essa consta di due movi-menti: quello che dalla molteplicità risale all’unità dell’Idea (sinossi) e quello cheanalizza il mondo delle Idee con il metodo dicotomico, dividendo per due (diái-resis) ogni Idea negli elementi che la costituiscono, per ricostruirne razionalmentele articolazioni ed i nessi (cioè per classificare le idee in rapporti di genere e spe-cie). Un giudizio, in tal modo, è vero quando connette tra di loro Idee che hannoqualcosa in comune, mentre è falso quando connette ciò che non ha rapporto.

Opposta e alternativa a quella di Platone è la teoria della conoscenza diAristotele (383-322 a.C.). Per lui la conoscenza è un processo nel quale – a diffe-renza di ciò che aveva affermato Platone – vi è uno sviluppo continuo a partiredalla conoscenza sensibile fino alla conoscenza razionale.

La conoscenza poggia su due premesse fondamentali: 1. nessuna conoscenza è in noi fin dall’inizio o come patrimonio costitutivo

(siamo una tabula rasa, si dirà poi); 2. la conoscenza ha inizio con l’esperienza sensibile. Sintetizzando queste due premesse l’Aristotelismo medievale dirà: nihil est in

intellectu quod prius non fuerit in sensu, niente è nell’intelletto che prima non siastato e non provenga dal senso, dalla conoscenza sensibile.

Il percorso della conoscenza passa dai sensi e dalle sensazioni alle immaginicontenute nella memoria: sulle immagini opera l’intelletto, che da esse astrae(cioè trae fuori) l’essenza di ogni cosa, separando la forma delle cose da tutti gliaspetti particolari insieme ai quali essa era stata percepita. L’essenza della cosaviene così colta nella sua purezza e universalità, isolata da tutto il resto.

Quanto ai procedimenti del pensiero Aristotele ne elabora due, che avrannolunga vita, anche se talvolta contestata e criticata nella storia del pensiero occi-dentale: il metodo induttivo e quello deduttivo.

• Il procedimento induttivo muove da premesse particolari e giunge a conclu-sioni di valore generale. Si avverte dapprima la presenza costante di un aspetto indeterminate realtà empiriche e se ne ricava l’idea che quell’aspetto sia presente intutte le realtà di quel determinato tipo. Così da molti casi particolari si risale all’u-niversale, alla forma. È grazie a tale procedimento che si può giungere alle pre-messe universali utilizzate dalle dimostrazioni logiche, o sillogismi.

• Questi sillogismi si svolgono mediante un procedimento opposto – il procedi-mento deduttivo – con il quale da premesse di ordine generale si ricavano con-clusioni aventi caratteristiche specifiche. Importante è quel tipo di sillogismo,usato dalla scienza, che muove da premesse universali e necessarie per conclu-dere ad affermazioni che abbiano le stesse caratteristiche.

Come ogni divenire, la conoscenza è un passaggio dalla potenza all’atto: il sensoè possibilità di sentire; l’intelletto potenziale è capacità di intendere, che passa all’at-to ad opera dell’intelletto attivo. Così l’intelletto, nell’atto di intendere, si adegua allacosa, diventa la cosa stessa, la sua forma intellegibile. Le questioni derivanti dall’in-terpretazione dell’intelletto attivo e passivo o potenziale saranno al centro dellariflessione e del dibattito medievale sia nella filosofia islamica che in quella cristia-na, e lo saranno più sul versante metafisico che su quello gnoseologico, poiché siintrecceranno soprattutto con il problema dell’immortalità dell’anima.

Il canone, l’epoché e il viaggio dell’anima

Con la filosofia dell’Ellenismo il primato conoscitivo dell’intelletto, affermato invario modo da Platone e Aristotele, lascia il posto ad un primato della sensazione.

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È nella scienza dei discorsi (dallo stoico Zenone di Cizio, 335 ca. – 263 ca. a.C.,per la prima volta designata con il nome di logica), che il canone, cioè il criteriodi verità, viene identificato, da Epicuro (341-270 ca. a.C.) e dagli Stoici, innanzi-tutto con la sensazione. Va sottolineato, nel caso di queste due scuole di pensie-ro (Epicureismo e Stoicismo), l’intreccio pressoché inestricabile di logica e teoriadella conoscenza.

Oltre alla sensazione un ulteriore criterio di verità, anche se diversamente inte-so dalle due filosofie, è l’anticipazione o prolessi, una conoscenza generale pre-liminare dell’oggetto che consente di “anticipare” i dati dell’esperienza. La sensa-zione è sempre vera, mentre a livello di anticipazione vi può essere sia verità chefalsità. Per gli Stoici, solo quando ci troviamo di fronte a rappresentazioni evidentipossiamo dare il nostro assenso, se vogliamo evitare errori dobbiamo sospender-lo, quando non sono evidenti. Per Epicuro, come ulteriore criterio di verità, sulpiano dell’agire, vi sono il piacere e il dolore.

Lo Scetticismo rappresenta una delle opzioni fondamentali intorno alla questio-ne della conoscenza, che consiste nel negare che l’uomo possa arrivare a cono-scenze certe, a conoscenze vere. Lo Scetticismo antico sostiene, criticando in par-ticolar modo lo Stoicismo, che di nessuna rappresentazione si può essere certi eche quindi bisogna sempre negare ad essa l’assenso. L’epoché, la sospensione delgiudizio, è l’atteggiamento più corretto sulla conoscenza. Non esiste alcun crite-rio assoluto di verità. L’uomo, nella conoscenza, non può andar oltre la probabi-lità, l’opinione: la sfiducia nella capacità della ragione di cogliere la verità è tota-le, anche se, con Carneade (219-129 a.C. circa), si suggerisce di affidarsi alle rap-presentazioni che si presentano più frequentemente, a quelle che appaiono coe-renti e non siano contraddette da altre e, soprattutto, a quelle che sono state ogget-to di un gran numero di verifiche. Sesto Empirico (180-220 d.C.) suggerirà di farsiguidare dai segni che la natura ci fornisce attraverso gli organi sensibili di cuidisponiamo. La conoscenza è un processo incessante, sempre aperto, mai con-cluso.

Da Plotino (202/205 – 270) vengono ripensati e rielaborati temi platonici, anchedella conoscenza, in una prospettiva religiosa. La fiducia nel raggiungimento dellaverità è legata alla prospettiva del “viaggio dell’anima verso l’Uno”, verso il prin-cipio di ogni realtà, da cui anche l’anima umana deriva. Nell’anima vi è la ten-sione verso l’Uno, che segue anche la strada della conoscenza, salendo fino allavisione intellettuale del mondo intellegibile, per giungere, infine, alla ricondu-zione di tutto all’Uno. Il viaggio si compie quando l’anima uscendo fuori di sé(estasi ) si ricongiunge all’Uno. Così si raggiunge la conoscenza vera perché l’a-nima che conosce si unisce con l’oggetto conosciuto. Più che un’attività conosci-tiva si potrebbe definire l’estasi un’esperienza che va oltre il rapporto soggetto-oggetto proprio della conoscenza e che consiste nel “ritorno” dell’anima all’Uno.

La verità come illuminazione divina

In epoca cristiana si guarderà alla filosofia neoplatonica come a un modelloanche nel campo della conoscenza.

Ne risentirà ampiamente il pensiero di Agostino di Ippona (354-430) che puòessere interpretato come l’itinerario dell’anima verso il Dio cristiano. Se ne puòindicare il punto di partenza nella critica dello Scetticismo. Questo nega la possi-bilità di giungere a qualsiasi verità, ma non può negare che esista comunque unfondamento di certezza, che è costituito dall’io stesso di colui che dubita di tuttoe che ritiene di ingannarsi di tutto: si fallor sum, se mi inganno sono. Di tutto possodubitare, ma non di me che dubito. Ma se vi è qualcosa di vero, di cui non si puòdubitare, allora deve esistere la verità.

IL MEDIOEVO3

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La verità è quindi accessibile all’uomo, anche se a questi trascendente. Agostinoè alle origini del “Socratismo cristiano”, di una ricerca che, a partire dall’interio-rità dell’uomo, dalla sua anima, conduce fino a Dio, perché in interiore hominehabitat veritas, nell’interiorità dell’uomo sta la verità, ma, per trovarne la fonte,l’uomo deve trascendere se stesso, deve compiere un itinerario che lo conduca aDio. Dio è la fonte di ogni verità immutabile e certa ed illumina l’uomo, affinchéquesti possa vedere le Idee, i modelli delle cose, pensati dal Verbo divino. Dio so-lo, secondo Agostino, è il nostro maestro interiore: noi vediamo in lui le Idee, egliparla dentro di noi.

La questione degli universali

Logica o Dialettica sarà chiamata nel Medioevo una delle sette arti liberali cheeredita impostazione, linguaggio e anche problemi dalla scienza della dimostra-zione aristotelica.

In particolare con Severino Boezio (480 ca. – 526) viene posta la questione degliuniversali, che animerà a lungo il dibattito nella Scolastica. Gli oggetti di cui si oc-cupa la logica, cioè gli universali (generi e specie), sono enti reali, pensieri odiscorsi? Sono reali ante rem, cioè idee poste prima delle cose individuali, o sonoin re, come essenze delle cose, o sono solo post rem, cioè derivati per astrazionedalle cose? Nel dibattito medievale sulla questione degli universali a lungo siintrecceranno e si confonderanno il piano logico, quello metafisico e quello gno-seologico.

Nel Medioevo i pensatori si dividono principalmente tra realisti e nominalisti.I realisti, che si rifanno ad una tradizione platonica (Anselmo d’Aosta, 1033-1109, Guglielmo di Champeaux, 1070 ca. – 1121), affermano l’esistenza realedegli universali (ante rem) e rinviano a una struttura ontologica al di sopra delmondo empirico. In particolare i realisti sostengono che gli universali sono realtàgià esistenti nella mente di Dio. I nominalisti sostengono che gli universali sonosolo flatus vocis, nomi, segni convenzionali (Roscellino, 1050-1120).

Pietro Abelardo (1079-1142) viene considerato sostenitore del concettualismo,teoria nella quale si nega che l’universale sia qualcosa di reale. Per lui l’universa-le è solo sermo, ha un significato logico e linguistico, come ciò che può esserepredicato di molte cose. Dunque, gli universali sono solo predicati che, di un sog-getto, dicono ciò che ha in comune con altri. Essi sono solo parole, ma con in piùl’intenzione di significare cose o qualità comuni.

A Tommaso d’Aquino viene attribuita una posizione di mediazione per cui gliuniversali sarebbero reali ante rem, in Dio, come modelli eterni secondo i qualiDio crea, in re come essenze delle cose, post rem come concetti.

Il contrasto tra le diverse posizioni continuerà anche oltre il Medioevo.

Esperienza e verità

Quanto alla conoscenza, il XIII secolo evidenzia due tendenze, rappresentate daRuggero Bacone e Tommaso d’Aquino. In comune vi è il ruolo rilevante attribuitoall’esperienza, ma in contesti di pensiero diversi.

Per Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292) l’istanza empirista convive con quellaagostiniana dell’illuminazione. Egli distingue tra l’esperienza esterna, che dà laconoscenza del mondo delle cose, e l’esperienza interna che, tramite l’illumina-zione, mette in contatto con Dio.

Tommaso d’Aquino (1221/1227 – 1274) aristotelicamente pone come base dellaconoscenza l’esperienza sensibile, criticando ogni innatismo di marca platonica eagostiniana. Niente c’è nell’intelletto che prima non sia stato nel senso, che nonci sia giunto attraverso il senso. Dai sensi attraverso la memoria e l’immaginazio-ne si giunge all’intelletto, alla sua attività di astrazione ed ai concetti universaliche ne sono il prodotto. Vi può, dunque, essere una considerazione separata dellaforma, prescindendo dalla materia signata.

La verità è adaequatio rei et intellectus, l’adeguarsi dell’intelletto alla realtà e ilgiudizio non è che l’espressione di questo adeguarsi. Torna così la concezionedella conoscenza come processo in cui il soggetto si fa simile a ciò che conosce.

108FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

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Si può dire che in questa concezione sia affermato il primato, la prevalenza del-l’oggetto conosciuto sul soggetto che conosce.

Nel XIV secolo, come modello di conoscenza, Giovanni Duns Scoto (1265 ca.– 1308) privilegia quello tipico della tradizione aristotelica, cioè il modello sillo-gistico, deduttivo e razionale. In lui, così, il ruolo dell’esperienza viene ridimen-sionato, in quanto anche se fornisce informazioni essa non produce evidenze néargomentazioni valide. È l’intelletto che opera: o astraendo e cogliendo ciò chec’è di comune negli oggetti conosciuti, o intuendo la specificità e l’individualitàdi ogni cosa.

Con Guglielmo di Ockham (1280 ca. – 1347) la gnoseologia medievale affermaun radicale empirismo. Egli critica gli “enti” di cui parla la metafisica, perché esi-stono e si possono conoscere solo le cose nella loro singolarità. Ma, a differenzadi Duns Scoto, Guglielmo nega che questa conoscenza sia una capacità dell’in-telletto.

Riguardo agli universali, la sua posizione è vicina a quella dei nominalisti. L’u-niversale non esiste come realtà separata dall’individuo, né ante rem e neppure inre. È solo post rem. Esistono, infatti, solo individui. L’unica conoscenza della realtàè quella particolare, che ci mostra se una data realtà c’è o non c’è, in quale rap-porto si trovi con le altre, quale spazio occupi. È dalla conoscenza intuitiva chederiva quella astrattiva: questa porta a un concetto, che da un lato è confuso, per-ché incapace di mettere a fuoco con precisione una realtà che è formata solo daindividui determinati, e dall’altro è utile, perché serve a classificare in uno sche-ma mentale più individui simili, conosciuti attraverso ripetute esperienze. È unnome, cioè segno linguistico di una classe di cose. Ma, se le parole sono frutto diconvenzione, i concetti sono segni naturali prodotti dall’anima (hanno una realtàmentale, oltre che linguistica), né sono segni arbitrari, in quanto indicano qual-cosa di realmente simile fra più individui concreti. La scienza non ha più peroggetto le cose, ma il linguaggio che le descrive.

La filosofia moderna, dal Rinascimento all’Illuminismo, è caratterizzata dallacentralità dell’uomo. Essa è una filosofia del soggetto. Se si poteva esprimere lateoria conoscitiva medievale come adaequatio rei et intellectus, l’adeguarsi del-l’intelletto alla res, all’oggetto, la gnoseologia moderna, in maniera sempre piùchiara e consapevole, pone al centro dell’attività conoscitiva il soggetto.

Il percorso sarà portato a termine da Kant, alla fine del Settecento, quando affer-merà che è l’oggetto che si deve adeguare al soggetto e non viceversa.

In questa centralità del soggetto un ruolo fondamentale verrà sempre più asse-gnato alla ragione, all’intelletto. Vi sarà chi – come i filosofi razionalisti – ricono-scerà valore conoscitivo alla sola ragione e chi invece – come gli empiristi – porràcome fonte della conoscenza l’esperienza. Ma, anche in questo caso, riterrà altret-tanto importante la funzione della ragione: più che pensare ad una con-trapposizione totale tra razionalismo ed empirismo, bisognerebbe quindi distin-guere fra un razionalismo puro e un empirismo razionalista.

L’antiaristotelismo rinascimentale

Il Rinascimento è fin dall’inizio fondamentalmente segnato dall’antiaristoteli-smo. Ciò vale anche nel campo della teoria della conoscenza.

L’ETÀ MODERNA4

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All’inizio della gnoseologia moderna sta senza dubbio la concezione di NicolaCusano (1401-1464). Nel quadro di un Neoplatonismo cristiano si colloca la suadottrina della Docta ignorantia: ignoranza, cioè impossibilità di conoscere Dio;ma dotta, perché coscienza sia del limite che della potenza della mente umana,della sua capacità di approssimarsi indefinitamente a Dio. La conoscenza, peressere possibile, richiede una proporzione tra ciò che si sa e ciò che si vuoleconoscere. Conoscenza significa congettura, cioè ipotesi. Il linguaggio e lametafora della conoscenza sono rappresentati dalla matematica.

Uno dei rischi dell’esaltazione rinascimentale della cultura classica è una steri-le imitazione degli antichi. Tra coloro che con più forza denunziano la chiusurain un soffocante “mondo di carta” e affermano l’esigenza di indagare la realtà èLeonardo da Vinci (1452-1519). Per tale indagine occorre certamente l’esperien-za, ma non da sola, perché ad essa va unita anche la ragione. No, quindi, alla tra-dizione; sì ai nuovi princìpi di autorità, rappresentati appunto dalla ragione e dal-l’esperienza. Una ragione questa che, in Cusano e in Leonardo, si avvale del lin-guaggio matematico per l’indagine sulla natura.

Antiaristoteliche sono le teorie prevalenti nella filosofia italiana della secondametà del Cinquecento, anche quelle relative alla conoscenza. In Bernardino Telesio(1509-1588), ad esempio, si afferma la svalutazione dell’intelletto e il primato delsenso, l’unico capace di esprimere la verità della natura materiale e sensibile.

Di naturalismo e sensismo si deve parlare anche a proposito di TommasoCampanella (1568-1639) che, però, alla base della conoscenza sensibile poneuna autocoscienza sensibile, un “sentire di sentire” che esprime la centralità delsoggetto nella conoscenza. È un preannuncio di modernità, che ancora convivecon una metafisica dell’oggetto, cioè dell’essere e delle sue tre articolazioni.

Ancora più coinvolto e partecipe delle novità della scienza e della cultura èGiordano Bruno (1548-1600): la mente umana cerca incessantemente una visio-ne razionale e unitaria della natura e alla ragione si apre il campo sconfinato dellaricerca dell’infinito, cioè del divino nella natura.

Il problema del metodo

Già dalla seconda metà del Cinquecento si cominciano ad avvertire le conse-guenze della rivoluzione copernicana, che ha scardinato alle basi la fisica aristo-telica. Non è solo il sapere aristotelico ad essere messo in crisi, ma anche il suometodo.

Il nuovo sapere richiede un nuovo metodo, fonte di verità e certezza. NovumOrganum, nuovo strumento (quindi nuovo metodo) intitolerà la sua opera piùfamosa Francesco Bacone (1561-1626), con la consapevolezza che l’Organon, lostrumento logico di Aristotele, non sia più valido. L’antiaristotelismo di Bacone èmolto forte e si incentra sulla critica sia del metodo deduttivo, in cui domina il sil-logismo (considerato sterile e astratto), che del metodo induttivo, scarsamente fon-dato e frettoloso. Con Bacone una forte avvertenza critica deve guidare l’analisidella conoscenza: questa, infatti, può produrre immagini distorte della realtà(idola). L’uomo si deve guardare dai rischi sempre presenti, connessi con l’attivitàconoscitiva.

Il metodo di Bacone si basa sia sull’esperienza e sull’osservazione (videre), siasulla ragione e sul pensare (cogitare). Non si deve fare né come le formiche, che silimitano ad accumulare materiali, né come i ragni, che traggono la tela da sé, masi deve fare come le api, che elaborano il polline che traggono dai fiori. Quello diBacone è il metodo induttivo, che procede gradualmente alla ricerca della spiega-zione dei fenomeni naturali. Il procedimento baconiano conduce però – come nelcriticato metodo aristotelico – a una mera conoscenza della “forma” delle cose.

Ma non sarà quello di Bacone il metodo che avrà successo, bensì quello diGalileo Galilei (1564-1642). Nello scienziato italiano, ancora una volta, la pre-messa è il rifiuto e il superamento dell’Aristotelismo, della tradizione come prin-cipio d’autorità, e l’accettazione della ragione e dell’esperienza (delle sensateesperienze) nonché di una concezione matematico-meccanicistica della naturacome nuovi princìpi e fondamenti del sapere.

Il metodo galileiano si articola nei momenti dell’osservazione, dell’ipotesi e del-l’esperimento: osservazione dell’aspetto quantitativo dei fenomeni naturali, ipote-

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si formulata in linguaggio matematico ed esperimento con cui si ricostruisce ilfenomeno per verificare la validità della ipotesi fatta e determinare la legge scien-tifica che regola il fenomeno stesso.

Questo metodo contiene tutti gli ingredienti tipici del nuovo sapere che si affer-ma nel Seicento: ragione, esperienza, quantità, matematizzazione della scienza edella natura, valore dell’esperimento.

Nella storia della filosofia e della gnoseologia moderne Cartesio (1596-1650)rappresenta un punto di svolta e il segno di una maturità ormai raggiunta. La cri-tica della tradizione filosofica è radicale: bisogna distruggere il vecchio edificiodel sapere per costruirne uno nuovo. II fondamento di tale nuovo edificio è laragione, che è uguale per natura in tutti gli uomini e costituisce l’unica autoritàper il sapere.

Nel Discorso sul metodo Cartesio enuncia le quattro regole del metodo, tuttericonducibili alla ragione: evidenza, analisi, sintesi, enumerazione.

La prima è quella fondamentale: vero è solo ciò che alla ragione si presenta comeevidente, cioè chiaro e distinto. Analizzare problemi e realtà complesse, è ricondurleall’evidenza; sintesi è ricomporle secondo un ordine razionale. Enumerazione, equindi revisione, verificano la validità dei due processi di analisi e sintesi.

Il metodo è deduttivo, modellato su quello della geometria e basato sulla solaragione, senza alcuna funzione per l’esperienza.

Alla ricerca di un punto d’appoggio, l’uso del dubbio metodico porta alla primae fondamentale certezza: cogito ergo sum. Penso dunque sono. Il soggetto pen-sante è alla base del nuovo sistema di pensiero. Il cogito è l’evidenza nel suo fon-damento.

Il processo conoscitivo diviene analisi del contenuto del pensiero: le idee. Questenon sono più intese platonicamente come la realtà, ma come rappresentazioni,“quadri” della realtà. Vi sono idee che provengono dall’esterno e idee prodotte dal-l’uomo. Ma soprattutto vi sono idee innate, come l’idea di Dio. Da questa è possi-bile risalire all’esistenza di Dio, cioè di un essere onnipotente e perfetto, che, inquanto tale, non può ingannare l’uomo: Dio, dunque, è il garante dell’evidenza.

Ma alla sua esistenza si giunge grazie all’evidenza: non è questo un circolovizioso? Sì secondo i critici di Cartesio, no secondo il filosofo, perché l’evidenzaè criterio di verità quando è intuita dalla mente, mentre nel procedimento dedut-tivo l’evidenza non è altrettanto certa e abbisogna di Dio. Ma se Dio garantisce laverità, come è possibile l’errore? Cartesio risponde: l’errore ha una natura praticae la volontà ne è responsabile. Ad essa si deve infatti il giudicare, cioè un affer-mare e un negare che sono indipendenti dall’intelletto e dalla sua attività che pro-duce evidenza.

L’uomo conosce le idee, non le cose. Il razionalismo cartesiano perciò ha diffi-coltà ad uscire da sé: come essere certi che alle idee (ad esempio a quelle cheCartesio chiama “avventizie”) corrisponda un mondo esterno? È Dio, diceCartesio, che garantisce la fondatezza della forte propensione umana ad affer-marne l’esistenza.

Il problema del dualismo cartesiano

A porre problemi di natura conoscitiva (e metafisica) ai pensatori che si muove-ranno in ambito cartesiano sarà il dualismo di res cogitans e di res extensa. Seinfatti il mondo del pensiero, della res cogitans, è eterogeneo rispetto a quellodella res extensa, dell’estensione, e se i due mondi non possono agire l’uno sul-l’altro, come spiegare la loro corrispondenza?

Il razionalismo cartesiano è un modello di conoscenza con cui si confronterà lafilosofia del Seicento in un rapporto di accettazione o di rifiuto e il rifiuto, di voltain volta, metterà in discussione l’una o l’altra delle sue posizioni.

Blaise Pascal (1623-1662), innanzitutto, rifiuterà una fisica che prescinda deltutto dall’esperienza, ma rifiuterà soprattutto la pretesa del metodo geometricodella ragione di essere valido per tutta la realtà. Non vi è solo l’esprit de geome-trie, che coglie verità evidenti, ma lontane da ciò che è sotto gli occhi di tutti, mavi è anche l’esprit de finesse, un sapere i cui princìpi sono molteplici, difficili dacogliere e da collegare tra di loro. Essi non si vedono con gli occhi della ragionegeometrica, ma con il “cuore”, perché il cuore ha le sue ragioni che la ragione

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112FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

non è in grado di vedere. Sarà la rivendicazione di uno spazio, quello della con-dizione umana, sottratto all’egemonia della ragione e sarà, inoltre, il riconosci-mento che la ragione non è in grado di conoscere con certezza i princìpi primidella stessa scienza, che sono intuiti più che compresi.

In altra direzione, quasi si potrebbe dire in direzione opposta, va la critica diThomas Hobbes (1588-1679) che, considerando possibile solo una scienza deicorpi, afferma una specie di materialismo metodologico. Con lui è la res cogitansad essere messa in discussione.

La conoscenza si genera come reazione del cervello ai moti di un corpo esterno,e, dunque, la sua fonte è l’esperienza. La stessa mente è una forma di movimento.Le differenze rispetto a Cartesio sono notevoli. Esse sembrano minori se si tienconto del fatto che anche per Hobbes il contenuto della conoscenza è fatto di idee.L’impianto della conoscenza è anche in Hobbes, come in Cartesio, di tipo razio-nale e scientifico, ma gli esiti sono differenti soprattutto nella conoscenza dellanatura, che non ha più caratteri certi e oggettivi. Il filosofo inglese propone, infatti,una distinzione che si ritroverà in seguito, particolarmente in Vico. Danno scienza,hanno, cioè, fondamento solo le idee di cui siamo gli autori, le idee che sononostre costruzioni: tali sono quelle della geometria, che dà luogo a una conoscen-za valida. Al contrario, solo probabile è la conoscenza della natura, di cui Dio enon l’uomo è creatore. Nelle indagini sulla natura gli uomini possono solo formu-lare ipotesi cercando di risalire dagli effetti ai movimenti che li hanno generati.

Rientra nella linea di un rigoroso razionalismo anche la filosofia di BaruchSpinoza (1632-1677). Il suo è un metodo geometrico valido per l’indagine di tuttala realtà ed esteso a tutto il sapere, cosicché anche l’etica è more geometricodemonstrata. È, dunque, un metodo deduttivo, che prende le mosse da princìpiprimi; al vertice di questo sapere vi è Dio, verità di per sé evidente, unica verasostanza, in quanto per esistere non ha bisogno che di sé stessa. Dio coincide conl’ordine matematico-geometrico della realtà.

La vera conoscenza è quella della filosofia e consiste nel mettersi “dal punto divista di Dio”, cioè nel considerare le cose sub specie aeternitatis, nel riportare lecose alla loro sostanziale unità, ritrovandone i nessi razionali. A questo risultato laconoscenza umana giunge attraverso tre gradi: dell’esperienza, della ragione edell’intelletto. L’esperienza fornisce dati empirici molteplici e disorganici; laragione li ordina e li connette, ritrovando i nessi razionali della realtà. L’intelletto,infine, che intuisce, li riconduce all’unità. È la visione sub specie aeternitatis.L’errore, così, per Spinoza è la considerazione di un’idea per se stessa, pensataisolatamente, cioè fuori dell’ordine necessario.

Quanto al problema del rapporto tra mondo del pensiero e mondo dell’esten-sione, Spinoza afferma che non vi è connessione e rapporto di causa ed effetto tradi loro. L’ordo rerum e l’ordo idearum sono autonomi e indipendenti l’uno dal-l’altro e il rapporto causale è interno a ciascuno dei due ordini. Estensione causaestensione, idea causa idea. La corrispondenza nell’uomo tra pensiero ed esten-sione, tra anima e corpo, dipende dal fatto che entrambi sono attributi dell’unicasostanza divina, che garantisce tale corrispondenza.

La filosofia della conoscenza di Spinoza esprime, dunque, il razionalismo geo-metrico, convinto della propria potenza e della possibilità di realizzare una cono-scenza certa, rigorosa e unitaria, secondo lo spirito di sistema che è tipico dellafilosofia del Seicento.

I limiti della ragione

Alla fine del secolo il Razionalismo, tra rischi di scetticismo e pretese di assolu-tezza, cerca di individuare possibilità e limiti della ragione.

È il senso della indagine di John Locke (1632-1704), che vuole verificare, primadi ogni ricerca, che cosa sia conoscibile da parte dell’uomo. La ragione, che nellascienza ha ormai celebrato i suoi trionfi e la sua potenza, inizia a riflettere sui suoilimiti. Viene raffigurata come uno scandaglio che non può raggiungere il fondo delmare, ma che rende possibile la navigazione. Alla base di questa nuova idea diragione vi è la convinzione che l’origine della conoscenza stia nell’esperienzasensibile e che non si possa prescindere da questa fonte.

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La critica all’innatismo è uno dei punti fermi della concezione lockiana.Selvaggi, pazzi e bambini dimostrano l’inesistenza di idee innate. La conoscenzaha come fonti solo la sensazione e la riflessione. Il suo contenuto, come perCartesio, è dato da idee. Queste possono essere semplici o complesse. La funzio-ne della ragione è tutt’altro che secondaria visto che, componendo tra di loro ideesemplici, produce idee complesse, idee di modi e di relazioni. Fra i modi vi sonolo spazio e il tempo che, dunque, per Locke, a differenza di quello che allorasosteneva Newton, non sono realtà assolute, ma idee derivate dalle sensazioni. Frale relazioni vi è quella di causa, che collega una cosa all’altra.

Particolare rilievo ha la critica all’idea di sostanza. Anche questa, in quanto ideacomplessa, è un prodotto della ragione; attraverso questa idea non possiamo arri-vare a conoscere nessuna presunta “realtà per sé sussistente” e non siamo in gradodi conoscere neppure su che cosa poggiano le proprietà delle cose. La critica col-pisce così uno dei pilastri della metafisica occidentale che, quasi fin dalle sue ori-gini, aveva fatto della ricerca del “substratum” un tema centrale.

La conoscenza passa, secondo Locke, per tre gradi. Il primo è quello delle sen-sazioni; il secondo quello della conoscenza intuitiva, con cui si coglie la connes-sione tra due idee; il terzo è quello della conoscenza dimostrativa, in cui la mentecoglie la connessione tra due idee mediante altre idee. La verità sta nell’accordoo nel disaccordo tra due idee a cui si riferiscono il secondo e il terzo grado diconoscenza, ma spesso non siamo in grado di fare riferimento né all’uno né all’al-tro dei tipi di conoscenza, allora la nostra conoscenza è solo probabile.

Pur considerato il fondatore dell’empirismo moderno, Locke individua nellaragione (una ragione consapevole dei suoi limiti) la sicura guida per l’uomo e lasua conoscenza.

Verità di ragione e verità di fatto

“Niente è nell’intelletto che prima non sia stato nel senso”: poteva ripetere conl’Aristotelismo medievale l’Empirismo moderno. Niente è nell’intelletto che primanon sia stato nel senso, se non l’intelletto stesso, afferma Gottfried WilhelmLeibniz (1646-1716). Il suo razionalismo prevede un ruolo centrale per l’intellet-to come disposizione a pensare. Si può quindi parlare di un innatismo virtualedell’intelletto, che non possiede idee innate bensì la capacità di produrre le idee.Inoltre, contro Locke (ma anche contro Cartesio) Leibniz nega che avere ideesignifichi averne coscienza. Egli sostiene che noi abbiamo, oltre a percezioni chia-re e distinte, anche piccole percezioni, cioè percezioni oscure e confuse, di cuinon abbiamo coscienza.

Leibniz distingue, inoltre, tra verità di ragione e verità di fatto. La prima è basa-ta sui princìpi logici di identità e di non contraddizione e dà luogo a giudizi in cuila connessione tra soggetto e predicato è necessaria e il predicato è inerente al sog-getto, gli è implicito. Sono verità a priori, indipendenti dall’esperienza. Su verità diragione sono basate la logica, la matematica, la metafisica, la morale e il diritto.

Ma accanto alle verità di ragione vi sono le verità di fatto, cioè verità empirichee storiche, a posteriori. Queste riguardano l’esistenza, non l’essenza delle cose. Igiudizi che le esprimono non hanno carattere di necessità. È possibile indicarequale ragion sufficiente può essere addotta per spiegare la connessione tra sogget-to e predicato – ad esempio perché Cesare ha passato il Rubicone –, ma quellaconnessione non può mai essere necessaria: il predicato “passare il Rubicone”non è implicito nel soggetto “Cesare”. Se ci si mette dal punto di vista della menteinfinita di Dio è possibile trasformare le verità di fatto in verità di ragione, cioèindividuare le ragioni necessarie della connessione tra soggetto e predicato. Madal punto di vista dell’uomo – a differenza di ciò che pensava Spinoza – l’ordinee la connessione delle cose non sono l’ordine e la connessione delle idee: vi èl’ordine necessario della logica e l’ordine contingente della realtà empirica.

Verum et factum convertuntur

La riflessione critica sui limiti del razionalismo trova in Giambattista Vico (1668-1744) un passaggio molto importante. In polemica con il Cartesianismo egli con-testa che l’evidenza possa essere il criterio della verità: sono evidenti anche ideefalse; il cogito inoltre mi dice che io esisto, ma non che cosa io sia né, infine, pos-

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114FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

so pensare che il modello immaginario, costruito sulla base di princìpi a priori conlinguaggio matematico, corrisponda al reale mondo della natura. In realtà all’uo-mo sfugge la possibilità di una conoscenza scientifica della natura. Si conosce converità solo ciò che si fa (verum et factum convertuntur ); la natura è opera di Dio el’uomo ne può avere solo una conoscenza verosimile.

L’unica scienza umana è la storia, perché è fatta dall’uomo. Essa è la Scienzanuova. Questa è una rivendicazione del primato delle scienze umane su quellenaturali, considerate fino ad allora il modello di scienza. Il metodo della storiaprende le mosse da un’analisi delle idee, procede come una storia delle ideeumane e come metafisica della mente umana, della quale saranno studiate lemodificazioni. Difatti la storia delle nazioni può essere spiegata con tali modifi-cazioni, che sono in grado di spiegare i processi storici. Ruolo fondamentale inquesta prospettiva hanno le tre funzioni conoscitive di senso, fantasia e ragione,da cui dipendono le diverse fasi della storia. L’ordine storico che così si ricostrui-sce viene da Vico definito storia ideale eterna, nella quale opera la provvidenza.In Vico, che recupera il valore delle funzioni conoscitive del senso e della fanta-sia, la ragione è il punto d’arrivo dello sviluppo storico: essa non è la ragionematematico-geometrica e deduttiva, ma una ragione storica, capace di cogliere lalogica di svolgimento degli eventi storico-sociali e dello sviluppo delle nazioni.

Analitica della ragione ed empirismo radicale

L’Illuminismo riafferma la centralità della ragione (lumen naturale), ma, rispettoalla filosofia del Seicento, ne cambia le caratteristiche di fondo. Quella illumini-stica è una ragione analitica, critica, che trova nuovi campi di indagine, soprat-tutto nel campo della realtà sociale e politica: non più la ragione sistematica sei-centesca, non più la pretesa di esaurire la conoscenza del reale, non più campiproibiti all’indagine razionale.

La ragione illuministica si ritaglia settori di indagine dei quali cerca la natura ele leggi razionali, per poter criticare tutto ciò che non è conforme, nella realtà esi-stente, a questa razionalità. Proprio questo esercizio critico che riguarda lasocietà, la politica e la religione sarà fonte di conflittualità con l’autorità politicae religiosa.

Per l’Illuminismo, particolarmente per quello francese, il modello conoscitivo èdato dall’empirismo razionale di Locke, del quale viene sviluppata e rafforzata latendenza antimetafisica, cioè la convinzione che la conoscenza umana non possagiungere all’essenza delle cose. In alcuni casi la matrice empirista viene poten-ziata: ciò avviene con Etienne Bonnot de Condillac (1715-1780) che consideraacquisite, cioè dovute alle sensazioni e non innate, anche le funzioni intellettuali.Quindi, contro Locke, egli nega che vi siano due fonti della conoscenza –sensazione e riflessione – e riduce tali fonti a una sola, la sensazione. Per questola sua filosofia è definita sensismo.

Ha implicazioni originali, nel quadro dell’empirismo inglese, la tesi di GeorgeBerkeley (1685-1753), che ritiene proprie della conoscenza soggettiva non solo lequalità secondarie (colori, sapori,...), ma anche quelle primarie (estensione,moto). L’essere delle cose viene da lui ricondotto al loro essere percepite (esse estpercipi ). Nessuna realtà può avere esistenza al di fuori di una mente che la pensa:anche se nessuno dovesse pensare una cosa, vi sarebbe pur sempre Dio che lapensa. Noi percepiamo solo idee particolari, non idee generali. Dunque, ideecome quella di “materia” sono inesistenti. L’empirismo di Berkeley conduceall’immaterialismo, alla negazione della realtà della materia.

Lo sviluppo più radicale dell’empirismo si deve a David Hume (1711-1776),secondo il quale ogni nostra conoscenza deriva dall’esperienza, dalle percezioni,che si suddividono in impressioni, più vivide, e idee, più illanguidite. Le idee ven-gono connesse secondo un principio di associazione, per contiguità nello spazioe nel tempo, per somiglianza, per nesso di causalità.

Conoscere è dunque connettere tra loro due idee o due impressioni. Nel primocaso, come fa la matematica, si collegano due idee prescindendo dal fatto che quel-la relazione corrisponda a qualcosa di esistente. Il principio di quella relazione è lanon contraddittorietà e la sua caratteristica principale è la necessità. Nel campodelle connessioni di impressioni, invece, non vi può essere alcuna necessità. Posso

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aspettarmi che la connessione fra due cose che l’esperienza ha consentito di con-fermare più volte si riproduca con un grado più o meno alto di probabilità, ma talerelazione non può mai avere un carattere di necessità. Hume trae le implicazionipiù rilevanti di questa impostazione dalla critica del principio di causalità. Tra duefatti A e B che sono contigui nel tempo, non posso stabilire un rapporto di causa-lità, perché sulla base dell’esperienza posso solo dire che dopo l’uno viene l’altro,ma non che A sia causa di B. Solo l’abitudine ci induce a pensare che le cose siripeteranno come sono avvenute in passato. Il campo della conoscenza che sibasa sull’esperienza non può dar luogo a nessuna oggettività e necessità, ma soloa conoscenze probabili. L’empirismo dissolve così la pretesa del Razionalismo diuna conoscenza universale e necessaria. Tale possibilità viene ridotta solo allamatematica e alla logica, saperi analitici, che prescindono totalmente dall’espe-rienza.

Dall’empirismo radicale humiano deriva la critica sia della sostanza corporeache di quella psichica. La sostanza non è nient’altro che una “collezione di qua-lità particolari”.

L’io in particolare, non è altro che un insieme di percezioni. Niente più cogitocartesiano, fonte di certezza e di evidenza, niente più res cogitans, ma solo fascidi sensazioni.

La rivoluzione copernicana della conoscenza

La conseguenza più rilevante dell’empirismo humiano è la negazione di quel-l’asse portante della scienza occidentale che è il principio di causalità. ImmanuelKant (1724-1804), che proviene da una formazione razionalista di stampo leibni-ziano, afferma che Hume lo ha destato dal suo sonno dogmatico. Anche se non sipuò affermare che il suo ripensamento critico del razionalismo sia dovuto solo allafilosofia di Hume, è indubbio che il filosofo inglese gli abbia posto con forza ilproblema dell’esperienza e delle implicazioni negative per le possibilità dellascienza che potevano derivarne.

È possibile integrare l’istanza dell’esperienza, tipica dell’empirismo, in una pro-spettiva razionalista? con quali conseguenze? È possibile fondare, attraverso unanuova teoria gnoseologica, la scienza come conoscenza universale e necessaria?

Nel dare risposta a queste domande Kant è consapevole di compiere nel campodella conoscenza una rivoluzione copernicana: se fino ad ora il soggetto checonosce si è adeguato all’oggetto conosciuto (adaequatio rei et intellectus), orasarà l’oggetto che si dovrà adeguare ai modi con i quali il soggetto conosce. Kantporta a compimento il processo della filosofia moderna verso la centralità del sog-getto nel processo conoscitivo. La realtà, per essere conosciuta da me, deveconformarsi ai miei modi di conoscerla.

Ma che cosa posso conoscere? Per evitare lo scetticismo, si deve preliminar-mente stabilire quali siano le possibilità e i limiti della ragione: questo è il critici-smo. Bisogna, a tal fine, istituire un tribunale della ragione, nel quale la ragionesia giudice e imputata; tale tribunale deve giudicare che cosa a buon diritto laragione possa conoscere e se e dove vada oltre le sue possibilità.

Il fondamento gnoseologico è, per Kant, che tutta la conoscenza abbia iniziocon l’esperienza, ma non tutta la conoscenza derivi dall’esperienza: riconosci-mento della fondamentale istanza dell’Empirismo, che il Razionalismo aveva alungo rifiutato, ma anche affermazione che la conoscenza non si riduce alla solaesperienza e implica un ruolo essenziale per la ragione. L’esperienza, che produ-ce un sapere sintetico a posteriori, capace di fornire conoscenze nuove, e la ragio-ne, che con un sapere analitico a priori garantisce universalità e necessità (ma nonnovità), esprimono ciascuna un’esigenza conoscitiva fondamentale ma parziale.Vi è un sapere che sia in grado di garantire novità e necessità? Kant risponde affer-mativamente e definisce questo sapere come sintetico a priori. È un sapere rite-nuto già operante nella matematica pura e nella fisica pura. Il problema divieneallora comprendere come siano possibili giudizi sintetici a priori. Per Kant all’e-sperienza si deve la materia del conoscere, alla ragione la sua forma.Riconosciuto il ruolo fondamentale dell’esperienza sensibile, Kant si occupaprevalentemente di ciò che dà forma alla conoscenza. Chiama trascendentalequesta fondamentale dimensione dell’attività conoscitiva, che opera nell’espe-rienza ma non deriva dall’esperienza.

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116FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Gran parte della sua Critica della ragion pura è dedicata all’analisi di questadimensione trascendentale, che ordina, organizza, unifica il molteplice fornitodall’esperienza. Il risultato è che a livello di sensibilità, nell’Estetica trascendenta-le, come princìpi di organizzazione della intuizione sensibile operano le dueforme pure a priori di spazio e tempo, che, dunque, sono funzioni del soggettoche conosce e non realtà oggettive assolute, come pensava Newton. A livello diintelletto, nell’Analitica trascendentale, si trovano i concetti puri o categorie, chesoli consentono di pensare a priori l’esperienza.

Tra le dodici categorie Kant pone anche quella di causalità. Alla critica humia-na egli risponde facendo del nesso causa-effetto uno dei modi di unificazione delmolteplice propri dell’intelletto. È vero che non si può ricavare una relazionenecessaria di causa ed effetto dall’esperienza: istituire tale relazione è infatti unapossibilità che spetta al soggetto conoscente in quanto dà forma alla materia delconoscere. Vi è conoscenza dove si ha una sintesi di intuizioni e concetti, perchéle intuizioni senza concetti sono cieche e i concetti senza intuizioni sono vuoti.Ma perché avvenga questa sintesi c’è bisogno di un principio di unificazione e diautoconsapevolezza del processo conoscitivo che Kant chiama io penso.

Dunque l’uomo è il legislatore della natura, dà cioè le leggi universali al mol-teplice dell’esperienza. Kant distingue molto nettamente fenomeno e noumeno.Fenomeno è la realtà per noi, quella che possiamo conoscere. Noumeno è larealtà in sé, che non possiamo conoscere e che corrisponde all’ambito di tradi-zionale competenza della metafisica. La conoscenza possibile c’è laddove con-nettiamo intuizioni e concetti, ma questo non è il caso della metafisica, che pre-sume di poter andare oltre il fenomeno, senza che l’uomo possieda né le fonti, néle capacità che gli consentano di conoscere gli oggetti della metafisica: anima,mondo e Dio. Nella Dialettica trascendentale Kant fa l’analisi critica della prete-sa infondata della ragione di conoscere le cose in sé. Anche nella critica allametafisica egli sviluppa e porta a compimento un’istanza che in particolare lafilosofia illuminista aveva espresso. La vera conoscenza è la scienza – matematicae fisica – mentre la metafisica è il prodotto di un intelletto che va oltre le sue pos-sibilità. Il processo alla ragione si è compiuto, restringendo le possibilità cono-scitive umane, negando la possibilità di conoscere l’“essenza” delle cose e del-l’uomo e l’esistenza di Dio. Il campo in cui la ragione coglie la realtà noumenicanon è quello conoscitivo, ma quello della morale (primato della ragion pratica ).

Sentimento e ragione contro l’intelletto

Nella filosofia romantica la ragione assume un ruolo preminente sull’intelletto.Questo si limita a descrivere la realtà mediante una rete di relazioni matematico-meccaniche; la ragione speculativa viene invece considerata come una facoltà diordine superiore, capace di portarci alla realtà soprasensibile, come la stessaragione kantiana liberata dai vincoli. Se l’intelligenza scientifica – come avevadetto Kant – non è in grado di farci cogliere la cosa in sé, bisogna ricorrere a unaforma di intuizione intellettuale, di razionalità superiore, capace di farci cono-scere il mondo noumenico. La ragione cerca di cogliere d’un colpo – unitamenteal sentimento – l’unità profonda della natura e dello spirito (Johann WolfgangGoethe, 1749-1832).

Taluni, ad esempio Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), affermano che que-sto atto di conoscenza sia un atto di fede, perché solo questa permette di “saltare”direttamente dal pensiero all’essere, che identifica con la realtà divina.

Altri cercano un’altra via d’uscita all’ostacolo costituito dal dualismo kantianofra fenomeno e noumeno; essi ritengono tale dualismo contraddittorio e insoste-nibile e riconducono a unità il soggetto e l’oggetto della conoscenza grazie al con-cetto di rappresentazione (Karl Leonhard Reinhold, 1758-1823), in cui sono sal-damente uniti sia il rappresentante che il rappresentato, nessuno dei quali puòesser pensato senza l’altro. La cosa in sé viene per così dire rimossa, descrittacome ciò che non è rappresentabile. Di essa possiamo dire solo ciò che non è.

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117FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Altri negano che questa sia una soluzione. Si chiede ad esempio Gottlob ErnstSchulze (1761-1833): come si può indicare come fonte della conoscenza ciò chenon è conoscibile, di cui si dice solo che non è rappresentazione? e le stesse formea priori kantiane, come possono essere poste a fondamento dell’esperienza se nonsono oggetto di esperienza, quindi se non sono conoscibili? Non è, questa, unacontraddizione in termini che fa saltare l’intero modello teorico di Kant?

Il pensiero pone la realtà

L’Idealismo risolve il dilemma rimuovendo e negando la cosa in sé e afferman-do il soggetto trascendentale come principio assoluto della realtà.

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) descrive questa “mossa” teorica come deci-sione pratica, come atto con cui si supera l’alternativa fra dogmatismo e Idealismo.Nel primo caso le rappresentazioni vengono spiegate come prodotto della cosa insé, nel secondo come prodotto dell’intelligenza. La scelta è pratica perché nelprimo caso – quello del Dogmatismo – ci si rassegna a una schiavitù spirituale difronte a una realtà che si ritiene ci sovrasti; nel secondo – quello dell’Idealismo –si fa un atto di fede nella supremazia del soggetto sull’oggetto, dell’uomo sullarealtà che lo circonda. L’individuo coglie in sé quella natura soprasensibile che an-che Kant aveva riconosciuto, sia pure solo sul piano morale.

A fondamento della conoscenza c’è un presupposto morale: il kantiano prima-to della ragion pratica si trasforma in fondamento incondizionato della scienza.

La dottrina della scienza di Fichte è una “scienza della scienza” nella quale siindividua il principio su cui si fonda la validità di ogni scienza: l’Io infinito. Io sonoin quanto agisco, afferma Fichte. L’intuizione intellettuale con cui avverto la purez-za e l’originarietà dell’io non è intuizione di un essere, ma di un agire. L’Io infinitoafferma se stesso (“pone se stesso”) come qualcosa di irriducibile alla molteplicitàe frammentarietà dei dati sensibili, qualcosa di a priori, presupposto di ogni pensie-ro. Ma, proprio perché è pensiero, esso pensa delle realtà determinate, si nega comeautocoscienza e diviene coscienza di altro, cioè pone il non-io, la natura. È l’im-maginazione produttiva (che non è, come in Kant, l’attività produttrice di schemitemporali), l’attività inconscia attraverso cui i dati vengono prodotti e prospettati allanostra coscienza finita come “altro” da noi, come mondo a noi esterno.

Condizionato dalla realtà che lo limita, l’io avverte se stesso come soggettività:l’Io oppone, nell’Io, a un non-io divisibile, un io divisibile.

Fichte chiama Ideal-realismo la sua concezione, poiché per gli individui empi-rici (io empirici) il non-io è indipendente dall’io, ha una sua realtà (Realismo).Tuttavia il vero Io è inteso come unità della coscienza di sé e dell’universo(Idealismo). È quindi partendo dall’impulso che il non-io esercita sull’attività del-l’io (il non-io limita l’io) che l’io acquista coscienza di sé e del mondo. Fichte chia-ma storia pragmatica dello spirito umano il processo conoscitivo con cui il sog-getto costruisce il mondo (attraverso la sensazione, l’immaginazione e l’intelletto)e poi costruisce se stesso (attraverso altri due momenti, il giudizio e la ragione). Alculmine del processo, la ragione riconosce che la realtà è un prodotto del pen-siero. È attraverso un atto morale – e non più conoscitivo – che l’io stabilisce lapiena identità con se stesso, coglie la sua assolutezza e avverte che l’io limita ilnon-io.

La filosofia trascendentale

Nell’Idealismo trascendentale di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854)la natura – concepita come preistoria dello Spirito – compie quasi uno sforzo perintendere se stessa, come spirito nascosto, sepolto, che tende a pervenire allacoscienza di sé. È un processo infinito che dall’oggetto procede verso il soggetto.Nel soggetto la vita perviene alla conoscenza. La liberazione dello spirito si svolgein tre momenti (sensazione, riflessione, volontà): dapprima l’io percepisce il non-io,lo sente come qualcosa di estraneo e condizionante, poi, riflettendo, riconosce inesso un prodotto inconsapevole, vede se stesso nell’oggetto. Il mondo è come unlibro aperto, nel quale è possibile ritrovare la storia dello spirito. Al culmine delprocesso c’è la volontà, la libertà su cui si fonda la morale e la storia dell’uomo nelmondo. All’assoluto come identità di spirito e natura, non si giunge attraversoun’attività conoscitiva, ma attraverso l’arte e l’intuizione estetica.

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118FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

La dialettica della Ragione

Anche Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) descrive l’assoluto come l’in-tero, cioè come l’insieme dei momenti costitutivi dello sviluppo razionale dellarealtà. Ma, contro Schelling e il Romanticismo, egli non ne fa l’oggetto di un’intui-zione estetica, né lo pone come un’indifferenziata identità di natura e Spirito, di sog-gettività e oggettività (quasi come “la notte in cui tutte le vacche sono nere”), ma loconcepisce come movimento dialettico, come processo di autorealizzazione delloSpirito che, come tale può essere compreso dalla ragione. L’assoluto è identità direaltà e razionalità: “ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale ”. Puòquindi essere oggetto solo di una scienza filosofica, di un sapere concettuale descrit-to – nel suo sistema – come logica, filosofia della natura e filosofia dello Spirito.

Comprendere l’assoluto vuol dire ricostruire lo stesso processo logico-razionaledi sviluppo della realtà, guardare a questa come ad una totalità che si dispiega esi sviluppa attraverso il moto oppositivo (dialettico) dei suoi momenti.

Nel momento soggettivo della vita dello Spirito si descrive il processo conosci-tivo, inteso come sforzo della coscienza volto a cogliere la parzialità dei dati for-niti dalla sensazione e dalla percezione e organizzati dall’intelletto.

L’intelletto tenta di unificare il molteplice dell’esperienza attraverso le categorie,ma non riesce a cogliere la dimensione della totalità. Esso determina e fissa i singo-li concetti irrigidendoli nel loro isolamento, quindi opponendoli, ma senza vedereil loro fondamento comune, ciò che li rapporta e costituisce la loro comune radiceproprio in quanto opposti. Inoltre – come era avvenuto in Kant – separa il mondosensibile dal mondo soprasensibile, in cui si dispiega la libertà della ragione.

Solo la ragione dialettica permette di collocarci dal punto di vista dell’assoluto,dell’infinito. Essa è, nello stesso tempo, affermazione, negazione e unificazione diciascun momento della realtà, è comprensione delle differenze e loro sintesi uni-ficante, e non irrigidimento e cristallizzazione degli opposti. Essa non nega ladistinzione e diversità dei momenti della realtà, ma li concepisce come momentidella totalità. Nel momento dello Spirito assoluto si realizza il momento estremodi autocomprensione e autorealizzazione dello Spirito e questo avviene nell’arte,nella religione e nella filosofia.

La filosofia si afferma come l’unità e la “verità” dell’arte e della religione. In essal’assoluto viene concepito come concetto, cioè come espressione cosciente, spe-culativa e dialettica, della razionalità del reale. Come pensiero, l’infinito non tra-scende più il finito, ma costituisce la dimensione essenziale del finito, l’universa-le che s’incarna e si manifesta nella concretezza storica del particolare. Ciascunafilosofia costituisce “il proprio tempo colto con il pensiero ”.

Il “velo di Maja” sul mondo

La teoria della conoscenza di Arthur Schopenhauer (1788-1860) vuole essereun’interpretazione ed uno sviluppo del Kantismo, cioè un fenomenismo assoluto :il mondo è un insieme di fenomeni, è una nostra rappresentazione, affermaSchopenhauer con Kant e Reinhold. Egli, però, modifica profondamente il sensodelle tesi kantiane, da un lato esasperandone il soggettivismo (il mondo esiste,concretamente, solo attraverso la rappresentazione e solo per il soggetto che lorappresenta) e dall’altro accentuando la separazione fra fenomeno e cosa in sé. Ilnoumeno, infatti, esiste al di là dei fenomeni, è volontà che si nasconde dietro ifenomeni e che può essere – in qualche misura – avvertita ma non conosciuta. Ifenomeni stessi sono solo illusione, apparenza, manifestazione di tale volontà. Ilmondo come rappresentazione è un ingannatore “velo di Maja” che copre larealtà e che occorre lacerare per cogliere la realtà autentica e profonda.

Come Kant, anche Schopenhauer afferma che nel rappresentarsi la realtà il sog-getto usa delle forme a priori. Ma le riduce a tre: la causalità, il tempo e lo spa-zio, rifiutando la contrapposizione kantiana fra l’intelletto e la sensibilità comefacoltà intuitiva. L’intelletto, infatti, è dotato di una particolare capacità di intuireil fondamento causale che intercorre fra le rappresentazioni ed è funzione del cer-vello. Le forme a priori in cui si costituisce l’esperienza sono altrettanti aspetti delprincipio leibniziano di ragion sufficiente. In base ad esso nessun fatto potrebbeesistere, nessuna enunciazione esser vera, senza una “ragion sufficiente perché siacosì e non altrimenti”.

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119FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

La coscienza come “prodotto sociale”

Dal materialismo storico di Karl Marx (1818-1883) è possibile ricavare ancheun’impostazione del problema conoscitivo che rovescia quella idealistica. Secondola concezione materialista non è il pensiero che pone la realtà, ma la realtà chepone il pensiero: “non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che deter-mina la coscienza”. La coscienza è, essa stessa, un prodotto storico, un prodottosociale. Le idee sono un riflesso delle condizioni della vita materiale, cioè dell’at-tività economico-produttiva che gli uomini svolgono e dei rapporti sociali che essistabiliscono sviluppando quell’attività. Le idee dominanti in un certo periodo sonole idee delle classi dominanti, da queste imposte o, comunque, affermate sull’in-sieme della società. Le idee sono dunque parte della sovrastruttura, mentre i modidi produzione sono la struttura della società, cioè il suo fondamento e fattore ditrasformazione e sviluppo.

Più tardi, Friedrich Engels (1820-1895) affermerà che anche le idee, in una certamisura, intervengono nei processi storici, cioè reagiscono alla base economicache le ha espresse e prodotte.

L’identificazione positivistica fra conoscenza e conoscenza scientifica

Nella filosofia del Positivismo la riflessione sui processi conoscitivi si identificacon quella sulla scienza.

Auguste Comte (1798-1857) è fautore di una visione della conoscenza stretta-mente legata al modello scientifico. La scienza è un sapere che si contrappone aquello della metafisica poiché non spiega più i fenomeni attraverso “cause prime” o“cause finali”, che sono inaccessibili alle nostre possibilità conoscitive. Ma si con-trappone anche al sapere dell’Empirismo, poiché questo si limita all’osservazione ealla raccolta dei dati sensibili, è “idiotismo”, uso dell’osservazione fine a se stessa.

Il compito della conoscenza (che è conoscenza razionale) è, invece, riportarei fatti alle loro leggi, cioè alle “relazioni costanti che esistono fra i fenomeniosservati”.

John Stuart Mill (1806-1873) si distingue da Comte per l’orientamento di tipologico-metodologico dato alla ricerca. Il fondamento della conoscenza è l’espe-rienza e nient’altro. Il fondamento delle conoscenze scientifiche e di ogni veritàva riportato sempre alle basi empiriche. Le verità e i princìpi universali assumonotutti un fondamento empirico. Per evitare conclusioni scettiche sulla validità dellaconoscenza scientifica, Mill afferma che il fondamento giustificativo delle propo-sizioni scientifiche è il principio dell’uniformità della natura. Anch’esso, comun-que, è un principio a posteriori e non a priori, in quanto è frutto di una lunghissi-ma serie di osservazioni e passaggi “dal particolare al particolare” effettuati nelpassato e, proprio per questo, è divenuto la base per anticipare gli eventi che siverificheranno in futuro.

In Herbert Spencer (1820-1903) il modello evoluzionistico di spiegazione vieneapplicato alla teoria della conoscenza. Criticando l’Empirismo per la sua incapa-cità di giustificare l’unità delle conoscenze dei sensi, Spencer riprende la teoriakantiana della conoscenza, ma afferma che le funzioni a priori unificanti, se sonoa priori per il singolo, non lo sono per la specie: sono cioè un prodotto dell’evo-luzione, un patrimonio accumulato dalla specie umana, formatosi con il succe-dersi delle generazioni e trasmesso ereditariamente dall’una all’altra. La stessacoscienza dell’uomo è un prodotto dell’evoluzione ed è effetto di un adattamen-to all’ambiente da parte della specie umana.

Una concezione che è stata interpretata come “positivismo critico” sarà, fra ilXIX e il XX secolo, l’Empiriocriticismo, una forma di empirismo radicale, che haa fondamento l’idea di un’esperienza pura ed esclude – dagli statuti delle scienze– concetti e princìpi che non siano riconducibili all’esperienza scientifica, libe-rando il sapere da incrostazioni metafisiche di ogni tipo, materialistiche o ideali-stiche che siano.

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120FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

La riflessione sul problema della conoscenza ha conosciuto nuovi sviluppi nelXX secolo, alcuni dei quali anticipati da filosofi operanti nell’ultimo scorciodell’Ottocento, che prendono le distanze dal modello positivistico di conoscenzao vi si contrappongono apertamente. Una tendenza, questa, che caratterizzerà ildibattito teorico sul problema della conoscenza lungo tutto il Novecento.

La conoscenza come interpretazione dei fatti

Autore di una critica dura e radicale al modello positivistico è stato – sul finiredel XIX secolo – il pensiero di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900). Questinega l’esistenza di una conoscenza “disinteressata” del mondo, poiché la scienzaè dominio sulle cose. Così pure ritiene l’idea di un mondo meccanico del tuttopriva di senso. Non esistendo un ordine oggettivo della realtà, non esiste neppureuna sua conoscenza oggettiva. “Calcolare il mondo” non significa affatto “com-prenderlo”. La conoscenza del mondo poggia su prospettive che sono diverse perciascuno, sono punti di vista che nascono da esigenze e interessi varianti da indi-viduo a individuo. Ciò che alimenta quei diversi punti di vista sono bisogni umani,a partire dal bisogno di una forma rassicurante e consolatoria del mondo. Vi è unagenealogia del pensiero che ci conduce a vedere – nella stabilità e nell’ordine delmondo – nient’altro che una proiezione del nostro bisogno di sicurezza, diautoconservazione, che ha orrore del caos e del disordine del divenire. La fiducianel fatto che esistano delle “sostanze”, delle cose in sé, nasce da una fede che dàtranquillità e coerenza alla vita.

La conoscenza è perciò strumento, in quanto si rivolge alle cose con un movi-mento determinato da quei bisogni. Non guarda ai fatti, come ritenevano iPositivisti: non ci sono fatti, ma solo interpretazioni dei fatti stessi. Il mondo ècome un “testo misterioso e non ancora decifrato” e la conoscenza è ermeneuti-ca, interpretazione, compresenza di una pluralità di centri di interpretazione inlotta tra di loro. E la verità è affermazione della volontà di potenza, è dominio.

Il “ritorno a Kant”

Il passaggio fra Ottocento e Novecento è anzitutto segnato da una forte tenden-za neo-kantiana, volta a ristabilire un fondamento trascendentale per le scienze:di queste si riconosce la validità, ma si cercano le condizioni trascendentali chele rendano possibili. Ciò comporta un rifiuto di ogni metafisica, positivistica oidealistica e, nello stesso tempo, un rifiuto della tesi che per Kant la conoscenzascientifica fosse nient’altro che la sintesi fra due fattori eterogenei, costituiti daidati sensibili da un lato e dalle forme a priori dall’altro: se ciò fosse vero, obietta-no, come sarebbe giustificabile l’unità del pensiero?

Altra questione, trattata da alcuni di loro, è la definizione di due campi dellascienza ben distinti tra di loro: accanto alle scienze della natura le scienze dellospirito.

Per i neokantiani di Marburgo Hermann Cohen (1842-1918) e Paul Natorp(1854-1924), come per Kant, le condizioni di validità dell’esperienza sono daricondurre al pensiero, perché l’esperienza, in sé, non può garantire l’“oggettività”della conoscenza. L’unità trascendentale della coscienza non è l’“io penso”, mal’unità della scienza, il sistema logico-concettuale delle proposizioni, o giudizi, sucui si fonda la validità delle conoscenze scientifiche.

I neokantiani di Heidelberg (scuola del Baden), Wilhelm Windelband (1848-1915) e Heinrich Rickert (1863-1936), riaffermano invece il Kantismo soprattuttocome teoria dei valori. Il criticismo, infatti, appare ad essi come una scienza del-l’universalità e della necessità del valore. La filosofia si distingue dalle scienzespeciali perché formula giudizi di valore (“questa cosa è bella”, “questa cosa èbuona”, “questo è vero”, ecc.) e non, come la scienza, dei giudizi di fatto.

IL NOVECENTO6

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121FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Anche per Ernst Cassirer (1874-1945) il compito della filosofia è trascendentale,poiché essa si occupa non della realtà, ma dei modi e delle forme con cui la realtàviene conosciuta “oggettivamente” dalla scienza. I concetti della scienza hannoun senso in relazione ai fenomeni, valgono solo in quanto esprimono rapporti frafenomeni. A sua volta l’esperienza vale – sul piano scientifico – solo in quanto èorganizzata e unificata dal pensiero, in quanto è una dimensione del pensiero.

L’intuizione, organo della filosofia

Una più accentuata caratterizzazione critica nei confronti dei modelli di razio-nalità scientifica del Positivismo viene dalle correnti spiritualistiche e idealistichedella prima metà del Novecento. Alla conoscenza scientifica – e all’intelletto, chela costituisce – viene attribuito un significato non conoscitivo ma pratico, “eco-nomico”. L’intelletto determina schemi e quadri concettuali utili alla vita, più checoncetti “veri” in sé.

Secondo Henri Bergson (1859-1941) la scienza è incapace di conoscere iltempo della coscienza, che è durata reale, e la stessa realtà, che è un’incessanteevoluzione creatrice. Questa incapacità dipende dallo strumento privilegiato dallascienza, l’intelligenza. Occorre distinguere fra istinto e intelligenza. Se l’istinto èuna capacità innata di usare strumenti organizzati, forniti dalla natura, l’intelligen-za è una capacità umana di fabbricare strumenti artificiali. Ha fini pratici, utilitari,“economici”, perché ha la capacità di produrre strumenti che rispondono ai biso-gni che la vita pone continuamente. “Ritaglia” la realtà in momenti e concetti sta-bili, li astrae, distinguendo, nella fluidità e nell’infinita ricchezza del reale, quegliaspetti che ritiene necessari al soddisfacimento di bisogni umani, utilizzandolicome regole d’azione. Spezzetta il movimento in una successione di immaginidistinte l’una dall’altra e così si fa sfuggire proprio ciò che è essenziale nella realtàvivente, cioè il profondo significato del movimento evolutivo della realtà. Occorrequindi far ricorso a una facoltà conoscitiva diversa. Essa è l’intuizione intellettua-le, che fonde in sé istinto e intelligenza, cioè unisce l’immediatezza e la concre-tezza dell’istinto alla consapevolezza dell’intelletto e ci permette così di com-prendere l’infinita ricchezza del reale, dislocandoci nel flusso dell’evoluzionecreatrice. È istinto consapevole di se stesso, capace di riflettere su di sé e sui pro-pri contenuti, istinto divenuto disinteressato. L’intuizione ci fa cogliere la “duratareale”, la “memoria pura”, lo “slancio vitale”. Essa è l’autentico organo della filo-sofia, la chiave di volta del pensiero metafisico.

Teorie idealistiche della conoscenza e dell’errore

L’idealismo di Gentile e Croce ripropone l’hegeliana identità fra pensiero erealtà e si ispira al principio vichiano “verum et factum convertuntur ”, cioè all’as-sunto che l’uomo possa realmente conoscere solo ciò che si fa.

Per Giovanni Gentile (1875-1944), la conoscenza è prassi: la realtà, nel suo fon-damento ultimo, viene ricondotta all’infinita produttività del pensiero che la pensa.Il pensiero autenticamente concreto è il pensiero pensante, mentre il pensiero pen-sato è solo il pensiero astratto, disancorato dalla sua fonte originaria. L’atto del pen-siero è ciò che non si può mai trascendere e che non può mai trascenderci, in quan-to è sempre interno ai nostri pensieri, è soggetto trascendentale.

Per Gentile, inoltre, l’errore è tale solo in quanto è superato, cioè solo quandoviene riconosciuto come tale dal pensiero. È come il non-essere del pensiero,momento negativo della verità che è sempre immanente ad essa. È il versantedella non-verità che viene oltrepassato mediante il riconoscimento della centralitàdell’atto del pensare.

Per Benedetto Croce (1866-1952) tra le quattro distinte ed autonome forme cul-turali e di attività dello Spirito due riguardano la conoscenza: l’arte e la filosofia.La filosofia è conoscenza dell’universale, produttrice di concetti ed è un’attivitàriflessa mentre l’arte è conoscenza dell’individuale, intuizione irriflessa. L’artevuole contemplare l’oggetto, la filosofia comprenderlo. Non esistendo altre formeconoscitive oltre a quelle dell’intuizione (contenuto dell’arte) e del concetto (con-tenuto della filosofia) e non essendo l’intuizione scienza, solo la filosofia è verascienza. Le scienze, come si vede, non solo non rappresentano il vero e unico

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122FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

sapere, come affermava il Positivismo, ma neppure appaiono nell’ambito dellaconoscenza; la loro funzione è pratica, non teoretica. Non si poteva affermare piùchiaramente una sorta di “retrocessione” della scienza. L’unica conoscenza con-creta è nella storia. In essa lo Spirito si compenetra con gli eventi che concreta-mente avvengono, costituisce cioè la dimensione universale in cui quei fatti storicipossono essere interpretati e compresi. Non è possibile la comprensione dell’uni-versale se non come universale concreto, storico; e non c’è storia senza una com-prensione teorica dei fatti accaduti. La filosofia si occupa solo di ciò che è concre-to, di ciò che è effettivamente avvenuto o sta avvenendo. Non ci avverte tanto chequalcosa di specifico, di individuale è accaduto, ma ci dice quale sia il suo si-gnificato essenziale. Così, per Croce, filosofia e storiografia si identificano, cioè lafilosofia non è altro che metodologia della storiografia.

Per Croce, inoltre, l’errore ha un carattere pratico, non teoretico. Aprire boccaed emettere dei suoni a cui non corrisponda un pensiero, ad esempio, è un “fare”non un “pensare”. In generale, l’errore nasce con la sospensione della riflessionee con la sostituzione di argomentazioni razionali con motivazioni pratiche.

Il conoscere come intendere

Il tedesco Wilhelm Dilthey (1833-1911) parla del conoscere come di un inten-dere. Anche per lui, come per i neokantiani, diverso è il concetto di “scientificità”delle scienze matematico-naturalistiche e delle scienze umane e storico-sociali, inquanto diverso è il campo di realtà a cui l’indagine si rivolge. Chi indaga la storia– l’uomo – è colui stesso che la fa, afferma Dilthey con Vico.

Il suo metodo d’indagine si ispira al modello della psicologia, che è analitico edescrittivo e ci porta dentro il vissuto storico. Poiché la storia è una rete di con-nessioni fra azioni umane legate a scopi e valori, calandoci in essa possiamo cer-care di decifrarla, di comprenderne il senso. L’esperienza vissuta da altri individuinel passato può essere da noi intesa, interpretata, nel presente riconnettendo,nella nostra interiorità, quell’esperienza vissuta alla nostra: è proprio questo rivive-re in noi un’esperienza vissuta da altri a rendere possibile la comprensione delpassato e la scienza storica. Il termine con cui Dilthey esprime questa possibilitàconoscitiva è l’intendere (o “comprendere”): esso si differenzia dallo spiegaredelle scienze naturalistiche, che analizza i fenomeni e ne ricava dei princìpi gene-rali di spiegazione. Dilthey afferma la relatività della conoscenza storica. L’inten-dere, la possibilità di comprendere l’esperienza vissuta da altri attraverso il nostro“vissuto”, costituisce anche il limite delle scienze dello Spirito, infatti non esisteun ordine universale al di là del corso della storia.

Ogni visione dello spirito è unilaterale, esprime solo un punto di vista. Ma la veritàsta proprio in questo: nel rifrangersi della sua luce in mille forme, in mille punti di vista.

L’avalutatività della conoscenza

Max Weber (1864-1920) intende la conoscenza della storia e della società inmodo diverso. Egli distingue nettamente il valutare dal conoscere, l’esigenza prati-ca di seguire i propri scopi ed i propri ideali dal dovere teoretico di vedere la veritàdei fatti. Sono i mezzi, non i valori, il reale oggetto della scienza e anche gli effet-ti che l’uso di quei mezzi ha determinato. In base a tale criterio dell’avalutatività,anche i fenomeni storico-sociali vanno studiati come una realtà oggettiva.

I giudizi di valore, cioè i pregiudizi etico-politici che condizionano l’interpreta-zione, sono negativi e da rifiutare. È possibile cogliere, invece, nell’interpretazio-ne dei fatti, la presenza di una relazione ai valori. Questa si lega ai criteri di scel-ta dell’indagine. Tali valori e criteri sono orientativi, suggeriscono cioè oggetti etemi che all’indagatore appaiono rilevanti, quindi da scegliere e da analizzareprioritariamente rispetto ad altri. Proprio questo riferimento al valore (insiemeall’esclusione del giudizio di valore) favorisce l’avalutatività della conoscenza sto-rico-sociale. Esso permette, infatti, di individuare e scegliere l’oggetto di studio, dideterminarlo anche in riferimento al campo di valori che lo definisce, che vienereso visibile, “trasparente”, e così controllabile. Le operazioni successive devonocomunque fare a meno di quel riferimento al valore, devono svolgersi attraversole imputazioni causali, cioè una ricostruzione della rete di connessioni fra eventistorico-sociali che sia scientificamente controllabile e verificabile.

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123FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

“Crisi dei fondamenti” delle scienze e nuove esigenze di rigore teorico

Con la teoria della relatività e i nuovi sviluppi della fisica atomica si modifica ilconcetto stesso di oggettività della conoscenza di un fenomeno. L’oggetto non èaffatto “indipendente” dall’osservazione. La realtà non prescinde dall’immagineche di essa fornisce il modello interpretativo adottato, nel quale vengono inseriti idati e i criteri procedurali. Il valore di tale modello è sempre relativo alla possibi-lità di accertarne l’efficacia in base ai risultati che permette di conseguire e alla loroeffettiva controllabilità sul piano sperimentale. Gli elementi di cui esso si compo-ne hanno una “realtà” attribuibile unicamente in base ai dati di osservazione, al lin-guaggio adottato e ai procedimenti seguiti. È quindi il concetto stesso di realtà, diverità a mutare di senso, anche se l’idea dell’“oggettività” di una legge scientificapermane, poiché viene garantita dal rigore dei procedimenti seguiti, dalla loroesplicitazione nelle teorie e dalla controllabilità sperimentale dei risultati.

Si è sostenuto che in Albert Einstein (1879-1955) la teoria prevalga sull’esperien-za, perché conferme della validità delle sue tesi sono venute solo da successiveesperienze. Lo stesso scienziato, però, ha affermato che “la sola giustificazione deinostri concetti sta nel fatto che essi servono a rappresentare il complesso dellenostre esperienze; oltre a ciò essi non hanno alcuna legittimità”.

Alla base della posizione di Einstein vi è il realismo. La scienza, infatti, vuolecomprendere la realtà. Solo per via speculativa noi possiamo afferrare il “reale fisi-co”, dato che le percezioni sensibili ci danno solo indizi indiretti di quella realtà.Ma la conoscenza della realtà non avviene una volta per tutte, poiché essa nonpuò mai essere considerata definitiva.

Il francese Jules-Henri Poincaré (1854-1912) è assertore di una teoria conven-zionalista, nella scelta dei modelli teorici: i princìpi della scienza sono ipotesi,quadri concettuali, con cui si ordina l’esperienza cercando di darne un modellounitario e coerente. Il criterio di scelta è dato dalla “economicità” di quelle ipote-si, cioè dalla funzionalità e “comodità” delle loro spiegazioni.

Bertrand Russell (1872-1970) è invece sostenitore di una teoria realista dellaconoscenza: la realtà, anche quella degli enti matematici, è indipendente dal pen-siero. Ed è proprio questa tesi che permette di riconoscere alle verità matematicheun valore “oggettivo”. Ciò vale, in particolare, per quelli che Russell chiama enun-ciati atomici (o atomi logici ).

Anche alla base della filosofia di George Edward Moore (1873-1958) vi è ilRealismo. Controbattendo le tesi degli Idealisti Moore osserva che, se è vero chel’esperienza è interna all’attività mentale, è anche vero che gli oggetti che la deter-minano non sono “interni” alla mente, ma costituiscono il versante esterno,“oggettivo”, di tutte le proposizioni del tipo “io so che”, “io percepisco” e simili.Non esiste quindi il problema di “uscire dal cerchio delle proprie sensazioni”:quando ho una sensazione sono già fuori di quel cerchio, mi rivolgo a qualcosache non appartiene a me stesso.

L’identificazione fra pensiero e linguaggio

A questa elaborazione si collegano sia il pensiero di Ludwig Wittgenstein (1889-1951) che il movimento neopositivista.

Per Wittgenstein la filosofia è, essenzialmente, analisi del linguaggio. Il fonda-mento gnoseologico del Tractatus logico-philosophicus è empiristico: si può par-lare solo di ciò che costituisce un fatto. Tutto ciò che è al di fuori dei fatti non èesprimibile, quindi non è pensabile. La lingua è rappresentazione del mondo e ilmondo “è la totalità dei fatti ”, è “tutto ciò che accade” e “si divide in fatti”. A ognifatto, cioè a ogni elemento della realtà, corrisponde un elemento del linguaggio.La posizione di Wittgenstein rinvia, perciò, a una concezione realistica.

Il linguaggio scientifico deve rispecchiare la struttura della realtà, deve descri-vere i fatti e le relazioni fra fatti.

Deve anzitutto far corrispondere a tutti i fatti più semplici (o fatti atomici), delleproposizioni altrettanto semplici (le proposizioni atomiche o elementari di cuiaveva parlato Russell). “La proposizione semplice sarà vera se esiste lo stato dicose” che raffigura. Essa è l’entità linguistica minima, della quale può essere pre-dicato il vero o il falso.

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124FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Vi è inoltre un altro tipo di proposizioni, quelle della logica, che, invece didescrivere fatti, indicano la forma che le proposizioni debbono avere per esserecorrette, per riuscire a raffigurare i fatti del mondo indipendentemente dalla realtàche rappresentano. Esse sono sempre vere.

Se le proposizioni dotate di senso sono solo quelle che possono fare riferimen-to a fatti, allora l’unico linguaggio dotato di senso è quello delle scienze naturali.Tutte le affermazioni della filosofia tradizionale sono prive di senso perché si pon-gono fuori della relazione tra proposizione e fatti. Wittgenstein perciò conclude:“di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.

I princìpi della verificabilità e della confermabilità

Il Neopositivismo subisce fortemente l’influenza del primo Wittgenstein. Intenderendere coerenti e chiare le basi concettuali delle diverse discipline scientifiche,“depurandone” gli statuti da ogni concetto contraddittorio o di stampo metafisico.I concetti della metafisica, infatti, vengono considerati come privi di senso, perchénon sostenuti dai dati dell’esperienza.

La conoscenza dipende soltanto da fattori linguistici – le regole che governanol’uso dei simboli del linguaggio – e da fattori empirici – le procedure di verificadegli enunciati relativi a fatti. L’influsso di Wittgenstein è palese.

Si afferma il principio di verificazione.Moritz Schlick (1882-1936), ad esempio, afferma che, in base al principio di veri-

ficazione, il significato di una proposizione scientifica dipende strettamente dallapossibilità di essere sperimentalmente verificata. Così “il significato di una proposi-zione è il metodo della sua verifica”. In altri termini, per essere ritenuta “scientifi-ca” una proposizione deve indicare essa stessa le “circostanze”, i fatti sperimenta-li che possono comprovarla o smentirla.

Anche Rudolf Carnap (1891-1970) sostiene inizialmente tesi fondate sul princi-pio di verificazione. Sostiene soprattutto la possibilità di realizzare una verificadelle proposizioni scientifiche attraverso esperienze immediate (o esperienze vis-sute elementari ), a cui sia possibile giungere attraverso procedimenti di trasfor-mazione (o riduzione) di quelle proposizioni in altre, suscettibili di controllo everifica empirica.

Successivamente sostituisce il principio della verificazione con quello della con-fermabilità delle proposizioni della scienza. Considera, infatti, improponibile ilprimo principio in quanto – in base ad esso – una legge universale non potrebbemai essere del tutto verificata, poiché richiederebbe un numero infinito di prove.Né, d’altra parte, le proposizioni protocollari, fattuali, che dovrebbero costituire la“verifica”, sono incontrovertibili. Meglio parlare, allora, di “conferma”, per laquale non si deve pretendere un numero infinito di esperienze convalidabili.

In tale contesto Carnap ripropone la tesi della convenzionalità del linguaggioscientifico, a cui collega un principio di tolleranza: si è liberi di scegliere un datolinguaggio e una data logica, ma occorre poi garantire la coerenza di tutti iprocedimenti alle scelte inizialmente compiute, rispettando rigorosamente i crite-ri e le regole che ci si è assegnati.

Il principio di falsificazione

Il principio di verificazione (o verificabilità) viene attaccato e messo in discussioneanche da Karl Raimund Popper (1902-1994). Mettendo in evidenza il fatto che una leggescientifica non può mai esser del tutto “verificata”, perché, a rigor di logica, il numero diprove necessarie a una verifica dovrebbe essere infinito, egli contrappone al principio diverificazione il principio di falsificazione, in base al quale l’esperienza serve non a fon-dare ma a confutare una teoria, a costringerci quindi a sostituirla con un’altra. La tesi diPopper si lega all’aperta critica delle tesi dell’Empirismo logico, per il quale una scienzaè tale solo se le sue proposizioni sono suscettibili di verifica empirica.

Alla base della teoria scientifica non c’è l’induzione, ma un metodo ipotetico-deduttivo. Questo si basa su ipotesi generali, frutto di elaborazione razionale, chesi distinguono dalle ipotesi della metafisica in quanto, a differenza di queste ulti-me, sono falsificabili. È “falsificabile”, cioè “scientifico”, un sistema di proposizio-ni che possa esser confutato dall’esperienza.

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125FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

La conoscenza progredisce mediante una sequenza scandita da congetture,cioè anticipazioni, ipotesi non ancora giustificabili, e confutazioni, cioè controllicritici che mirano a falsificare, a confutare quelle congetture.

Le congetture e le confutazioni, pur non potendoci permettere di conquistare laverità una volta per tutte, permettono di approssimarci alla verità. Il cammino dellaconoscenza è di avvicinamento progressivo alla verità, mediante correzioni eadattamenti continui delle teorie. La teoria della conoscenza di Popper è definibilecome fallibilismo. Il modello metodologico esemplare è quello che è accertabile an-che in natura, nei comportamenti di tutti gli esseri viventi: il metodo per prova ederrori, che nell’uomo si rivela particolarmente aperto e dinamico verso tutte le pro-spettive possibili di sviluppo. È possibile ed è necessario imparare dai propri errori.

Popper esprime un’aperta opzione a favore del realismo gnoseologico: a falsifi-care le teorie sono sempre dei “fatti reali ” ed è proprio la realtà delle cose a ricor-darci della possibilità permanente di smentite alle nostre ipotesi.

La conoscenza nel Pragmatismo e lo Strumentalismo

Il Pragmatismo considera il pensiero soprattutto dal punto di vista della sua effi-cacia, dei suoi effetti pratici. Il valore di un’idea o di un sistema di idee è infatti costi-tuito dalla sua capacità di orientare l’azione umana, cioè di produrre dei princìpi perl’azione. La validità delle idee è legata alla loro capacità di organizzare non tantol’esperienza passata quanto l’esperienza futura, è legata cioè alla loro capacità diorientare le azioni ancora da compiere, di prevedere e progettare azioni efficaci.

Charles Sanders Peirce (1839-1914) afferma che la conoscenza mira a definirecriteri e princìpi per la condotta e a produrre negli individui credenze e abitudinicapaci di aiutarli a reagire in modo adeguato al presentarsi di determinate circo-stanze, ad affrontare le incertezze legate all’insorgere di situazioni nuove.

La verità di un’idea non è costituita da una pura raccolta di dati osservativi, maconsiste negli effetti, cioè nelle conseguenze pratiche che da quell’idea possonoderivare. Proprio la considerazione di tali effetti costituisce “la totalità della nostraconcezione dell’oggetto”.

Ma il pensiero non poggia solo sui procedimenti della deduzione o dell’indu-zione. Vi è anche un terzo procedimento, che Peirce chiama dell’abduzione, cioèun’“inferenza presuntiva” con cui si cerca di risalire direttamente dall’effetto a unacausa, da una serie di fatti osservati a un fatto ipotizzato, presunto, da cui quelliderivino. L’abduzione è sempre legata al rischio di sbagliare, di non trovare ilconforto di una verifica positiva, perché è come un’esplorazione in un terreno deltutto nuovo. Eppure è necessaria perché solo così, quasi “indovinando”, possiamorisalire da dati fatti ad altri completamente diversi.

Per William James (1842-1910) vere sono unicamente le idee che ci permetto-no di “andare avanti ”, che si dimostrano utili, cioè efficaci per l’uomo e per la suaazione nel mondo. La verità ha un carattere progettuale. Essa si lega alla fede inun’ipotesi, ha un orientamento rivolto al futuro. Non c’è una corrispondenza mec-canica tra uno stimolo e una risposta. Lo stimolo, la sensazione, fa nascere lariflessione che provoca la risposta, cioè l’azione. Il pensiero è solo un momentodi transito fra le sollecitazioni del mondo esterno e le reazioni ad esse; la sensa-zione e la riflessione “esistono solo in vista della condotta”.

Lo strumentalismo di John Dewey (1859-1952) si lega invece alla relazionedinamica uomo-ambiente. L’intelligenza è, dunque, uno strumento per l’azione,capace di risolvere problemi di interazione fra l’uomo e il contesto in cui opera.L’intelligenza svolge un’azione strumentale in rapporto all’esperienza, che si pre-senta come situazione problematica, per arrivare a risolverne la problematicità ea produrre una riorganizzazione della realtà che realizzi un migliore adattamentodell’uomo all’ambiente.

Lo strumentalismo di Dewey poggia su una teoria dell’esperienza.L’esperienza è da intendere come una situazione, cioè come connessione di

oggetti ed eventi in un contesto complessivo. Per descriverla, Dewey parla sia diinterazione, cioè di azione reciproca fra quei momenti dell’esperienza, sia di tran-sazione, cioè di scambio fra organismo e ambiente, fra conoscenza e azione, frasoggetto e oggetto dell’esperienza. Uno scambio nel quale ciascuno dà e riceveed entrambi i momenti si sorreggono a vicenda e concrescono.

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126FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Vi entrano i fattori fondamentali della vita degli individui. Quindi l’esperienzanon è riducibile a conoscenza – come affermava l’empirismo classico – perché vientrano gli istinti, le passioni e le emozioni e non solo la ragione.

Bisogna andare, invece, a una concezione naturalistica della ragione, da intende-re come idea generalizzata del processo operativo in cui consiste la conoscenza.

Anche nell’operazionismo dell’americano Percy William Bridgman (1882-1961) ècentrale il fare: quello dello scienziato, che entra nella elaborazione di una teoria.In questa, infatti, i concetti vengono costruiti teoricamente per determinare i model-li delle realtà che sono oggetto di indagine. Tale elaborazione viene compiuta sem-pre in funzione delle operazioni che vengono effettuate verso tali oggetti.

Di qui la tesi che le questioni effettivamente dotate di senso sono quelle rispet-to alle quali è possibile organizzare delle operazioni volte a dare loro risposta.

La conoscenza come rispecchiamento e come ideologia

Dal punto di vista della teoria della conoscenza, nei vari indirizzi che si richia-mano al pensiero di Marx è stata rivista criticamente – soprattutto in Occidente –la questione del realismo gnoseologico e della ideologia (cioè del rapporto fracoscienza ed essere sociale, fra sovrastruttura e struttura).

Del realismo gnoseologico si è dichiarato fautore Nikolaj Lenin (1870-1924). Laconoscenza altro non è se non un rispecchiamento fedele di ciò che sussiste nellarealtà e che le sensazioni (ed i concetti con cui i dati dell’esperienza vengonoorganizzati e ordinati) non fanno che “rispecchiare” e riprodurre. La conoscenzascientifica è approssimazione continua alla realtà delle cose.

In Antonio Gramsci (1891-1937), invece, la questione della conoscenza si poneall’interno di una filosofia della prassi. In questa prospettiva il mondo è realtà cheha un senso solo per l’uomo, cioè in relazione alla conoscenza e alla trasforma-zione umana del mondo stesso. La “prassi”, infatti, media e connette l’uomo ed ilmondo, trasformandoli entrambi. Tale posizione è stata interpretata da molti comeuna forma di estrema soggettivizzazione della conoscenza. A ciò si aggiunge ilfatto che – in Gramsci – le ideologie sono anche il luogo in cui i soggetti (oppureinteri strati sociali) prendono coscienza dei conflitti reali.

György Lukács (1885-1971) – in Storia e coscienza di classe – critica sia l’Ideali-smo che il vecchio Materialismo, che privilegiavano o il soggetto o l’oggetto: l’i-dentità di soggetto e oggetto sta invece nel loro essere “momenti di uno stesso pro-cesso dialettico storico-reale”. La questione del rapporto soggetto-oggetto non èsolo di natura gnoseologica, poiché attiene anche ai rapporti sociali fondamentali,riguarda gli “attori” che creano la realtà storico-sociale: è la dialettica storica disoggetto e oggetto, è la coscienza che i soggetti – e i soggetti rivoluzionari – hannodella realtà sociale.

Karl Korsch (1886-1961) sostiene l’esigenza di un “ritorno ad Hegel”, cioè adun uso critico della dialettica, che sia tale da sovvertire, nello stesso tempo, loscientismo positivistico e la metafisica dialettico-materialistica del Marxismo. Èvero che la coscienza “riflette” la realtà, ma è anche vero che questa stessa realtàè un prodotto dell’attività umana, è espressione dialettica della connessione stret-tissima che vi è fra natura e storia, tra società e individuo.

Anche nella Scuola di Francoforte si parla di ricorso alla dialettica hegeliana,come dialettica negativa: una dialettica non della “conciliazione” ma della nega-zione, dell’opposizione, dell’irriducibile differenza di una realtà rispetto ad altre,del superamento continuo di ogni situazione data.

La conoscenza, afferma Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), non è unapura e semplice “assimilazione” dell’oggetto al soggetto, cioè imposizione allarealtà dei propri schemi mentali. È invece tensione conoscitiva, tensione dialetti-ca fra oggetto e soggetto, è accertamento e non-assimilazione del dissimile. Èimpossibilità di conciliare i diversi aspetti dell’esistente in un “sistema” dellarealtà, che è solo una pretesa ed un’illusione di tipo metafisico. A differenza di ciòche Hegel aveva sostenuto, secondo Adorno non è possibile cogliere e compren-dere il senso della totalità nella quale dovrebbero collocarsi i singoli aspetti e pro-cessi che vengono studiati mediante lo strumento dialettico.

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127FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Max Horkheimer (1895-1973) critica il pensiero di Max Weber, che ha distintoi fatti dalle interpretazioni. Sotto la veste di un’apparente avalutatività, infatti, lasociologia descrive i fatti sociali osservati manipolandone e distorcendone il signi-ficato, in quanto li inserisce in quadri concettuali che nascondono degli schemivalutativi impliciti. Questi schemi, però, proprio perché nascosti, impliciti, nonsono mai oggetto di una verifica critica.

Inoltre, afferma Adorno, i fatti dell’esperienza non sono dati “neutri” che abbia-mo di fronte e che dobbiamo semplicemente acquisire e far nostri, come preten-deva il Positivismo: essi sono invece dei problemi per il conoscere, implicanoun’analisi ed un’interpretazione.

Bisogna evitare il naturalismo positivistico, la pretesa cioè di studiare e com-prendere la realtà sociale come se fosse essa stessa “naturale”: ciò ha portato lasociologia positivista a non vedere i nuovi processi di controllo e di dominio af-fermatisi nelle moderne società industriali ed a svolgere un mero ruolo apologeti-co di tali società.

Lo stesso Neopositivismo e, con esso, il pensiero cibernetico, che ritengono dipoter formalizzare tutto, di poter trasformare la conoscenza in una mera proce-dura di calcolo formale, meccanizzato (ciò che è divenuto possibile con i moder-ni computer), accettano il dato per quello che è, lo riducono a funzione matema-tica, ma non sono in grado di intenderlo realmente, di guardarlo nella sua con-nessione con il “sistema” dei dati e non sono quindi in grado di comprenderne ilsignificato ideologico.

L’intuizione fenomenologica delle essenze

Edmund Husserl (1859-1938) ha inteso la conoscenza fenomenologica come un“ritorno alle cose stesse ”. “Tornare alle cose ” vuol dire guardare ai fenomeni cosìcome essi si manifestano immediatamente e con evidenza alla coscienza e descri-verli senza aggiungere niente di estraneo all’oggetto stesso.

Non ci troviamo subito dinanzi alle cose, cioè ai fenomeni nella loro evidenza,ma in una situazione falsata da pregiudizi consolidati. Per arrivare al fenomenobisogna “mettere fra parentesi” sia l’atteggiamento spontaneo e naturale che con-duce gli uomini ad accettare il mondo circostante così come si presenta, sia l’at-teggiamento proprio delle scienze. Questa è la porta d’ingresso della fenomeno-logia: l’epoché, la riduzione fenomenologica. È un atto di “sospensione dell’as-senso” che non ci fa più considerare “normale” intendere i fenomeni come cosee il nostro io come una sostanza. L’epoché ci avverte che, messo fra parentesi ilmondo, rimane un residuo fenomenologico che è irriducibile al mondo stesso: lacoscienza, che non può essere messa fra parentesi. Essa è intenzionalità, cioè ten-sione verso qualcosa di diverso, che è oltre e al di là di sé. L’insieme degli atti edei processi della coscienza – ricordi, percezioni, affetti, sentimenti, volontà –viene definito col termine di erlebnis, o esperienza vissuta. In essa si trova sia ladistinzione che la relazione fra la coscienza e il suo oggetto.

La ragione svolge un’attività di tipo intuitivo, che ha come oggetto le essenzeideali: è per questo che si parla di intuizione eidetica (da éidos, idea). L’aspettocaratterizzante dell’intuizione eidetica è l’evidenza razionale con cui l’oggettodell’intenzionalità si presenta alla coscienza.

Essa permette di fondare un sapere rigoroso, cioè di conseguire conoscenzeoggettive e valide, che non sono invece possibili con le evidenze sensibili o conquelle offerte dalla psicologia.

La coscienza è continuo trascendimento di sé verso le essenze, è nóesis (ilmomento soggettivo del percepire, dell’immaginare, del ricordare...) a cui si mani-festa un nóema ad essa trascendente (cioè il momento oggettivo del percepito,dell’immaginato, del ricordato). L’éidos, l’essenza dell’oggetto, è la sua strutturacostitutiva, invariante. La posizione di Husserl è stata accusata di soggettivismo, diidealismo, per la centralità assegnata al vissuto della coscienza

Nicolai Hartmann (1882-1950) – a differenza di Husserl – dà alla fenomenolo-gia un’impostazione realistica, configurandola come un’ontologia critica. La radi-ce fenomenologica di questo Realismo sta nell’assunto che la conoscenza sia tra-scendenza, sia relazione che lega la coscienza a ciò che la trascende. L’essere,così, è eterogeneo al conoscere. L’oggetto è un ob-jectum, è un “esser gettato”

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128FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

contro il soggetto, senza essere mai da questo pienamente assimilato. Al di là dellacoscienza l’essere si afferma come una totalità massiccia e corposa, attraversata edominata da un rigoroso determinismo causale.

Interpretazione e circolo ermeneutico

Martin Heidegger (1889-1976) svolge una critica della razionalità occidentaleche viene identificata con la razionalità scientifica e tecnica. A fondamento di talerazionalità vi è quella forma di conoscenza che chiamiamo metafisica. La malat-tia della metafisica, il suo difetto originario, sta nell’avere ridotto l’essere agli enti,alle cose, favorendo così un progressivo oblio dell’essere.

Anche per Heidegger, come per Husserl, l’esserci dell’uomo, dell’individuo, sicaratterizza come intenzionalità, cioè come tensione verso altro, come trascendi-mento di sé, come rapporto uomo-mondo. Sul piano teoretico si pone quindi ilproblema della comprensione e dell’interpretazione dell’essere-nel-mondo. Laconoscenza è, essenzialmente, interpretazione. È incontro, rapporto continuo fra lepre-nozioni che il soggetto possiede (cioè le forme originarie di comprensione, isignificati generali che vengono attribuiti al mondo nel quale si vive e ci si orienta)e la specificità di significato che la realtà particolare e le singole cose possiedono.

È un processo circolare (o circolo ermeneutico) nel quale i due poli di quel rap-porto si richiamano a vicenda e che permette a significati dapprima oscuri enascosti di “rivelarsi”, cioè di essere gradualmente avvicinati e compresi. Nonarriviamo come una “tabula rasa” a conoscere l’esperienza. Le stesse categorie eforme linguistiche con cui organizziamo ed esprimiamo la realtà delle cose sonomarcate da quelle pre-nozioni, che la tradizione metafisica dell’Occidente ha tra-smesso da una generazione all’altra. Dal circolo ermeneutico non si esce. È pos-sibile avvicinarsi a una conoscenza sufficientemente valida solo per approssima-zioni continue, sapendo che il dato che leggiamo ed il modo con cui lo leggiamointerferiscono fra loro.

Nella seconda fase della sua riflessione, Heidegger afferma che l’uomo devefarsi “custode dell’essere”. Deve cercarlo ovunque e, soprattutto, nel linguaggiodepositato dal patrimonio della tradizione, dal quale è possibile cogliere i sintomie i segni della presenza dell’essere.

Al primato del pensiero calcolante si vuole contrapporre la presenza attiva di unpensiero rammemorante, filosofico e poetico, che cerchi un senso più profondonel e attraverso il linguaggio. Il linguaggio è, nella sua essenza, un “dire origina-rio” che mostra, fa emergere le cose nella loro verità. Il disvelamento è la verità,l’aprirsi dell’essere nel linguaggio, ma non in ogni linguaggio, solo nel linguaggiopoetico. Solo così l’essere può annunciarsi all’uomo, può improvvisamente chia-marlo. Ed è la poesia una delle forme privilegiate dell’apertura dell’essere.

La ricerca dell’essere

Anche per Karl Jaspers (1883-1969) la filosofia dell’esistenza è ricerca dell’es-sere, una ricerca che passa attraverso la messa in evidenza dei limiti dell’orienta-mento scientifico nel mondo, che “oggettiva” il mondo e ne fa qualcosa di estra-neo all’uomo. La conoscenza scientifica deve riconoscere dunque i suoi limiti :essa non è e non può essere conoscenza dell’Essere, ma solo conoscenza di ogget-ti determinati, quindi la si può definire come “il non sapere ciò che è L’Essere stes-so”. La scienza non è in grado di guidare la nostra vita.

L’essere, in quanto comprensività e infinità, “non si rende mai visibile”, siannuncia in tutti gli oggetti che ci sono presenti senza diventare mai oggetto, cisfugge sempre. L’uomo avverte che l’essere è sempre al di là della realtà in cui losi cerca, è trascendenza. Ma così l’essere sfugge continuamente al tentativo del-l’uomo di comprenderlo nel suo significato profondo.

La filosofia, una filosofia che sappia essere autentica, deve intervenire per supe-rare sia il pericolo del relativismo derivante dalle molteplici visioni del mondo, siaquello del dogmatismo, la pretesa di affermare una verità sopra le altre. Il filosofo,invece di chiudersi nella “sua” verità, deve cercare il senso di ogni tipo di verità,guardare e studiare criticamente ogni verità, avvertirne i limiti, suggerire percorsidi ricerca, ma mai imporre una verità definitiva. Il filosofo opera quindi per apri-re e per mantenere aperta una possibilità permanente di comunicazione umana.

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129FILOSOFIA E CONOSCENZA: IL PROBLEMA DELLA VERITÀ

Sull’ermeneutica

L’ermeneutica contemporanea ha preso l’avvio – oltre che dagli autori sopracitati – dalla riflessione del filosofo tedesco Hans Georg Gadamer (1900) e si èdiramata in una molteplicità di direzioni.

L’ermeneutica va al di là delle stesse “scienze dello spirito”. Non costituisce cioèun sapere epistemologicamente fondato e parallelo a quello fisico-naturalistico. Èinvece un’ontologia, una riflessione sull’essere. Si basa su un “circolo”, il circoloermeneutico fra interpretante e interpretandum (o realtà da interpretare). Questoè un andare e venire dal soggetto all’oggetto, nel quale il primo si muove con lesue pre-comprensioni, cioè con un apparato di schemi interpretativi (credenze,pre-giudizi, anticipazioni ereditate dalla tradizione, ecc.), verifica la loro inade-guatezza, le rettifica, le saggia di nuovo, sempre in una prospettiva ontologica econ la disposizione a cogliere il “senso” della realtà delle cose, facendolo emer-gere dalle cose stesse.

Limiti e funzioni del sapere: una domanda aperta

Estremamente vario e differenziato, quindi, è lo scenariodelle posizioni che nel Novecento si sono misurate con ilproblema gnoseologico (che è ancora più ampio e articola-to di quello che è stato qui riportato), perché diversi sono –nei vari indirizzi filosofici – i compiti assegnati al pensiero – aquello della scienza o a quello della filosofia – e i giudizi sullesue possibilità e i suoi limiti. Resta comunque – sempre attua-le – la domanda kantiana: che cosa posso sapere?

Umberto Boccioni, Linea unica della continuità nello spazio, 1913.Milano, Civica Galleria d’Arte Moderna.

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FILOSOFIADELLA POLITICA E DEL DIRITTO

La filosofia del diritto ha come oggetto le norme con cui viene garantita la convivenza degli indivi-dui all’interno di un gruppo umano oppure quella fra diversi gruppi.

La filosofia della politica (termine che deriva da pólis, cioè dalla città-stato greca) è invece quel campodi riflessione che studia i problemi dello Stato, del governo e dell’attività con cui individui e gruppi sirapportano rispetto al potere, per parteciparvi, oppure per conquistarlo o difenderlo se già si possiede.

Con il termine di Stato si indica una unità politica organizzata, configurata come persona giuridicacollettiva e che è costituita da: a. un popolo; b. un territorio; c. la titolarità di un potere sovrano, quin-di un monopolio dell’uso della forza.

Problemi del pensiero politico e giuridicoLungo l’intero arco della storia culturale e filosofica occidentale, il dibattito teorico su tali problemi

risulta molto ricco. Sono emerse – fra i filosofi – posizioni diversissime che possiamo qui tradurre – unpo’ schematicamente – in cinque ordini di interrogativi.

■ Anzitutto quello che riguarda il fondamento di validità delle norme giuridiche e dei sistemi disocietà e di Stato.

• Su che cosa si basa la legittimità delle norme dell’ordinamento statale, ciò per cui tutti devono – odovrebbero – rispettarle e non trasgredirle?

• È la divinità la fonte di un diritto che non può essere messo in discussione e violato, pena una tre-menda punizione divina, oltre a sanzioni umane? oppure il diritto nasce da un principio di necessità erazionalità universali, simile a quello che regola tutti gli esseri?

• O, ancora, la base del diritto è l’utile, o semplicemente una necessità dettata dalla forza, cioè daimposizioni di alcuni su altri?

• O, infine, non c’è alcun fondamento delle norme che non sia a sua volta una norma?

■ Vi è poi un problema che si è posto con forza nell’età moderna, soprattutto quando si è comincia-to a discutere del rapporto fra diritto naturale e diritto positivo: ed è il problema del rapporto fra mora-le e diritto : la prima vista come un ordine fondamentale di norme che valgono per la coscienza degliindividui; il secondo concepito come un sistema di regole relative alla condotta esterna degli individui,ai loro rapporti reciproci, quindi imperfette rispetto alle norme morali, a cui avrebbero dovuto comun-que sempre ispirarsi.

Ci si è chiesti e ci si chiede: • È corretto separare le due sfere, come se riguardassero due universi, due realtà irriducibili l’una all’al-

tra: quella interiore e quella sociale? • In caso di conflitto, quali norme dovrebbero avere la prevalenza sulle altre: le norme etico-religio-

se su quelle dello Stato? Ma allora l’individuo dovrebbe disobbedire allo Stato, ribellarsi?• Oppure le norme statali devono prevalere sulle altre? In quest’ultimo caso, a quale titolo? Perché lo

Stato “sovrasta” l’individuo o perché gli è eticamente “superiore”?• In altri termini, se si parla di autonomia reciproca fra i due sistemi di norme, come conciliare l’ob-

bedienza alle norme morali con quella alle norme statali, quando impongono comportamenti diversi?

■ Un terzo ordine di problemi riguarda la cosiddetta società giusta, quella ritenuta più confacente aibisogni e alle esigenze di coloro che ne fanno parte.

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

130FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

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Ci si è chiesti: • Qual è l’idea di giustizia che ispira un sistema di norme? Oppure: qual è il

modello di società e di Stato che occorre realizzare? È quello ispirato all’idea di disu-guaglianza oppure è quello opposto, ispirato a un principio di uguaglianza?

• E se nessuno dei due modelli è possibile allo “stato puro”, qual è, allora, il puntodi equilibrio ottimale? Quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge acui corrisponde una disuguaglianza di fatto nella società? Ma la legge, davanti allaquale tutti sono “uguali”, non può essere essa stessa “promotrice” di processi di avvi-cinamento e – al limite – di uguaglianza fra i cittadini?

• In ogni caso, di quale uguaglianza si parla: di uguaglianza formale delle occasioni,cioè di possibilità offerte a tutti sulla “linea di partenza” della vita, oppure di ugua-glianza di risultato (cioè di “traguardi”), nel senso che tutti abbiano una possibilitàreale di esercitare determinate capacità e determinati poteri?

• Ma in che modo è possibile evitare – o ridurre – le contraddizioni e i pericoli cheper l’una o l’altra opzione sono stati sottolineati? E, soprattutto, come evitare che nelprimo caso si abbia un eccesso di “disuguaglianza” e nel secondo un eccesso di “livel-lamento” fra individui diversi, come da molti secoli filosofi di orientamento oppostohanno affermato criticando – di volta in volta – l’una o l’altra prospettiva?

■ Un altro vastissimo campo di discussione ha riguardato l’idea di libertà in relazioneallo Stato. E si intreccia col problema delle libertà civili e politiche degli individui.

Tale problema riguarda non più solo il punto di vista morale, relativo alla capacitàdi un individuo di agire liberamente, quindi di compiere atti di cui sia effettivamenteresponsabile, oppure di agire in uno stato di costrizione e necessità. Riguarda invecela delicatissima questione di quali siano – e quali possano o debbano essere – i mar-gini e le possibilità di libertà degli individui in un’organizzazione sociale e politica.

Al problema delle libertà si lega – in larga misura – quello dei cosiddetti limiti delloStato. Quando si parla di Stato sociale, Stato minimo, Stato laico o confessionale, ecc.ci si lega tuttora a concezioni che la teoria politica ha approntato sin dall’inizio del-l’età moderna. Ad esempio, per i fautori dello Stato minimo le funzioni statali sidovrebbero ridurre essenzialmente a due: ordine interno e sicurezza esterna. Esse ser-virebbero a compiti di protezione della sicurezza degli individui (e di punizione dei tra-sgressori). All’opposto, per i fautori dello Stato sociale lo Stato dovrebbe intervenire inaltri campi, per poter provvedere al benessere dei cittadini, distribuire in misura equa oaddirittura egualitaria le risorse fra tutti i cittadini, educarli, curarli, provvedere in modoprioritario ai più deboli, a cominciare dai bambini e dagli anziani, ecc.

Anche quando le libertà degli individui sono state riconosciute teoricamente e garan-tite concretamente dagli ordinamenti politici, esse sono state concepite in modi diversi:ad esempio come libertà dallo Stato (come difesa dell’individuo contro ogni ingerenzadello Stato) o, al contrario, come libertà nello Stato (come partecipazione democraticaalla gestione del potere).

Ci si è quindi chiesti: • Come si può porre la questione della libertà nello Stato? Libertà per l’insieme della

società oppure solo per alcune categorie o classi sociali? Ed inoltre, libertà dallo Stato olibertà nello Stato?

■ Resta inoltre apertissima una questione cruciale: quella di come sia possibile conci-liare il massimo di libertà di ciascuno (inteso come individuo) e il massimo di libertà ditutti (cioè della collettività, costituita dall’insieme degli individui); e di come sia possibi-le conciliare, nello stesso tempo, l’interesse privato e l’interesse della comunità, a par-tire dall’interesse di coloro che – in essa – appaiono più deboli e meno favoriti.

La domanda di fondo, quindi, che si sono posti – e si pongono – filosofi e teorici dellapolitica è:

• Se si sostiene che le libertà di ciascuno e le libertà di tutti sono conciliabi-li, e sono altrettanto conciliabili gli interessi di ciascuno con gli interessi di tutti,fino a che punto ciò è possibile, ed entro quali limiti essi sono conciliabili?

Domande e problemi con cui si sono misurate – e si misurano tuttora – leteorie politiche e giuridiche.

131FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Constantin Brancusi: L’uccello nello spazio, 1940.Venezia, Collezione Peggy Guggenheim.

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132FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Nel mondo antico la connessione fra etica e politica è stata sempre molto stret-ta, fino quasi a identificarle. Lo spazio privato dell’esistenza è stato assorbito inbuona parte da quello pubblico, fino al punto da identificare il destino del singo-lo con quello della comunità di cui faceva parte.

Díke e isonomía dall’età arcaica alla pólis democratica

Nell’età eroica la società politica si identifica con la società aristocratica. Il pote-re è affidato al signore direttamente da Zeus, e si esprime nella thémis, cioè nellenorme consuetudinarie, che dettano comportamenti, usi, forme di culto – della cuiinterpretazione e applicazione ai casi concreti la nobiltà ha il monopolio – e nelloscettro, cioè nel potere di comando militare e politico. A essi si unisce la Díke (oGiustizia), che è il valore-guida della convivenza sociale e politica: essa è conce-pita come persona, cioè come una delle figlie di Zeus, e da un lato esprime l’or-dine gerarchico della società e dall’altro costituisce come un contrappeso al pote-re dei signori. Ad essa si appella Esiodo (VIII sec. a.C.) perché punisca l’hy’bris, lasacrilega protervia aristocratica contro i ceti laboriosi che fanno fiorire la pólis, eallo stesso tempo punisca i giudici “mangiatori di doni”, cioè gli stessi nobili, cheesercitano la giustizia favorendo i loro “pari”.

Successivamente, con Solone (630 ca. – 560 ca. a.C.) da istanza etico-religiosala Giustizia diventa la base dell’eunomía, del “buongoverno”. Si afferma cioècome principio d’ordine e di regolazione del conflitto sociale, come una legge dimisura, da un lato per garantire il démos contro gli arbìtri dell’aristocrazia, dal-l’altro per evitare i rischi di una rivolta popolare. Con le riforme democratiche diClistene del V secolo la giustizia si afferma poi come isonomía, cioè come rico-noscimento dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Con l’espansione della democrazia in Atene è una nuova concezione della poli-tica a farsi strada e i Sofisti sono gli intellettuali che se ne fanno alfieri e teorici.Contro le concezioni tradizionali dell’aristocrazia si afferma la possibilità di parte-cipare alla vita politica per tutti i cittadini liberi. Centrale è la questione della virtù,che non è questione di natura morale ma politica, appunto. La virtù politica è inse-gnabile: essa non si identifica più con il valore guerriero, ma con la capacità del-l’individuo di partecipare alla vita della pòlis democratica e di affermarvisi.

Le leggi scritte della pólis sono il prodotto di una convenzione fra i membri dellasocietà, sono cioè frutto della volontà umana e non divina, non dipendono più daqualche divino fondatore della città. Esse non sono quindi immutabili, ma posso-no essere di volta in volta cambiate, se lo si ritiene necessario.

I Sofisti non credono a valori assoluti su cui fondare le leggi delle pólis: i valorisono relativi, mutano da popolo a popolo, da città a città. È nella dialettica poli-tica – afferma Protagora – che si confrontano posizioni diverse, le quali non pos-sono fare riferimento a “bene” o “male” intesi oggettivamente, ma a valutazionirelative a ciò che giova o ciò che nuoce alla pólis. Sarà l’opinione che risulterà piùforte, più convincente, che persuade più cittadini, a prevalere.

Di fronte alla legge scritta si riconosce comunque l’esistenza di leggi non scrit-te, naturali, a cui si danno caratteri e contenuti diversi. Al nómos, legge dellapólis, viene così contrapposta la physis, legge di natura, quindi legge che ha valo-re assoluto e che esprime tendenze insite nella stessa costituzione umana. Peralcuni tali leggi di natura sono ancora quelle consuetudinarie della tradizione,sono i legami di sangue e amicizia a cui continua a richiamarsi l’aristocrazia con-tro le leggi scritte della pólis, votate in assemblea. Per altri, invece, esse sono vistecome norme di carattere morale e religioso, a cui si fa riferimento indipendente-mente da ciò che le leggi della città ordinano.

L’ETÀ CLASSICA2

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133FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

La città “giusta”

Esplode la crisi della pólis, particolarmente di Atene, fino ad allora egemone nelmondo greco. Socrate e Platone accusano – come responsabili della crisi – pro-prio i valori della competizione e del successo che hanno prodotto solo conflitti,disordine, guerra e rovine. Ritengono quindi necessario che si affermino, nellacittà-Stato, nuovi valori collaborativi. Essi sono inoltre contrari al relativismo eticodei Sofisti, poiché esso ha fatto crollare ogni fiducia dei cittadini nell’esistenza diuna misura oggettiva della giustizia.

Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.) dedica la sua vita e la sua speculazione all’i-deale di una riforma intellettuale e morale della pólis. Ma, più del maestroSocrate, vuole indicare e descrivere il modello che deve essere seguito per quellaricostruzione dello spirito pubblico. Impegno politico diretto e speculazione dot-trinale, progettualità politica ed elaborazione della dottrina delle Idee costituisco-no due dimensioni costitutive del sue pensiero.

Ma qual è la misura assoluta del giusto, cioè che cosa si intende per giustizia?Qual è, quindi, la città giusta? Il mondo intelligibile delle Idee ha un principiod’ordine, quello del Bene, che costituisce il fine ultimo verso cui la realtà tende eperciò il modello di perfezione a cui occorre ispirarsi e che si deve seguire.

A livello politico-sociale questo ideale di perfezione si manifesta come giustizia.Essa è condizione essenziale della vita della comunità e si riassume nella formu-la: saper esplicare i propri compiti. Difatti si realizza attraverso una rigorosa divi-sione sociale del lavoro e facendo sì che ciascuno svolga nel modo migliore pos-sibile la funzione a cui è chiamato.

Lo Stato è armonia di tre classi fondamentali: i filosofi, cioè un’aristocrazia intel-lettuale chiamata a governare; i guardiani, cioè un personale militare accurata-mente selezionato; i produttori-commercianti, che svolgono le attività economi-che indispensabili. Ogni classe è caratterizzata in modo eminente da una virtù(sapienza, coraggio e temperanza).

Nella Repubblica per i guardiani e i filosofi viene progettato un regime socialeparticolare (che verrà poi rivisto nelle Leggi): la comunione dei beni, delle donnee dei figli, necessario per combattere l’egoismo e per far scomparire le due “cittànemiche” dei poveri e dei ricchi.

Inoltre, nella città ideale anche alle donne – non solo agli uomini – viene rico-nosciuto il pieno diritto a governare lo Stato, ove ne abbiano la capacità, perchéper natura la donna è uguale all’uomo (è solo più debole) e può svolgere tutte lefunzioni sociali e politiche fondamentali.

La migliore forma di governo è quella dei filosofi, cioè di coloro che, avendopotuto attingere ai livelli più alti della sapienza, avendo preso pienamentecoscienza dell’ordine oggettivo dei valori, si impegnano ad attuare tali valori. Lapolitica è scienza.

Più tardi Platone opererà una revisione del suo progetto politico: ad esempio,restituirà significato e valore al sistema e alla forza delle leggi (e non solo al siste-ma e alla forza della ragione, della filosofia), supererà il sistema del comunismodelle donne e dei beni, prevederà che tutti – a esclusione degli schiavi e degli stra-nieri – partecipino all’esercizio delle funzioni pubbliche, e non solo i filosofi.

Ordine politico e ordine naturale

Aristotele (383-322 a.C.) innova profondamente la teoria politica, rispetto all’e-laborazione di Platone. Riconosce la proprietà privata dei beni e rifiuta la comu-nanza delle donne e dei figli.

Per lui, il fondamento di legittimazione di una teoria politica è la natura. Essa siesplica attraverso facoltà o disposizioni proprie degli esseri umani, in particolareattraverso la ragione. E con il loro associarsi, cioè con i rapporti che gli individuistringono fra loro raggruppandosi in famiglie, villaggi e Stati. L’uomo è infatti – pernatura – un animale politico. Così come per natura l’autorità del marito si eserci-ta sulla moglie (e qui Aristotele abbandona l’idea platonica dell’uguaglianza fra isessi) e il padrone è tenuto a comandare e lo schiavo a obbedire.

La politica non deve mirare tanto a realizzare un modello utopistico di Stato,quanto una forma ordinata di convivenza sociale che sia realmente capace di

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Se nel mondo antico l’etica e la politica apparivano fortemente intrecciate, inquello medievale etica e politica sono strettamente connesse con la religione.

A dominare largamente l’Alto Medioevo è la visione politica di Agostino diIppona (354-430). Essa si lega all’idea delle due città, la città celeste e la città ter-rena. Queste sulla Terra appaiono mescolate, ma esprimono due realtà e prospet-tive diverse, alternative fra loro: la prima s’identifica con la comunità cristiana,con coloro che sono pellegrini sulla Terra e che hanno come loro patria il cielo;la seconda con coloro che vivono in una prospettiva puramente terrena, in unacondizione di servitù spirituale.

134FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

garantire ai cittadini la felicità. Al di là delle diverse forme costituzionali possibili(monarchia, aristocrazia, politía o governo dei cittadini) occorre, infatti, basare lavita collettiva sul riconoscimento della proprietà privata e dell’autonomia dellediverse comunità di cui uno Stato si compone (a cominciare dalla famiglia).

Inoltre è necessario realizzare un’economia di mercato ordinata (il cui funzio-namento egli per primo studia e descrive minuziosamente), nella quale la monetaserva a favorire e facilitare lo scambio dei beni, senza “snaturare” tale sua funzio-ne con il fenomeno dell’usura e dell’accumulazione fine a se stessa di moneta.

L’ordine politico deve poggiare sui ceti intermedi, superando gli “eccessi” oppo-sti dell’oligarchia e della democrazia. I ceti intermedi sono infatti “molti” (comenella democrazia) ma “agiati” (come nell’oligarchia) e sono quindi in grado di fun-gere da forza equilibratrice delle città e di realizzare un governo moderato: taleda contemperare gli interessi dei ricchi e quelli dei poveri e da rifuggire dagli“eccessi” dell’oligarchia e della democrazia.

Alle virtù etiche appartiene la giustizia: non più principio assoluto – come perPlatone – essa può essere di due tipi, commutativa e distributiva: distribuisce cioèin parti uguali premi e punizioni (ad esempio nei contratti di compravendita o neiprocessi penali), oppure lo fa in misura proporzionale ai meriti di ciascun indivi-duo (come avviene con gli onori e le ricchezze).

Ellenismo: frattura fra individuo e potere

Nell’età ellenistica, con la definitiva perdita di autonomia politica da parte dellapólis (che comunque manterrà il ruolo di centro della vita sociale e un’autonomiaamministrativa) e con la costituzione di monarchie e imperi, si aprirà una fratturasempre più ampia fra l’individuo e il potere. Verrà meno la coincidenza fra destinoindividuale e destino della propria città. La filosofia diverrà così ricerca della sag-gezza e della felicità, non più identificabili con la virtù politica.

Vivi nascosto, afferma Epicuro (341-270 ca. a.C.). L’uomo non è affatto un “a-nimale politico”, come credeva Aristotele. Lo Stato, comunque, è necessario, poi-ché garantisce quella sicurezza e quella pace sociale che sono indispensabili alsaggio per operare in piena tranquillità la ricerca della saggezza.

Gli Stoici, invece, oltre alle azioni perfette (quelle assolutamente virtuose) indi-cano, fra quelle convenienti (che sono non valide in sé, ma sono preferibili adaltre) le azioni che rientrano fra i doveri, che investono il campo della responsa-bilità sociale degli individui, quello che i filosofi romani chiameranno col terminedi officium, e che può comportare anche lo svolgimento di funzioni pubbliche.Gli Stoici, inoltre, affermano con nettezza un ideale cosmopolitico, poiché vedo-no nell’uomo un cittadino del mondo e considerano la natura umana uguale intutti gli individui.

IL MEDIOEVO3

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Soprattutto dopo la crisi dell’impero carolingio, l’Agostinismo ispira l’impegnodella Chiesa di Roma a realizzare una società cristiana: in essa le funzioni dellaChiesa e dell’impero, pur essendo distinte e solidali, non si collocano sullo stessopiano perché, come il cielo è superiore alla Terra, così la funzione spirituale èsuperiore a quella temporale. A questa visione si contrappongono le tesi regaliste,che rivendicano un’autonomia piena del potere temporale da quello spirituale, ouna sua supremazia su questo.

Sarà Tommaso d’Aquino (1221/1227 – 1274) a operare una mediazione fra esi-genze diverse, fra tendenze teocratiche e riconoscimento di uno spazio autonomoper la politica e la morale, cercando di adeguare le concezioni cristiane alleprofonde novità dell’Europa del tempo.

Sul piano della teoria economica egli riconosce la legittimità della proprietà pri-vata e delle attività di produzione e di scambio dei beni, basandole sul concettodi utilità. Ma ne afferma anche i limiti, costituiti dalla necessità di soddisfare soloi bisogni essenziali e di non cadere nel peccato della cupidigia. Tommaso elabo-ra, inoltre, i concetti di giusto prezzo per le merci e di giusta retribuzione per illavoro e respinge la pratica dell’usura.

Anche il riconoscimento del diritto umano e del diritto naturale (basato sullaragione) trova il suo limite in un diritto divino che ne costituisce la fonte origina-ria. L’organizzazione sociale e politica, che ha come sua cellula naturale la fami-glia, ha lo scopo primario del raggiungimento dell’autosufficienza dei gruppiumani. Essa deve tendere sempre al bene comune: un bene che miri a valorizza-re la persona, senza subordinare gli individui alla collettività.

Inoltre la sovranità viene da Dio ed appartiene al popolo, che ne fa oggetto didelega a una o più persone: è la monarchia, non l’aristotelica politía, la miglioreforma di Stato, perché per Tommaso il governo di uno solo garantisce meglio l’u-nità e la pace del corpo sociale.

Così pure per lui l’uomo non è un animale politico, perché al di là della sferapolitica c’è un ordine superiore, che è quello divino. L’autorità civile deve ispirar-si, nel compimento delle proprie scelte, ai princìpi etico-religiosi. In tal senso,Tommaso cerca di realizzare una difficile mediazione.

Nel XIV secolo alle tesi teocratiche si contrappongono quelle di Guglielmo diOckham e Marsilio da Padova.

Guglielmo di Ockham (1280 ca. – 1347) afferma l’autonomia reciproca fraragione e fede, quindi una completa autonomia dell’impero e degli Stati nazio-nali dalla Chiesa. Gli affari mondani non possono esser confusi con le cose cele-sti, cioè con il problema della salvezza. Il potere temporale spetta alle autoritàcivili, in particolare all’impero e ai nuovi Stati nazionali. Il papa possiede solo ilpotere spirituale: questo, liberato dagli intralci e dai compromessi della politica,potrà essere meglio esercitato per aiutare gli individui a raggiungere la salvezza.

Per Marsilio da Padova (1275 ca. – 1343 ca.) il concetto di legge si lega a quel-lo di sanzione. Le sanzioni previste dalle leggi del potere civile non possono esse-re affatto confuse con le conseguenze derivanti dalla violazione di princìpi etico-religiosi, che riguardano la vita ultraterrena. Fonte della legge è il popolo, chedelega il proprio potere a un governo, ma mantiene sempre un potere di revocadi quella delega. L’ordinamento civile è perciò del tutto autonomo da quello reli-gioso e tendenzialmente ad esso superiore, nel campo dei fini che persegue, inprimo luogo la pace.

Agli albori dell’era moderna appare quindi manifesto il delinearsi di tendenze econcezioni nuove sui princìpi regolatori della condotta individuale, della societàe dello Stato.

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136FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Nell’età moderna la teoria politica conquista piena autonomia dalla sfera etico-religiosa, autonomia basata – in non pochi filosofi – sulla sua costruzione e con-siderazione come scienza.

Tale autonomia va di pari passo e, in qualche modo, rispecchia il processo diformazione dello Stato moderno, contraddistinto dal costituirsi di un potere poli-tico monarchico autonomo, da strutture burocratico-amministrative, dalla pro-gressiva assunzione di nuove funzioni.

Autonomia della politica e teoria della sovranità

Il principale teorico di questo nuovo tipo di Stato è sicuramente NiccolòMachiavelli (1469-1527).

Il presupposto fondamentale della sua posizione è l’autonomia della politicadalla religione e dalla morale. Così il pensatore fiorentino dà voce ad una inter-pretazione laica e mondana della politica, sganciata da impostazioni e preoccu-pazioni religiose. L’autonomia si fonda sulla definizione di uno statuto propriodella politica come scienza.

La sua caratteristica fondamentale è di fondarsi sull’effettualità delle cose, dun-que sulla realtà. Non sugli uomini come vorremmo che fossero o come dovreb-bero essere, ma come effettivamente sono. La concezione di Machiavelli è pessi-mistica: gli uomini sono ingannatori, inaffidabili, portati a tradire. Il principe chevuole costruire uno Stato forte e bene ordinato deve tenerne conto e operare diconseguenza. La sua virtù consisterà nel sapersi comportare come “volpe eleone”, con astuzia e violenza, a seconda delle situazioni; egli mostra la sua virtùfondamentale nel rapporto con la fortuna, con la trama di avvenimenti e di situa-zioni casuali e necessarie, che sa volgere a proprio vantaggio, compiendo l’attopolitico al momento opportuno, per far sì che l’evolvere degli avvenimenti gli siafavorevole.

La religione, non più principio direttivo ed ispiratore della politica, è ora instru-mentum regni, strumento del potere e, comunque, va utilizzata sul piano politico.Il Cristianesimo è da Machiavelli considerato responsabile dell’indebolimentodella virtù umana, con la sua esaltazione della vita contemplativa.

Anche il francese Jean Bodin (1529/1530 – 1596) affronta il problema delloStato moderno, ponendo al centro della sua riflessione teorica il concetto di sovra-nità, come potere assoluto dello Stato al quale il cittadino deve solo obbedire.

Lo spazio dell’utopia

La riflessione politica non opera solo a ridosso della realtà nuova dello Statomoderno: essa dimostra di saper guardare avanti progettando uno Stato, unmodello di convivenza umana che sia capace di risolvere i problemi dell’ingiusti-zia e della diseguaglianza.

Si apre così lo spazio dell’utopia. Uno spazio concepito non come impossibilitàe sogno, cioè come ideazione di un tipo di organizzazione umana di per sé irrea-lizzabile, ma come possibilità e progetto, anche se nella situazione presente sem-brano mancare le condizioni per una sua realizzabilità.

Utopia è il titolo dell’opera di Tommaso Moro (Thomas More,1478-1535) uma-nista inglese che prefigura uno Stato nel quale è negata la proprietà privata e cheè basato sul lavoro e sulla tolleranza.

Anche il riformatore religioso Thomas Müntzer (1467 ca. – 1525) – nel corsodelle vicende che accompagneranno la Riforma protestante – sarà fautore di uncomunismo evangelico.

Due modelli di utopia saranno elaborati fra il Cinquecento e il Seicento daCampanella e F. Bacone.

L’ETÀ MODERNA4

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La Città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639) è ricca – nello stessotempo – di spunti moderni e di richiami alla tradizione platonica. Vi si delinea unoStato in cui non vi è proprietà privata e il lavoro è obbligatorio per tutti. A capodell’organizzazione statale vi è un gruppo, quello dei solari, insieme sacerdoti diuna religione naturale e detentori del potere politico. In questo intreccio di reli-gione e politica Campanella fa proprio un orientamento che alcuni Stati seicente-schi tendevano a realizzare in una sorta di assolutismo poltico-religioso.

Si rifà, invece, alla nuova razionalità scientifica e tecnica l’utopia di FrancescoBacone (1561-1626), “profeta della società industriale”. Lo stato utopico (a cui dàil nome di Nuova Atlantide) prefigura un’organizzazione che sistematicamenteutilizzi le conoscenze sulla natura per controllarla e dominarla per il migliora-mento e il progresso della vita degli uomini. Bacone ha capito e previsto il gran-de potenziale di cambiamento della condizione umana di cui è gravida la rivolu-zione scientifica e tecnica, ormai alle porte.

Conflitti religiosi e utopia della tolleranza

Per quasi due secoli (XVI e XVII), non ci sarà spazio per la pace religiosa e la tol-leranza. Gli Stati verranno sempre più coinvolti nelle guerre di religione e anchel’affrancamento della politica dalla religione verrà spesse volte contraddetto econoscerà un andamento tormentato e contraddittorio.

Tutto il lungo periodo della Riforma e della Controriforma evidenzia, nellamaniera più evidente, il rifiuto teorico e pratico di accettare qualunque autonomiadello Stato dalla religione.

Martin Lutero (1483-1546) appoggia i Prìncipi nella guerra contro i contadini econdanna quest’ultimi perché estendono il messaggio luterano di eguaglianzadalla religione alla politica e alla società. Egli giustifica il potere politico deiPrìncipi come derivato direttamente da Dio e condanna ogni ribellione al poterecostituito. Se il potere è male esercitato la condanna spetta a Dio, non agli uomi-ni. Questo potere è, dunque, assoluto e i sudditi gli devono obbedienza e sot-tomissione. Verrà rimproverato a Lutero, soprattutto nel Novecento, di aver incul-cato l’obbedienza come fondamentale virtù politica.

Calvino (1509-1564) rivendica il diritto alla resistenza al potere politico, innome delle esigenze insopprimibili della coscienza, ove quel potere voglia domi-narla. Egli non appoggia il potere dei Prìncipi, anzi diffida della monarchia, chespesso degenera in tirannia, e propende per la repubblica. Allo Stato attribuiscecompiti di mantenimento dell’ordine religioso e di insegnamento della vera dot-trina. Ma riconosce anche l’autogoverno della comunità con forme di rappresen-tanza dei cittadini. Nella Ginevra calvinista, in cui si afferma uno stretto intrecciodi religione e politica, la città viene appunto gestita da magistrature civili e da unconcistoro dei pastori.

Pur movendo da posizioni diverse da quelle di Calvino, anche il teologo catto-lico Francisco Suarez (1548-1617), preoccupato del potere assoluto attribuito aiPrìncipi dal Luteranesimo, sostiene la possibilità di opporsi al potere politico, sequesto è esercitato contro il popolo, fino a giungere al tirannicidio. Suarez pensaa un potere politico ridimensionato, di cui è detentore in linea di principio ilpopolo.

Nel cuore dei drammatici e sanguinosi conflitti di religione l’aspirazione alla tol-leranza, espressa da gruppi di filosofi e intellettuali, assume il carattere di unagrande utopia, che acquisterà progressivamente spazio nel dibattito e nella rifles-sione della cultura. È anche così che si definisce l’autonomia dello Stato dalla reli-gione.

Il Giusnaturalismo

Il Seicento segna un forte sviluppo nella costruzione e nell’accentramento delloStato. Questo è il secolo dell’assolutismo, della monarchia assoluta, teorizzatoda alcuni autori e praticato da alcuni Stati, soprattutto dalla Francia. Ma è ancheil secolo in cui, dopo due rivoluzioni, in Inghilterra il potere monarchico vienead essere limitato da quello del Parlamento: è l’inizio del costituzionalismomoderno.

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138FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Il pensiero politico accompagna e contribuisce in vario modo all’evoluzionedello Stato moderno. Un ruolo di primo piano lo ha giocato, anche oltre il XVIIsecolo, il Giusnaturalismo. Questo sistema concettuale (di cui Ugo Grozio, 1583-1645, è stato uno dei primi esponenti) è basato sull’affermazione di un diritto dinatura, cioè di norme che esprimono la natura razionale dell’uomo. Tali dirittidovrebbero essere il fondamento di ogni norma positiva e, comunque, ad essidovrebbe far riferimento la legislazione degli Stati. I princìpi su cui poggia il dirit-to di natura dovrebbero essere rispettati dai governanti. Del Giusnaturalismo faparte integrante sia il concetto di stato di natura che quello di stato civile. Dalprimo al secondo si passa attraverso un patto o contratto sociale, mediante ilquale ci si accorda tra individui per superare lo stato di natura e dare la sovranitàad una o più persone.

Così il potere politico assume un carattere marcatamente laico. Poggia su que-ste idee l’aspirazione della cultura politica del Seicento al superamento di unasituazione di disordine, che soprattutto le guerre di religione avevano provocato,e alla realizzazione di un ordine politico razionale e pacifico.

Assolutismo e nascita del pensiero liberale

Dal bisogno di pace e di ordine dopo la fase rivoluzionaria è mossa la riflessio-ne di Thomas Hobbes (1588-1679) che, nell’Inghilterra della seconda metà delsecolo, si domanda come si possa uscire dalla situazione di disordine e di confu-sione della società inglese.

Ma la teoria di Hobbes va ben oltre questa intenzione per porsi come elabora-zione in grado di individuare la specificità e la novità dello Stato moderno. Essaconsidera lo Stato come corpo artificiale, interpretabile, dunque, utilizzando l’ap-parato concettuale e metodologico della scienza della natura, il suo impiantorazionale e meccanicistico.

La concezione di Hobbes ha solo alcuni punti di contatto con quella giusnatu-ralista. Prende, infatti, le mosse da uno stato di natura caratterizzato da una con-flittualità di tutti contro tutti: l’uomo viene descritto come naturalmente egoista,per nulla animato da socievolezza (come aveva invece sostenuto Aristotele) edisposto a tutto pur di accrescere il possesso di beni. Ma questo stato di guerracontinua mette in pericolo la vita ed i beni di ognuno: lo Stato nasce dunquecome necessità di garantire la pace sociale ed i beni fondamentali della vita edella proprietà. Il patto sociale, l’accordo tra tutti i contraenti, è il primo momen-to del passaggio allo stato civile. Ma perché questo si realizzi si deve costituire lasovranità: questa deve essere il frutto di un’alienazione, cioè della cessioneirrevocabile, che ogni contraente fa, dei propri diritti ad un potere sovrano. Sicostituisce così un potere assoluto (di un solo uomo o di una istituzione), garantedi pace all’interno dello Stato e a cui ogni altra istituzione, anche la Chiesa, deveessere subordinata.

Dalle premesse del Giusnaturalismo è però possibile giungere a conclusionidiverse da quelle di Hobbes. Lo dimostra il pensiero politico di Baruch Spinoza(1632-1677), animato da una forte esigenza di libertà. Egli respinge l’idea di unpotere assoluto, che facilmente diventa tirannia, negatrice di diritti e libertà. Perlui la libertà è il fine dello Stato. Pur condividendo la concezione hobbesianadello stato di natura e la teoria del contratto come passaggio allo stato civile, egliritiene che gli uomini non debbano rinunziare ai loro diritti e, dunque, alla libertà,soprattutto alla libertà di pensiero, che è fondamentale. Egli afferma che occorrericonoscere agli individui il diritto di pensare e di esprimere liberamente le pro-prie opinioni. La religione riguarda la sfera dell’interiorità, è una questione di ret-titudine d’animo e perciò ciascuno ha “pieno diritto e somma autorità” di giudi-care liberamente intorno ad essa. Inoltre, sottolinea, quale contraddizione è vede-re i cristiani, che dovrebbero essere seguaci di una religione di amore e di pace,in preda al furore e ad un odio reciproco!

Se Hobbes aveva elaborato una teoria dello Stato funzionale all’assolutismo ealla restaurazione monarchica in Inghilterra, John Locke (1632-1704) è l’ispirato-re e il teorico della rivoluzione del 1688. È lui il maggior teorico del liberalismopolitico, di una filosofia che mette al centro la libertà, cioè i diritti di ogni indivi-duo e la loro salvaguardia, come fine dello Stato. Anch’egli parla di stato di natu-

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ra e di diritti di natura. Ma quanto al primo non ritiene che abbia quei caratterinegativi di conflittualità e di dominio delle passioni che gli attribuivano siaHobbes che Spinoza. Quanto ai diritti naturali, ritiene che siano costitutivi dellanatura dell’uomo e, quindi, originari, imprescrittibili e, dunque, inalienabili. Essisono il diritto all’eguaglianza davanti alla legge, alla vita, alla libertà e alla pro-prietà, che ha la sua fonte di validità nel lavoro. Se Hobbes ha sottolineato l’asso-lutezza del potere politico, Locke ne sottolinea soprattutto i limiti: limiti perché loStato deve rispettare e salvaguardare i diritti di ogni individuo e perché il poterenon deve essere attribuito ad un’unica istituzione. In tal senso, proprio con Lockeprende l’avvio quella teoria della divisione dei poteri (nel suo caso, della separa-zione del potere esecutivo da quello legislativo), che si affermerà poi con la teoriae con la politica liberale.

Locke fa della tolleranza e della libertà religiosa uno dei diritti fondamentali del-l’individuo che lo Stato deve rispettare, visto che il suo compito è proprio la sal-vaguardia dei diritti dell’individuo. D’altronde la religione è un fatto che attieneall’interiorità di ogni individuo e non si può imporre con la forza, ma acquisiresolo con la persuasione.

Ma chi possiede, poi, la verità sulle questioni religiose, dove le nostre cono-scenze sono imperfette e limitate?

Riformismo illuministico, Liberalismo e nuovo pensiero democratico

L’età dell’Illuminismo in campo politico si caratterizza per processi di ammo-dernamento e di razionalizzazione delle strutture dello Stato, per metterlo ingrado di far fronte alle sfide nuove che provengono dallo sviluppo dell’economiamercantile e dall’evoluzione della società.

Un ruolo rilevante nella filosofia politica lo svolge Charles-Louis de Secondat,barone di La Brède e di Montesquieu (1689-1755) con il suo Spirito delle leggi.Egli sottolinea come l’attività del legislatore debba tener presente una pluralità divariabili, dal clima ai costumi e alle tradizioni, per realizzare costituzioni chesiano specifiche e adatte alle condizioni dei singoli popoli. A Montesquieu si devela diffusione – nella cultura politica del tempo – del modello costituzionale ingle-se, con la limitazione del potere del monarca e con il sistema di contrappesi lega-ti alla tripartizione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario), che tanto favo-re incontrerà nell’epoca, all’interno delle forze riformatrici.

Ma sono soprattutto due gli autori che nella seconda metà del Settecento spic-cano per la loro riflessione in campo sia etico che politico: Jean-Jacques Rousseaued Immanuel Kant.

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) muove da una critica radicale alla societàdel suo tempo, che vede ammantata di ipocrisia e di falsi valori che nascondonola schiavitù degli uomini e la sua decadenza. Quello di Rousseau è un progetto diliberazione umana, nel quale il bene e la felicità vengono identificati con il ritor-no alla natura autentica dell’uomo. Rousseau crede in una bontà originaria del-l’uomo, che occorre recuperare e valorizzare. Ma è l’uomo stesso che, come l’hacorrotta, può restaurare la natura umana.

Lo stato di natura è considerato come il punto di partenza originario e idealedella storia. Ad esempio, a tale stato l’uomo deve fare riferimento per recuperarela sua libertà e autenticità. Lo stato di natura è ricco di valori morali che sono statisuccessivamente persi.

Questa idea della naturale bontà dell’uomo urta, evidentemente, con l’idea reli-giosa di una decadenza dovuta al peccato originale. La corruzione dell’uomo èinvece ritenuta un fatto storico, dovuto all’opera dell’uomo stesso: è tale convin-zione ad alimentare fiducia nella possibilità che l’uomo possa recuperare la suaoriginaria natura e che possa farlo attraverso una rivoluzione. Così la rivoluzionenon è altro che una restaurazione dell’autentica natura umana.

A questo fine si può giungere attraverso due vie: con una liberazione attraversol’educazione (nella quale un ruolo viene svolto anche dalla religione) e attraversoun cambiamento politico.

La prima ha il compito di liberare il fanciullo, lasciandolo crescere secondo esi-genze e ritmi naturali. Il secondo investe direttamente il problema della democra-zia politica.

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140FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Il passaggio dallo stato di natura allo stato civile avviene anche per Rousseauattraverso un contratto sociale. Ma egli ritiene – a differenza dei giusnaturalisti –che con il contratto la cessione dei diritti sia totale. A differenza di Hobbes,comunque, tale cessione va a favore non di un solo uomo ma della comunità,della totalità di tutti i contraenti costituiti in comunità, cioè in un unico corposociale. Nello Stato democratico predomina la volontà generale, che opera in vistadel bene comune. Questa impostazione, ai suoi occhi, garantisce l’eguaglianzapolitica di tutti i cittadini, chiamati in prima persona ad esercitare la sovranità,che rimane sempre nelle mani del popolo. A questa teoria politica democratica edegualitaria si ispireranno, nel corso della Rivoluzione francese, soprattutto iGiacobini e, nei due secoli successivi, numerosissimi teorici della democraziapolitica.

Sempre il tema della libertà è centrale negli scritti di Immanuel Kant (1724-1804) relativi al diritto. Questo regola i rapporti tra le libertà degli individui e sifonda, quindi, su un modello liberale di società e di Stato, basato proprio sulrispetto e sulla valorizzazione delle sfere di libertà individuali.

Rilevante è infine il pacifismo kantiano, frutto non di aspirazioni utopistiche, madi ragionevolezza, perché le guerre a lungo andare entreranno in contrasto con ilnuovo spirito commerciale e con la spinta all’arricchimento, che è una tendenzadella natura umana. Nel progetto della “pace perpetua” Kant prevede sia un fe-deralismo mondiale degli Stati, sia l’avvicinamento a una costituzione cosmopo-lita per tutto il genere umano.

L’OTTOCENTO5L’ultimo periodo del XVIII secolo e l’intero XIX secolo sono segnati da eventi

drammatici e da rivolgimenti profondi, a partire dalle Rivoluzioni francese e ame-ricana alle guerre napoleoniche, alle rivoluzioni nazionali e dalla Rivoluzioneindustriale nell’età della Restaurazione fino al costituirsi, in Europa e negli StatiUniti e in Giappone, di grandi formazioni economiche e politico-militari che sispartiscono il pianeta. La teoria politica e il diritto seguono – ma spesso anticipa-no – questi grandi processi politico-sociali e perfezionano, sviluppano o trasfor-mano radicalmente i modelli di società e di Stato elaborati nei secoli precedenti.

I “diritti dell’uomo”

Nel grande “laboratorio” storico costituito dalle due grandi rivoluzioni di finesecolo diciottesimo alcuni princìpi del Liberalismo politico si trasformano in leggicostitutive dello Stato.

Nelle Costituzioni ci si richiama a “inalienabili diritti” dell’uomo e del cittadino,ad esempio ai diritti alla vita, alla libertà di pensiero, alla libertà di fede (ma nonancora di culto), alla proprietà, alla sicurezza, all’uguaglianza davanti alla legge,al riconoscimento delle capacità e dei meriti individuali e all’ammissibilità di cia-scuno “a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici”. Cambia il fondamento dilegittimità del potere, che dal “diritto divino” dei Prìncipi e dei Sovrani passa allaNazione o alla “volontà popolare” (e alla “volontà generale” di Rousseau) e si spe-rimentano diverse forme di rappresentanza politica e le prime forme di organiz-zazione politica. Centrale diventa, inoltre, soprattutto nel pensiero liberale, il temadel controllo dell’opinione pubblica sul potere e – in alcuni pensatori – il proble-ma dei diritti delle minoranze contro le dittature delle maggioranze.

La teoria politica fra conservazione e Liberalismo

Si tendono a distinguere – sul piano della teoria politica – una componenteromantico-reazionaria da una romantico-liberale e da un’altra romantico-demo-cratica. Vi è anche un Romanticismo sociale, preoccupato delle conseguenzedella Rivoluzione industriale, cioè del carico di disuguaglianze, ingiustizie e mise-ria per il proletariato delle fabbriche che essa porta con sé.

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Il pensiero politico e la filosofia dei primi decenni dell’Ottocento fanno inevita-bilmente i conti con la Rivoluzione francese e si caratterizzano per l’atteggiamen-to che assumono nei suoi confronti, generalmente di iniziale, entusiastica adesio-ne ai suoi ideali e successivamente di disillusione, critica e rifiuto, fatte pocheeccezioni, quando hanno avuto il sopravvento il giacobinismo, la dittatura rivolu-zionaria e il Terrore.

Non va inoltre dimenticato il profondo intreccio che sussiste fra la culturaromantica e il formarsi dell’idea di nazione. I termini di popolo e nazione desi-gnano ora soprattutto modelli di comunità aventi una loro specifica fisionomia eidentità storica e spirituale, caratterizzata da tradizioni culturali e religiose e dauna lingua comune, a cui per alcuni si aggiungono anche identità “di razza” e “disangue”.

Forte nel periodo della Restaurazione è l’influenza del pensiero politico reazio-nario, che condanna totalmente la Rivoluzione francese e riafferma la concezio-ne divina del potere e critica, di conseguenza, la concezione della sovranità popo-lare . Suoi esponenti di punta sono il francese De Bonald e il piemontese DeMaistre. Ad esempio, “diritti di Dio” vengono contrapposti ai “diritti dell’uomo”da Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1754-1840) e Joseph de Maistre (1753-1821) considera la Rivoluzione un prodotto del demonio, ma anche una punizio-ne divina per i peccati commessi nell’età dell’Illuminismo, quando si è voluta lai-cizzare la società.

Una posizione a sé ha l’inglese Edmund Burke (1729-1797), che difende edesalta la continuità e il riformismo tipici della Gran Bretagna, contro l’astrattezzaideologica dei rivoluzionari francesi, che hanno sbagliato a negare il passato innome della teoria dei diritti naturali e del contratto sociale.

Diverse e più aperte – anche se in varia misura polemiche nei confronti delleteorie rivoluzionarie – sono le posizioni di altri esponenti del pensiero liberale del-l’epoca, ispirantesi alle idee di Locke e Kant. Domina la dottrina dei limiti delloStato. Karl Wilhelm von Humboldt (1767-1835) sostiene un’idea di libertà dalloStato, cioè di tutela dei diritti dell’individuo contro gli arbìtri del potere statale eBenjamin Constant (1767-1830) esalta la libertà dei moderni rispetto a quelladegli antichi, identificata con quella della pólis. Il cardine della libertà dei moder-ni è rappresentato dai diritti degli individui e comporta la limitazione dei poteridello Stato e l’idea di democrazia rappresentativa e non di democrazia diretta.Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville (1805-1859) pone, fra l’altro, in evi-denza la difficoltà di conciliare il riconoscimento dell’autonomia dell’individuocon le esigenze della collettività, il rischio della “dittatura” della maggioranza e ilpericolo che si realizzi un conformismo di massa e un dominio – di fatto – di pote-ri forti sui ceti più deboli.

In Italia, fra i liberali cattolici si afferma la posizione di Antonio Rosmini (1797-1855), per il quale lo Stato costituisce un potere autonomo, le cui possibilità diintervento dovrebbero essere limitate dal riconoscimento dei diritti di libertà del-l’individuo in quanto persona morale. La Chiesa dovrebbe essere garanzia controla “statolatria”, contro uno Stato “tiranno”. Ma anch’essa deve esser guarita da cin-que mali (cinque “piaghe”, scrive in un’opera che sarà contestata dai tra-dizionalisti) che la affliggono.

Il pensiero democratico-riformatore

In campo democratico vi è un’analoga, grande ricchezza di posizioni e teorie,nelle quali vengono posti in evidenza, di volta in volta, gli aspetti di democraziapolitica e quelli di democrazia sociale.

Il pensiero democratico italiano ha, fra i suoi esponenti, Mazzini e Cattaneo.In Giuseppe Mazzini (1805-1872) vi è un forte intreccio di motivi romantici e

illuministici. Dio parla attraverso i popoli e l’umanità: la sua voce è quella deldovere, che chiama popoli e individui alla loro missione storica e che è al di sopradel diritto. L’epoca dei diritti dell’uomo è terminata, bisogna inaugurare l’età deidoveri dell’uomo. Il dovere implica dedizione, sacrificio di sé, anche della vita seè necessario: è proprio con questi esempi che avviene l’educazione di un popo-lo. Il progresso si identifica con la sovranità popolare e con la realizzazione degliideali nazionali, quindi con l’unità d’Italia: è una “religione del progresso”, che èanche “religione dell’umanità”.

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142FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Carlo Cattaneo (1801-1869), a differenza di Mazzini, è contrario ai tentativiinsurrezionali e favorevole ad un processo solo graduale di riunificazione. Taleprocesso deve essere contestuale a una modernizzazione delle strutture economi-che dei vari Stati italiani e deve avere, come sbocco finale, uno Stato federale edemocratico, capace di rispettare la varietà di situazioni e di esigenze esistentinella penisola.

Operano in un contesto storico ben diverso gli intellettuali riformatori e radica-li inglesi, impegnati nella lotta politica e sociale.

Fra questi è Jeremy Bentham (1748-1832), sostenitore dell’Utilitarismo, di unateoria in base alla quale il criterio fondamentale della condotta individuale comedell’azione politico-legislativa deve essere quello di accrescere la felicità o dimi-nuire l’infelicità del maggior numero possibile di persone. Il calcolo utilitario deipiaceri e dei dolori costituisce un metodo non solo per condurre la vita dei sin-goli, ma anche per effettuare interventi legislativi. Per lui – come per i teorici delliberalismo politico e del liberismo economico – l’intervento statale deve essereridotto al minimo. Le riforme sociali devono, inoltre, essere finalizzate ad unamigliore divisione del lavoro e delle attività, perché possano essere socialmenteproduttivi e determinare il massimo dei risultati con il minimo dei costi.

In Germania, favorevole a un’estensione dei poteri dello Stato nell’economia enella società e in evidente contrapposizione alle teorie liberali, è la teoria politicadi Johann Gottlieb Fichte (1762-1814). Per lui lo Stato nazionale garantisce effet-tiva libertà solo riconoscendo e realizzando il diritto di tutti alla proprietà e al lavo-ro. Inoltre l’economia nazionale dovrebbe essere autarchica, cioè tendere all’au-tosufficienza. Il commercio estero, relativo a ciò che nel Paese non viene prodotto,spetterà non ai privati ma solo allo Stato, a cui competerà la rigida regolazionedelle attività produttive.

Lo Stato etico

Sempre in Germania, si afferma la teoria dello Stato etico di Georg WilhelmFriedrich Hegel (1770-1831).

Tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale: lo sviluppocomplessivo del mondo si identifica, per Hegel, con il pieno dispiegamento dellaragione; questa non si afferma in modo astratto e attraverso velleitarie esigenzeideali, ma si incarna sempre in realtà, forme culturali e istituzioni storiche. È nel-l’ambito dello Spirito, cioè del livello più alto di realizzazione dell’assoluto, cheHegel colloca diritto e politica. Lo Stato è espressione della vita etica di un’interacomunità. Solo nell’éthos di un popolo lo spirito può divenire pienamentecosciente di sé, essere quindi trasparente a se stesso. La libertà può così realizzarsinelle istituzioni storiche in cui s’incarna la vita sociale e che costituiscono laragion d’essere dell’individuo, la sua vera realtà e sostanza etica. È nell’eticità,nella vita sociale e negli istituti in cui ciascuno è chiamato a vivere e ad operare,che il diritto assume una natura morale e la moralità diviene, a sua volta, efficace,cioè una realtà effettivamente operante, patrimonio comunitario di valori e nonsolo di un individuo. La dimensione dell’eticità si afferma nella famiglia, nella so-cietà civile e nello Stato vero e proprio.

La famiglia è il primo livello di organizzazione, nel quale l’uomo si eleva dallostato di naturalità, entra in uno stato di relazione e si apre ad un orizzonte piùampio di vita.

La società civile è la comunità più vasta, in cui si svolgono le attività volte al sod-disfacimento dei bisogni, l’ambito in cui si svolgono le attività economiche, laproduzione e lo scambio dei beni. Gli individui tendono al loro interesse perso-nale, stabiliscono con altri rapporti di interesse (non più basati sul sentimento,come nella famiglia). Questo legame viene a identificarsi con quello che il mer-cato realizza fra i produttori di beni e che si costituisce in base alla divisione dellavoro fra categorie professionali e fra classi sociali diverse.

Lo Stato è l’ambito in cui si realizza l’unità della famiglia e della società civilee si afferma il contenuto etico della condotta degli individui.

Contro le teorie giusnaturalistiche, del “contratto sociale” e della “sovranitàpopolare”, Hegel afferma che il contratto è solo un istituto di diritto privato e nonpuò essere utilizzato per spiegare l’origine e il fondamento di legittimità dello

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Stato. I diritti hanno inoltre realtà solo grazie e mediante la società, né dallasomma di volontà individuali avrebbe potuto nascere una volontà comune. Fuoridallo Stato non esiste diritto, quindi non esistono né giustizia, né libertà, né ugua-glianza, che si affermano solo in leggi dello Stato.

Hegel respinge la concezione liberale e borghese dello Stato, che lo confondecon la società civile e finalizza gli interventi statali alla tutela degli interessi deisingoli. Per lui, invece, lo Stato è la coincidenza fra libertà oggettiva, espressionedell’interesse generale e della razionalità, e libertà soggettiva degli individui: ledue libertà coincidono quando il cittadino si identifica con la legge.

Al di fuori di ogni singolo Stato vi sono solo i rapporti inter-statuali. Questi sonoconcorrenziali e conflittuali, sono cioè rapporti di pace o di guerra e cadonocomunque (a differenza di ciò che pensava Kant) sempre al di fuori di qualsiasi“diritto universale”, di qualsiasi regolamentazione volta ad affermare la “giustizia”e la “pace perpetua” fra gli Stati. La pace universale è, secondo Hegel, un “doveressere” privo di realtà, mentre la politica internazionale (e la stessa storia delmondo) si basa unicamente sui rapporti di forza fra gli Stati. Ma pur essendo le guer-re espressione dialettica delle relazioni fra Stati, esse sono espressione di una vicen-da umana più generale, nella quale civiltà si affermano e tramontano, ma in cui sirealizza la razionalità superiore dello Spirito e la storia si afferma come storia dellalibertà. Per Hegel, infatti, la tendenza progressiva del movimento storico va dall’af-fermazione della libertà nelle mani di uno solo (nel mondo orientale) o di pochi (nelmondo greco-romano) alla libertà di tutti (nel mondo cristiano-germanico).

Il pensiero “utopistico”

Nasce dalla riflessione sui mutamenti prodotti dalla Rivoluzione industriale ilcosiddetto Socialismo utopistico (così lo definirà, criticandolo, Marx sostenitore diun Socialismo scientifico). A quell’indirizzo di pensiero fanno capo i pensatori chepropongono modelli nuovi di società, alternativi rispetto a quello capitalistico.

Fra questi è Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), ilquale ritiene che si debba passare da un’epoca di disordine sociale e di crisi deivecchi sistemi di valore (o epoca “critica”) a un’epoca organica, basata sui valorinuovi dell’industrialismo, della scienza e della tecnica. In questa nuova epoca lapresenza dello Stato dovrà essere ridotta al minimo e gli affari temporali dovran-no essere amministrati dagli industriali, mentre quelli spirituali dovranno essere dicompetenza degli scienziati, considerati, insieme con gli industriali, come la spinadorsale della nazione.

Charles Fourier (1772-1837) propone un altro modello di organizzazione socia-le alternativo a quello affermatosi con il capitalismo-industriale. Egli ritiene cheesista un’armonia universale, che nell’uomo si esprime in una specie di “attrazio-ne passionale” fra gli esseri umani, su cui si fonda la stessa costituzione dellasocietà. Il capitalismo industriale ostacola tali tendenze, le reprime, con le condi-zioni artificiose e innaturali di vita che impone ai lavoratori. Occorre realizzareuna società dell’Armonia basata sull’attuazione di condizioni lavorative attraenti esulla costituzione di falansteri, cioè su unità di vita sociale e di lavoro decentrate,relativamente ridotte, basate sia sulla comunità dei beni che su libere unioni ses-suali e familiari e nelle quali anche il lavoro sia libero, dettato, in ciascun indivi-duo, dalle sue inclinazioni e vocazioni professionali.

L’inglese Robert Owen (1771-1858) si impegna ad avviare un processo di coo-perazione fra i lavoratori ed a costituire delle unioni del lavoro, cercando una viaeconomica e non politica di realizzazione del socialismo.

Il francese Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) afferma che “la proprietà è unfurto”: ciò che conta è il lavoro, non un istituto giuridico (la proprietà) in nomedel quale al lavoratore vengono sottratti i frutti del suo lavoro. Egli, comunque,intende abolire non la proprietà privata ma l’interesse capitalistico, cioè il redditolegato alla proprietà del denaro, al credito, che egli ritiene illegittimo. Promuovela cooperazione, come aveva fatto Owen, ma, a differenza di questi, afferma cheil rapporto mutualistico fra i lavoratori deve fondarsi sullo scambio diretto di beni,senza la mediazione del denaro. Occorre realizzare una società di libere impresecooperative, la cui progressiva estensione permetta di ridurre e – al limite – estin-guere lo Stato, senza alcun tipo di rivoluzione.

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144FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

La teoria comunista

La teoria marxiana trae origine da una revisione critica dell’Hegelismo, da unapresa di distanze dal socialismo utopistico e da uno sviluppo della teoria econo-mica classica.

Karl Marx (1818-1883) ritiene che Hegel (a cui pure va il merito di avere soste-nuto il carattere dialettico del reale), invece di limitarsi a descrivere “come è” loStato moderno, abbia preteso di descrivere un’“essenza dello Stato”, ci abbiamostrato un modello aprioristico e astratto, che ha cercato di presentare come loStato in sé, nella sua essenza.

Marx, inoltre, critica i giovani hegeliani poiché essi si illudono di cambiare ilmondo con la sola forza delle idee, contrapponendo queste ad altre idee, quandoinvece per attuare tali idee ci sarebbe bisogno degli uomini, cioè di una “forzapratica”: infatti, afferma, “l’arma della critica non può sostituire la critica dellearmi”.

Del Socialismo utopistico Marx e Friedrich Engels (1820-1895) riconoscono l’u-tile funzione di denuncia delle iniquità e delle contraddizioni della società capi-talistica, ma criticano l’incapacità di comprendere la causa di quelle contraddi-zioni reali, cioè il meccanismo di funzionamento della società capitalistica. Perquesto gli esponenti del Socialismo utopistico non sono stati in grado di offriredelle prospettive credibili di superamento del capitalismo.

La teoria economica de Il Capitale vuole essere un’“anatomia della società capi-talistica” capace di individuare gli aspetti ed i princìpi fondamentali di svolgi-mento dei processi capitalistici di produzione. Si fonda sul concetto di forza-lavo-ro, quella erogata dall’operaio, che dà “valore” alle merci che produce e che èessa stessa una “merce”. È comunque una merce particolare, il cui valore d’uso èsuperiore al suo valore di scambio, in quanto, se per una parte della giornata lavo-rativa produce merci il cui valore serve a compensare il capitalista delle speseanticipate per la produzione, per un’altra parte è un lavoro erogato come un di più(un plus-valore lo chiama Marx) che viene incamerato dal capitalista.

La competizione economica fra capitalisti tende ad accentuare progressivamen-te il tasso di sfruttamento del lavoro, anche mediante il progresso tecnico. Ciòdetermina una proletarizzazione crescente, una caduta tendenziale del saggio diprofitto e periodiche crisi di sovrapproduzione, che, a un certo punto, dovrebbe-ro aprire la prospettiva di un rovesciamento del capitalismo.

La borghesia ha già partorito i suoi “seppellitori”, i proletari. Contraddizionioggettive e crescita della coscienza di classe del proletariato renderanno più asprala lotta delle classi, che si dovrebbe tradurre in una rivoluzione, che porterebbe auna fase di transizione caratterizzata dalla dittatura del proletariato e dalSocialismo. Questa è la fase in cui la conquista del potere politico e dello Statodovrà servire a governare il passaggio dalle strutture capitalistiche dell’economia,della società e dello Stato a quelle del Socialismo. Fino a quando, con il definiti-vo superamento di ogni residuo capitalistico, si instaurerà il Comunismo. A quelpunto vi sarebbe una società senza classi, un sistema di eguaglianza, da cuirisulterebbe abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione ed estinto loStato.

Il Positivismo politico e sociale

La concezione politico-sociale del Positivismo si misura con i problemi postidalla Rivoluzione industriale e dalla società industriale. Generalmente i pensatoripositivisti sono contrari a impostazioni di tipo rivoluzionario, che sono ai loroocchi pericolose e dannose e, in particolare, a quelle che si basano sulla conflit-tualità sociale e di classe, e sono sostenitori di politiche riformatrici che realizzi-no, anche a livello politico, il passaggio a una società industriale, abbandonandodefinitivamente forme ormai anacronistiche di organizzazione della società.

Uno degli aspetti non secondari del Positivismo teorico è costituito dal suo sfor-zo – particolarmente evidente nel fondatore, Auguste Comte (1798-1857) – di ela-borare, attraverso una nuova scienza, la sociologia, una teoria globale dellasocietà, soprattutto una teoria scientifica della società industriale. Comte conside-ra la sociologia non solo la scienza che ancora manca per completare il passaggiodi tutto il sapere allo stadio positivo, ma anche la condizione indispensabile per-

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ché la politica passi da campo di battaglia di ideologie a luogo di attuazione dellascienza sociologica. Si deve quindi instaurare anche una politica positiva perchési possa considerare conclusa la riorganizzazione spirituale della società, che per-metterà di superare lo stato di “anarchia intellettuale” e di disordine morale esociale in cui versa l’Europa dopo la crisi apertasi con la Rivoluzione francese del1789. Il progresso umano dovrebbe essere garantito da una prospettiva – ripresada Saint-Simon – dell’assunzione da parte degli scienziati e dei tecnici di un ruolodi governo nella società.

Grande influenza sul pensiero politico dell’Ottocento e del Novecento ha la teo-ria di John Stuart Mill (1806-1873). Forte, in particolare, è l’influenza della suaappassionata difesa dei diritti di libertà dell’individuo. Egli afferma l’autonomiadella persona, contro le interferenze e la pressione che, sull’individuo, possonoesercitare sia lo Stato che la società, attraverso l’opinione pubblica. La limitazio-ne dei diritti dell’individuo può esser giustificata solo per evitare un danno aglialtri. Il sistema politico ed economico-sociale più efficace è quello nel quale vienesalvaguardata maggiormente l’esigenza di libertà degli individui.

Egli riconosce un pieno diritto di autogoverno alle classi lavoratrici, respingen-do le tesi di coloro che rifiutano i diritti politici a coloro che non sono proprieta-ri, ed afferma la necessità di realizzare per tutti un principio di giustizia. Rifiutaperò l’idea che alla giustizia sociale si debba arrivare con una rivoluzione e, ancorpiù, la tesi che l’uguaglianza si debba realizzare a prezzo della libertà. Unasocietà formata da individui resi docili dal potere non ha alcuna prospettiva diprogresso in quanto – afferma Mill – “non si possono realizzare grandi cose conpiccoli uomini ”.

Tra i meriti maggiori di Mill vi è inoltre il forte e convinto sostegno al riconosci-mento dei diritti civili e politici delle donne, che ha sostenuto in contrasto con l’o-pinione prevalente nella società e nella cultura dell’epoca.

Anche la concezione della società di Herbert Spencer (1820-1903) si configu-ra come una teoria dei limiti dello Stato. Egli non subordina l’individuo alla tota-lità sociale, ma afferma invece la necessità di salvaguardare e difendere l’indivi-duo dalle interferenze delle istituzioni statali. Per lui infatti nella società il centroè costituito dagli individui, cioè dagli organismi viventi, ed è in funzione loro chela società viene costituita.

Spencer ricostruisce l’evoluzione storica dell’umanità come passaggio dal mili-tarismo all’industrialismo: il primo ha visto un dominio del potere della società edello Stato sugli individui, costretti o indotti all’obbedienza, mentre nel secondosaranno gli individui – sempre più – ad affermare le loro esigenze di libertà e diaffermazione di sé.

Egli critica il riformismo democratico o socialista perché, con le riforme, essopretende di “abbreviare” il corso della società, favorendo il passaggio delle classiinferiori a classi più elevate. Tale abbreviazione è ritenuta impossibile dal filosofo,che la paragona a quella (altrettanto impossibile) con cui si voglia tentare di acce-lerare il passaggio biologico dall’infanzia alla maturità. Egli sostiene che lo svi-luppo della società deve essere lasciato al libero svolgimento delle forze che lacostituiscono, quindi anche alle lotte per l’esistenza, alle guerre con cui le varietàumane “più adatte alla vita sociale” prevalgono su quelle “meno adatte”.

In tal modo, proprio nell’ambito di una teoria politica liberale, viene a delinear-si quello che verrà chiamato più tardi con il nome di social-darwinismo: una teo-ria, cioè, che ricondurrà la cultura ed i conflitti umani alla natura biologica del-l’uomo.

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146FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Il Novecento è stato un secolo che ha conosciuto regimi totalitari di massa, maanche lo sviluppo dei sistemi democratico-rappresentativi. In questo secolo anchela teoria politica si è dispiegata su un arco vastissimo di opzioni e indirizzi.

Società di massa, dominio di élite e burocratizzazione

Nella crisi europea di fine-secolo e nei drammatici sviluppi che essa conosceràsin dai primi decenni del Novecento, affiorano orientamenti e tendenze di tiponazionalistico, o di aperta reazione antidemocratica, che credono di trovare nelpensiero di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), nel suo essere una filoso-fia irriducibilmente critica verso ogni atteggiamento di passiva accettazione dell’e-sistente, una legittimazione teorica del loro attacco ai sistemi liberali e delle poli-tiche imperialistiche condotte dalle grandi potenze. Ma, a parte la differenzaprofonda tra gli intendimenti di Nietzsche e quelli dei sostenitori di ideologie rea-zionarie, dalle sue critiche il filosofo tedesco non approdò a concezioni totalita-rie dello Stato e prese le distanze dal nazionalismo tedesco. Comunque radicalefu, in particolare, la sua critica delle concezioni democratiche, fondate sull’ideadi eguaglianza e sul livellamento degli individui, che egli riteneva ispirate dall’o-dio nei confronti dei forti e dalla morale del risentimento.

Da sponde diverse si esprime la preoccupazione o la critica nei confronti dei pro-blemi sociali e politici indotti dall’affermarsi di una società industriale e di massa.

Il sociologo Emile Durkheim (1858-1917) descrive la condizione di anomia dellasocietà industriale (di un venir meno o di una vera e propria disintegrazione dinorme e valori di riferimento, di un allentarsi della coesione sociale fra gli individui).

Negli Anni Venti il fondatore della psicanalisi, Sigmund Freud (1856-1939),riflettendo sulle nevrosi, guarda all’avvento della nuova società di massa come aduna civiltà che, per le sue esigenze di controllo e di incanalamento dei compor-tamenti, impone un conformismo di massa, la spersonalizzazione dei comporta-menti individuali, generando non solo sofferenza nei singoli, ma anche condottecollettive “deviate”, aggressive, nelle quali si esprimono in qualche modo, sia purcamuffate ed inconsce, le tendenze represse. La civiltà alimenta la tendenza ariconoscersi in un capo, in un leader, in un legame “libidico” che unisce, nellostesso tempo, l’individuo al capo e ad altri individui che si orientano nella stessadirezione.

Vilfredo Pareto (1848-1923) sottolinea l’agire non-logico degli individui, le spin-te irrazionali (residui ) delle quali essi tentano di dare una giustificazione teorica eche sono frutto di credenze e miti (derivazioni ). Compito della sociologia è ap-punto l’analisi e lo smascheramento di questa grande “ipocrisia sociale”. In que-sta ricerca, la stessa vicenda storica non viene spiegata nei termini marxiani dellalotta di classe, ma in termini di circolazione delle élites, di ristrette aristocrazie digoverno, di minoranze privilegiate che operano in base a forme di razionalizza-zione della condotta che, nelle masse, è invece dettata da motivazioni irraziona-li.

Sul versante opposto si collocano l’economista Joseph Alois Schumpeter (1883-1950) e il giurista Hans Kelsen (1881-1973). Essi affermano che conta soprattuttoil modo democratico con cui le élites giungono al potere e lo detengono legitti-mamente: ad esempio, il fatto di essere state scelte dalla maggioranza degli elet-tori e di essere soggette al controllo della pubblica opinione e a periodiche verifi-che elettorali. Nei sistemi totalitari, invece, le élites non vengono elette, ma sonosolo nominate discrezionalmente con scelte operate dall’alto.

Grande influenza, inoltre, nel pensiero sociologico e nella teoria politica delNovecento, hanno avuto le analisi compiute da Max Weber (1864-1920) sullasocietà capitalistico-borghese, di cui ha colto tendenze e linee di sviluppo: adesempio descrivendo i processi di burocratizzazione e razionalizzazione tecnico-economica, la crisi dei valori, del parlamentarismo e del sistema dei partiti.

IL NOVECENTO6

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147FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

La razionalizzazione della società avanzata, i processi di standardizzazione inessa dominanti sono il frutto lontano dell’ascesi intramondana, rivolta cioè almondo e non a Dio, che si è affermata nelle aree protestanti e che ha portato laborghesia a rinunciare, in base a princìpi di austerità e di calcolo economico, adogni ricerca di felicità nell’immediato per accantonare e investire i beni in quellache diverrà l’accumulazione capitalistica.

Processi, comunque, che hanno trasformato il mondo moderno, il mondo capi-talistico, in mondo del disincanto, nel quale contano non tanto ideali, valori, opassioni e tradizioni, quanto l’efficienza dei mezzi adottati rispetto agli scopi pre-fissi.

Alle forme di razionalità strumentale che si sono diffuse e affermate si accom-pagna la burocratizzazione, cioè la costituzione della razionalità sociale in unsistema standardizzato di gerarchie e di procedure funzionali. In esso si perde ilvalore dell’individuo, si impoverisce la ricchezza e la varietà degli interessi e deivalori individuali e tendono ad affermarsi logiche autoritarie. Si afferma la logicapura e semplice del potere, che può essere burocratico (cioè legato al funziona-mento della moderna burocrazia), oppure tradizionale (come quello delle monar-chie del passato), oppure carismatico. Quest’ultima è la forma – inquietante – dipotere che egli vede emergere dalle pieghe della società contemporanea: essa sifonda sul “carisma”, sul prestigio di un “capo”, e si configura come possibilità pro-pulsiva in una società condannata alla crescente standardizzazione.

Stato etico o Stato-governo

Anche in Italia, nei due maggiori esponenti dell’Idealismo, Gentile e Croce, lariflessione teorica sulla politica e sul diritto fa i conti con i temi – cruciali – dellanatura dello Stato e del rapporto fra potere statale e libertà dell’individuo.

Giovanni Gentile (1875-1944) ripropone – nei termini della sua dottrina – laconcezione hegeliana dello Stato etico. Anche la società e lo Stato, il diritto e lamorale si risolvono, per lui, nell’interiorità del pensiero, nella sua attività. Lo Statoè la posizione di valore a cui si richiamano gli individui, l’“assoluto” etico nelquale riconfluisce e trova la sua ragion d’essere il “relativo” che è costituito dagliindividui stessi, i cui interessi più profondi vengono a coincidere con la missionestorica e spirituale dello Stato.

Lo Stato etico realizza per Gentile il vero Liberalismo, perché la libertà vi è vistadal punto di vista non dell’individuo, ma dello Stato: è libertà dello Stato, nonlibertà dallo Stato. La teoria liberale classica, relativa ai limiti dello Stato, è capo-volta.

Gentile respinge la concezione liberale della distinzione fra sfera pubblica esfera privata. Una vera democrazia, per lui, “non pone limiti allo Stato”, in quan-to lo Stato stesso viene fondato, quindi giustificato, nell’interiorità dell’uomo edha in sé una base di consenso che è frutto dell’identificazione fra individuo eStato.

Benedetto Croce (1866-1952) colloca invece il diritto, la politica, lo Stato,nella sfera economica della vita dello Spirito. Egli identifica il diritto con laforza, quindi con l’utile in vista del quale la forza viene esercitata. Il diritto,quindi, è autonomo dalla morale, è amorale. Così pure non hanno valore mora-le la politica e l’azione dello Stato: in questo, Croce si dichiara discepolo diMachiavelli. Egli è aperto fautore del realismo politico, cioè di un agire statualee politico fondato essenzialmente su rapporti di forza e sull’esercizio dellaforza. Con il suo Liberalismo, Croce si contrappone alla concezione etica delloStato di Hegel e Gentile, rifiuta l’idea di Stati sovra-ordinati agli individui.

Lo Stato, privato dello spessore etico attribuitogli da Gentile e dal Fascismo, sirisolve per Croce nell’utilità. Non è altro che governo, l’esercizio concreto delgovernare, non un’entità superiore, che trascende il volere e le esigenze degli indi-vidui.

Il Liberalismo, per Croce, è una teoria che, lasciando più spazio possibile al libe-ro gioco delle forze spontanee degli individui e dei gruppi sociali, pone le condi-zioni del progresso in ogni campo. È anche qualcosa di più di una teoria politica:è religione della libertà, espressione della vita morale dell’uomo, che può esseremessa in crisi, ma non può essere spenta in alcun momento storico.

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148FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

La teoria formale del diritto

Kelsen (pag. 146), il massimo esponente del positivismo giuridico contem-poraneo, è sostenitore di una dottrina pura o formale del diritto. La validità deldiritto riposa sulla sua forma. Compito di una scienza del diritto non è quello didarne una valutazione etica, ma di fornirne una descrizione. Vengono respinteseccamente sia le teorie dello Stato etico che le teorie giusnaturalistiche, che sirifacevano a ipotesi etico-metafisiche come quelle di un “diritto di natura”. Lascienza del diritto non può dire che cosa il diritto debba essere, ma ciò che è.Kelsen, come Weber, vuole escludere dal diritto i giudizi di valore e afferma lanecessità che il diritto si affermi come scienza giuridica, come teoria razionale epositiva. L’autonomia di questa scienza si fonda sulla distinzione kantiana tra esse-re e dover essere, tra i nessi causali delle scienze naturali e la norma giuridica. Taleautonomia delle scienze giuridiche comporta anche l’abbandono di riferimenti afatti e a fenomeni sociali. Mentre questi vengono descritti dalla sociologia comeeventi regolati da “cause” (come i fenomeni naturali), il diritto si fonda su atti divolontà, cioè è un atto convenzionale e artificiale.

Ciascun sistema di norme, inoltre, poggia su un altro ad esso superiore, trova la sualegittimazione in questo e l’intero sistema delle norme di un Paese poggia su unanorma fondamentale, cioè su una regola che descrive come debbano esser prodottele norme all’interno del sistema stesso, le procedure che necessariamente le normedebbono avere per esser considerate tali, per avere un fondamento di validità.

Il diritto, così, viene a poggiare su se stesso, non ha bisogno di altri fondamentidi legittimità. Lo Stato si identifica con l’ordinamento giuridico. È lo Stato, lavolontà dello Stato, che emette la sanzione contro le azioni che infrangono lenorme giuridiche. Dietro l’insieme delle diverse norme particolari dello Stato e afondamento della loro validità vi è una norma fondamentale, quella dellaCostituzione.

Democrazia ed educazione

Di John Dewey (1859-1952) è una riflessione teorica nella quale l’elaborazionepolitica si intreccia in modo strettissimo con quella pedagogica. La teoria politi-co-educativa di Dewey è ispirata al pensiero liberaldemocratico, cioè esprime unavisione dei rapporti sociali e politici nella quale il rispetto per la sfera individualesi combina con l’idea di intervenire per evitare che nella società le differenzesociali si trasformino in discriminazione e in emarginazione dei ceti più deboli eperché il governo della società sia sottratto alle élites e affidato alla generalità deicittadini.

Egli considera la democrazia come l’assetto migliore della società in questa fasedi sviluppo storico, come garanzia di sviluppo personale e sociale, di rispettodegli individui e di adattabilità alle esigenze sociali. La democrazia garantisce allasocietà le migliori condizioni di sviluppo. Favorisce il libero scambio delle espe-rienze di vita e richiede una più libera interazione tra i gruppi sociali, un cam-biamento o riadattamento continuo delle abitudini sociali. Essa è liberazione e svi-luppo di capacità personali, è processo di crescente individualizzazione.

Allo sviluppo democratico della società e alla riduzione – o all’eliminazione –delle ingiustizie sociali concorre l’educazione. Essa deve avere un carattere demo-cratico e anti-autoritario e deve essere in grado di rinnovare dall’interno – sulpiano culturale e ideale, non solo politico e sociale – la società. In una società cheè soggetta a continui cambiamenti, essa deve inoltre formare i cittadini all’inizia-tiva personale e all’adattabilità.

Fra dittatura del proletariato e ricerca di una nuova democrazia

Dopo la Rivoluzione russa del 1917, anche il pensiero politico marxista, comefilosofia della rivoluzione, si articola e diviene più complesso, distanziandosi daquello delle origini, in particolare nei Paesi in cui non è diventato una filosofiaufficiale, “di Stato”, dove si affermano alcune posizioni teoriche che registrerannoun progressivo distanziamento dal modello sovietico-staliniano e l’assunzione diuna dimensione critico-progettuale, in taluni casi utopica. In esso avranno impor-tanza centrale le questioni della dittatura del proletariato e della democrazia.

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149FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Già Engels (vedi pag. 144) aveva escluso “rivoluzioni fatte da piccole minoran-ze coscienti alla testa di masse incoscienti” e aveva proposto “un’iniziativa dimassa largamente maggioritaria”, di tipo sindacale e politico-parlamentare checonsentisse alla classe operaia di far suoi e di allargare gli spazi di democrazia esi-stenti. Ma è soprattutto il revisionismo teorico promosso da Eduard Bernstein(1850-1932) a modificare l’asse del dibattito. Egli sostiene che nel nuovo contestostorico il movimento operaio deve realizzare delle trasformazioni graduali e de-mocratiche del sistema e rinunciare definitivamente al progetto marxiano di con-quista violenta del potere e di dittatura del proletariato. Nella democraziaBernstein vede l’unica via al Socialismo, intendendola sia come mezzo della lottaper il Socialismo che come forma della sua realizzazione. Il Socialismo si riallac-cia così al Liberalismo e se ne dichiara l’erede.

Fra coloro che replicheranno duramente a Bernstein è Nikolaj Lenin (1870-1924), protagonista della Rivoluzione d’Ottobre e fautore dell’idea del partitocome avanguardia rivoluzionaria. Egli ripropone la tesi della dittatura del prole-tariato, da realizzare attraverso una rete di soviet, o consigli degli operai, dei con-tadini e dei soldati, organismi di democrazia diretta e di massa.

Rosa Luxemburg (1870-1919) polemizza non solo con Bernstein ma anche conLenin, al quale contesta l’“ultracentralismo” della concezione del partito (a cuicontrappone la necessità di un’azione diretta e autonoma delle masse, di una clas-se operaia concepita come io collettivo), difendendo allo stesso tempo la necessitàdella democrazia politica. La soppressione delle libertà politiche, infatti, porta adaffermare non una “dittatura del proletariato”, ma una dittatura del partito “sul”proletariato.

Anche per György Lukács (1885-1971) l’oggetto teorico principale di analisi el’autentico protagonista della storia contemporanea è il proletariato, la suacoscienza di classe, nella quale la teoria e la pratica rivoluzionarie possono esse-re organicamente connesse.

La coscienza di classe è l’autocoscienza che una classe ha di sé, della sua posi-zione storica; è un concetto-limite, poiché è il massimo che una classe possa com-prendere della realtà sociale nella sua totalità. Essendo la classe operaia soggettostorico centrale, la rivoluzione proletaria tende a identificarsi con la piena realiz-zazione della ragione nel mondo, cioè con il punto di vista della totalità, dellasuprema razionalità storica.

Antonio Gramsci (1891-1937) vede nel partito politico che dovrebbe guidare la“rivoluzione italiana” come un “moderno Principe”, sulla falsariga di quellodescritto da Machiavelli, ma per lui il partito della classe operaia deve operare peraffermare una egemonia, non un dominio, sulla società. Deve cioè far leva suun’azione che non sia violenta, ma sappia progressivamente raccogliere e costrui-re il consenso di ampi strati della società intorno al movimento operaio, fino acostituire un blocco storico di operai, contadini e intellettuali. Egemonia è soprat-tutto capacità di direzione intellettuale e morale di quella società. Essa implica unaforma di organizzazione e la presenza di intellettuali, di persone in grado di orga-nizzare e dirigere.

Funzione dell’intellettuale organico del partito della classe operaia è riuscire atrasformare in una dimensione universale (che è appunto la dimensione della cul-tura) il rapporto concreto che egli ha con una parte della società. Lo stesso parti-to politico viene considerato un intellettuale collettivo: non il partito-Stato dise-gnato da Lenin, ma un’organizzazione legata alle forze vive della società, soste-nuta da una forte consapevolezza critico-teorica e capace di operare in mododemocratico, per realizzare una “riforma intellettuale e morale” – e non solosociale e politica – della società italiana.

Ernst Bloch (1885-1977) fonda le sue riflessioni sul tema della democrazia an-corandole al principio speranza e allo spirito dell’utopia, cioè a bisogni umaniprofondi, alla perenne tensione al futuro e a nuovi orizzonti di possibilità, checaratterizzano l’esistenza umana vivificata dall’entusiasmo, da un’aspirazione alcompletamento ed all’autorealizzazione che viene da lui identificata con la pro-spettiva del comunismo. Con la caduta di quell’entusiasmo, di quella tensioneutopica il movimento di trasformazione comunista rischia di avvitarsi su se stesso,di scadere nel gradualismo, nell’economicismo ed infine nell’autoritarismo, cheuccide ogni prospettiva e speranza e fa ripiegare il rivoluzionario nella rassegna-zione dello status quo.

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150FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

La teoria critica della società

Una teoria critica della società vicina al Marxismo, ma ad esso non assimilabi-le è quella progettata dagli esponenti della scuola di Francoforte. Essi conduconouna lotta su tre fronti: contro il nazi-fascismo, il sistema totalitario dell’URSS e la“società del benessere” del capitalismo americano. Sostengono la tesi di un intrec-cio molto stretto fra fenomeni politico-sociali di tipo autoritario e processi incon-sci negli individui.

Per loro, l’uso della scienza e della tecnica si è tradotto in un mezzo di mani-polazione e di controllo delle coscienze, in una nuova forma di dominio, nellaquale il ruolo dell’individuo viene ad essere mortificato e annullato. Ciò appareevidente con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa nei Paesi indu-striali avanzati e con il ruolo sociale autoritario assegnato alla famiglia. Essi hannoprodotto forme di dominio che vengono “interiorizzate” da coloro che, secondoMarx, avrebbero dovuto essere i soggetti fondamentali della liberazione dal capi-talismo, cioè dagli operai.

Herbert Marcuse (1898-1979) ha descritto gli effetti della società dei consumisull’individuo: questo modo di vivere gli impedisce di ragionare, di esercitare unuso critico della ragione e lo riduce allo stato di uomo a una dimensione, costrin-gendolo ad accettare e a subire l’esercizio del potere altrui. Ciò non tanto con laviolenza, quanto con una specie di tolleranza repressiva, con la quale le redinisugli individui sono allentate e vengono tirate solo quando siano superati deter-minati limiti. Permissivismo e persuasione occulta (attraverso i mezzi di comuni-cazione e la pubblicità) permettono così di fornire una regolazione flessibile edefficace della società di massa.

Anche per Marcuse i percorsi di liberazione possibili non sono più quelli indi-cati da Marx, perché la classe operaia nei paesi capitalistici avanzati è ormai pie-namente integrata nel sistema. Sono invece i settori emarginati di questa società(ad esempio i disoccupati o le minoranze di colore) e, soprattutto, sono i popolidel “Terzo mondo”, a poter esercitare un ruolo decisivo di liberazione. Accantoad essi Marcuse colloca i ceti intellettuali giovanili, il mondo studentesco, comepossibile avanguardia culturale dei processi di liberazione umana, ove siano messiin grado di esercitare un uso critico della ragione e di rifiutare globalmente il siste-ma di dominio.

Cristianesimo e democrazia

Testimonianza dell’impegno democratico di molti intellettuali cattolici delNovecento è il pensiero politico di Maritain e Mounier, i quali, per un verso inten-dono operare un distacco della cultura cristiana dal “modello” di cristianità rea-lizzato dal Medioevo e per altro verso svolgono un’analisi e una valutazione for-temente critiche del loro tempo e intendono operare perché nel mondo si affermiun nuovo Umanesimo (Maritain) o un nuovo Rinascimento (Mounier).

Jacques Maritain (1882-1973) critica l’umanesimo razionalista, liberale e bor-ghese, il cui ultimo e deteriore prodotto è il “piccolo borghese”, quell’universo difinzioni, ipocrisie e velleità irrazionali già descritte da Marx e Freud. Ma criticaanche l’umanesimo di Marx, a cui contesta – sul piano politico – l’utopia dellaliberazione totale e definitiva dell’uomo: anche nella società comunista, infatti,non potrebbero non esserci il male e l’infelicità che sono nell’uomo. Maritain èconvinto dell’agonia del capitalismo e ritiene necessario realizzare uno Statocaratterizzato dalla forma societaria della proprietà. Ciò non deve implicare unanegazione della proprietà privata, la cui necessità viene riaffermata come appro-priazione dei beni, finalizzata al bene comune. La sua preoccupazione fonda-mentale è che una nuova organizzazione economica tuteli e difenda la personaumana non subordinandola né alle collettività di cui fa parte né alle ragioni delcapitale e del denaro.

Impegno nuovo del cristiano deve essere quello di realizzare una rifrazione nelmondo delle esigenze evangeliche, secondo il principio per il quale lo spiritualedeve vivificare il temporale.

Emmanuel Mounier (1905-1950) ritiene che la nuova rivoluzione dovrà esserepersonalista e comunitaria. La rivoluzione personalista deve combattere il disordi-

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ne stabilito che è nelle istituzioni e negli uomini. Anche il mondo cristiano neporta responsabilità, essendosi troppo spesso identificato con la società borghesee avendo abbandonato i poveri. Sono dunque necessari una rottura tra Cristianesi-mo e mondo borghese e un mutamento profondo dello stesso mondo cristiano.

Mounier propone quindi una terza via tra capitalismo e comunismo. Essa dovràsuperare i limiti del capitalismo, dove i più forti opprimono i più deboli e dove siè affermata l’idea di un primato della produzione, del denaro e del profitto, chesottomette l’uomo all’economia e il lavoro al capitale. Dovrà inoltre superare ilimiti del Marxismo, come filosofia negatrice della persona, perché centrata sulprimato del “collettivo”.

La terza via dovrà quindi basarsi su princìpi specularmente opposti a quelli affer-mati dalle prime due “vie” e realizzare una comunità di tipo nuovo, una “comu-nità di persone”.

Negli ultimi due decenni il dibattito sui temi della teoria politica ha preso nuovovigore. La crisi prima e successivamente il tracollo dei sistemi socialisti europei hamodificato – inevitabilmente – i termini del confronto teorico-politico ma non l’haaffatto indebolito. Da un lato ha rafforzato le teorie politiche liberali, che hannocreduto di trovare nell’esito del confronto Est/Ovest una conferma della bontàdelle loro posizioni (nelle diverse direzioni del contrattualismo, dell’utilitarismo,delle teorie dei “limiti dello Stato”, ecc.), dall’altro ha determinato una ricerca inuna molteplicità di direzioni.

Particolare rilievo ha avuto il dibattito sulla società giusta aperto dal filosofoamericano John Rawls (1921), che si colloca nell’ambito del contrattualismo.L’interesse maggiore dell’elaborazione – e del confronto che ha promosso – èdovuto al fatto che essa ha cercato di connettere l’idea di individuo, che è al cen-tro delle teorie liberali, con quelle di equità e di uguaglianza (perlomeno di ugua-glianza morale degli individui), che sono invece al centro delle teorie democrati-che e socialiste.

Il modello poggia su un esperimento mentale, cioè su un modello ideale, imma-ginario ma dotato di coerenza interna, fondato su presupposti ben definiti, dalquale possano essere ricavate le “norme fondamentali” di una data società, cioè isuoi “princìpi costituzionali”. Sulla base di tali princìpi primari – e delle gerarchiedi valore da essi stabilite – è possibile ricavare i criteri per una distribuzione dibeni primari (diritti di libertà, posizioni di reddito, ecc.).

“Razionalità”, per Rawls, vuol dire distribuzione egualitaria dei beni primari (adesempio la libertà) e, per quanto riguarda il reddito, vuol dire ispirarsi al criteriodel maximin, cioè di una redistribuzione dei beni a favore di coloro che sonomeno dotati, quindi meno avvantaggiati.

A differenza dell’Utilitarismo, che fonda i princìpi razionali della convivenzasociale sulle esigenze del singolo, che vengono come tali estese all’intera società,Rawls ipotizza che essi abbiano origine da una scelta comune operata da un grup-po di persone libere e ispirate dalla ragione.

IL DIBATTITO CONTEMPORANEO7

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152FILOSOFIA DELLA POLITICA E DEL DIRITTO

Se il Contrattualismo è una teoria deontologica (dal greco deón, dovere), miran-te cioè a stabilire criteri di giustizia (cosa sia “giusto” e cosa non lo sia) e relatividoveri, l’Utilitarismo è invece una teoria teleologica (dal greco télos, fine): essa,infatti, cerca di stabilire che cosa sia più “utile” fare (o non fare), quali siano i cri-teri da seguire nel compiere scelte preferenziali (ad esempio la scelta se “conven-ga di più” un sistema capitalista o un sistema socialista) che permettano di poten-ziare al massimo il benessere collettivo (o la “felicità per il maggior numero pos-sibile di persone”, come aveva affermato Bentham), quindi di produrre queglieffetti desiderati.

Anche in questo caso, alcuni hanno fatto ricorso ad “esperimenti mentali”. Adesempio John Harsanyi (1921) ha ipotizzato una situazione nella quale dei sog-getti, non conoscendo la loro effettiva posizione sociale (o meglio fingendo chetutti abbiano la stessa probabilità di occupare delle posizioni sociali), possanovalutare in modo “disinteressato” (senza quindi poter individuare quale sarebbe ilvantaggio personale di ciascuno) l’opportunità di una scelta politico-strategica inun senso o nell’altro.

Negano, invece, che si debba guardare a un astratto “benessere collettivo” i teo-rici del Libertarismo, fautori del cosiddetto Stato minimo, conseguenza di un indi-vidualismo condotto all’estremo (Robert Nozick,1938; Friedrich August vonHayek, 1899-1992). Unico compito dello Stato sarebbe quello di proteggere i cit-tadini dalle minacce alla loro sicurezza fisica (violenza, costrizione, ecc.) o daminacce al loro patrimonio (furto, frode, ecc.), oppure di garantire l’esecuzionedei contratti. Per tutto il resto ogni intervento dello Stato (ad esempio, interventi diprotezione sociale, volti a “redistribuire” la ricchezza sociale ai ceti meno favori-ti) sarebbe lesivo dei diritti naturali degli individui.

Fortemente critico nei confronti delle concezioni organicistiche (o olistiche)della società è Karl Raimund Popper (1902-1994): in esse la società viene conce-pita come un tutto che trascende le parti che la compongono, ma il modello a cuisi ispirano è totalitario, in quanto ciò che conta è la “totalità sociale” e non gliindividui. Inoltre, quelle concezioni si sono quasi sempre ispirate all’utopismo ead un’idea rivoluzionaria, di rovesciamento “globale” della società. Popper con-trappone loro il modello della società aperta, di tipo liberal-democratico, e di unmetodo riformista e non rivoluzionario di lotta politica: quasi una tecnologia socia-le razionale, cioè una politica costituita da interventi graduali, non rivoluzionari,impostati secondo criteri di razionalità “scientifica” e che miri non a “ribaltare” lasocietà, ma a cambiarne singoli aspetti per volta.

Vi sono poi le posizioni che si rifanno al positivismo giuridico, una delle qualiè espressa dall’italiano Norberto Bobbio (1909). Questi ritiene necessario uno stu-dio delle forme esistenti di sistemi giuridici che ne esamini l’efficacia reale. I cri-teri di tale studio sono desunti dalla filosofia analitica e dal principio della avalu-tatività del diritto, cioè dall’idea che esso – come qualsiasi oggetto studiato scien-tificamente – debba essere concepito come studio dei mezzi e mai come studiodei fini etico-politici che un determinato sistema di norme persegue.

Bobbio, comunque, non ha rimosso la dimensione etica dei problemi della poli-tica, come mostrano i costanti interventi sui temi della pace e della minaccia didistruzione atomica dell’umanità.

La sua posizione è quella di un socialismo liberale, cioè di una prospettiva diemancipazione sociale delle classi subalterne nel quadro del rafforzamento deidiritti di libertà e delle istituzioni della democrazia.

Fautore di una concezione funzionalista della società è il tedesco NiklasLuhmann (1927). Compito della sociologia è elaborare una teoria generale dellasocietà, mediante la determinazione delle sue regole generali di funzionamento.Secondo Luhmann, inoltre, l’enorme complessità dello Stato moderno – quellocostituitosi nei Paesi industriali avanzati – impedisce una partecipazione demo-cratica autentica, poiché rende impossibile – a ciascun individuo – disporre diquella massa di informazioni che sono necessarie per operare delle scelte consa-pevoli.

Così anche la politica si basa su azioni che non possono abbracciare l’insiemedelle variabili di un sistema sociale: deve limitarsi ad agire in base al sotto-siste-ma da cui proviene.

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Contrapposta a quella di Luhmann è la teoria politica di Jürgen Habermas(1929, allievo di T. W. Adorno), che si è mosso inizialmente sulle linee dellaScuola di Francoforte.

Egli critica la sociologia funzionalista affermando che non è possibile descrive-re i sistemi sociali mediante schemi generali ritenuti “oggettivi”. Nella società ope-rano infatti soggetti che, in base a interessi, perseguono fini (ad esempio fini diemancipazione di una classe subalterna) e perciò tendono a dare un senso al loroagire sociale, che rende inefficace qualsiasi spiegazione di processi sociali in ter-mini meramente “funzionali”.

La società, inoltre, non può essere considerata una “macchina”, come se inessa ogni componente operasse e interagisse con gli attri in termini di mera fun-zionalità.

Né lo studio della società può essere solo di tipo osservativo-descrittivo: gli“oggetti” dell’analisi sociale sono, in realtà, soggetti, i quali partecipano ai pro-cessi e richiedono quindi il metodo dell’interrogazione e del coinvolgimento all’a-nalisi e alla comprensione di quei processi.

La maggiore originalità della riflessione di Habermas riguarda la teoria dell’agi-re comunicativo, nella quale egli contrappone due tipi di razionalità: la raziona-lità tecnologica e la razionalità discorsiva. La prima è una razionalità strumenta-le, di rapporto di coerenza e adeguatezza fra determinati mezzi e determinati fi-ni, che guida e orienta le diverse forme di dominio. La seconda è una razionalitàcomunicativa, pratico-emancipativa: presuppone cioè la formazione collettiva divolontà mediante procedure discorsive, di comunicazione e confronto libere, cioèsottratte a ogni forma di controllo e condizionamento e aperte alla partecipazionee al contributo di ciascuno.

Il problema è quello di affermare una discorsività democratica, cioè uno spazionel quale sia possibile ricercare e individuare delle finalità – di ordine etico e poli-tico allo stesso tempo – comuni ai diversi soggetti comunicanti. Cruciale, sottoquesto aspetto, è il problema di come costruire un consenso reale. Esso è possibi-le solo quando i diversi interlocutori operino sulla base di un interesse per l’inte-sa e confrontino i diversi punti di vista accettando di sottoporsi a quello che con-sensualmente viene accettato come più convincente: quando, cioè, la veritàvenga fondata consensualmente.

Questo è il presupposto fondativo di un’autentica convivenza democratica.

Questi sono solo alcuni esempi di una riflessione e di un confronto teorici chenon possono non intrecciarsi con il tumultuoso – e per molti aspetti contradditto-rio – svolgersi degli eventi nel passaggio al XXI secolo. È l’età della globalizzazio-ne e dell’interdipendenza, di connessioni fra flussi di merci e flussi “invisibili” dicapitali, di spostamenti di popolazione di vastissima portata, di comunicazione fralingue e culture fino a poco tempo fa lontanissime, ma anche di crisi degli Statinazionali, di separatismi, conflitti inter-etnici e impoverimento di intere aree delmondo. Età in cui si estendono i regimi liberal-democratici, ma anche si rafforza-no le possibilità di controllo dei cosiddetti “poteri forti”, che rendono sempre più– la nostra – una “democrazia difficile”.

Da questo punto di vista occorre chiedersi: qual è il compito di una teoria poli-tica che sia all’altezza delle sfide del XXI secolo?

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FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

Il significato di linguaggio e di logica

Il linguaggio è la facoltà di comunicare mediante l’uso di segni. I segni che qui saranno presi in con-siderazione sono quelli linguistici. Così inteso, il linguaggio è una prerogativa tipicamente umana,che consente, usando un numero limitato di segni, connessi tra loro secondo regole definite, di “par-lare” di tutto, anche dello stesso linguaggio.

■ Occorre tener conto del fatto che la riflessione filosofica sul linguaggio costituisce una specie dilinea di frontiera che interseca una molteplicità di ambiti della ricerca filosofica (logica, metafisica, teo-ria della scienza, etica) e di quella scientifica. Quindi non sempre è facile metterla a fuoco come pro-blema a sé, in quanto è “intrisa” di problemi e aspetti non-linguistici (così come questi ultimi, a lorovolta, non possono non essere influenzati e condizionati dai modelli linguistici seguiti).

■ Considerazioni analoghe potrebbero esser fatte sulla logica.

La logica è l’analisi della struttura del discorso, è lo studio dell’argomentazione, con finalità di dimo-strazione o di persuasione. Tale studio analizza la forma, cioè l’insieme delle condizioni che deveavere un discorso per esser corretto e rigoroso. Si basa quindi – in prevalenza – sulle inferenze, cioèsul passaggio da una proposizione all’altra, per accertarne la coerenza, per vedere se vi sia stato sem-pre il rispetto dei princìpi che dovrebbero presiedere quei passaggi. Si tratta, evidentemente, di unadisciplina generale che può esser chiamata a valutare la coerenza e correttezza formale di qualsiasitipo di argomentazione in ogni campo del sapere.

Se nella filosofia contemporanea è largamente condivisa la definizione di “logica” come disciplinache analizza in modo “rigoroso” le “strutture formali” del discorso, a partire da una premessa “con-venzionalistica”, diversa è la situazione nelle epoche precedenti del pensiero occidentale.

Non che sia mancata, nel passato, una considerazione della logica come analisi della forma deldiscorso (ché, anzi, è nel pensiero antico con Aristotele e gli Stoici che la logica viene fondata con que-ste caratteristiche), ma questa viene collegata a una problematica o metafisica o gnoseologica, o a en-trambe. La prima (attinente alla metafisica), più ricorrente nel pensiero antico e medievale, ha riguar-dato gli oggetti della logica: sono solo parole, o forme del discorso, oppure sono strettamente connes-si con la realtà (la logica è identificabile con la metafisica e la gnoseologia, oltre che col linguaggio)?La seconda è emersa nell’età moderna in cui a volte la logica sembra identificarsi o risolversi nella gno-seologia.

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

154FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

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Problemi

■ Uno degli aspetti più pro-blematici della riflessione sullalogica e sul linguaggio è costi-tuito proprio dal rapporto che– di volta in volta, nelle varieepoche storiche – è stato stabi-lito fra le due discipline. Esseoperano, infatti, in modo cosìintrecciato fra loro da far sìche spesso siano state pura-mente e semplicemente iden-tificate, trattate come discipli-ne aventi gli stessi oggetti,metodi e finalità.

■ Quanto al linguaggio,tema centrale è stata la que-stione dell’origine del lin-guaggio e, in particolare, laquestione della sua natura-lità o convenzionalità. Nelprimo caso si è sostenutoche le cose hanno i loronomi per natura o che leparole sono l’espressionedell’essere delle cose, susci-tate o prodotte dall’ogget-to. Nel secondo si è affer-mato che il linguaggioè il prodotto di unascelta compiuta dagliuomini, in base auna convenzione, aun accordo e che leparole non hanno rapporto, quanto al significato, con le cose, essendo state forgiate in modo arbitrario.

■ Nelle due precedenti concezioni si è posta, in modo diverso, la questione del rapporto tra il segnolinguistico e il suo oggetto, tra parola e cosa. Un rapporto che può essere esteso a quelli fra segno lin-guistico e suo significato, fra segno linguistico e segno linguistico, o fra segni linguistici e comunità deiparlanti, che un filosofo del Novecento (Charles Morris) ha designato con tre termini distinti: semanti-ca (teoria del significato), sintattica (teoria dei rapporti e delle regole fra segni linguistici) e pragmatica(dal greco prágma, azione, come teoria delle relazioni fra segni linguistici e utenti del linguaggio).

155FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

Antoine Pevsner:La colonna della vittoria, 1946.Zurigo, Kunsthaus.

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Nell’antichità greca – almeno fino ad Aristotele – è particolarmente difficile indi-viduare, all’interno delle concezioni filosofiche generali, specifiche teorie logichee linguistiche. Eppure alcuni princìpi fondamentali della logica e della filosofia dellinguaggio sono contenuti in alcuni passaggi fondamentali della speculazionemetafisica di Parmenide e Platone.

Linguaggio narrativo, scrittura e nascita del pensiero astratto

Una riflessione sul linguaggio appare ben presto nella cultura greca, favorita,senza dubbio, dal passaggio dalla cultura orale alla cultura scritta.

Il linguaggio arcaico, proprio di una cultura orale, trasmette conoscenze perso-nificandole, traducendole in atti compiuti da esseri umani e divini. Questo lin-guaggio fa appello alle capacità percettive e sensibili degli uomini e, perciò, ècarente di forme concettuali astratte. Esprime una valenza magico-religiosa dellaparola, a cui si attribuisce il potere di modificare la realtà. La sua caratteristicaprincipale è la stretta connessione di pensiero, parola e realtà.

L’evoluzione del linguaggio arcaico è dovuta principalmente alla diffusionedella cultura scritta, che favorisce e determina una rivoluzione culturale, realiz-zatasi in Grecia nel corso di alcuni secoli (VIII-VI sec. a.C.).

Il linguaggio astratto, elaborato nell’ambito del diritto, della scienza e della filo-sofia, ne è il prodotto. È composto di enunciati che utilizzano sostantivi imperso-nali, nomi astratti e verbi all’infinito con funzione di sostantivi (ad esempio “il ve-dere”). Importantissimo, nell’evoluzione verso l’astratto, è il ruolo dell’articolodeterminativo (tó, il).

Lo scritto, fissando la parola su uno spazio a due dimensioni, permette di con-siderarla come un oggetto di riflessione al di fuori di ogni contesto e di acquisirenon solo competenze grammaticali e sintattiche, ma anche una consapevolezzadei princìpi dell’argomentazione. Inoltre, la visualizzazione del discorso rendepiù evidenti le concatenazioni del ragionamento e dei processi conoscitivi.

Contraddittorietà e non-contraddittorietà dei discorsi

Il segno del superamento – sia pur graduale – del linguaggio arcaico, lo si puòcogliere nei filosofi del VI secolo a.C. Parmenide (VI-V sec. a.C.), nella sua rifles-sione sull’essere, per un verso si muove nell’ambito del linguaggio arcaico, nonprescindendo dalla continuità di pensiero, parola e realtà e operando uno scam-bio tra il significato logico-linguistico e il significato ontologico dell’“essere”.

Ma, per altro verso, in lui, come in altri, appare già una riflessione nuova sulpensiero e sul linguaggio: il primo requisito di ogni discorso razionale è la sua noncontraddittorietà. E solo la ragione possiede tale requisito. Per il pensiero “è” e“non è” non possono essere affermati nello stesso tempo. Coloro che lo fanno,seguendo non il pensiero, ma l’opinione, l’“apparire” (il mutare, il nascere e mori-re, ecc.) sono come “uomini a due teste”, si contraddicono, pronunciano purinomi senza cogliere il vero, l’essere identico e non contraddittorio.

Un discepolo di Parmenide, Zenone di Elea (nato intorno al 490 a.C.), svilup-perà questa critica al mondo dell’opinione analizzando le tesi che assumono lamolteplicità e il divenire, ammettendole come ipotesi, mostrandone la contraddit-torietà mediante sottili ragionamenti e così confutandole, aprendo la via alla ricer-ca di nuove tesi, che non conducano a conclusioni contraddittorie.

Eraclito (seconda metà del VI sec. a.C.) invece, coglie ed apprezza – del lin-guaggio – proprio l’ambiguità e la capacità di esprimere la contraddittorietà delreale. Uno stesso nome (ad esempio bíos, vita e biós, arco portatore di morte) puòavere due significati diversi. E una stessa cosa può avere nomi e significati diversi(“via in giù” e “via in su”).

L’ETÀ ANTICA2

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Egli è inoltre considerato il primo teorizzatore della naturalità del linguaggio.Quello della verità e della ragione è naturale in quanto esprime la natura del lógose dell’essere. Anche per Eraclito, come per Parmenide, mentre il linguaggio vero enaturale è quello del lógos, è convenzionale e illusorio il linguaggio dell’opinione.

Autonomia di pensiero e linguaggio

È con i Sofisti, educatori e maestri di persuasione, che i discorsi (lógoi) e il lin-guaggio divengono oggetto privilegiato della riflessione.

Il linguaggio viene concepito come autonomo dalla realtà e dal pensiero, supe-rando la concezione propria del periodo arcaico. Si afferma, con i Sofisti, unnuovo ed autonomo campo di riflessione, una nuova disciplina, la linguistica, chesi occupa della struttura e della teoria del linguaggio, della sua orthoépeia, cor-rettezza.

Si afferma anche la logica, intesa come analisi della struttura del discorso.Inoltre essi concentrano il loro interesse e la loro attività culturale sulla retorica,l’arte di generare persuasione mediante discorsi.

Protagora (nato nel 486 ca. a.C.) sostiene di essere in grado di rendere forte ildiscorso debole e debole quello forte. Ma l’enorme potenza della parola, che“con piccolissimo e invisibile corpo sa compiere grandi cose”, trova il più convin-to assertore e realizzatore in Gorgia (nato nel 485 ca. a.C.). Non vi è tesi o con-vinzione che, secondo lui, non possa essere rovesciata dal discorso.

Al centro dell’elaborazione dei Sofisti è lo studio dell’argomentazione, delleantilogie, cioè dei discorsi contrapposti (con i quali ad ogni tesi affermata come“vera” si può porre una tesi contraria, “vera” quanto la prima).

I Sofisti, a differenza dei primi filosofi, negano, in particolare con Gorgia, che visia un rapporto tra nomi e cose e che i nomi possano comunicare la conoscenzadelle cose. Realtà, pensiero e linguaggio sono su tre piani diversi. CriticandoParmenide, Gorgia dice che l’essere, se anche esistesse, non sarebbe “pensabile”e neppure “dicibile”, sarebbe cioè incomunicabile, poiché diverso è il segno dellacomunicazione dal pensiero e dalla cosa (l’essere) che viene pensata.

Le lingue, per i Sofisti, sono artificiali, frutto cioè di convenzione, di accordoall’interno delle diverse comunità umane, non “naturali”. La parola è simbolo,cioè sta al posto di ciò che intende significare.

A sostenere la convenzionalità del linguaggio è anche il filosofo dell’atomismo,Democrito (460 ca. – 370 ca. a.C.). Egli fornisce argomenti “empirici” a sostegnodi questa tesi, mostrando, ad esempio, i casi di una stessa parola che abbia unapluralità di significati diversi (omonimia), o di una stessa cosa designata con nomidiversi (sinonimia), o di mutamenti di nome con altri nomi.

Dei sinonimi, delle sottilissime differenze di significato che hanno i nomi, quin-di anche dell’equivocità delle parole, si occupa anche il sofista Prodico (secondametà del V sec. a.C.).

Il linguaggio, la dialettica e la ricostruzione della verità delle cose

Anche per Socrate ( 470/499 – 399 a.C.) al centro della ricerca sono i lógoi, è ildialogo come luogo di ricerca e confronto tra gli uomini, in cui lo scopo non èvincere e far prevalere un’opinione sulle altre, ma realizzare una ricerca comunedella verità. Socrate utilizza e sviluppa le tecniche retoriche e argomentative deiSofisti, ma con due obiettivi diversi:

1. smascherare e smontare la presunzione di sapere dell’interlocutore; 2. cercare di determinare l’“essenza”, cioè il “concetto” coerente e ben fondato

della virtù.

Anche per Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.) ciò che conta è la verità: è il discor-so ad essere al servizio del pensiero, non il contrario. Il linguaggio è, infatti, stru-mento del pensiero, produzione di parole dotate di senso. Il suo fine è la verità.Perciò ogni discorso deve essere strumento al servizio della verità. Nel Cratilo eglicritica le tesi della naturalità e della convenzionalità del linguaggio, che non èconvenzione, artificio, gioco linguistico, mezzo di persuasione, ma non è neppu-re nesso naturale fra nome e cosa. Le parole sono solo un’imitazione delle coseche designano.

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Possono sì aiutarci ad esprimere l’essenza delle cose ma, in quanto imitazionedi queste, sono anche uno strumento imperfetto e fallibile. Conta ciò che le cosesono, non il loro semplice nome. Il linguaggio deve permetterci di individuare edefinire quel che le cose sono in se stesse, la loro essenza ideale.

La filosofia è, quindi, ricerca dell’ordine oggettivo del sapere: è dialettica, “artedi piantare e seminare parole con scientifica consapevolezza” e, allo stessotempo, di riprodurre l’ordine oggettivo della realtà, di cogliere e ricostruire i rap-porti fra le Idee. La dialettica, mediante procedimenti di analisi (diáiresis o divi-sione per due) e sintesi (synagoghé o composizione) deve determinare il posto diogni essenza nell’ordine gerarchico delle Idee. Tale ordine, nell’elaborazione piùmatura di Platone, si costituisce per generi e specie e prepara il terreno per le pro-cedure di classificazione dei concetti scientifici che compirà Aristotele.

L’órganon della scienza

Della riflessione sui tre ordini di problemi relativi al linguaggio, alla logica ealla gnoseologia, il pensiero di Aristotele (383-322 a.C.) è uno snodo fonda-mentale.

Sulla questione dell’“origine” del linguaggio la sua posizione supera le posizio-ni contrapposte del carattere naturale o convenzionale delle parole, inserendo trala parola e la cosa la rappresentazione mentale, il concetto. Aristotele sostiene lanaturalità del rapporto concetto-cosa e la convenzionalità del rapporto parola-concetto: la rappresentazione mentale che si ha di un oggetto è uguale per tutti gliuomini, mentre le parole con cui tale concetto è espresso possono variare da ungruppo umano all’altro.

Anche se risale ad Aristotele la prima trattazione sistematica della logica, taletermine non appare nei suoi scritti. Questo sapere è propedeutico all’enciclope-dia delle scienze, in quanto tratta delle caratteristiche proprie del discorso, soprat-tutto del discorso scientifico.

La logica costituisce la scienza della dimostrazione. Essa si articola in due parti,la dialettica e l’analitica. La dialettica muove da premesse problematiche e pro-babili e giunge a conclusioni dello stesso tipo, mentre l’analitica, muovendo dapremesse vere, giunge a conclusioni esse stesse vere.

Oggetto della scienza della dimostrazione sono i termini (soggetto e categorie),i giudizi ed i sillogismi.

Il giudizio afferma il vero quando collega (o disgiunge) ciò che è collegato (odisgiunto) nella realtà. Particolare importanza ha il giudizio definitorio, che espri-me la definizione di una sostanza facendo riferimento al genere prossimo e alladifferenza specifica.

Il sillogismo è composto di tre giudizi – due che fungono da premesse e uno daconclusione. La sua figura scientificamente più importante è quella in cui pre-messe e conclusione sono composte da giudizi universali e affermativi.

Il sillogismo è stato per molti secoli – in Occidente – il modello del ragiona-mento deduttivo che muove da princìpi primi, premesse universali, per dedurneconseguenze su un piano universale o particolare. Princìpi primi di qualunquediscorso che abbia senso sono inoltre – per Aristotele – quelli di identità, di non-contraddizione e del terzo escluso. Fondamentale, in particolare, è il principio dinon-contraddizione, il quale nega che si possa affermare una cosa ed il contrariodi uno stesso soggetto, nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista.

Una teoria del significato

La teoria logica conoscerà con gli Stoici uno sviluppo importante. È nei loro scrit-ti che per la prima volta si trova il termine logica, o meglio loghiché téchne (cioèl’“arte” logica), da loro suddivisa in Retorica e Dialettica, quest’ultima intesa come“scienza” della dimostrazione e degli oggetti che ad essa fanno riferimento.

La loro è una logica proposizionale, che studia le proposizioni e la connessio-ne tra proposizioni più che tra i termini. Si identifica – come per Platone – con ladialettica, ma non è la filosofia, bensì solo una sua parte (insieme alla fisica e all’e-tica). Come tale, però, è filosofia a pieno titolo e non – come in Aristotele – soloun suo órganon (o strumento).

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Il discorso dimostrativo è costituito da proposizioni e ragionamenti. Il loro con-tenuto è il significato, lektón, che costituisce il punto principale di innovazionedella logica stoica. Oltre alla parola (il segno linguistico, grafico o vocale, che è ilsignificante) e alla cosa significata, vi è il concetto della cosa, ossia ciò che laparola significa, il suo significato.

È il significato a dar luogo alle proposizioni elementari (ad esempio “è notte”,“ci sono le stelle”) che possono essere vere o false. Più proposizioni formano unragionamento, nel quale si esprimono delle connessioni causali, o implicazioni,fra fatti.

Gli Stoici sviluppano sia i ragionamenti disgiuntivi sia quelli ipotetici (rispetti-vamente del tipo “o...o”, “se...allora”), i quali si articolano in tre momenti: lemma,assunzione e conclusione.

In tal modo gli Stoici hanno mirato a ricavare logicamente da fatti e giudizi ditipo empirico altri fatti e giudizi: hanno cioè approfondito il problema dei processidi inferenza, dei passaggi logici che legano fra loro le proposizioni e che costitui-scono un momento fondamentale della ricerca scientifica.

IL MEDIOEVO3

Le parole, il Maestro interiore e l’allegoria

Nell’età tardo-antica, alla riflessione sul linguaggio dà un notevole contributoAgostino di Ippona (354-430) nello scritto De Magistro (opera prevalentementeletta come testo di pedagogia).

Il linguaggio è strumento utile per la comunicazione del pensiero, ma pur nonavendo un valore intrinseco come il pensiero, deve essere platonicamente orien-tato verso la verità. Il linguaggio è l’atto del cammino verso la verità e l’Essere.Per questo richiede una specifica indagine, che ne chiarisca caratteristiche e fun-zioni. I segni linguistici possono essere fonte di malintesi. Le parole sono segni,cioè stanno al posto di ciò che indicano. Agostino, comunque, distingue tra paro-le e nomi. Lo stabilire un rapporto con il mondo delle cose non è proprio delleparole, ma dei nomi.

Il nome ha due facce: per un verso è una classe di termini che si riferisconodirettamente ad oggetti: per un altro, invece, è attinente al significato, rimanda alrapporto delle parole con le idee.

Nel rapporto di comunicazione, parole e nomi non fanno conoscere qualcosa, maoffrono occasioni e stimoli perché si avvii un processo di conoscenza. Questa sideve ai processi interiori dell’io: la parola ammonisce solo a ricevere la verità.Perché le parole presentino un significato allo spirito di coloro a cui sono indirizza-te, occorre che questi abbiano già presente al pensiero questo significato. Ed è pro-prio il possesso preliminare di questo significato a rendere le parole intellegibili.

Dio solo è il maestro interiore. Nessuno, infatti, ci insegna se non Dio che parladentro di noi. La parola trae il suo significato dall’ascolto del Verbo interiore checoncede all’uomo la conoscenza delle idee. Il rapporto fondamentale è, dunque,quello tra parole e idee, non tra parole e cose.

Scientia sermocinalis e teoria della suppositio

Dal XIII secolo si accentua la tendenza della logica a costituirsi come scienzaautonoma dalla metafisica e dalla gnoseologia e a sviluppare sempre più un carat-tere formale, configurandosi come scientia sermocinalis, scienza del discorso elogica proposizionale (come era già stata per gli Stoici). In essa si dà spazio allostudio delle proprietà dei termini, il cui significato varia (produce equivocatio) aseconda del contesto del discorso e sono considerati come segni che “stanno alposto di” (suppositio).

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D’ora in poi nella logica medievale si distingueranno e contrapporranno duemetodi: l’ars antiqua, realistica e ontologizzante, e quella moderna, che tratta deitermini del discorso al di fuori di ogni ipotesi metafisica.

Con Guglielmo di Ockham (1280 ca. – 1347) il piano del linguaggio è distintoda quello della realtà: esso, dunque, è autonomo e può essere studiato per se stes-so. Le parole sono frutto di convenzione, ma i concetti sono “segni naturali” pro-dotti dall’anima. La scienza logica assume un carattere eminentemente formale,non ha più per oggetto le cose, ma il linguaggio che le descrive. Si configura cometeoria dei segni, di simboli che stanno al posto delle cose (suppositio). Le opera-zioni logiche riguardano le relazioni formali tra simboli e tendono a divenire uncalcolo logico tra simboli.

Nello stesso periodo, Raimondo Lullo (1235-1315) tenta di costruire un lin-guaggio formalizzato, simbolico ed artificiale, con cui realizzare operazioni dicalcolo logico attraverso numerosissime combinazioni di termini. Poiché alcuni diquesti termini corrispondono – a suo parere – agli elementi primi della realtà, loscopo ultimo di quella tecnica di calcolo – o ars inveniendi – è la determinazionedell’albero universale delle scienze: cioè la scoperta dei più riposti segreti dellanatura.

L’ETÀ MODERNA4Mentre nei vari campi del sapere, durante l’età moderna l’autorità di Aristotele

viene progressivamente messa in discussione, nel campo della logica il modello fon-damentale continua quasi sempre ad essere quello della logica formale aristotelica.

Solo nella transizione fra il XVIII e il XIX secolo e all’inizio di questo secolo, conKant prima ed Hegel poi, si avranno mutamenti radicali, con la filosofia trascen-dentale della conoscenza dell’uno e con la logica dialettica dell’altro.

Nell’età moderna la ricerca logico-linguistica segue vie diverse, offrendo unventaglio di orientamenti e indirizzi con cui si è misurato – e si misura – il pen-siero del Novecento.

La filologia umanistica come scienza del linguaggio

Nell’età umanistico-rinascimentale, alla logica formale aristotelica si preferiscela retorica, come mezzo essenziale di comunicazione e persuasione e non comeartificiosa e inconcludente tecnica verbale. Ad Aristotele viene preferito Platone,che, con i suoi dialoghi, con la sua apertura a una riflessione come ricerca, sem-bra più adeguato ad un’età nella quale tutto sembra essere messo in discussione.

Ma è soprattutto la filologia il campo di ricerca fondamentale degli intellettualidell’epoca. Mira al recupero dei testi nella loro originaria stesura ed è strumento dicritica delle manipolazioni e dei falsi che i testi hanno subìto: l’esempio più signifi-cativo è costituito dalla critica della “Donazione di Costantino” operata da Valla.

Proprio Lorenzo Valla (1407-1457) lavora sulla ricostruzione storica del lin-guaggio e mostra quanto la conoscenza delle parole sia fondamentale per la com-prensione del significato autentico delle idee. La filologia diviene così fattore indi-spensabile per la formazione di una coscienza critica del passato e di noi stessi.

Il problema del metodo

Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento cresce il disinteresse per unalogica formalistica di stampo aristotelico e viene, in qualche modo, a compimen-to il superamento della logica aristotelica.

Francesco Bacone (1561-1626) non a caso scrive il Novum Organum, espres-sione della consapevolezza che la vecchia logica aristotelica non vada più benee che sia necessario elaborare un nuovo strumento – un nuovo metodo – per ilpensiero. La nuova funzione affidata alla logica è quella di metodologia scientifi-ca generale, strumento della ricerca.

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Al primato aristotelico del metodo deduttivo e del sillogismo Bacone contrap-pone quello del metodo induttivo, liberato dai limiti che aveva in Aristotele. Diquesta revisione del metodo induttivo Bacone tratta nella pars adstruens o con-struens (la parte propositiva del suo metodo), mentre nella pars destruens criticale fonti di distorsione presenti nella conoscenza umana, tra le quali vi è anche illinguaggio.

Ne parla a proposito degli idola fori, idoli del mercato (che si accompagnanoagli altri idola e forme di pregiudizio, tribus, specus e theatri), cioè gli equivoci ele distorsioni di significato che provengono nella comunicazione umana dalleparole che usiamo, le quali hanno carattere convenzionale. Parole a cui non cor-rispondono cose. Parole che si riferiscono a cose molto diverse tra loro. Parole cheproducono concetti illusori e dispute senza fine.

Per questo, per le possibilità stesse di sviluppo della scienza, occorre unariforma del linguaggio, che permetta di rappresentare adeguatamente le cose edi esprimere compiutamente il pensiero. L’aspirazione baconiana a un linguag-gio perfetto sarà ripresa nel Novecento e diverrà oggetto di grandi dispute teo-riche.

Per Cartesio (1596-1650) il linguaggio, assieme alla ragione, è uno dei con-trassegni distintivi dell’uomo, sia rispetto agli animali che rispetto alle macchine,perfino a una macchina che volesse riprodurre l’uomo e le sue attività. In qualchemodo al “linguaggio perfetto” si ricollega anche la ricerca che Cartesio fa delle“regole per la direzione dell’intelletto” e che mette a punto nel Discorso sul meto-do. Nelle regole dell’evidenza, dell’analisi, della sintesi e della revisione si guardaal metodo proprio della geometria euclidea come modello, anche se ne vieneindicato il limite nella sua applicazione al solo mondo delle linee e delle figure.Il metodo proposto da Cartesio serve per “ben condurre la ragione e cercare laverità nelle scienze”. A partire dal linguaggio matematico si elabora un metodorelativo alle procedure per un suo uso migliore, il “linguaggio” perfetto, che for-nisce l’approccio sistematico e unitario a qualunque problema scientifico (lamathesis universalis).

Riprenderà la lezione cartesiana, saldandola ad alcune istanze della Scolastica,la logica di Port-Royal che produrrà una famosa “arte del pensare”.

Linguaggio ed esperienza

Originale – sui problemi del linguaggio e del ragionamento – è anche la posi-zione di Thomas Hobbes (1588-1679).

Per lui, le idee sono designate da nomi, derivanti da convenzione. Il linguaggiousa, dunque, segni linguistici per conservare impressioni sensibili e per comuni-care agli altri le nostre idee.

Il pensiero lavora su nomi. Il ragionamento è inteso come un calcolo logico, nelquale i nomi vengono sommati o sottratti tra loro: l’uomo così può essere defini-to sommando “animale” e “razionale”.

La logica torna ad essere un sapere che si occupa delle strutture formali del di-scorso e accentua la sua natura convenzionalistica. La verità dipende dal rigorelogico delle definizioni e delle operazioni sui nomi (cioè dal fatto che venganoaddizionati e sottratti nomi appartenenti allo stesso tipo), non dal riferimento aduna realtà in sé che non può essere oggetto del nostro sapere. I tipi di nomi sonoquattro: di corpi, di qualità dei corpi, di immagini di corpi e di nomi. Errato è ilcalcolo di nomi che appartengono a tipi diversi, che perciò significano realtàdiverse, fra loro non collegabili e calcolabili.

Anche John Locke (1632-1704) dà largo spazio alla riflessione sul linguaggio.Per lui il linguaggio e i segni che lo compongono nascono da convenzione. Essoè formato da segni che “significano” qualcosa, che si riferiscono alle idee esisten-ti nella mente di chi comunica e presuppongono l’esistenza delle stesse idee nellementi degli altri uomini a cui è rivolto il messaggio. La maggior parte di tali segniè costituita da nomi comuni che esprimono idee generali. L’universale non è unarealtà oggettiva, ma solo un nome – dice Locke riproponendo la tesi nominalisti-ca di Hobbes e di Guglielmo di Ockham – che sta al posto delle cose: un nomegenerale, che indica un’idea generale la quale, a sua volta, è ricavata da gruppi direaltà particolari che hanno caratteristiche simili.

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I procedimenti formali della ragione

Anche Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), sia pure con un’impostazionemolto lontana da quella degli empiristi inglesi, è da molti considerato un antici-patore della logica moderna.

Inizialmente elabora un’arte della ricerca basata su una tecnica formale di ragio-namento, costituita da procedure di calcolo algebrico su simboli alfabetici. Leconclusioni di tali procedimenti dimostrativi avrebbero tutte il carattere dellanecessità logica, perché risultanti da sequenze rigorosamente legate al principiodella non contraddizione. Da un lato vi è l’aspirazione a costruire un linguaggioartificiale (characteristica universalis). Dall’altro vi è l’idea di un procedimentologico inteso come calcolo matematico.

Con queste due idee Leibniz anticipa di più di due secoli la costruzione dellamoderna logica simbolica, cioè il tentativo di descrivere in termini eminentemen-te formali – e mediante calcolo logico – l’ordine del mondo.

Egli ha inoltre individuato nelle verità di ragione il prodotto di procedimenti logi-ci grazie ai quali è possibile stabilire delle relazioni necessarie e universali fra i con-cetti, dei giudizi nei quali il predicato inerisce al soggetto, è cioè contenuto logi-camente e implicitamente in esso e, senza aggiungervi qualcosa di esterno, è capa-ce di esprimerne il significato ideale. Procedimenti, questi, regolati dai princìpi diidentità e di non contraddizione.

Ma vi sono anche verità di fatto, le quali sono relative a tutto ciò che – nellarealtà – è o accade, ma avrebbe anche potuto non essere o non accadere. Esserispondono al principio logico di ragion sufficiente, il quale afferma che “nullaaccade senza che vi sia una ragione perché accada così e non altrimenti”. Nellequestioni empirico-fattuali non è possibile dimostrare la “necessità logica” dellaconnessione fra predicato e soggetto, ma solo portare una serie di motivazioni checi aiutino ad “avvicinarci” a quella necessità logica.

Logica e linguaggio della fantasia

Offre un apporto originale alla teoria del linguaggio Giambattista Vico (1668-1744). Sostenendo la specificità e l’autonomia dell’immaginazione poetica e dellinguaggio dalle altre facoltà umane, la riflessione vichiana mira a dare un fonda-mento, uno statuto teorico nuovo sia all’estetica che alla linguistica. Contro l’a-strattezza del razionalismo cartesiano, egli rivaluta la logica e il linguaggio dellafantasia, quello della sapienza poetica.

La poesia è creazione, come creazione, espressione spontanea della natura umana,è il linguaggio. Il linguaggio è “gran testimone de’ costumi de’ primi tempi del mondo”:linguaggio di parole, ma anche di gesti, canti, segni di vario tipo, tutti espressione dimentalità e culture diverse dalla nostra, non paragonabili ad essa, da vedere e da inten-dere nella loro specificità storica. Per questa concezione del linguaggio Vico si puòcollocare fra i sostenitori della naturalità del linguaggio, non come un “parlare se-condo la natura delle cose”, ma come un “parlare fantastico”, una creazione lingui-stica che esprime una dimensione soggettiva sentimentale e fantastica.

Malgrado la sua impostazione filosofica sia radicalmente diversa da quellavichiana, anche Étienne Bonnot di Condillac (1714-1780), verso la metà delSettecento, sostiene la tesi che nelle età primitive il linguaggio sia stato in preva-lenza un linguaggio d’azione e gestuale.

Sarà di nuovo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a riproporre la visione dellinguaggio come produzione spontanea dell’uomo e del suo sviluppo storico.

L’uomo è un essere perfettibile, che ha in sé, per natura, una disposizione inna-ta che si realizza gradualmente in presenza di particolari condizioni, cioè dellacostituzione della società. L’uomo per natura non è socievole, ma lo diventa.Anche il linguaggio si iscrive in questo sviluppo.

L’uomo, prima di parlare, percepiva in sé e ascoltava la voce della natura. Nonc’era linguaggio, poiché egli si trovava in una situazione d’isolamento. Nello stes-so tempo, non c’era società, perché l’uomo era incapace di parlare. Solo quandogli uomini, di fronte alle difficoltà, si riunirono in orde, videro sorgere fra loro illinguaggio. Dapprima è stato un linguaggio grossolano e imperfetto, un linguaggiocapace di esprimere emozioni più che concetti.

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Con lo sviluppo dell’organizzazione sociale e la formazione di famiglie, dal lin-guaggio del bisogno si è passati al linguaggio dell’affetto e della passione, artico-lato e con inflessioni melodiose. Gli elementi convenzionali del linguaggio si sonosviluppati e, quanto più i gruppi si differenziavano, tanto più nascevano le lingueparticolari. Nella società moderna il linguaggio è divenuto uno strumento effica-ce e preciso che sa designare l’oggetto astratto, comunicare idee generali, struttu-rarsi logicamente. Al centro ha l’impersonalità del concetto: la parola non è piùespressione del soggetto, ma vive di vita autonoma e separata dal soggetto. In talsenso, però, essa è anche diventata strumento di ipocrisia, menzogna e dissimu-lazione, di cui si avvale il potere. Unica alternativa è l’uso della lingua come diuno strumento di denuncia: occorre un linguaggio eloquente, carico di passionee partecipazione e allo stesso tempo raziocinante e argomentativo, capace di aiu-tare l’uomo a tornare a se stesso, alla sua vera natura.

La logica e la dialettica trascendentali

Immanuel Kant (1724-1804) propone nella Critica della ragion pura la distin-zione tra Logica formale pura, sostanzialmente quella elaborata da Aristotele, eche non ha fatto, secondo Kant, da allora grandi passi avanti, e la sua logica tra-scendentale, perno della sua dottrina critica della conoscenza. Questa ha, comeoggetto, le strutture del pensiero puro, analizza le forme pure della conoscenzache rendono possibile all’intelletto di pensare a priori gli oggetti.

Kant la suddivide in due parti, Analitica e Dialettica: la prima indaga l’uso cor-retto di tali forme, l’altra l’uso errato e infondato delle categorie, che l’intellettousa per costruire una conoscenza sintetica a priori.

Per questa impostazione della logica Kant si presenta come uno dei massimiesponenti di quella tendenza presente nella filosofia moderna che voleva riassor-bire la logica nella teoria della conoscenza.

L’OTTOCENTO5

Il linguaggio come espressione storica della ragione

Fra Settecento e Ottocento assume nuova importanza anche la riflessione suiproblemi del linguaggio, perché al linguaggio si riconosce un’identità nuova chegli deriva dall’essere inserito in un contesto storico che lo condiziona e lo segnain profondità. Il linguaggio verrà sempre più considerato come uno dei principalicontrassegni del “popolo”, della “nazione”, cioè dell’identità di soggetti storici.

Sarà soprattutto il Romanticismo a sviluppare questi temi, che erano apparsi giànella seconda metà del XVIII secolo.

Così Johann Georg Hamann (1730-1788) aveva affermato che la capacità sim-bolica, cioè il linguaggio, costituisce l’espressione sensibile della ragione, la suaesistenza tangibile, concreta, operante: il linguaggio è la ragione stessa, è “la lin-gua madre del genere umano”.

Per Johann Gottfried Herder (1744-1803), che alle soglie dell’Ottocento elaborauna filosofia della storia, il linguaggio è un essenziale strumento della ragione,anche se non si identifica (come invece era avvenuto con Hamann) con la ragionestessa. Non è un insieme compiuto di norme grammaticali e sintattiche che Dio ha“donato” all’uomo e non è neppure il frutto di una “convenzione” o il risultato diuna semplice imitazione di suoni animali da parte dell’uomo. È invece il prodottodi un rapporto dell’uomo con il contesto naturale e storico nel quale vive ed opera.

Giunta a un determinato grado di sviluppo, l’umanità è stata in grado di “crear-si” il proprio ambiente, grazie al linguaggio. Storicamente, la prima forma di lin-guaggio è stata quella mitologica, in cui ogni aspetto o evento della natura venivaraffigurato in forma animata e personificata. Il linguaggio è poi venuto a svilup-parsi in forme sempre più astratte e ad organizzarsi in strutture grammaticali e sin-tattiche sempre più complesse. La stessa ragione, che è capacità di organizzare in

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164FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

forme e significati sempre più complessi le esperienze degli uomini nella storia, sigenera dal linguaggio. È un modo di organizzazione dei suoi contenuti, perché,come il linguaggio, la ragione nasce dalla spontaneità della vita, esprime la varietàe ricchezza di esigenze e bisogni che nell’uomo storicamente si determinano. Lostesso pensiero logico, quindi, non è altro che una forma complessa di or-ganizzazione dei segni linguistici.

Anche per Karl Wilhelm von Humboldt (1767-1835) come per Herder, l’umanitàsi è formata e realizzata attraverso la storia. Anche il linguaggio, che trae origine dal-l’insieme delle facoltà umane, è un prodotto storico e, nello stesso tempo, un pro-dotto dell’immaginazione e dell’evoluzione spontanea dei diversi popoli, non il frut-to di qualche astratta “convenzione”. Ogni linguaggio ha una sua specificità, che lorende irriducibile agli altri. È come un mondo a sé, che si tratta di comprenderenella sua struttura, nelle sue forme costitutive. Ma è anche una struttura sistemati-ca fortemente connessa col pensiero. La lingua, con i suoi costrutti formali, le sueregole, fornisce un senso ai suoni, che, in quanto tali, ne sarebbero altrimenti privi.

Sulla lingua come fattore fondamentale dell’identità di un popolo e di una nazio-ne insisteranno molti autori del Romanticismo, compresi i nostri Mazzini eManzoni. Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), nei Discorsi alla nazione tedesca,vedrà particolarmente nella lingua l’espressione della cultura e della vita di unanazione, così connaturata ad essa che la sua commistione con quella di un’altra ècapace di snaturare il popolo che non è restato fedele alla sua lingua. Questo ècapitato ai Franchi, popolo germanico che, mescolandosi con il mondo latino, haperso un elemento forte della propria identità. Anche per questo la nazione ger-manica, che ha mantenuto la “purezza” della lingua è superiore a quella francese.

La riforma della logica: la dialettica

Una profonda riforma della logica aristotelica viene tentata dai filosofidell’Idealismo, in particolare da Hegel, in una direzione che è opposta a quella diuna logica formale, e che tende all’unificazione di logica e metafisica. Prima diHegel, Fichte ne anticipa alcuni aspetti col metodo antitetico mediante il qualedescrive il movimento dell’Io, come negazione del non-io da parte dell’Io, e lega-to al principio di contraddizione. L’antitesi sbocca infine in una sintesi (nella qualesi ha il riconoscimento del molteplice, cioè dell’io divisibile di fronte al non-iodivisibile) che costituisce, a sua volta, non la conclusione del processo dell’Io, mala premessa per una nuova antitesi, una nuova opposizione, una nuova sintesi, ecosì all’infinito. Il porre e l’opporre che caratterizzano la vita dello spirito, scan-discono sequenze di un processo senza fine.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) supera le concezioni sia di Fichteche di Schelling. Fichte, a suo parere, ha avuto il merito di comprendere la neces-sità del contrasto, ma ha posto il finito fuori dell’infinito, come suo residuo irri-solto e insolubile (perché l’Io aveva sempre bisogno del non-io). Schelling haavuto il merito di tentare una visione complessiva dell’assoluto come identità dinatura e spirito. Ma ha fornito una visione indifferenziata e indistinta dell’assolu-to, cancellando da esso quelle differenze e opposizioni che costituiscono invece– per Hegel – la dimensione essenziale della realtà.

Hegel propone una concezione triadica della logica (e della realtà).Per lui una comprensione adeguata della realtà richiede il superamento della

logica tradizionale, ancorata ai princìpi di identità e di non contraddizione. Questidifatti ci mostrano ogni cosa pensata come qualcosa di isolato, di separato, nellapropria immediatezza, da ogni altra cosa. In tal modo la cosa stessa (cioè il suoconcetto, come è pensato e definito dall’intelletto) appare come qualcosa di a-stratto, proprio mentre pretende, nel suo isolamento, nel suo mostrarsi come iden-tica a se stessa, di esibirsi come “realtà concreta”. Per Hegel, invece, occorre guar-dare al di là di essa, al legame oppositivo che la unisce a ciò che essa “non è”.Non accettare quindi l’immediatezza del dato concettuale, ma operare unamediazione del pensiero con la quale individuare il legame che unisce un con-cetto a ciò che ad esso si oppone. Il concreto, non è il dato immediato, ma l’unitàdegli opposti, il loro relazionarsi proprio attraverso quell’opposizione, il loro esserciò che sono proprio in quanto momenti conflittuali di un processo più ampio,che li comprende entrambi.

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In altri termini, pensare è porre un concetto ed è, nello stesso tempo, negarlo epoi ricomporre il tutto razionalmente. Mentre l’isolamento concettuale è propriodell’Intelletto, la Ragione è altro: è movimento nel quale viene a rompersi l’iso-lamento dei singoli concetti; “irrequietezza” del negativo, rovesciarsi di una deter-minazione in ciò che la nega, in una “negazione determinata”, ma “il negativo èinsieme anche positivo”, è negazione e superamento di un “contenuto particola-re” dell’intelletto. L’intelletto diviene, in tal modo, interno alla ragione, un suomodo d’essere parziale.

Il terzo momento della dialettica, cioè la ricomprensione dell’unità degli oppo-sti, si afferma come “negazione della negazione”, come affermazione (o meglio,ri-affermazione) del legame necessario, logico-razionale, che stringe quel concet-to col suo opposto. Se il primo momento del processo triadico era intellettuale eil secondo quello della ragione, questo terzo momento è – afferma Hegel – ilmomento “speculativo”: quello della “riconciliazione”, della scoperta dell’unitàfra un concetto e il suo opposto, fra posizione e opposizione, fra tesi e antitesi.

Hegel afferma che la logica è il primo dei tre momenti fondamentali dello svi-luppo dell’infinito. Dunque la logica coincide pienamente con il primo momentodi sviluppo della realtà nel suo farsi. Qui logica e metafisica coincidono piena-mente: niente vi è di più lontano dalla logica intesa come “forma” del discorso.La logica è, per usare l’immagine di Hegel, Dio prima della creazione.

Nella Scienza della logica Hegel analizza le categorie del pensiero, i modi fon-damentali con cui il pensiero pensa la realtà e con cui la realtà (che è in ultimaanalisi pensiero) pensa se stessa. Essa intende quindi ricostruire la trama concet-tuale della realtà, cioè il sistema dei concetti più astratti, delle funzioni universalicon cui il mondo viene pensato.

Ogni concetto, ogni funzione logica, viene analizzata nel suo significato e, attra-verso la dimostrazione della sua incapacità ad abbracciare la realtà nel suo insie-me, viene poi descritta come superamento di sé. I concetti vengono descritti pro-prio come una realtà che, approfondendo se stessa, il suo proprio senso, tende acogliere la propria insufficienza e incapacità ad esaurire la ricchezza di significa-ti possibili della realtà e perciò tende a guardar oltre, a superarsi in un ordine disignificati più comprensivi ed esaurienti.

Hegel compie tale studio attraverso tre diversi livelli di sviluppo e di comples-sità logica, che designa come logica dell’essere, dell’essenza e del concetto.

Un esempio lo fornisce la logica dell’essere, ritenuta da molti un “modello”esemplare della logica hegeliana. Il filosofo parte dalla categoria più astratta,generica, priva di contenuto specifico, per dimostrare che è proprio dalla con-statazione della sua insufficienza che emerge quell’esigenza di superamento deilimiti propria di ciascuna posizione concettuale. L’essere indeterminato, proprioperché è pura indeterminazione, richiama il proprio contrario, il nulla, il non-es-sere. Essere e non-essere vengono così a scambiarsi. Sono opposti e identici altempo stesso. Vengono cioè, in qualche misura, a coincidere in una sintesi con-cettuale, il divenire, nella quale entrambi, essere e non-essere, si pongono inmodo processuale, in quanto il divenire è un passare dall’essere al non-essere edal non-essere all’essere.

L’interpretazione materialistica della dialettica

Di un rovesciamento della dialettica hegeliana (come dialettica storico-sociale,come quella lotta e conflittualità di classe che costituisce il motore della storia) èfautore Karl Marx (1818-1883). Marx riconosce di avere “civettato, qua e là” conHegel, a cui attribuisce il merito di avere posto le forme generali del movimentodialettico della realtà. Ma, riprendendo un’affermazione di Feuerbach, egli sostie-ne di voler “rimettere sui piedi” la dialettica, mentre in Hegel essa aveva un carat-tere meramente speculativo, cioè “si reggeva sulla testa”. Vuole “rovesciarla, perscoprire il nocciolo razionale dentro il guscio mistico”. Vuole descriverla comemovimento e conflitto che nasce dalle contraddizioni fra forze di produzione e rap-porti di produzione nella società. Se Hegel aveva elaborato la “cosa della logica”,Marx, al contrario, vuole indagare e proporre una “logica della cosa”. A una pesan-te impalcatura imposta dall’esterno alla realtà, Marx vuole contrapporre un’indagi-ne che faccia emergere dalla realtà storica e sociale la sua interna dialettica.

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Più tardi Friedrich Engels (1820-1895) proporrà un modello di dialettica dellanatura. Trasferirà cioè il modello dialettico hegeliano-marxiano alla natura ed allescienze della natura. Indicherà tre princìpi della dialettica, che sono a suo parereuniversali (operanti cioè nei processi sociali come nella natura organica e inorga-nica):

1. della conversione della quantità in qualità e viceversa; 2. della relazione reciproca fra gli elementi di una totalità;3. della negazione della negazione.Questa concezione sarà oggetto di forti polemiche. Molti infatti – anche di

orientamento marxista – vi troveranno i segni del permanere di una metafisicamaterialistica sovrapposta alla scienza, contraddicendo gli assunti critici, anti-metafisici, della dialettica di Marx e dello stesso Engels.

La logica nel pensiero positivista

Nel pensiero positivistico, una particolare attenzione alla logica verrà rivoltasoprattutto da John Stuart Mill. Per Auguste Comte (1798-1857), infatti, la logicanon poteva costituirsi come disciplina a sé in quanto non esiste un sistema di rego-le astratte, stabili, esterne alle singole discipline. Metodi e contenuti di una scien-za sono tutt’uno. Le regole dimostrative sono cioè parte integrante dell’indaginescientifica, che è capace di indicare, attraverso i risultati di volta in volta conse-guiti, le vie e le regole per realizzare nuove conquiste conoscitive: come scriveComte, “i risultati di una scienza si trasformano in mezzi logici”.

In John Stuart Mill (1806-1873), invece, è l’impostazione generale della filosofiaad avere un aspetto logico-metodologico. Essa si costituisce, cioè, come logicadell’inferenza. Mill si collega strettamente alla tradizione empiristica. La sua è unalogica dell’esperienza.

È sugli stati di coscienza che opera il ragionamento, o inferenza. L’inferenza fasì che da una serie di esperienze particolari vengano progressivamente ricavati edelaborati degli schemi o princìpi generali, che hanno il loro fondamento ultimonei dati dell’esperienza.

Mill critica sia la logica deduttiva (basata su un procedimento che va dal gene-rale al particolare), sia la logica induttiva (che pretendeva di passare dal particola-re al generale) ed afferma che l’inferenza è sempre costituita da una terza formadi procedimento, caratterizzantesi come passaggio dal particolare al particolare.Essa è il fondamento autentico di ogni deduzione o induzione, in quanto le pro-posizioni o i concetti da noi ritenuti generali non sono altro che un modo per rias-sumere, quindi ricordare, diversi fatti particolari.

Di particolare rilevanza è il tentativo di Mill di fornire basi empiriche (e psico-logiche) alla stessa matematica, riconducendo la formazione dei suoi princìpi(come di quelli della logica) alle operazioni mentali, cioè alle leggi e ai processipsicologici che sono alla loro base. Concepita come teoria logico-empirica, lamatematica ha con Mill un carattere empirico e soggettivo, quindi privo della pre-tesa di una validità assoluta. E questo lo esporrà alle critiche dei logici matemati-ci della fine del secolo.

La logica matematica

Del tutto diversa, infatti, è l’elaborazione che si viene operando in campo scien-tifico, dove si sono poste le basi per la moderna logica matematica.

Ad esempio, Bernhard Bolzano (1781-1848) sostiene che la matematica pura sifonda su verità in sé, che sono tali anche se non sono pensate o espresse da unsoggetto e ne deduce che la dimensione logico-oggettiva dell’esperienza è dotatadi una propria validità indipendentemente dalla conoscenza soggettiva che se nepuò avere.

Le geometrie non-euclidee mettono in crisi la tesi del carattere “intuitivo” ed“evidente” dei princìpi geometrici; costringono a cercare il fondamento di validitàdei procedimenti nella coerenza logica del loro svolgimento rispetto ad assiomiche sono stati privati di quel carattere di assoluta e cristallina “evidenza” – rispet-to alla realtà – di cui avevano goduto sin dall’elaborazione euclidea.

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Analoga svolta concettuale avviene nella matematica. In essa si afferma quel-l’esigenza di una rifondazione logica della disciplina che alcuni grandi matema-tici del secolo precedente avevano già espresso. Il cuore del problema resta quel-lo del rigore dei fondamenti e dei procedimenti matematici, a cui si accompagnala questione della natura degli enti matematici.

Viene attaccato lo “psicologismo” di Stuart Mill e si avanzano nuove esigenzedi rigore nei procedimenti matematici. Alcuni scienziati – rovesciando l’imposta-zione di Mill – identificano la matematica con la logica, giungendo ad una pienaformalizzazione della prima e a una traduzione della seconda in sistemi di simbo-li su cui operare calcoli algebrici.

L’algebra si trasforma in algebra astratta. Da Augustus De Morgan (1806-1871)e George Boole (1815-1864) la logica viene trattata come un particolare calcoloalgebrico, funzionante mediante regole formali relative all’uso di simboli.

Sviluppi ulteriori si hanno con Karl Weierstrass (1815-1897), Richard JuliusDedekind (1831-1916) e Georg Cantor (1845-1918), i quali affermano che la pos-sibilità di uno sviluppo rigoroso della matematica è fornita dalla teoria dei nume-ri reali e ritengono che tale sviluppo possa essere garantito da un’aritmetizzazio-ne della matematica. Si fonda l’aritmetica su alcuni princìpi essenziali e si defini-sce il concetto di “numero naturale” ponendolo su basi ordinali (quelle che in unaprogressione indicano l’ordine degli elementi). Cantor formula la teoria degliinsiemi e ritiene ammissibile il concetto di “infinito attuale”, cioè di una totalitàdata di infiniti elementi.

George Boole, Ernst Schröder (1841-1902) e GiuseppePeano (1858-1932) portano avanti questa linea dielaborazione e costituiscono una disciplina nuova,la logica matematica, grazie all’adozione di unristretto numero di concetti e proposizioniaritmetici.

Jean Arp, Conchiglia, 1966.Locarno, Museo Civico del Castello Visconti.

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168FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

Sviluppi della logica matematica

Proprio questa fortissima accentuazione dell’esigenza di rigore nei procedimen-ti farà emergere l’esistenza di antinomie logiche nella matematica: antinomie cosìforti da apparire come barriere insuperabili. Eppure, grazie alla coscienza di taliantinomie, logici e matematici effettueranno nuove elaborazioni e formulerannonuove ipotesi, che rafforzeranno la consapevolezza e la padronanza concettualedella disciplina.

Ne è esempio l’elaborazione di Friedrich Ludwig Gottlob Frege (1848-1925)che, fra l’Ottocento e il Novecento, cerca di “assiomatizzare” l’aritmetica secon-do un modello simbolico compiuto, avente la pretesa di realizzare una deduzioneformale completa, quindi di fondare la matematica secondo princìpi logici rigo-rosi, ineccepibili. Egli elabora un nuovo linguaggio costituito da simboli capaci diesprimere le principali funzioni logiche, con le quali ricostruire la rete dei concet-ti-base dell’aritmetica, senza dover ricorrere ad alcuna “evidenza” intuitiva.

Frege afferma che l’aritmetica è una “branca della logica” ed assegna un valoredi verità ai procedimenti matematici proprio grazie all’oggettività e al rigore deiprocedimenti logici che li sottendono.

Per Frege la matematica è una scienza oggettiva, che riguarda enti logici, cioè realtàaventi un fondamento non sensibile ma ideale: hanno un carattere oggettivo, unavalidità in sé, indipendentemente dal fatto di esser pensati o meno da qualcuno.

Il numero non è una proprietà empirica delle singole realtà dell’esperienza (non èquindi frutto di intuizione o percezione), ma è un oggetto logico (o “ideografico”) checomprende un insieme di realtà particolari e che non è attribuibile ad alcuna cosa.

Bertrand Russell (1872-1970) riprende da Frege la tesi dell’identità di mate-matica e logica. Ma la logica a cui si riferisce non è più quella tradizionale: è unalogica delle relazioni. La logica tradizionale riduceva ogni proposizione all’enun-ciazione di una “cosa” e delle sue “qualità”. La logica di Russell individua, inve-ce, relazioni che non sono delle qualità (ad esempio, “a viene prima di b” è unarelazione e non una qualità).

Inoltre Russell formula una teoria dei tipi logici. Per essa vi sono tre diversi tipidi concetti: relativi a individui (tipo zero), relativi a proprietà di individui (tipo uno)e relativi a proprietà di proprietà (tipo due). Per evitare antinomie, occorre nonmescolare mai concetti appartenenti a tipi diversi.

David Hilbert (1862-1943) considera i procedimenti matematici come opera-zioni logiche di tipo ipotetico-deduttivo ricavate da sistemi di assiomi ed aventi,come unico fondamento di validità, la coerenza, la non-contraddittorietà e lacompletezza. La struttura logica della matematica viene così completamente for-malizzata: gli assiomi che sono a fondamento di un sistema non debbono esserecontraddittori fra loro e le dimostrazioni derivate da quegli assiomi debbono esse-re operazioni logico-deduttive fondate sul criterio della non contraddittorietà.

Kurt Gödel (1906-1978) affermerà l’impossibilità di fondare la matematica supresupposti non contraddittori, spiegando, infatti, che se si suppone l’esistenza diun sistema non contraddittorio, risulta impossibile dimostrare tale non contraddit-torietà restando all’interno del sistema stesso, utilizzando cioè i suoi mezzi logici.Tale dimostrazione è possibile solo uscendo da questo sistema, inserendolo in unsistema più ampio e comprensivo.

La linguistica strutturale

Profondi sono i mutamenti che si verificano nella teoria linguistica fral’Ottocento e il Novecento.

IL NOVECENTO6

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A differenza della linguistica dell’Ottocento, che aveva studiato i rapporti diparentela e le logiche di trasformazione delle lingue, Ferdinand de Saussure(1857-1913) vede invece nella lingua un sistema avente una propria coerenzainterna, con suoni e significati legati da correlazioni reciproche del tutto origina-li, diverse da altri sistemi.

Il problema è quello di descrivere non solo la dimensione diacronica di un ter-mine (cioè le trasformazioni che quel termine o il suo significato subisce neltempo), ma anche la sua dimensione sincronica, cioè strutturale, il senso specifi-co che a quel termine viene attribuito in un determinato sistema linguistico-comu-nicativo e che gli deriva dall’occupare una certa posizione in una trama di rela-zioni e di significati, in rapporto ad altri segni linguistici.

L’idea che i fatti linguistici dovessero essere considerati globalmente era già statasostenuta, tra gli altri, da F. Schlegel e von Humboldt, ma in de Saussure assumeuna funzione decisiva, da cui deriva ogni altra considerazione sulla lingua.

Il segno linguistico non si definisce solo per la sua forma acustica o per il suocontenuto. Il segno, pur avendo diverse repliche foniche fra parlanti di una comu-nità, è costituito sia da un significante che da un significato, cioè da un’“immagi-ne acustica” (ad esempio un insieme di sillabe pronunziate) e da un “concetto”(ad esempio quello di “cavallo”).

Significante e significato sono indissociabili : essi non esistono se non in virtù delloro legame che è arbitrario, nel senso che né l’uno né l’altro corrispondono a unarealtà precostituita. Un termine può assumere, ad esempio, una molteplicità disignificati o di suoni, a seconda dei contesti diversi di comunicazione fra parlanti.Così pure, in contesti temporali diversi, può variare il suo significato.

Lo stesso avviene con i suoni: in certe lingue le loro differenze sono significati-ve, cioè designano significati diversi e appartengono quindi a fonemi (o famigliedi suoni) diversi; in altre lingue ciò, invece, non accade e diversi suoni fanno partedello stesso fonema, della stessa famiglia.

Le correlazioni che esistono fra i diversi termini di un sistema linguistico sonotanto forti da determinare, quando si verifica un cambiamento in un elemento oin un gruppo di elementi, una successione di modifiche in altre parti di quel siste-ma. Quando cambia anche un solo elemento, l’intero sistema e tutte le unità chelo compongono si modificano.

De Saussure afferma che in ultima analisi è la società il fondamento della linguacome sistema e, quindi, anche del significare, del suo aspetto semantico. Bisognaconsiderare la lingua come un fatto collettivo, sociale. Come modello metodolo-gico lo strutturalismo linguistico influirà – nel corso del Novecento – sull’insiemedelle scienze umane. Il criterio che lo ispira è quello che ogni aspetto della realtà,ogni fenomeno, debba essere studiato non in se stesso, isolatamente rispetto adaltri, ma come elemento di una struttura, cioè a partire dalle funzioni che svolgeall’interno di un sistema coerente di elementi (di una struttura, appunto).

L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss (1908) riprendendo concetti dellostrutturalismo linguistico, afferma che anche le culture, insieme alle lingue, hannouna loro struttura. Ad esse, cioè, presiedono princìpi formali di organizzazioneche sono disancorati da uno specifico contesto storico-sociale e sono ricostruibilimediante tecniche affini a quelle logico-matematiche. Gli aspetti di ciascuna cul-tura sono il prodotto inconscio di una data struttura logico-formale. Lévi-Strauss siricollega, per questo, all’a priori di Kant.

Per Jacques Lacan (1901-1981) l’inconscio stesso è strutturato come un lin-guaggio. Riprendendo i concetti di de Saussure, egli parla di un significante che,pur costituendo un significato, non si riduce ad esso, è qualcosa che va oltre ilsignificato. Tale distinzione è essenziale: l’inconscio ha il suo linguaggio. Anchese si tratta di un linguaggio per il quale non valgono le leggi logiche della co-scienza, esso può sempre essere simbolizzato mediante algoritmi, a partire dallamessa in evidenza di allusioni, silenzi, o uso di figure retoriche (ad esempio, lametonimia e la metafora) nelle quali si manifestano anche fenomeni tipici dellacomunicazione inconscia.

Conta soprattutto come il soggetto parla e meno ciò che dice. La pratica psicoa-nalitica deve seguire le direzioni dei percorsi del soggetto, ma, soprattutto, devedisporsi a cogliere quelle fessure, quelle assenze, nelle quali è possibile avvertire,in qualche misura, la “verità” dell’inconscio, che di per sé non è rappresentabile.

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170FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

Linguaggio, semiotica e teoria dell’azione

Notevole è anche l’influenza che sullo sviluppo della teoria del linguaggio haavuto il pensiero del fondatore del Pragmatismo, Charles Sanders Peirce (1839-1914), per il quale la logica è una semiotica o dottrina dei segni. Tutte le parole ele nozioni sono segni. Il segno è “qualcosa conoscendo il quale conosciamo qual-cos’altro”.

Nell’uso dei segni entrano in gioco tre componenti essenziali: il simbolo, cioè unsegno che sta al posto di qualcos’altro, l’oggetto rappresentato e l’interpretante,inteso a volte come il soggetto che interpreta i segni e a volte come quel segno cheinterpreta il segno simbolico. Il segno sta in mezzo tra l’oggetto rappresentato e l’in-terprete, costituendo, perciò, come un “triangolo” con questi altri due elementi.

Nelle sue operazioni il pensiero utilizza “segni” nei quali si riassumono prece-denti esperienze: per questo i suoi prodotti, cioè gli eventi che permette di preve-dere, sono solo probabili e suscettibili di verifica. Ma la probabilità e la verifica-bilità sperimentale mettono radicalmente in discussione i presupposti di “neces-sità” e “universalità” che sono stati attribuiti alle leggi scientifiche. E mettono indiscussione il meccanicismo della scienza moderna.

Il procedimento logico fondamentale per la conoscenza è l’abduzione, o infe-renza presuntiva, che cerca di risalire dall’effetto a una causa, da una serie di fattiosservati a un fatto ipotizzato, presunto, da cui quelli derivino.

La semiotica troverà una sua compiuta realizzazione nel corso del Novecento e,in particolare, nell’elaborazione di un altro statunitense, Charles Morris (1901-1979). Per lui la semiotica è un indirizzo nel quale lo studio del linguaggio nonriguarda solo i linguaggi scientifici, ma la totalità dei comportamenti umani e delleforme di espressione linguistica, in quanto ogni oggetto può esser segno di qual-cosa d’altro.

La semiotica implica l’esistenza di una triade: il segno (o veicolo segnico), l’og-getto (o designatum, o denotatum) e l’interprete.

Mentre la sintattica si occupa della relazione tra segno e segno (dando luogoalla logica formale), la semantica si occupa, invece, della relazione fra segno eoggetto, mentre la pragmatica si occupa della relazione fra il segno e l’interprete.

Proprio nel campo della pragmatica si ha il contributo innovativo maggiore diMorris rispetto al Neopositivismo. Per lui la semiotica è divenuta una scienza a sé,sganciata dalla filosofia. Quest’ultima si riduce a uno degli oggetti possibili diquella scienza.

La logica come teoria dell’indagine

Una teoria dell’indagine è anche la logica di John Dewey (1859-1952).L’esperienza serve non solo ad apprendere ciò che è avvenuto, ma anche a cam-biare una situazione data, a orientare la condotta in funzione dell’interventoumano nella realtà. L’intelligenza è lo strumento fondamentale per operare in talsenso.

Il compito della logica non è quello di studiare il pensiero come una realtà a sé, madi intendere il funzionamento del pensiero stesso come ricerca, come attività volta atrasformare una situazione da problematica in “chiara, coerente, stabile e armonio-sa”. Perché la ricerca sia in grado di svolgere questo compito c’è bisogno di una teo-ria generale dell’indagine, che si svolge attraverso cinque fasi fondamentali:

1. del dubbio;

2. della formulazione del problema e dell’elaborazione di ipotesi;

3. dell’osservazione e dell’esperimento;

4. dello sviluppo e della rielaborazione dell’ipotesi;

5. della verifica, o collaudo della nuova ipotesi.

Non esistono principi logici assoluti, come non esistono verità assolute. Tutte leteorie, anche quelle scientifiche, sono modificabili, perfettibili, correggibili. Unnuovo Razionalismo deve abbandonare ogni pretesa di assolutezza e di dogmati-cità, se non vuole ricadere nei vizi dei razionalismi precedenti.

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171FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

Linguaggio e pensiero rammemorante

Una posizione del tutto diversa sulla funzione del linguaggio è espressa dal pen-siero del “secondo” Heidegger e dall’ermeneutica.

Martin Heidegger (1889-1976) afferma che occorre cercare l’essere ovunque e,soprattutto, nel linguaggio depositato dal patrimonio della tradizione, dal quale èpossibile cogliere i sintomi e i segni della presenza dell’essere. Contrappone cosìal pensiero calcolante della scienza un pensiero rammemorante e ad un linguag-gio formalizzato e rigoroso un linguaggio filosofico e poetico, descritto come unrecinto (templum) e come la casa dell’essere. Il linguaggio è, nella sua essenza,un “dire originario” che mostra, fa emergere le cose nella loro verità. Il disvela-mento è la verità, l’aprirsi dell’essere nel linguaggio. Ma non in ogni linguaggio(ad esempio, non nel linguaggio logico-matematico), bensì nel linguaggio poeti-co. Solo così l’essere può annunciarsi all’uomo, può improvvisamente chiamarlo.

Anche l’arte – il linguaggio dell’arte – non esprime un’epoca, ma la costituisce.Un’epoca, difatti, è “apertura dell’essere” nel senso che proprio la poesia, il lin-guaggio poetico, viene a costituirla, realizzando un’apertura dell’essere. In altritermini, è attraverso il linguaggio artistico che si può intendere un’epoca. Gli oriz-zonti di significato si pongono come eventi, come un accadere che non è altroche il costituirsi di un linguaggio attraverso l’arte.

Il linguaggio, l’ermeneutica e l’essere

Inoltre nell’età contemporanea si è venuto a riproporre l’antico problema delrapporto fra linguaggio ed ermeneutica, fra linguaggio e interpretazione: il pro-blema cioè di come intendere un dato documento, di come passare da determi-nati segni, in esso contenuti, al loro significato, di come chiarire, rendere traspa-rente, ciò che appare oscuro perché appartenente a un passato sepolto.

L’ermeneutica, da scienza dell’interpretazione di testi e documenti, è venuta acostituirsi come una vera e propria teoria filosofica, nella quale ci si interroga sul-l’uomo, sull’essere e sul senso dell’essere.

Nel pensiero di Hans Georg Gadamer (1900) il problema ermeneutico del lin-guaggio si incrocia con quello della storia, della tradizione.

Per Gadamer “la coscienza dell’individuo non costituisce un centro autosuf-ficiente, isolato rispetto alla realtà della storia che lo circonda: fa parte del mondo,con cui comunica mediante il linguaggio” (Bodei). Gadamer respinge la tesi dellaconvenzionalità del linguaggio o quella che vi ha visto come un insieme di segnirappresentativi, di immagini della realtà. Il linguaggio è radicato costitutivamentenella nostra esperienza delle cose, tanto che senza linguaggio non potremmo nem-meno avere quell’esperienza delle cose, in quanto il nostro “incontrarci” con esseè un fatto “linguistico”: “l’essere che può venir compreso è linguaggio”, scrive.

Inoltre, la comprensione dell’essere si dà nella tradizione storica e questa nonpuò darsi che come linguaggio, può essere interpretata solo come linguaggio. Ognirappresentazione della realtà è un “dire” la realtà stessa, anche quando essa vienerappresentata e “detta” come “esterna” ed “estranea” a coloro che ne parlano.

Il linguaggio è produzione di senso, è prospettiva da cui la realtà viene storica-mente detta e interpretata, attraverso una molteplicità e una successione di puntidi vista che ne arricchiscono progressivamente il significato.

L’ermeneutica del simbolo

In Paul Ricoeur (1913) si ha invece un’ermeneutica del simbolo. Egli distinguefra segni e simboli. I segni svolgono una funzione comunicativa, in quanto con-tengono significati univoci. I simboli, oltre a possedere un contenuto linguistico,offrono la possibilità di esplorare il senso dell’esistenza umana e della trascen-denza. Essi contengono, oltre a un senso diretto, esplicito, un “senso indiretto,secondario, figurato”, verso il quale il primo costituisce comunque una via diaccesso. L’interpretazione è decifrazione dei significati che si nascondono neisensi apparenti. L’interpretazione è solo in quanto vi sono i simboli, con la plu-ralità dei significati possibili che contengono. È lavoro paziente e sempre apertodi ricerca, nel quale occorre sempre evitare conclusioni definitive, interpretazioniultime e, soprattutto, “totalizzanti”.

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172FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

Esempio delle possibilità che il linguaggio simbolico offre all’interpretazione èla metafora, che è, di per sé, trasgressione nei confronti dell’uso normale del lin-guaggio: una trasgressione che esprime lo sforzo umano di auto-trascendimento,di ricerca e apertura di prospettive nuove.

Testimonianza di tale sforzo di auto-trascendimento sono, in particolare, i sim-boli del linguaggio della religione, del mito o della poesia.

In tal senso, solo in tal senso, il linguaggio è oggetto dell’ermeneutica, cioè diinterpretazioni e di conflitti di interpretazioni.

Il decostruzionismo nella scrittura

Una posizione critica nei confronti di tale fiducia nelle possibilità ermeneutichedi ricostruzione dell’intenzionalità originaria di un testo è invece espressa dal fran-cese Jacques Derrida (1930), il quale, riprendendo la tesi heideggeriana della dif-ferenza ontologica fra essere ed enti, conclude con l’impossibilità di intenderel’intenzionalità, il senso autentico di un testo attraverso la scrittura. È infatti fallital’idea di poter attingere alla “pienezza dell’essere” attraverso la parola, il linguag-gio, col suo fono-logocentrismo. Derrida rivendica il primato della scrittura, chenon è lettera morta, degradazione del parlato, ma oggettività non pienamentericonducibile al soggetto. Dell’intenzionalità, come dell’essere, abbiamo solotracce, indizi. Tracce e indizi che troviamo nella scrittura, non nella comunica-zione orale. È solo mediante una grammatologia, una scienza della scrittura, chepossiamo cogliere quegli indizi del manifestarsi e dileguarsi dell’essere. Lo scrittoè un corpo di testi e di segni che rinvia ad altro da sé, oggetto di un gioco infini-to di interpretazioni e rimandi, di scarti e differimenti (differance).

La posizione di Derrida è decostruzionista. La scrittura contiene solo traccedella vita passata, incapaci di comunicare con la “parola vivente”. “Decostruirla”vuol dire analizzarne l’irriducibile differenza, riconoscere che il significato è indi-viduabile solo come traccia e parzialità.

Con la scrittura è impossibile un dialogo ermeneutico. Ritenere – come ha fattoGadamer – che tale comunicazione sia possibile, vuol dire, di fatto, rimuoverequell’alterità costitutiva, occultare il fatto che l’interpretazione non è altro, inrealtà, che un’omologazione del testo a un “soggetto”.

L’intenzione significativa del testo resta quindi – per Derrida – sempre qualcosadi irriducibile alla presenza del soggetto interpretante. La gadameriana “fusione diorizzonti” è per lui impossibile.

L’identificazione fra logica e linguaggio

Nello scenario delle teorie logiche e linguistiche del Novecento occupa unposto di grande rilievo la concezione scientifica del mondo del Neopositivismo,che si muove al di là del Positivismo. Da un lato fa riferimento all’esperienza, dal-l’altro intende compiere un’analisi del linguaggio scientifico, rendendolo più rigo-roso e coerente e depurandolo da ogni residuo metafisico.

Il nucleo costitutivo della filosofia e delle scienze è il linguaggio. La filosofia s’i-dentifica con una critica del linguaggio. Non è quindi un insieme di conoscenze,ma un insieme di operazioni, di atti legati alla determinazione del senso delle pro-posizioni scientifiche. In quanto tale è logica della scienza. Non è scienza, mariflessione critica sulla scienza, sul linguaggio della scienza. È un metodo. Nondice alcunché di nuovo, perché è indagine sui fondamenti logici delle proposi-zioni scientifiche.

Decisivo – in tal senso – è stato il contributo del pensiero di LudwigWittgenstein (1889-1951) con il Tractatus logico-philosophicus. Per Wittgensteinla filosofia è, essenzialmente, analisi del linguaggio. Ad essa spetta un compito dichiarificazione linguistico-concettuale, cioè quello di spiegare il significato delleproposizioni, di tracciare i limiti del pensiero, individuando i confini tra ciò che èpensabile e dicibile e ciò che non lo è, sulla base dei requisiti logici che deveavere ogni uso significante del linguaggio. Essa è quindi un’attività, non un siste-ma teorico.

Quali sono le condizioni in base alle quali il linguaggio è dotato di senso?Questo il problema al quale Wittgenstein vuole dare risposta.

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173FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

Nel Tractatus il pensiero è identificato con il linguaggio, cioè con l’insieme delleproposizioni dotate di senso. Non esiste, cioè, una dimensione del “pensiero”mediatrice fra parole e fatti, fra linguaggio e realtà. La lingua è intesa comerappresentazione del mondo: si assume dunque che tra parole e cose vi sia unaperfetta adeguazione logica, un perfetto isomorfismo. Il fondamento gnoseologi-co del Tractatus è empiristico: si può parlare solo di ciò che costituisce un fatto,ma i fatti linguistici possono raffigurare i fatti della realtà solo attraverso regole benprecise, cioè mediante una sintassi. Infatti, le proposizioni atomiche (legate aifatti) sono originariamente indipendenti l’una dall’altra, ma sono collegate fra loromediante operazioni logico-formali regolate da princìpi ben definiti (e da connet-tivi logico-grammaticali del tipo “se... allora...”, oppure “e”, “o”) e danno luogo aproposizioni molecolari, il cui valore conoscitivo è determinato dalla loro matri-ce originaria, dai fatti atomici.

Un altro tipo di proposizioni, quelle della logica, è costituito da proposizioni che,invece di descrivere fatti, indicano le regole e i simboli che le costituiscono. Sonodelle tautologie, proposizioni sempre vere indipendentemente dai fatti perché nondicono nulla del mondo, non raffigurano fatti. Mentre le proposizioni elementari e-sprimono la “forma” dei fatti, un loro modo d’essere possibile, e sono vere soloquando i fatti le confermano, le proposizioni tautologiche sono vere indipendente-mente dalla conferma dei fatti.

Con tale radicale distinzione fra le proposizioni delle scienze empiriche e quelledella logica e della matematica, Wittgenstein priva gli enti matematici del carattere“ontologico” (cioè del carattere di vere e proprie “realtà” logiche, di tipo platonico)che avevano loro attribuito Frege e Russell. E mentre le proposizioni molecolari,quelle che descrivono fatti, possono essere false, le proposizioni della logica sonosempre vere.

Alla ricerca del linguaggio “perfetto”

Grande importanza ha avuto, per la nascita del Neopositivismo, la prima ela-borazione di Wittgenstein. Per buona parte dei filosofi della scienza del Novecentole conoscenze scientifiche, pur poggiando su basi empiriche, vengono “costruite”attraverso un linguaggio logico-formale e trattate in termini di protocolli. Questisono enunciati a cui si attribuisce un carattere “oggettivo”, non sono cioè legatialla percezione dei singoli individui, ma sono considerati all’interno di undeterminato sistema logico-concettuale.

Vengono scartati del tutto i kantiani giudizi sintetici a priori e si ripropone, inlinea di massima, la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, già teorizza-ta nell’età moderna da Leibniz e altri pensatori.

Rudolf Carnap (1891-1970) parla di costruzione logica del mondo. È compitodella filosofia analizzare il linguaggio della scienza e operare la riduzione delleproposizioni generali alle proposizioni verificabili, realizzando una ricostruzionerazionale della realtà, di ogni tipo di realtà, fisica o psichica, attraverso un sistemadi concetti rigorosamente definiti, riportati in proposizioni che possano esseresistematicamente verificate.

Nella “svolta fisicalista” del Neopositivismo la fisica diviene come il modello perla costruzione di una scienza unificata. La scienza, afferma Otto Neurath (1882-1945), non è che l’insieme degli enunciati significanti che non ha bisogno di fareriferimento ad alcun piano prelinguistico.

La scienza si basa su un linguaggio rigoroso, regolato da princìpi logici, anzi siidentifica con quel linguaggio, da cui viene eliminato ogni riferimento all’“io” oal “tu”, alla soggettività. Tale linguaggio deve essere oggettivo, deve cioè registra-re non i dati sensoriali, ma gli oggetti materiali e le loro proprietà osservabili.

Carnap parla, in tal senso, di materialismo metodico, cioè di un approccio chenon riguarda l’“essenza” della realtà quanto la riduzione, cioè la traduzione deidiversi linguaggi nel linguaggio fisicalista, in modo da rendere i protocolli origi-nari validi per tutti i soggetti, proprio come sono quelli della fisica.

A partire da queste proposizioni, la scienza si costituisce soprattutto come svol-gimento e strutturazione rigorosa di enunciati in base a regole linguistiche. La stes-sa filosofia si traduce in un’analisi formale del linguaggio, cioè in uno studio costan-te della sintassi logica che regola il linguaggio delle scienze, delle regole di tra-

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174FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO E LOGICA

sformazione delle loro proposizioni. In tal modo essa risolve l’analisi teorica in unmetalinguaggio (cioè in un linguaggio attraverso cui sia possibile parlare di un altrolinguaggio). Questo è un discorso che attiene alla sintassi logica che ogni scienza,quindi ogni linguaggio particolare (o linguaggio-oggetto), deve possedere.

In tale contesto Carnap ripropone la tesi della convenzionalità del linguaggioscientifico, a cui collega un principio di tolleranza: si è liberi di scegliere un datolinguaggio e una data logica, ma occorre poi garantire la coerenza di tutti iprocedimenti alle scelte inizialmente compiute, rispettando rigorosamente i crite-ri e le regole che ci si è assegnati.

La teoria dei giochi linguistici

In una seconda fase del suo pensiero Wittgenstein si rende conto dell’insosteni-bilità della posizione che poneva come modello linguistico la “purezza cristalli-na” della logica e che era legata a criteri di estremo rigore logico-formale. Si con-vince, in particolare, che non basta il linguaggio ideale della scienza, ancorato alrispecchiamento dei fatti atomici e alle tautologie, a spiegare la ricchezza e l’arti-colazione delle conoscenze, o a spiegare la stessa produzione di conoscenze.

Non è più il linguaggio “ideale” della logica ad essere al centro dell’analisi, maè il linguaggio comune, quotidiano. Al centro vi sono le regole del linguaggio ditutti i giorni. Esso non può essere ricondotto a una struttura formale unitaria, masi caratterizza per una molteplicità di pratiche linguistiche.

Non c’è più un linguaggio “perfetto”, l’unico realmente significativo: il linguaggioraffigurativo è solo uno fra gli infiniti linguaggi possibili. È un denominare. Vi sono,però, proposizioni con cui non denominiamo affatto, ma compiamo atti con i qualisvolgiamo una molteplicità di funzioni e facciamo le cose più varie. Questa molte-plicità di modi di usare le parole è dettata da motivi pratici, non teoretici, perché illinguaggio è prima di tutto un mezzo di comunicazione che si lega alla vita e alleattività dell’uomo.

Dietro ogni uso linguistico vi è una particolare forma di vita.Le parole sono strumenti il cui significato varia col variare delle regole che vigo-

no in un linguaggio e della funzione che i termini debbono assolvere. Quella plu-ralità di pratiche linguistiche sono denominate giochi linguistici. Anche la mate-matica è un gioco linguistico, fondato su date regole che si è chiamati a rispetta-re. Il problema, in un determinato sistema di significati o “gioco” linguistico, saràquello di rapportare l’uso dei termini alle regole a cui dovrebbe ispirarsi e verifi-care tutte le scorrettezze, cioè tutte le incongruenze e contraddizioni che si deter-minano in quel sistema linguistico. Non vi è una logica esatta e rigida del nostrolinguaggio. Vi è, invece, una pluralità di paradigmi logici e di modelli grammati-cali, relativi ad ogni gioco linguistico e che hanno parentele tra di loro.

Alla “cristallina purezza” della logica si sostituisce la centralità dei nostri biso-gni, che mutano col mutare degli scopi che ci prefiggiamo.

Se il linguaggio è “gioco linguistico”, la filosofia è strumento di analisi e com-prensione del linguaggio, capace di coglierne i presupposti e di mettere, con essi,in discussione le presunzioni dogmatiche: “è una battaglia contro l’incantamentodel nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio”.

La filosofia come analisi degli atti linguistici

Questa svolta teorica di Wittgenstein favorirà lo sviluppo di una pluralità di indi-rizzi teorici, raggruppati col termine di filosofia analitica. Su tali indirizzi, oltre aWittgenstein, notevole influenza eserciterà il lavoro teorico di George EdwardMoore (1873-1958) volto a compiere un’analisi degli atti linguistici.

Anche la filosofia analitica – come il Neopositivismo – studia i problemi filoso-fici soprattutto nel loro aspetto linguistico-concettuale e attribuisce alla filosofiasoprattutto compiti di ricerca e chiarificazione concettuale, da svolgere median-te analisi minuziose, rigorosamente controllabili, riguardanti il linguaggio scienti-fico o il linguaggio comune.

La filosofia analitica si occupa non del significato dei termini (cioè della corri-spondenza fra termini linguistici ed elementi della realtà), ma del loro uso e dellacorrettezza di tale uso rispetto alle regole prescritte dal sistema linguistico di cuiessi fanno parte.

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L’analisi logico-linguistica ha il compito di risolvere problemi, anche problemiconnessi all’uso linguistico di termini nelle proposizioni della metafisica, che ilprimo Neopositivismo aveva considerato del tutto prive di senso. L’uso delle paro-le, in ciascun “gioco linguistico”, è dettato dalle regole interne al gioco stesso.Alfred Jules Ayer (1910-1989), ad esempio, afferma che la filosofia deve averecome oggetto non le cose, ma il modo in cui ne parliamo.

Di qui anche l’interesse per una grande varietà di discipline, per i loro linguag-gi e significati: dall’etica alla politica, dal linguaggio della vita quotidiana alla psi-cologia, alla matematica, alla storiografia e alla religione.

Gilbert Ryle (1900-1976), ad esempio, cerca di porre in evidenza gli errori logi-ci che – a suo parere – sono stati compiuti nella storia del pensiero mediante l’as-segnazione di un concetto a una categoria (o tipo logico) diversa da quella a cuiil concetto stesso effettivamente appartiene e che possono produrre, quindi, gravifraintendimenti di ordine teorico. Egli ha così costruito delle vere e proprie mappelogiche, cioè sistemi di regole da cui derivare la correttezza o l’erroneità di deter-minate proposizioni.

La tecnica analitica di Ryle si basa su procedimenti di riduzione all’assurdo,mette cioè in evidenza le conclusioni errate, incoerenti, in cui si può incorrere neiprocedimenti con cui deduciamo, da gruppi di proposizioni ritenute “valide”, altrigruppi di proposizioni. Ad esempio, egli descrive come un errore lo sforzo carte-siano di dare carattere ontologico, di “sostanza” (o res cogitans), al pensiero. Èstato un “mito filosofico” quello che Cartesio ha prodotto assegnando alla menteuna consistenza ontologica e accettando una prospettiva dualistica mente-corpo.Un errore speculare egli denuncia a proposito del materialismo, che identifica ledue res, riportando la “cosa” mentale a quella fisica.

Per John Langshaw Austin (1911-1960), il linguaggio ordinario costituisce unoggetto di studio molto più ricco e significativo di quelli offerti dai saperi alta-mente formalizzati.

Inoltre – a differenza di altri studiosi della scuola analitica – Austin afferma cheoccorre individuare, nel linguaggio, non solo le parole e i nessi logici, ma anchele cose a cui le parole stesse si riferiscono come al loro significato.

Afferma inoltre che occorre evidenziare non solo il carattere descrittivo del lin-guaggio, ma anche quello operativo. Egli parla quindi della necessità di valoriz-zare adeguatamente la funzione performativistica del linguaggio (dal verbo ingle-se to perform, che significa “eseguire”), nella quale il linguaggio si configura comeun fare, legato all’azione e all’esecuzione di atti. E mentre gli enunciati constati-vi constatano dei fatti e come tali li descrivono, e possono essere veri o falsi, glienunciati performativi compiono azioni e, in tal modo, non sono tanto veri o falsiquanto efficaci o inefficaci, possono cioè avere o no successo, realizzarsi o meno.

Successivamente elabora una più compiuta teoria degli atti linguistici, secondola quale ogni espressione linguistica è un “atto”.

Così egli distingue tre possibili e distinti aspetti di un atto linguistico: l’atto locu-tivo (con cui si dice qualcosa dotato di significato), l’atto illocutivo (che è un attoeffettuato col dire qualcosa) e l’atto perlocutivo (che è l’atto provocato per il fattodi dire qualcosa, col quale si mettono cioè in evidenza gli effetti sugli interlocuto-ri che un atto linguistico ha determinato).

Non si può da ultimo dimenticare il contributo fondamentale di Michael A. E.Dummett (1925), che ha insistito sull’importanza della comprensione del lin-guaggio, quindi sulla necessità di costruire un modello del modo in cui si com-prendono gli enunciati che si usano. Secondo Dummett la comprensione delsignificato di un enunciato equivale alla comprensione delle sue condizioni diverificazione. Questa sua riflessione ha avuto una vasta eco ed ha animato il dibat-tito teoretico contemporaneo, in particolare sulle nozioni di senso, significato eduso.

Nel vastissimo – e sempre più articolato e specialistico – campo degli studi logi-co-linguistici resta sempre aperto il problema della molteplicità delle forme divita, degli orizzonti di significato che il linguaggio e lo stesso linguaggio dellascienza offrono all’uomo.

È una delle sfide teoretiche di fondo con cui si misura il pensiero filosofico oggi.

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FILOSOFIA E SCIENZA

Che cosa intendiamo per scienza

Limitandoci, per ora, a una definizione di “senso comune”, possiamo intendere per scienza un sape-re teorico che organizza ed unifica i dati dell’esperienza mediante metodologie definite, rigorose everificabili.

In un’accezione più ristretta e tradizionale, con il termine di “scienze” si intendono solo quelle mate-matiche e naturali. Ma in una visione più ampia (che facciamo nostra) quel termine è da attribuireanche alle scienze umane e storico–sociali.

■ Più che per altri saperi vale per la scienza la raccomandazione di fare attenzione a distinguere benei significati che la parola “scienza” ha assunto nel corso della storia del pensiero occidentale. Il signi-ficato che attualmente le attribuiamo è relativamente recente, poiché risale al XVII secolo.Antecedentemente a questo secolo il significato di “scienza” era ben diverso dal nostro.

Nella cultura greca il temine epistéme, cioè scienza, da Platone era attribuito alla “dialettica”, cioèalla filosofia; Aristotele parlava di scienze, ma con significato ben diverso da quello moderno. Intantoperché diceva che la scienza è conoscenza dell’universale e del necessario; inoltre, la sua “fisica” avevaben poco a che vedere con la scienza fisica moderna ed era piuttosto una filosofia della natura; infine,al sommo delle scienze, egli metteva la metafisica.

Nel Medioevo Tommaso d’Aquino affermava che la teologia era scienza. Dunque, scienza era sinonimo di sapere vero, autentico, al più alto grado, ma spesso lo si identifica-

va con la filosofia, non con la “scienza”.

■ L’intera storia della filosofia si è misurata con i problemi del sapere scientifico e dei suoi fonda-menti, anche se è solo nel Novecento che lo sforzo di realizzare una consapevolezza metodologicadella ricerca scientifica si è affermato come epistemologia, cioè come disciplina che riflette sulle carat-teristiche specifiche della conoscenza scientifica e sui modi della sua evoluzione.

Alcuni interrogativi

■ In una indagine sulla riflessione filosofica della scienza, è importante comprendere, nei diversiperiodi storici:

a. il valore che è stato attribuito alla scienza nella gerarchia del sapere;b. quali siano stati i modelli di sapere scientifico a cui si è fatto – in prevalenza – riferimento;c. quale sia l’immagine del mondo che viene fornita – di volta in volta – da un determinato modello

di scienza;d. quali siano le fonti conoscitive (la ragione? l’esperienza? entrambe?) attribuite alle diverse scienze;e. quali siano, infine, i metodi ritenuti più efficaci per la promozione e lo sviluppo delle diverse scienze.

■ Vi sono altre domande-chiave che investono il significato e la funzione delle scienze, il loro rap-porto con la filosofia e con l’esistenza stessa dell’uomo e che potrebbero essere così formulate:

• Quale è lo statuto della scienza come sapere? Che cosa lo contraddistingue rispetto a quello deglialtri saperi?

• In particolare, come si possono spiegare quei momenti cruciali della sua storia che sono le rivolu-zioni scientifiche?

• Ed inoltre, che cosa distingue il sapere della scienza da quello della filosofia? Quindi, che cosa distin-gue le domande di ciascuna delle due forme di conoscenza?

• Ed infine, qual è il significato della scienza per la vita dell’uomo?

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

176FILOSOFIA E SCIENZA

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■ Nella riflessione sulla scienza un aspettocentrale è costituito dalla questione del suorapporto con la filo-sofia, soprattutto apartire dall’età moder-na, nel corso dellaquale la scienza èvenuta assumendoquei caratteri concui oggi la definia-mo. Quel rapportoha spesso assunto laforma dell’antagonismo, dell’affermazione di una superiorità dell’una sull’altra.

Si tenga presente che storicamente, diverse scienze sono nate proprio dalla filosofia e si sono pro-gressivamente rese autonome da essa, come mondi – è stato detto – che si siano venuti a mano a ma-no staccando da una nebulosa primitiva.

■ Riconosciuto, però, alla filosofia questo suo ruolo originario di “madre” delle scienze (cioè dellescienze più antiche) resta aperto il problema se oggi – nella “società tecnologica e scientifica” – il ter-reno del sapere non sia stato del tutto occupato dalle scienze stesse, che sembrano avere invaso tuttigli aspetti della nostra esistenza. Nel Novecento (e nel secolo scorso) diversi filosofi hanno sostenutoquesta tesi, traendone la conseguenza che alla filosofia resterebbe solo il compito di classificare, colle-gare e coordinare i risultati delle scienze in sintesi unificanti, in “immagini del mondo”; o quello di ana-lizzare e chiarire i linguaggi usati dalle scienze.

In questa prospettiva la filosofia sembra relegata ad un ruolo ancillare, rispetto alle scienze.

■ Ma vi sono questioni – ad esempio quelle legate alla fondazione logico–concettuale delle scienze,alla loro rilevanza etica – nelle quali anche la filosofia ha qualcosa da dire. Si pensi – solo per fare unesempio – a tutte le questioni poste dalla possibilità di manipolazione biologica dell’essere umano, pernon parlare delle drammatiche domande che da Hiroshima e Nagasaki sono state poste sull’uso dell’e-nergia atomica per la costruzione di bombe.

■ In conclusione, quali sono i confini che delimitano i rispettivi campi tra filosofia e scienze (e trascienza e religione)? Avverranno altre rivoluzioni scientifiche? Quale meccanismo le innescherà? È pre-vedibile che lo sviluppo scientifico perpetui un rapporto di antagonismo con filosofia e religione? Lafilosofia scomparirà come discorso ormai inutile e insignificante?

177FILOSOFIA E SCIENZA

Eduardo Chillida:Enclume de Rêve, 1962.Basilea, Kunstmuseum.

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178FILOSOFIA E SCIENZA

Nella filosofia antica, il termine-chiave con cui si definisce il concetto di “scienza”è quello di epistéme, che però, come si è detto in precedenza, spesso non è relativoalle “scienze”. Va tenuto conto del fatto che il concetto di scienza è stato espressocon diversi altri termini e che, ad esempio, il termine téchne è stato frequentementeusato dai Greci anche come sinonimo di “sapere scientifico”, attinente a una disci-plina determinata (ad esempio, mousiké téchne).

Le prime scienze greche

È difficile individuare, nella scienza greca delle origini, caratteri distintivi rispetto aquella delle civiltà antiche.

I primi filosofi rielaborano il patrimonio di conoscenze prodotto dalle anticheciviltà dell’Oriente e lo trasformano in un sistema di idee e di procedure di ricercapiù essenziale, astratto e razionale, al punto da meritare, secondo alcuni, il titolo difondatori della prima forma di pensiero scientifico. Ma le loro riflessioni scientifiche(e le loro figure di scienziati) non possono essere considerate indipendentementedalle teorie filosofiche.

Cominciano, comunque, a evidenziarsi alcuni campi autonomi di indagine e que-sti portano rapidamente al costituirsi, nel V e nel IV secolo, di saperi specializzati.Esempi significativi sono forniti dalla matematica, dall’astronomia, dalla medicina edalla storiografia.

Ai Greci spetta, ad esempio, il merito di aver dato alla matematica e alla geometriaantiche quel rigore teorico, cioè quell’impalcatura concettuale e quei procedimentidimostrativi che fino ad allora esse non avevano.

Nel campo della medicina è con la scuola ippocratica di Coo che viene elaboratoe messo in opera un avanzato metodo d’indagine, nel quale trovano posto sia l’e-sperienza che il ragionamento. In tale impostazione, i ragionamenti compiuti senzaalcun sostegno dell’esperienza raramente vengono considerati utili; per altro verso, lasola esperienza, senza modelli teorici e interpretativi, non viene ritenuta capace diaffrontare con successo i problemi della diagnosi e della cura delle malattie.

Nel V secolo si afferma inoltre – con Erodoto e Tucidide – la scienza storica, nonpiù come racconto di leggende, ma come spiegazione di vicende e situazioni delpassato.

Scienza e sapienza nella prima riflessione filosofica

Una prima – evidente – connessione fra ricerca scientifica e riflessione filosoficaviene dal Pitagorismo. I Pitagorici erano convinti che la struttura fondamentale del-l’universo fosse di carattere matematico: e questa tesi avrà una profonda influenza suifondatori dell’astronomia moderna, i quali ne deriveranno l’idea che l’universo siaricostruibile attraverso formule e modelli geometrici. L’aritmo-geometria pitagorica,l’idea cioè di una corrispondenza strettissima fra numero e figura geometrica, entreràin crisi con la scoperta delle grandezze incommensurabili e con la constatazione del-l’apparente inconciliabilità fra infinita divisibilità dello spazio geometrico e la finitez-za delle unità numeriche.

All’enciclopedismo scientifico dei Pitagorici (o polymathía, multiscienza), e più ingenerale al sapere scientifico, si oppone una visione sapienziale del sapere, che saràricorrente nella storia del pensiero, di cui sono esponenti sia Eraclito (seconda metàdel VI sec. a.C.) che Parmenide (VI-V sec. a.C.) che rimproverano alla “scienza” l’in-capacità di cogliere la realtà (il lógos o l’essere).

Nella pólis del V secolo si afferma – insieme a una visione nuova del soggettoumano – anche l’idea di una razionalità della realtà umana, constatabile nei diversisaperi e nelle “leggi” che regolano la vita dell’economia, della società e dello Stato.

Anassagora (496-428 ca. a.C.) e Democrito (460 ca. – 370 ca. a.C.) da un lato, iSofisti dall’altro, valorizzano soprattutto le conoscenze capaci di conseguire risultatiutili all’uomo, delineando anche un’idea di progresso dettata da tale visione delle

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scienze, intese soprattutto come téchnai, cioè saperi applicati e produttivi. Per il natu-ralista Anassagora, ad esempio, “il Sole è pietra e la Luna è terra”, con una visione u-nificata dei mondi celeste e terrestre che urterà la cultura tradizionale. Democrito, asua volta, sviluppa tale visione unitaria – basandola sull’atomismo – mediante una raf-figurazione compiuta dell’universo, nella quale ogni evento si verifica in base a princì-pi di causalità meccanica, nella quale intervengono solo gli atomi e lo spazio.

Valore e limiti delle possibilità conoscitive della scienza

Socrate (470/469 – 399 a.C.) riconosce che – dopo le prime suggestioni ricevutedall’insegnamento di Anassagora – ha respinto l’idea di dedicarsi alle ricerche natu-ralistiche, incapaci di fornire risposte alla ricerca sul significato della vita umana.

Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.), invece, apprezza – entro certi limiti – il ruolo posi-tivo che la scienza svolge nella vita dell’uomo. Egli guarda soprattutto all’utilità delleconoscenze applicate nei diversi campi della produzione. Ma è soprattutto nellamatematica che la considerazione platonica della scienza assume una connotazionepositiva. La matematica è, infatti, considerata – nell’Accademia platonica – una cono-scenza di tipo superiore proprio perché è capace di una comprensione dei problemiad un alto livello di generalità. Essa è concepita come disciplina formale, legata aconcetti depurati dalla particolarità e variabilità dell’esperienza sensibile e a proce-dure dimostrative rigorose.

La scienza (ma Platone parla di diánoia, pensiero discorsivo), comunque, mostraun’ambivalenza di fondo. Ci permette, infatti, di guardare al di là del mondo sensi-bile, della realtà apparente del mondo del divenire e, attraverso lo svolgimento diargomentazioni razionali, ci aiuta nello sforzo di comprendere la realtà delle cose.Ma poggia su premesse non dimostrabili, ipotetiche, che assume come base di par-tenza per lo svolgimento delle argomentazioni razionali (qui sta la discorsività) pergiungere a determinate conclusioni. Questo è il suo limite, in quanto è incapace direndere ragione di quelle premesse ipotetiche. La filosofia è invece espressione di unprocedimento dialettico che permette di conoscere ciò che ciascuna cosa effettiva-mente è. Pur riconoscendone l’importanza conoscitiva, Platone sottolinea quindi lasubordinazione del sapere scientifico al sapere filosofico.

Un esempio di sapere solo “verosimile” (quello della scienza), ma non compiuta-mente “vero” (come è quello dell’epistéme filosofica) è testimoniato dal Timeo, nelquale si esprime un importante tentativo di applicazione del sapere matematico alleconoscenze naturalistiche dell’epoca. In esso, infatti, attraverso le varie forme geo-metriche il filosofo cerca di spiegare la struttura costitutiva della natura. L’universoviene plasmato dal Demiurgo, cioè da una specie di artigiano divino, ed esprime unordine matematico, poiché matematico-geometriche sono le strutture della natura.

Platone afferma poi un principio di spiegazione di tipo finalistico, in quanto descri-ve i processi della realtà come orientati da fini, cioè da cause prime, in vista del“bene dell’insieme”. Il Timeo avrà una profonda influenza sulla scienza successiva,in particolare su quella medievale.

Autonomia dei saperi e aspetti della fisica aristotelica

Con Aristotele (383-322 a.C.) si afferma il valore primario dello studio e della cono-scenza disinteressata. Tale conoscenza è dettata dal “puro amore del sapere”, è attivitàin cui si dispiega la razionalità (che distingue l’uomo dagli altri esseri viventi). Aristotelemira a realizzare una compiuta sistemazione dei saperi scientifici. Egli riconosce l’au-tonomia e la diversità dei saperi “scientifici” e si pone inoltre il compito di giustificar-le in sede teorica. Ogni scienza individua il proprio oggetto d’indagine e si basa suprincìpi che costituiscono la premessa e il fondamento delle sue dimostrazioni.

La scienza è per Aristotele l’indagine sul perché, cioè sulle cause delle cose: infat-ti, si ha scienza delle cose quando se ne conosce il perché. Questo modello di scien-za perdurerà nella cultura occidentale fino al XVIII secolo.

La scienza ha per oggetto l’universale e il necessario ed è caratterizzata dalla dimo-strazione. Questa ha un carattere eminentemente deduttivo, poiché ogni scienza ètale solo in quanto si basa su princìpi generali che costituiscono le premesse di proce-dimenti dimostrativi condotti secondo rigorose sequenze logico-argomentative.Queste vanno dal generale al particolare (sono, in tal senso, deduttive) e permettonocosì di collegare gli eventi e i processi concreti della realtà alle loro cause generali.

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180FILOSOFIA E SCIENZA

Anche se parla di una enciclopedia delle “scienze”, che comprende le scienze poie-tiche (le tecniche) e quelle pratiche, è al livello delle scienze teoretiche, che hannoper oggetto il sapere per il sapere (e sono quindi del tutto disinteressate), che sta, perAristotele, la vera scienza.

Ma al culmine del sapere teoretico c’è la “filosofia prima” o “teologia”, che attie-ne alla realtà nella sua generalità. Accanto alla metafisica (l’altro nome della filoso-fia prima) vi sono anche la matematica e la fisica.

La matematica riguarda gli aspetti quantitativi della realtà. In essa i numeri vengo-no considerati come enti astratti, ricavati dalla mente per astrazione.

La fisica (che con la fisica moderna condivide solo il nome) attiene a diverse scien-ze (biologia, astronomia, fisica, ecc.) e riguarda gli aspetti qualitativi della realtà, inparticolare i diversi tipi di movimento: locale (di traslazione), qualitativo (di alterazio-ne), quantitativo (di aumento/diminuzione) e sostanziale (di generazione/corruzione).Alla rappresentazione aristotelica del mondo fisico appartengono la tesi della finitez-za del mondo, quella della negazione del vuoto e quella dei luoghi naturali degli ele-menti che compongono il mondo terrestre: aria, acqua, terra e fuoco. L’elemento dinovità della fisica aristotelica (che peserà fortemente sugli sviluppi della scienza finoall’età moderna) è costituito proprio da questa idea del carattere qualitativo dellarealtà, che la distingue dai modelli matematico-geometrici del Pitagorismo, di De-mocrito e di Platone.

Inoltre in Aristotele, come in Platone, i processi della realtà hanno un carattere fina-listico. E la natura perde il suo aspetto unitario, poiché Aristotele separa la naturaceleste dalla natura terrestre. Tale concezione della natura, che si basa su una diver-sa realtà del movimento (circolare per le sfere celesti, rettilineo sulla Terra, che è asua volta immobile), avrà enorme influenza sulla scienza antica e medievale e verràsuperata solo nell’età moderna.

Malgrado la superiorità attribuita alle scienze matematiche e fisiche in quantoscienze teoretiche, non va sottovalutata l’importanza della ricerca aristotelica anchenel campo delle scienze pratiche. In tale contesto spicca la crematistica, o teoria eco-nomica, come scienza dell’acquisto dei beni materiali, che da molti è considerata laprima compiuta teoria economica, nella quale viene descritto il funzionamento delmercato attraverso la moneta e si critica la tendenza – tipica di un’economia mer-cantile – a trasformare la moneta da mezzo volto a favorire lo scambio delle merci abene in sé.

Specializzazione scientifica e nuove esigenze di rigore teorico

Nell’età ellenistico-romana il sapere scientifico della Grecia classica si sviluppa esi consolida ed il centro fondamentale della ricerca si sposta da Atene ad Alessandria.Si affermano sia la specializzazione delle discipline, come saperi basati su propriprincìpi e procedure di ricerca, sia l’esigenza di rigore teorico, cioè di una chiara for-mulazione dei fondamenti, dei concetti-chiave, delle dimostrazioni e dei metodi d’in-dagine di ciascun corpo organizzato di conoscenze.

La più alta espressione del rigore teorico della scienza alessandrina è la geometriadi Euclide (IV sec. a.C.), che si basa su fondamenti concettuali chiaramente enuncia-ti, su teoremi ricavati da quei princìpi e su altri teoremi a loro volta dedotti da que-sti, secondo una concatenazione e una sequenza logicamente rigorose.

In campo astronomico, contro la teoria eliocentrica di Aristarco prevale la teoriageocentrica, sostenuta dapprima da Eudosso e Aristotele e successivamente daIpparco (in età ellenistica) e da Tolomeo (nel II secolo d.C.).

In età romana nel campo della medicina Claudio Galeno (II sec.) sviluppa le teoriedegli Ippocratici, in particolare l’istanza metodologica di combinare l’osservazione siste-matica dei fenomeni patologici con l’uso di schemi interpretativi generali e con dimo-strazioni razionali ancorate a modelli logici di ragionamento. In tal modo Galeno cercadi superare il conflitto fra la medicina empirica (più legata all’osservazione) e la medici-na dogmatica (più orientata verso la formulazione di ipotesi generali).

Con l’affermarsi dell’egemonia romana, oltre alla produzione di enciclopedie emanuali in cui sono raccolti e diffusi i risultati della scienza antica, si sviluppanocampi di ricerca più legati alle esigenze della vita pratica (diritto, architettura, medici-na, astronomia, ecc.). È soprattutto il diritto a conoscere uno sviluppo di straordinariorilievo, grazie ad una scienza giuridica che assume un carattere eminentemente for-male e ad un sistema di norme che poggia su princìpi di carattere generale.

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181FILOSOFIA E SCIENZA

L’organizzazione del sapere fra scienza e sapienza

Nell’Alto Medioevo l’interesse della cultura cristiana per i problemi della scien-za e della tecnica è molto ridotto. La conoscenza del patrimonio scientifico greco-romano è limitata e le arti del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia emusica) assumono un valore solo propedeutico all’insegnamento della dottrinacristiana.

Per Agostino di Ippona (354-430) mentre la scienza si rivolge alle cose terrene,è la sapienza a condurre alla contemplazione della verità eterna di Dio. Quindi ilvalore della conoscenza scientifica è subordinato a quello della filosofia, dellasapienza. La matematica, comunque, sempre secondo Agostino, esercita la mentea compiere uno sforzo di astrazione dalla realtà empirica, preparandola alla filo-sofia e alla teologia; il profondo legame che viene così a stabilirsi fra matematicae teologia permette ad Agostino di intuire l’idea di infinito attuale (che Aristoteleaveva invece respinto) come espressione della mente di Dio, che è infinita e pensaquindi infinite cose.

La scienza araba conoscerà un’intensissima fioritura, spesso grazie alla rielabo-razione delle conoscenze acquisite in Occidente e in Oriente (in particolaredall’India e dalla Cina). Nel campo della matematica si affermeranno concettinuovi (lo zero e il valore posizionale dei numeri) e si adotterà una notazionenumerica di nove cifre che semplificherà enormemente le procedure di calcolo.Profonda sarà poi l’influenza che - sulla cultura occidentale – avranno gli studi diottica (con l’elaborazione delle leggi della rifrazione ad opera di Alhazen, 965-1038), fisica (con nuove teorie del moto a opera di Avicenna (980-1038) eAvempace XI-XII sec.), alchimia e astrologia.

Nuovi interessi scientifici

In Occidente, un risveglio dell’interesse per i problemi della scienza e della tec-nica si manifesta solo a partire dal XII secolo, come espressione del nuovo climaintellettuale determinato dalla ripresa delle città.

L’ingresso della scienza araba, unito alla diffusione dei testi scientifici delmondo classico raccolti dagli Arabi, e soprattutto delle opere scientifiche diAristotele, comincia a produrre un’influenza profonda sulla cultura occidentale.

Nel XIII secolo, studiano intensamente i testi aristotelici i maestri delle arti delleuniversità, gli Averroisti latini e studiosi domenicani come Alberto Magno (1193-1280), che svolge egli stesso indagini scientifiche. Tommaso d’Aquino (1221/1227– 1274), suo discepolo, pur non effettuando direttamente attività di ricerca, nellasua elaborazione pone le basi concettuali – di ordine metafisico – per affermare evalorizzare l’autonomia della natura, quindi anche la ricerca delle cause seconde,che invece l’Agostinismo alto-medievale aveva sottovalutato. Nella sua produzio-ne, spiccano inoltre le elaborazioni nel campo dell’economia. Egli sviluppa lariflessione aristotelica inserendola negli schemi della cultura cristiana e fissa alcu-ne idee portanti del pensiero economico della Chiesa nell’età moderna (ricono-scimento della proprietà privata, del giusto prezzo delle merci, della giusta retri-buzione del lavoro, ecc.).

Sono soprattutto i Francescani (e gli Agostiniani) dell’università di Oxford a pro-muovere una riflessione originale sui problemi della scienza e della tecnica.

Fra questi ultimi Roberto Grossatesta (1175-1253) elabora una fisica della luce(su cui ha influito l’ottica araba), nella quale la natura viene studiata con strumentigeometrico-matematici, in connessione con i caratteri della propagazione dellaluce nello spazio. Nei suoi studi avanzati di ottica (in cui sviluppa le ricerche diAlhazen) egli adotta un metodo nel quale vengono a combinarsi esperienza e cal-colo matematico.

IL MEDIOEVO3

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182FILOSOFIA E SCIENZA

Anche un suo discepolo, Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292), considera deter-minanti, per un avanzamento del sapere, sia la matematica che la scienza speri-mentale. La prima costituisce “la chiave di tutte le scienze”, ma è soprattutto laseconda a permettere – attraverso operazioni concrete di osservazione e speri-mentazione – di ricostruire razionalmente i processi che avvengono nella natura,quindi di esaltare appieno quei poteri conoscitivi dell’uomo che sono “dono diDio”.

Autonomia della scienza ed imaginationes, esperimenti ideali

Nel XIV secolo, sia ad Oxford che a Parigi e in Germania, grazie all’opera dialcuni filosofi e scienziati (fra cui Nicola d’Autrecourt, 1300 ca. – 1350 ca.,Guglielmo di Ockham, 1280 ca. – 1347, Nicola di Oresme, 1322-1382 eGiovanni Buridano, fine sec. XIII – morto dopo il 1358) si delineano orientamen-ti nuovi che mettono in discussione alcuni concetti portanti della scienza aristo-telica e anticipano tesi che si affermeranno compiutamente solo con l’età moder-na. Ciò è favorito dalla netta separazione delle questioni di fede dai problemidella ricerca naturalistica, che porta a riconoscere a tale scienza uno spazio – siapur limitato – di autonomia. Ma in taluni casi è favorito anche dal presuppostoteologico dell’assoluta libertà e onnipotenza di Dio, avanzato dai Francescani: intal senso, almeno in linea di principio, non può esser negato a Dio il potere dicreare uno spazio infinito nell’universo, infiniti mondi e il vuoto (tutte ipotesi,queste, che invece la scienza aristotelica aveva respinto).

La riflessione razionale favorisce l’affermarsi di altre ipotesi innovative rispettoalla fisica aristotelica:

a. l’identità di natura fra corpi celesti e Terra;b. la possibilità logica del movimento terrestre (quindi del superamento del geo-

centrismo);c. lo studio matematico del movimento (senza distinguere fra diversi tipi di

movimento, come aveva fatto Aristotele).Proprio lo studio del movimento porta a formulare una teoria del moto inerziale

come teoria dell’impetus. Essa mette in discussione la tesi aristotelica che il motodi un oggetto sia sostenuto dal moto dell’aria circostante e si basa sull’ipotesi cheil moto sia il frutto di una forza (l’impetus) impressa all’oggetto da un motore.

L’ETÀ MODERNA4In linea generale l’età moderna può essere quasi identificata con le rivoluzioni

scientifiche del periodo che va dal XVI al XVII secolo, che determineranno uncambiamento radicale non solo negli statuti teorici di una molteplicità di scienze(astronomia, fisica, ecc.), ma anche nella filosofia e in ogni ambito culturale.

Con la rivoluzione scientifica viene elaborata una nuova immagine del mondoche si afferma in molti sistemi di pensiero, o comunque costituisce un punto diriferimento costante (anche di natura polemica) per la riflessione anche dei seco-li successivi, fino ai giorni nostri.

Ma è lo stesso concetto di scienza che muta in questo periodo, assumendo icaratteri e le connotazioni fondamentali che in gran parte ancora adesso le vengo-no attribuiti. Un sapere cumulativo e continuamente perfettibile, migliorabile, cheha un’essenziale connotazione sperimentale, che offre, dunque, la possibilità diuna verifica della validità di ciò che afferma. Esso, inoltre, utilizza procedure sueproprie, elabora un linguaggio specifico rigoroso. La teoria mantiene uno spaziorilevante nella scienza ma, come la stessa rivoluzione scientifica ha mostrato, leteorie possono essere sostituite da altre che dimostrino maggiore capacità espli-cativa e controllabilità. Con la scienza moderna nasce la nuova figura dello scien-ziato, che opera fuori delle università, nei laboratori e nelle officine, collaborandocon altri scienziati, che lavora con le “officine” e usa nuovi strumenti.

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183FILOSOFIA E SCIENZA

Il cambiamento d’immagine della natura

Prima dell’avvento della rivoluzione scientifica e tecnica vi è un lungo periododi preparazione, di critica dei modelli tradizionali (in particolare del-l’Aristotelismo) e di elaborazione di concetti, metodi e strumenti, attraverso unpercorso che è problematico, complesso e non lineare e che dura almeno duesecoli, dalla seconda metà del XIV secolo alla seconda metà del XVI.

Grande importanza ha avuto, per la scienza in fieri, la formazione di una nuovaimmagine della natura. Su questa una grande influenza ha avuto soprattutto ilPlatonismo, nelle sue versioni platonica e neoplatonica. Ad esso si deve, in parti-colare, la tesi della struttura matematica dell’universo, che si affermerà in moltipensatori, da Cusano a Leonardo, e giungerà fino a Copernico e Keplero. Inoltreplatonica è la considerazione della natura come un organismo vivente, come entitàche ha come suo principio vitale un’anima del mondo, dunque una realtà con unproprio fondamento e che può essere studiata secondo princìpi suoi propri.

In tale visione della realtà rientrano anche alcuni saperi tradizionali, ad esem-pio quelli legati alla magia, all’ermetismo, all’astrologia e all’alchimia, che in talecontesto assumono una funzione nuova e caratterizzano ampia parte della cultu-ra rinascimentale. Sarebbe un errore voler ricostruire la genesi della scienzamoderna prescindendo dall’influsso che su di essa hanno avuto questi saperi, daiquali solo nel corso del Seicento, dopo aver conquistato una sua chiara identità efisionomia, la scienza e la tecnica moderne si distaccheranno definitivamente.

La magia (in particolare la magia naturale, distinta da quella nera) si fonda sul-l’idea della natura come organismo vivente, sulle cui forze il mago opera per vol-gerle a vantaggio dell’uomo, e si collega ancora alla concezione dell’homo faber,cioè all’idea di un uomo capace di agire, trasformare, dominare la natura.

Anche l’astrologia si basa sull’idea di un universo attraversato da forze vive e, inparticolare, di un’influenza del mondo celeste (o macrocosmo) su quello terrenoed umano (o microcosmo). L’astrologia naturale favorisce il superamento dellaconcezione dualistica dell’universo, che era propria dell’Aristotelismo e, in quan-to studia le leggi che regolano il moto degli astri, viene ad anticipare l’avvento del-l’astronomia scientifica.

Matematica: le idee dell’infinito e di ordine necessario del mondo

Nella ricostruzione della genesi della scienza moderna un discorso a parte richie-de la matematica, cioè il ruolo che essa è venuta progressivamente esercitando.Evidente, ad esempio, è l’influsso platonico e pitagorico su Cusano e Leonardo.

Nicola Cusano (1401-1464) fa dell’infinito matematico il modello dell’infinitodivino e utilizza continuamente esempi e riferimenti matematici per caratterizza-re il rapporto tra infinito e finito. Soprattutto, egli vede nel linguaggio matematicolo strumento privilegiato della conoscenza umana, di un sapere che non potrà mairaggiungere l’assoluto ma vi si potrà avvicinare continuamente.

Cusano, inoltre, lega all’idea del carattere illimitato dell’universo quella che inesso non si abbia più né centro né circonferenza e, di conseguenza, due tesi difondamentale importanza: che non essendoci più centro, la Terra non sia immo-bile e che essa sia un corpo celeste come il Sole, negando che esista una sostan-za celeste diversa da quella terrestre.

Leonardo (1452-1519) tende a ridurre la realtà alla sua struttura matematica,quindi a ordine necessario. La matematica diviene principio di certezza conosci-tiva e di determinazione della necessità degli eventi. Si rimuove la concezionemagico-animistica della natura e si riduce la natura stessa a moto meccanico.Proprio all’idea di necessità causale (cioè al fatto che ogni evento ha la sua causa)si lega l’intuizione leonardesca (sia pure non sviluppata) del principio di inerzia.

La rivoluzione astronomica

Pur se strettamente legata – nella sua genesi – a un intreccio complesso di fat-tori sociali e culturali, la scienza moderna nasce con la rivoluzione astronomicadi Niccolò Copernico (1473-1543), che sostituisce ad una concezione geocentri-ca quella eliocentrica.

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184FILOSOFIA E SCIENZA

Le sue tesi sconvolgono un ordine dell’universo che la cultura occidentale avevaelaborato con l’apporto determinante di Aristotele e di Tolomeo e che la Chiesacattolica aveva fatto proprio, saldandolo organicamente alla rappresentazione cri-stiana della realtà.

La grandezza di Copernico sta nell’aver cambiato il punto di vista con cui finoad allora si era guardato il mondo astronomico. Egli comprende che nuove osser-vazioni e nuovi dati non possono più essere immessi nel vecchio modello cosmo-logico aristotelico-tolemaico, ma che è necessario capovolgerlo abbandonando laconcezione geocentrica. L’eliocentrismo viene accolto perché appare come unaconcezione più semplice, che elimina le infinite complicazioni di cui si era venu-to progressivamente gravando il modello geocentrico.

Le argomentazioni copernicane sono legate a un robusto apparato matematicoe sostenute dalla convinzione – di origine pitagorica e platonica – della strutturageometrica della natura. Di origine pitagorica ed ermetica è poi l’idea della cen-tralità del Sole nell’universo. Inoltre, Copernico è stato definito un “rivoluziona-rio conservatore”, perché il suo sistema eliocentrico, che cambia radicalmentel’ordine dell’universo superando la tradizionale gerarchia tra mondo celeste emondo terrestre, continua a muoversi dentro l’orizzonte di un mondo finito, incui vi è un cielo delle stelle fisse e si parla ancora di moto delle sfere (orbiumcelestium).

Ma con quel rovesciamento del punto di vista viene meno la tradizionale con-cezione antropocentrica, in base alla quale l’uomo costituiva il fine supremodella creazione divina. E, con lo smarrimento delle antiche certezze, si teme chepossano venir meno anche sistemi di valore consolidati: da qui la successione dicondanne ecclesiastiche ai sostenitori della rivoluzione astronomica copernicana.

Ancorato alla tradizione del Pitagorismo e del Platonismo è anche GiovanniKeplero (1571-1630), che fa compiere un decisivo passo avanti alla nuova im-magine del mondo astronomico muovendo dalla convinzione della sua strutturamatematica.

Il moto planetario (calcolato da tre fondamentali leggi descritte da Keplero)viene studiato come se fosse quello di un orologio e la matematica viene consi-derata il linguaggio adeguato per descrivere le correlazioni tra le cose.

In tal modo con Keplero viene ad essere superato quel sapere magico e astrolo-gico che, peraltro, egli stesso aveva originariamente seguito. Ma, soprattutto, vienead esser negata la validità dell’Aristotelismo, con la sua pretesa di conoscere le“essenze” delle cose naturali.

È Giordano Bruno (1548-1600) a sviluppare le implicazioni rivoluzionarie del-le tesi astronomiche di Copernico. Egli non solo critica la riduzione della tesicopernicana a semplice ipotesi (come aveva fatto, ad esempio, il teologo prote-stante Osiander presentando l’opera di Copernico), ma dà anche una spallata aquanto – nella concezione copernicana – restava del vecchio impianto aristoteli-co-tolemaico.

Prendendo le mosse da una tesi metafisica, egli estende anche al mondo natu-rale quei caratteri di infinità che sono attribuiti al suo creatore, cioè a Dio, checome causalità infinita opera eternamente al suo interno. In un mondo infinito icorpi celesti sono innumerevoli e non vi è più centro, né periferia, né alto nébasso. Tolto un centro (la Terra), non ha infatti più senso porne un altro (il Sole).Cielo e Terra hanno la stessa sostanza.

Le stelle sono dei soli intorno a cui ruotano pianeti simili alla Terra. Eliminate lesfere cristalline e i motori celesti dell’astronomia aristotelica, il movimento èintrinseco alla natura.

Lo sviluppo scientifico nel Seicento

Nel Seicento la rivoluzione scientifica mostra quali siano le sue potenzialità disviluppo e di trasformazione radicale.

La tradizione, l’autorità di Aristotele, ma anche l’autorità della religione, vengo-no accantonate. Il rifiuto dell’Aristotelismo è generalizzato e non riguarda piùquesta o quella teoria, ma si estende a tutto l’impianto del sapere. Inoltre, nellacultura del secolo si viene progressivamente facendo strada la convinzione che lasuperiorità dei moderni sugli antichi si fondi soprattutto sullo sviluppo dellescienze e della tecnica.

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185FILOSOFIA E SCIENZA

Nascono inoltre le Accademie scientifiche, luoghi di confronto e di collabora-zione tra scienziati. L’innovazione scientifica si estende progressivamente dall’a-stronomia ad altri campi: la fisica, la biologia, la chimica, la medicina.

Inoltre la geometria rappresenta agli occhi di non pochi filosofi e scienziati unmodello di sapere razionale, logico e deduttivo a cui ispirarsi.

Cartesio, collegandola all’algebra, la semplificherà e ne aumenterà enorme-mente l’efficacia, consentendo di leggere ogni punto e ogni curva dello spazio adue dimensioni con una formula algebrica, ricomponendo due scienze fino adallora divise.

Una funzione predominante continua a svolgere la matematica, linguaggio emodello della scienza: nel suo ambito si realizzano innovazioni che vanno dalcalcolo delle probabilità di Pascal al calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz.

La concezione meccanicistica della natura

Se la cultura rinascimentale aveva dato spazio, attraverso la magia, l’astrologiae l’alchimia, all’idea di un mondo naturale animato da forze vive ed occulte, orala cultura scientifica, partendo da una critica di fondo di quella concezione, con-siderata illusoria, infondata, superstiziosa, la sostituisce con una concezione mec-canicistica della natura, a cui si rifaranno – per quasi due secoli – gran parte degliscienziati e dei filosofi.

Pur nella diversità delle formulazioni, caratteristica comune del meccanicismoè la presenza di due concetti portanti: quelli di materia e di movimento. La natu-ra viene infatti interpretata come composta di parti materiali quantitativamentedeterminate e regolata da leggi di movimento. Essa viene risolta nei suoi elemen-ti quantitativi e la scienza viene matematizzata. Gli aspetti qualitativi (colori,sapori, ecc.) sono, invece, considerati come caratteri derivati, attribuiti cioè all’in-contro tra il soggetto che conosce e la realtà naturale – quantitativamente deter-minata – che viene conosciuta: sono dunque soggettivi, non oggettivi. Né la con-cezione meccanicistica viene limitata al solo mondo naturale, in quanto essa, nelcorso del Seicento, verrà estesa anche al mondo umano.

Espugnare la natura e programmare il progresso umano

Al centro della riflessione di Francesco Bacone (1561-1626), la scienza vieneconcepita come strumento essenziale di conoscenza e controllo della natura e –attraverso le applicazioni tecniche – di uso dei processi naturali per il soddisfaci-mento di bisogni umani essenziali. È stato considerato quasi un “profeta dellasocietà industriale”, in quanto convinto della necessità di un impiego consapevolee programmato delle conoscenze scientifiche per finalità produttive.

Il sapere tecnico-scientifico – secondo Bacone – è destinato a diventare il prin-cipale fattore del progresso umano, in quanto capace di produrre un mutamentodi aspetti e caratteri che pure – fino ad allora – erano stati considerati come unacondizione immutabile dell’uomo.

Le innovazioni tecniche, afferma, devono trasformarsi da risultato episodico equasi casuale dell’indagine a obiettivi consapevoli e programmati di una ricercacollettiva, di una collaborazione comune di scienziati e tecnici di diversi campi enazioni, chiamati a costituire una vera e propria comunità della scienza, in nomedei superiori interessi dell’umanità.

Tutto ciò richiede una riorganizzazione del sapere, una programmazione delsuo sviluppo (attraverso scoperte e invenzioni non più lasciate al caso) e una radi-cale innovazione nei metodi di ricerca.

Il nuovo metodo deve prefiggersi il compito di “espugnare la natura”, evitandogeneralizzazioni affrettate (le cosiddette “anticipazioni della natura” della vecchialogica scientifica) e i pregiudizi (idola) che offuscano e deviano i procedimenticonoscitivi: pregiudizi connaturati all’uomo (idola tribus), o alle inclinazioni indi-viduali (idola specus), o determinati dal linguaggio (idola fori), o dalle diverse dot-trine che si sono succedute nella storia e che vengono recitate e rappresentatecome in un teatro (idola theatri).

La conoscenza deve obbedire alla natura, accogliere cioè i dati dell’esperienza,ma deve anche saper interpretare il senso dei dati forniti dall’esperienza, inseren-

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doli in un contesto generale di spiegazione, in una forma che ne costituisca ancheil principio d’ordine. Essa è sia una struttura interna alla cosa, sia un processolatente di modifica della cosa stessa.

Di Bacone è anche un modello di organizzazione del sapere che avrà fortuna,fondato sulla distinzione della discipline in base a facoltà umane fondamentali: lastoria (fondata sulla memoria); la poesia (fondata sulla fantasia); le scienze (fon-date sulla ragione). Di particolare importanza, nella partizione delle scienze, è ladistinzione fra scienze della natura e scienze dell’uomo.

Autonomia della natura e nuovo principio di autorità

Comunque, un passo decisivo nella direzione suggerita da Bacone verrà com-piuto solo da Galileo Galilei (1564-1642), figura emblematica della scienzamoderna, che si muoverà molto oltre le stesse indicazioni baconiane. Anzi ilmetodo scientifico nel quale la scienza d’ora in poi si riconoscerà è quello speri-mentale galileiano e non quello induttivo baconiano.

In Galileo troviamo realizzati i caratteri dello scienziato e del filosofo moderno.Egli è la dimostrazione della maturità raggiunta dalla scienza. Con lui si consumadefinitivamente l’abbandono della tradizione e dell’autorità di Aristotele. Ed è undistacco, il suo, che riguarda, più che Aristotele, i suoi moderni seguaci. A questiultimi Galilei rimprovera di anteporre acriticamente l’autorità di Aristotele, l’ipsedixit, ad ogni impegno nella ricerca ed allo stesso uso della ragione.

Galilei rivendica, invece, l’affermarsi di un nuovo principio d’autorità, basatosulla ragione e sull’esperienza. È su queste nuove basi che poggia la sua tesi del-l’autonomia della scienza: autonomia dalla metafisica ma, soprattutto, dalla reli-gione. Contro l’interpretazione della Chiesa (che lo condannerà per la sua difesadelle tesi copernicane, considerate antitetiche a una certa interpretazione di quan-to affermato nella Bibbia) lo scienziato italiano sostiene che il “libro” dellaRivelazione è scritto in vista della salvezza degli uomini, non per la conoscenzadella natura, che è invece compito della scienza. Questa permette, infatti, diconoscere le leggi necessarie e immutabili della natura, cioè di un “libro” che Dioha scritto con caratteri matematici. La Bibbia e la Natura contengono e comuni-cano verità diverse, che non sono in contrasto tra di loro perché di entrambi i“libri” l’autore è Dio.

Altrettanto rilevante è poi la riflessione galileiana sulla natura della scienza. DaAristotele questa era stata concepita come conoscenza delle cause, dell’universa-le, dell’essenza delle cose. Galileo nega, invece, che la scienza possa conoscerel’essenza delle realtà naturali, poiché suo compito preminente è quello di in-dividuare le relazioni costanti che sussistono tra le variabili di un fenomeno. Dascienza del perché essa diviene scienza del come un evento si verifichi, scopren-do quali ne siano le relazioni funzionali.

Dietro questa concezione vi è la convinzione della struttura matematica del-l’universo. È in base a tale convinzione che alla scienza viene assegnato il com-pito di individuare le relazioni quantitative tra i fenomeni, con un lavoro di astra-zione che prescinde da ogni aspetto qualitativo.

Il metodo galileiano costituisce quindi un’innovazione radicale anche rispetto aquello baconiano, in quanto lega indissolubilmente fra loro i momenti dell’osser-vazione, della misura, della formulazione di un’ipotesi in termini matematici edell’esperimento. Il momento risolutivo (cioè analitico-induttivo) del procedi-mento permette di isolare, mediante l’osservazione, gli elementi, che vengono poisottoposti a misurazione. Il momento compositivo (cioè sintetico-deduttivo) per-mette di operare una deduzione matematica delle conseguenze dell’ipotesi e lasuccessiva verifica sperimentale (o cimento).

Con questo impianto e con questo metodo la matematizzazione della scienza,la formulazione di un’immagine meccanicistica della natura e la costituzione diun’indagine allo stesso tempo sperimentale e matematica compiono un passodecisivo, che risulterà praticamente irreversibile, in quanto da allora in poi lascienza si muoverà in questa direzione.

Come scienziato, Galileo ha dato un contributo molto importante allo sviluppodell’astronomia e della dinamica. Con il telescopio ha modificato profondamen-te l’immagine del mondo celeste allora predominante, dimostrando che non esi-

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stono sfere cristalline e che i corpi celesti non sono incorruttibili e perfetti. Con ilprincìpio della relatività del moto ha poi superato una delle obiezioni fonda-mentali alla teoria eliocentrica. Egli ha inoltre dato un forte impulso alla scienzadel movimento, individuando il principio d’inerzia e formulando la legge del motouniformemente accelerato.

Non bisogna però pensare all’opera di Galileo e a quella di altri grandi scien-ziati come a momenti di una storia lineare, progressiva, che procede da una veritàall’altra. Questa sarebbe una prospettiva riduttiva ed errata nello stesso tempo.Galileo – come altri – ha dato un grande contributo, ma non mancano – in luicome in altri – tesi che poi saranno smentite, affermazioni errate.

L’idea di una mathesis universalis

Con Cartesio (1596-1650) giunge a piena maturità la filosofia moderna, per-meata profondamente dal nuovo spirito scientifico. Da lui sono stati messi a puntoun nuovo sistema di pensiero ed una nuova immagine del mondo, l’uno e l’altrafortemente ancorati alla scienza. Al centro di questo sistema vi è la ragione, men-tre marginale è il ruolo dell’esperienza. Il suo metodo deduttivo prende espli-citamente come modello il modo di procedere tipico della geometria.

Il progetto cartesiano, dal punto di vista del sapere scientifico, prevede la costru-zione di un’unità del sapere grazie ad una scienza del tutto nuova, la mathesisuniversalis, una scienza universale dei rapporti quantitativi che risulta dall’unionedi aritmetica, geometria e meccanica razionale.

La stessa geometria analitica che unifica la geometria e l’algebra, in quantoporta a rappresentare gli oggetti geometrici mediante formule algebriche, libera lageometria dalla descrizione di oggetti sensibili.

Nella concezione del mondo naturale la molteplicità degli oggetti della naturaviene ricondotta alla res extensa, la sostanza materiale definita per la sua caratte-ristica principale: il fatto di occupare uno spazio (e ciò implica, fra l’altro, la nega-zione del vuoto).

La rappresentazione del mondo naturale si fonda su un modello meccanicisticodi svolgimento dei processi della realtà, alla cui elaborazione Cartesio stesso dàun notevole apporto. La scienza della natura si basa sullo spazio geometrico e sulmovimento. Non c’è bisogno d’altro, dopo l’atto creatore di Dio, per spiegare lagenesi e la struttura del mondo naturale. Così non la presenza divina (limitata aquel solo atto iniziale della creazione), ma l’estensione ed il movimento divengo-no essenziali per la spiegazione della natura. E questo non può che rafforzare l’i-dea dell’autonomia della natura e della scienza.

Tre sono le leggi del moto che caratterizzano la natura: inerzia, moto rettilineouniforme e conservazione della quantità di moto. Quello cartesiano è un mecca-nismo cosmico unico (generato dal moto iniziale delle particelle materiali e dallaformazione di vortici) da cui sono state definitivamente eliminate forze vive e in-flussi.

Ma un’altra grande innovazione cartesiana è legata all’estensione del modellomeccanicistico alla biologia. Anche il corpo degli esseri viventi viene concepito,infatti, come una macchina e la vita non viene fatta dipendere più dall’anima, mada una particolare organizzazione e moto delle particelle che compongono ilcorpo. Al di fuori del meccanicismo resta la sola sfera del pensiero, della ragione,della res cogitans.

Critica dei limiti della scienza cartesiana e ricerca del divino

In alternativa al razionalismo geometrico di Cartesio si pone la riflessione diBlaise Pascal (1623-1662), che è comunque egli stesso un grande scienziato, cheha dato contributi di grande rilievo in campi diversi, dal calcolo delle probabilitàall’equilibrio dei liquidi e alla pressione. Contributi, questi ultimi, che dimostranol’impossibilità di una scienza fisica svincolata dall’esperienza e che attestano, adesempio, l’esistenza del vuoto, negata da Cartesio.

Pascal non contesta le grandi possibilità della scienza, nella quale vede il fatto-re fondamentale del progresso dell’umanità e la base del primato dei modernisugli antichi. Il suo intento è quello di evidenziarne, accanto alle grandi capacità,

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anche i limiti, dovuti all’impossibilità di dimostrare i princìpi delle scienze, ma,soprattutto, dovuti all’impossibilità, per l’uomo, di raggiungere i due infiniti (l’in-finitamente grande e l’infinitamente piccolo) tra i quali è posto.

I limiti della scienza e della ragione cartesiana aprono, quindi, lo spazio ad unaricerca che ha per centro la condizione umana e per punto d’arrivo la fede e Dio.

Scienza dei corpi e ordine geometrico del mondo

In altri filosofi il modello meccanicistico, fisico-matematico, della scienza siripropone come fondamentale, senza alcuna limitazione al suo impiego. CosìThomas Hobbes (1588-1679) vuole estendere l’indagine scientifica ad un ambitoche Cartesio aveva sottratto agli strumenti della scienza: cioè a quel mondoumano che non può restare fuori da un approccio scientifico. Egli, pertanto, vuolfar rientrare in tale approccio l’etica e la politica, come campi che si possonoanch’essi indagare secondo l’impostazione meccanicistica. La scienza può riguar-dare solo la res extensa. Quella di Hobbes è stata definita una posizione di mate-rialismo metodologico, in quanto per lui vi può essere scienza solo dei corpi, pos-siamo cioè conoscere solo ciò che è materiale. La stessa res cogitans opera secon-do i princìpi e le leggi del meccanicismo. I corpi di cui si occupa la scienza pos-sono essere naturali e artificiali. E tra i corpi artificiali vi è lo Stato. Il materialismodi Hobbes non poteva non incorrere nella condanna degli ambienti religiosi, siaanglicani che puritani, che vedevano in questa posizione la conferma dei lorotimori sulle implicazioni che potevano essere tratte dalla rivoluzione scientifica.

Ancor più scandalo susciterà la filosofia di Baruch Spinoza (1632-1677),costruita secondo una razionalità geometrica (more geometrico), che identificheràDio con la Natura (Deus sive Natura) e la Natura, a sua volta, con l’ordine geo-metrico e necessario dell’universo. In una natura intesa come un grande mecca-nismo, in cui tutto è determinato secondo rapporti di causalità necessaria, non visarà più posto per la provvidenza, il miracolo e il finalismo. La natura sarà consi-derata come un solo individuo, composto da tutti i corpi, legati fra loro da rapportidi interazione.

Un principio unitario dell’universo

La rivoluzione scientifica seicentesca trova il suo compimento e punto di arrivoin Isaac Newton (1642-1727). Al centro della sua concezione scientifica vi è lateoria della gravitazione universale. Newton vuole determinare le leggi secondole quali agisce la forza di attrazione, non definire la “natura” di tale forza, poichéquesto è al di fuori della possibilità della scienza. Ancora una volta la scienzamoderna ribadisce il rifiuto della pretesa aristotelica di conoscere l’essenza, lecause ultime dei fenomeni. La scienza può solo descrivere in termini matematiciun evento e cercare delle conferme sperimentali alle proprie ipotesi. Qui c’èanche un aspetto che distingue Newton da Cartesio: il valore che l’osservazioneempirica e l’esperimento scientifico assumono accanto alla teoria e ai procedi-menti della ragione.

Con la teoria della gravitazione diviene, inoltre, possibile operare una sintesi trale leggi che regolano i fenomeni terrestri e celesti, la caduta di un grave sulla Terraed il moto dei pianeti nel cielo. Con questa teoria la scienza moderna realizzaun’esigenza che aveva espresso fin dall’inizio: quella di fornire una spiegazioneunitaria e coerente dei fenomeni naturali. Questo universo unitario ha, inoltre,due quadri di riferimento assoluti, lo spazio ed il tempo, ed è regolato dai treprincìpi della dinamica: inerzia, accelerazione, azione e reazione.

Né l’importanza di Newton si limita a questa sintesi fondamentale, poiché com-prende anche il calcolo infinitesimale (elaborato contestualmente a Leibniz) e lateoria corpuscolare della luce.

Newton dà una risposta positiva alle preoccupazioni di coloro che, come Boyle,avversavano il dogmatismo del meccanicismo scientifico e del modello matema-tico-geometrico cartesiano, intendevano rivalutare il ruolo preminente dell’espe-rienza e chiedevano maggiore cautela e controllo critico nelle affermazioni degliscienziati. Inoltre, per rispondere alle preoccupazioni di ordine religioso per ipericoli di materialismo e di ateismo ventilati dagli sviluppi della scienza moder-na, Newton afferma che il mondo ha una causa non meccanica, Dio, cioè l’esse-

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re trascendente e personale, intelligente, onnipotente e creatore della natura di cuiparlerà il Deismo. Ad una conflittualità che prima era apparsa insanabile, oraNewton sostituisce l’armonia tra scienza e fede. Questa posizione avrebbeinfluenzato notevolmente la cultura del secolo successivo.

Lo sviluppo delle scienze matematico-naturalistiche e storico-sociali nel Settecento

Nel Settecento, pur senza “rivoluzioni” come quelle verificatesi, nelCinquecento e nel Seicento, con Copernico, Galilei e Newton, nelle scienze sicompiono notevoli passi avanti, soprattutto in alcuni campi: ad esempio, nellamatematica, nella fisica e nella chimica.

Oltre le scienze naturali questo secolo vede lo sviluppo delle scienze storico-sociali. Apre questa nuova strada la Scienza Nuova di Giambattista Vico (1668-1744),

che vede nella storia il sapere scientifico per eccellenza: l’uomo può, infatti,conoscere con verità solo ciò che fa e poiché la storia è opera dell’uomo, solo diessa vi può essere scienza. Quella della natura non è invece una vera e propriascienza, perché essa è creata da Dio e l’uomo non può conoscerla con certezza.

Ma la spinta maggiore alla nascita di nuove scienze sociali è dovutaall’Illuminismo, che vede nella società umana uno spazio privilegiato per l’inda-gine della ragione analitica e critica.

Tale indagine identifica settori e campi specifici di ricerca, con propri oggetti epropri princìpi: è il caso dell’economia politica. Sono i fisiocratici francesi a deli-nearne il primo sistema, centrato sulla terra come fattore moltiplicatore di ric-chezza e sull’agricoltura come attività produttiva per eccellenza. Ma sarà inInghilterra (dove si stanno avviando i processi di industrializzazione) che l’econo-mia politica raggiungerà i migliori risultati con Adam Smith (1723-1790). Per luila fonte della ricchezza delle nazioni è il lavoro. Nel mercato opera come una“mano invisibile”, cioè un fattore di riequilibrio della domanda e dell’offerta.

Anche la storiografia fa importanti passi avanti, puntando su un lavoro ampio erigoroso di documentazione e sull’analisi dei diversi aspetti della vita sociale(dalla cultura al diritto e all’economia) abbandonando definitivamente un’impo-stazione puramente cronachistica e memorialistica degli studi storici.

Nascono nuove scienze sociali come l’etnologia e l’antropologia culturale, chestudiano i popoli primitivi, anche se l’approccio scientifico è ancora viziato dapremesse ideologiche, come nel caso dell’idealizzazione del buon selvaggio.

Quanto alle scienze naturali predomina, all’interno della cultura illuminista, lasintesi newtoniana, con la compresenza di meccanicismo e deismo. Dio, però, èsempre più inteso come un divino ingegnere o un divino orologiaio, produttore diordine e armonia dei movimenti della natura. Ma nell’Illuminismo francese laconcezione meccanicistica ispira ad alcuni pensatori come Julien Offray de LaMettrie (1709-1751) e Paul-Henri Dietrich d’Holbach (1723-1789), un materiali-smo che nega l’esistenza, nella natura, di una provvidenza e di finalità divine. Lascienza sembra non avere più bisogno di Dio nella spiegazione della natura.

La riflessione critica sulla scienza

Parte della cultura illuminista, comunque, non condivide l’idea di una centralitàdelle scienze e le ritiene incapaci di liberare l’uomo da ignoranza e superstizione.

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) non considera le scienze uno strumento diliberazione e di progresso, ma come “ghirlande di fiori” che coprono la schiavitùdell’uomo. La sua riflessione critica nega, quindi, che il progresso civile possaessere legato alle scienze.

L’inglese David Hume (1711-1776), pur non collocandosi fra i critici del saperescientifico, compie un’operazione che ne restringe il campo di verità e certezza.Per lui è “vera” in senso universale e necessario solo la conoscenza matematica,in quanto sapere analitico, indipendente dall’esperienza e costruito medianteidee, senza alcuna corrispondenza con le impressioni sensibili. Le altre scienze,invece, in quanto basate sull’esperienza, non hanno le stesse caratteristiche dioggettività. Le connessioni causali tra i fenomeni – su cui si regge la scienza –hanno solo un valore probabilistico e non necessario. Lo scetticismo copre cosìgran parte dell’area del sapere fisico-naturalistico.

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L’OTTOCENTO5

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Al centro della filosofia della conoscenza di Immanuel Kant (1724-1804) vi èproprio la scienza: quelle matematico-geometriche e fisico-naturalistiche sono unmodello di sapere oggettivo. Alla base della riflessione kantiana c’è l’idea del-l’autonomia delle scienze fisico-matematiche e della loro efficacia conoscitiva.Pur riconoscendo il valore della posizione humiana, come rigoroso sviluppo del-l’empirismo, egli rifiuta il ridimensionamento del valore conoscitivo della scien-za. Per lui, mentre la metafisica non costituisce un vero sapere, la scienza si affer-ma saldamente come unica forma di vero sapere. La questione che si deve porrela critica della ragione non è se sia possibile, ma come sia possibile la scienza,cioè la matematica e la fisica come saperi oggettivi. Quella che egli chiama con itermini di rivoluzione copernicana (cioè l’idea che la realtà fenomenica riceva leproprie strutture, i propri princìpi d’ordine, dall’Io trascendentale) intende, appun-to, costituire tale spiegazione delle condizioni di possibilità della scienza. A talicondizioni si lega, comunque, la determinazione di un limite invalicabile per laconoscenza: l’orizzonte fenomenico in cui essa può svolgersi.

L’Ottocento segna il trionfo della Rivoluzione industriale, che è il risultato di unintreccio fra scienza e tecnica che diventerà sempre più forte e più efficace nelcorso del secolo. Ma, anche indipendentemente da questo fondamentale fatto sto-rico, il secolo vede uno straordinario sviluppo delle scienze sia naturali cheumane e sociali.

Quanto più si viene costituendo una società a forte caratterizzazione scientificae tecnica, tanto più in filosofia si affermano due orientamenti diversi nei confron-ti della scienza:

• uno di critica netta, radicale, mossa in nome di una visione idealistico-roman-tica o spiritualistica (ma non riducibile a queste due sole tendenze);

• l’altro di valorizzazione e, per taluni versi, di esaltazione del suo ruolo, a cuiè subordinato lo stesso pensiero filosofico.

La visione romantica della natura e la sua critica alla scienza illuministica

Con il Romanticismo un’intera generazione di intellettuali fa propria l’idea chela realtà sia conoscibile non attraverso il matematismo, il geometrismo ed il mec-canicismo della moderna scienza della natura, ma mediante un’intuizione dellatotalità, nella quale la natura sia compresa come un Tutto vivente.

Si critica il matematismo meccanicistico della scienza illuministica e newtonia-na, capace di mostrarci la natura solo come un’arida e astratta sequenza di rela-zioni matematico-funzionali, o addirittura come un “cadavere disseccato” e privodi vita. Ci si rivolge, invece, alla Natura come al “divino” stesso calato nella realtà,cioè come ad un organismo vivente nel quale il Tutto è la ragion d’essere delleparti ed il movimento di queste trova la sua spiegazione profonda nell’economiadel Tutto.

In questa visione della realtà, che sembra “pre-scientifica”, si pongono in evi-denza alcune difficoltà del meccanicismo, soprattutto nella spiegazione di feno-meni – come quelli della vita – che sembrano sfuggire alla “calcolabilità” mate-matica e all’analisi dell’intelletto.

L’Idealismo e la critica della scienza

L’Idealismo esprime a livello filosofico la presa di distanza, la critica e il supe-ramento del matematismo e del meccanicismo, ribadendo il primato dello Spirito,contro una filosofia che, collegandosi con la scienza, sembrava trovare una sortadi sbocco naturale nel materialismo. Ma sarebbe riduttivo ed eccessivo faredell’Idealismo un indirizzo antiscientifico.

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Ad esempio, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854) stabilisce in termi-ni positivi il rapporto tra filosofia e scienza. La sua è una fisica speculativa, una filo-sofia della natura che coglie la forza creativa infinita, il principio di produttività chepresiede l’insieme dei processi naturali, riportando a una visione unitaria e spie-gando il senso ultimo delle stesse scoperte scientifiche: ciò che è in grado di farela filosofia e non la scienza. La sua visione dello spirito che vive nella natura si con-trappone alla scienza illuministica, che non è in grado di comprendere l’unità dellanatura, cioè l’insieme dei suoi processi, e si limita a fornire spiegazioni causali sullaconnessione esistente fra questo o quel fenomeno o gruppo di fenomeni.

Schelling ritiene la propria concezione non antitetica alle più recenti acquisi-zioni della scienza, ma una loro conferma. Proprio le grandi novità della chimicae della fisica dell’epoca (l’elettromagnetismo e la teoria della “combustione deicorpi”) lo portano a pensare che il modello della natura non sia più quello dellascienza moderna, da Galilei a Newton, fatto proprio da Kant.

Anche nella filosofia della natura di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) si afferma il primato della filosofia sulla scienza. In essa si prendono ledistanze – nello stesso tempo – sia dalla scienza newtoniana della natura chedalla concezione romantica.

La natura per Hegel è il dominio della necessità e accidentalità degli eventi, nondella libertà. Egli non la celebra – romanticamente – come il Tutto, come l’infi-nito dispiegarsi del “divino” nel mondo: al contrario, scrive, “perfino il male èqualcosa d’infinitamente più alto che non i moti degli astri e l’innocenza dellepiante, perché colui che così erra è pur sempre lo Spirito”.

Secondo Hegel vi è differenza fra la scienza empirica e la filosofia della natura.Mentre la prima si limita a descrivere la natura attraverso processi determinati, stu-diati distintamente nella loro specificità, la seconda concepisce la natura come unatotalità, un immenso organismo nel quale il tutto spiega le parti, l’insieme spiega ifenomeni particolari. Hegel combatte apertamente il meccanicismo scientifico e glicontrappone – come Schelling e i Romantici – una visione organica della natura,guardando a Goethe e al Neopitagorismo del primo Keplero piuttosto che aNewton.

Il culmine dei processi della natura è costituito dall’affermarsi di una formasuperiore di organizzazione, quella dell’organismo. Con la vita, scrive Hegel, sipassa “dalla prosa alla poesia della natura”. Se lo Spirito si è come nascosto die-tro la “maschera stellata” dell’universo, è negli esseri viventi che comincia gra-dualmente a manifestare e ad affermare se stesso.

All’intuizionismo dei Romantici e di Schelling egli contrappone un sapere con-cettuale compiuto, capace di realizzarsi mediante un procedimento dialettico,logico-razionale.

Presenta, invece, alcuni aspetti tipici della filosofia della natura romantica quel-la di Arthur Schopenhauer (1788-1860), nella quale è la Volontà a manifestarsi ingradi diversi di realtà, ognuno dei quali costituisce come un eterno modello nelquale la volontà cosmica si fissa, l’idea. Su di essa trova il proprio fondamento lalegge naturale che la scienza studia.

Filosofia positiva e centralità della scienza

È in antitesi con queste tendenze il Positivismo, che privilegia la scienza rispet-to ad ogni altra forma culturale, riconoscendola come l’autentico sapere umano.

Alla filosofia si attribuisce il compito di riflettere sui metodi e sui risultati cono-scitivi della scienza, estendendone e generalizzandone l’ambito di applicazioneall’intera realtà. Si afferma l’idea che tutto il sapere debba diventare “positivo”,cioè assumere e far proprio l’abito e il costume della scienza, i suoi metodi e pro-cedimenti, la sua capacità di guardare ai fatti, ai fenomeni, e di cogliere le legginaturali, le relazioni costanti che sussistono fra i fenomeni: leggi e relazioni chesono concretamente accertabili mediante l’osservazione, formulabili matematica-mente e verificabili mediante l’esperimento.

L’idea del primato della scienza nella cultura e nella società umana è il fruttodel suo grande sviluppo, sul piano sia teorico che pratico. Ed è proprio tale svi-luppo a porre problemi di carattere eminentemente “filosofico”. Ciò avviene, inparticolare, con l’evoluzionismo darwiniano, ma anche con quelle teorie fisiche

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(ad esempio con il principio di conservazione dell’energia) che tendono a unifi-care le forze fondamentali della natura, e con le nuove scienze umane e sociali,che fanno pensare a una possibilità nuova di conoscenza, controllo e regolazionedella condotta e dei processi economico-sociali.

Vi è inoltre il problema dell’unitarietà e dell’interdipendenza fra i diversi setto-ri della scienza, che si pone, nell’Ottocento, proprio mentre si accentua la spe-cializzazione scientifica e quello delle finalità dello sviluppo tecnico-scientifico,in un mondo che muta sempre più rapidamente.

Malgrado le numerose differenze con il Romanticismo, esistono alcuni aspetticomuni, legati al fatto che anche il Positivismo – come il Romanticismo – si sfor-zerà di fornire una prospettiva unitaria della realtà, cercando di determinare imolteplici nessi che esistono fra gruppi di fenomeni apparentemente diversi. Essoinoltre, con la sua dichiarazione di fede nella scienza e nel progresso dell’uma-nità, sovraccaricherà di significati la stessa scienza, facendone il fondamento diuna rigenerazione spirituale della società umana.

Una nuova idea di scienza e di enciclopedia del sapere

Per Auguste Comte (1798-1857), lo sviluppo del sapere scientifico e tecnico hacreato le condizioni per realizzare un progresso effettivo dell’umanità. Soloentrando nello stadio positivo (o “scientifico”) l’umanità può costituire un nuovoordine intellettuale e politico-sociale.

Con l’avvento dello stadio positivo tende ad affermarsi un nuovo concetto dellascienza. Compito di questa, sottolinea Comte, è riportare i fatti alle loro leggi, cioèalle “relazioni costanti che esistono fra i fenomeni osservati”. La scienza supera lostadio metafisico quando non si chiede più il perché dei fenomeni (le loro causeprofonde, nascoste), ma come essi si verifichino, cioè in base a quali fatti e rela-zioni fra fatti. Essa guarda con un atteggiamento razionale e sperimentale aglieventi che la riguardano, ispirandosi al principio essenziale dell’invariabilità delleleggi naturali. Tale principio dà alla scienza la possibilità di vedere per prevedere,di anticipare razionalmente ciò che accadrà partendo da ciò che è accaduto e dal-la conoscenza di una legge costante che indichi come, in presenza di dati feno-meni, se ne determinino necessariamente altri.

Essenziale è cogliere il senso e la tendenza evolutiva dell’insieme delle scienze.Comte fornisce, a tal fine, un quadro del sistema delle scienze che si basa su unaloro precisa classificazione, su un loro ordine enciclopedico.

Vi sono, per lui, sei scienze principali, basate ciascuna su autonomi statuti teo-rici: la matematica, l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la sociologia.Esse hanno un ordine, che deriva sia dai diversi fenomeni che ogni scienza studiasia dalla successione storica con cui, per ciascuna scienza, si è verificato il pas-saggio dallo stadio teologico a quelli metafisico e positivo. I fenomeni studiativanno da un grado di maggiore generalità e semplicità a quello di maggiore spe-cificità e complessità.

Così la matematica è più astratta e generale dell’astronomia e questa della fisi-ca e della chimica. C’è una crescente dipendenza dei fenomeni studiati da unascienza da quelli delle scienze che la precedono: una dipendenza che, ad esem-pio, rende la matematica una scienza valida per tutte le altre, mentre questo nonvale nell’ordine inverso.

Compito principale della filosofia è comprendere il senso dello sviluppo scien-tifico e contribuire a promuoverlo. In particolare, essa deve comprendere il signi-ficato unitario dello sviluppo delle diverse scienze – sia pure sulla base del rico-noscimento dell’autonomia di ciascuna disciplina.

Anche John Stuart Mill (1806-1873) vede nella scienza il fondamento di unnuovo ordine del sapere da contrapporre all’Idealismo. Il suo positivismo si distin-gue da quello di Comte per l’ispirazione di tipo logico-metodologico, saldamenteancorata alla tradizione empiristica inglese. Per lui, infatti, esigenza prioritaria èquella di “rendere metodico il processo di ricerca della verità”.

Il procedimento scientifico basato sull’inferenza, cioè sul passaggio da partico-lare a particolare, vale non solo per le scienze fisiche, ma anche per i concettidella matematica e della geometria e per le proposizioni in cui esse si articolano,in quanto sono un prodotto di osservazioni particolari, di processi induttivi in cuivengono a risolversi tutte le dimostrazioni e deduzioni.

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L’evoluzionismo filosofico

Con Herbert Spencer (1820-1903) l’evoluzionismo diviene teoria filosofica. E siafferma non in un campo specifico della realtà (quello studiato dalla biologia), macome modello interpretativo della realtà nel suo complesso.

La preminenza del principio generale di evoluzione fa sì che persino le scienzefisiche vengano ricomprese nell’ambito delle scienze biologiche. In tal senso, la filo-sofia di Spencer viene vista anche come un tentativo di mettere in discussione ilprimato che le scienze fisico-matematiche avevano conquistato nell’età moderna.

Al livello più astratto tutti i princìpi si riducono essenzialmente a uno: il princi-pio della “redistribuzione continua della materia e del movimento”, che esprimela legge generale dell’evoluzione, nella quale vengono a sommarsi le leggi del-l’indistruttibilità della materia, della continuità del movimento e della persistenzadella forza. Tale legge si articola in tre momenti:

a. di integrazione della materia e di dispersione del movimento;b. di differenziazione in una molteplicità di parti di quel primo aggregato; c. di costituzione di un insieme ordinato, nel quale ogni componente si deter-

mina in rapporto a tutte le altre.

Spencer interviene anche sul problema del rapporto fra la scienza e la religioneesprimendo l’esigenza di una conciliazione fra esse. Il fatto che il mondo sia unmistero (che costituisce l’assunto fondamentale di ogni religione) è infatti unaconclusione a cui la stessa scienza deve arrivare. Essa si attua mediante cono-scenze relative, inserendo, di volta in volta, verità specifiche in orizzonti di veritàpiù ampi e generali, fino a giungere alla verità più generale, che, per essere tale,non può essere spiegata attraverso una verità più generale e resta così in-spiegabile. È l’Inconoscibile.

Le tendenze materialistiche

In Germania la filosofia positivistica della scienza – anche per reazione pole-mica a quella romantica della natura – si apre al materialismo. Alcuni Positivistiaffermano che i fenomeni “spirituali” possono essere ricondotti a cause materiali.Il pensiero può essere spiegato in termini di forze materiali, cioè come movimen-to indotto dall’esterno sugli organi sensoriali e che si irradia fra le cellule della cor-teccia cerebrale. Si afferma che il pensiero cosciente è funzione del cervello, staal cervello come la bile sta al fegato o l’urina sta ai reni, cioè come ogni funzio-ne sta all’organo che la esercita.

Questo riduzionismo positivistico del pensiero al funzionamento dei centri ner-vosi determina veementi reazioni non solo negli ambienti tradizionalisti, maanche in filosofi convinti della necessità di tornare – quando si affrontano temi dievidente contenuto metafisico – alla cautela critica di Kant.

Persino Marx prende le distanze da elaborazioni che classifica come forme di“materialismo volgare”. In Italia Carlo Cattaneo (1801-1869) respinge le posizio-ni dei Materialisti tedeschi in quanto è convinto che esista una specificità dellacultura, delle idee che guidano la condotta umana e l’azione dei popoli, che nonpuò essere ridotta all’ambiente, alla razza, o al clima.

I progressi delle scienze fisico-matematiche

I progressi della scienza nell’Ottocento toccano praticamente ogni settore: nonsolo i saperi fisico-matematici, ma anche la biologia e, in misura crescente, lescienze storico-sociali e le scienze umane. Conosce un grande sviluppo l’econo-mia politica; la psicologia e la sociologia vengono a costituirsi come saperi scien-tifici autonomi, dotati di propri statuti teorici e metodologie.

Nella matematica il problema più pressante appare quello di “mettere ordine”nella disciplina e di svilupparla come costruzione logica dotata di una propriaautonomia e di uno statuto concettuale rigorosamente definito.

Nella geometria l’innovazione più rilevante è rappresentata dalle geometrienon-euclidee, basate su postulati diversi dal quinto postulato di Euclide , ad esem-pio, quello secondo cui per un punto passano infinite parallele o, al contrario, nes-suna parallela a una retta data.

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194FILOSOFIA E SCIENZA

Si afferma quindi che la validità dei teoremi della geometria non dipende dallaloro corrispondenza alla realtà (cioè dalla loro “verità”, dalla loro “evidenza” ecorrispondenza con l’ordinaria intuizione geometrico-spaziale), ma dalla coeren-za e non contraddittorietà dei procedimenti con cui vengono ricavati da determi-nati postulati. Non esiste quindi una verità assoluta, ma esistono solo delle veritàrelative a determinate premesse, ponendo un problema di estrema rilevanza perla filosofia.

Alla fine del secolo Jules-Henri Poincaré (1854-1912) affermerà che i princìpidella scienza non sono il frutto né dell’esperienza né di giudizi sintetici a priori.Essi sono solo delle convenzioni, cioè ipotesi, con cui si ordina l’esperienza cer-cando di darne un quadro unitario e coerente. Comunque, le leggi scientifichesono convenzionali, ma non arbitrarie. Sono costruite mediante linguaggi sceltiper la loro “comodità”, ma non sono “create”, perché l’uomo non crea i fatti chesono alla loro base e che si riferiscono ad una realtà comune.

Nella fisica il meccanicismo costituisce ancora il modello dominante, vieneapplicato a campi e settori nuovi (ad esempio in chimica, oppure in fisiologia) e,nella teoria fisica, costituisce la forma di spiegazione considerata “vera”. CosìPierre-Simon de Laplace (1749-1827) descrive l’universo come un’immensa mac-china cosmica, che funziona in base alle sole leggi della meccanica newtonianae secondo i princìpi di un determinismo assoluto.

Sempre più complesso, comunque, diventa lo sforzo degli scienziati di far rien-trare le nuove conquiste teoriche, dalla teoria ondulatoria della luce a quella delcampo magnetico, nell’orizzonte newtoniano della scienza.

Nella chimica si introduce la teoria atomica. La biologia diventa una “discipli-na di confine” fra la scienza e la filosofia, in particolare nei campi della fisiologiae della teoria dell’evoluzione. Nella fisiologia si adottano il modello meccanici-stico e i metodi della fisica e della chimica, mettendo in discussione il “vitalismo”,cioè la tesi che la vita sia il prodotto di una “forza vitale”, irriducibile a ogni altra.

La teoria dell’evoluzione

Ma è soprattutto con l’evoluzionismo che si avrà una svolta rivoluzionaria. Essosolleverà, nell’Ottocento, le più appassionate discussioni e avrà un’enormeinfluenza sul clima intellettuale e sulla stessa filosofia.

Di Jean-Baptiste de Monet de Lamarck (1744-1829) sono i princìpi della conti-nuità degli esseri viventi, del fatto che la funzione crei l’organo e della trasmissio-ne ereditaria dei caratteri acquisiti.

È comunque con Charles Robert Darwin (1809-1882) che la teoria dell’evolu-zione sarà definita e diverrà una componente fondamentale della cultura scienti-fica e della concezione del mondo dell’Ottocento. La sua teoria si basa su treprincìpi essenziali: quelli della lotta per l’esistenza, della selezione naturale edella trasmissione ereditaria delle variazioni più favorevoli. La lotta per l’esisten-za fa sì che si abbia solo la “sopravvivenza dei più adatti”, cioè degli individui piùdotati della capacità di adattarsi alle condizioni imposte dall’ambiente e dallalotta per la vita. Le variazioni più favorevoli, anche improvvise e avvenute casual-mente, possono essere oggetto di trasmissione ereditaria ed estendere così – alladiscendenza – quei caratteri più favorevoli, fino a trasferirli nell’intera specie.

Inoltre Darwin estende all’uomo l’ipotesi evoluzionista, individuando nellescimmie gli animali più prossimi agli uomini e loro possibili “progenitori”.

L’ irrompere delle scienze umane e sociali: la psicologia

L’Ottocento è anche il secolo nel quale le scienze umane e sociali conquistanoun posto di rilievo nell’ambito del sapere scientifico. La psicologia viene per laprima volta a costituirsi come una vera e propria “scienza”, con un proprio appa-rato concettuale e metodico.

A. Comte, a dire il vero, non fa rientrare la psicologia nel sistema delle scienze.Egli esclude che abbia validità l’introspezione o “osservazione interiore”, metodoallora usato in psicologia. Come studio dei processi psichici, la psicologia vieneda Comte ricompresa da un lato nella fisiologia e dall’altro nella sociologia, nellascienza dei fatti sociali.

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195FILOSOFIA E SCIENZA

J. Stuart Mill considera invece la psicologia una disciplina fondamentale, chestudia gli stati di coscienza, le loro connessioni e i rapporti associativi (di succes-sione o coesistenza da un lato, di somiglianza o dissomiglianza dall’altro) attra-verso cui i dati sensibili danno luogo a conoscenze sempre più articolate e com-plesse.

H. Spencer studia la psicologia dal punto di vista della teoria dell’evoluzione: lavita della coscienza è la forma più evoluta di adattamento all’ambiente, esiste unastretta continuità tra atti psichici e attività fisiologiche, tra ragione e istinto, men-tre non esistono “facoltà” dell’anima. Le azioni riflesse dell’organismo, comerisposta a stimoli ambientali, tendono col ripetersi a dar luogo a condotte semprepiù stabili, fino a farle diventare “istintuali”. In secondo luogo, Spencer sottolineala specificità che – nella vita psichica dell’uomo – ha l’introspezione, cioè la capa-cità dell’uomo di avvertire se stesso, distinguendo dall’oggetto il soggetto: una fun-zione che permette di unificare la molteplicità delle percezioni.

La nascita di una teoria psicologica scientifica (o psicologia fisiologica), dotata diun apparato sperimentale e di laboratori, avviene grazie ad alcuni allievi diHerbart. Theodor Gustav Fechner (1801-1887) stabilisce relazioni funzionali fracorpo e mente, misurabili e basate sull’assunto del parallelismo fra fenomeni psi-chici e fisiologici e sulla legge della corrispondenza quantitativa tra l’intensitàdello stimolo e l’intensità della sensazione che esso ha prodotto. Le correnti mate-rialistiche faranno proprie queste tesi e cercheranno di ridurre i fenomeni psichicia fenomeni fisiologici.

Altri sosterranno l’irriducibilità dello psichico al fisico. Wilhelm Max Wundt(1832-1920) basa la sua psicologia sperimentale sull’introspezione e sul metodosperimentale e sostiene che i fenomeni della psiche e quelli fisiologici formanodue serie parallele, quindi indipendenti.

La nascita della sociologia

La sociologia viene affermata come scienza in primo luogo dal fondatore delPositivismo, A. Comte, che la colloca al culmine del sistema delle scienze. Talescienza utilizza metodi e princìpi di altre, ma di queste è anche lo sbocco e ilcoronamento.

La sociologia considera i fenomeni sociali come se fossero “naturali”, regolatida leggi necessarie, anche se essi risultano ben più complessi e specifici di quellidella natura e non possono essere ridotti a questi.

Come la fisica, anche la sociologia deve realizzarsi mediante una statica ed unadinamica sociale. La prima è studio delle leggi e delle relazioni che esistono fra leistituzioni, i costumi, le tradizioni, i sistemi di idee di un popolo. La seconda è stu-dio delle leggi di movimento della società, quindi dell’evoluzione delle istituzio-ni giuridiche, politiche, sociali, culturali nei tre stadi di sviluppo dell’umanità. Laprima è una teoria dell’ordine sociale, la seconda una teoria del progresso.Quest’ultima si lega alla prospettiva – già formulata da Saint-Simon –dell’assunzione da parte degli scienziati e dei tecnici di un ruolo di governo nellasocietà.

Secondo J. Stuart Mill, occorre estendere anche alla sociologia i metodi dellescienze fisiche, cercando nei fenomeni sociali e umani delle leggi e delle correla-zioni causali. La necessità con cui essi avvengono va intesa non come determina-zione assoluta di ogni atto umano ad opera di cause antecedenti, ma come pro-dotto di cause specifiche, spesso concomitanti. Le società sono composte da indi-vidui: il loro studio deve quindi tener conto delle leggi della natura umana stabi-lite dalla psicologia e inoltre non possono essere spiegate secondo necessità“matematica”. La sociologia deve, invece, tener conto della concomitanza dei fat-tori causali che determinano i fenomeni sociali e, soprattutto, deve descrivere ten-denze di sviluppo senza poter formulare – a differenza di ciò che aveva afferma-to Comte – previsioni vere e proprie.

H. Spencer fonda anche la sua teoria della società sul modello evoluzionistico del-l’adattamento all’ambiente, ma applica solo parzialmente il modello biologico (perdeterminare la legge generale di aggregazione, articolazione e determinazione del“tutto” sociale, nelle sue parti e articolazioni), in quanto respinge qualsiasi visione“organicistica” della società, nella quale l’individuo sia subordinato al “tutto”.

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196FILOSOFIA E SCIENZA

L’economia politica “classica” e “marginalista”

Con la Rivoluzione industriale nasce anche la moderna economia politica.Dopo la prima teorizzazione liberista di Adam Smith (1723-1790), nell’Ottocentosono Ricardo e Marx a studiare effetti e problemi indotti dall’industrializzazione.Con loro i fenomeni dell’economia appaiono attraversati da contraddizioni, squi-libri e conflitti, perdendo quella capacità automatica, “naturale”, di conseguireuna stabilità ed un equilibrio, che possedevano nella teoria di Smith.

Per David Ricardo (1772-1823) il prezzo “naturale” di un prodotto dovrebbecorrispondere unicamente alla quantità di lavoro che è stato necessario erogareper realizzarlo. Inoltre, a differenza di ciò che aveva affermato Smith, Ricardo hadescritto la presenza, nel mercato, di classi in aperto conflitto fra loro.

Da Karl Marx (1818-1883) il sistema capitalistico viene descritto comeun’“immane raccolta di merci”. La misura comune di ogni merce è il tempo dilavoro socialmente necessario, cioè il tempo medio di lavoro che è necessario ero-gare per produrre le merci. L’operaio vende come merce la propria forza-lavoro,cioè una merce che non è come le altre, in quanto è l’unica che, consumandosi,produce a sua volta altre merci, altri valori. Anzi, il valore d’uso della merce-lavo-ro è superiore al suo valore di scambio, poiché se una parte delle merci che pro-duce servono a compensare il capitalista delle spese anticipate per la produzione(e, fra queste, le spese volte a “riprodurre” la merce-lavoro stessa, cioè a far vive-re l’operaio e la sua famiglia), un’altra parte costituisce invece un di più (un plus-valore ) che viene incamerato dal capitalista.

Il capitalista tende costantemente a intensificare la produttività del lavoro –anche attraverso lo sviluppo tecnico. Ma la concorrenza fra i capitalisti e la neces-sità di produrre più beni con meno lavoro determinano una proletarizzazione cre-scente e una caduta tendenziale del saggio di profitto, una crescente sfasatura frala massa di prodotti immessa nel mercato e la capacità di acquisto dei consuma-tori-proletari e di conseguenza periodiche crisi di sovrapproduzione. Da qui l’a-pertura della prospettiva rivoluzionaria, che è l’obiettivo politico di Marx.

Alla teoria economica classica risponde la teoria marginalista o neoclassica, aopera di William Stanley Jevons (1835-1882), Leon Walras (1834-1910) e KarlMenger (1840-1921). Essa si basa su una concezione soggettiva del valore, sul-l’utilità di un bene. Il valore di un bene non dipende più, come per l’economiaclassica, marxista e non marxista, dal tempo di lavoro occorrente per produrlo, madalle preferenze di un soggetto, cioè dal suo apprezzamento del bene stesso, dallasua utilità o valore d’uso.

Il valore viene identificato col concetto di utilità marginale, cioè con l’utilità cheavrebbe una dose aggiuntiva, infinitesima, di un dato bene.

Alla base del marginalismo c’è la fiducia che nell’universo del mercato si affer-mi sempre – come nell’universo fisico – un principio regolatore e di equilibriodell’insieme dei comportamenti. Tale equilibrio presuppone un regime di concor-renza perfetta ed un’altrettanto perfetta trasparenza del mercato: tale cioè che cia-scun attore sia perfettamente informato.

Si ipotizza un equilibrio automatico del mercato in base alla domanda ed all’of-ferta e si descrive il mercato stesso come regolato da leggi aventi un carattere diassoluta obiettività affidato a logiche razionali di scelta degli individui, determi-nate dal rapporto fra preferenze e scarsità di risorse.

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197FILOSOFIA E SCIENZA

Ripensamenti critici sulle scienze

Fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, proprio mentre conosce unadiffusione mondiale, il modello moderno di razionalità scientifica comincia adessere messo in discussione, almeno nei termini che aveva assunto nella culturapositivistica.

Si cominciano a sollevare dubbi sull’immagine positivistica del mondo e, in par-ticolare, sull’assolutizzazione della scienza e della tecnica che era stata compiutada settori di quella cultura. Si critica il riduzionismo naturalistico, cioè l’idea chei fenomeni e le leggi della psiche o della natura organica possano essere ricondottia quelli della natura inorganica. Si comincia a dubitare che – almeno in determi-nati campi – sia possibile formulare leggi oggettive e necessarie. Si avvia inoltreuna riflessione critica sull’idea di progresso, basata sulla convinzione che, graziesoprattutto allo sviluppo tecnico-scientifico, si apra all’umanità una prospettivaillimitata di benessere e di sviluppo civile.

Un ripensamento critico forte si manifesta all’interno delle scienze e della rifles-sione filosofica sulla scienza, come mostrano le geometrie non-euclidee o lediscussioni sulle teorie ondulatoria e corpuscolare della materia, o sull’entropia.

Ma un attacco più radicale comincia a manifestarsi in alcune filosofie, nellequali alla scienza viene imputata l’incapacità di conferire senso all’esistenza del-l’uomo. Si nega che quello della scienza e della tecnica sia l’unico modello dirazionalità possibile.

La scienza come rassicurazione e come strumento di dominio

Già negli ultimi anni dell’Ottocento, un segnale critico forte – che avrà profon-dissima influenza nel pensiero del Novecento – viene dalla filosofia di Nietzsche.

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) è contro ogni forma di ottimismodella scienza e della ragione. Ritiene che nello sviluppo della società e della cultu-ra, l’ideale della scienza abbia contribuito a smorzare la forza vitale, originaria ecreatrice, degli individui e che la cultura dell’Ottocento sia dominata dall’intellet-tualismo e perciò condannata alla decadenza, perché incapace di esprimerel’autenticità e il senso dell’esistenza.

Contro il Positivismo e, in genere, contro ogni atteggiamento scientista la criticaè radicale. I “naturalisti materialisti” credono di potersi avvicinare a un “mondo diverità” con l’aiuto della “piccola quadrata ragione umana”, ma il loro lavoro dicalcolatori e di matematici spoglia l’esistenza umana della varietà e ricchezza deisuoi aspetti per interpretarla meccanicamente con “numeri, calcoli e bilance”,riducendola a ciò che si può osservare e percepire. La percezione dà solo la super-ficie della realtà, la sua “pelle”. Un mondo essenzialmente meccanico è unmondo privo di senso.

Attraverso la scienza, si attua il dominio dell’uomo sulle cose, si realizza un’af-fermazione della potenza umana. I concetti della scienza non sono altro che fin-zioni o illusioni necessarie all’azione dell’uomo sul mondo. L’idea di una stabilitàe di un ordine del mondo – alimentata dalla scienza – non è altro che una proie-zione del nostro bisogno di sicurezza, dell’orrore del caos e del disordine deldivenire che caratterizza l’esistenza umana.

Da un punto di vista diverso, di tipo spiritualistico, Étienne-Emile-MarieBoutroux (1845-1921) critica l’assolutezza attribuita dal Positivismo alla scienzae alle leggi di natura, a cui contrappone la contingenza delle leggi di natura.

L’Empiriocriticismo come critica interna alla scienza

Una tendenza critica si delinea inoltre all’interno della filosofia della scienza,alla fine del secolo, con l’Empiriocriticismo.

TENDENZE CRITICHE FRA OTTOCENTO E NOVECENTO6

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198FILOSOFIA E SCIENZA

Uno dei suoi maggiori esponenti, Ernst Mach (1838-1916), rivede criticamentealcuni concetti della fisica che presentano caratteri metafisici. Ad esempio, sosti-tuisce il concetto di sostanza con quello di legge costante di relazioni e ricondu-ce il concetto di causa a quello di funzione, cioè alla relazione matematica che èpossibile determinare fra diversi fatti. In tal modo conduce una critica rigorosa adalcuni concetti portanti della meccanica newtoniana. Ad esempio, egli respinge iconcetti di spazio, tempo e movimento assoluti, in quanto ne afferma l’origineempirica, quindi la relatività, preparando il terreno alla teoria einsteiniana.

Attraverso tale critica Mach contribuisce a mettere in discussione il carattere“assoluto”, cioè necessario ed evidente, che si pretende assegnare ai princìpi dellameccanica newtoniana.

ASPETTI DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA DEL NOVECENTO7

La revisione critica della scienza ad opera della scienza

Proprio mentre si sviluppa la reazione al Positivismo e allo “scientismo”, indiversi campi di ricerca si registrano conquiste decisive, tali cioè da determinareuna vera rivoluzione teorica nella scienza. Tale rivoluzione comporterà l’abban-dono o il superamento del modello di scienza a cui faceva capo il Positivismo,talora di concezioni, come quella meccanicistica, che risalgono all’età moderna.È il caso delle teorie della relatività e dei quanti di energia, o dei nuovi, rigorosifondamenti logici che vengono stabiliti per la matematica, o dell’elaborazionedella psicanalisi freudiana o della linguistica di De Saussure.

Anche se non pochi filosofi cercheranno di interpretare tali trasformazioni comesegno di una crisi dei poteri conoscitivi della scienza, va sottolineato il fatto chetali trasformazioni avvengono all’interno della scienza e ad opera della scienzastessa: sono cioè il frutto dell’accumularsi di esperienze, teorie e problemi che for-zano i quadri concettuali tradizionali e aprono prospettive del tutto nuove eimpreviste.

Gli interrogativi che si pongono gli scienziati sono spesso di natura filosofica,oltre che scientifica, tali da investire il problema della conoscenza e quello dellastruttura della realtà. Si cercano nuove vie e si riconsiderano criticamente i fon-damenti e i paradigmi della scienza “classica”.

Tutto questo susciterà un dibattito vivacissimo fra i filosofi della scienza ed avràeffetti profondi sulla riflessione filosofica. Il rapporto stesso fra scienza e filosofiarisulterà molto più problematico. E altrettanto problematico risulterà quello frascienza e scienza, cioè fra scienze della natura e scienze umane e storico-sociali.

Un altro aspetto di grandissima rilevanza culturale e filosofica è, infatti, costi-tuito dallo sviluppo – anzi dalla vera e propria “esplosione” – delle scienze umanee sociali. Se alcune di queste, dall’etnologia, alla sociologia, alla psicologia, sononate nei due secoli precedenti, è nel Novecento che esse conoscono il loro mag-giore impulso.

In ciascuna di esse si sviluppano confronti teorici sulla questione della raziona-lità, di nuovi modelli e forme di razionalità, talvolta in connessione con alcunidegli indirizzi filosofici contemporanei, ma più spesso seguendo strade autonome.Il tipo di razionalità che in tali scienze viene seguito non è quello delle connes-sioni causali necessarie, né delle leggi “invariabili” che vengono attribuite allediscipline matematico-naturalistiche. Tale razionalità si esprime in forma diversada disciplina a disciplina e – spesso – fra i diversi indirizzi che si confrontano inuna stessa disciplina.

I princìpi di relatività, complementarità e indeterminazione

Le teorie della relatività e dei quanti danno luogo a una delle rivoluzioni piùprofonde e radicali della scienza, mettendo in discussione i presupposti della con-cezione della natura elaborati da Newton alla fine del Seicento.

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199FILOSOFIA E SCIENZA

Viene meno l’idea di un universo uguale a se stesso, poggiante su uno spazio esu un tempo assoluti, e si afferma, invece, la tesi che il modello di universo che ciraffiguriamo dipenda essenzialmente dal sistema di riferimento a cui ci si rifà, cioèdal punto di vista dell’osservatore e dagli strumenti che egli adotta. Con la nuovafisica alla realtà osservata non si possono attribuire caratteristiche che non sianoil frutto di una precisa determinazione della posizione dell’osservatore e dei pro-cedimenti di osservazione e misura effettuati.

È Albert Einstein (1879-1955) a smantellare un caposaldo della fisica newto-niana, quello dell’“assolutezza” dello spazio e del tempo. Nella teoria della rela-tività lo spazio ed il tempo sono grandezze relative all’osservatore che intendemisurarle, cioè hanno una realtà determinabile solo attraverso un campione cheserva a misurarle.

Di Max Planck (1858-1947) è la formulazione della teoria dei quanti di energia,in base alla quale l’emissione e l’assorbimento delle radiazioni elettromagnetichenon avvengono in modo continuo ma secondo quanti di energia, cioè in base a gra-nuli o unità di energia. Con essa si pone anche una questione di rilievo “filosofico”:come si può conciliare l’adozione, per la spiegazione di alcuni fenomeni fisici, delmodello corpuscolare e, per quella di altri fenomeni, del modello ondulatorio?

Niels Bohr (1885-1962) propone il principio di complementarità, affermandoche, in mancanza di una teoria unitaria della luce, entrambi i modelli, quello cor-puscolare e quello ondulatorio, sono da considerare validi, se applicati ai soligruppi di fenomeni a cui riescono a dare una spiegazione rigorosa ed efficace.Determinante diviene la questione degli strumenti di osservazione, poiché, quan-do si controlla il comportamento di una particella, si possono usare diversi dispo-sitivi di osservazione, taluni legati alla teoria corpuscolare, altri a quella ondula-toria, ciascuno dei quali può essere efficace a seconda dei casi. Non si tratta diuna contraddizione insolubile, ma di due approcci complementari, anche se nonattuabili contemporaneamente.

Werner Karl Heisenberg (1901-1976) formula il principio di indeterminazione,col quale viene sancita l’insufficienza del principio di causalità a spiegare i feno-meni della micro-fisica: infatti, nella fisica atomica l’energia luminosa impiegataper osservare i fenomeni tende a modificare i fenomeni stessi in modo imprevedi-bile. La posizione e la velocità di una particella (o fotone) sono in correlazioneinversa: quanto più si cerca di determinare l’una tanto meno si riesce a determi-nare l’altra, poiché l’osservatore induce modificazioni nell’oggetto osservato.

Matematica e crisi dei fondamenti

Simile – per molti versi – è la “crisi dei fondamenti” a cui giunge la matemati-ca. In essa si afferma quell’esigenza di una rifondazione logica della disciplinache i grandi matematici del secolo precedente avevano già espresso. Comenell’Ottocento, il cuore del problema resta quello del rigore dei fondamenti e deiprocedimenti matematici, a cui si accompagna la questione della natura degli entimatematici. Si afferma la tendenza a identificare la matematica con la logica, for-malizzando la matematica e traducendo la logica in sistemi di simboli e di calco-lo algebrici, recuperando l’antica ipotesi leibniziana.

Ciò farà emergere alcune antinomie logiche, ad esempio quella degli insiemi in-finiti, oppure quella – per molti versi decisiva – messa in evidenza da Kurt Gödel(1906-1978), il quale accerta che è impossibile dimostrare la non contraddittorietàdi un sistema logico-matematico restando all’interno del sistema stesso. Per farlo,occorre quindi uscire da quel sistema, inserendolo in un sistema più ampio e com-prensivo.

La rivoluzione psicoanalitica

La psicoanalisi di Sigmund Freud (1856-1939) porta la critica al modello otto-centesco di razionalità scientifica nel cuore stesso dell’uomo. Con la scoperta del-l’inconscio è un’immagine complessiva dell’uomo a essere messa in discussione:quella che ne identifica la natura con la razionalità. Lo spazio della razionalità,della coscienza, è drasticamente ridotto, insidiato dai contenuti rimossi dalla co-scienza stessa e che operano nell’inconscio. L’io viene descritto come un io desi-derante, mosso da pulsioni profonde.

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200FILOSOFIA E SCIENZA

Le caratteristiche più rilevanti della svolta freudiana possono essere così sche-maticamente riassunte:

a. si afferma un nuovo concetto di Io, poiché la sfera della coscienza viene acostituire solo una dimensione – e una dimensione relativamente ridotta – dellavita psichica, mentre buona parte di questa si svolge nella sfera dell’inconscio;

b. i processi psichici si sviluppano attraverso conflitti tra le diverse sfere –coscienti e incoscienti – della personalità;

c. si configura una nuova idea dei bisogni umani, delle pulsioni, e una nuovaimmagine dell’idea di “piacere” e di “scopo” dell’azione umana;

d. le pulsioni che hanno un’influenza fondamentale sulla personalità umanasono quelle sessuali;

e. tali pulsioni verranno più tardi unificate, insieme a quelle di autoconserva-zione, nel concetto di Eros, che verrà descritto in opposizione e in conflitto conuna pulsione del tutto opposta, identificata con l’istinto di morte (o Thánathos),cioè con un istinto distruttivo e autodistruttivo;

f. viene a stabilirsi una delimitazione nuova, molto meno rigida e precisa, fra“normalità” e “anormalità” dei fenomeni della psiche.

Così numerose questioni poste da Freud manifesteranno un contenuto “filosofi-co”, e non solo “scientifico”, investendo e attraversando buona parte delle arti edelle “scienze umane”.

L’Io appare – a Freud – come un servo di tre padroni, perché deve al contem-po mettere d’accordo “tre tiranni” come il mondo esterno, il Super-io (che è giu-dice, censore, ecc.) e l’Es (l’inconscio).

Carl Gustav Jung (1875-1961) imputa a Freud l’unilateralità della sua psicoana-lisi, che dà troppo spazio agli “istinti naturali” e non riconosce il ruolo dello “spi-rito”. Quanto alla sessualità, egli ne circoscrive l’importanza, riconducendola aduna energia psichica (la libido) che non ha solo connotazioni sessuali, ma rac-chiude in sé una pluralità di impulsi e di forze.

Oltre all’inconscio personale Jung afferma l’esistenza di un inconscio collettivo.Nel primo vi è, in gran parte, il materiale per il quale non c’è più posto nellamente conscia, o che è stato rimosso perché incompatibile per la coscienza. Ilsecondo è il deposito dei modi tipici di reagire elaborati dall’umanità fin dai suoiprimordi. Nei contenuti dei sogni le fantasie e le visioni provenenti dall’inconsciocollettivo attingono gli strati più profondi dove si trovano gli archetipi, che appaio-no sempre in forma personificata o simbolica.

Nuovi indirizzi nella psicologia

La psicanalisi non esaurisce i progressi della psicologia. Grande sviluppo, ad esempio, conoscono la teoria dei riflessi condizionati

nell’URSS (Ivan PetrovicPavlov, 1849-1936) e il behaviorismo (dall’inglese beha-vior, comportamento) negli Stati Uniti (con John Watson, 1878-1958 e BurrhusFrederik Skinner, 1904-1990). Le due tendenze sono accomunate da una criticadella psicologia introspettiva, poggiante sull’analisi interiore, e da un’impostazio-ne fondata sullo studio di condotte oggettive, le uniche ad essere effettivamentemisurabili e controllabili. È in base a riflessi condizionati, oppure attraverso mec-canismi di stimolo-risposta che si determinano i processi di apprendimento.

Diverso è l’orientamento di altre due scuole, la psicologia della Gestalt, o psi-cologia della forma, e la psicologia genetica. Entrambe si oppongono alla tesi chela psiche sia come una tabula rasa su cui, gradualmente, gli stimoli dell’ambien-te vengono a costruire tipi di condotta umana. Secondo la psicologia della formala percezione avviene attraverso princìpi di organizzazione e unificazione dei datisensibili o forme globali, che unificano quei dati in un campo percettivo, cioè inun principio di organizzazione. La psicologia genetica di Jean Piaget (1896-1980)cerca di ricostruire la storia evolutiva dell’individuo dall’infanzia all’età adulta edelle strutture mentali di ogni persona, dalla nascita all’età adulta, attraverso quat-tro diversi stadi di sviluppo dell’intelligenza e cioè gli stadi: 1. dell’intelligenzasenso-motoria (da 0 a 36 mesi d’età); 2. dell’intelligenza intuitiva (3-7 anni); 3. delpensiero operatorio concreto (7-11 anni); 4. del pensiero ipotetico-deduttivo (11-14 anni).

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201FILOSOFIA E SCIENZA

Temi dell’antropologia culturale

Anche l’antropologia culturale ha assunto una grande rilevanza teorica. Conessa, e con l’etnologia, è lo stesso concetto di cultura ad essere reinterpretato (perattribuirgli un significato più ampio in cui rientrano valori, atteggiamenti e modidi organizzazione della società) e, soprattutto, ad essere relativizzato. In tal modo,l’etnocentrismo occidentale viene messo in discussione nella sua pretesa di esse-re considerato il modello più avanzato di cultura. L’“altro” non è più consideratoun “selvaggio”, ma il portatore di un sistema di valori, esperienze e pratiche coe-renti, diverse da quelle dell’uomo “occidentale”.

Uno dei problemi maggiormente discussi dall’antropologia culturale è quello dellamentalità primitiva e della differenza fra pensiero magico e pensiero scientifico. Peralcuni (James Georges Frazer, 1854-1941) c’è evoluzione nelle diverse forme dimentalità. Inoltre i primitivi possiedono la nostra logica, ma ne fanno un “cattivouso”: ad esempio, confondono il principio di causa con quello della precedenza neltempo. Per Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939), invece, la mentalità primitiva ha caratte-re pre-logico, cioè usa categorie diverse da quelle del pensiero occidentale.

Un altro problema dell’antropologia culturale è quello della differenza fra unapproccio diacronico ed un approccio sincronico: il primo mira a cogliere le leggidi sviluppo della società umana; il secondo guarda alle costanti, alla coerenza diinsiemi di regole e simboli in un dato sistema. Fra i maggiori esponenti dell’indi-rizzo diacronico sono Edward Tylor (1832-1917) e Lewis Henry Morgan (1818-1881). Si ipotizza l’evoluzione di ogni società umana secondo un modello di pas-saggio da uno stato selvaggio ad uno di barbarie ed infine di civiltà. Si sottintendel’esistenza di una natura umana identica nei diversi popoli, che tende a dispiega-re le sue potenzialità in presenza di determinate condizioni.

Ad una prospettiva essenzialmente sincronica si ispirano il Funzionalismo, di cuiè massimo esponente Malinowski e lo Strutturalismo, teorizzato da Lévi-Strauss.Bronislaw Kaspar Malinowski (1884-1942) studia le forme culturali fondamentalidi comunità a noi contemporanee. Esse sono sistemi coerenti, ben ordinati e fon-dati su modelli di valore, su forme di organizzazione economica e su veri e pro-pri sistemi giuridici. Malinowski, inoltre, critica la tesi che la mentalità primitivaabbia un carattere “pre-logico”. Claude Lévi-Strauss (1908) afferma che nelle cul-ture vi sono forme permanenti, strutture mentali invarianti, fra cui esiste una gran-de varietà di possibilità di combinazioni, quindi di “culture”. Ogni evento edaspetto di una cultura va studiato in riferimento alla struttura di cui è parte e nonin riferimento alla sua evoluzione.

Lévi-Strauss contesta la tesi di Lévy-Bruhl che la mentalità primitiva sia diversadalla nostra. La cosiddetta “civiltà” moderna non è il momento culminante, losbocco di un processo storico-evolutivo.

Per Lévi-Strauss viene meno l’etnocentrismo che ha caratterizzato per secoli lacultura dell’Occidente, perché non ci sono popoli “primitivi” e popoli “evoluti”,ma solo popoli diversi.

Indirizzi di sociologia

La sociologia conosce anch’essa un fortissimo sviluppo nel Novecento. I model-li di società descritti da Comte e Spencer vengono messi in discussione come trop-po generali ed astratti, basati su princìpi e “leggi” di sviluppo troppo rigidi e inve-rificabili. Viene, invece, ad affermarsi l’esigenza di una maggiore scientificità del-l’indagine sociologica, identificata con una maggiore verificabilità empirica. Pertaluni oggetto dell’indagine sono sempre gli individui, mentre, per altri, è lasocietà a venir trattata e considerata come se fosse una realtà autonoma, tale datrascendere le persone.

Emile Durkheim (1858-1917) prende le distanze dal pensiero di Comte, criti-cando soprattutto l’astrattezza dei suoi schemi. A suo avviso, difatti, devonoessere studiate specifiche società e specifici fenomeni sociali. La sociologia è unascienza oggettiva che ha un oggetto specifico, distinto da quello di tutte le altrescienze: il fatto sociale, da osservare e spiegare in modo analogo ai fatti spiegatidalle altre scienze, come cose. Durkheim afferma il primato della società neiconfronti dell’individuo: l’individuo nasce dalla società, non la società dagliindividui.

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202FILOSOFIA E SCIENZA

Vilfredo Pareto (1848-1923) afferma che la sociologia non ha tanto il compito difavorire il miglioramento della società, quanto quello di conoscerla in modo scien-tifico. L’agire degli uomini viene suddiviso in azioni logiche e azioni non logiche.L’economia studia l’agire logico dell’individuo, cioè il suo operare scegliendo mezziritenuti adeguati agli scopi prefissi. La sociologia cerca soprattutto di comprendere ilsuo agire non-logico. In tutte le società si verifica sempre una separazione tra lamassa dei governati e le élite di governo. Mentre nelle masse prevalgono orienta-menti irrazionali, nelle élite tendono a prevalere forme di razionalizzazione dellacondotta. La storia di una società è segnata dalla circolazione delle élite.

Talcott Parsons (1902-1979) dà alla sociologia un approccio funzionalista, nelquale si studiano le condizioni di funzionamento di un sistema sociale guardando airapporti di interazione fra individui e fra gruppi sociali. Tali rapporti, più che da unpunto di vista psicologico, vanno studiati e compresi guardando alle diverse posizio-ni (o status) in cui gli individui si collocano ed ai ruoli che svolgono, determinantinell’influire sulla condotta degli individui.

Revisioni della teoria economica marginalista

Nel Novecento, molto vivace è la discussione sul Marginalismo, la cui egemoniaresterà comunque intatta fino agli anni Trenta, malgrado l’affermarsi di alcune posi-zioni critiche.

Una di queste è espressa da Joseph Alois Schumpeter (1883-1950), il quale cercadi trovare una spiegazione a fenomeni (ad esempio quelli dello sviluppo economicoe delle crisi cicliche) che il Marginalismo sembrava incapace di comprendere. Eglisposta l’analisi dal consumatore all’imprenditore, studiando il fenomeno delle inno-vazioni tecnico-produttive e nell’organizzazione del lavoro e dei servizi di vendita.

John Maynard Keynes (1883-1946) critica la teoria dell’equilibrio “naturale” delmercato, constatando che non sempre il reddito viene speso integralmente, come siverifica sia per le spese di investimento che per quelle relative ai consumi. Egli invitaquindi a guardare non al mercato in astratto, ma alla domanda effettiva dei beni.

Il mercato è dominato dall’instabilità e dall’incertezza riguardo al futuro, poiché icomportamenti di investitori, risparmiatori e banche possono variare e provocare oscil-lazioni e squilibri nel mercato, che non vengono spiegati dall’economia marginalista.

Appare decisivo il ruolo dell’autorità pubblica, dello Stato. Decisivo, in particolare,nella lotta alla disoccupazione. Per la teoria neoclassica bastava, per combatterla, unadiminuzione dei salari. Keynes afferma, invece, che gli effetti occupazionali di untaglio delle retribuzioni sono del tutto problematici, in quanto non necessariamente iprofitti si riconvertono in investimenti: essi possono cioè essere accantonati nel rispar-mio bancario. Più efficace e diretto è invece un aumento della liquidità monetariadeciso dallo Stato e un aumento delle spese pubbliche, che possono sopperire allecarenze della domanda privata e costituire un potente sollecitatore per un aumentodella domanda aggregata, quindi del ciclo consumi/investimenti.

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203FILOSOFIA E SCIENZA

Tempo della scienza e tempo della coscienza

Nella prima metà del Novecento, da diverse posizioni filosofiche prosegue lamessa in discussione del modello di razionalità della scienza.

Il pensiero di Henri Bergson (1859-1941) costituisce uno dei momenti più inten-si di tale critica alla scienza. In lui c’è un atteggiamento di rifiuto dello scientismo,non delle scienze. Egli non solo tiene conto delle ricerche che avvengono in alcu-ni campi scientifici, ma vuole costruire una filosofia che sia in grado di interpre-tare e riattivare la ricerca scientifica. L’ideale di Bergson è quello di una filosofiache sappia procedere in collaborazione con la scienza, anche se orientata in unadirezione opposta a quella della scienza: l’una mirante a un fine utilitario – ildominio sulle cose – l’altra all’intuizione diretta dell’essere e della realtà.

La sua critica riguarda soprattutto la cultura positivista, che aveva privilegiatouna visione della realtà tutta centrata sui fatti e sulle loro relazioni quantitative.Con la psicologia scientifica aveva quantificato l’attività psichica, l’aveva ridotta a“dati” rappresentati spazialmente e così misurati, calcolati, tradotti in processi ditipo deterministico. Dalla scienza il tempo è stato ridotto a spazio per poterlomisurare e per potersene avvalere. Questa riduzione ha però un valore pratico,non teorico, risponde all’esigenza dell’uomo di intervenire sul mondo, di mani-polarlo.

L’effetto del primato dell’intelligenza, delle scienze e delle macchine è statonegativo sull’uomo. Ha reso la sua coscienza povera e passiva, come esterioriz-zata e frammentata nel tempo, sempre più dipendente e smarrita in un mondo dicose.

All’immagine della realtà fornita dalla scienza, Bergson contrappone quella cheproviene dall’intuizione che rimanda alla coscienza, al tempo come durata, aun’evoluzione creatrice e allo slancio vitale, tutti aspetti di una realtà spiritualeche sfugge alla visione della scienza.

Il problema del rapporto tra scienze della natura e scienze dello spirito

Neokantismo e Storicismo tedesco pongono la questione dell’oggettività dellaconoscenza scientifica, ma anche – e soprattutto – della validità della cono-scenza fornita dalle scienze dello spirito, con ciò stesso rivendicando la qualificadi scienze non solo a quelle naturali, ma anche a quelle dello spirito, che riguar-dano l’uomo. Lo sforzo è quello di fondare teoreticamente l’autonomia degli sta-tuti di queste scienze.

Il neo-kantiano Wilhelm Windelband (1848-1915) distingue nettamente lescienze dello spirito dalla scienze della natura, in quanto le scienze storiche e, piùin generale, le scienze dello Spirito, sono idiografiche, cioè individualizzanti,riguardano i fatti nella loro particolarità, nella loro singolarità irriducibile, mentrele scienze della natura sono nomotetiche, riguardano soprattutto le leggi che rego-lano determinati tipi di fatti. In altri termini, le prime hanno per oggetto singolieventi, le seconde riguardano invece leggi di valore generale.

Lo Storicismo si pone il problema del fondamento della scienza storica, cioèdelle possibilità, dei contenuti e dei metodi di tale tipo di conoscenza.

Wilhelm Dilthey (1833-1911) distingue nettamente le scienze della natura dallescienze dello spirito. Il suo intento primario è quello di fornire una fondazioneepistemologica delle scienze dello spirito analoga a quella compiuta da Kant perle scienze matematico-naturalistiche. Critica la preminenza assegnata alle scien-ze della natura rispetto alle scienze dello spirito. La natura è per noi estranea,muta, mentre la società umana parla continuamente a noi, è realmente il nostromondo. I condizionamenti causali che stanno alla base dei processi della naturadivengono, sul piano storico, azioni e reazioni volontarie, quindi scopi, motivi chedeterminano le azioni degli individui e s’intrecciano fittamente tra loro.

LA FILOSOFIA E LE SCIENZE8

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204FILOSOFIA E SCIENZA

Max Weber (1864-1920) nel fondare il carattere scientifico degli studi storico-sociali si preoccupa di sottolinearne soprattutto il carattere non-valutativo. Egliafferma che la società va analizzata come realtà oggettiva, nella quale l’azione diogni individuo si intreccia con quella degli altri, determinando effetti che si mani-festano come risultanti di una rete di azioni e che, come, tali, sono constatabili.

L’individuo opera rivolgendosi a scopi e a valori, fra i quali effettua continua-mente le sue scelte. Ma occorre distinguere tale ambito da quello della scienza,distinguere valutare e conoscere.

Anche per Weber, come per Dilthey e per Windelband, è essenziale la com-prensione dell’oggetto di indagine prescelto, cioè l’immersione dell’osservatore inun mondo storico-sociale costituito da intenzioni soggettive, interazioni e valori.Ma, a differenza di Dilthey, egli non accetta il criterio storiografico dell’“espe-rienza vissuta” ed afferma la necessità di stabilire un’imputazione causale deglieventi, riconducendoli a un tipo ideale (o ideal-tipo), cioè ad un concetto (adesempio di “capitalismo”, “cristianesimo”, “feudalesimo”) che venga utilizzatocome regola generale (modello possibile di interpretazione dei processi socialiindagati) e che è frutto di scelte operate da chi interpreta la realtà. Anche i fatti sto-rici devono essere ricondotti a una legge dell’accadere. Ciò lega strettamente lastoria alla sociologia, che è scienza delle “leggi” di funzionamento della società,cioè scienza nomologica.

La funzione pratica della scienza

Il Pragmatismo attribuisce una funzione eminentemente pratica al sapere scien-tifico, in quanto capace di fornire schemi utili per l’esperienza. Il mondo vienedescritto dai filosofi pragmatisti come un campo di possibilità per l’azione umana;e la conoscenza – quindi anche la conoscenza scientifica – è strumento, mezzodi orientamento nel mondo.

Pur riconoscendo valore alla scienza e al pensiero scientifico, William James(1842-1910) ne contesta la pretesa totalizzante perché così esso rischia di farsmarrire all’uomo aspetti e momenti della vita umana importanti come quelli rela-tivi all’esperienza religiosa e all’esperienza morale. Oltretutto il pensiero scienti-fico separa l’uomo dai suoi bisogni e dai suoi desideri, mentre il pensiero dipendeda questi.

A fondamento della scienza c’è la volontà di credere. Senza interessi forti, lega-ti a prospettive di risultati e a valori, la stessa scienza sarebbe progredita moltomeno di quanto non abbia fatto storicamente.

Per lo Strumentalismo di John Dewey (1859-1952) la scienza rappresenta laforma più elevata di controllo razionale della nostra relazione attiva col mondo. Lascienza – afferma in polemica col Neopositivismo – è efficace nei confronti nonsolo della natura, ma anche del mondo umano e della stessa sfera etica, che èanch’essa suscettibile di una regolazione scientifico-razionale.

Questo ruolo della scienza si lega strettamente al carattere di precarietà, insta-bilità, incertezza e rischio che ha la realtà. È fallace l’idea di una stabilità e di unordine del mondo che abbiamo ereditato dal pensiero dei Greci. Una fallacia i cuipresupposti, anche impliciti, gravano ancora sia sulla scienza che sulla filosofia:ad esempio, attraverso i pregiudizi di una scissione tra teoria e prassi e quello diuna separazione tra la conoscenza comune e la conoscenza scientifica.

La scienza, invece, deve essere concepita in continuità con la conoscenzacomune e con la tecnica, in quanto, come queste, si costituisce mediante “l’usodi una tecnica operativa di manipolazioni e riduzioni”.

E poiché la scienza è modificabile, rettificabile, perfezionabile ed è quindi evo-luzione continua di concetti e teorie, in essa acquista un’importanza nuova la sto-ria della scienza.

Crisi delle scienze europee e ricerca di un nuovo significato dell’esistenza

Edmund Husserl (1859-1938) ritiene che si sia di fronte a una crisi profonda del-l’Europa e della sua cultura. Tale crisi è determinata, in particolare, da quella dellescienze europee. È, infatti, entrato in crisi un sapere scientifico che ha le sue radi-ci nel modello matematico e quantitativo galileiano, che non è in grado di daresenso neppure al proprio sviluppo. La scienza moderna ha astrattamente “obietti-

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205FILOSOFIA E SCIENZA

vato” e “tecnicizzato” il mondo. Galileo ha sovrapposto al mondo dell’esperien-za un mondo di oggettività ideali di tipo matematico. La natura è diventata una“molteplicità matematica”. Il mondo è stato risolto in sistemi di formule. Con lagrande affermazione delle scienze positive l’uomo moderno si è lasciato abba-gliare dalla prosperità che ne derivava, accantonando e rimuovendo problemi chesono decisivi per l’umanità. Così si è generata – con la civiltà della scienza e dellatecnica – un’umanità limitata e rinchiusa in un orizzonte angusto: “le mere scien-ze di fatti creano meri uomini di fatto”. Nella “miseria della nostra vita”, questotipo di scienza “non ha niente da dirci”. In un’epoca nella quale ci si sente sem-pre più “in balìa del destino”, la scienza sfugge ai problemi del senso o non-sensodell’esistenza umana.

È intorno al soggetto che essa non riesce a fornire risposte, poiché ha saputosolo “misurarlo”, traducendolo in realtà inerte, in “cosa”, limitandosi a constata-re ciò che è.

Se ci si limita al mondo come universo di puri fatti, non si è in grado di ricono-scere il “senso” della realtà, dell’azione umana, della storia. Il Positivismo è falli-to perché ha decapitato la filosofia, ha lasciato cadere tutti quei problemi chehanno realmente senso per l’uomo.

Ciò implica, per Husserl, non un rifiuto della scienza, ma l’esigenza di unascientificità di tipo nuovo, che sia del tutto diversa da quella in vigore, capace dioperare una revisione critica di tutto il sapere scientifico e di abbandonare atteg-giamenti di presunzione e velleità mai sopite di egemonismo. Il pensiero scienti-fico deve tornare al mondo-della-vita (Lebenswelt), a quel mondo intuitivo dellavita che a tutti è già dato, a una realtà “precategoriale”, cioè presupposta dal lin-guaggio e dalle categorie della scienza, nella quale soltanto trovano giustificazio-ne concetti e modelli di spiegazione delle scienze particolari.

La scienza e il senso dell’esistenza

Martin Heidegger (1889-1976) condivide con Husserl la diagnosi di una situa-zione di crisi dell’“umanità europea”. Per entrambi si tratta di una crisi dellarazionalità europea occidentale, le cui cause essi spiegano in maniera diversa.Per Heidegger la civiltà occidentale si è identificata con la razionalità scientificae tecnica.

Il dominio della scienza e della tecnica è ormai dilagante, pervasivo. Poiché larealtà è stata tradotta dalla scienza nell’uniformità del calcolo pianificato, in taleuniformità rientra anche l’uomo, caratterizzato dall’assenza di differenze: uomolivellato in un mondo livellato. Il pericolo gravissimo che l’uomo corre è di con-siderare il pensiero calcolante, di cui la tecnica è il prodotto, come l’unico adavere ancora valore.

L’efficacia e la potenza produttiva di questo pensiero, la sua capacità di pianifi-cazione si accompagnerebbero con l’indifferenza più totale del pensiero. L’uomoavrebbe rinnegato proprio quella che è la sua essenza pensante.

Né la scienza, né la tecnica sono in grado di trovare o conferire senso all’esi-stenza. Il senso del mondo della scienza e della tecnica si nasconde. Comprenderequesto significa entrare nel mondo del mistero, di ciò che si nasconde e insiemesi mostra.

Anche Karl Jaspers (1883-1969) sottolinea i limiti dell’orientamento scientificonel mondo e della filosofia della scienza, che non è stata in grado di dare rispostaa nessuna delle domande sui valori e sul senso dell’esistenza umana. Né le scien-ze sono in grado di raggiungere un tale risultato. “Oggettivando” il mondo, essene fanno qualcosa di estraneo, di opposto alla realtà dell’uomo. Non solo non for-niscono alcuna risposta all’interrogativo fondamentale sul “senso dell’essere”, manon sanno neppure dirci quale sia il loro stesso senso. Dell’incapacità di indicareil senso dell’esistenza dell’individuo sono testimonianza anche le scienze umanee sociali (psicologia, sociologia, antropologia), che pure molti ritengono capaci disostituire la filosofia.

Anche queste scienze urtano contro un limite costitutivo, facendoci consapevo-li che l’esistenza, la stessa verità, è sempre qualcosa d’altro da ciò che esse descri-vono e affermano. Dunque la scienza, la conoscenza scientifica delle cose, devericonoscere i suoi limiti.

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206FILOSOFIA E SCIENZA

La scienza e la trasformazione della società

Anche nel Marxismo e nella Scuola di Francoforte si affermano – nei confrontidella scienza – atteggiamenti ambivalenti. Da un lato essa è riconosciuta comeforza produttiva e, dall’altro, è vista come uno degli strumenti del dominio diclasse della borghesia. Di qui oscillazioni continue fra i pensatori marxisti e fran-cofortesi, anche se nella dimensione critico-progettuale, in taluni casi utopica esoggettivistica, del Marxismo occidentale tendono ad accentuarsi le sottolineatu-re critiche, che hanno di mira lo “scientismo” positivistico da un lato e l’“usocapitalistico della scienza” dall’altro.

Così il giovane György Lukács (1885-1971) attacca l’influenza positivista sulMarxismo, con il suo determinismo sociologico, il suo naturalismo, la sua incapacitàdi comprendere la dimensione storica e la centralità dell’iniziativa umana nello svi-luppo dei processi sociali. È errato guardare la realtà sociale con l’ottica delle scien-ze della natura. In tal modo i dati della realtà vengono accolti come “naturali”, cioècome “obiettivi”. E tali, quindi indiscutibili (e non-riformabili), rischiano di apparireanche i caratteri della società capitalistica. Occorre, invece, guardare ai fatti noncome se fossero isolati l’uno dall’altro, ma inserendoli in una dimensione storica,nella quale giocano un ruolo essenziale la soggettività umana e la dialettica.

Opposto è il ragionamento di Louis Althusser (1918-1990). Egli afferma soprat-tutto la scientificità del Marxismo, cioè di un approccio conoscitivo alla realtàsociale depurato da tutte le “incrostazioni” filosofiche che ne hanno occultato ilcarattere autentico. Egli critica come “ideologiche” tutte le visioni teoriche di tipo“umanistico” e “soggettivistico” che non siano basate su rigorose analisi scientifi-che. L’analisi marxiana costituisce una vera e propria rottura epistemologica (con-cetto ripreso dal filosofo della scienza Gaston Bachelard, 1884-1962), perchéancorata allo studio delle strutture portanti della società.

Diverso è l’orientamento degli esponenti della Scuola di Francoforte. Obiettivoprincipale della loro critica è la ragione strumentale, cioè quel modello di razio-nalità tecnico-scientifica – descritto da Weber – che da un lato ha prodotto ildominio dell’uomo sulla natura e, dall’altro, il dominio dell’uomo sull’uomo.Ristretti gruppi economici e sociali si avvalgono degli apparati tecnico-scientificiper affermare nuove e sofisticate forme di controllo sugli individui, sulle lorocoscienze: questa è una forma più sottile e insidiosa di repressione sociale, chesvuota di forza antagonistica e rivoluzionaria il proletariato dei Paesi capitalistici.Invece la razionalità illuministico-positivistica, apologetica verso la scienza e lasocietà capitalistico-industriale, proprio perché pretende di studiare e compren-dere la realtà sociale come se fosse essa stessa “naturale”, non riesce a coglierequelle contraddizioni e si limita a svolgere un ruolo apologetico, di giustificazio-ne e accettazione dello stato di cose esistente.

Linguaggio e logica della scienza

Nel Novecento l’epistemologia afferma la necessità di una radicale revisionecritica del modo di affrontare il problema della scienza come forma rigorosa ecoerente di indagine conoscitiva sulla realtà. Del Positivismo si continua a condi-videre l’idea di centralità della scienza (in particolare della scienza della natura),come forma di sapere capace di fornire una conoscenza valida. Ma ci si muove –di fatto – molto al di là di quella filosofia. Si avverte, infatti, che i nuovi sviluppidelle scienze fisiche e matematiche impongono una nuova riflessione sulle con-dizioni-base della conoscenza scientifica, a partire dai suoi fondamenti logico-concettuali. Neopositivismo o Positivismo logico viene definito tale indirizzo, cheinsiste soprattutto su una più rigorosa e coerente vigilanza critica sul linguaggiodella scienza e contro i “residui” metafisici contenuti in quello della scienza otto-centesca. Il significato delle proposizioni scientifiche non rinvia a un’“essenza”, aun “al di là” del dato, ma si costruisce proprio attraverso il metodo con cui le pro-posizioni stesse vengono verificate. Il costante richiamo all’esperienza viene inol-tre privato dei riferimenti alla “soggettività”, cioè alla matrice “psicologica” delleconoscenze scientifiche. Queste, pur poggiando su basi empiriche, vengono“costruite” attraverso un linguaggio logico-formale e trattate in termini di proto-colli, enunciati a cui si attribuisce un carattere “oggettivo”. I protocolli non sonolegati alla percezione dei singoli individui ma sono considerati all’interno di undeterminato sistema logico-concettuale.

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207FILOSOFIA E SCIENZA

Per Ludwig Wittgenstein (1889-1951) nella prima fase del suo pensiero ogni pro-posizione scientifica si riduce al significato delle proposizioni elementari, atomiche,che contiene. Il linguaggio scientifico deve rispecchiare la struttura della realtà,descrivere i fatti e le relazioni fra fatti. Deve anzitutto far corrispondere a tutti i fattipiù semplici (o fatti atomici), proposizioni altrettanto semplici (proposizioni atomi-che o elementari), riuscendo a garantire un adeguato “rispecchiamento” del mondoreale nel linguaggio della scienza. Le proposizioni atomiche sono collegate fra loromediante operazioni logico-formali, che danno luogo a proposizioni molecolari.Queste, sviluppate adeguatamente, possono costituire un sistema della scienza,mantenendo il loro valore conoscitivo in base alla loro matrice originaria, ai fatti ato-mici. L’unico linguaggio dotato di senso è quello delle scienze naturali.

L’ideale di una scienza unificata e di un linguaggio perfetto

“Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: con questa proposizione si con-clude il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Gli esponenti del Circolodi Vienna, fondatori del Neopositivismo, interpretano questo passo come confer-ma di un orientamento nel quale la metafisica, l’etica e ogni proposizione filoso-fica che non si identifichi con proposizioni della scienza, siano da considerareprive di senso. Nello scritto La concezione scientifica del mondo essi si pongonol’obiettivo ambizioso di realizzare una scienza unificata, costituita su fondamen-ta logiche robuste e coerenti e su un rigoroso metodo d’analisi concettuale, comecercherà di fare Otto Neurath (1882-1945) con il progetto della Enciclopedia dellescienze unificate, nella quale tutte le discipline scientifiche, anche quelle psico-logiche e sociali, dovrebbero essere ricondotte ad un unico fondamento empiricoe logico-concettuale, mirando apertamente al superamento della scissione frascienze della natura e scienze dello spirito.

Con il Fisicalismo, la scienza fisica viene posta a modello per la costruzione diuna scienza unificata. La scienza viene basata su un linguaggio rigoroso, regolatoda princìpi logici, anzi viene a identificarsi con quel linguaggio, da cui viene eli-minato ogni riferimento all’“io” o al “tu”, alla soggettività. Tale linguaggio deveessere oggettivo, deve cioè registrare non i dati sensoriali ma gli oggetti materialie le loro proprietà osservabili. La scienza che meglio delle altre rispetta questecondizioni e che appare dotata del linguaggio più rigoroso è la fisica, che per que-sto è considerata un modello per tutte le altre. Le discipline meno rigorose, quin-di anche le scienze umane e storico-sociali, dovrebbero essere tradotte in un lin-guaggio più preciso, cioè in espressioni di tipo “fisico”: esattamente l’opposto diciò che – in quello stesso periodo – nel campo delle scienze umane e storico-socia-li andava affermando lo Storicismo tedesco. Per i Neopositivisti tutti gli enunciatiche non rientrano in quelli analitici o in quelli sintetici sono privi di senso.

Moritz Schlick (1882-1936) afferma inoltre il principio di verificabilità, in baseal quale una proposizione scientifica deve poter sempre essere oggetto di con-trollo e verifica sperimentali.

Rudolf Carnap (1891-1970) intende operare una ricostruzione razionale dellarealtà, di ogni tipo di realtà, fisica o psichica, attraverso un sistema di concettirigorosamente definiti, riportati in proposizioni che possano essere sistematica-mente verificate.

Successivamente, Carnap sostiene tre tesi di particolare rilievo: a. la sostituzione del principio della verificabilità con quello della confermabi-

lità delle proposizioni della scienza (poiché per una “conferma” non si deve pre-tendere un numero infinito di esperienze convalidabili);

b. la tesi della convenzionalità del linguaggio scientifico; c. il principio di tolleranza (in base al quale si è liberi di scegliere un dato lin-

guaggio e una data logica, rispettandone comunque coerentemente i criteri e leregole prescelte).

La critica al Neopositivismo

Le tesi neopositivistiche sono oggetto di forti attacchi non solo dall’esterno, maanche dall’interno del movimento.

Lo stesso Wittgenstein, a partire dagli Anni Trenta, afferma che non basta il lin-guaggio ideale della scienza a spiegare la ricchezza e l’articolazione delle cono-

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208FILOSOFIA E SCIENZA

scenze, o a spiegare la stessa produzione di conoscenze. Il linguaggio della scien-za della natura è solo uno fra gli infiniti linguaggi possibili, cioè fra i diversi modidi significazione possibili. Anche la scienza, anche la matematica sono giochi lin-guistici, fondati su determinate regole che si è chiamati a rispettare.

È la fine del “linguaggio perfetto” a cui avevano creduto i Neopositivisti e lostesso Wittgenstein.

Più in generale, la critica si rivolge a talune tesi che avevano – in qualche misu-ra – avvicinato il modello neopositivistico a quello positivistico “classico”. ANeopositivisti e Positivisti – insieme – si rimprovera, ad esempio, la ricerca diun’unità di metodo e, più in generale, di un’unità dell’insieme delle scienze, latendenza a privilegiare, spesso, le scienze matematico-naturalistiche rispetto allescienze umane e storico-sociali, la tendenza ad escludere come “metafisica” ognitesi che non sia riconducibile ad un modello di verificabilità sperimentale e dicoerenza logico-matematica.

Dalla verificabilità alla falsificabilità

Per alcuni aspetti il pensiero di Karl Raimund Popper (1902-1994) si lega alNeopositivismo. Esempi tipici sono la sua tesi di una unità metodologica di tuttala scienza, quindi anche fra le scienze matematico-naturalistiche e quelle umanee sociali; oppure la tesi di una differenza costitutiva fra il sapere scientifico e quel-lo che scientifico non è; o la fiducia verso un carattere progressivo dello sviluppodella scienza.

Ma per altri versi la sua posizione appare molto lontana dal Neopositivismo.Infatti, mette in discussione il principio di verificabilità. Quel principio è solo unmito, un’utopia. Nessuna legge scientifica può esser soggetta ad un numero infi-nito di prove.

Popper contrappone al principio di verificazione il principio di falsificazione, inbase al quale l’esperienza serve non a fondare, ma a confutare una teoria, acostringerci quindi a sostituirla con un’altra. “Falsificabile”, cioè “scientifico”, èun sistema di proposizioni che possa esser confutato dall’esperienza.

La scienza, dunque, opera mediante congetture e confutazioni. Si parte sem-pre da problemi. La conoscenza progredisce mediante congetture, ipotesi miran-ti a risolvere problemi, e confutazioni, controlli critici miranti a confutare quellecongetture.

Il cammino della conoscenza scientifica è di avvicinamento progressivo allaverità, mediante correzioni e adattamenti continui delle teorie.

Caratteri dell’epistemologia post-positivistica

Si parla sempre più, oggi, di “epistemologia post-positivistica”. Quali ne sono icaratteri? Li riassumiamo schematicamente in sette punti:

1. il superamento di una visione astratta, puramente logico-formale, delle teoriescientifiche, cioè il rifiuto di ridurre l’epistemologia allo studio delle strutture logi-che di una teoria scientifica;

2. un’attenzione per le forme concrete assunte dalle teorie scientifiche studiatee per la loro efficacia pratica;

3. la descrizione del forte legame fra le teorie scientifiche da un lato e, dall’al-tro, le concezioni culturali e filosofiche di un’epoca, i contesti storico-sociali e cul-turali in cui quelle teorie sono venute alla luce;

4. il valore che viene assegnato alla storia della scienza, alla storia delle teorie, aimomenti di rottura epistemologica, di transizione e passaggio da una teoria all’altra;

5. l’idea di una più stretta connessione fra saperi scientifici e saperi extra-scien-tifici (etici, estetici, metafisici, ecc.);

6. una visione complessa del rapporto fra teoria ed esperienza, nella quale sitende ad affermare un primato della teoria, cioè del ruolo del ragionamento ipo-tetico-deduttivo nella formulazione e nella “costruzione” di una teoria, rispetto aidati osservativi forniti dall’esperienza;

7. la tendenza a delineare una visione pluralistica (in taluni casi relativistica) delsapere.

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209FILOSOFIA E SCIENZA

Le rotture epistemologiche

Nell’orizzonte delle epistemologie post-neopositivistiche rientra certamenteGaston Bachelard (1884-1962). Egli ritiene che la scienza contemporanea nonabbia affatto i caratteri dell’unità, della stabilità, della chiarezza e della distinzio-ne: investita e attraversata dalla rivoluzione einsteiniana, essa è ricca di interroga-tivi, di tentativi di risposta in più direzioni. Esistono le scienze, non la scienza. Eciascun sapere scientifico è costituito da una molteplicità di prospettive teoriche,è un sapere dinamico, per molti versi fluido.

I rivolgimenti scientifici ed epistemologici in atto nel Novecento impongono,secondo Bachelard, un’affermazione del valore epistemologico della storia dellascienza. Grazie a questa, è possibile comprendere che non esiste un “modello”aprioristico di scienza o di “scientificità”, in quanto coesistono una pluralità disaperi che – nel loro insieme – costituiscono la scienza reale.

Inoltre, la storia della scienza ci permette di comprendere che lo sviluppo scien-tifico non è affatto lineare e continuo. Esso è caratterizzato da rotture epistemo-logiche, cioè da salti, momenti di discontinuità, mutamenti di indirizzo, talora darivoluzioni teoriche, che investono sistemi di idee e procedimenti metodici.Questa idea delle rotture epistemologiche mette da parte la tesi positivistica di unosviluppo cumulativo, lineare, progressivo del sapere.

La scienza è il frutto di una costruzione teorica, non di un’accettazione imme-diata dei dati dell’esperienza, e deve aggirare e superare gli ostacoli epistemolo-gici, cioè le idee e le posizioni teoriche che ne frenano il cammino.

Il problema delle rivoluzioni scientifiche

Attualissimo è il dibattito sulle rivoluzioni scientifiche. Sempre più l’interessedegli epistemologi si concentra sui momenti di discontinuità e rottura fra le teorie,cioè sui momenti di trasformazione di concetti-chiave, metodi, visioni d’insieme:proprio in essi sembra possibile una migliore comprensione della “natura” di unateoria scientifica, di quali siano i suoi caratteri distintivi ed essenziali.

In tale confronto teorico le dinamiche della scienza vengono spesso studiateaccantonando modelli evolutivi dello sviluppo della scienza stessa, mettendo cioèradicalmente in discussione l’idea di un avanzamento graduale, progressivo elineare delle conoscenze, come se si trattasse di un patrimonio progressivamenteaccresciuto per accumulazione. In alcuni epistemologi tende anzi ad affermarsil’idea che in ogni rivoluzione si guadagni qualcosa e se ne perdano altre,affermando forme di relativismo gnoseologico e “anarchismo” metodologico.

La critica investe, quindi, alcuni presupposti fondamentali dell’epistemologianeopositivistica, come la fiducia di questa in modelli teorici generali e univoci.

La nuova epistemologia si caratterizza invece per:

a. il modello pluralistico e non univoco di scienza e di metodo (“la” scienza, “il”metodo, “il” progresso scientifico);

b. il privilegio accordato a un approccio storico.

Con tale approccio, vi è un’attenzione forte per le variabili di contesto (di con-testo sociale e culturale) in una teoria e per quelle “filosofiche” (in primo luogoquelle della metafisica).

Animatori del dibattito sulle rivoluzioni scientifiche, oltre a Bachelard e Popper,sono stati Kuhn, Lakatos e Feyerabend.

Thomas Kuhn (1922-1996) distingue fasi di scienza normale da fasi di rotturarivoluzionaria nelle teorie scientifiche e pone al centro il concetto di paradigma,cioè un complesso di princìpi, concezioni culturali e scientifiche universalmentericonosciute, procedimenti metodici, modalità di comunicazione e trasmissionedelle teorie, a cui si ispira il lavoro della “comunità scientifica” in una data epo-ca. A differenza di ciò che pensavano i Neopositivisti, il paradigma è formato dacredenze metafisiche, oltre che da modelli scientifici di spiegazione ed è prodot-to da condizioni e fattori extra-scientifici, cioè sociali e psicologici, e non è quin-di un modello “puro”, a-storico e astratto.

Le rivoluzioni scientifiche derivano dalla sostituzione di un paradigma con unaltro, quando, dopo un periodo talora lunghissimo di emersione di anomalie nel-

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210FILOSOFIA E SCIENZA

l’applicazione del paradigma vigente, gli scienziati mettono in dubbio i princìpifino a quel momento seguiti e accettati come “dogmi”, vanno alla ricerca di unparadigma nuovo. Quando una rivoluzione avviene, è come se si entrasse in unnuovo mondo. Occorre ripensare tutto: concetti-base, metodi, problemi. Un abis-so di incomprensione si spalanca fra sostenitori dei due paradigmi, il vecchio e ilnuovo; “si vedono cose differenti” anche guardando nella stessa direzione.

Per Imre Lakatos (1922-1974), la sostituzione di una teoria con un’altra avvienenon mediante un esperimento, ma solo quando a un programma di ricerca se nevenga a contrapporre un altro del tutto diverso. Le rivoluzioni scientifiche avven-gono mediante il confronto-scontro di programmi di ricerca alternativi. Un pro-gramma di ricerca è costituito da un insieme di princìpi e ipotesi adottati da di-verse teorie, alcuni dei quali costituiscono un nucleo non confutabile del pro-gramma.

Non vale più dire quale sia il modello assoluto di scienza. Si possono solo con-frontare programmi diversi e analizzare in quale programma rientri una determi-nata teoria.

La posizione di Paul K. Feyerabend (1924-1994) viene designata come un anar-chismo metodologico. Contro Popper, si contrappone all’idea di un modello“unico” di metodo di ricerca. La scienza, infatti, adotta una molteplicità di regole-standard. Ogni ricerca adotta un proprio metodo: e questo rende le teorie scien-tifiche inconfrontabili, perché diversi sono i linguaggi e i modelli metodologiciadottati. Inoltre, le regole del metodo debbono essere sistematicamente violatedagli scienziati, ogni qual volta ciò si renda necessario. Scienza è creatività, pra-tica della libertà, capacità di inventare procedimenti e regole nuove per risolvereproblemi. Se ciò non fosse già avvenuto innumerevoli volte, non ci sarebbero statigli avanzamenti scientifici che conosciamo.

Non esiste un ordine razionale nei mutamenti scientifici, capace di fornirne unaspiegazione lineare e coerente. Ogni sistema è diverso dall’altro e si lega a fattorinon-scientifici. E la scienza è “impura”, condizionata com’è da interessi e finiconcreti. Spesso la scienza si è imposta con la forza, a colpi di dogmi, di tesi nonscientifiche: ad esempio, Copernico è riuscito a trionfare anche mediante “l’uso a-scientifico di idee antidiluviane” come erano il Pitagorismo o il Platonismo. Né esi-ste una teoria che sempre sia d’accordo con tutti i fatti, in un determinato campodi applicazione: se valesse Popper, nessuna teoria “avrebbe valore”.

Gli usi della scienza

Ma il dibattito sulla scienza non si svolge solo sul piano strettamente epistemo-logico. Vi è, ad esempio, una dimensione etica dei problemi posti dalla scienzacontemporanea. O vi sono i riflessi che, comunque, lo sviluppo del sapere scien-tifico e la ricerca sui fondamenti di questo sapere continuano ad avere sulla do-manda metafisica relativa alla realtà e al suo significato per l’uomo. O, ancora, visono dimensioni politico-sociali dello sviluppo scientifico-tecnologico contempo-raneo, che appaiono oggi particolarmente rilevanti alla luce delle conseguenzeeconomico-sociali (disoccupazione tecnologica, divario crescente fra Sud e Norddel mondo, ecc.) o delle conseguenze più immediatamente politiche (ad esempiole forme di “controllo tecnico” dell’opinione pubblica e dell’organizzazionesociale) che quello sviluppo determina in misura crescente. E vi è il tema – aper-tissimo – dell’impatto ambientale, delle conseguenze che lo sviluppo scientifico-tecnologico determina sugli equilibri ecologici del pianeta.

Tali problemi, comunque, investono soprattutto l’uso della scienza, le finalitàche si perseguono ed i mezzi che si impiegano. Si pensi, ad esempio, a quelli lega-ti agli usi distruttivi, finalizzati alla guerra, di determinate scienze, o alla respon-sabilità planetaria dell’uomo, alle manipolazioni genetiche, o all’idea che, conl’intelligenza artificiale, il linguaggio-macchina possa sostituirsi – riproducendo-lo “integralmente” – al linguaggio umano.

Scienza e cultura della complessità

Vi sono poi considerazioni epistemologiche che investono il tema della com-plessità, degli intrecci fra la “scienza” vera e propria e una molteplicità di disci-pline tradizionalmente considerate “lontane” dalla scienza.

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211FILOSOFIA E SCIENZA

Per Michel Serres (1930) l’epistemologia mette in comunicazione saperi fra lorodiversissimi, che Serres descrive attraverso la metafora di Hermes, il dio alato mes-saggero degli dei.

Occorre promuovere – afferma – una nuova cultura della complessità, nellaquale vengano a legarsi insieme scienza, filosofia e storia. Serres nega il kuhnia-no “scontro di paradigmi rivali”, preferisce guardare a innovazioni aventi un carat-tere imprevedibile e pacifico, tali da riconciliare l’uomo con la natura e con sestesso. La complessità è un sistema con un numero straordinariamente elevato dielementi e con una quantità pressoché infinita di interazioni. Vale in ogni campodel sapere, in ogni campo della realtà.

Vengono messe in discussione sia la storia neopositivistica e popperiana dellascienza, sia quella post-popperiana, perché nessuna di queste dà un adeguato spa-zio all’invenzione che aggira e sorpassa le ostruzioni di un processo che è tutt’al-tro che ordinato e razionale, ma che è caratterizzato dal disordine. Il disordine èla normalità, come “un rumore di fondo”. È possibile, anzi necessaria, una nuovaalleanza tra uomini e natura.

L’interrogarsi dell’epistemologo

Come si vede, gli interrogativi che il dibattito epistemologico attualmente solle-va hanno di per sé un forte spessore teorico, hanno quindi a che fare anche conla filosofia. Investono direttamente sia l’immagine della scienza sia l’immaginedella filosofia, ponendo queste in tensione reciproca e, ciascuna, al suo interno.

Ci si continua a chiedere, ad esempio, come nel passato, ma proprio alla lucedegli sviluppi straordinari e, per taluni versi, imprevedibili della scienza, quale siail rapporto fra scienza e filosofia. Un rapporto da intendere nei due sensi. Lascienza è la filosofia, o crea una filosofia o comunque influisce sulla filosofia? E inche senso e fino a che punto? Ma vale anche il contrario: qual è il contenuto filo-sofico, implicito o esplicito, di una teoria scientifica? Come influisce una prospet-tiva del mondo nelle scelte e nelle decisioni di modelli o programmi scientifici?

Esiste, poi, un modello di teoria scientifica? Ed esiste il metodo scientifico, cioèun modello o criterio metodologico generale, valido per i diversi campi del sape-re, oppure ogni prospettiva teorica ha il suo metodo o addirittura, come è statodetto, deve spesso violare le stesse regole metodiche accettate, se vuole procede-re, andare avanti?

Da qui una domanda costante: qual è il rapporto fra sapere scientifico e saperecomune? E, se fra l’uno e l’altro c’è discontinuità e salto, qual è il limite che segna(o demarca) il passaggio fra un sapere e l’altro? E fra ragione e immaginazione, fraelaborazione-sistemazione concettuale e invenzione?

Di fronte, poi, a una pluralità di versioni del mondo e di teorie scientifiche, checos’è che decide una rivoluzione scientifica, cioè una sostituzione di teorie? Unacrisi interna alla scienza? O l’insostenibilità di paradigmi più generali, che com-prendono idee scientifiche e non scientifiche, credenze, metodi e così via?

Per non parlare del problema ineliminabile della verità, che sottende costante-mente – sin dalle origini del pensiero occidentale – la riflessione sia sulla scien-za che sulla filosofia. Nel nostro caso, quando una teoria scientifica è vera? È cre-dibile e accettabile parlare di “verità”? Ed eventualmente, in che senso?

Sono solo alcuni interrogativi fra i molti possibili, ma ciascuno di essi costitui-sce una linea autonoma e aperta di riflessione, di ripensamento complessivo sullascienza e su noi stessi.

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FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

I vari significati di tecnica e lavoro

■ La riflessione su questo tema risente, quanto a rilevanza, del peso che la tecnica e il lavoro umanohanno avuto nei diversi periodi della civiltà occidentale. Il suo rilievo è massimo nel Novecento, inquella che è stata definita come la civiltà della scienza e della tecnica.

Il termine “tecnica” (dal greco téchne) ha avuto, nella storia della cultura, una molteplicità di signifi-cati. Ha avuto, per i Greci, il significato che per i Romani ha avuto il termine ars, cioè l’abilità di unartigiano, di un politico, di un medico o di un artista nello svolgimento del proprio lavoro. Anche aigiorni nostri può avere questo significato generalissimo e designare qualsiasi gruppo di regole in basealle quali si svolgono determinate attività: quindi tecniche artistiche, politiche, giuridiche, ecc.

Qui, invece, viene intesa in un significato più specifico, nel quadro del rapporto tra uomo e naturavolto alla produzione di beni e servizi, nel quale un ruolo essenziale ha il lavoro umano.

In tale significato specifico, la tecnica costituisce un insieme di conoscenze, procedimenti e mezzifinalizzati al controllo e alla modificazione della realtà, soprattutto di quella naturale, per consegui-re migliori condizioni di vita per l’uomo.

È un sapere pratico basato su regole, il cui rispetto è necessario per conseguire quei risultati. Tali rego-le costituiscono, solitamente, un bagaglio di cognizioni scientifiche applicate, di criteri e metodi prati-ci, che vengono trasmessi da una generazione all’altra o comunque acquisiti mediante l’esperienza.

Oggi si usa spesso anche il termine tecnologia, talvolta come sinonimo di “tecnica” (o di “insieme ditecniche”), ma, in modo più preciso, per intendere la teoria della tecnica, cioè lo studio dei fondamen-ti generali delle diverse tecniche, per ciò che queste hanno di comune. Particolare rilevanza vi ha lacomprensione dell’intreccio, del rapporto fra tecnica e scienza, poiché la tecnologia guarda soprattut-to al fondamento conoscitivo della tecnica e, dunque, al tipo di conoscenza scientifica che è alla basedel procedimento stesso.

■ Collegata a quella sulla tecnica, ma allo stesso tempo dotata di un suo autonomo spazio, è la rifles-sione filosofica sui problemi del lavoro umano.

Con il termine lavoro si intende l’uso di risorse e di capacità intellettuali e psico-fisiche, da parte del-l’uomo, al fine di produrre dei “beni” utili, siano essi beni materiali (una casa, un tavolo, ecc.) oppu-re immateriali (la salute, l’apprendimento, ecc.).

Proprio per il peso determinante che hanno avuto sulle civiltà umane, il lavoro e la tecnica costitui-scono un “oggetto” di analisi e di riflessione di grande rilievo e problematicità per la filosofia.

La riflessione sulla tecnica considera questa come un fenomeno che si colloca al crocevia fra naturae cultura. La produzione di oggetti sfrutta le conoscenze scientifiche che permettono di intravedere lepotenzialità che la natura offre. Essa è però molto più che “natura”, in quanto è artificio, è il frutto diun intervento intelligente dell’uomo che esprime bisogni e possibilità di una società storicamente data;in altri termini, è “cultura”.

La riflessione sul lavoro guarda ad esso come a una dimensione essenziale dell’esistenza, poiché allavoro è legata la stessa sopravvivenza dell’uomo. Ben diversa – nel corso dei secoli – è stata la valuta-zione accordata al lavoro, ma più spesso ai lavori svolti. Tradizionalmente il lavoro intellettuale (anchese spesso, soprattutto nel mondo antico, quella intellettuale non era un’attività lavorativa: a Roma l’o-tium era altra cosa dal negotium) è stato considerato di gran lunga superiore a quello manuale, ancheperché questo, pesante, faticoso e puramente esecutivo, per lo più toccava a schiavi o, comunque, aglistrati inferiori della società.

Il lavoro diventa un valore essenziale per l’uomo occidentale solo a partire dall’età moderna.

212FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

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213FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Alcuni temi di riflessioneNello sviluppo storico del pen-

siero sulla tecnica e sul lavoro èimportante comprendere, per idiversi periodi:

a. il valore che è stato attribuito allatecnica nel sistema del sapere e nellasocietà; quale, conseguentemente, sia stato ilruolo sociale attribuito ai detentori di quelsapere tecnico (artigiani, contadini, operai,ingegneri, ecc.);

b. come sia stato concepito il rapporto fra sape-re tecnico e scienza (rapporto di identificazione,autonomia reciproca, subordinazione della tecnicaalla scienza, ecc.);

c. quali siano stati inoltre la visione del mondocomplessiva collegata all’adozione di un determi-nato modello di sapere tecnico e quale la conce-zione del rapporto uomo-natura ad essa conse-guente;

d. se la tecnica sia stata concepita comesapere neutrale oppure come sapereportatore di effetti sul piano del co-stume, della società, delle gerarchieculturali, ecc.

Fortemente intrecciati con tali pro-blemi sono quelli legati alla rifles-sione sul lavoro. Ancora più stret-ta, in questo caso, è la connes-sione fra l’idea del lavorocome prassi (distinta dall’at-tività “contemplativa”dell’uomo) e la suaconcreta dimen-sione storico-sociale. Si trat-ta, anche qui,di compren-dere:

a. le imma-gini del lavoro espresse dalle diverse concezioni filosofiche, i suoi caratteri positivi o negativi, la consi-derazione del lavoro come mezzo di liberazione umana oppure di asservimento;

b. il rapporto stabilito – in tali concezioni – fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra homo fabere homo sapiens, con le connesse gerarchie di valore;

c. l’analogo rapporto stabilito fra sapere specialistico, connesso ai diversi e concreti lavori, e svilup-po dell’insieme delle capacità umane, quindi della persona umana nel suo complesso;

d. il modo in cui – nelle diverse teorie politiche o utopie filosofiche – è stata concepita l’aspirazio-ne a una liberazione dalla pena del lavoro, se essa è stata legata all’idea di liberazione dal lavorooppure a una liberazione del lavoro, cioè al cambiamento delle forme o dei rapporti di lavoro.

Auguste Rodin, Orfeo, 1882. Parigi, Musée Rodin.

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214FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Tecnica, lavoro artigiano e schiavitù

Nella filosofia greca, il termine téchne indica, in generale, l’abilità, la destrez-za, cioè la capacità di usare i mezzi più efficaci per conseguire dei fini specifici.Riguarda non solo abilità produttive di contadini o artigiani, ma anche l’“arte” delpolitico, dello scultore, del musico, del medico.

La riflessione sulla tecnica si lega alla nascita e allo sviluppo della pólis, al pesocrescente che in essa vengono ad assumere – sul piano economico-sociale, primaancora che politico-culturale – i ceti artigiani e produttivi.

La crescente ascesa economica di tali ceti ha portato ad un aumento del loro pesopolitico, determinando una sempre più dura reazione dei ceti dominanti e acutiz-zando le tensioni sociali e ideologiche, soprattutto ad Atene.

Da un lato – sin dall’epoca di Esiodo, che descrive il mondo contadino – siafferma che “nessun lavoro è vergognoso” e che la capacità di “competere” nellavoro è espressione di areté, cioè di virtù. Ma dall’altro vi sono settori del mondointellettuale che svalutano il lavoro manuale.

Col tempo pesa sempre più, nella riflessione dei filosofi sulla tecnica e sul lavo-ro, lo sviluppo della schiavitù nel mondo antico. Lo schiavo, ad esempio, vienedescritto da Aristotele solo come uno strumento di lavoro, capace di ascoltare edi eseguire comandi.

Il fenomeno della schiavitù, la presenza e la disponibilità di manodopera dischiavi a basso costo, sembra – a detta di alcuni studiosi – influire negativamen-te anche sullo sviluppo tecnico che si ha ad Alessandria d’Egitto e a Roma, osta-colando o bloccando le possibilità applicative offerte dalla scienza dell’epoca.

La contrapposizione fra tecnica e sapienza

Il problema della considerazione sociale del lavoro produttivo investe diretta-mente le “immagini della tecnica”, cioè l’idea che della tecnica hanno quei settoridel mondo della cultura e della filosofia che sono più vicini ai ceti conservatori, ocomunque più sensibili al rischio che lo sviluppo delle tecniche e delle scienzedetermini una rottura irreparabile dei modi di vita e degli ordinamenti tradizionali.

Nella cultura più antica – di cui è espressione il sapere mitico – la tecnica è pri-vilegio divino: Efesto, il “divino fabbro”, è espressione di questa prerogativa. Essapuò essere solo donata agli uomini. È l’età dell’oro, quella in cui la tecnica (costi-tuita dai mezzi più rudimentali di produzione) è messa a disposizione dell’uomo.

Quando invece lo sviluppo sociale e politico dei ceti produttivi entra in tensio-ne con gli ordinamenti tradizionali, allora il significato della tecnica viene messoin discussione. Essa appare come una minaccia, un pericolo. La tecnica divieneuna forma di sapere nella quale può esprimersi l’hybris, la superbia e la tracotanzaumana, quasi una sfida del sapere umano a quello divino, o comunque una sfidaal destino. E Prometeo, colui che aveva osato donare il fuoco al genere umano,strappando al “sapere degli dei” il suo grande segreto, viene punito ferocementeda Zeus, condannato ad una pena eterna e terribile.

Nella filosofia la tecnica viene svalutata rispetto alla scienza, è considerata unsapere inferiore: la fonte autentica della conoscenza è la sapienza, il sapere cheriguarda le cose ultime, è la theoría, la contemplazione delle verità eterne, ocomunque è la scienza concepita come un sapere astratto e disinteressato, men-tre il rapporto fra tecnica e scienza tende ad essere assimilato a quello fra schia-vo e padrone.

Tecnica e progresso umano

Anche nella società antica è comunque possibile rintracciare posizioni nellequali alla tecnica e al lavoro produttivo è attribuito un ruolo essenziale nella vitadell’uomo e nel progresso della civiltà.

TECNICA E LAVORO NELL’ANTICHITÀ2

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215FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Già i primi storici greci (soprattutto Ecateo ed Erodoto) nel VI e nel V secoloa.C., descrivendo alcune personalità o alcuni popoli come gli inventori di deter-minate tecniche, mostrano di considerare questo sapere come produzione umanae non divina. Diversi intellettuali e filosofi del V secolo considerano le téchnai edi saperi specializzati come strumenti indispensabili per il controllo dell’uomo sulmondo e per lo sviluppo della civiltà.

In tal modo il modello tradizionale viene rovesciato: le età antichissime nonsono più considerate “età dell’oro”, ma periodi di arretratezza da cui lo sviluppodei saperi contribuisce ad allontanare sempre più. Ne è testimonianza, ad esem-pio, il passo del poema di Senofane (nato intorno al 570 a.C.) in cui questi – giànel VI secolo a.C. – aveva affermato che “gli dei non rivelarono tutto dall’inizio aimortali: sono questi, invece, che col tempo, cercando, trovano il meglio”. Così ilpoeta era riuscito a individuare una linea di progresso dell’umanità (“il meglio”)attraverso lo sviluppo dei saperi tecnico-scientifici.

Anassagora (496-428 ca. a.C.) ritiene che per lo sviluppo della conoscenzaoccorra la tecnica, oltre all’esperienza, alla memoria e al sapere, ed afferma chel’uomo è il più intelligente degli animali grazie al possesso e all’uso delle mani,unito a quello dell’intelligenza. Un concetto, questo, successivamente riafferma-to da Democrito (460 ca. – 370 ca. a.C.), che vede nelle tecniche il perno del-l’organizzazione delle società umane.

Il mito di Prometeo riceve una nuova interpretazione ad opera di Protagora (natonel 486 ca. a.C.), che, nel dialogo platonico a lui intitolato, da un lato descrive il pro-gresso materiale e culturale avviatosi nelle società umane grazie al “furto” del fuoco,quindi della sapienza tecnica, operato da Prometeo a favore degli uomini (progressinel linguaggio, nella produzione di beni di prima necessità, nella religione, nell’or-ganizzazione sociale), ma dall’altro afferma che tale progresso sarebbe stato vanifi-cato senza la distribuzione – agli uomini stessi – della tecnica politica, ordinata dallostesso Zeus. Tale tecnica viene descritta come un’arte della vita associata che ogniuomo è in grado di acquisire e usare e senza la quale gli uomini commetterebberoingiustizie reciproche e il genere umano rischierebbe l’autodistruzione.

Comunque, la crescente diffusione del lavoro degli schiavi comincia a genera-re, nella pólis, atteggiamenti di diffidenza e disprezzo per il lavoro manuale (e perle tecniche e le conoscenze ad esso connesse), in quanto questo viene sempre piùconsiderato un’attività “servile” e indegna di un uomo libero. Questo giudizionegativo peserà a lungo, condizionando per secoli l’atteggiamento nei confrontidel lavoro e delle tecniche connesse al lavoro manuale.

Il rapporto fra téchne ed epistéme

Uno dei temi centrali del problema della tecnica riguarda il suo rapporto con lascienza.

Téchne, nella cultura greca ha assunto il significato di pratica consapevole, frut-to cioè di riflessione. Per tale motivo, il significato del termine è stato dissociatodalle attività produttive, in particolare da quelle più umili, esercitate senza studiopreliminare, ma solo attraverso l’adozione di metodi ereditati dalla tradizione.Invece, proprio come attività consapevole quel termine è stato sempre più asso-ciato a quello di epistéme, cioè di scienza.

Secondo alcuni studiosi, di tale intreccio sarebbe testimonianza anche la nascitadella filosofia nel VI secolo a.C. In essa, la ricerca dell’arché, del principio, del fon-damento ultimo di tutte le cose, è stata collegata allo sviluppo tecnico-scientificodelle póleis della Ionia (in Asia Minore).

Nel V secolo i Sofisti, oltre a mostrarsi talvolta come veri e propri cultori di tec-niche artigianali, manifestano sempre interesse per esse, perché le consideranoespressione di razionalità e, in quanto tali, portatrici di un’analoga esigenza di or-ganizzazione razionale della società.

Il modello forse più compiuto di intreccio fra arte e scienza, fra téchne ed epi-stéme viene comunque considerato quello della medicina ippocratica. In essal’osservazione dei processi concreti delle malattie, l’elaborazione dell’éidos, cioèdel modello, del quadro clinico, e la conoscenza eziologica (cioè delle cause) sisaldano strettamente con pratiche terapeutiche, con tecniche di intervento sem-pre più avvertite, consapevoli.

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Non mancano però – su questo tipo di sapere – rilievi e critiche di fondo,anche da parte dei filosofi più sensibili e aperti.

Per Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.), ad esempio, il sapere tecnico si fonda, sì,su conoscenze concrete e su specifiche competenze ed inoltre è in grado di pro-durre beni che possiedono un’evidente utilità sociale, ma possiede due limiti: daun lato ha a che fare solo con il mondo dell’esperienza e non con quello delleIdee; dall’altro è un sapere fondato su competenze specialistiche (cioè limitate aun determinato settore dell’esperienza) e perciò non permette a chi lo possiede diaspirare al governo dello Stato. Il governo, infatti, richiede una visione d’insieme,cioè competenze filosofiche e non tecniche e una formazione onnilaterale, nonspecialistica. Platone, quindi, nel suo Stato ideale, pur riconoscendo nella classedei “produttori” la base indispensabile della vita collettiva, afferma che essi devo-no essere subordinati alle classi dei guardiani e dei filosofi-governanti.

Aristotele (383-322 a.C.) afferma che le discipline poietiche (da póiesis, produ-zione) hanno nell’enciclopedia del sapere un valore inferiore alle discipline teore-tiche e a quelle pratiche. Le discipline poietiche servono a produrre oggetti edhanno quindi fuori di sé, in questi oggetti, il loro fine: non in sé, nell’uomo stesso,come quelle pratiche (cioè morali e politiche), che pure sono scienze dell’agire. Ilsapere tecnico è utilitario e, pur provvedendo alle cose necessarie alla vita, ha unvalore solo strumentale: è frutto dell’attività di uomini al servizio di altri e valeunicamente come mezzo per rendere possibile il sapere disinteressato, cioè il“vero” sapere, nel quale l’uomo realizza appieno la propria specificità di “animalerazionale”.

In epoca ellenistica alcuni campi scientifici e tecnici – in particolare quelli dellameccanica e dell’ingegneria – conoscono uno sviluppo di grande rilievo. AdAlessandria Erone (II sec. a.C.) e a Siracusa Archimede (II sec. a.C.) uniscono laricerca teorica all’elaborazione e alla realizzazione di macchine mosse dall’ener-gia termica, idraulica o eolica. Ma anch’essi considerano tale sapere “inferiore” aquello delle scienze astratte, matematico-geometriche.

A Roma, Vitruvio (I sec. a.C.) descrive i ritrovati ed i processi tecnici con cui sirealizzano imponenti opere pubbliche. Malgrado

ciò, fra gli uomini di cultura prevale l’idea che ilsapere tecnico sia inferiore a quello scientifi-

co, filosofico e retorico-letterario.

Peristilio della Casa delle Vestali,

nel Foro. Roma.

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217FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

IL MEDIOEVO3

Sapienza e lavoro servile

Nell’età tardo-antica e nel corso dell’Alto Medioevo l’interesse della cultura cristia-na per i problemi della tecnica è ridottissimo. È vero che – come confermano nume-rosi studi storici – l’Alto Medioevo, dal punto di vista delle tecniche, è stato tutt’altroche un’“epoca buia” e, anzi, ha costituito – soprattutto in campo agricolo – una fasedi accumulazione e diffusione dei saperi tecnici, ma è anche vero che l’asse della cul-tura appare spostato a favore della sapienza, della ricerca di Dio. Essa, come cono-scenza delle cose eterne, è superiore alla tecnica ed alla scienza. Le arti, cioè le atti-vità di lavoro produttivo, sono considerate espressione delle necessità e dei bisognimateriali e come attività di tipo servile, indegne quindi dell’uomo libero.

D’altra parte sul lavoro grava la concezione, fatta propria dal Cristianesimo, che loconsidera una condanna conseguente al peccato originale.

Tale svalutazione del lavoro non è, comunque, generalizzata: in Agostino diIppona (354-430), ad esempio, è possibile trovare passi in cui vi è il riconoscimentoche il lavoro, quello agricolo, può essere fonte di gioia, non solo nella condizioneoriginaria dell’uomo, ma anche in questa decaduta, mentre è condannata l’attivitàmercantile, da cui si invitano i cristiani ad allontanarsi.

Anche il pensiero arabo – con il suo interesse eminentemente metafisico e religio-so – non ha fatto dei problemi della tecnica un oggetto specifico di riflessione teori-ca, ma si è potuto parlare di miracolo arabo guardando alla vasta fioritura di inno-vazioni realizzata in diversi campi produttivi e, soprattutto, alla diffusione di nozio-ni tecniche acquisite nel lontano Oriente indiano e cinese.

Laboratores e “scienza dei congegni”

Un risveglio di interesse per i problemi della tecnica si manifesta, in Occidente,solo a partire dal XII secolo, grazie al nuovo clima intellettuale verificatosi con laripresa dell’economia cittadina. Il lavoro assume un valore nuovo. Anchel’intellettuale comincia ad essere considerato come un artigiano del sapere, come unuomo di mestiere, la cui occupazione riguarda le arti liberali, anch’esse intese cometecniche, alla stregua di quelle del fabbro o del falegname. Anche il lavoro manua-le, anche se continua ad essere ritenuto inferiore al lavoro intellettuale, non è co-munque più considerato come una maledizione per l’uomo.

Nei nuovi modelli di gerarchia sociale che si diffondono, accanto ai due ceti domi-nanti degli oratores (cioè di coloro che pregano) e dei bellatores (coloro che com-battono) si affermano anche i laboratores (coloro che lavorano).

Alcuni maestri della Scuola di S.Vittore di Parigi mostrano un interesse nuovo per lameccanica, o “scienza dei congegni”, ritenendola un mezzo utile a produrre beninecessari e a migliorare la condizione umana sulla Terra. Tale orientamento si diffon-de, nel XIII secolo, anche in taluni ambienti universitari, soprattutto nelle facoltà delleArti e nell’Università di Oxford, dove un grande interesse per la scienza applicatamostrano Roberto Grossatesta (1175 ca. – 1253) e Ruggero Bacone (1214 ca. – 1292).Quest’ultimo, soprattutto, esalta il sapere tecnico, che offre all’uomo possibilità di rea-lizzare congegni utili al miglioramento dell’esistenza. Ciò riflette, evidentemente, unmutamento del clima intellettuale e una ridefinizione della gerarchia dei saperi, nellaquale anche la tecnica vede riconosciuto un proprio ruolo.

Resta pur sempre un distacco fra cultura della mano e cultura delle lettere. In ampisettori della cultura – ad esempio di quella universitaria, sempre più controllata dauna casta di professori “maestri” – si continua a sostenere la separazione tra teoria epratica, tra mondo della cultura “litterata” e mondo della tecnica.

Eppure l’aumento di considerazione sociale per il mondo della produzione è testi-moniato – nella cosiddetta fase dell’autunno del Medioevo – dalla nuova considera-zione sociale di cui godono gli artisti, che, pur continuando ad essere considerati allastregua di lavoratori manuali, vedono sempre più apprezzata la loro opera, e, conessa, la loro attività di “artigiani”, di produttori di opere “belle”, oltre che “utili”.

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218FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

L’età moderna vede la nascita e l’affermazione non solo della scienza, ma anchedella tecnica così come ancora oggi le intendiamo. Nonostante ciascuno dei dueambiti cerchi e consegua un’identità definita ed un’autonomia piena, in molti casitra “sapere” e “fare”, tra conoscenza e dominio della natura si stabilisce una stret-ta connessione.

La nascita della scienza e della tecnica moderne produce una svolta radicale,un sommovimento tale da determinare cambiamenti profondi in ogni settore dellacultura e della vita dell’Occidente. Alle radici della stessa Rivoluzione industriale,che contribuisce potentemente a far nascere il mondo contemporaneo, vi sonoanche la rivoluzione scientifica e l’idea di “tecnica” che la cultura moderna haelaborato e la Rivoluzione industriale realizzato.

Il Rinascimento e la rivalutazione del lavoro produttivo

Una valutazione nuova, positiva, dei saperi tecnici e una stretta connessione trasapere e fare diventano aspetti caratterizzanti della cultura rinascimentale.Cambia il modo in cui viene inteso il rapporto uomo-natura. La natura è il regnumhominis, regno dell’uomo su cui questi domina ed in cui svolge la sua attività.L’uomo è l’homo faber, che produce e trasforma le proprie condizioni di vita. Èsu tale convinzione che poggia il nuovo valore attribuito alla tecnica, la fiducianelle possibilità di realizzare un controllo umano sulla natura.

Nella cultura rinascimentale vi è una considerazione positiva del lavoro, anchedi quello manuale. Questa rivalutazione è, per così dire, un passaggio obbligatonella costruzione di una cultura della tecnica. La si avverte non solo nelle botte-ghe degli artisti-artigiani, ma anche fra i letterati umanisti. Alcuni tra loro (adesempio Poggio Bracciolini, 1380-1459) sottolineano il valore del lavoro come e-spressione della capacità realizzatrice dell’uomo e come fattore propulsivo dellaciviltà umana, contrapponendo questo ideale di vita attiva alla vita contemplati-va e all’ascetismo medievali.

Nel regno di Utopia di Tommaso Moro (1478-1535) e nella Città del Sole diTommaso Campanella (1568-1639) si descrive una società nella quale, in contra-sto con la cultura nobiliare, viene affermato il valore nuovo del lavoro. Tutti lavo-rano, tutti devono lavorare da quattro a sei ore al giorno.

La civiltà è un prodotto del lavoro, afferma un altro filosofo rinascimentale,Giordano Bruno (1548-1600): è un prodotto del lavoro manuale non meno che dellavoro intellettuale : entrambi esprimono la tensione infinita che anima ogni esseredella natura. Non è mai esistita, per Bruno, una mitica “età dell’oro”, un’epoca nellaquale all’uomo tutto fosse dato senza fatica. Con il lavoro l’uomo ha superato la suacondizione ferina originaria e ha migliorato – gradualmente – la propria condizio-ne, lottando contro le difficoltà naturali e impegnandosi con immenso sforzo.

Evidente manifestazione di questo mutamento di orientamenti – in una partedella società e della cultura dell’epoca – è anche la posizione dei grandi riforma-tori religiosi. Soprattutto di Calvino (1509-1564), che considera il lavoro una voca-zione, un compito, un servizio divino ed un’attività dal cui successo l’uomo puòavere un segnale della benevolenza divina: troviamo la speranza della benedizio-ne divina muovendoci con dedizione e costanza a fare la nostra parte nel mondodegli uomini. Il lavoro è una missione divina che l’uomo deve adempiere.

La cultura tecnica nella nuova enciclopedia del sapere

La nuova considerazione del valore sociale del lavoro nell’età moderna portacon sé un nuovo apprezzamento per la cultura tecnica e una sua nuova colloca-zione nell’enciclopedia del sapere.

Già nel Rinascimento viene espressa – nelle pagine di intellettuali e filosofi – laconvinzione che occorra ripensare profondamente la gerarchia dei saperi. In talegerarchia dovrebbe essere messa in discussione la tradizionale subordinazionedelle arti meccaniche a quelle liberali.

L’ETÀ MODERNA4

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219FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Non è casuale, ad esempio, che nel romanzo di François Rabelais (1494-1553),Gargantua e Pantagruel, sia stata ripensata quella gerarchia, con l’elaborazione diun progetto educativo nel quale l’apprendimento avviene soprattutto osservandoil “gran libro della natura” e visitando le botteghe artigiane, apprendendo, in esse,le cognizioni essenziali delle varie attività produttive.

In questa nuova visione della cultura, anche la magia assume una nuova fisio-nomia. Essa si basa sull’idea che il mago sia in grado di trasformare e dominarela natura, volgendone le forze e i processi a proprio beneficio. Quando questaconsapevolezza verrà tradotta in termini razionali, si affermerà il modello moder-no del sapere tecnico.

Nell’età del Rinascimento è Leonardo da Vinci (1452-1519) – con la sua genia-le azione anticipatrice – a prefigurare tale modello. Egli esprime al massimo livel-lo una nuova idea, cioè quella visione unitaria della cultura che – nell’epoca – imaggiori artisti vengono a stabilire fra arte, tecnica e scienza, testimoniando que-sta unità con la sua multiforme opera di artista e scienziato.

È, nello stesso tempo, pittore e matematico, studioso di anatomia e progettistadi macchine complesse. Ritiene che anche l’arte richieda il concorso di più com-petenze: quella dell’anatomista e quella dell’artigiano, ma anche quelle del fisi-co e del matematico. Prima ancora che si affermi la nuova scienza matematicadella natura, egli ne anticipa importanti aspetti con la sua riduzione dei processinaturali a movimento meccanico: anche gli esseri viventi vengono da lui conce-piti e disegnati come insiemi di meccanismi, di ingranaggi (leve, corde, pesi, ecc.)che permettono, ad esempio, a un uomo di respirare e camminare e ad un uc-cello di volare.

La potenza produttiva del sapere

Un aspetto non meno importante delle trasformazioni culturali del XVII secoloè costituito dall’affermarsi di una nuova concezione produttiva della scienza,basata sulla sottolineatura delle immense potenzialità che essa è in grado di espri-mere come sapere applicato, sapere tecnico. Tale concezione – agli inizi del Sei-cento – viene espressa soprattutto da Francesco Bacone (1561-1626), che è statoconsiderato quasi un “profeta della società industriale ”.

Per Bacone, più ancora del fondatore di una città e di uno Stato, è l’inventore“il vero benefattore del genere umano”, colui che permette di affermare lavolontà umana sulla necessità della natura, “il campione della libertà, il soggio-gatore della necessità”.

Egli è consapevole del fatto che le tecniche possano esser volte sia al bene cheal male, che, cioè, dalle arti meccaniche possano scaturire anche potenti e cru-deli strumenti di distruzione. Ritiene però che gli aspetti positivi dello sviluppotecnico prevalgano – alla lunga – su quelli negativi.

Bacone è il filosofo che più di ogni altro ha affermato l’esistenza di un rappor-to strettissimo fra tecnica e scienza. Considera la scienza non come un saperedisinteressato, fine a se stesso, ma come condizione del dominio dell’uomo sullanatura. Per lui, infatti, l’uomo tanto può quanto sa e la scienza e la tecnicaappaiono mezzi capaci di operare una trasformazione profonda del mondo natu-rale ed umano. Nella sua opera utopica, la Nuova Atlantide, egli mostra di checosa potrebbe esser capace il sapere tecnico-scientifico, se fosse progettato eorganizzato per dare risposta ai bisogni essenziali dell’uomo e se fosse seriamen-te operata – da parte della comunità scientifica – una radicale riorganizzazionedel sapere e dei metodi di indagine.

Ritiene che lo sviluppo tecnico-scientifico – grazie all’invenzione di nuovi con-gegni che spesso descrive nella sua opera – potrebbe permettere all’umanità divivere in condizioni di benessere, di ridurre la fatica, tutelare la salute e prolun-gare la durata della vita umana. La tecnica determinerebbe una svolta radicalenella condizione di vita degli uomini, staccandola e, in qualche modo, li-berandola dalla sua situazione naturale.

Perché ciò si verifichi, Bacone ritiene necessaria una politica della scienza edella tecnica da parte dei governi, la costituzione di una rete internazionale diaccademie, centri e collegi e l’affermarsi di uno spirito nuovo di collaborazione,di un’azione cooperativa e solidale fra i detentori delle competenze tecnico-scien-tifiche.

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220FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Tecnica, scienza e nuova immagine del mondo

Sia in Cartesio che in Galileo Galilei (1564-1642) si può cogliere una strettissimaconnessione fra la nuova scienza e la tecnica; Galilei riconosce l’importanza che illavoro di tecnici e artigiani (come quelli, ad esempio, che operano nell’arsenale diVenezia) ha nello sviluppo dell’indagine scientifica; si impegna direttamente nellariflessione su problemi legati ad attività tecnico-produttive (ad esempio alla costru-zione di ponti, canali, fortificazioni, chiuse idrauliche, allo sviluppo delle tecnichebalistiche, alla sperimentazione della resistenza dei materiali) ed inventa o miglio-ra egli stesso strumenti di rilevazione e misurazione (ad esempio il telescopio) indi-spensabili per l’indagine scientifica. È uno dei tanti esempi che si possono fare delnesso sempre più stretto che si viene stringendo tra scienza e tecnica.

Ma con Galilei e con la moderna scienza della natura è il mondo stesso ad esse-re tratteggiato secondo un modello tecnico. Ciò si verifica, infatti, con l’affermar-si di una concezione meccanicistica della natura, cioè con un’immagine delmondo nella quale l’universo viene descritto come una grande macchina, con isuoi ingranaggi e con le sue connessioni universali e necessarie. Dio stesso verràda taluni descritto come un divino meccanico, o come il divino orologiaio che hacreato il mondo proprio come una macchina perfetta.

Sviluppo tecnico-scientifico e idea del progresso

Il momento più alto di riconoscimento del valore culturale del sapere tecnico ècostituito dall’elaborazione, nel Settecento, in Francia, dell’Enciclopedia, operasimbolo della cultura illuministica. In essa le arti e i mestieri assumono una nuovacentralità. I suoi estensori condannano il disprezzo con cui nel passato le artimeccaniche e gli artigiani erano stati considerati e, sulla scia di Bacone, ricono-scono il grande valore che la tecnica ha per il progresso dell’uomo. Soprattutto,fanno entrare le arti meccaniche a pieno titolo nella cultura e le fanno oggetto distudio e considerazione. Come scrive Jean-Baptiste Le Ronde d’Alembert (1717-1783), le diverse voci relative alle arti applicate sono state scritte visitando opifi-ci e botteghe artigiane, interrogando i lavoratori, sviluppando e approfondendo iconcetti da loro espressi e in taluni casi, procurandosi o costruendo macchine. Intal modo questi intellettuali affermano l’idea di un’eguale dignità dei saperi e diun progresso di cui anche le arti applicate sono promotrici essenziali.

Contestualmente, la moderna economia politica riconosce il lavoro produttivocome uno dei principali fattori dello sviluppo umano. Ad esempio, Adam Smith(1723-1790) vedrà nel lavoro la fonte stessa della ricchezza delle Nazioni. Il valo-re di un bene sta nel lavoro impiegato a produrlo, affermerà, e quando parlerà dellavoro, penserà a quello delle manifatture e vedrà nella divisione del lavoro ilprincipale fattore di potenziamento della capacità produttiva dei lavoratori.

Della nuova immagine del mondo e dell’uomo fa parte anche la rinnovata fidu-cia per il progresso dell’umanità grazie all’avanzamento di un sapere tecnico-scientifico che viene ritenuto dotato di enormi possibilità ulteriori di sviluppo edescritto, in tal senso, come se fosse ancora nella “culla”. Questa idea di un pro-gresso lineare, irreversibile, illimitato della civiltà umana, determinato dallo svi-luppo delle tecniche e delle scienze, è uno dei cardini della concezione illumi-nistica.

Ma non tutti sono convinti di tale prospettiva. Vi è anche chi – come Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) – dietro a questa

idea del progresso tecnico-scientifico denuncerà l’esistenza di processi di asser-vimento degli uomini da parte di altri uomini e di una frantumazione dell’unitàdella persona umana attraverso lo sviluppo delle nascenti specializzazioni. Simanifesterà così in Rousseau, in controtendenza rispetto alla posizione prevalen-te nella cultura del tempo, una riflessione critica sulla civiltà, di cui le tecnichesono un aspetto rilevante: la civiltà non ha portato alla realizzazione della natu-ra buona dell’uomo, ma ne ha distorto lo sviluppo. È la prima avvisaglia di unatteggiamento che nel pensiero occidentale si affermerà con il Romanticismo, mapoi, soprattutto nella cultura del Novecento.

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221FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Romanticismo e Idealismo: il lavoro diviso e l’intervento umano sulla natura

La vita intellettuale e, in varia misura, la riflessione filosofica sono fortementecondizionate dai radicali cambiamenti che la Rivoluzione industriale determinanella vita economica e sociale dell’Europa occidentale.

Dopo un avvio di tale Rivoluzione industriale, determinato dall’iniziativa di inge-gnosi artigiani e imprenditori, l’ulteriore sviluppo dei processi di industrializzazionesi lega ad un intreccio sempre più stretto fra la scienza e la sua applicazione pra-tica, fra progresso scientifico e innovazioni tecniche.

Anche il lavoro subisce profondi cambiamenti. Sarà sempre meno un lavoro cherichiede competenze e abilità, come quello impiegato nelle botteghe artigiane, esempre più un lavoro standardizzato, in cui sono le macchine ad avere incame-rato sapere e competenze. L’operaio sarà sempre più uno “strumento” al serviziodelle macchine, una loro appendice.

Alle novità che la Rivoluzione industriale determina, sul versante della tecnica edel lavoro, la filosofia e la cultura dell’Ottocento rispondono con due atteggia-menti di segno diverso: uno di critica, che proviene dal Romanticismo; l’altro, purvario per posizioni e punti di vista, che riconosce le novità positive e acconsenteal cambiamento profondo della società e della sua immagine, talvolta marcandola frattura con la “vecchia” società, altre volte accompagnando l’accettazione dellasocietà industriale con progetti di cambiamento della condizione di vita e di la-voro degli operai.

Non pochi intellettuali guardano con diffidenza al cambiamento e, soprattutto,denunciano le distorsioni prodotte – negli individui, nella società e nei rapportidell’uomo con la natura – sia dall’industrializzazione che dalla sempre più fortespecializzazione e divisione del lavoro.

Nella prima metà del secolo, è il Romanticismo a sollevare forti critiche neiconfronti delle trasformazioni indotte dalla Rivoluzione industriale.

Ad esempio, in Germania Johann Christoph Friedrich Schiller (1759-1805) eFriedrich Hölderlin (1770-1843) criticano la pratica del lavoro diviso. Nellasocietà industriale borghese, con lo sviluppo tecnico, il rafforzarsi della rigida divi-sione in classi e lo svilupparsi di mansioni lavorative sempre più specializzate,l’uomo – il proletario e il borghese – è ridotto come a un frammento. La sua per-sonalità è mutilata, scissa. Si delinea inoltre la tendenza – che si dispiegherà poipienamente con la società industriale – a considerare la natura come un nemicoda debellare, da piegare ai propri bisogni. Più complesso è l’atteggiamento di unaltro grande esponente della cultura tedesca dell’epoca, Johann Wolfgang Goethe(1749-1832). Egli descrive quell’atteggiamento che verrà successivamente desi-gnato come faustismo, cioè il desiderio di possedere i segreti e i privilegi delmondo, scommettendo la propria esistenza per poter attuare tale scopo. Strumentodi tale impegno totale, della velleità umana di superare ogni limite, è la tecnica,oltre alla scienza e al denaro. L’uomo sperimenta però lo scacco, la sconfitta di taleprogetto di vita.

Diverso e articolato è l’orientamento che esprimono alcuni fra i maggiori espo-nenti dell’Idealismo tedesco.

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), ad esempio, assegna un ruolo positivo allatecnica, con cui l’uomo subordina a sé il mondo naturale e lo piega ai suoi biso-gni. La tecnica è uno dei modi con i quali l’uomo attua la sua missione di realiz-zazione di sé e di progresso dell’umanità.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), pur ponendo al centro del suosistema lo Spirito come Assoluto, è attento osservatore dei processi di trasforma-zione indotti dalla Rivoluzione industriale e sa valutare la funzione positiva dellavoro. Nella dialettica fra padrone e servo, tratteggiata nella Fenomenologia dellospirito, il lavoro appare un fattore di umanizzazione della realtà e di emancipazio-ne umana; proprio grazie al lavoro si rovescia il rapporto fra padrone e servo: il pa-drone, che consuma senza lavorare, dipende sempre più dal lavoro del servo.

TECNICA E LAVORO NELL’OTTOCENTO5

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222FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Anche in altre opere Hegel descrive il lavoro come intervento sulla natura, atti-vità formatrice con cui la forma delle cose perde il suo carattere di estraneità perl’uomo e l’uomo stesso, a sua volta, afferma la propria libertà e indipendenza difronte alla natura. Strumenti del lavoro e oggetti prodotti mediante il lavoro costi-tuiscono una forma di negazione, cioè di annientamento dell’estraneità delle cosee una loro idealizzazione. La potenza del lavoro è accresciuta dalla macchina,che appare come l’espressione della “furbizia della ragione”, che, grazie ad essa,interviene sulle proprietà naturali delle cose senza operare direttamente, mafacendo agire quelle proprietà le une sulle altre e asservendole così ai propriscopi.

Industrialismo, Positivismo e sviluppo umano

Vi è nell’Ottocento una forte e composita tendenza culturale che esalta gliaspetti positivi dell’industrializzazione e propone cambiamenti per gli aspettinegativi che la accompagnano. La Rivoluzione industriale è l’occasione di unoscontro tra tendenze sostanzialmente conservatrici e altre innovatrici, ma non cie-camente, né passivamente appiattite sul nuovo.

A esprimere un orientamento favorevole all’industrializzazione è soprattutto ilPositivismo, che influirà profondamente sulla cultura e sulla filosofiadell’Occidente nel XIX secolo. In esso l’apprezzamento e la nuova considerazio-ne della tecnica si manifestano soprattutto come industrialismo, come riconosci-mento cioè della svolta epocale che è stata determinata dalla Rivoluzione indu-striale e della necessità che ad essa, alle sue esigenze e caratteristiche, vengano aconformarsi la società e la cultura e che ad essa debba guardare la stessa filoso-fia. È una svolta nella quale un’epoca radicalmente nuova (quella dell’industriali-smo) viene contrapposta al modello sociale tradizionale (quello designato dal-l’inglese Spencer come militarismo), come età nella quale gli individui possonofinalmente affermare le loro esigenze di libertà.

Tale convinzione poggia su una ben radicata teoria e ideologia del progresso:cioè sulla fiducia che, grazie ai mezzi che la tecnica e la scienza sono in gradodi fornire in misura crescente, davanti all’umanità possa aprirsi una prospettivapressoché illimitata di progresso, di controllo e di regolazione del mondo natura-le e sociale. Il progresso tecnico, come quello scientifico, costituisce una svoltanella storia delle civiltà umane e solo su di esso è possibile avviare un’opera dirigenerazione intellettuale e morale dell’umanità. Tra gli intellettuali un ruolo pre-minente è assunto dalle figure dell’inventore, dell’ingegnere, del tecnico, di colo-ro che sono capaci di inventare, produrre e far funzionare dispositivi sempre piùingegnosi e complessi, tipici della società industriale.

Alcuni pensatori, fra cui i cosiddetti socialisti utopisti, si fanno promotori di unmovimento di idee in cui la borghesia e il proletariato industriale, il mondo della tec-nica e della scienza, vengono considerati le forze portanti della società moderna.

Per Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon (1760-1825), ad esempio,dopo le crisi rivoluzionarie dell’età moderna, dovrà affermarsi una nuova “epocaorganica” dell’umanità, cioè verificarsi l’avvento di una società regolata da un cri-terio di razionalità tecnica e diretta da un tipo nuovo di governo, il governo dellecompetenze: la presenza dello Stato dovrà essere ridotta al minimo e gli affaritemporali dovranno essere amministrati dagli industriali (mentre quelli spiritualidovranno essere di competenza degli scienziati) e il Parlamento dovrà trasformar-si in un Consiglio di produttori, cioè di lavoratori, industriali, tecnici e banchieri,considerati come la spina dorsale della nazione.

Anche Auguste Comte (1798-1857), discepolo di Saint-Simon e fondatore delPositivismo teorico, vede aprirsi, con la società industriale, delle possibilitànuove, inusitate, di realizzazione e di emancipazione umana.

In Gran Bretagna Jeremy Bentham (1748-1832) propone una nuova organizza-zione della società che si ispiri al criterio della migliore e più funzionale divisio-ne del lavoro (simile a quella teorizzata dall’economista Adam Smith nella pro-duzione di fabbrica), perché le diverse attività sociali realizzino il massimo deirisultati con il minimo dei costi, cioè con il minore impiego di forze.

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223FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

La critica marxista: tecnica, potenza e mercificazione del lavoro

Anche per Karl Marx (1818-1883) – come per i pensatori del Positivismo – laRivoluzione industriale, guidata dalla borghesia capitalista, ha segnato una svol-ta epocale nella storia umana. La tecnica vi ha svolto un ruolo decisivo. Alla tec-nica Marx attribuisce un ruolo fondamentale per l’uomo, infatti gli uomini sicaratterizzano per la capacità di produrre e riprodurre le condizioni materiali divita mediante la tecnica, mediante il lavoro. Questi mezzi di produzione nonsono naturali ma “artificiali”, perché prodotti dall’uomo, e generano, a loro volta,nuovi bisogni “e tale produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica”.Questa attività costituisce la struttura della società, dell’organizzazione sociale,della storia.

In tale contesto la storia diviene sempre più “sociale” e “culturale” proprio attra-verso la dialettica fra

bisogni → produzione dei mezzi per soddisfarli → produzione di nuovi bisogni.

Il lavoro viene così descritto come il luogo della mediazione e del ricambioorganico fra l’uomo e la natura. Nel processo lavorativo la potenza della naturasi trasforma in potenza umana di controllo e regolazione della natura.

Marx, attento anche alla ricostruzione storica della formazione della borghesia,riconosce la profonda trasformazione e i grandiosi risultati che lo sviluppo tecni-co ed economico, guidato dalla borghesia capitalistica, ha realizzato. I capitalistiperò sono come apprendisti stregoni che hanno evocato forze che non riesconopiù a controllare. La produzione capitalista soffre di crisi di sovrapproduzione, incui i prodotti del lavoro e della tecnica vengono distrutti, per salvaguardare ilvalore di scambio favorevole.

Le attività lavorative nella società capitalistica sono inoltre non un’occasioneper la realizzazione dell’uomo, ma un fattore di alienazione e degradazione dellapersona umana nelle fabbriche.

Anzitutto, in concomitanza con lo sviluppo della produzione materiale, si èdeterminata una radicale divisione fra lavoro intellettuale e lavoro manuale.Così, alcuni consumano e gli altri producono, ma, in tal modo, si attua una ripar-tizione ineguale sia del lavoro che dei prodotti del lavoro.

In secondo luogo il lavoro umano, nel capitalismo, è una merce. Non unamerce come le altre, in quanto è l’unica che, consumandosi, produce a sua voltaaltre merci, altri valori. L’operaio non vende come merce il proprio “lavoro”, mavende la sua forza-lavoro: per un certo tempo pone a disposizione del capitalistala sua capacità di lavoro in cambio della paga. Nell’attività lavorativa l’oggettoprodotto – di cui si appropria il capitalista – sovrasta l’operaio come una poten-za indipendente, tanto più forte quanti più beni l’operaio stesso produce.

Marx si chiede perché quell’alienazione dell’uomo da se stesso si verifichi edafferma che essa deriva non dallo sviluppo tecnico e industriale in sé, ritenuto uneffetto necessario dello sviluppo della società umana, ma dagli assetti proprietaridella società. L’origine del plusvalore (cioè del valore delle merci che costituisceun di più rispetto alle spese anticipate per la produzione), da cui dipende il pro-fitto del capitalista, sta, dunque, nel lavoro. Nel ciclo economico capitalistico, ilmetodo più moderno adottato dai capitalisti per aumentare il plusvalore è quellodi intensificare la produttività del lavoro. Per l’intensificazione della produttivitàassume un valore strategico lo sviluppo tecnico, cioè l’adozione di macchine emetodi di produzione più moderni, frutto del progresso delle scienze e capaci diprodurre di più nel minor tempo, ma a prezzo di contraddizioni sempre più fortiche preparano crisi sempre più gravi dello stesso capitalismo e l’apertura di pro-spettive rivoluzionarie.

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224FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Il mondo della tecnica: razionalità strumentale e disincanto

Nel Novecento, l’espansione e il dominio della tecnica compiono un salto diqualità, contribuendo potentemente alla nascita e al dispiegamento di una societàdi massa. Sono soprattutto taylorismo e fordismo1 ad aumentare prodigiosamentela produttività del lavoro industriale, ma anche a parcellizzarlo ulteriormente, asottoporlo a ritmi frenetici, a ingabbiarlo in una organizzazione scientifica chenon conosce tempi morti e in cui ogni aspetto è regolato secondo le esigenze delmassimo di efficienza e produttività. La catena di montaggio diviene d’ora in poil’emblema della produzione di massa. Il dominio della tecnica si estende semprepiù; la presenza della tecnica pervade ogni aspetto della società.

È indubbio che questo sistema produttivo, che richiede un aumento continuodei consumi di massa, comporti progressivamente un miglioramento delle condi-zioni di vita di masse di uomini e venga, pertanto, magnificato. I successi dellatecnica e della scienza sono sotto gli occhi di tutti. Ma, oltre a intellettuali chevalutano positivamente la nuova civiltà delle macchine, vi sono molti, anche trai filosofi, che esprimono critiche e riserve, vedono moltiplicarsi gli aspetti negati-vi legati al dominio della tecnica e temono che il mondo della tecnica occulti odistorca gli aspetti più profondi e autentici della realtà e dell’esistenza umana.Sono la crisi e la critica del Positivismo a rafforzare un orientamento che mettein discussione scienza e tecnica.

Da un punto di vista diverso, Max Weber (1864-1920) descrive il mondomoderno, il mondo capitalistico, sempre più come società del disincanto, nellaquale contano non tanto gli ideali, i valori, le passioni e le tradizioni, quanto l’ef-ficienza dei mezzi adottati rispetto agli scopi prefissi. Il capitalismo è nato e si èsviluppato grazie alla razionalità strumentale, all’agire razionale rispetto alloscopo, in base al quale il mondo viene concepito come qualcosa di ordinato per-ché calcolabile e perciò razionalmente ricostruibile e comprensibile. È una razio-nalità che cerca di “ottimizzare” l’uso dei mezzi in relazione ai risultati cercati.

Tale modello, originatosi nell’impresa capitalistica, si è esteso all’intera societàed al sistema di potere con cui essa viene regolata.

Un pieno riconoscimento del modello tecnico di razionalità si ha inoltre con lostrumentalismo di John Dewey (1859-1952). Per questi l’intelligenza umana è lostrumento a disposizione dell’uomo per risolvere problemi.

È definita come strumento dell’azione, è un’intelligenza tecnica, capace dirisolvere problemi di interazione fra l’uomo e l’ambiente in cui opera.

La stessa scienza, da pensare in continuità con la tecnica, si configura come laforma più elevata di controllo del nostro rapporto con il mondo. Nella culturaoccorre superare la scissione determinatasi tra teoria e prassi, fra cultura e tecni-ca, fra conoscenza tecnico-scientifica e conoscenza comune. Il superamento diquesta scissione è un fatto di democrazia, perché implica quello della distinzio-ne fra lavoro intellettuale e lavoro manuale e tra cittadini liberi e agiati e lavora-tori schiavizzati e disagiati.

Nietzsche: la tecnica come forma di dominio

Proprio mentre tecnica e scienza consolidano ed estendono il loro dominio, inOccidente, sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, si avvia una riconsiderazionecritica della “razionalità” della tecnica e della scienza esaltate dal Positivismo.

L’espressione più rilevante di tale riflessione è la filosofia di Friedrich WilhelmNietzsche (1844-1900). Egli contrappone anzitutto la “sapienza” allo “scien-tismo”, alla visione appiattita e anti-umana della realtà, che comprende anche latecnica, prodotta dalla “piccola quadrata ragione umana” che vuole ridurre tuttoa numero e calcoli.

IL NOVECENTO6

1. Alla base della possi-bilità di una produzio-ne di massa ci dovevaessere un nuovo siste-ma di organizzazionescientifica del lavorostudiato dall’ingegne-re statunitense Frede-rick Winslow Taylor(1856-1915). Questonuovo sistema di la-voro si basava su:a. il massimo sfrutta-mento delle macchine;b. la soppressione dimovimenti e tempiinutili;c. la pianificazionedel lavoro.Il primo ad applicareil taylorismo fu HenryFord nel 1913, con ilsistema della catenadi montaggio nellaquale ogni operaiosvolge sempre le stes-se operazioni, perridurre i tempi e icosti di produzione.

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225FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Riconosce il ruolo che tecnica e scienza hanno nella nuova civiltà del lavorodei tempi moderni, ma nega che siano “disinteressate”. Sono invece una forma direalizzazione del “dominio dell’uomo sulle cose”. La tecnica, insieme con lascienza, è il prodotto di una razionalità che Nietzsche critica radicalmente per-ché la considera strumento principale nella costruzione di un mondo in cui larealtà più profonda dell’uomo è stata negata e soffocata.

L’idea della tecnica e della scienza che si manifesta è perciò ben diversa daquella del Positivismo, va contro ogni forma di ottimismo della ragione. PerNietzsche l’affermazione vera dell’individualità e della potenza umana sta nellascienza del superuomo, per il quale “conoscere equivale a creare, il creare a legi-ferare, il suo volere la verità a volere la potenza”. Nel pensiero del Novecento taliposizioni avranno un’enorme – anche se contraddittoria – influenza.

Homo faber, homo sapiens e umanesimo integrale

Sigmund Freud (1856-1939) riconosce che il progresso scientifico e tecnico hafatto compiere all’uomo uno straordinario sviluppo nel controllo delle forze dellanatura, ma afferma che tale dominio, che ha quasi soddisfatto i nostri ideali diciviltà, quelli di onniscienza e di onnipotenza, non ci ha reso più felici, anzi harichiesto per la sua realizzazione il sacrificio, la sublimazione delle nostre spinteistintuali, in particolare quelle di natura sessuale.

Freud non nega il valore che scienza e tecnica hanno nel continuo migliora-mento delle condizioni di vita dell’uomo, ma critica la pretesa che esse divenga-no il modello e l’orizzonte di tutta l’esistenza umana.

Henry Bergson (1859-1941) vede nell’intelligenza la fonte della capacità umanadi fabbricare strumenti artificiali, di sopperire, mediante la produzione di tali stru-menti, ai bisogni che la vita pone continuamente. L’intelligenza è “pensiero difabbricazione”. L’homo faber tende così a prevalere sull’homo sapiens. Queglistrumenti dell’intelligenza sono mezzi per affermare la superiorità dell’uomo nelmondo, adattando l’uomo alle cose e le cose all’uomo, ai suoi bisogni. MaBergson, che comunque valuta positivamente il ruolo svolto dalla tecnica, sostie-ne che in questa attività l’intelligenza si fa sfuggire proprio ciò che è essenzialenella realtà, cioè l’incessante fluire dell’esperienza, la dimensione dello spirito.Essa, creata dalla vita per operare su certe cose, non può “abbracciare la vitatutt’intera” di cui è solo un aspetto.

Nel mondo cattolico si manifesta invece una nuova, specifica attenzione nei con-fronti del lavoro, che sul piano dell’elaborazione teorica è testimoniata non solo danumerose encicliche papali ma anche dalle riflessioni di diversi filosofi e teologi.

Spiccano, ad esempio, le tesi avanzate da Maritain e Mounier. Jacques Maritain (1882-1973) contrappone all’“antropocentrismo” dominante

nella cultura contemporanea un umanesimo integrale, un umanesimo che è “teo-centrico” (in quanto “riconosce che Dio è il centro dell’uomo”), ma fa nello stes-so tempo convergere l’homo faber con l’homo sapiens, la “scienza” e la “tecni-ca” con la “sapienza” e soprattutto mira a costituire una nuova civiltà.

Emmanuel Mounier (1905-1950) all’uomo artificiale dell’individualismo con-trappone l’uomo concreto del personalismo, nel quale si combinano, allo stessotempo, le due vocazioni tradizionali del Medioevo e dell’età moderna: la con-templazione e il lavoro.

Un teologo cattolico francese, Marie-Dominique Chenu (1895-1990), è inoltrefautore di una teologia del lavoro. Alla sua base, l’idea di un Dio che diffondeamore e che favorisce quella solidarietà nel lavoro che potrà, a sua volta, diffon-dere un ideale di umanità nel mondo. Il lavoro è emblema dell’unione fra l’uomoe l’universo, fra lo spirito e la materia. La “civiltà del lavoro” è quindi da acco-gliere con gioia, come una civiltà “cristiana”.

Il lavoro nella filosofia marxista

Nella grande varietà di posizioni che il Marxismo presenta nel Novecento, diparticolare rilievo sono quelle legate alla riflessione sul carattere disumanizzantedel lavoro nella fabbrica capitalistica e sulle possibilità e prospettive di emanci-pazione del proletariato.

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226FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Ad esempio György Lukács (1885-1971) vede nel lavoro il paradigma, il model-lo dell’intera prassi sociale. È attraverso l’analisi delle condizioni reali in cui si svol-gono le attività produttive che è possibile comprendere le altre attività sociali, comeattività “finalizzate a uno scopo” ed è proprio attraverso lo studio del modo capi-talistico di produzione che si possono comprendere i principali aspetti e problemidella società contemporanea. Lukács riconduce l’intera alienazione umana aldominio capitalistico sul lavoro, descrivendola come reificazione, cioè come unacondizione nella quale i rapporti umani si presentano come rapporti tra “cose”,“mercificati”, indipendentemente e contro la stessa volontà umana. In tale forma didominio si verifica quel feticismo delle merci, descritto da Marx, nel quale i rap-porti sociali tra produttori assumono forme fantastiche di rapporti tra cose. I rapportiumani si reificano, mentre le “cose” si socializzano, si personificano.

Un recupero – sia pure critico – del “macchinismo” si ha nella riflessione suamericanismo e fordismo operata da Antonio Gramsci (1891-1937), per il qualeil modello americano dell’organizzazione del lavoro in fabbrica – con i suoicaratteri di produttività e di efficienza – non può essere aprioristicamente eromanticamente respinto. Del fordismo si respingono sia l’intenzione di assog-gettare l’operaio alla “logica” del profitto capitalistico sia gli effetti disumaniz-zanti, ma non si respinge – in sé – l’uso, cioè l’idea di razionalizzazione dell’or-ganizzazione del lavoro.

La fabbrica fordista è, per Gramsci, luogo d’origine di moderne professionalitàe, soprattutto, del costituirsi del lavoratore collettivo, forza e soggetto di una pos-sibile rivoluzione politico-sociale, intellettuale e morale, dell’Italia. Il problema,per Gramsci, è politico: realizzare la socializzazione dei mezzi di produzione erendere così i lavoratori protagonisti dei processi di trasformazione della fabbricae della società.

Una riflessione più strettamente “filosofica” sul lavoro si ha con altri esponentidel Marxismo.

L’esistenzialista Jean-Paul Sartre (1905-1980), approdato al Marxismo dopo laSeconda Guerra Mondiale, vede anche nel lavoro realizzarsi quella dialettica fracondizionamento e ricondizionamento che costituisce, a suo parere, la caratteri-stica del rapporto fra l’individuo e il contesto in cui vive e opera: condiziona-mento della situazione sull’individuo (che delimita il campo delle possibilità a luidate) e ri-condizionamento, ad opera dell’individuo, della situazione stessa, cioèsforzo di oltrepassamento di quella situazione.

L’uomo si aliena nel proprio lavoro e il prodotto del suo lavoro gli si opponecome potenza estranea. L’uomo diviene quindi cosa fra cose, coscienza reificata.Ma, come gruppo in fusione, cioè come forza organizzata e solidale, può rove-sciare tale condizione di alienazione e diventare forza rivoluzionaria e creativadella storia.

Louis Althusser (1918-1990) critica tale impostazione soggettivistica, tipica dibuona parte del Marxismo occidentale, che considera troppo legata all’Hegelismoe all’Idealismo del giovane Marx. Il concetto di lavoro degli scritti giovanili diMarx è diverso da quello del Capitale : il primo si limita ad essere lavoro alienato(estraneazione dell’individuo nel prodotto del suo lavoro), il secondo è invecelavoro salariato, frutto dei concreti meccanismi del capitalismo. È proprio lo stu-dio scientifico di quest’ultimo a costituire la “rottura epistemologica” delMarxismo rispetto alla teoria economica classica (e alla stessa filosofia idealisticadi Hegel).

Del tutto diverso, cioè di tipo antropologico, è l’approccio di Agnes Heller(1929). Essa guarda al lavoro e allo sfruttamento del lavoro dal punto di vista sog-gettivistico, cioè dei bisogni radicali, dei bisogni insoddisfatti sia nella societàcapitalistica che in quelle a socialismo reale. Ritiene però che proprio le macchi-ne attraverso cui si attua quello sfruttamento costituiscano – almeno potenzial-mente – un fattore di sviluppo dell’universalità delle capacità umane, qualora sirealizzi una radicale trasformazione della società e dei modi di vivere.

È questa stessa prospettiva e possibilità di auto-realizzazione e liberazioneumana – identificata con il comunismo – a costituire lo spirito dell’utopia, cioèuna perenne aspirazione dell’umanità, secondo un altro esponente della filosofiamarxista, Ernst Bloch (1885-1977).

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227FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

La critica della razionalità tecnica

Serrata è poi la critica che alla tecnicizzazione del pensiero e della società, allaragione strumentale, cioè al modello di razionalità che Max Weber aveva attri-buito alla società capitalistica, hanno condotto, pur muovendo da posizioni teo-riche molto lontane fra loro, gli esponenti dell’Esistenzialismo e della Scuola diFrancoforte.

Già Edmund Husserl (1859-1938), fondatore della scuola fenomenologica,aveva descritto lo svuotamento di senso che – nella società e nella cultura euro-pee – si è verificato con il dominio delle scienze, che ha oscurato la coscienza eil “mondo della vita”, e che è alla base del mondo della tecnica.

Ma è soprattutto Martin Heidegger (1889-1976) il pensatore che ha espresso unacritica radicale della razionalità tecnica e scientifica. L’uomo, dimentico dell’esse-re, si riversa tutto sulle cose, si impegna a manipolarle, trasformarle, utilizzarle, macosì, di nuovo, diviene cosa fra cose e il pensiero, tecnicizzato, contribuisce adallontanare ulteriormente l’uomo da se stesso e dal suo problema più profondo edautentico, quello dell’essere. Il campo della tecnica è quello del pensiero calco-lante. Al fondo della tecnica vi è la scienza moderna, la cui essenza sta nel voler“afferrare la natura come un insieme di forze calcolabili”. Il fine della tecnica èestrarre e accumulare energia dalla natura. La natura entra, così, a far parte di unprogetto umano, si subordina a finalità umane, ma seguendo una logica di usuradi ogni materia, ivi compresa quella umana, che è la più importante di tutte. Laragion d’essere della società occidentale è divenuta la produzione tecnica, l’orga-nizzazione, la pianificazione della vita di masse crescenti di uomini. Il dominiodella tecnica si autoriproduce e si autogiustifica a livelli sempre più ampi.

È la nietzschiana “volontà di potenza” che si organizza con la tecnica e fa vio-lenza alla Terra, che spinge alla lotta per il dominio della Terra, per il crescente,incontrollato sfruttamento della Terra stessa.

Al pensiero “calcolante” della scienza e della tecnica bisogna contrapporre ilpensiero che pensa, un pensiero capace di recuperare il senso dell’essere, delmistero, della verità.

Sulla scia della riflessione di Heidegger, Emanuele Severino (1929) interpreta iltrionfo della tecnica nell’Occidente come l’inveramento della metafisica greca.Questa, infatti, con l’accettazione del divenire e quindi della possibilità del non-essere e del nulla (nichilismo), ha aperto lo spazio di un “mondo” in cui le cosenascono e muoiono, vengono prodotte e consumate: ineluttabilmente, l’essenzadella tecnica è la verità della visione metafisica che l’Occidente ha derivato dallafilosofia greca post-parmenidea e ha trasformato in struttura della società attuale.

Per gli esponenti della Scuola di Francoforte, ad esempio per Max Horkheimer(1895-1973) e Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), il dominio sulla natu-ra che è proprio della razionalità tecnico-strumentale include il dominio sull’uo-mo, esprime cioè un potere che domina ogni rapporto umano e condanna l’indi-viduo, il soggetto.

La critica della ragione strumentale investe il modello “illuministico” dellaragione. Nel movimento intellettuale del XVIII secolo si vede come l’emblema diun atteggiamento e di un progetto umano di razionalizzazione della realtà, di unprogetto nel quale sia la società che la natura dovrebbero ricadere sotto il con-trollo e la regolazione della scienza e della tecnica. Ma lo sviluppo economicoche ne è seguito, se ha portato alla cosiddetta “società del benessere” nei Paesipiù industrializzati, ha anche determinato una situazione di dominio, di control-lo totale della società ad opera di ristretti interessi economici, che si avvalgonodegli apparati tecnico-scientifici per affermare nuove e sofisticate forme di con-trollo degli individui.

Analogamente critica nei confronti del dominio della tecnica è la posizione diun altro esponente della Scuola di Francoforte, Herbert Marcuse (1898-1979).

Quel dominio, infatti, impone il sacrificio delle tendenze creative degli indivi-dui, in quanto mira soprattutto all’efficienza della prestazione lavorativa di cia-scuno di loro e alla razionalizzazione della stessa vita quotidiana. Questa società,impedendo all’individuo di ragionare, di esercitare cioè un uso critico della ragio-ne, operando in lui con forme occulte di persuasione, lo ha ridotto ad uomo a unadimensione, costringendolo ad accettare e a subire l’esercizio del potere altrui.

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228FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Nell’età contemporanea, la filosofia si interroga sistematicamente sul significa-to e sulle conseguenze dello sviluppo tecnologico-scientifico sulla vita dell’uo-mo, così come sulle trasformazioni che esse hanno sul lavoro (e sul non-lavoro)degli individui.

Per un verso posizioni come quella di Heidegger continuano ad influenzareampi settori del pensiero filosofico, per un altro filosofie critiche e di opposizio-ne di matrice marxista, o “francofortese”, che avevano alimentato la contestazio-ne della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta, risentono dei profondi, radi-cali mutamenti nel mondo alla fine del XX secolo.

I problemi, la critica e il rifiuto non riguardano più la tecnica in quanto tale, mapossibili o attuali sviluppi della razionalità tecnico-scientifica in settori determi-nati. La logica dell’intervento pare quella di mettere argine al procedere inarre-stabile dell’intervento tecnico su aspetti sempre più cruciali della realtà naturalee umana.

Sembrano confrontarsi due posizioni: una di rispetto e di difesa della “natura”– umana e non – e l’altra di sostegno e promozione dell’intervento tecnico in ognicampo, in nome del valore della razionalità tecnico-scientifica.

Comunque, sempre più stretto appare l’intreccio fra i problemi di ordine etico,sociale, politico, gnoseologico e metafisico aperti da questo sviluppo. Le frontie-re mobili dell’innovazione si spostano incessantemente in avanti, ma l’impattoche esse avranno sull’ambiente naturale, sulla società, sugli orientamenti e sullecondotte degli individui appare sempre meno determinabile.

Problematica e in via di profonda trasformazione è anche la riflessione sul lavo-ro, a cui le incessanti innovazioni tecnologiche continuano a cambiare caratteri econtenuti. Forse un certo tipo di “religione” del lavoro come fonte principale direalizzazione umana (eredità del mondo moderno, dell’etica calvinista) o si èvenuta attenuando o è entrata in crisi. Ma a divenire problema è la stessa possibi-lità di lavorare per un numero crescente di persone che non riescono a entrare nelmondo del lavoro o ne sono espulse per i processi di ristrutturazione indotti daicambiamenti tecnologici.

Molteplici sono gli interrogativi che tecnica e lavoro pongono, soprattutto oggi,al filosofo. Qui ne poniamo solo alcuni fra i più significativi.

■ Un primo ordine di problemi riguarda il rapporto fra tecnica e scienza, fratéchne ed epistéme.

TEMI E INTERROGATIVI DEL PRESENTE7

Anche in questa situazione sono possibili dei processi di liberazione umana.Inoltre lo stesso sviluppo tecnico-scientifico, aumentando enormemente la pro-duttività del lavoro e aumentando il tempo di non-lavoro, permetterà di estende-re gli spazi potenziali nei quali gli individui possano coltivare se stessi, le lorocapacità creative, e permetterà di coltivare l’eros, cioè la spontaneità, la creati-vità, la libera espressione delle facoltà, la comunicazione umana.

A destare critiche e preoccupazioni oltre e più del dominio sulla natura si affer-ma il dominio sulle coscienze. La ragione strumentale è una razionalità che si tra-sforma in tecnica e che viene asservita agli interessi dominanti e utilizzata comeefficiente mezzo di regolazione, controllo e repressione sociale.

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229FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

La tecnica è sempre più connessa con la scienza, quindi ci si domanda: la tec-nica può continuare ad essere considerata – come nel passato – ancella dellascienza, una sua mera “applicazione”? oppure ha una sua autonomia, è diversadalla scienza, in quanto, pur usando princìpi scientifici noti, adotta procedure esegue criteri completamente diversi da quelli dello scienziato? Ad esempio, vuoleessere efficace (in grado cioè di conseguire gli obiettivi prefissati) ed efficiente(capace di realizzare il massimo dei risultati col minimo dei costi).

■ Il secondo gruppo di interrogativi riguarda la tecnica come modello di orga-nizzazione della vita individuale e sociale.

Per secoli, soprattutto a partire dall’età moderna, si è magnificata la tecnicacome strumento di accrescimento della potenza e del dominio dell’uomo sullanatura e fattore principale del progresso umano.

Ma, soprattutto nel Novecento, ci si è chiesti: se il pensiero della tecnica è unpensiero finalizzato al calcolo costi-benefici, cioè all’economicità del risultato, ese le cose vengono concepite solo dal punto di vista della loro utilizzabilità, puòil “modello” della tecnica, sulla base dei grandi risultati ottenuti sul piano eco-nomico-produttivo, essere esteso a tutti gli aspetti della vita e della culturaumane?

In questo caso non vi sarebbe, però, la rimozione o la cancellazione di aspettie problemi della vita (l’amore, la solidarietà, il senso della dignità della personaumana, ecc.) che non sono riducibili al calcolo costi-benefici, al calcolo dei mezzipiù utili al conseguimento di fini, quali essi siano? Non si rischia, applicando aquegli aspetti della vita umana un pensiero calcolante, di avere un loro comple-to stravolgimento, una loro inaccettabile riduzione?

Ma è solo quella tecnica la modalità propria della razionalità? oppure al di làdella “calcolabilità” c’è un’altra forma di razionalità, aperta alla comunicazioneumana e ad un rapporto disinteressato, non “calcolato”, fra gli individui? oppureuna razionalità che guardi ad una realtà più profonda di quella creata dalla tec-nica e dalla quale sia possibile ricavare il senso e il destino stesso dell’uomo?

■ Un terzo ordine di questioni è costituito dall’ambivalenza della tecnica, cioèdal fatto che essa dipende strettamente dall’uso che se ne fa: basti, tra tutti, l’e-sempio dell’energia atomica, potentissima risorsa energetica, usata, invece, comestrumento di sterminio con le bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Di fronte ai guasti che la civiltà industriale sta inoltre producendo negli equili-bri ambientali, sempre più la riflessione sull’uso della tecnica si accompagna aquella sulla nostra responsabilità di fronte alle generazioni future, che rischianodi vivere in ambienti sempre più “a rischio”. Ma, si obietta, come si fa a con-fondere il problema della tecnica – che di per sé è “neutrale” – con quello del-l’uso, cioè del cattivo uso che della tecnica fanno determinati uomini? Questoriguarda l’etica e la politica, non la filosofia della tecnica.

È proprio l’etica ad essere oggi impegnata su alcune grandi questioni poste dalcontrollo e dalla manipolazione tecnico-scientifica della natura. Facciamo treesempi della cosiddetta etica “applicata”.

Il primo si lega alla bioetica, cioè a quel ramo dell’etica che si occupa in modospecifico dei problemi aperti dagli sviluppi della biologia e della medicina. In talecampo si toccano questioni delicatissime, questioni “ultime”, nelle quali ogniindividuo si sente coinvolto.

Il secondo esempio riguarda il rapporto fra sviluppo tecnico e ambiente. Esso èoggetto di studio di una disciplina, l’ecologia o scienza del rapporto fra uomo eambiente. Ma proprio tale disciplina, che è in realtà una “inter-disciplina”, ha aper-to non pochi problemi di ordine etico (e politico). Si è, ad esempio, messo – anco-ra una volta – in discussione il concetto di “progresso illimitato” della tecnica, con-trapponendo (H. Jonas, 1903-1993) un’etica della conservazione all’“etica delprogresso” e affermando un principio di responsabilità delle generazioni attualinei confronti delle generazioni future, la cui qualità della vita o la cui stessa pro-spettiva di esistenza è minacciata. Si parla (Ilja Prigogine, 1917) della necessità diuna nuova alleanza fra uomo e natura e di un nuovo significato da far acquisire alsapere in relazione alle radici naturali dell’umanità, cioè alle condizioni che nehanno favorito lo sviluppo. Si descrive (Michel Serres, 1930) l’umanità come dislo-cata al limite stesso della sua storia globale, così che l’antico contratto sociale che

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230FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

ha dato luogo alla civiltà umana e ha permesso, in qualche misura, di regolarne iconflitti, dovrebbe ora lasciare il posto a un contratto naturale i cui contraentisiano da un lato l’uomo e dall’altro, anch’essa come soggetto, la natura.

Un terzo esempio riguarda l’intelligenza artificiale, termine con cui si designaun campo di riflessione teorica, legato alla “rivoluzione informatica” degli ultimidecenni del Novecento. In senso stretto, riguarda la ricerca sulle possibilità di farassolvere a un calcolatore alcune delle funzioni tipiche dell’intelligenza umana,riproducendone – sia pure parzialmente – i processi di apprendimento, di ricono-scimento e di scelta e la capacità di risolvere problemi. I problemi di ordinegnoseologico, morale e sociale che ciò comporta sono – anche in questo caso –vastissimi. Da un lato – è stato osservato – la macchina sembra meccanizzare ematerializzare la mente, riproducendone talune operazioni; dall’altro si tende adantropomorfizzare la macchina, parlandone come di una “macchina pensante”. Cisi è allora chiesti se sia legittimo attribuire alla macchina funzioni umane, menta-li o se questa non faccia altro che “simulare” ciò che è comandata a fare e se siacoerente il passaggio dalla dimostrata possibilità che la macchina riproduca alcu-ne operazioni della mente umana a quella che la macchina possa – in avvenire –riprodurle tutte. Come si possono accostare o identificare linguaggio umano e lin-guaggio-macchina se la macchina (come ha affermato John Roger Searle, 1932) èsolo un ente sintattico (capace di eseguire regole formali) e non anche un entesemantico (in grado di comprendere il significato degli atti che compie)?

■ Un quarto ordine di questioni si lega, infine, al lavoro e alle trasformazionisempre più profonde che i processi in atto determinano su di esso. Si possono, inquest’ambito, citare gli interrogativi che riguardano il valore del lavoro, il suosignificato nella vita dell’uomo e quelli che riguardano, invece, le conseguenzesociali dei processi di automazione, lo sviluppo della cosiddetta società post-industriale, le trasformazioni che lo sviluppo tecnico-scientifico determina sullavoro, sul potere e sulla vita quotidiana degli individui su scala planetaria.Citiamo alcune fra le questioni che sono sul tappeto.

Il lavoro è pena, condanna (“lavorerai col sudore della fronte”, dice Dio adAdamo cacciato dal paradiso terrestre dopo il peccato originale), oppure è mezzodi auto-realizzazione per l’uomo? e inoltre, è possibile liberarsi dal lavoro comepena? tale liberazione è da concepire come liberazione dal lavoro (attraverso unuso intelligente e ricco del tempo libero, del tempo di non-lavoro) oppure è pos-sibile anche come liberazione del lavoro, cioè come pratica lavorativa non“penosa”, libera da condizionamenti e dallo sfruttamento altrui?

In secondo luogo, ci si è chiesti, il lavoro inteso come specializzazione non haeffetti disumanizzanti, in quanto realizza solo alcune capacità dell’individuo,ottundendone altre? o è da ritenere, invece, che il lavoro specialistico sia una viaobbligata, una necessità del presente e che – permettendo di aumentare enorme-mente la produttività del lavoro – possa contribuire all’aumento della ricchezzasociale e possa soddisfare in misura crescente i bisogni umani?

Guardando poi alla tradizionale divisione fra lavoro manuale e lavoro intellet-tuale ci si è chiesti: questa divisione – e la conseguente divisione della società inclassi contrapposte – è un elemento necessario, permanente della civiltà umana,o si può ritenere superabile, almeno in prospettiva?

In altri termini, qual è il rapporto che può essere stabilito – sul piano storicocome su quello teorico – fra i problemi che sorgono dalla divisione tecnica dellavoro (di cui è un aspetto quella divisione fra lavoro intellettuale e manuale) equelli legati alla divisione sociale del lavoro stesso, cioè alla costituzione, nellasocietà, di gerarchie sociali, di classi sovrapposte e contrapposte l’una all’altra?

In quarto luogo, la risorsa-lavoro fondamentale sarà solo un sapere progettualee informatizzato, ristretto ad alcuni settori della società e ad alcune aree econo-micamente “forti” del pianeta? oppure sarà possibile da un lato ridurre il “tempodi lavoro” (ampliando quello “di vita”) e dall’altro utilizzare le nuove tecnologieper risolvere i problemi del sottosviluppo e della fame?

Il controllo sociale e il potere sugli individui saranno inoltre concentrati nellemani di pochi tecnocrati e di “élites del potere” (diverranno cioè una nuova e piùforte forma di manipolazione del consenso, di dominio di élites sul resto dell’u-manità) oppure potranno essere distribuiti a rete, permettendo una partecipazionee una relativa “condivisione”?

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231FILOSOFIA, TECNICA E LAVORO

Sarà poi ipotizzabile un nuovo tipo di conflittualità sociale (di intellettuali-ese-cutori e tecnici-esecutori contro il potere tecno-burocratico), oppure essa, pur neinuovi scenari, manterrà le caratteristiche tradizionali di conflittualità fra classisociali contrapposte?

Infine, lo sviluppo tecnico allargherà la voragine fra le occasioni di sviluppodelle capacità umane che si offrono nei Paesi ricchi e quelle che si offrono neiPaesi poveri (con la prospettiva di un conflitto di immani proporzioni fra areeavanzate e aree arretrate del pianeta) oppure creerà i presupposti perché tuttiabbiano la possibilità e la capacità di svolgere determinate funzioni? È possibile,in altri termini, conciliare il progresso tecnico e il progresso sociale, la crescitaeconomica con lo sviluppo umano?

Interrogativi, dispute non solo teoriche che nascono già a partire dalla societàantica e che sono oggi attualissime. In esse i problemi teorici della tecnica e dellavoro interagiscono con quelli della scienza, dell’etica, della politica, perchérientrano nei problemi – più generali – che riguardano la condizione umana nelsuo complesso, il senso e il destino dell’uomo.

Quali orizzonti e problemiha aperto la nuova societàglobale della telematica e

dell’economia?

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L’ESTETICA

■ L’estetica può essere definita come la scienza filosofica del bello, la scienza delle forme con lequali il bello si esprime nelle arti e nella natura, e degli effetti che esso produce sui fruitori.

In questa accezione e in quanto sapere autonomo è un settore relativamente recente della filosofia,poiché nasce solo nel 1700. Ad essa è stato attribuito il compito di definire i criteri in base ai quali vieneformulato un giudizio di gusto, cioè una valutazione sulla “bellezza” o meno di una cosa. Il terminederiva dal greco áisthesis (sensazione), ma il suo significato attuale è stato per la prima volta adottatosolo verso la metà del XVIII secolo, ad opera del teorico tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762).

■ I concetti-chiave dell’estetica sono quelli di bello e di arte.

■ Gli interrogativi intorno ai quali ha ruotato la riflessione filosofica nel campo dell’estetica si colle-gano – in varia misura – alle caratteristiche di fondo della disciplina.

Per molti secoli ci si è posti la domanda-chiave su che cosa sia il bello. Ci si è chiesti – si è detto – seesso sia una rappresentazione della realtà, una raffigurazione da cui traspaia un modello oggettivo diperfezione (il platonico “bello in sé”), oppure se esso esista ed abbia valore solo come sentimentosoggettivo, come processo spirituale in cui è il sentimento dell’individuo – e non una misura esterna,oggettiva – che cerca di esprimersi, di realizzarsi in un’opera.

■ E ancora: se si ritiene “bella” un’opera d’arte, questa bellezza è espressione di qualcos’altro, cioèdal fatto che essa sia espressione di una Verità suprema, espressione del Bene, di una realtà superioreche sia a suo fondamento? Oppure l’arte ha in sé il metro della sua misura, non dipende da altro, cioèpuò esser “bella” senza essere “vera” o “buona” (o magari è “falsa” e “cattiva”): in altri termini, è auto-noma, è “legge a se stessa”?

■ E se l’arte fosse davvero autonoma (indipendentemente dalla verità o bontà della sua ispirazione),come potrebbe essere educativa? E se davvero fosse “educativa”, in che modo potrebbe esserlo, se nonsi lega alla verità o alla moralità dei contenuti?

■ Inoltre, è un fatto che la bellezza dia piacere. Ma di quale piacere si tratta? Di un piacere perso-nalissimo, egoistico, incomunicabile ad altri? Aveva quindi ragione Cartesio a rispondere a padreMersenne, che gli aveva chiesto perché preferisse una data musica ad altre, che ciò equivale a doman-dare perché si preferisca il pesce alla carne? Ma allora perché, quando diciamo di qualcosa che è“bella” (ad esempio di una musica che è “più bella” di un’altra) cerchiamo il consenso degli altri, oalmeno di coloro con cui riteniamo debba esserci un’affinità di orientamenti, un “sentire” comune?Evidentemente pensiamo che un perché, cioè un criterio comune, esista, o per lo meno sia possibile.

232L’ESTETICA

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

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233L’ESTETICA

■ Ed infine, quali sono i generi artistici capacidi esprimere meglio ciò che percepiamo come“bello”? La poesia? La musica? Il cinema? In talcaso, perché?

Oppure ciascuna forma artistica, a suomodo, esprime la bellezza? Ma – di nuovo –che cosa sarebbe questo “qualcosa”, la bellez-za, che le diverse forme artistiche avrebbero incomune?

Oppure dobbiamo dire che ciascuna formaporta con sé un criterio ed un’idea di bellezzacompletamente diversi gli uni dagli altri, dipen-denti dalla specificità espressiva, dalle tecnicheusate in ciascuna forma?

■ E l’artista quale funzione ha e quale compi-to è chiamato a svolgere? Quanto conta nella suaopera la competenza tecnica o l’ispirazione?

■ Come si vede, anche di fronte al “bello” laricerca filosofica ruota intorno a interrogativi –questi e molti altri ancora – a cui non è sem-plice rispondere e che comunque corri-spondono a domande che spesso ciponiamo, o che comunque sono implici-te in molti atteggiamenti che assu-miamo di fronte ad un’operad’arte o di fronte al problemadell’arte (o di uno specificogenere artistico).

Antonio Canova: Danzatrice, 1810.Roma, Galleria Nazionale.

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La riflessione sull’arte e sul bello, così come si configura nella cultura greca, con-dizionerà per secoli il dibattito e la riflessione in Occidente. Le domande sopra for-mulate hanno la loro prima risposta dalla cultura arcaica e da quella classica.

Ci si chiede quali siano l’essenza della bellezza e la funzione della poesia e,con essa, la funzione sociale dell’artista, del poeta e quale rapporto vi sia tra artee verità. Ci si chiede inoltre: l’arte ha una funzione educativa – e Omero è statol’educatore della Grecia – oppure essa è diseducativa, pericolosa per l’uomo eper la società? Educa, oppure è anche fonte di diletto, di seduzione e incanto,quindi possibile strumento di potere sulle persone? Essa è imitazione della realtà:di quella naturale come di quella umana. Ma che valore e significato di veritàvengono attribuiti a tale imitazione?

I Greci non avevano un termine corrispondente a ciò che noi oggi intendiamoper arte. Quello da loro usato era téchne, che esprimeva sia il significato di “pro-durre con abilità”, sia quello di “artificio”, “prontezza di spirito”. Più vicina alnostro significato di arte è la mousiché téchne, cioè la musica e la poesia. Invecenon venivano considerate le arti visive, per il loro diretto legame con il lavoromanuale, ritenuto non degno di uomini liberi.

Nella Grecia arcaica è di importanza fondamentale il ruolo svolto dalla poesiae dai poeti. Innanzitutto dal poeta dipende la fama, la memoria dell’“eroe” fra iposteri. I poeti svolgono inoltre un compito eminentemente educativo, etico-reli-gioso e di conservazione della memoria collettiva. Prima ancora di essere unintrattenitore e un artista, il poeta è un erudito, uno scrivano e un giurista. La cul-tura orale usa l’epica come mezzo necessario per conservare e poter trasmetterele regole del costume e della organizzazione politica e sociale. Il grande poetaepico (a cominciare da Omero) si afferma come “l’educatore della Grecia”.

Nella Grecia arcaica il poeta è anche maestro di verità. Egli è ispirato dalleMuse, cioè da divinità. Tale ispirazione gli permette di guardare oltre, di avverti-re ciò che gli altri non possono vedere e conoscere: di essere cioè – in qualchemisura – anche profeta e indovino. In tal modo egli è sapiente e trasmettitore disapienza dagli dei agli uomini. Sin dall’epoca arcaica viene riconosciuta al poetanon solo una capacità “profetica” di “annuncio” della verità, ma anche una capa-cità di produrre diletto, cioè piacere ed emozione, in coloro che lo ascoltano eche partecipano emotivamente alle vicende che egli canta.

Tale modello si ripropone in età classica. Il bello continua ad essere legato albene: e bellezza e bontà (in greco kalokagathía ) sono i tratti inconfondibili delmodello aristocratico di formazione, che dall’età arcaica giunge fino alla pólisdemocratica.

Nell’età della pólis – soprattutto con il grande teatro tragico, momento istitu-zionale della vita collettiva della pólis – viene riaffermata ed esaltata la funzioneeducativa dell’arte.

Ma proprio tale fondamentale funzione svolta nella società greca in particolaredalla poesia spingerà sia Socrate che Platone a una critica radicale della poesia edella tragedia. L’arte non è in grado di educare, anzi, semmai svolge una funzionediseducativa, socialmente molto pericolosa e da condannare. Per entrambi ciò chesi apprende e si insegna è la scienza, il sapere vero, non l’arte. Poesia e tragedia,basate sul potere della parola, come tra i Sofisti sosteneva Gorgia, hanno una gran-de capacità di incantare e di sedurre, hanno nelle proprie mani un potere moltogrande. Ma – dice Socrate (470/469 – 399 a.C) – i poeti sono in prima fila tra colo-ro che presumono di sapere e non sanno nulla di ciò che dicono. Ciò che dicononon è frutto di sapienza, ma di un’ispirazione simile a quella degli indovini.

234L’ESTETICA

ARTE E BELLEZZA NELL’ANTICHITÀ2

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Per Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.) la poesia è una divina follia, nella quale ilpoeta sembra raggiungere momenti di autenticità, senza essere poi in grado dispiegare ciò che ha detto. Ma più grave è l’accusa alla poesia (a quella di Omeroed Esiodo) di essere spesso diseducativa, in quanto fornisce un’immagine delete-ria della realtà degli uomini e degli dei. Ha contribuito a generare cattive abi-tudini negli Ateniesi, alimentandone le tensioni emotive e gli atteggiamenti tra-sgressivi ed accelerando i processi di corruzione e decadenza dello spirito civico,perciò non potrà continuare a svolgere la funzione di formare la classe dirigentedi uno Stato giusto.

Ma il motivo più profondo di condanna dell’arte da parte di Platone attiene alrapporto che essa ha con la conoscenza. L’arte allontana dalla conoscenza dellarealtà. Le opere d’arte sono infatti un’imitazione, un’immagine sbiadita dellarealtà, cioè delle Idee. Anzi, sono una “copia” del mondo del divenire che è, asua volta, “copia” della realtà ideale: sono una “copia della copia”. Quindi sonoun non sapere.

Oltretutto non è all’arte che compete – secondo Platone – la ricerca e la visio-ne della bellezza, quella bellezza che è armonia. Solo la filosofia, attraverso igradi diversi della bellezza, da quella dei corpi a quella delle Idee, è in grado diguidare l’anima fino all’Idea di bellezza.

Al centro della tensione dell’anima verso le Idee c’è l’eros, l’amore della bel-lezza, l’eros che è filosofo, perché è mancanza e bisogno della bellezza, maanche capacità di cercarla e di possederla.

Proprio in questa raffigurazione dell’altissimo valore dell’idea del bello, Platoneeserciterà un influsso profondo sulle teorie dell’arte dell’Occidente.

Alcuni secoli dopo Plotino (202/205 – 270) riproporrà la tesi platonica secon-do la quale, attraverso l’amore delle cose belle, l’anima è portata a intravederel’armonia e la bellezza della realtà e ad elevarsi così al di sopra del mondo del-l’esperienza. Ancor più di Platone egli sottolineerà il fatto che proprio nell’arte (inparticolare nella musica) traspaia il mondo soprasensibile delle Idee, perché labellezza è manifestazione dell’Idea e, avvertendola, l’uomo compie un passo inavanti nella direzione dell’Uno.

In tal modo, come mezzo per l’elevazione dell’anima, l’arte assume una dignitàmetafisica.

Diversa è l’impostazione di Aristotele (383-322 a.C.). Egli ha una considerazio-ne positiva del ruolo dell’arte. È il primo a studiare l’esperienza artistica (nellaquale svolge un ruolo eminente la poesia tragica) come oggetto di una specificariflessione teorica.

Anche per lui, come per Platone, la poesia è imitazione della realtà. Ma, a dif-ferenza di ciò che diceva Platone, essa costituisce una forma valida di conoscen-za. Vi è, infatti, una tendenza naturale dell’uomo a imitare la realtà: e questa, nel-l’arte, diventa imitazione di tipi di azione, di aspetti della realtà, che, pur nonessendo veri, sono comunque possibili. In altri termini, per Aristotele la realtà imi-tata non è “apparente” e l’imitazione non è “copia della copia” della vera realtà.

Inoltre, la narrazione poetica tratta non di vicende accadute (come fa la storia),ma di vicende che potrebbero verosimilmente accadere in determinate circo-stanze. E potrebbero accadere a chiunque. Quindi essa tratta di vicende aventi unsignificato universale.

Quanto alla funzione dell’arte, Aristotele riconosce che le tragedie producononegli spettatori, con la drammaticità delle vicende che rappresentano, delle for-tissime tensioni emotive. Ma, al contrario di Platone, proprio in tale coinvolgi-mento dello spettatore, nel prodursi, in lui, di quei sentimenti di pietà e terrore,vede la possibilità di una catarsi, cioè di una forma di purificazione nella qualele passioni siano non rimosse ma come trasfigurate, riportate ad una forma diequilibrio e di armonia che le trasforma quasi in piacere. E ritiene che proprio pertale aspetto – ed in tale forma – la poesia educhi i cittadini della pólis.

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Come ogni altro aspetto della cultura, nel Medioevo anche l’esperienza artisti-ca e la riflessione sull’arte risentono notevolmente dell’orizzonte cristiano in cuisono inserite. L’apparato teorico risale alla cultura antica, soprattutto a quellagreca. Con il termine Arti si definiscono sia i prodotti dell’attività umana, sia lediscipline in cui questa attività si articola. Non c’è, quindi, una concezione di artesimile alla nostra. L’arte cristiana, soprattutto nelle arti visive, riconferma quelvalore educativo che già nel periodo antico le veniva assegnato. E la riflessionesulla bellezza ribadisce altresì quella collocazione in un disegno e in un orizzontemetafisico che già dominavano il Platonismo, a cui gran parte della culturamedioevale si rifà. Comunque, la dialettica della bellezza non tende più all’ideadi bellezza, ma a Dio, fonte e origine di tutto ciò che è, dunque anche del bello.

Agostino di Ippona (354-430) anche in rapporto all’esperienza artistica esprimeun duplice atteggiamento che, in genere, l’Alto Medioevo farà suo. Non c’è postonella cultura cristiana per un’attività artistica “disinteressata”, perché ogni attivitàdello spirito deve subordinarsi al fine massimo per l’uomo e cioè la conoscenzae il possesso di Dio. Agostino mette radicalmente in discussione l’idea che deter-minati oggetti possano essere valutati e apprezzati solo per la loro bellezza.Lontana da Agostino e dalla cultura dell’Alto Medioevo è ogni considerazione,per così dire, autonoma dell’esperienza artistica.

Dunque, vi è un’estetica in Agostino, ma essa serve non a giustificare l’esperien-za artistica, bensì a trascenderla. È un’estetica in cui la bellezza è fondata sul nu-mero e sull’armonia, secondo la concezione pitagorica e platonica. La bellezzaesprime simmetria, uguaglianza e somiglianza di un’immagine con un modello.

La fonte della bellezza, come di ogni altra “qualità” della realtà, è Dio.Si capisce, allora, perché la bellezza non debba sedurci, ma vada apprezzata

solo in quanto ci aiuta a volgerci verso la bellezza perfetta di Dio. Una dialetticadella bellezza (come quella di Platone e Plotino) va ripresa nel senso che dallavisione della bellezza della realtà, che canta la lode di Dio (o dalla stessa letturadelle Scritture, così ricche di immagini belle e seducenti), l’anima ascende allavisione della bellezza di Dio. L’arte quindi, per Agostino come prima per Plotino,ha un rilievo metafisico e non “estetico”.

Il Medioevo farà sua la lezione agostiniana sia per quel che riguarda la diffi-denza nei confronti del potere seduttivo dell’arte e del piacere che comunica, siaper una considerazione della bellezza come tappa di un itinerario che deve gui-dare a Dio. Si combattono, ad esempio, i pericoli di idolatria derivanti dal cultodelle immagini e ci si preoccupa per le emozioni di piacere che le opere d’arteproducono nell’individuo. Ma è anche vero che proprio il rifiuto della posizione“iconoclasta” fonda in qualche modo l’arte cristiana, riconoscendo legittimitàalla rappresentazione della figura umana – quella dei santi e della Madonna, masoprattutto quella del Cristo, il Dio fattosi uomo.

Nella visione medioevale è l’intera realtà ad apparire come simbolo del divinoe la bellezza sensibile a manifestarsi come evocazione della bellezza intelligibi-le. Tale visione simbolica si manifesta nei prodotti artistici dell’epoca, ad esempionell’architettura religiosa.

Nel Medioevo le arti assumono spesso un valore didascalico, cioè di ausilio perl’opera educativa della Chiesa, ma con profonde differenze di valutazione sul lororuolo e valore. E con atteggiamenti che tendono ad essere ambivalenti, di criticae rifiuto da un lato e di accettazione dall’altro. Se l’arte viene svalutata comeforma culturale – perché ritenuta inferiore alle “arti liberali”, e cioé alle attività diordine intellettuale – le arti visive vengono invece apprezzate per il loro straordi-nario valore educativo. Nelle grandi opere architettoniche commissionate dallaChiesa, frutto dell’opera anonima di artisti-artigiani, cioè di laboratores, l’arte siafferma per secoli come potente spectaculum veritatis, spettacolo di verità, cioècome produzione di senso e come formazione alla verità delle grandi masse con-tadine ed urbane.

236L’ESTETICA

IL MEDIOEVO3

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Lentamente, comunque, con le trasformazioni prodottesi dal X-XI secolo nellasocietà europea e con l’affermarsi di una nuova civiltà urbana anche le conce-zioni estetiche tendono – sia pur gradualmente – a mutare. Permangono unavisione simbolica della realtà e una metafisica del bello. E questo continua adesser riproposto in una connessione strettissima col bene e col vero religiosamen-te intesi. Ma si sviluppa anche – ad esempio nella costruzione di grandi cattedra-li – una vera e propria arte della luce, di matrice platonico-agostiniana, basata sul-l’idea che Dio stesso sia luce e fonte di luce, che s’irradia poi nell’universo e chele opere dell’uomo tentano di riprodurre. L’arte delle città favorisce il supera-mento del simbolismo ed una specie di desacralizzazione della natura, in basealla quale animali ed oggetti vengono rappresentati per se stessi, nella loro realtà,e non più solo come simbolo.

Infine con Tommaso d’Aquino (1221/1227 – 1274) si giunge a operare unadistinzione fra il bello ed il bene e a recuperare un significato autonomo al bello.Il bene è ciò verso cui tende ogni cosa; il bello è ciò la cui conoscenza producepiacere. Un piacere, quest’ultimo, perfettamente legittimo, poiché ha il suo fon-damento ultimo nell’intellegibilità della cosa, cioè nella sua conoscibilità daparte del soggetto. L’oggetto bello possiede poi, come sue caratteristiche costitu-tive, la perfezione, la proporzione delle parti e la chiarezza. Emergono quindi,insieme a influenze e tesi della filosofia greca (da Pitagora a Plotino), accenti esottolineature che ritroveremo nell’età moderna.

Se nel pensiero del Medioevo l’idea del “bello” è saldamente ancorata a Dio, ènell’età del Rinascimento e poi nel Seicento e nel Settecento che vengono a matu-razione una serie di condizioni che portano alla fondazione del concetto moder-no di estetica, come scienza autonoma del bello e dell’arte.

Tale fondazione si collega all’assunzione di un nuovo ruolo sociale dell’artista,allo sviluppo delle tecniche specifiche delle singole arti e alla riflessione sul siste-ma delle arti. Su questa base e nel quadro di una tendenza al riconoscimentodell’autonomia dei saperi dalla religione – è il caso della politica prima e dellascienza poi – l’età moderna giunge al riconoscimento di una piena autonomiadell’arte rispetto alle altre forme della cultura e ad una nuova consapevolezza teo-rica dei suoi fondamenti e concetti essenziali.

Particolare importanza avrà la determinazione della facoltà umana su cui si fon-dano la produzione e la fruizione estetica (la sensazione, il sentimento, ecc.).Inoltre, venuto gradualmente meno il concetto classico di arte come imitazione,ne verranno studiati e approfonditi di nuovi (ad esempio quelli di gusto, genio,sublime).

Le arti nella nuova gerarchia dei saperi e lo status dell’artista

Il Rinascimento segna un profondo cambiamento soprattutto nell’arte e nellariflessione sull’arte. L’arte è espressione privilegiata del contrasto tra “gotico”,“barbarico” da un lato e “classico”, “umanistico” dall’altro. La nuova collocazio-ne dell’arte si iscrive nel contesto della riorganizzazione e del mutamento dellagerarchia dei saperi. La cultura è ora segnata dal primato degli studia humanita-tis, dalla retorica alla filologia ed alla poesia, ma le arti visive crescono nella con-siderazione sociale, uguagliando spesso il valore delle arti letterarie. La nuovaimportanza assunta dalle arti visive (pittura, scultura, architettura) costituisce,inoltre, un aspetto e una delle componenti essenziali del movimento umanisticoitaliano. Tali arti vengono rivalutate anche perché si afferma un primato del “fare”rispetto al “contemplare”, della vita activa rispetto a quella contemplativa. Purcontinuando ad essere connesse a “mestieri”, cioè ad attività pratiche e tecniche,organizzate in corporazioni, esse vengono sempre più considerate come un pro-dotto dell’intelligenza, come la rappresentazione, l’idea di ciò che l’artista vedecon la sua mente.

L’ETÀ MODERNA4

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238L’ESTETICA

A caratterizzare l’arte del Quattrocento vi è la connessione molto stretta che sistabilisce tra sapere scientifico (in particolare matematico-geometrico) e attivitàartistica: la prospettiva è il segno più concreto e geniale della scienza applicataalle arti visive e architettoniche.

Ma nel Seicento si determina una nuova forma di separazione fra l’arte e lascienza, dettata questa volta dalla progressiva specializzazione e diversificazionedei metodi e delle esperienze relativi alle due grandi aree della cultura e del sape-re. Secondo tale concezione, l’arte indaga i propri campi di esperienza,cercandone in qualche modo le “leggi”, esplorando liberamente l’universo infini-to dei segni, così come la scienza indaga l’universo fisico nella sua infinità.

A partire dal Rinascimento l’artista esce dall’anonimato a cui era costretto l’ar-tista medievale e, anche in questo campo di attività, si esprime il nuovo valoreattribuito all’individualità. Gli artisti cominciano ad essere cercati ed esaltati, perdar lustro alle corti, a casati ed a ricchi mecenati: principi, re e aristocratici, maanche borghesi. Comunque, una piena affermazione della considerazione socia-le dell’arte e degli artisti si avrà soprattutto con l’Illuminismo e il Romanticismo,ma sarà solo nell’Ottocento che gli artisti conquisteranno una completa autono-mia professionale.

Imitazione, finzione e verità

Nel Rinascimento predomina il modello dell’imitazione degli antichi. Tale imi-tazione nelle attività letterarie come nelle arti visive (e nella stessa riflessione sul-l’arte) viene ad assumere due opposti significati: può aderire al modello classicoin modo passivo, pedissequo, oppure in modo creativo, originale.

Ebbene, se gli imitatori del primo tipo tenderanno a diffondersi soprattutto conla crisi della cultura umanistica, i maggiori esponenti della cultura umanisticaattribuiscono invece al concetto di “imitazione” motivazioni nuove e originali.Essi pongono il problema della differenza fra il modello originario e la “riprodu-zione” che ne compie l’artista; quindi sostengono che nell’arte si afferma, sì, un’i-dea di imitatio, ma anche quella, ad essa complementare, di inventio.

Nelle arti figurative, i temi ed i personaggi rappresentati sono ancora di gene-re religioso, come nel Medioevo, ma vi si coglie un senso nuovo della figuraumana, un’attenzione rinnovata al corpo umano, una volontà di rappresentareuomini e donne reali. Gli artisti tendono a realizzare quella “riconquista dellarealtà” che appartiene a pieno titolo all’arte rinascimentale, in particolare all’artequattrocentesca, e a ricollegarsi così ai grandi modelli greci e romani.

Ripropone l’impostazione della cultura antica anche la riflessione sull’arte, chesegue ancora le strade del Platonismo e dell’Aristotelismo.

In particolare il Neoplatonismo di Marsilio Ficino (1433-1499) riprende le tesidi Platone e Plotino sulla dimensione metafisica dell’arte, cioè sulla sua capacitàdi orientare l’individuo verso la contemplazione del bello ideale, che è l’espres-sione stessa di Dio. L’anima, mossa dall’amore e dal desiderio di bellezza, saleverso Dio. L’artista, ispirato da Dio, la guida in questo viaggio con le sue opere,che sono il frutto di una “creatività” che viene – sia pure implicitamente – acco-stata a quella della natura. Lo stesso concetto di “idea” viene così a trasformarsi:da “archetipo” (o principio) eternamente pensato dalla mente divina, esso tendeora a presentarsi come il “modello” che è presente nella mente dell’artista primadi essere tradotto in un’opera.

L’Aristotelismo si sviluppa a partire dalla fine del XV secolo e pone in evidenzasoprattutto il valore educativo e cognitivo dell’arte. Tale valorizzazione trova oranella Poetica di Aristotele (tradotta in latino solo nel 1498 da Giorgio Valla, 1447-1500) una fondazione teorica nuova. L’Aristotelismo rafforza l’idea che l’arte siaimitazione della realtà. Ma lo fa a partire dalla tesi che essa ritragga non il vero mail verosimile, cioè descriva i fatti non come “sono”, ma come “possono essere”.

Ma, a partire dalla seconda metà del Cinquecento e per tutto il Seicento,l’Aristotelismo viene gradualmente a trasformarsi in precettistica, cioè in unaminuziosa determinazione di “canoni” e “norme” desunti dall’opera aristotelica.È noto, ad esempio, il precetto delle tre unità di azione, luogo e tempo che vieneimposto nelle rappresentazioni teatrali, trasformando quella che nel filosofo grecoera una descrizione delle caratteristiche della tragedia del suo tempo in un vero

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e proprio “dogma” estetico. Nel Seicento non vi sono grandi teorizzazioni sul-l’arte, né vi è spazio per una teoria dell’arte o per l’estetica nell’opera della mag-gior parte dei filosofi. Si cerca comunque di definire i princìpi (o “canoni”) dellesingole arti, per favorirne l’interpretazione e per cominciare a delinearne il “siste-ma”, che verrà però elaborato solo nel secolo successivo.

Nelle arti figurative, importante è l’affermazione del Barocco, cioè di una nuovatendenza a rompere gli schemi, a operare con la massima libertà, a non accetta-re più i modelli classici; questo stile per un secolo e mezzo dominerà l’arte euro-pea. La sottolineatura del valore dell’immaginazione, del fantastico, della costru-zione di forme sorprendenti e ingegnose, tipico del Barocco, diverrà un aspettocostante nella storia dell’estetica moderna e contemporanea. Il linguaggio deveesprimere il gusto inventivo, la capacità di innovazione poetica.

Proprio su tale specificità dell’esperienza artistica viene a fondarsi – anche informa polemica – una nuova giustificazione teorica della diversità delle scienzee delle arti. A tale giustificazione contribuiscono filosofi di diverso orientamento.Essi sottolineano il carattere di finzione, quindi di non-verità, delle produzioniartistiche. Così fa, ad esempio, Francesco Bacone (1561-1626) che basa la poe-sia sulla fantasia e afferma che i prodotti della poesia sono soltanto “favole”, cioèstorie che solo in apparenza sono vere, poiché la poesia descrive e combina fraloro esperienze che nella natura non s’incontrano mai.

Il problema del gusto

È soprattutto nel Settecento che l’estetica moderna si afferma come disciplinadotata di una sua autonomia, di un proprio statuto teorico. Innanzitutto si rico-nosce l’esistenza di beaux arts, di belle arti, che da un lato sono distinte dalle artiutili, cioè dalle tecniche, e dall’altro sono distinte dalle tradizionali arti liberali,anche se in qualche misura collegate alle cosiddette arti del “Trivio”1 e, in parti-colare, alla retorica.

In questa riflessione sulla specificità delle “arti belle” diventa quindi importantecomprendere quale sia la loro collocazione nel sistema dei saperi. E quale sia la“gerarchia” fra le arti: si tende, ad esempio, a mantenere una certa preminenzadelle arti del “dire” (in particolare della poesia) su quelle figurative (pittura, scul-tura e architettura). Fa eccezione solo la musica, che verrà sempre più collocatain alto, toccando il vertice della gerarchia, insieme alla poesia, con ilRomanticismo.

Sempre più, inoltre, il bello viene distinto dal vero e dall’utile, mentre molto piùdifficile è riconoscere una sua autonomia dal buono. Avanza l’idea che il mondodell’arte sia quello dell’immaginario, che non è – come tale – commisurabile allarealtà “vera” delle cose.

A preparare il terreno alla fondazione di una piena autonomia del giudizio este-tico è fondamentale il dibattito che si sviluppa sul concetto di gusto e sul giudi-zio di gusto.

Fra la fine del Seicento e per l’intero Settecento si discute se il giudizio di gustoabbia un fondamento oggettivo o se riposi interamente sul soggetto.

Nel primo caso, ad esempio, Anthony Ashley Cooper di Shaftesbury (1671-1713)e Francis Hutcheson (1694-1746) parlano di un’armonia universale della natura cheil sentimento è in grado di avvertire e che può costituire un metro oggettivo di valu-tazione sul piano non solo estetico ma anche morale. Il soggetto riflette e riceve l’i-dea del “bello” dall’esterno, da oggetti in cui vi sia armonia e “uniformità nellavarietà”. Nel secondo caso, invece, David Hume (1711-1776) parla di un senti-mento estetico che resta sempre all’interno del soggetto, non esprime giudizi sullarealtà delle cose e perciò, a rigor di logica, non dovrebbe sbagliare mai, a differen-za di ciò che avviene con i giudizi dell’intelletto. È cioè impossibile definire unaregola che valga per tutti i Paesi, o per tutte le epoche storiche, anche se vi sonoeccezioni e anche se, nell’ambito di una data cerchia, di un Paese o di un periodostorico, si possono distinguere gusti “migliori” e gusti “peggiori”.

Il riconoscimento dell’autonomia teorica dell’arte

Una più decisa affermazione e dimostrazione dell’autonomia dell’arte vienecomunque da altri tre filosofi del Settecento: Vico, Baumgarten e Kant.

1. Le arti del Triviosono: grammatica, reto-rica e dialettica; quelledel Quadrivio: aritme-tica, geometria, musi-ca e astronomia.

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Giambattista Vico (1668-1744) coglie la tendenza alla separazione delle artidalle scienze e sottolinea il valore fondamentale – per la cultura e per la storia del-l’umanità – di facoltà come la fantasia e l’ingegno, che invece il matematismoscientifico di Cartesio aveva ignorato.

Nella sua opera maggiore, la Scienza nuova, assume grande rilievo la sapienzapoetica che contraddistingue addirittura un’epoca della storia della civiltà: quel-la nella quale gli uomini erano dominati dal senso, dalla fantasia e da grandissi-me passioni, che esprimevano attraverso immagini sensibili. La sapienza poeticaè una metafisica non ragionata e non astratta, caratterizzata dalla creatività. Essapermette, in tal modo, di stabilire un collegamento strettissimo fra arte e mito edi guardare a questo come ad un’autonoma, originalissima forma di comprensio-ne e interpretazione della realtà, dettata dalla fantasia e dalle passioni.

Vico afferma l’idea di una sapienza non razionale, ma capace di esprimere larealtà e, per la prima volta nella cultura moderna, enuncia la tesi di una pienaautonomia teorica dell’arte. In secondo luogo, lega strettamente il problema del-l’arte a quello del linguaggio, che viene concepito non come “riflesso” o come“simbolo” della realtà, o come “convenzione”, ma come capacità espressiva del-l’uomo, come possibilità sempre nuova di esprimere e rappresentare la realtà.

Dall’arte della fantasia propria di Vico si differenza quella dell’Illuminismo,un’arte della ragione al servizio di finalità morali, sociali e politiche. Arte dellaragione, che i Romantici (e, prima ancora, alcuni intellettuali che nella secondametà del Settecento daranno il via a movimenti pre-romantici) considereranno co-me il prodotto di una “fredda” e “astratta” razionalità. Ma sarebbe sbagliato vede-re nell’arte dell’età illuminista solo questo aspetto razionale. In essa vi è difattispazio anche per ciò che non è “razionale”: ad esempio, per la sfera dei senti-menti, oppure per tutto ciò che si lega all’immaginazione ed alla creatività.L’immaginazione viene sempre più distinta dalla sensibilità e dall’intelletto, costi-tuendo una facoltà alla quale viene riferita la produzione artistica.

Il tema dell’autonomia dell’arte viene ripreso dallo svizzero Alexander GottliebBaumgarten (1714-1762), considerato da molti come il fondatore dell’esteticamoderna. Egli basa tale autonomia su una dimensione specifica e propria dellasensibilità: quella delle percezioni “chiare” ma “confuse”, cioè delle percezioniche colgono con immediatezza la totalità di un oggetto, senza però fornirne unarappresentazione logico-analitica. Sono rappresentazioni sensibili, preconcettua-li, che hanno valore conoscitivo ed esprimono “la perfezione della conoscenzasensibile”. Questa costituisce una “perfezione materiale”, concreta, legata allaparticolarità degli oggetti, che invece l’astrazione concettuale, logica, con tutta lasua perfezione formale, ci impedisce di cogliere. Lo spazio dell’arte, ancora unavolta, viene identificato come “altro” rispetto a quello della ragione, con una suapropria consistenza, un proprio intrinseco significato e valore.

È comunque con la filosofia di Immanuel Kant (1724-1804) che la teoria este-tica si afferma come completamente autonoma. Kant anche in questo campocompie un tentativo di sintesi teorica: un punto di equilibrio fra esigenze cono-scitive e istanze morali, fra intelletto e ragione, fra meccanicismo delle leggiscientifiche e libertà della vita morale, che viene fondato sul giudizio riflettente esul sentimento.

Il giudizio riflettente non afferma la “determinatezza” di una cosa (non dicecioè “che cosa” sia quella cosa), ma descrive l’effetto che quella cosa produce innoi, nel nostro animo. Non è un giudizio conoscitivo, non esprime una cono-scenza “confusa”, ma è un giudizio di ordine radicalmente diverso, perché affer-ma il rapporto che una data realtà ha col soggetto, descrive il sentimento che pro-duce nel soggetto. Fonda quindi completamente l’autonomia del bello.

Il sentimento è una dimensione della vita del soggetto umano che è diversa daquelle dell’intelletto scientifico e della ragion pratica. È una facoltà attraverso laquale vengono a costituirsi sia il gusto estetico che una visione finalistica dellanatura, cioè le idee di bello e di fine con le quali Kant cerca di armonizzare le esi-genze della vita morale con il mondo della natura.

Del giudizio di gusto Kant fornisce le coordinate principali. In esso vengono a combinarsi il piacere del bello e l’assenza di ogni intenzio-

ne, anche morale, nel senso che il bello viene concepito come ciò che piacesenza interesse. La considerazione estetica non è più subordinata ad altri criteridi valutazione (morale, religiosa, economica, edonistica, ecc.), è cioè autonoma.

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Il bello è un universale soggettivo, un nostro modo di “guardare” le cose, nonun loro aspetto oggettivo. Non sono le cose ad essere belle, ma è il sentimentoche, riferendosi al soggetto, attribuisce loro bellezza, trovando nelle rappresenta-zioni un certo accordo delle parti, una certa finalità che ce le fa apparire belle.Inoltre il bello ha in sé un limite, una forma, mentre il sublime è illimitato, infor-me espressione della reazione umana di fronte alla magnificenza e alla grandio-sità della natura e percezione profonda che solo l’uomo sia in grado di avvertirequella magnificenza e grandiosità. A produrre il bello nell’arte è il genio, creato-re di bellezza, che non si sostituisce, comunque, al gusto, pur tendendo a operarefuori delle regole e a fornire egli stesso delle regole all’arte.

La concezione kantiana, avendo posto solide basi teoriche alla fondazione del-l’estetica, eserciterà un notevole influsso sulla cultura dell’Ottocento.

L’Estetica del Romanticismo

La genesi del Romanticismo – movimento culturale in cui l’arte gioca un ruolofondamentale – ha luogo nell’ultimo quarto del XVIII secolo, ma esso si svilupperàin pieno nella prima metà dell’Ottocento. Si confronta polemicamente colNeoclassicismo, pur accogliendo l’idea dell’arte della Grecia classica comemodello altissimo di civiltà e di umanità. La sua estetica si richiama – in qualchemisura – alla Critica del Giudizio di Kant, ma assume contenuti e significati nuovi.

Alla base dell’arte sta il sentimento, forma di esperienza interiore che è ritenutain grado di andare ben oltre la ragione. L’arte, infatti, è considerata, assieme alla reli-gione, l’esperienza privilegiata per attingere l’infinito, intuizione del tutto, creativitàche esprime e rivela la vita dell’infinito. Su questo poggia il primato dell’arte rispet-to alla filosofia nell’attingere la verità più profonda, l’essenza della realtà.

Dalla posizione kantiana viene ripresa la concezione dell’autonomia dell’arte.E radici kantiane ha anche la concezione del genio artistico, capace di creare l’o-pera d’arte aprendosi a un’ispirazione che urge dentro di lui e chiede di essereespressa. Il ruolo dell’artista acquista così una rilevanza eccezionale. È colui chesta al di sopra delle convenzioni e delle norme, non solo perché ve lo colloca lasua attività, ma anche perché esprime critica e distacco rispetto ai modi di vitaprevalenti nella società.

L’Illuminismo – dallo Sturm und Drang prima e dal Romanticismo poi – vieneattaccato perché permeato da una razionalità astratta, ritenuto incapace di coglie-re gli aspetti più profondi della realtà e di affermare la natura umana nella sua inte-grità, nella sua spontaneità e libertà, cioè nella potenzialità infinita delle sue pas-sioni e facoltà immaginative. Alla razionalità illuminista analitica, alla sua fedenella ragione, viene contrapposta la forza del sentimento e delle passioni, dellacreatività infinita del genio artistico. Viene esaltata la spontaneità del linguaggiopoetico e considerata la poesia come una forma culturale originaria, cioè come “lalingua madre del genere umano”, basata sull’immaginazione e sui sentimenti(Johann Georg Hamann, 1730-1788). Il poeta viene ritenuto in grado di interpre-tare il senso profondo della realtà. Gli eventi della natura vengono da lui trattaticome “geroglifici”, cioè come simboli cifrati di una realtà ultima, divina.

Eppure vi saranno alcuni pensatori che cercheranno di trovare un nuovo puntodi equilibrio fra la spontaneità infinita dello spirito e l’esigenza di un’armonia, diuna forma nella quale quella tensione originaria dello spirito venga ad esprimersie a ricomporsi. Tale equilibrio viene individuato nella classicità greca, nell’artegreca in cui – nella seconda metà del Settecento – Johann Joachim Winckelmann(1717-1768) aveva visto l’espressione stessa del bello, cioè di un ideale e di una“norma” di armonia e di equilibrio. È un modello ideale e di armonia che – inSchiller e Goethe – si compone ora con le tendenze proto-romantiche dello Sturmund Drang, depurandole della carica irrazionalistica e ribellistica.

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All’arte viene attribuita da Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) una capacitàdi formazione e educazione (Bildung ) che negli individui prosegue e sviluppa l’o-pera della natura, realizzando un equilibrio fra natura e cultura.

Anche Johann Christoph Friedrich Schiller (1759-1805) riconosce all’arte unvalore formativo. Egli è fautore di una educazione estetica dell’umanità, in quan-to attribuisce all’arte la capacità di farci cogliere l’armonia del tutto e di raggiun-gere un equilibrio fra natura e spirito. Tale equilibrio era in grado di esprimere lapoesia ingenua, che era propria degli antichi e che rivelava con immediatezza l’u-nità del mondo, l’equilibrio fra spirito e natura. Mentre la poesia sentimentale,che è propria dei moderni, ha perso quel senso dell’unità, ma ha nostalgia di quel-l’unità perduta e cerca di ricostituirla. Schiller ritiene che – grazie all’educazioneestetica degli individui – sia possibile superare la condizione di scissione fra lediverse facoltà umane, cioè mettere in discussione la tendenza – favorita dallasempre più accentuata divisione del lavoro – a una formazione unilaterale, par-ziale e distorta, degli individui.

Friedrich Hölderlin (1770-1843), in pieno clima romantico riprenderà il temadella scissione dell’uomo dall’unità originaria del Tutto, che si manifesta anchecome scissione fra natura e spirito, e affiderà all’arte il compito di recuperare l’u-nità perduta.

L’arte, quindi, può svolgere un ruolo essenziale di emancipazione umana. Essapermette di attingere alla forza creativa dell’universo e di riprodurla. La creativitàdell’arte è l’infinito stesso che si manifesta nell’uomo, è l’espressione dello sforzoche l’assoluto compie per manifestarsi nel mondo.

Il sentimento, scrive inoltre August Wilhelm von Schlegel (1767-1845), non èaffatto una facoltà sensibile (non ha nulla a che vedere con la conoscenza deisensi), ma è una forza eminentemente spirituale. L’arte non è più “imitazione”della natura, come nell’estetica platonico-aristotelica. Essa ci permette di vedereil mondo come un tutto armonico e unitario. È creatività incessante, intuizione econoscenza del Tutto infinito.

Schlegel tende a ricondurre l’intera realtà – o comunque l’intero mondo dellacultura – a poesia: per lui la poesia romantica è universale e progressiva, nontende solo a riunire poesia, letteratura e filosofia, ma anche poesia e società, poi-ché vuole “render viva e sociale la poesia, poetica la vita e la società, poetizzarelo spirito”. La vita stessa sembra così identificarsi con l’arte.

Questa idea romantica della creatività dell’arte si esprime attraverso due mani-festazioni di segno diverso: o come espressione del titanismo dell’io, o come iro-nia, cioè come presa di coscienza del fatto che ogni realtà finita è incapace di rac-chiudere l’infinito e che anche il prodotto della creazione artistica esprime que-sto senso di insufficienza, va quindi guardato con distacco, come qualcosa che vasuperata e sostituita con altre creazioni, all’infinito.

Se la realtà è un “enigma” che non può essere definito razionalmente e ilmondo è l’ignoto, “sogno” poetico, creazione magica, mistero (Novalis), non lascienza moderna (che ha cercato di desacralizzare l’ignoto), ma l’arte permette direcuperare il senso della realtà. Con la parola poetica tutto ciò che nella vita quo-tidiana è usuale torna ad essere misterioso, ciò che è finito diventa infinito.

Il filosofo che più di ogni altro – in questo periodo – ha cercato di attribuire unafunzione conoscitiva essenziale all’arte è stato Friedrich Wilhelm Joseph Schelling(1775-1854). Con lui l’arte si afferma come “organo della filosofia”, cioè comestrumento per esprimere l’assoluto, anzi come il modello stesso in cui l’assolutosia configurabile.

L’assoluto è difatti sintesi di natura e libertà. E l’arte, come creazione ad operadel genio, è anch’essa, allo stesso tempo, incoscienza e coscienza, in quanto èopera di un’oscura e indipendente “potenza”, che porta il genio a produrre cosedel cui significato è solo in parte consapevole. Per questo essa è il mezzo più ade-guato con cui è possibile cogliere il senso ultimo della realtà.

Oltre il Romanticismo

La supremazia accordata all’arte dal Romanticismo viene fieramente osteggiatada altre tendenze culturali dell’Ottocento.

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Non si tratta solo degli ambienti tradizionalisti, che vedevano nel soggettivismoe nell’anticonformismo degli intellettuali romantici un potente fattore di sovverti-mento dell’ordine, come testimoniava la partecipazione di molti esponenti diquella cultura alle idee liberali e alle lotte nazionali dei popoli. Né si tratta solodella contrapposizione fra “estetismo” romantico e “scientismo” della filosofiapositivistica della scienza.

Si tratta della capacità o meno dell’arte di realizzare l’esperienza della verità.Ad esempio per Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) l’arte si colloca sulpiano dei valori più alti della cultura. È un “dispiegarsi della verità”, in quanto, inessa, è lo Spirito Assoluto a manifestarsi, ma tale manifestazione avviene in formesensibili e non come totale dispiegamento della ragione. In altri termini, mentrel’estetica romantica aveva considerato l’intuizione artistica una facoltà superiorealla capacità argomentativa della ragione, l’estetica hegeliana assume un conte-nuto essenzialmente razionale, in quanto afferma il “bello” come “apparenzasensibile dell’idea”. Ma proprio questo misurarsi con i materiali e le rappresenta-zioni sensibili ne costituisce il limite. Vi è un conflitto fra forma e contenuto, nel-l’estetica hegeliana, dettato dall’impossibilità delle forme sensibili di esprimerecompiutamente l’assolutezza dell’idea. E poiché non è possibile trovare nell’arteciò che non è in grado di dare (cioè l’assoluto, lo spirito, nella sua totale e tra-sparente compiutezza e razionalità) tale contenuto viene cercato nella religione enella filosofia. È il problema che verrà poi chiamato della morte dell’arte, ma chein Hegel si manifesta soprattutto come critica e superamento dell’“arte bella”, del-l’idea romantica della supremazia dell’arte nella cultura.

Per So/ren Aabye Kierkegaard (1813-1855) la riflessione filosofica autentica èanimata dal páthos, proprio quello che non trova posto nella filosofia, nella dia-lettica hegeliana. Questa è infatti incapace di spiegare gli enigmi del mondo, diparlare del singolo, della complessità delle sue contraddizioni. Il páthos è, inve-ce, quella passione intellettuale che scopre una verità come paradosso, comeoltrepassamento della ragione. Kierkegaard, che più volte si definisce un poeta, èperò un poeta che non vuole essere tale, un filosofo che non vuole essere un filo-sofo, comunque un pensatore in cui vivono, dentro una forte tensione religiosa euna vita interiore vissuta drammaticamente, istanze di quel Romanticismo chepure egli ha criticato. Kierkegaard ha visto nella contrapposizione fra l’esperien-za estetica e l’esperienza morale e religiosa un’alternativa di tipo esistenziale. Aldramma e alle lacerazioni della vita dell’uomo, ha affermato, non pongono affat-to riparo gli atteggiamenti estetizzanti degli intellettuali romantici, il loro modo divivere e di atteggiarsi di fronte alla realtà, ma solo l’esperienza religiosa, luogo diappassionata interiorità.

Analogo significato esistenziale – ma di segno ben diverso – viene attribuitoall’arte da Arthur Schopenhauer (1788-1860). Egli le assegna infatti un valorealtissimo, considerandola una delle forme di esistenza con cui è possibile porreriparo alla condizione di infelicità e di dolore dell’uomo. Secondo Schopenhauerl’arte – e soprattutto la musica – costituisce una delle vie di liberazione dal domi-nio della volontà. Essa è intuizione non dell’oggetto nella sua particolarità, madell’idea nell’oggetto. Ciò che conta, nell’arte, è proprio la purezza dell’idea cheviene intuita, la forma della cosa, non la sua particolarità, perché solo così il sog-getto perde il senso della propria individualità. Nell’arte non si è asserviti ai biso-gni della volontà, al volere questa o quella cosa, ma si diviene puro conoscere, siguarda e si contempla un oggetto nella sua purezza e assolutezza, appagati daquesto contemplare, liberi dai vincoli della propria soggettività, dalla catena fer-rea dei bisogni.

Una forte e originalissima riproposizione del modello estetico dell’esistenzaverrà – nella seconda metà dell’Ottocento – da Friedrich Wilhelm Nietzsche(1844-1900), in particolare dalla sua concezione dell’arte come espressione deldionisiaco, dell’oscuro slancio, della vitalità e dell’ebbrezza che accompagnanoi momenti creativi e più profondi della vita dell’uomo. La bellezza viene a iden-tificarsi con la libera esplicazione della volontà di vivere, del “vigore animale”dell’uomo, mentre la bruttezza non è altro che impoverimento e indebolimentodella volontà, corrisponde a tutto ciò che infiacchisce e spegne la sensibilitàumana.

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Come nell’arte greca, il dionisiaco si alterna e si compenetra con l’apollineo.Quest’ultimo è concepito come un momento di riposo del dionisiaco, una pausanella quale il sentimento di potenza non viene annullato ma è come ricondotto aforma, elevato alla sua espressione più pura, espresso come concentrazione dipotenza.

Nietzsche, comunque, respinge ogni idea di autosufficienza dell’arte, cioè diquell’estetismo che è espresso dalla formula “l’arte per l’arte”. Fine dell’arte nonè l’arte stessa ma la felicità, la promessa di un’esistenza piena e compiuta. Essa èesaltazione della tragica grandezza della natura umana, nella “divinizzazione”dell’esistenza.

Arte e condizionamento sociale

La questione dell’autonomia – o meno – dell’arte è stata inoltre affrontata daun’altra angolazione, come questione legata al rapporto fra arte, scienza esocietà.

Per il Marxismo l’arte, come ogni forma culturale, va ricondotta alla realtà sto-rica e sociale. Essa è sovrastruttura, espressione cioè di una data struttura eco-nomico-sociale. È un prodotto storico, un prodotto sociale, il cui significato sitrova nelle relazioni storicamente prodottesi fra gli uomini, poiché anche leespressioni artistiche, come tutte le idee, sono un riflesso delle condizioni dellavita materiale, cioè dell’attività economico-produttiva che gli uomini svolgono edei rapporti sociali che essi stabiliscono sviluppando quell’attività.

Ma nell’arte si esprimono anche le aspirazioni, le attese, le idee, le forme dicoscienza che si determinano storicamente in una società. E non sono un puroriflesso delle idee delle classi dominanti: lo stesso Marx, ad esempio, riconosceràche vi sono stati nella storia artisti e scrittori che, pur avendo un orientamentopolitico conservatore, hanno espresso concezioni evolute e più avanzate dellavita, hanno cioè saputo cogliere alcune tendenze profonde operanti nella realtàdel loro tempo – ma dagli altri non ancora avvertite – anticipando tendenze eorientamenti che solo più tardi verranno ad affermarsi compiutamente.

Col Positivismo si ha una nuova svolta nella storia dell’estetica. L’atteggiamentodi critica della metafisica si è tradotto nel superamento e nel rifiuto di ogni tenta-tivo di definizione dell’“essenza” dell’arte, di ogni idea di “bello in sé” e nellaricerca, invece, delle connessioni che esistono fra arte e arte, fra singola espres-sione artistica ed altre, fra arte occidentale e arte di altre civiltà, quindi nell’affer-mazione di un metodo comparativo nella riflessione estetica, cercando di affer-mare anche in campo estetico criteri di scientificità.

Il Positivismo ha poi promosso una nuova riflessione sulla funzione dell’arte(funzione sociale, morale, politica, ecc.). Essa è stata considerata un fattore dicivilizzazione e di progresso sia per l’individuo che per la specie umana ed è stata– a sua volta – ritenuta espressione della società e dell’evoluzione della specie.Ad esempio, per Hippolyte Taine (1828-1893) un’opera d’arte è un prodotto del-l’ambiente umano e sociale e solo in tale contesto può esser compresa. Il giudi-zio estetico deve ispirarsi a criteri descrittivi e comparativi, perché quell’opera èun fatto, sia pure dotato di una sua specificità, e non il prodotto di un’irrazionale“creazione”, come ritenevano i Romantici. Poiché è prodotto delle circostanze,un’opera deve essere studiata nella sua struttura interna e nella sua connessionestrettissima con le condizioni sociali, il “clima spirituale”, il costume e persino la“razza” di un dato popolo. Essa permette quindi di cogliere il senso di una dataepoca storica. Mentre il Romanticismo aveva esaltato la soggettività dell’artista,del genio creatore, il Positivismo la mette tra parentesi, propagandando e richie-dendo lo sforzo di oggettività dell’artista, la sua “neutralità” verso ciò che rap-presenta, assumendo così un atteggiamento analogo a quello dello scienziato chestudia i “fatti”.

Inoltre col Positivismo nuovi e più stretti legami vengono individuati fra “l’arte”tradizionalmente intesa (poesia, pittura, architettura, ecc.) e la tecnica, cioè fra iprodotti artistici e i prodotti della nuova civiltà industriale.

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Nel variegato panorama delle concezioni estetiche del Novecento sembra sipossa individuare una duplice linea di riflessione.

■ Per un verso permane una linea di continuità con l’impostazione kantiana (eneokantiana), che ribadisce l’autonomia dell’arte, la specificità e irriducibilità del-l’esperienza artistica. Kantianamente viene ribadito il disinteresse dell’arte nei con-fronti della verità. A questa linea, che afferma la specificità dell’esperienza artisti-ca corrisponde – in larga misura – la tendenza ad accettare l’idea di una specia-lizzazione dell’esperienza estetica, di una specializzazione delle arti.

■ Ma a questa tendenza se ne contrappone un’altra, la quale ritiene che non sipossa scindere l’arte da un rapporto con la verità, anche se tale rapporto non sipuò riproporre nei termini in cui si è imposto nella cultura occidentale fino alSettecento.

Si vengono così a contrapporre estetiche che vogliono individuare la specificitàe le condizioni di possibilità dell’esperienza artistica e posizioni come di “ascol-to” della verità presente nelle opere d’arte, per le quali si pone comunque il pro-blema di quale verità si tratti e di come si manifesti in quelle opere.

Il ruolo delle avanguardie artistiche

A segnare il Novecento anche dal punto di vista dell’arte e dell’estetica è la crisie la critica del Positivismo e dunque anche della sua considerazione dell’arte, ilrecupero dell’arte come esperienza capace di andare oltre i “fatti”, in una dimen-sione profonda della realtà e dell’esistenza umana.

Sono i codici espressivi dell’arte a cambiare profondamente, andando ben oltrei confini del realismo positivista. Musica dodecafonica, surrealismo, astrattismo inpittura: l’arte apre “squarci” inusitati della realtà, fornisce rappresentazioni e crealinguaggi espressivi. Torna al mondo del soggetto umano, ne scopre la comples-sità della vita interiore, del tempo, delle contraddizioni che la lacerano. Le pro-spettive e i modi di questo “ritorno al soggetto” sono molteplici.

Vanno anzitutto distinte – dalla vera e propria “filosofia dell’arte” – le riflessio-ni che sono alla base delle cosiddette poetiche, cioè dei programmi o “manifesti”dei movimenti artistico-letterari del secolo, o delle considerazioni espresse da sin-goli artisti sul significato e sulle ragioni della propria arte. E così pure le riflessio-ni compiute nell’ambito delle scienze umane che si sono occupate del problemadell’arte (psicologia, psicoanalisi, sociologia, linguistica, ecc.).

Le poetiche costituiscono un universo vastissimo di spunti e prese di posizioneche sottendono delle concezioni estetiche. E, a loro volta, hanno influito sulla teo-ria estetica fornendo ad essa contenuti preziosi di riflessione, in alcuni casi sug-gerendo l’idea di una funzione complessiva dell’arte (e delle avanguardie artisti-che) come critica e rifiuto dell’esistente, cioè di condizioni di vita e di pensierodominate da un conformismo di massa che l’arte vuole – appunto – negare edestituire del loro fondamento. In altri casi, suggerendo un’idea positiva dellacreazione artistica come nuova donazione di senso alla realtà. Quindi malgradola presenza di poetiche che proclamano l’“arte per l’arte” sembra prevalere nelleavanguardie del Novecento una linea che rifiuta l’isolamento dell’arte rispettoalla verità, alla realtà.

Vi sono movimenti aggressivi, “profetici” e perfino eversivi (ad esempio ilFuturismo e il Dadaismo) nei quali all’arte si rivendicano spazi assoluti di azionee vi sono movimenti nei quali il rapporto con la realtà si fa più complesso emediato, di trasfigurazione interiore della realtà stessa e di conseguente riaffer-mazione della libertà spirituale dell’artista. Nell’Espressionismo, ad esempio, ladeformazione drammatica della realtà, l’esasperazione del colore, sono la mani-festazione di più profonde, intense e drammatiche tensioni e lacerazioni e – nel-l’atteggiamento di rivolta individuale contro un mondo piatto, conformista e vio-lento allo stesso tempo – riaffermano comunque di fronte alla coscienza contem-poranea un’idea e una prospettiva di libertà e di umanità da riconquistare (si

IL NOVECENTO6

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pensi, ad esempio, all’Urlo di Edvard Munch, 1863-1944) o alla pittura astratta diVasilij Kandinskij (1866-1944), alla musica del primo Arnold Schönberg (1874-1951) come ai romanzi di Franz Kafka (1883-1924) o al teatro di Bertolt Brecht(1898-1956). Nel Surrealismo, a una rottura degli schemi logico-razionali dellarealtà si accompagna una rivalutazione dell’inconscio e, con esso, dell’immagi-nazione, delle sue capacità raffigurative di una realtà più “vera”: si pensi, adesempio, alla pittura di René Magritte (1898-1967), o al cinema di René Clair(1898-1981) e Luis Buñuel (1900-1983). La realtà viene – per così dire – “derea-lizzata”, trasfigurata, ma per recuperare in essa una tendenza più autentica, rige-neratrice, che in taluni esponenti del movimento si trasforma – come perl’Espressionismo – in aperto e positivo impegno politico-culturale.

Molte di queste tendenze artistiche si fondano sull’idea che l’occhio dell’artepenetri nella realtà in modo diverso da quello della scienza e vi colga una dimen-sione profonda perché – scrive ad esempio uno dei maggiori pittori del secolo,Paul Klee (1879-1970) – “questo non è l’unico mondo possibile”.

Estetica e scienze umane

Insieme a questi processi e movimenti – che attraversano l’intero secolo – siafferma l’idea che la comprensione dei fenomeni artistici abbia oggi bisogno nontanto di una disciplina filosofica generale, l’Estetica, quanto di uno sviluppo diricerche specialistiche, cioè di approfondimenti relativi ai singoli campi della pro-duzione artistica, il cui compito dovrebbe essere assunto dalla critica d’arte.

Ma è soprattutto nel campo delle scienze umane che si sono sviluppate ten-denze volte a spiegare in modo analitico-descrittivo i processi di produzione arti-stica, guardando ad essi dalle diverse angolazioni di ciascuna scienza. In altri ter-mini, si è cercato di spiegare le condizioni in cui avvengono i processi creativi.

Ad esempio, la sociologia dell’arte si è assunta il compito teorico di studiare leforze e le relazioni sociali che determinano orientamenti e scelte artistiche. Il pro-blema, in questo caso, è quello del rapporto fra arte e società, fra “invenzione”artistica e “fattualità” del reale: ci si è chiesti, cioè, se e come sia possibile evita-re il rischio di “dissolvere” la specificità del fenomeno artistico nel reticolo stori-co-sociale, nel gioco delle forze e delle dinamiche sociali.

Lo stesso problema si è posto nel rapporto fra arte e psicologia e, soprattutto, fraarte e psicoanalisi. La ricerca di Sigmund Freud (1856-1939) individua, ad esem-pio, nell’arte, la presenza delle stesse forze e degli stessi conflitti – legati allarimozione delle pulsioni – che caratterizzano le nevrosi. Ma con una differenzaprofonda, radicale: il nevrotico, il “sognatore ad occhi aperti, nasconde accura-tamente agli altri le proprie fantasie, poiché ha motivo di vergognarsene” e, seanche le manifestasse, procurerebbe in chi lo ascolta tutt’altro che piacere.L’artista e il poeta, al contrario, riescono invece a “sedurci” col piacere che in noiprovoca la loro comunicazione. Tale comunicazione è liberatoria sia per chi loascolta che per l’artista stesso: questi, cercando un’autoliberazione dai “desideriirrisolti”, trasmette tale impegno a chi soffre delle stesse tensioni. L’arte, così,diventa espressione di un fenomeno di sublimazione dei desideri. Anche la ricer-ca di Carl Gustav Jung (1875-1961) si rivolge al fenomeno artistico, descrivendogli archetipi che sono presenti nelle opere d’arte e che fanno parte dell’inconsciocollettivo.

E, se vi sono non pochi intellettuali e filosofi che hanno identificato l’esteticacon la psicoanalisi, Freud e Jung si sono preoccupati di mantenere distinti i dueambiti. Il primo, ad esempio, ha affermato che “da dove venga all’artista la capa-cità creativa non è problema della psicologia”. Il secondo, altrettanto esplicita-mente, ha affermato che oggetto degli studi psicoanalitici può essere “solo quel-la parte dell’arte che comprende i processi di formazione artistica” e “non quellache rappresenta l’essenza stessa dell’arte”.

Comunque a partire dagli anni ‘60, nell’ambito di rapporti sempre più stretticon l’ermeneutica, ha avuto largo spazio la lettura interpretativa dell’opera d’artein chiave psicoanalitica, come in Paul Ricoeur (1913) o in Jacques Lacan (1901-1981). In questa prospettiva si inserisce anche Roland Barthes (1915-1980), cheinterpreta l’opera d’arte come simbolo, contrapponendosi a coloro che non inten-dono riconoscere l’attività simbolica nell’arte.

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Anche la linguistica si è impegnata a studiare caratteristiche e strutture lingui-stiche dei messaggi artistici.

Attraverso gli schematismi dello Strutturalismo si è voluto ricondurre lo studiodell’arte, ma in particolare della letteratura e della poesia, all’interno di quellodella lingua come sistema di segni, cioè alla semiotica. L’arte è intesa come “feno-meno semiotico” e le arti come oggetti semiotici, quindi come oggetto di studioe descrizione – non di valutazione – da parte del linguista. L’arte viene conside-rata come uno dei mezzi di comunicazione. Secondo Roman Jakobson (1896-1982) “l’arte è parte integrante della linguistica”.

All’interno della lingua si può individuare una funzione che è propria dell’arte:la funzione poetica, che, nel quadro di una teoria della comunicazione e dei suoielementi fondamentali, mette l’accento sul messaggio per se stesso, sull’elabora-zione della forma specifica del linguaggio. Nel Formalismo russo questa impo-stazione darà luogo alla ricerca e all’analisi della forma in letteratura, al di là deicontenuti psicologici e filosofici di un’opera. Tale opera va considerata di per sé,poiché la parola basta a se stessa.

La riflessione strutturalista e semiotica nei decenni più vicini a noi cercherà diindividuare in maniera più pregnante lo “specifico” del segno artistico, del segnoletterario e poetico. In questo ambito va ricordata la riflessione semiotica diUmberto Eco (1932) che insiste sull’ambiguità del messaggio artistico, definibilecome “violazione delle regole del codice” linguistico, che può essere interpreta-to nell’incontro fra i codici del destinatario e quelli dell’emittente. Se in una primafase Eco ha insistito sul carattere “aperto” dell’opera e sulla “libertà” del destina-tario, nell’elaborazione più recente1 ha dichiarato che un testo pone limiti all’in-terpretazione.

Per Charles Morris (1901-1979), inoltre, “nessun segno è estetico come tale”e l’estetica è parte della semiotica. Successivamente, però, egli ha rivisto taleposizione “riduzionistica” ed ha riconosciuto alle due discipline una reciprocaautonomia. Ma ha anche ribadito l’indispensabilità di una teoria dei segni persviluppare una compiuta analisi di un’opera d’arte.

Anche in questo caso, come negli altri, il problema centrale è quello del rap-porto fra filosofia dell’arte e scienza : se la prima sia assorbita dalla seconda o se,invece, questa possa contribuire a spiegare alcune condizioni, alcuni presuppo-sti del processo di produzione di un’opera d’arte, ma non la sua caratteristicacostitutiva, ciò che la fa essere “arte” e non un altro tipo di espressione culturale.Il problema consiste appunto nel fatto che coloro che identificano estetica esemiotica o estetica e psicoanalisi o estetica e sociologia dell’arte negano che sipossa oggi parlare di un’“essenza” dell’arte.

L’arte come soggettività e intuizione lirica

In ambito specificamente filosofico viene riconosciuta – da non pochi filosofidel Novecento – la specificità e la necessità dell’estetica e di una filosofia del-l’arte. Il suo campo riflette la varietà e molteplicità di posizioni teoriche che sisono affermate nel secolo.

Anzitutto le posizioni che riconoscono all’arte il carattere di forma culturalenella quale viene ad esprimersi una soggettività profonda, una potenza dell’im-maginazione creatrice ed evocatrice.

Tale è, ad esempio, la concezione di Henri Bergson (1859-1941), per il qualel’intuizione estetica, l’arte, è istinto disinteressato e consapevole, che permette diavvertire nelle cose ciò che sfugge alla necessità pratica, che non è immediata-mente utilizzabile per l’azione e che sfugge alla percezione sensibile. Esso cogliele cose nella loro individualità, quindi nella loro effettiva realtà, al di fuori del lorouso strumentale da parte dell’uomo.

Nel Neoidealismo italiano Giovanni Gentile (1875-1944) riprende la posizionehegeliana, sia pure partendo da presupposti diversi, ma giungendo a riproporre la“morte dell’arte”. Egli difatti intende l’arte come il momento della soggettivitàdello spirito, come distacco dalla realtà, dai suoi vincoli necessari, come purosentimento e pura liricità, fantasia e sogno del soggetto. Ma vede anch’egli, in talecaratteristica dell’arte, una contraddizione di fondo. Come sentimento, l’arte è“ineffabile”.

1. Ad esempio nelsaggio Kant e l’orni-torinco, Bompiani,Milano 1997.

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Come sforzo di raggiungere una forma di consapevolezza di sé, attraverso l’e-spressione, essa tende invece a tradursi in pensiero. Come pensiero, l’arte è por-tata a trascendere se stessa, ad affermarsi come religione e filosofia, cioè a supe-rarsi e a negarsi come soggettività per affermarsi nei momenti dell’oggettività (conla religione) e dell’assoluto (con la filosofia): per questo, paradossalmente, “l’arteci sarà in quanto non ci sarà”.

Diversa è la concezione di Benedetto Croce (1866-1952), che ripropone la tesidella piena autonomia dell’arte. Egli, anzi, afferma che l’Estetica, dopo Vico, haacquistato la dignità di una scienza dell’arte, nella quale questa viene consideratacome espressione del sentimento o intuizione lirica. Nell’arte si realizza una sintesifra sentimento e immagine: parafrasando la formula kantiana, Croce afferma chesenza l’immagine il sentimento è “cieco” e senza il sentimento l’immagine è“vuota”. L’intuizione artistica è conoscenza dell’individuale, distinta dalla cono-scenza dell’universale, che è propria della filosofia, ma anche dalla semplice co-noscenza sensibile: la percezione sensibile, infatti, è conoscenza di una cosa“reale” (cioè realmente esistente), mentre l’intuizione artistica può rivolgersi anchealla rappresentazione del “possibile”.

L’arte è autonoma in quanto costituisce una delle quattro forme fondamentali(arte, filosofia, economia e morale) in cui si svolge la vita dello spirito, cioè in cuisi organizza e si svolge la vita dell’umanità. È il momento dell’intuizione, dellaconoscenza dell’individuale. In altri termini, in Croce l’arte non viene assorbita dauna forma “superiore” (cioè dalla filosofia), in quanto nella vita dell’uomo cia-scuna forma, pur essendo collegata alle altre, conserva una sua fisionomia e iden-tità specifica. Ciò vuol dire che per Croce l’arte è autonoma dalla filosofia, dall’e-conomia, dalla scienza, dalla morale. Non è mezzo di propaganda politica o etico-religiosa, né è pensiero logico, o veicolo di un messaggio morale. Né può essereridotta a piacere, o a scopi pratico-utilitari.

Infine, Croce considera il momento della comunicazione artistica come deltutto diverso da quello dell’espressione: quest’ultima è espressione del sentimen-to, è quindi costitutiva dell’arte in quanto tale; la comunicazione è invece unmomento pratico, non estetico, poiché riguarda i materiali e i mezzi tecnici in cuil’espressione concretamente si traduce (note, colori, versi).

Il problema delle tecniche di comunicazione e riproduzione dell’opera d’arte

Proprio per tale posizione assunta sul problema dei metodi e mezzi di produ-zione delle opere d’arte Croce è stato criticato da più parti, poiché si è ritenutoche egli – come i Romantici e gli Idealisti in genere – abbia troppo sottovalutatoquesto aspetto.

Ci si è inoltre chiesto se sia corretto interpretare il fenomeno artistico solo comeintuizione lirica e come espressione di sentimenti. E si è criticata la tendenza –anch’essa di origini romantiche – a considerare le arti come un tutt’uno, fonden-dole tra loro, e si è sottolineata l’esigenza di guardarle invece nella loro specifi-cità, nella concretezza delle tecniche e dei materiali che ciascun genere artisticousa. In tal modo, nella riflessione sul problema del rapporto fra opera d’arte e tec-niche artistiche (cioè procedure e mezzi concretamente usati per produrla) puòmutare la stessa “natura” dell’opera d’arte; possono, ad esempio, acquistare unsignificato nuovo i procedimenti “razionali” presenti nella composizione di quel-l’opera, oppure i legami che esistono fra arte e società (ha affermato, ad esempio,il filosofo marxista Galvano Della Volpe, 1895-1968).

In un altro orizzonte teorico, un analogo interesse muove la riflessione di JohnDewey (1859-1952). Nel suo pensiero viene meno ogni separazione fra arti bellee arti utili. Egli si schiera contro ogni formalismo, contro ogni idea di “autosuffi-cienza” dell’arte, in quanto essa non può disancorarsi dalla realtà, cioè dai biso-gni umani essenziali. L’arte, dunque, fornisce qualità ad oggetti che in sé nonavrebbero valore estetico. L’arte è “intensificazione” e “concentrazione” dell’e-sperienza, è ricerca e affermazione, in essa, di autenticità e compiutezza, è svi-luppo dei suoi significati umani. In tal senso, l’arte è utile oltre che bella. Cosìcome “belle”, produttrici di bellezza, sono le cosiddette “arti utili”, proprio inquanto “utili”, cioè capaci di arricchire l’esistenza umana. Inoltre l’arte è oggetto

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di una valutazione analoga a quella formulata nei giudizi morali ed ha una fun-zione educativa, poiché favorisce l’affinamento delle nostre capacità percettive,permettendoci di cogliere aspetti e sfumature della realtà che non sarebbero altri-menti avvertibili.

Una posizione originale, strettamente ancorata all’analisi dei processi che nellasocietà di massa si determinano e che modificano radicalmente e incessante-mente il rapporto fra opera d’arte e pubblico, fra tecniche artistiche e tecniche dicomunicazione e informazione, è quella di Walter Benjamin (1892-1940). Eglidescrive le conseguenze che le nuove possibilità di riproducibilità tecnica e dimassa determinano nell’opera d’arte: e cioè l’assunzione di un carattere espositi-vo e la perdita dell’aura, cioè di quel significato misterioso e “sacro” che sem-brava tradizionalmente costituirla. Il cinema costituisce in parte il paradigma ditale riproducibilità, che si manifesta comunque in ogni forma artistica. Conl’“aura”, si dissolve anche il modello estetizzante dell’arte per l’arte.

In contrasto con altri teorici del Novecento a lui vicini – ad esempio con i filo-sofi della Scuola di Francoforte e segnatamente con Adorno – Benjamin sostieneche, diventando più diffusa e accessibile, l’opera d’arte si avvicina alle masse e leaiuta – per quanto può – a recuperare il senso della contraddizione che esiste nelmondo. È in tal senso, quindi (e non nel quadro di visioni romantiche ed elitarie)che l’arte può diventare strumento di redenzione umana.

Può esserlo, comunque, ha affermato ancora Walter Benjamin, senza pretende-re di ricomporre la scissione fra l’individuo e la realtà (o “totalità”) di cui è parte.In tal senso, è destinata al fallimento l’aspirazione classicista (che abbiamo peròvisto riproposta anche da Schiller e dal romantico Hölderlin) a realizzare quell’ar-monia perduta. L’arte, difatti, è problematicità, spirito di scissione. Impossibile èrealizzare, nel simbolo che è proprio dell’espressione artistica, l’unità di linguag-gio, significato e cosa. Possibile è solo l’allegoria, cioè uno sforzo di comprensionedei significati originari di un’opera, che però è destinato allo scacco.

La dimensione critica dell’arte

Su una linea diversa e in polemica con queste posizioni di Benjamin, si muo-vono invece alcuni esponenti della Scuola di Francoforte.

Theodor Wiesengrund Adorno (1903-1969), ad esempio, da un lato descrive leforme di manipolazione prodotte dall’industria culturale contemporanea e dall’al-tro sottolinea il valore dell’arte nel contribuire a demistificare quelle manipolazio-ni ideologiche della realtà e nell’aiutarci a cogliere – di tale realtà – le tendenzepiù profonde, come dimostra il carattere dirompente – di vera e propria rivoluzio-ne delle strutture di pensiero – che hanno assunto talune tendenze dell’arte con-temporanea (in particolare in campo musicale). In polemica con Benjamin,Adorno sostiene il carattere essenziale dell’aura nell’opera d’arte, poiché essa con-tribuisce a porre in evidenza l’irriducibilità del fatto estetico alla pura razionalitàtecnica, che è invece esaltata dal capitalismo e dalla sua industria culturale.

Herbert Marcuse (1898-1979), nella sua critica alla civiltà capitalistica dei con-sumi e del “benessere”, sottolinea la necessità di rivalutare, insieme alla sfera deidesideri, dell’eros, anche quella dell’immaginazione e della fantasia: quindi dirivalutare l’arte e la dimensione estetica dell’esistenza, la ricerca, allo stessotempo, del piacere e della bellezza.

Anche nel Marxismo del Novecento si è manifestato un recupero della funzio-ne positiva dell’arte. Taluni filosofi, ad esempio, hanno messo in evidenza il carat-tere di valore d’uso che ha, in sé, l’opera d’arte, che, come tale, si muove in oppo-sizione al valore di scambio che è dominante nella società capitalistica. L’arte sicostituisce come impegno, sforzo volto a recuperare una dimensione autenticadell’esistenza in una società – quella capitalistica – in cui tutto assume la formadi merce.

In questa direzione si muove, ad esempio, la teoria estetica di György Lukács(1885-1971), che segna una svolta radicale in campo marxista. L’arte, secondoLukács, pur essendo espressione e riflesso dei rapporti di produzione, avendoacquisito il senso della specificità della sua funzione dopo essersi liberata dalladipendenza teologica, ci consente di guardare a fondo nell’esistenza umana e dicogliere il significato più autentico ed essenziale dei processi storico-sociali di

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un’epoca. L’arte, come la scienza, conserva e arricchisce la vita della specie, ope-rando in una dimensione sociale. Un altro marxista, Ernst Bloch (1885-1977), havisto nell’opera d’arte una delle espressioni della coscienza anticipante, cioè diuna raffigurazione utopica (o “parvenza anticipante”), mediante la fantasia, dellepossibilità di liberazione umana dalle condizioni moderne di alienazione.

Arte e “verità”

Nel Novecento sembra inoltre essersi posto con forza il problema del valore teo-retico dell’arte, del significato complessivo – e non specialistico-disciplinare – cheviene ad assumere il rapporto fra arte e verità.

L’arte, scrive ad esempio Ernst Cassirer (1874-1945), si esprime attraverso unlinguaggio simbolico, un linguaggio particolare, che non può essere identificato(come aveva invece affermato Croce) con il linguaggio in generale. Esso ha ilcompito da un lato di dare forma ai sentimenti più oscuri e dall’altro di mettereordine nel mondo delle percezioni: un ordine diverso da quello della scienza (chemette ordine ai nostri pensieri) o da quello della morale (che mette ordine nellenostre azioni). Esso costituisce quindi una forma specifica, particolare, di rappre-sentazione simbolica della realtà.

Ma è soprattutto con Martin Heidegger (1889-1976) che è stato posto con forzail problema della funzione dell’arte nella ricerca della verità. L’Esistenzialismo –si è già visto con Kierkegaard – tende a negare l’“autonomia” dell’estetica, poichérifiuta l’idea di un “disimpegno”, di una “deresponsabilizzazione” dell’artista –come di ogni altro individuo – di fronte alle scelte che l’esistenza gli pone. InHeidegger la scelta fra vita autentica e vita inautentica si configura come supera-mento dell’idea che l’essere degli enti sia interpretabile come mera presenza,mediante una descrizione “oggettivante” della realtà – tipica della scienza e dellametafisica – nella quale viene offuscato e smarrito il problema del senso dell’es-sere, della domanda filosofica fondamentale. Soprattutto nella seconda fase dellasua elaborazione teorica egli ritiene che la poesia possa assumere un valoreessenziale nella ricerca e nell’“ascolto” dell’essere. Il linguaggio e la poesiadivengono forme privilegiate dell’accadere dell’essere, dell’apertura dell’essere.

Guardando al rapporto fra un’opera d’arte e la propria epoca, Heidegger com-pie una radicale inversione rispetto allo Storicismo, poiché afferma che l’arte nonesprime un’epoca bensì la costituisce. Non è guardando all’epoca storica in cuiè stata prodotta che si può intendere il senso di un’opera d’arte, ma è esattamenteil contrario: è attraverso l’opera, attraverso il suo linguaggio, che si può intendereun’epoca. La poesia ha un valore, una portata ontologica: l’opera d’arte è “messain opera della verità”, in quanto produce una nuova struttura dell’esperienza, unlinguaggio, cioè un nuovo orizzonte di significati.

Tale orizzonte si afferma senza ricadere nella metafisica (che ha portato all’o-blio dell’essere da parte della cultura occidentale), proprio perché il linguaggiodell’opera d’arte non è obiettivante, non pretende cioè di descrivere l’essere nellasua oggettività, ma parla dell’essere senza ‘spiegarlo’, senza obiettivarlo. L’esteticasi fonda così su un atto esistenziale. L’arte non è “gratuita”, autosufficiente, ma haun fondamento profondo, anche se non parla il linguaggio della metafisica.

La riflessione estetica conosce nuovi sviluppi con l’Ermeneutica. Uno dei suoimaggiori esponenti, Hans Georg Gadamer (1900), critica la distinzione moderna(che risale a Kant) fra arte, conoscenza e morale, come se il bello fosse qualcosadi totalmente separato dal vero e dal bene. L’arte, invece, secondo Gadamer, nonsi sottrae affatto al compito di occuparsi del problema della verità. Essa, anzi, ciaiuta in questa ricerca poiché proprio attraverso l’interpretazione, cioè attraversola fruizione di un’opera d’arte prodotta in un’epoca diversa, lontana dalla nostra,è possibile adempiere al compito essenziale del pensiero, quello heidegge-rianamente volto al disvelamento dell’essere. Eseguire o rappresentare un’operad’arte, fruirne, vuol dire costituire un mondo, non semplicemente rappresentarlo.L’interpretazione è un accrescimento di essere.

Richard Rorty (1931) sviluppa questa linea di riflessione radicalizzando la tesidella molteplicità irriducibile dei punti di vista interpretativi e respingendo – con-tro lo stesso Gadamer – ogni possibilità di “universalizzazione”, anche potenzia-

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le, delle interpretazioni. Egli respinge l’idea della verità come “corrispondenza”di una proposizione alla realtà a cui fa riferimento. L’arte ci permette di fare espe-rienza di una grande varietà di mondi possibili. E, proprio perché coinvolge total-mente l’individuo, permette a questi di interrogarsi in modo autentico sul signifi-cato dell’esistenza. Nell’arte, secondo Rorty, si può cogliere la radice di un pro-blema che non riguarda solo l’arte: “i grandi scienziati inventano descrizioni delmondo utili ai fini della predizione e del controllo degli eventi, proprio come ipoeti e i pensatori politici inventano altre descrizioni per altri scopi”.

Gianni Vattimo (1936) vede un limite o una mancanza nell’ermeneutica diGadamer, in quanto, pur avendo lodevolmente recuperato la dimensione dellaverità, non ha affrontato il problema della secolarizzazione dell’arte e di un suodiverso rapporto con la religione.

Per alcuni filosofi contemporanei, quindi, il problema della Verità viene a tra-sformarsi – grazie anche a questo impegno teoretico nella riflessione estetica – nelproblema delle verità, cioè della molteplicità di prospettive e punti di vista da cuiguardare la realtà. La visione del mondo diviene più problematica, il pensierotende a farsi “debole”, incapace cioè di illuminare e “rischiarare” completamen-te il mondo, in un gioco di luci e ombre che Heidegger descrive con la metaforadella radura in un bosco.

È su questo arco di problemi che si sofferma l’estetica contemporanea. Da un lato essa sembra essere messa in crisi – come teoria filosofica – dalle

“estetiche speciali”, cioè dalle indagini sugli specifici linguaggi e tecniche di pro-duzione artistica e, soprattutto, dalla critica d’arte, che svolge la concreta fun-zione di interpretare e valutare la produzione artistica nella estrema varietà e mol-teplicità di aspetti che oggi ha assunto.

Dall’altro, invece, essa si ripropone come una delle angolazioni attraverso cuiè possibile “leggere” criticamente l’esistenza dell’uomo contemporaneo, o addi-rittura, si è visto, costituire uno modo di “guardare” la stessa realtà.

Restano aperte le diverse prospettive e i diversi significati assegnati all’espe-rienza artistica.

Vengono riprese e sviluppate le tesi di filosofi e di esponenti delle avanguardieartistiche della prima metà del Novecento, che avevano visto nell’arte una possi-bilità di donare senso all’esperienza, o comunque una possibilità di criticare esmascherare la “falsa coscienza” che sembra dominare la cultura di massa.Nell’arte si vede un mezzo efficace, che può fornire un contributo per aprire viee prospettive nuove di consapevolezza e di emancipazione dell’uomo.

Altri intendono sviluppare alcuni percorsi aperti dall’ermeneutica contempora-nea. Ad esempio, vedono nell’arte la possibilità di acquisire una comprensionepiù ricca e profonda della realtà. O, al contrario, vi trovano conferma della tesiche occorra rassegnarsi alla presenza di punti di vista irriducibilmente diversil’uno dall’altro, cioè all’impossibilità di conseguire una visione unitaria, compiu-ta, essenziale, della realtà.

In ogni caso, misurandosi con tali temi, anche chi dubita della validità di un’e-stetica filosofica nell’era contemporanea, continua, direttamente o indirettamen-te, a fare i conti con essa.

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FILOSOFIE DELLA STORIA

La riflessione sulla storia

■ Un tema essenziale della riflessione filosofica è quello sul significato della storia umana.Il termine storia deriva dal greco historía, che voleva dire “indagine”, “racconto”. Ma ha un duplice

significato, perché oltre ad essere narrazione (cioè, diciamo noi, storiografia) esso indica gli eventi stes-si, intesi nel loro effettivo accadere, nella loro realtà oggettiva. Il latino distingue tra res gestae e historiarerum gestarum.

■ In che senso la storia costituisce un oggetto, un tema per il pensiero filosofico?Tre sono le risposte possibili.1. Innanzitutto sono state elaborate diverse concezioni della storia, diverse filosofie della storia. 2. In secondo luogo ci si è posti il problema della libertà e della responsabilità dell’individuo di fron-

te alle vicende storiche, chiedendosi se il suo ruolo sia da protagonista, da comprimario, oppure dasemplice comparsa, strumento di un disegno che lo supera e lo domina.

3. In terzo luogo la riflessione ha riguardato la conoscenza storica (o storiografia), le sue caratteristi-che, le sue possibilità ed i suoi limiti.

Riguardo al primo tipo di problemi si osserva che la filosofia della storia è caratterizzata dall’ideache i processi storici costituiscano una totalità di eventi di cui occorre comprendere il senso, cioè ladirezione di sviluppo, il fine.

Alla filosofia della storia appartiene quindi il problema se vi sia – o meno – un ordine, un principioregolatore dei fatti storici e, ove tale ordine venga riconosciuto, se esso sia costituito da una provvi-denza divina, o dal fato, o dalla necessità o razionalità degli eventi.

Inoltre, se si guarda alla direzione degli eventi, si possono rintracciare almeno quattro concezioniricorrenti nelle diverse epoche storiche e cioè:

• la storia come decadenza dell’umanità, cioè come passaggio da una mitica “età dell’oro”, o,comunque, da uno stadio positivo, ad altre nelle quali vi è stato un peggioramento delle condizio-ni di vita degli uomini;

• la storia come ciclo, o come alternanza di decadenza e progresso, come un divenire costituito dauna successione di fasi che – come quelle stagionali – sono destinate a ripetersi ciclicamente in un“eterno ritorno”;

• la storia come progresso, cioè come processo in avanti, lineare e irreversibile, della condizioneumana, determinato o da un disegno provvidenziale divino o dai processi di civilizzazione dell’u-manità;

• la storia come completa assenza di qualsiasi principio ordinatore, trascendente o immanente, comemancanza di senso.

Non vanno poi dimenticati coloro che – soprattutto nel Novecento – hanno considerato privo di sensoanche il chiedersi se la storia abbia o meno un senso.

■ Nel quadro di quelle considerazioni rientrano non pochi altri problemi.Ad esempio, il problema del carattere necessario o possibile dei processi storici, che potrebbe esse-

re riassunto dal seguente interrogativo: nel passato tutto è avvenuto come era necessario che avvenisse,oppure poteva accadere in altro modo?

Oppure il problema collegato ai tentativi di individuare alcuni fondamentali stadi di sviluppo dell’u-manità. Nella religione cristiana essi sono stati fatti corrispondere – di norma – a quelli della “caduta”dopo il peccato originale, dell’“incarnazione” e “resurrezione” di Cristo e della prospettiva finale diritorno di Cristo, con cui la storia sarebbe compiuta.

Nelle concezioni laiche, gli stadi di sviluppo sono stati, invece, descritti in termini di passaggio dalla“barbarie” alla “civiltà”, spesso con una forte accentuazione eurocentrica dei tratti attribuiti allo stadio“civile”. Nel sistema economico globale di oggi tale eurocentrismo assume l’aspetto di una generale egraduale occidentalizzazione del mondo.

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SIGNIFICATO E PROBLEMI1

252FILOSOFIE DELLA STORIA

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Riguardo al secondo ordine di problemi – cioè al ruolo che nelprocesso storico-sociale ha l’individuo – si osserva che talvolta, nelleconcezioni che hanno sostenuto l’esistenza di un ordine necessariodello sviluppo storico, gli individui e i popoli sono stati descritti comestrumenti inconsapevoli di uno scopo, di un disegno che andava oltrequelli che si erano prefissi nel loro operare: un disegno superiore, unanecessità storica, un ordine concepito come trascendente la storia (per-ché dipendente dalla volontà divina) o immanente alla storia, comevera e proprio causalità necessaria dello sviluppo. Da qui il problemase tutto ciò che è accaduto doveva comunque accadere, oppure sepotevano esserci altri esiti.

Ma diverse concezioni hanno riconosciuto agli uomini un ruolo at-tivo, da protagonisti, da attori della storia. Talvolta questo ha significatoprivilegiare il grande uomo, il condottiero, l’eroe che fa la storia; in altricasi gli uomini che fanno la storia senza sapere di farla, tutti gli uomini chelasciano una traccia nel tempo. Uomini liberi, ma di quale libertà? Conquali vincoli? Con il peso del passato e dell’eredità che le generazioniprecedenti hanno lasciato? Ma, così posto, l’interrogativo sulla libertà esulla responsabilità degli uomini rinvia – di nuovo – alle concezioni delfine della storia, del senso della storia.

Riguardo al terzo problema – quello della conoscenza storica – sitratta di capire quali siano le sue caratteristiche, tali da distinguerla nonsolo dalla conoscenza fornita dalle scienze naturali, ma anche da altritipi di conoscenza della società (ad esempio, da quelli della sociolo-gia e dell’economia).

• È stato più volte indicato, come modo specifico della conoscen-za storica, l’aspetto della successione dei fatti nel tempo (cioè la lorodimensione diacronica, contrapposta a quella sincronica attribuitaai fatti studiati dalla sociologia o dall’economia).

• Ad esso si è aggiunto l’aspetto riguardante il tipo di fatti, cheper la storia è quello dei fatti particolari, cioè di eventi colti nellaloro singolarità e irripetibilità. In tal modo si è aperta la questionese spetti solo alla sociologia o all’economia indicare delle leggigenerali di funzionamento della società nel suo divenire, oppurese questo non sia possibile anche per la storia.

• Un terzo aspetto riguarda l’idea – avanzata ai primi delNovecento – che gli eventi storici siano oggetto di un particolareatto, la comprensione, con cui si cercherebbe di cogliere il carattereirripetibile ed il “senso” degli eventi storici, in relazione a una societàe a una cultura di una data epoca: la discussione che si è aperta è sesolo quel tipo di atto consenta una conoscenza storica o sead essa non sia possibile fornire anche una spiegazionedegli eventi, riconducendoli ad una legge generale, ocomunque ad una tendenza o a un processo generali.

■ Ma la discussione investe anche il problema di qualisiano le possibilità di conoscere effettivamente il passa-to. Ed inoltre, quali siano i metodi di conoscenza stori-ca più efficaci. E quale sia il nostro rapporto col passa-to, che cosa diventi il passato per noi che ci sforziamodi conoscerlo e comprenderlo, se sia effettivamentealtro da noi, oppure sia qualcosa in cui entriamo anchenoi, perché è una ricostruzione dei fatti nella quale –inevitabilmente – c’è qualcosa di nostro.

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253FILOSOFIE DELLA STORIA

Alberto Giacometti: Donna, 1926-27.Zurigo, Kunsthaus.

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Critica del mito e origini della storiografia

Come la filosofia, anche la storia nasce come distacco dal mito. Nella societàarcaica, il senso di un passato mitico, nel quale si registrava una convivenza fradei ed eroi, o, addirittura, la genesi “divina” di una stirpe eroica, veniva fornitodalla poesia. Al mito storico si riconosceva quindi – fra le altre – anche una fun-zione di legittimazione e di rafforzamento della tradizione, in quanto molto spes-so indicava e descriveva una realtà originaria, o un evento straordinario con cui sigiustificavano – di fatto – le consuetudini e l’ordine sociale di un gruppo sociale,di un popolo.

Proprio alla critica del mito, effettuata fra il VI e il V secolo da Ecateo di Mileto,si fa risalire la nascita di una storiografia “scientifica”. Questa si basava sull’hi-storíe, cioè su un’indagine e analisi di fatti, situazioni e documenti di carattere sto-rico-geografico ed etnologico. Su queste basi, nel ricostruire, nelle Genealogie, leorigini storiche delle città, Ecateo confutava la pretesa delle città più famose diessere state fondate da un dio, o quella di famiglie dell’aristocrazia di discendereda qualche eroe. La storia umana veniva così disancorata da riferimenti alla tradi-zione religiosa.

La storia come decadenza o come ciclo

Ma il distacco della storiografia dal mito non ha eliminato la presenza di alcunimodelli fondamentali della cultura mitica nell’idea che i filosofi si sono fatti dellastoria umana.

Lo dimostra, ad esempio, la persistenza dei miti della storia come decadenza,come ciclo o come progresso.

Ne Le opere e i giorni di Esiodo (VIII sec. a.C.), ad esempio, troviamo un’ideadella storia come decadenza nel mito delle cinque razze. Nelle cinque età dellastoria umana si sarebbero succedute altrettante razze: da quella aurea, vissutasenza pene e fatiche, fino alla nostra, nella quale si ha un grande sviluppo del-l’intelligenza, ma anche una conflittualità e una violenza che porterannoinevitabilmente Zeus a distruggere questa razza, come le altre.

Ricorrente nella cultura greca è stata la visione ciclica del divenire, estesa a tuttala realtà, non solo a quella umana. Secondo Empedocle (primo decennio del Vsec. a.C. – 430 a.C.) vi sarebbe un movimento del nascere, morire e rinascere diogni essere, quindi anche dell’universo, segnato dalla tendenza ad affermarsi oradella forza dell’Amore ora della forza dell’Odio.

Poco meno di due secoli dopo, lo Stoicismo riprende e sviluppa quella conce-zione empedoclea. Come ogni individuo, anche l’immenso organismo dell’uni-verso conclude periodicamente un suo ciclo vitale al termine di un grande anno:si dissolve in una conflagrazione generale, nella quale tutte le singole cose si ri-solvono nel fuoco cosmico. Dopo tale cataclisma, tutto riprende a nascere e svi-lupparsi dando vita a un universo identico al precedente perché quello governatodal lógos è il migliore dei mondi possibili: è questa la dottrina dell’eterno ritorno.Il lógos divino governa il mondo secondo una concatenazione causale, una leggedi ferrea necessità.

LA SOCIETÀ ANTICA2

Maurits Cornelis Escher, Nodi.

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Prime teorie del progresso

Un abbozzo di teoria del progresso si trova invece nel mito di Prometeo, cheruba il fuoco a Efesto e ad Atena e lo dona agli uomini, dando avvio allo svilup-po della tecnica e della civiltà umana. A tale mito si collega quello di Protagora(nato nel 486 ca. a.C.), nel quale si narra che il dono del fuoco sarebbe risultatoinsufficiente, senza un altro dono, quello della virtù politica da parte di Zeus, sol-tanto grazie alla quale gli uomini hanno avuto la possibilità di organizzare egovernare la società.

Ma solo con Democrito (460ca. – 370 ca. a.C.) si è venuta a delineare una visio-ne “progressiva” della storia dell’umanità. Essa si basa su un’idea evoluzionisticadell’origine e dello sviluppo della vita sulla Terra, che ha infine prodotto la nasci-ta del genere umano. Gli uomini sono vissuti per lungo tempo come fiere solita-rie e senza leggi, riunendosi poi in branchi e in comunità. Ma il salto di qualità –per loro – è avvenuto solo con il progresso tecnico, che ha fornito i mezzi disopravvivenza necessari e che è stato – ed è – il frutto di un uso sempre più con-sapevole e coordinato della mente e della mano.

Questa visione “progressiva” della vicenda storica dell’umanità è stata fatta pro-pria da diversi Sofisti, sostenitori dell’innovazione e del cambiamento sociale e cul-turale, contro la tradizione e i suoi difensori. Essi hanno anche messo in evidenza ilvariare non solo nel tempo, ma anche nello spazio delle culture: cioè la presenza,in una stessa epoca, di una varietà di tradizioni e codici linguistici e morali.

La storia come scienza

La storia si definisce come scienza soprattutto con Erodoto (485ca. – 425 ca.a.C.) e Tucidide (460/455 – 400 ca. a.C.).

Erodoto raccoglie e studia una grande varietà di documenti e racconti sul pas-sato storico della Grecia, della Persia e del lontano Oriente asiatico, descrivendocostumi e miti di popolazioni lontane e svelando la natura umana o materiale dinumerosi miti e leggende.

Tucidide effettua un’analisi razionale delle vicende politiche narrate. Cerca dispiegarle descrivendo l’intreccio di cause materiali che le hanno determinate. Vedela necessità di una analisi critica delle testimonianze storiche, senza la quale esserischiano di allontanare lo storico dal riconoscimento della verità dei fatti.

Con Erodoto e Tucidide oggetto della storiografia sono non solo vicende lonta-ne nel tempo, ma anche fatti politici e militari contemporanei. Comprendere glieventi del passato e del presente, le forze che li determinano, significa avereanche una chiave di lettura per la comprensione di ciò che avverrà in futuro, datala costanza nel tempo della natura umana.

Soprattutto con Tucidide, quindi, nasce la storiografia come sapere, che defini-sce il proprio oggetto, il proprio scopo e il proprio metodo.

Della serietà e del rigore scientifici con cui ogni scienza – quella storica nonmeno di quella naturale – deve esser condotta, è poi espressione l’imponentelavoro di raccolta e analisi di documenti (ad esempio, la raccolta di più di 150Costituzioni greche) effettuato da Aristotele (383-322 a.C.) nella sua scuola, ilLiceo. Nell’età ellenistico-romana si continueranno le attività di organizzazioneculturale collegate alla raccolta di documenti e le indagini storiografiche specifi-che.

Di Aristotele è anche il primo tentativo di giustificazione teorica della storia,operato “in parallelo” con quello riguardante la poetica. Per il filosofo, la diffe-renza sostanziale fra storia e poesia poggia su due aspetti fondamentali. Da unlato la storia descrive ciò che è accaduto mentre la poesia parla di ciò che potreb-be accadere. Dall’altro la storia rappresenta e imita il particolare, mentre la poe-sia rappresenta e imita l’universale. La storia cioè descrive gli eventi nella lorospecificità e concretezza, la poesia, invece, li rappresenta come fatti che possonoaccadere a tutti coloro che si trovino in determinate situazioni, quindi come fattirientranti nell’ambito delle possibilità umane.

Questo, naturalmente, è un argomento a favore della poesia contro la storia. Ciònon toglie che esso influirà enormemente sull’idea che – per secoli – i filosofi sifaranno della conoscenza storica.

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256FILOSOFIE DELLA STORIA

La storiografia di Roma

Sulla storiografia di epoca imperiale a Roma ha un’influenza determinante l’o-pera di Polibio, uno storico greco del II secolo a.C. vissuto per lungo tempo aRoma. Sua è l’idea che la storia delle civiltà mediterranee trovi proprio nella gran-dezza di Roma il suo momento culminante di sviluppo. Egli ripropone, inoltre, l’i-dea di un andamento ciclico della storia, che si lega alle degenerazioni delle treforme costituzionali fondamentali (monarchia, aristocrazia e democrazia) in tiran-nide, oligarchia e demagogia. Tale movimento ciclico ha potuto essere arrestato aRoma solo grazie a una “sapiente” costituzione politica, cioè a una forma digoverno mista, capace di rifondere gli aspetti migliori di quelle tre forme costitu-zionali.

Anche la storiografia “patriottica” romana cercherà – dopo la fondazionedell’Impero – di idealizzare quel sistema di governo, ponendo in evidenza la con-tinuità storica fra Ellenismo e Romanità e la natura provvidenziale del dominioromano sul mondo.

IL MEDIOEVO3

Il nuovo senso divino e provvidenziale della storia umana

È con il Cristianesimo che viene a operarsi una cesura profonda anche nellavisione della storia. Di essa è testimonianza il De civitate Dei di Agostino (354-430), che descrive uno sviluppo storico che oltrepassa le vicende degli uomini.Quella cristiana è una storia governata dalla Provvidenza e che ha inizio con lacreazione del mondo ad opera di Dio, passa attraverso la ribellione di alcuneintelligenze angeliche e successivamente la creazione del primo uomo, il pecca-to originale, la storia del popolo ebraico. La visione cristiana giunge, infine, a sot-tolineare nell’Incarnazione, nel farsi uomo di Dio per salvare l’umanità, l’eventocentrale della storia.

Da questo momento ha inizio la storia della possibilità e della speranza di sal-vezza dell’uomo. La storia umana è segnata dall’antitesi tra due “città”: la cittàceleste e la città terrena, l’una dominata dall’amore della creatura, l’altra da quel-la del Creatore. Dell’una è simbolo il mite Abele, dell’altra il violento Caino. Èquesto che costruisce una città; l’altro, pastore, è il simbolo dell’uomo viandante,in marcia verso la sua vera patria, quella celeste. Pur cittadino dello Stato, il cri-stiano ha una patria che non è di questo mondo: egli guarda oltre la storia, allaGerusalemme celeste. Solo al termine della storia si saprà chi è stato cittadino del-l’una o dell’altra delle due città, che, perciò, non sono da identificare, rispettiva-mente, con lo Stato e con la Chiesa.

È dentro questo quadro che la storia – una storia guidata dalla Provvidenza eche ha Dio come punto d’arrivo – acquista un senso.

Anche le vicende storiche apparentemente più negative sono ordinate da Dio ehanno quindi una loro funzione positiva, in quanto rientrano in un disegno piùampio. Le stesse sventure che colpiscono Roma sono la conseguenza della corru-zione e dei mali della società romana e pagana.

Il De civitate Dei descrive la concezione cristiana della storia (che deriva dalmodello veterotestamentario, in cui Dio interviene nella storia del popolo ebraico):un percorso “rettilineo”, irreversibile, che ha un’origine e uno sviluppo ed avrà unafine (escatologia cristiana). Essa implica la rottura della storia ciclica, dell’idea diun processo che ritorni su se stesso, ripercorra gli stessi stadi. Per il cristiano la sto-ria ha un senso, una direzione, una linea di sviluppo, una fine che coinciderà conil ritorno del Cristo. Si tratta di una concezione ottimista nel suo carattere di fondo:la possibilità per l’uomo di salvarsi, di ristabilire una nuova alleanza con Dio attra-verso la mediazione di Gesù. In tal modo l’orizzonte storico del mondo anticoviene cancellato e ad esso si sostituisce un quadro di riferimento del tutto nuovo.La frattura rispetto alla cultura antica non potrebbe essere più netta.

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257FILOSOFIE DELLA STORIA

Mundus senescit

La Civitas Dei costituirà il fondamento teorico della visione cristiana della storia. Eppure alla sua visione grandiosa e provvidenziale dei processi storici si accom-

pagnerà, nell’Alto Medioevo, una visione di segno opposto, non apertamente con-trastante con quella, ma effetto anch’essa di una sensazione diffusa nella cristia-nità, in un’epoca di arretratezza, di apparente caduta di prospettive. Un pessimi-smo di fondo permea il mondo alto-medievale. La storia viene rappresentata comeuna linea discendente, come se seguisse le età dell’uomo e fosse ormai giunta allasesta età, quella della decrepitezza: mundus senescit, il mondo è vecchio emorente. Anche la concezione dell’uomo è pervasa da tale pessimismo. Egli statra salvezza e dannazione, la sua anima è oggetto di una contesa tra Dio e Satana.È peccatore e cerca nella penitenza il mezzo per assicurare la propria salvezza.L’uomo è pellegrino in terra: homo viator est, l’uomo è in viaggio verso la propriasalvezza o la propria dannazione. Il modello che sembra prevalere è quello di unuomo peccatore, debole, vizioso e umiliato. Un uomo che, però, essendo ancheil “luogo” dell’incarnazione divina, ha sempre Dio vicino a sé e conserva quindinella speranza, nella fede e nella carità tutte le sue prospettive di rigenerazione.

Nani sulle spalle di giganti

Con la ripresa del mondo occidentale, a partire dall’XI secolo si sviluppa unasensibilità nuova, una nuova apertura nei confronti delle possibilità umane e per-ciò anche nei confronti della storia umana, del suo significato essenziale.

Un’apertura che riguarda sia il futuro che il passato.Sono particolarmente gli intellettuali del XII secolo a sentirsi portatori di novità.

Essi si sentono moderni, protagonisti di un processo di rinascita culturale nel qualeviene anche a stabilirsi un rapporto nuovo e diverso col passato, in particolare conla civiltà antica, con la classicità.

Bernardo di Chartres (XII sec.), descrivendo il rapporto fra i moderni e gli anti-chi, ricorre all’immagine dei nani sulle spalle di giganti: il sapere degli antichi èsuperiore, ma i moderni, avvalendosi di questo sapere (cioè poggiando sulla “sta-tura gigantesca” dei classici), possono conoscere più cose e guardare più lontano.

Da qui una fiducia nel progresso della conoscenza, ma, ancor più, nel progressodella storia. Se si è potuto dire che nell’Alto Medioevo la storia sembrava come arre-stata, gli intellettuali urbani del XII secolo, figli di un mondo pervaso da cambia-mento e innovazione, avvertono di poter rimettere in moto la macchina della storia.

L’ETÀ MODERNA4

L’antico come paradigma e il nuovo senso della storia

Il problema del Rinascimento è anche il problema del rapporto dell’uomomoderno con il proprio passato: quello classico e quello del Medioevo. Anche seil Medioevo ha, in qualche misura, guardato al mondo classico, al mondo paga-no, il primo Rinascimento ha guardato a tale mondo in modo del tutto diverso,come al paradigma di una cultura insuperabile, come alla vera radice, da lungotempo dimenticata, dell’autentica umanità. Così si parla di “nuova nascita” (Ri-nascimento), di uscita da un’epoca oscura, con un intento critico-polemico neiconfronti della cultura del Medioevo, che viene concepito come mera “età dimezzo”, frapposta fra l’antichità classica e quella moderna, come un lungo perio-do di smarrimento.

La “riscoperta” del mondo classico costituisce l’aspetto caratterizzantedell’Umanesimo. Generazioni di studiosi hanno svolto un’infaticabile opera dianalisi e di “restaurazione” filologica dei testi antichi, cercando di recuperarne ilsignificato originario, o addirittura riportandoli alla luce dopo secoli di oblio.

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258FILOSOFIE DELLA STORIA

Ma nella riscoperta dei classici obiettivo principale dell’Umanesimo è liberarele opere degli autori antichi dalle interpretazioni “distorte” che la cultura medie-vale aveva sovrapposto ai loro significati originari, ritenendo le verità dispersenelle opere della cultura pagana come naturaliter christianae, perché il loro veroautore non poteva essere altri che il Lógos.

Tale lettura è contestata dagli Umanisti, i quali vogliono restaurare il significatoautentico che a quelle opere avevano voluto dare i loro autori. La filologia sipreoccupa, dunque, non solo di restituire i testi alla loro stesura originaria, maanche di recuperare gli intenti comunicativi che le avevano ispirate. Ed è a questioriginari significati e valori che gli Umanisti si vogliono ricollegare. Così si è potu-to dire che la filologia è la vera filosofia dell’Umanesimo e che in questo rapportocon il mondo antico si elabora un senso nuovo della storia, ma anche una nuovaperiodizzazione: età antica, età medievale ed età moderna, che progredisce ricol-legandosi a quella antica. Restituendo gli antichi al loro tempo, si riconosce l’esi-stenza di una frattura fra il presente e il passato. Una frattura dovuta non solo allapresenza di un’“età di mezzo”, ma anche alla distanza storica che si incominciaa percepire fra mondo moderno e antichità.

Da qui la formazione di una coscienza critica di sé e del proprio passato, quin-di di una coscienza storica, di cui è espressione l’opera di Lorenzo Valla (1407-1457). La sua analisi e ricostruzione storica del linguaggio permette di accertareil grado di autenticità dei testi del passato e, nel caso della “Donazionecostantiniana”, di dimostrarne la falsità.

Di un movimento di ritorno alle origini, analogo – ma solo per questo aspetto –a quello umanistico, è animato il pensiero religioso del Cinquecento, che, con-vinto del bisogno di una profonda riforma del mondo cristiano e della Chiesa,guarda all’esperienza e al messaggio originario di Cristo (Erasmo daRotterdam,1466/1469 – 1536), ma anche all’esperienza delle prime comunità cri-stiane (Martin Lutero,1483-1546). Comunque, in entrambi i casi si esprime, siapure in modo diverso, la critica nei confronti della tradizione, largamente rappre-sentata dalla Chiesa: l’autenticità cristiana a cui abbeverarsi rimanda alla fonte delCristianesimo.

Il modello naturalistico del ciclo e la nuova storiografia politica

Torna agli antichi la riflessione sulla storia di Niccolò Machiavelli (1469-1527).Egli si nutre di quella cultura, interroga il passato, cerca le ragioni degli eventi sto-rici, con la convinzione che è necessario conoscere il passato per capire il pre-sente. La sua non è una concezione che si iscriva in una prospettiva religiosa,anzi, va contro la visione provvidenzialistica cristiana. Machiavelli utilizza unmodello naturalistico di interpretazione sia del passato, sia del presente.

Alla base c’è l’idea della costanza della natura umana, che è la stessa dovun-que, nei cieli come fra gli uomini. Da questa costanza discende l’esistenza di legginaturali dello sviluppo storico. Costanti sono le leggi che regolano le passioniumane. E costanti sono le leggi che portano gli Stati ed i sistemi politici a mutaredi continuo, ad affermarsi e poi a decadere e a crollare miseramente. L’idea del-l’immutabilità della natura umana si traduce, quindi, in quella di un andamentociclico della storia dell’umanità, che Machiavelli ha ripreso da Polibio.

Ma, pur con questa visione ciclica della storia, egli più di ogni altro ha avverti-to la novità dei tempi, dell’orizzonte storico che veniva configurandosi con i nuoviStati nazionali. Ciclicità e novità: è una contraddizione feconda, nell’elaborazio-ne di Machiavelli, perché è frutto della duplice esigenza di osservare con l’occhiodello “scienziato” la realtà storico-politica – come se essa avesse una “natura”immutabile, da descrivere e riprodurre in concetti – e di intervenire politicamentesulla realtà stessa, che è invece modificabile, per tentare di cambiarla.

Anche l’Istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi (1552-1623) si iscrive nelfilone della storiografia “politica” e di tendenza. Il metodo di indagine è centratosulla raccolta e sull’uso attento di tutti i documenti. Riportando diversi punti divista, opinioni e atteggiamenti dei protagonisti, Sarpi mostra la complessità delleforze e delle posizioni in campo, ripercorre il passato storico per dare spessore eforza all’analisi di un evento contemporaneo, con la convinzione che i processistorici hanno spesso esiti diversi dagli scopi seguiti da coloro che li hanno determi-nati.

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259FILOSOFIE DELLA STORIA

Il primato dei moderni sugli antichi: “la verità è figlia del tempo”

In chiusura del secolo XVI Giordano Bruno (1548-1600) aveva sostenuto che“moderni” erano coloro che potevano trarre beneficio dalle esperienze accumula-te nel passato. Altri, nel Seicento, riprendono l’immagine dei moderni come “nanisulle spalle di giganti”, gli antichi. E alle soglie del nuovo secolo Francesco Bacone(1561-1626), criticando la filosofia antica perché astratta e incapace di spiegare larealtà, mostra che i moderni si stanno ormai emancipando dagli antichi, ricono-scendosi superiori a loro. La cultura antica è “una specie di infanzia della scienza”:è cioè immatura, incapace di produrre frutti fecondi, adeguati alle necessità delgenere umano. Fermarsi ad essa, guardando con riverenza ai grandi del pensiero,significa fermare il progresso della scienza e dello stesso genere umano. “La veritàè figlia del tempo”, non dell’autorità, afferma Bacone. È frutto di un’indagine inces-sante, che non può essere ostacolata dagli impedimenti della tradizione.

Ma nella concezione della storia Bacone inserisce un altro elemento di grandenovità, destinato a fruttare in seguito: il riconoscimento dell’importanza della tecnicacome fattore di progresso umano. Più di ogni evento politico-militare, invenzionicome la bussola, la polvere da sparo o la stampa a caratteri mobili hanno fatto farepassi avanti alla storia umana, cambiando il rapporto dell’uomo con una situazioneavvertita come immutabile nei suoi tratti di fondo. La tecnica rende l’uomo protago-nista della storia come cambiamento e miglioramento delle sue condizioni di vita.

La vecchia autorità del passato e della tradizione sta morendo ed una nuova auto-rità, basata sulla ragione e sull’esperienza, sta nascendo. L’ancoraggio agli antichiviene abbandonato: ormai i “moderni” possono camminare con le proprie gambe.

Anche Cartesio (1596-1650) formula una critica netta e decisa al sapere del suotempo, troppo rivolto al passato e troppo poco al presente: difatti, sottolinea, “chiè troppo curioso delle cose del passato diventa, per lo più, molto ignorante di quel-le presenti”.

Sempre più si guarda alla scienza come al fattore principale del progressoumano. La storia umana – dice Blaise Pascal (1623-1662) – è il prodotto di piùgenerazioni, ciascuna delle quali utilizza il patrimonio accumulato dalle genera-zioni precedenti e tende ad incrementarlo. La ragione scientifica permette di pro-gredire continuamente, di approfondire le conoscenze e di mutare le condizionidi vita. Da questo punto di vista l’umanità può essere considerata come un indi-viduo, “uno stesso uomo che impari continuamente”. Così gli antichi, a cui gliUmanisti o i tradizionalisti fanno appello, non sono i detentori del sapere, perchéquesto era in loro relativamente limitato ed essi stessi costituivano solo “l’infanziadell’umanità”. “Antichi”, invece, sono i moderni, in quanto sono proprio loro adavere enormemente esteso i confini del sapere. Quindi “è in noi che si può ritro-vare quell’antichità che onoriamo negli altri”.

A riprova di questa tendenza è il dibattito su antichi e moderni che ha luogoverso la fine del Seicento. Nasce come controversia letteraria. Ma è sorretto dal-l’idea del “primato” dei moderni e dalla tesi che i maggiori progressi si siano veri-ficati nei campi delle scienze, della tecnica e delle condizioni materiali dellapopolazione. E, soprattutto, dall’idea che le scienze siano ancora come “in culla”,presentino cioè un enorme potenziale di miglioramento. Tende così a delinearsiquell’idea di progresso che si affermerà pienamente solo nel secolo successivo.

La storia come scienza nuova

Fra il Seicento e il Settecento sul problema della storia un ruolo centrale assu-mono le tesi di Giambattista Vico (1668-1744). Il compito che Vico si assume è laprogettazione e la realizzazione di una scienza nuova. Questa è la storia: di essa,dei suoi nuovi fondamenti teorici, Vico vuol essere il fondatore. La convinzionefondamentale di Vico è che la realtà, l’essenza delle cose stia nella loro evoluzio-ne storica. È il principio che fonda l’idea della storicità del reale.

Il mondo delle nazioni, ossia il mondo civile, poiché è il prodotto dell’operaumana, può essere ricostruito nella sua genesi e perciò conosciuto compiutamen-te, scientificamente. Il criterio di verità di una cosa sta nel farla: verum ipsum fac-tum, afferma Vico, “verum et factum convertuntur”, cioè sono convertibili l’unonell’altro. La storia è fatta dagli uomini ed i suoi princìpi di svolgimento, le sueleggi, possono essere trovati nella stessa mente dell’uomo.

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L’uomo conosce la storia perché la fa: invece non può avere conoscenza pienaed autentica della natura, perché questa è opera di Dio e non sua.

Viene così rovesciata la convinzione di fondo della cultura contemporanea, chevede nell’indagine naturalistica il vero modello di scienza. Premessa e fondamen-to della speculazione vichiana è l’idea del primato delle scienze dell’uomo sullescienze matematico-naturalistiche.

Strumenti fondamentali per la conoscenza storica sono la filologia e la filosofia,delle quali Vico vuole realizzare l’unità. La prima studia i “fatti” dei popoli, cioèconsidera l’uomo quale è nella concretezza del divenire storico. La seconda, inve-ce, considera l’uomo quale deve essere, cioè interpreta i fatti inserendoli in quel-la che Vico chiama storia ideale eterna, “sopra la quale corrono in tempo le sto-rie di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini”. Essa ècome un ordine verso cui tendono le storie particolari.

Un ruolo rilevante in questa prospettiva viene riconosciuto alla Provvidenzadivina, che costituisce il massimo fattore di civilizzazione del mondo umano.Come una forza, una legge interna agli eventi, essa utilizza le passioni e i fini par-ticolari che muovono gli uomini per determinare effetti spesso opposti a quelliintenzionalmente perseguiti dagli individui, che sono limitati e parziali, frequen-temente dettati solo dall’istinto. La provvidenza li usa come strumenti con cui rea-lizzare un ordine superiore.

Tre sono le età della storia: le età degli dei, degli eroi e degli uomini. L’umanitàviene così descritta come un unico individuo, che nasce e si sviluppa portandogradualmente a svilupparsi delle facoltà dominanti. “Gli uomini prima sentonosenz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, final-mente riflettono con mente pura”: l’avvento della fantasia segna il passaggio daun’età all’altra e così l’avvento della ragione.

Il succedersi delle tre età segna un ordine progressivo e non, come nella cultu-ra antica, un processo di decadenza.

Ma l’andamento della storia umana guidata dalla Provvidenza non è necessaria-mente progressivo: può invertire la direzione, divenire regressivo. Corsi e ricorsistorici scandiscono il cammino della storia umana, ma questi ritorni indietro dellastoria, di cui il crollo dell’Impero romano è l’emblema, non sono affatto scontati,poiché sono sempre gli uomini, con le loro scelte, a fare la storia e perché non siverificano mai come un puro e semplice ritorno al passato. Tale non è stato, adesempio, il Medioevo, se paragonato all’età degli eroi cantati dai poemi omerici.

L’età dei lumi, la storia e l’idea di progresso

Nell’età dell’Illuminismo la riflessione sulla storia assume aspetti estremamentecomplessi.

Nella polemica contro tutto ciò che non è conforme alla ragione, i philosophesdichiarano di voler “azzerare” il passato, costruire cioè il nuovo sulle rovine dellatradizione, vedendo in essa solo una millenaria sequenza di errori, pregiudizi,prevaricazioni. In tal senso, verranno accusati dalla cultura romantica di antisto-ricismo, di incomprensione del significato e del valore del passato. Ma questa saràun’interpretazione polemica del Romanticismo. Al contrario, la conoscenza delmondo storico è un compito centrale della cultura illuminista.

L’Illuminismo non critica in blocco il passato, ma promuove una critica della tra-dizione, con la sua pretesa di essere fondamento di giustificazione storica per cre-denze e istituzioni. Critica la prospettiva provvidenziale con cui la storia è stata con-cepita. La storiografia illuminista giudica la storia secondo princìpi “astratti”, perchévuole valutare il passato sulla base delle esigenze del presente, considerare l’operadegli uomini in una prospettiva di miglioramento reale delle loro condizioni di vita.

Per la connessione istituita tra presente e passato, tra battaglia culturale e inda-gine storiografica, quella illuministica è una vera e propria filosofia della storia.

L’idea del progresso è uno dei suoi cardini. La convinzione di fondo è che siapossibile migliorare la natura e la condizione dell’uomo, se si attribuisce allaragione il compito di governare la storia, che è opera dell’uomo. È la ragione cheha realizzato e può contribuire a realizzare l’incivilimento progressivo dell’uma-nità, attraverso il controllo e il dominio della natura e della realtà sociale. Ma nontutti sono convinti della tesi di un progresso lineare, irreversibile e illimitato, comequello teorizzato da Jean-Antoine Nicolas Caritat di Condorcet (1743-1794).

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Nel Settecento si afferma una visione scientifica della ricerca storiografica, gra-zie all’affinamento dei mezzi d’indagine, all’ampliamento degli interessi e deicampi di studio, al riconoscimento della complessità dei fatti storici ed infineall’accantonamento di filosofie della storia di impronta religiosa e provvidenziale.

Alcuni intellettuali di punta dell’Illuminismo hanno promosso la moderna sto-riografia, guardando ai fattori permanenti e collettivi di un processo storico (adesempio ai costumi di un popolo, alle forme di civiltà e di mentalità, ai sistemi tec-nico-scientifici, ecc.) piuttosto che alle storie dinastiche e alle vicende militari odiplomatiche.

Ad esempio, François-Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778) mira a realizza-re, con la sua opera storiografica, fondamentalmente una storia della civiltà. Eglivuole approfondire gli aspetti essenziali della vita sociale, quindi delle attivitàeconomico-produttive, del costume, della scienza, della vita culturale e dellamentalità collettiva del periodo considerato nel suo studio (ad esempio, l’età diLuigi XIV). Voltaire, inoltre, respinge ogni visione “provvidenzialistica” dello svi-luppo storico e, pur mettendo in evidenza il cammino progressivo dell’umanità,come superamento di una condizione di arretratezza e di “barbarie”, non nascon-de le contraddizioni e i problemi della “civiltà moderna”, la gravità dei fenomeniregressivi che ne caratterizzano ancora la vita.

Una posizione del tutto diversa viene sostenuta da Jean-Jacques Rousseau(1712-1778). Egli afferma che il cosiddetto progresso civile della società genera,in realtà, un processo di decadenza: decadenza delle condizioni di vita degliuomini, o della maggior parte di loro. Lo sviluppo della civiltà è stato anche svi-luppo dell’ineguaglianza, a cui si accompagna quello del conformismo (o “spiri-to di gregge”), di una corruzione morale che si diffonde sotto un velo perfido eipocrita di “buone maniere” esteriori. Soprattutto, dietro al progresso avanzanoprocessi di asservimento degli uomini da parte di altri uomini. I frutti della cultu-ra e della civiltà sono come “ghirlande di fiori” posate sulle catene che hannoasservito la maggioranza degli uomini.

Il nucleo profondo di queste tesi di Rousseau è costituito dalla preoccupazioneche l’umanità si affidi acriticamente all’idea di progresso senza cogliere le distor-sioni e le storture che l’accompagnano.

Ma di progresso si può parlare anche per la sua concezione, se è vero che lanatura umana, che l’uomo ha corrotto, può essere restaurata attraverso le “vie”della politica e dell’educazione.

Antagonismo e sviluppo delle capacità umane

Più articolata è la posizione di Immanuel Kant (1724-1804). Gli eventi storici, ifatti e le azioni che si svolgono sul “grande palcoscenico del mondo”, afferma Kant,sembrano smentire l’esistenza di un ordine progressivo nella storia umana. Eppure,le stesse tendenze egoistiche della natura umana, in una società civile regolata daldiritto, possono tradursi in un fattore positivo. Quel che caratterizza la società – diceKant – è l’antagonismo, anzi una “insocievole socievolezza” degli uomini, cioè laloro tendenza a unirsi in società, congiunta però a una generale riluttanza a farlodavvero, con la conseguente, continua minaccia di disunire questa società.

Tale tendenza ad associarsi per la propria sicurezza e, nello stesso tempo, a dis-sociarsi per volgere tutto al proprio tornaconto, è proprio “il mezzo di cui la natu-ra si serve per attuare lo sviluppo delle disposizioni umane”. Infatti, solo la societàfavorisce lo sviluppo delle capacità umane. Per gli uomini vale quello che avvie-ne fra gli alberi di un bosco, che, cercando vicendevolmente di togliersi aria esole, si spingono incessantemente in alto “e perciò crescono belli e diritti”, men-tre quelli che si trovano isolati fra loro “mettono rami a piacere, crescono storpi,storti e tortuosi”.

Proprio la discordia, cioè il conflitto di interessi, la competizione fra gli uomini,determina il progresso civile e apre la prospettiva del futuro avvento di una societàcivile universale, di un sistema pacifico di convivenza fra i popoli, quasi che lastoria del genere umano possa esser vista come “l’attuazione di un piano segretoche la natura persegue”, commenta il filosofo.

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La storicità come dimensione dello spirito

Il Romanticismo, in nome della storicità del reale, ha voluto contrapporsiall’Illuminismo, descritto come assertore di una visione astratta della ragione eaccusato di avere condotto un’assillante polemica nei confronti del passato e dellatradizione.

Non vi è dubbio che fra i due movimenti vi sia un diverso modo di concepire ilrapporto col passato: l’intellettuale illuminista, impegnato in una dura lotta cultu-rale contro privilegi e pregiudizi, tende a sottolineare soprattutto gli elementi didiscontinuità fra passato e presente; il romantico, invece, pone maggiormente inevidenza gli aspetti di continuità, poiché proprio nel passato (a cominciare da quel-lo medievale) ritiene di recuperare le origini della sua identità storica e spirituale.

Ciò non conduce, di per sé, il romantico a negare l’idea di un progresso nelcammino dell’umanità. Ma a differenza dell’illuminista, il romantico concepiscetale progresso in un’unità organica col passato, cioè pone in evidenza le idee e letradizioni che costituiscono le “radici spirituali” del proprio popolo e della propriatradizione nazionale. Per il romantico la realtà non è altro che movimento inces-sante, superamento continuo, quindi storia. Opposizioni e conflitti si manifestanocome movimento storico, come trasformazione e passaggio dal passato al presen-te, come lotta e superamento perenne del presente, in quanto realtà determinata.

La concezione nuova della storia viene elaborata fin dalla fine del Settecento,ad esempio da Johann Gottfried Herder (1744-1803), che aveva concepito la sto-ria universale, sulla scia di Vico e di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) comeprocesso provvidenziale di educazione dell’umanità, come sviluppo graduale dicapacità umane.

In tale orizzonte ideale, ciascun essere umano avverte nella propria individua-lità un valore irriducibile. Di qui, ad esempio, la sottolineatura romantica (parti-colarmente efficace in Thomas Carlyle, 1795-1881) del ruolo svolto dalle grandiindividualità, dagli eroi, nella storia: essi vengono descritti come espressione, conle loro prodigiose qualità, della presenza del divino nel mondo e considerati comeun altissimo esempio, capace di alimentare in noi il “senso eroico” della vita.

Non va inoltre dimenticato il profondo intreccio che sussiste fra lo Storicismoromantico e il formarsi dell’idea di nazione, apertamente contrapposta al cosmo-politismo illuministico. Con i concetti di popolo e di nazione viene indicata unacomunità avente una sua specifica fisionomia e identità storica e spirituale, ca-ratterizzata da tradizioni culturali e religiose e da forme linguistiche comuni, cheper taluni divengono anche identità “di razza” e “di sangue”.

In rapporto al popolo si parlerà di missione. Giuseppe Mazzini (1805-1872) pro-porrà una filosofia della storia i cui protagonisti sono Dio e il popolo: Dio assegnaad ogni popolo una missione. Terminata con la Rivoluzione francese l’epoca deidiritti dell’uomo, si apre l’età dei doveri dell’uomo. E dovere degli uomini, deipopoli, è ora realizzare la loro indipendenza. Ogni soggetto storico, ogni popolo,deve conquistarsi la propria libertà. E la lotta per la libertà diviene educazione delpopolo alla libertà.

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) afferma il primato di una nazione, quellatedesca, su quella francese, perché si è mantenuta fedele alle sue radici culturali ger-maniche. Allargando la visuale, vede la storia come il luogo in cui si realizza pro-gressivamente la natura dell’uomo, con il dotto, l’intellettuale a fare da educatoredell’umanità, indicandole i traguardi di un processo continuo di umanizzazione.

Per Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854) la storia dell’umanità èincrocio, scontro e combinazione di volontà individuali, di liberi e singoli atti che,nel loro insieme, formano un contesto necessario, organico, che negli effetti sor-passa le volontà dei singoli. È il luogo in cui la moralità, espressione e afferma-zione della libertà individuale, si incontra con l’etica, cioè con una libertà gene-rale che è capace di garantire e conciliare le libertà individuali. Un orizzonte spiri-tuale che va oltre lo stesso Stato, per coincidere con l’umanità stessa. La storia

L’OTTOCENTO E IL NOVECENTO5

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umana è come uno straordinario affresco nel quale tende a manifestarsi l’assolutonella vita degli individui e dei popoli, una rappresentazione di cui Dio è il regista.Quasi un processo provvidenziale, una rivelazione continua, nella quale l’infinito simanifesta nel finito.

La dialettica storica dello Spirito

Anche per Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) l’essenza dell’uomo èla sua spiritualità e, insieme, la sua storicità. Il destino di ogni essere umano, comedi ogni realtà finita, è compiersi, passare in altro. La realtà è storia, passaggio,divenire. E il soggetto della storia è l’assoluto immanente nella realtà. Poiché l’as-soluto è razionalità, la ragione si realizza nel divenire. Tutto ciò che è reale èrazionale e tutto ciò che è razionale è reale. La concezione hegeliana della realtàe della storia è ottimista: il regno della storia è il regno della ragione.

È soprattutto nelle Lezioni sulla filosofia della storia che viene compiutamentedescritta tale concezione hegeliana. La ragione vive nella dimensione etica delloStato perché solo in questo si afferma come “forza e potenza” (come “universalitàdotata di forza”) e favorisce il superamento dell’egoismo individuale. Ogni Statoesprime lo spirito di un popolo, cioè quei caratteri unitari e specifici che formanola sua identità storica. E l’insieme dei popoli costituisce lo spirito del mondo inuna determinata epoca. Il contenuto della storia del mondo è razionale, non ècostituito da un succedersi slegato, casuale e incoerente di eventi. È attraverso lastoria che “lo spirito giunge a sapere ciò che è veramente, e oggettiva tale sapere,lo realizza facendone un mondo esistente, manifesta oggettivamente se stesso”.Tale processo di emancipazione è l’attuarsi stesso della libertà dello spirito attra-verso l’umanità.

Hegel contrappone apertamente alla scienza storica (che si limita a ricostruireempiricamente lo svolgimento dei fatti) la filosofia della storia, che permette diguardare allo sviluppo dell’umanità come ad un tutto unitario, razionale, dialetti-camente articolato e mosso.

Sono gli Stati a fare la storia, con le loro alleanze e soprattutto con i loro con-flitti di interesse, con le loro guerre. Così, in aperta contrapposizione a Kant, Hegelafferma che la guerra ha un valore morale, permette cioè di conservare “la saluteetica” di un popolo, di affermare valori collettivi contro interessi particolari. Leguerre costituiscono l’espressione dell’andamento dialettico delle vicende umane,tanto da portare chi vince a ergersi come portatore di una verità storica: “la storiadel mondo è il tribunale del mondo”, afferma, esprimendo una tesi che verrà poiusata, nell’Ottocento e nel Novecento, per giustificare ogni atto di forza comerazionale in quanto riuscito.

Se l’autocoscienza dello spirito costituisce il fine della storia, gli individui sonosuoi mezzi. Anche in Hegel l’individualità ha una funzione importante. Vi sonopochi individui cosmico-storici, che fanno fare passi avanti alla storia in una dataepoca (come, ad esempio, Napoleone). Ma neppure loro sono attori della storia,perché anche le loro azioni – mosse da passioni e interessi egoistici – danno luogoa risultati che l’astuzia della ragione rende completamente diversi dalle intenzionidegli individui stessi e funzionali, invece, agli scopi della stessa ragione.

La storia ha un andamento progressivo in quanto si prospetta come storia dellalibertà. Hegel si contrappone apertamente alla visione ciclica e naturalistica dellastoria, perché lo spirito, in quanto sviluppo storico e affermazione graduale dellalibertà, va pensato secondo lo schema del progresso. Vede nel mondo orientaleuna situazione in cui “uno solo è libero”, l’imperatore. Successivamente la libertàè estesa ad élites di cittadini nel mondo greco-romano (nel quale “solo alcunisono liberi”) ed infine si afferma pienamente nel mondo cristiano (nel quale “tuttisono liberi” in quanto uomini). Ciò avviene soprattutto nella civiltà che Hegelconsidera la più compiuta espressione del mondo cristiano, quella germanica.

La storia come “storia delle lotte di classe”

A Karl Marx (1818-1883) è stata attribuita l’intenzione di studiare e scoprire –da “scienziato” – “la legge di sviluppo della storia umana”, da lui e da FriedrichEngels (1820-1895) intesa come storia e sviluppo delle lotte di classe.

Secondo la concezione materialistica della storia, “il luogo di nascita della sto-

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ria” risiede nella produzione materiale, cioè nei mezzi di produzione (gli strumen-ti materiali di produzione, gli uomini che li usano, ecc.) e nei rapporti di produ-zione che, svolgendo quella attività, gli uomini stabiliscono fra loro. La storia hainizio con la creazione – da parte degli uomini – dei mezzi necessari a soddisfarei loro bisogni. Sono tali mezzi, non naturali ma “artificiali”, a produrre, a loro volta,nuovi bisogni: “e tale produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica”. La sto-ria perde progressivamente la sua “naturalità”, diviene sempre più “sociale” e “cul-turale” proprio attraverso la dialettica fra i bisogni umani, la produzione dei mezziper soddisfarli e la produzione di nuovi bisogni. L’uomo muove da situazioni date(da determinati rapporti con la natura e da rapporti sociali storicamente determi-nati), ma la sua attività tende a mutare tali condizioni: è quindi, nello stesso tempo,condizionata dall’ambiente e condizionante l’ambiente stesso.

La storia umana va quindi compresa a partire non dalle idee – come pensavaHegel – ma dai processi materiali di vita, non dal cielo ma dalla Terra. Non è il pen-siero a modificare la realtà, ma è la realtà a modificare il pensiero. La coscienza nonè la sfera “privilegiata” dello spirito ma è, essa stessa, un prodotto storico, un pro-dotto sociale: si risolve nelle relazioni storicamente prodottesi fra gli uomini.

All’interno di determinati assetti sociali (o rapporti di produzione) le forze diproduzione vengono assecondate nel loro sviluppo. E a un dato punto di tale svi-luppo le forze di produzione entrano in conflitto con i rapporti di produzione esi-stenti (che nella società capitalistica sono essenzialmente rapporti di proprietà) equesti ultimi, “da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in cate-ne. Allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento dellabase economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantescasovrastruttura”, che è costituita appunto dalle istituzioni e dai sistemi di idee finoa quel momento dominanti.

Nella loro concezione della storia delle società umane, Marx ed Engels vedonorealizzati – attraverso una successione di rivoluzioni “epocali” – alcuni tipi fon-damentali di organizzazione sociale e di proprietà dei mezzi di produzione: dal-l’organizzazione tribale a quella schiavistica, poi a quella feudale ed infine a quel-la capitalistica.

Col capitalismo si attua la massima concentrazione proprietaria dei beni e lamassima socializzazione della produzione, con la formazione di immense massedi lavoratori salariati, i proletari. La prospettiva storica che a questo punto si apreè quella del comunismo, di una rivoluzione nella quale si dovrebbe avere l’aboli-zione della proprietà privata (cioè l’“espropriazione degli espropriatori”) e lasocializzazione dei beni, fino a giungere – al termine di un più o meno lungo per-corso – all’estinzione stessa dello Stato. Con la rivoluzione proletaria si passereb-be dalla preistoria alla storia umana. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo avreb-be fine e l’uomo potrebbe riappropriarsi di tutta la ricchezza materiale e spiritualeprodotta.

La storia come evoluzione e progresso

Col Positivismo, non l’idea di rivoluzione ma quella di progresso, di evoluzionee sviluppo graduali dei processi di riorganizzazione sociale e di rigenerazioneintellettuale e morale dell’umanità viene ancorata allo sviluppo tecnico-scientifi-co. In alcuni esponenti del movimento (ad esempio in Comte e in Spencer) taleidea viene fatta poggiare su una filosofia della storia, che, pur muovendosi su pre-supposti radicalmente diversi, assume talvolta – nella sua assolutezza – tratti“romantici”. Contro alcune delle concezioni romantiche che guardano indietroalla società medievale, come modello, ma d’accordo con molte delle filosofiedella storia dell’Ottocento, quella positivista condivide una concezione progressi-va e ottimista dello sviluppo storico.

Auguste Comte (1798-1857) guarda all’umanità come a una totalità che si evol-ve e si sviluppa storicamente e che è guidata, in tale sviluppo, da una legge fon-damentale, la legge dei tre stadi. Ogni campo del sapere ha attraversato storica-mente tre stadi teorici: lo stadio teologico, quello metafisico e quello positivo. Essihanno anche costituito tre diverse concezioni del mondo, tre tipi e metodi di ri-cerca e, soprattutto, tre diverse forme di organizzazione sociale e politica dell’u-manità.

Solo entrando nello stadio positivo l’umanità può costituire un nuovo ordine

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intellettuale e politico-sociale. Principio e fondamento di questa nuova e piùavanzata fase storica è la razionalità scientifica, che deve essere portata a per-meare di sé l’insieme della cultura, perché possa essere definitivamente superatolo stato di “anarchia intellettuale” e di disordine morale e sociale in cui versal’Europa dopo la Rivoluzione francese del 1789. Con lo stadio scientifico si puòconsiderare concluso lo sviluppo storico: vi potrà essere e vi sarà sviluppo dellepotenzialità proprie di questo stadio, ma non un suo superamento.

Per Herbert Spencer (1820-1903), invece, l’evoluzione storica dell’umanità ècaratterizzata essenzialmente da due fasi, cioè dal militarismo e dall’industriali-smo. La prima si esprime come dominio del potere sugli individui, la secondacome affermazione piena della libertà degli individui sul potere. Egli ritiene chel’età moderna costituisca una fase di passaggio dall’uno all’altro sistema.

Ma l’idea di evoluzione naturale che sorregge il pensiero del filosofo – e, ingenerale, la cultura positivistica della seconda metà dell’Ottocento – fa riteneretale prospettiva di avanzamento dell’umanità verso lo stadio dell’industrialismo edella libertà degli individui uno sbocco necessario e quasi “fatale”. L’idea di pro-gresso si trasforma così in dogma del progresso.

Crisi dell’idea di progresso

Ma dalla fine dell’Ottocento certezze e ottimismo vengono meno. Viene aper-tamente messa in discussione l’idea che la storia persegua indefinitamente e irre-versibilmente un cammino evolutivo e di progresso.

L’idea di progresso che la cultura moderna aveva elaborato e affermato, soprat-tutto a partire dal Settecento, esprimeva la convinzione ottimista che lo sviluppostorico procedesse sempre avanti. La sosteneva il progresso della scienza e dellatecnica. Vi si rispecchiava la fiducia di una borghesia in ascesa. Una fiducia, que-sta, che crisi, conflitti sociali e guerre sempre più cruente tenderanno a rimuove-re.

Dietro la crisi dell’idea del progresso vi è la convinzione che la realtà non siarazionale, che la storia non sia, hegelianamente, la realizzazione di una raziona-lità immanente, capace di progredire senza interruzioni. Ma, più in generale, nonsi dà più credito ad alcuna filosofia della storia; non si crede a una legge che rego-li e guidi il divenire storico, ad un senso complessivo di tale divenire, a un com-pimento che garantisca che il fine della storia è stato raggiunto.

Oswald Spengler (1880-1936), ad esempio, ne Il tramonto dell’Occidente, giun-gerà a proclamare l’approssimarsi della fine per la civiltà occidentale, poiché que-sta, concepita, come ogni civiltà, alla stregua di un organismo, sembra aver rag-giunto la fase della sua decadenza.

Eterno ritorno, assenza di fini nella storia e decisioni oltre-umane

Di questa crisi e messa in discussione dell’idea di progresso è espressione evi-dente la filosofia di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900). Egli la associa adun aperto attacco allo Storicismo, che viene da lui identificato con l’illusione cheil corso della storia abbia un carattere razionale, “provvidenziale”. Nello scrittoSull’utilità e il danno della storia per la vita Nietzsche critica la visione speculati-va della storia. In essa gli avvenimenti vengono interpretati come se fossero l’unl’altro concatenati, stretti da un nesso necessario e rivolti a uno scopo ultimo. Lecose vengono così trasformate in eventi, in vicende il cui senso è sempre fuori diloro, nella legge fatale da cui sono determinate, e gli individui vengono ridotti aspettatori di una storia la cui ragione è sempre e tutta a loro esterna. Orientandol’attenzione degli individui verso il passato (con la storia archeologica), la si disto-glie dal presente e dal futuro, scoraggiando ogni iniziativa. Infine, identificando ilreale e il razionale, come ha fatto Hegel, lo Storicismo ha portato all’accettazionedi ogni fatto o di ogni istituzione, ha determinato un’“idolatria del fatto”, un atteg-giamento col quale si tende a dire meccanicamente “sì ad ogni potenza”.

Ma Nietzsche combatte non la storia quanto quella “saturazione della storia”che indebolisce la personalità umana e il suo spirito di iniziativa. Accetta, invece,altre due dimensioni possibili dello studio della storia: quelle della storia monu-mentale e della storia critica. La prima porta a pensare che i grandi eventi del pas-sato possano rivivere nel presente e nel futuro, in quanto si sono dimostrati possi-

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bili. La seconda è rottura col passato, giudizio e condanna del passato nel tribu-nale della storia, come condizione per il suo superamento e come sollecitazionee slancio verso il futuro.

Con le idee del superuomo e dell’eterno ritorno Nietzsche non vuole proporreun nuovo ordine del mondo. Tutt’altro: il mondo è casualità e assenza di qualsia-si fine. Ebbene, il superuomo coglie quest’assenza di un ordine razionale nelmondo e non la nasconde a se stesso e agli altri.

L’eterno ritorno non ha le caratteristiche che lo Stoicismo gli aveva attribuito;non si tratta della ripetizione identica di ogni avvenimento. Per Nietzsche quelladell’eterno ritorno è una scelta pratica, poiché è istituito mediante una decisionedel superuomo. Non si deve più andare a cercare il significato “oltre”: esistenza evalore coincidono. Con l’idea del circolo, il tempo perde il suo carattere ango-scioso di tensione verso un compimento che è sempre di là da venire. La missio-ne del superuomo è questa: accettare il mondo ed imprimergli il sigillo della pro-pria volontà. “Divieni ciò che sei” è il principio supremo: guarda solo alla poten-za della volontà e della vita, sostieniti ad essa e non ad altro. In tal senso, la suavolontà è amor fati, amore del passato, di ciò che è stato, come “ciò che volevoche fosse”. È un volere “all’indietro” ciò che è già avvenuto, per poter poi guar-dare avanti e volere ciò che accadrà. Il superuomo, la sua volontà creatrice, guar-da all’evento passato e ad esso aggiunge: “così voglio che sia”. In tal modo quelpassato che appariva privo di senso, come un frammento disperso e slegato del-l’esistenza, attraverso questo atto volontario si trasforma in piena accettazione delmondo da parte dell’uomo.

Ma così la storia come totalità di eventi, dotata di senso e caratterizzata da unadirezione e un fine, sembra dissolversi.

La fondazione critica della ragione storica

Ben diverso è l’orientamento dello Storicismo. In esso occorre distinguere alme-no due componenti: lo storicismo tedesco e quello italiano. Il primo guardasoprattutto a Kant, il secondo a Hegel. Il primo vuole essere problematico, cioènon metafisico, il secondo assoluto.

Con lo Storicismo tedesco è lo stesso mondo umano a diventare un problema:come e che cosa è conoscibile sul piano storico? Quali sono cioè le possibilità edi limiti della “ragion storica”?

Si punta a costruire una critica della ragione storica, una critica che è anchepresa di distanze dall’idea positivistica del sapere e netta distinzione fra scienzematematico-naturalistiche e scienze storico-sociali (o “scienze dello spirito”) e chesi fonda sul recupero del concetto vichiano che l’uomo “comprende solo ciò cheha creato”, quindi può intendere la storia perché è egli stesso a farla.

Già il neo-kantiano Wilhelm Windelband (1848-1915) aveva distinto le scienzedella natura dalle scienze dello spirito. Difatti le scienze storiche e, più in gene-rale, le scienze dello spirito, sono idiografiche, cioè individualizzanti, riguardanoi fatti nella loro particolarità, nella loro singolarità irriducibile, mentre le scienzedella natura sono nomotetiche, riguardano soprattutto le leggi che regolano deter-minati tipi di fatti.

È Wilhelm Dilthey (1833-1911) uno dei principali esponenti dello Storicismo.Egli critica la preminenza assegnata dal Positivismo alle scienze della naturarispetto alle scienze dello spirito. La natura è per noi estranea, muta, mentre lasocietà umana parla continuamente a noi, è realmente il nostro mondo. La storiaè opera nostra e perciò possiamo conoscerla. Quel che deriva dall’attività dellospirito ha un carattere storico. Sin dalla nascita, ci alimentiamo della storicità delmondo. Il tempo procede, ma noi viviamo “attorniati dalle rovine di Roma, da cat-tedrali, da castelli”. Tutto ci parla di storia.

Ma questa dimensione vitale e storica degli uomini è in crisi: per l’uomo con-temporaneo la storia si avvia ad essere passato morto e privo di senso, lontano einerte. Con la perdita del senso storico, l’uomo corre il rischio di smarrire la fonteche dà senso o consente di ritrovare un senso all’agire umano.

Da qui il compito prioritario di precisare quali siano i fondamenti delle scienzedello spirito e, in primo luogo, della scienza storica, e di riconoscere la loro pienaautonomia rispetto alle scienze della natura.

Pur criticando il Positivismo, anche Dilthey ritiene che compito della scienza

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storica sia giungere alla conoscenza delle leggi che regolano e connettono ilmondo morale, evitando qualsiasi “metafisica della società e della storia”. Egliattacca quindi il metodo aprioristico, metafisico, di Hegel (a cui pure attribuisceil merito di avere conferito nuova dignità alla storia), distinguendolo da quellodelle scienze dello spirito. La storia è scienza dell’individuale. Suo oggetto è l’io,la sua Erlebnis, cioè la sua esperienza vissuta.

Dilthey contrappone lo spiegare delle scienze naturalistiche, che analizza ifenomeni e ne ricava dei princìpi generali di spiegazione, all’intendere dellescienze dello spirito. Quest’ultimo è un atteggiamento con il quale si guarda allarealtà umana, al “vissuto” di altri individui (individui esistiti nel passato o indivi-dui operanti nel nostro presente) e lo si interpreta attraverso il proprio “vissuto”,immedesimandosi in esso, rivivendolo, ma sempre inquadrandolo in categoriespecifiche, che permettano di cogliere la specificità di quella situazione e, nellostesso tempo, di elevarsi al di sopra del flusso multiforme dell’esperienza im-mediata. L’esperienza vissuta da altri individui nel passato può essere da noi inte-sa e interpretata nel presente riconnettendo, nella nostra interiorità, quell’espe-rienza vissuta alla nostra: ed è proprio questo rivivere in noi un’esperienza vissu-ta da altri a rendere possibile la comprensione del passato e la scienza storica.Proprio per il fatto di essere prodotti dell’agire umano, i fatti storico-sociali pos-sono essere compresi, cioè intuiti, sia pure in parte, dall’individuo.

Pur essendo conoscenza dell’individualità, anche la conoscenza storica richiededelle generalizzazioni. In altri termini, la comprensione della storia avvienemediante categorie che sono, nello stesso tempo, strutture del mondo storico emodi con cui intendiamo questo mondo.

Ma le stesse categorie con cui intendiamo il mondo storico si basano sull’espe-rienza vissuta e non sono “a priori”. La conoscenza storica è perciò storicamentedeterminata, è priva del carattere di assolutezza che il razionalismo hegelianoaveva inteso darle. Così, riconosce Dilthey, “tutto ciò che è storico è relativo”.Relative sono le concezioni del mondo, le dottrine metafisiche e religiose che sisono succedute.

Anche Max Weber (1864-1920), come Dilthey, ritiene che la conoscenza stori-ca abbia per oggetto l’individualità e implichi una comprensione dell’oggetto diindagine prescelto. Cioè l’immersione dell’osservatore in un mondo storico-socia-le costituito da intenzioni soggettive, interazioni e valori. Ma, a differenza diDilthey, egli non accetta il criterio storiografico dell’“esperienza vissuta” ed affer-ma la necessità di stabilire un’imputazione causale degli eventi, determinandoliattraverso un tipo ideale (o ideal-tipo), utilizzato come modello possibile di inter-pretazione dei processi storico-sociali indagati. All’ideal-tipo di Weber si collegal’interpretazione causale, cioè la riconduzione di un evento storico a una leggedell’accadere. Ciò lega strettamente la storia alla sociologia.

Filosofia come metodologia della storiografia

Nello Storicismo assoluto di Benedetto Croce (1866-1952) è la vita stessa, larealtà, ad essere storia, cioè storia dello Spirito. E poiché lo Spirito, la razionalità,costituisce la dimensione universale in cui i diversi fatti storici rientrano, è proprioin tale dimensione che essi possono essere interpretati e compresi. Così non si trat-ta solo di registrare il verificarsi di un evento, ma anche di dire che cosa esso sia,cioè quale sia il suo principio generale di spiegazione. I due aspetti non possonoessere separati.

Non è possibile la comprensione dell’universale se non come universale con-creto, storico; e non c’è storia senza una comprensione teorica dei fatti accadu-ti. Per questo, storiografia e filosofia si identificano, la filosofia non è altro chemetodologia della storiografia. I problemi della filosofia sono reali, non astratti.La filosofia si occupa solo di ciò che è concreto, di ciò che è effettivamente avve-nuto o sta avvenendo: qualsiasi problema della filosofia va affrontato unicamen-te “in riferimento ai fatti che lo hanno fatto sorgere e che bisogna intendere perintenderlo”.

Croce parla di contemporaneità della storia, in quanto la conoscenza storica (ostoriografia) muove sempre da un interesse del presente ed è storia proprio ed inquanto la si pensa, cioè “nell’atto che si pensa”.

Poiché ritiene che la storia sia uno studio dei fatti, che parte da questi e ne coglie

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e approfondisce il significato universale (sia cioè storia dell’universale concreto)Croce respinge nettamente altri tipi di storia: ad esempio la storia erudita delPositivismo (o storia filologica), o la storia oratoria (che utilizza eventi e personag-gi storici per “ammaestrarci” e inculcarci degli ideali), o la storia poetica (basatasui sentimenti, sulle passioni, sulla simpatia o sull’avversione, sull’amore o sull’o-dio per fatti o personaggi storici), oppure la storia universale, che guarda alla glo-balità delle vicende non preoccupandosi di approfondire come necessaria cia-scuna di queste e non collega adeguatamente tali vicende fra loro.

Per Croce la storia stessa ha come soggetto la libertà, così viene a identificarsi conl’idea della vita e della circolazione dello spirito. La libertà come idea morale dell’uo-mo può essere messa in crisi, ma non può essere spenta in alcun momento storico.

Comunque, il problema più complesso della vita morale è costituito dal fattoche – se tutto è storia – tutto ciò che storicamente avviene dovrebbe essere giu-stificato, in quanto, appunto, momento ed espressione della vita e dello sviluppodello spirito.

Ma Croce distingue la storia come pensiero, la storia accaduta e perciò giustifi-cata come necessaria dal suo stesso accadere, dalla storia come azione, cioè dallastoria che si fa: quest’ultima è la storia in cui è in gioco la libertà di ciascuno edin cui, quindi, è possibile e doveroso resistere all’oppressione, all’esercizio dellaforza, al soffocamento della libertà. Quella crociana, è una distinzione, in cui allanecessità dell’evento storico si accompagna la responsabilità delle scelte checompetono all’individuo. E proprio sotto questa veste il liberalismo crociano hagiocato un ruolo non secondario nel muovere settori di intellettuali italiani all’op-posizione al Fascismo.

Storia e prassi rivoluzionaria

C’è poi – nel Novecento – una ripresa della riflessione sulla storia da parte difilosofi marxisti, in particolare di quelli che appartengono al cosiddetto “Marxismooccidentale”. Essi si sono spesso rifatti al modello hegeliano ed hanno respinto l’i-dea engelsiana di una “dialettica della natura”, che considerano una sorta di meta-fisica materialistica, riconoscendo come autentica interpretazione della concezio-ne marxiana quella imperniata sulla dialettica storica.

Già verso la fine dell’Ottocento Antonio Labriola (1843-1904) aveva affermatoche il Marxismo è un “umanismo” e una compiuta “filosofia della storia”. Esso hauna piena autonomia teorica, fornisce cioè una compiuta visione della realtà edell’uomo. Il Marxismo offre anche una concezione scientifica della società, dota-ta del rigore delle altre scienze. E afferma ciò in polemica con l’emergenteIdealismo filosofico e con il Positivismo.

Antonio Gramsci (1891-1937) riprende e sviluppa le tesi di Labriola. Per lui ilMarxismo è – essenzialmente – una filosofia della prassi, cioè una teoria e unaconcezione del mondo legate all’azione, un modello di interpretazione dellarealtà strettamente connesso a un’idea e ad un’opera di trasformazione radicaledella società capitalistica. La dialettica si applica alla sola realtà storico-sociale,per evitare che il Marxismo cada in forme di metafisica materialistica. Lo stessotermine di “materialismo”, anche se unito all’aggettivo “storico”, gli appare porta-tore di tale significato metafisico. Per Gramsci, invece, è la “storicità” il termineportante, senza alcuna concessione ad altri significati inverificabili. L’accentoposto sulla prassi sottolinea il carattere umanistico dello Storicismo gramsciano, incui sono protagonisti non, come in Croce, lo Spirito, ma gli uomini reali, i loroconflitti e le loro contraddizioni.

La filosofia della prassi si connette strettamente all’Hegelismo, affermandosiesplicitamente come “una riforma e uno sviluppo dell’Hegelismo”. Però, pur con-dividendo, di Croce, lo Storicismo e la critica alla versione determinista del mate-rialismo storico, Gramsci rifiuta il carattere speculativo e metafisico del suoIdealismo.

Così compito della filosofia della prassi è recuperare la concretezza, comples-sità e ricchezza dello Storicismo depurandolo dagli “aromi speculativi” che essocontiene e trasformandolo in “puro umanesimo”, in teoria della storia e riflessio-ne sulla storia capaci di orientare e rendere consapevole la prassi trasformatricedella società.

György Lukács (1885-1971) in Storia e coscienza di classe critica non solo

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l’Idealismo, che privilegia la dimensione “spirituale” dei processi storici, maanche il materialismo. In particolare, critica la supremazia del fattore economicosulla dimensione soggettiva della dialettica storica. Egli, in tal modo, si contrap-pone al rigido determinismo economico che aveva finito col prelevare nei partitidella II Internazionale e che si era ispirato a una concezione evoluzionistica dellastoria, di chiaro stampo positivistico. Per Lukács, invece, ogni formazione econo-mico-sociale costituisce una totalità concreta di essere e coscienza, di soggetto eoggetto, cioè di struttura economica e di una molteplicità di forme di vita cultu-rale. Non vi è prevalenza del soggetto sull’oggetto, o dell’oggetto sul soggetto, maentrambi sono “momenti di uno stesso processo dialettico storico-reale”.

In altri termini, quando parla di rapporto fra soggetto e oggetto Lukács non pensaa un problema di tipo gnoseologico, bensì a una dialettica storica all’interno dirapporti sociali fondamentali, una dialettica che riguarda gli “attori”, i protagoni-sti della lotta di classe nella società capitalistica. Riguarda la produzione dellarealtà sociale e la sua riproduzione nella coscienza. Il soggetto di tale coscienza,per lui, non è l’individuo singolo, bensì una classe sociale e, nel caso della societàcapitalistica, è il proletariato, con la sua coscienza di classe e prassi critica e rivo-luzionaria.

Ernst Bloch (1885-1977) connette apertamente il Marxismo ad una visione dellastoria fondata sul principio speranza (è anche il titolo di una delle sue opere piùimportanti), cioè su una tensione di tipo “escatologico”, di rigenerazione radicaledell’umanità attraverso l’attuazione del comunismo. L’uomo vive proteso verso ilfuturo, verso un orizzonte di possibilità. Alla base della sua visione c’è, anche inquesto caso, un recupero della dialettica hegeliana ed un suo uso “aperto”, criti-co, volto a descrivere il carattere incompiuto della realtà, quindi l’inquietudine ela tensione continua verso il futuro che caratterizzano il pensiero e l’operareumano.

La realtà dell’uomo è mancanza, afferma Bloch riprendendo un temadell’Esistenzialismo. Ma una mancanza nella quale si afferma una disposizionepositiva, una coscienza della possibilità di realizzazione. Lo spirito dell’utopia èuna tensione produttiva delle coscienze che è volta a colmare quella carenza d’es-sere, quella mancanza. Essa esprime bisogni umani profondi ed è caratterizzatadall’entusiasmo, cioè da un’aspirazione al completamento e all’autorealizzazionedella natura umana identificata con la prospettiva del comunismo.

Tale prospettiva di rigenerazione non si inserisce, comunque, in una visione“lineare” del progresso storico dell’umanità, in una fatale marcia dell’umanitàverso il comunismo e la liberazione. Alla concezione evoluzionistica e lineare delprogresso e del tempo, Bloch contrappone, infatti, quella del tempo comemultiversum, cioè la concezione della discontinuità, della varietà delle tendenzee dei percorsi possibili, nessuno dei quali porta in sé il segno della certezza.

Critico nei confronti dello storicismo marxista (come di quello idealistico) è KarlRaimund Popper (1902-1994). Da un lato egli critica il suo organicismo (o olismo),cioè il fatto che l’individuo sia subordinato alla totalità sociale, ritenendo tale orga-nicismo non solo antiscientifico (perché le sue affermazioni sono infalsificabili, inquanto da un singolo evento storico non si può risalire a una presunta “totalità” chelo comprende), ma anche portatore di una visione totalitaria della società.Dall’altro sottolinea la cattiva metafisica che lo sottende, cioè l’idea che la storiaabbia un “senso” e che esistano ferree leggi che ne regolano l’andamento. Popperrespinge ogni provvidenzialismo e determinismo della storia, ogni idea che il cam-mino dell’umanità sia finalisticamente orientato da una prospettiva “ultima” e chesia possibile anticiparne e prevederne gli esiti: un’idea su cui poggiano le “previ-sioni” sul futuro storico e che per lui è antiscientifica, perché non falsificabile.

L’antistoricismo strutturalistico

Fortemente critico verso lo Storicismo è anche lo Strutturalismo. È un indirizzodi studi che, affermatosi inizialmente nella teoria linguistica, ha poi influito sunumerose altre discipline. Il criterio che lo ispira è quello che ogni aspetto dellarealtà, ogni fenomeno, debba essere studiato non in se stesso, isolatamente rispet-to ad altri, ma come elemento di una struttura, cioè a partire dalle funzioni chesvolge all’interno di un sistema coerente di elementi (di una struttura, appunto).Lo Storicismo viene criticato e rimosso, accusato di provvidenzialismo e teleo-

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logismo. La realtà viene considerata come disposta a vari livelli, ciascuno dei qualidotato di regole interne di coerenza formale.

Ogni evento ed aspetto di una cultura va studiato in riferimento alla struttura dicui è parte e non in riferimento alla sua evoluzione, afferma ad esempio ClaudeLévi-Strauss (1908). Lo Strutturalismo, inoltre, influenza fortemente il Marxismo diLouis Althusser (1918-1990). Per questi lo Storicismo – come l’Umanesimo – èideologia, cioè un modo “capovolto” di rappresentarsi il proprio rapporto con lasocietà. Lo Storicismo è ideologico perché si rappresenta un divenire storico chenon esiste, come progresso sospinto da forze necessarie ma non verificabili, cometendenza lineare verso uno sbocco inevitabile, verso un fine ultimo di eman-cipazione umana. Al contrario, la storia della società si articola in più livelli strut-turali e secondo diversi ritmi di svolgimento, ciascuno dei quali risponde a regoleproprie. Ed è proprio la logica di funzionamento di tale insieme di livelli struttu-rali l’oggetto della scienza materialistica di Marx, non un’entità metafisica come“l’Uomo” o come “il fine ultimo” della lotta di classe.

L’ermeneutica e il problema della conoscenza storica

Anche nell’ermeneutica di Hans Georg Gadamer (1900) è centrale il problemadella conoscenza storica. Difatti l’interpretazione ha, come sua questione inelu-dibile, quella della distanza storica fra due poli della comunicazione, che sonocostituiti da un documento del passato e da un interpretante, o meglio, da un trian-golo costituito – oltre che dall’interpretante e dal testo oggetto di esegesi – anchedall’autore del testo stesso.

Vi è un circolo ermeneutico fra interpretante e interpretandum (o realtà da inter-pretare).

È inoltre essenziale tener conto della differenza che esiste sempre fra soggetto eoggetto dell’interpretazione. Un testo, un documento storico, dal momento che èstato prodotto, ha una sua vita autonoma. Determina effetti nuovi e inattesi nellesituazioni in cui, via via, viene a trovarsi. E subisce, a sua volta, una retroazioneda parte delle situazioni stesse, cioè delle nuove prospettive interpretative che lastoricità delle condizioni determina.

L’interpretazione si costituisce a partire dalla coscienza della determinazione sto-rica sia del testo che si vuole interpretare sia dell’interprete che si accinge a quelcompito. Anche l’interprete “appartiene”, difatti, alla storia. La sua esperienza stori-ca è condizionata dalla tradizione. I punti di vista attraverso cui la realtà viene inter-pretata e arricchita di significato si costituiscono tutti nella dimensione di una “tra-dizione” che determina le possibilità stesse di attuazione di quelle interpretazioni.

Le interpretazioni, infatti, sono sostenute da pre-giudizi, cioè da schemi interpre-tativi di cui il soggetto è dotato e che sono un portato della tradizione. In tal senso,la ragione non è mai pienamente “padrona di se stessa”, perché è sempre una ragio-ne “storica” e perché è sempre condizionata da pre-giudizi e da una tradizione.

Vi sono pregiudizi che favoriscono e pregiudizi che ostacolano una compren-sione. Occorre evitare che l’autorità si imponga al giudizio della ragione, comeavevano temuto e denunciato gli Illuministi. Ma questi hanno sbagliato, sostieneGadamer, a contrapporre la ragione all’autorità. Così come hanno sbagliato iRomantici a contrapporre l’autorità alla ragione, i diritti della tradizione storica aquelli all’autodeterminazione e della libertà della ragione. In tal senso, secondoGadamer, pre-giudizio e tradizione non assumono affatto una valenza negativa,poiché la tradizione è il patrimonio di cui siamo dotati e che è espressione e pro-dotto della storicità dell’esistenza.

Ed è proprio sul legame stabilito fra ermeneutica e tradizione che Jürgen Habermas(1929) e Karl Otto Apel (1922) criticano Gadamer, pur affermando anch’essi – comeGadamer – l’idea di un recupero della prospettiva della “verità” e di una “fusione diorizzonti”, di una molteplicità di punti di vista attraverso il dialogo.

Essi ritengono necessario che quel rapporto con la tradizione presupponga unforte lavoro critico preliminare a ogni atto interpretivo. È la distanza storica delmoderno dalla tradizione a dover essere riconosciuta e affermata. Così come variconosciuta e affermata la critica della tradizione che è propria della modernità.Perché la tradizione è anche distorsione ideologica, quindi allontanamento dall’i-deale – sia pure posto come ideale etico-normativo – della verità.

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Fine del moderno?

Dalla fine del XIX e per tutto il XX secolo, è sembrato sempre più difficile ritro-vare un senso positivo nella vicenda umana e storica. A rendere più grave la crisidell’idea di progresso si sono incaricate due guerre mondiali, il terrore nucleare,la consapevolezza crescente dell’uso dissennato delle risorse naturali, gli effetticontraddittori o negativi delle scienze e della tecnica (o quelli vissuti come tali), ifallimenti o le delusioni delle vicende rivoluzionarie. Più di un pensatore non con-sidera la storia come storia di una soggettività umana che si realizza, né come pro-duzione di atti coscienti. Né, tantomeno, come storia della Totalità. Gli eventi sto-rici non sono collocabili in sequenze di progresso unilineare. In tal senso, nell’e-poca attuale si vede anche la fine del moderno, cioè di un’epoca ancorata allafiducia nel progresso continuo dell’umanità, che aveva a sua volta ripreso, laiciz-zandola, l’idea cristiana della salvezza. In tale “fine del moderno” si vede anchela fine di ogni filosofia della storia, cioè di ogni visione unitaria e compatta dellastoria, come se essa fosse dotata di senso. Non esiste la storia. Esistono le storie.

Qualcuno (ad esempio Fukuyama) ha persino parlato di fine della storia.Ma, più che di fine, si dovrebbe parlare di una fase nuova, nella quale si muo-

vono processi e tendenze non ancora pienamente espressi e quindi avvertibili.Fase d’ascolto, di attenzione a ciò che nella luce forte della metafisica della ragio-ne e della storia non era avvertito, o comunque risultava inintellegibile. Fase diapertura e comunicazione alle culture altre, di una visione più tollerante e pacifi-ca della convivenza umana.

Agli uomini si richiede di agire con attenzione e responsabilità verso le genera-zioni future facendo in modo che (come ha scritto Hans Jonas, 1903-1993,) “glieffetti delle azioni umane siano compatibili con un’autentica vita sulla Terra”.

Tra timori, incertezze e angosce, forse il secolo XX e il millennio non si chiudo-no senza una qualche fiducia nel millennio a venire.

Francesco Somaini, Racconto nella notte, 1962. Proprietà dell’artista.

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FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

Educazione, pedagogia, scienze dell’educazione

La filosofia dell’educazione si occupa dei problemi relativi alla formazione dell’uomo, dei princìpiche dovrebbero regolare la trasmissione di conoscenze, linguaggi, stili di vita e valori da una gene-razione all’altra.

Le società trasmettono conoscenze, linguaggi, stili di vita, valori di generazione in generazione.Contenuti e modi di trasmissione mutano – talvolta radicalmente – da un periodo storico all’altro, da unPaese all’altro, spesso da una classe sociale all’altra, oppure (come mostra l’esperienza difficile dei rap-porti fra genitori e figli) da una generazione all’altra.

■ Per secoli lo spazio della riflessione sull’educazione è stato occupato dalla pedagogia, che ha oscil-lato tra arte pratica, riflessione sulla pratica educativa e teoria o concezione organica dell’educazione.Per secoli, comunque, l’educazione non si è configurata come sapere autonomo.

Perché questo accada bisogna aspettare l’età moderna e l’opera di Comenio. Comunque sia stata inte-sa, la pedagogia ha gravitato nell’orbita della filosofia e da più autori essa è stata considerata parte inte-grante della loro concezione filosofica generale mentre da altri un sapere filosofico distinto o autonomo.

■ Nel corso del XX secolo, soprattutto nella seconda parte del secolo, lo spazio della pedagogia èvenuto progressivamente restringendosi a vantaggio delle scienze dell’educazione, anzi oggi si parla discienze della formazione. È sembrato che questo processo potesse concludersi con la “morte dellapedagogia” e la sua definitiva sostituzione con le scienze dell’educazione; vi è stato chi lo ha teorizza-to e lo ha auspicato, prefigurando anche per la pedagogia un processo analogo a quello che avevariguardato altre parti della filosofia. Come la filosofia si è ritirata o è stata costretta a ritirarsi da moltisettori, ad esempio dall’astronomia, dalla fisica, dalla psicologia, occupati poi dalla scienza, tocche-rebbe o sarebbe toccato anche alla pedagogia morire come filosofia per lasciare spazio alle scienzedell’educazione.

■ Coloro che rifiutano questa prospettiva non intendono certo negare l’importanza crescente dellescienze dell’educazione (dalla psicologia dell’educazione, alla docimologia, all’antropologia dell’edu-cazione, ecc.), aspetto essenziale di un approccio scientifico ai problemi dell’educazione, ma ritengo-no che il loro sviluppo non esaurisca uno spazio di problemi non risolvibili da quelle scienze e d’altraparte ineludibili. Tali problemi possono essere formulati o organizzati diversamente e in contesti filoso-fici differenti. Alcuni diranno che è necessario avere in mente un’idea dell’uomo e del suo destino, altrifaranno riferimento a tre discipline pedagogiche: antropologia, teleologia, metodologia, cioè la cono-scenza dell’uomo com’è, dei fini che deve – o dovrebbe – porsi, e, dunque, l’uomo come dovrebbeessere e, infine, i modi per passare dall’uomo com’è all’uomo come dovrebbe essere. Oppure altri leridurrano a due: psicologia ed etica, l’una che si occupa dei fini dell’educazione l’altra dei mezzi. Inquesta prospettiva di irriducibilità della pedagogia alle scienze dell’educazione, il problema divienequello del rapporto tra pedagogia e scienze dell’educazione, che si configurerebbe come variante delrapporto complesso e spesso conflittuale tra filosofia e scienza.

SIGNIFICATO E PROBLEMI1

272FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

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Domande e problemiTra le molte questioni che la riflessione sull’educazione si è posta se ne possono enucleare alcune

delle più rilevanti.

• Quali sono i fini dell’educazione? sono storici o trascendenti/permanenti? li stabilisce la società?coincidono con i fini dell’uomo e sono strettamente legati con il significato della sua vita?

• Ogni uomo è educabile? Che cosa conta di più nell’educazione, la dotazione innata di ogni essereumano o l’ambiente?

• Chi educa? e chi educherà gli educatori? Su quali basi si fonda, quali caratteristiche ha, su qualipiani avviene la comunicazione educativa tra maestro e allievo? e che rapporto si deve stabilire traautorità e libertà, nel rapporto pedagogico?

• Quali sono i mezzi più idonei ed efficaci per raggiungere le mete dell’educazione? C’è un solometodo o i metodi sono molteplici?

273FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

Arturo Martini:Chiaro di luna, 1931.Anversa, OpenAir Museumof SculptureMiddelheim.

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274FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

La paidéia arcaica

Nella Grecia della pólis, educazione è paidéia, cioè formazione dell’uomo aivalori e all’ordine sociale esistente (in greco páis, paidós, significa “fanciullo” epaidéia “crescita”, “formazione” del fanciullo). La paidéia è kalokagathía, educa-zione alla “bellezza” e alla “bontà”. Buono (agathós) è colui che riconosce erispetta i valori di forza ed eroismo, bello (kalós) chi risponde ai canoni della bel-lezza fisica, di un corpo armonico e vigoroso come quello di un guerriero o di unatleta olimpico.

Nell’orizzonte arcaico – oltre alla ginnastica, ritenuta indispensabile per lo svi-luppo del corpo – la fonte essenziale della paidéia è la poesia, che svolge la fun-zione di conservazione della memoria collettiva, cioè serve per trasmettere ilpatrimonio culturale e religioso della tradizione e i suoi modelli di valore. Così, ilpoeta è un erudito e un educatore, oltre che un “intrattenitore” di coloro cheascoltano i suoi canti.

Fonti della paidéia greca, dalle origini arcaiche all’età classica, sono soprattuttol’Iliade e l’Odissea, cioè i poemi attribuiti ad Omero (VIII sec. ca. a.C.), nonché leOpere e i Giorni e la Teogonia di Esiodo (VIII sec. a.C.).

Il poeta – nell’età arcaica – ammaestra. E ammaestra – essenzialmente – attra-verso i miti, cioè racconti delle origini del mondo e degli dei, narrazioni di gestacompiute da divinità, semi-dei ed eroi, che hanno costituito delle vere e proprieinterpretazioni del mondo.

Al centro del sistema di valori dell’educazione greca è l’areté, la virtù. Essa nellatradizione eroica e cavalleresca è innata, cioè predicato della nobiltà e patrimo-nio ereditario della stirpe. Come tale, dai ceti aristocratici e dagli intellettuali chene hanno espresso le convinzioni, è stata ritenuta non trasmissibile mediante edu-cazione. Solo con lo sviluppo della pólis si affermeranno nuovi valori, interessi ebisogni e si riterrà possibile che l’educazione generi l’areté.

La pólis e l’insegnabilità della virtù

Con lo sviluppo della pólis si realizza una nuova organizzazione della cultura. La diffusione della cultura determina effetti rivoluzionari anche nell’educazione.

Si aprono scuole dell’alfabeto. Si redigono nuove opere in prosa e si trascrivono leopere fondamentali tramandate dalla cultura orale: è il caso dei poemi omericiriordinati su iniziativa di Pisistrato (VI se. a.C.). Le verità consegnate alla scritturadivengono – almeno potenzialmente – accessibili a tutti, in particolare ai ceti medidella pólis.

Con l’avvento della democrazia si allargano notevolmente gli spazi di libertà egli impegni di partecipazione diretta del cittadino al funzionamento delle istitu-zioni. Acquista un nuovo peso la parola (il lógos), come capacità di argomentaree di confrontarsi davanti al pubblico, come forza di persuasione, quindi comecapacità di usare in modo controllato e consapevole il linguaggio.

Essenziale – nel V secolo – è il ruolo svolto in Atene dai Sofisti, cioè da “pro-fessori itineranti”, intellettuali che svolgono un’attività retribuita di insegnamento.Essi mietono grande successo fra i giovani di famiglie abbienti, desiderosi diacquisire competenze più estese e capacità più elevate di comunicazione, dive-nute ora indispensabili. I Sofisti rispondono alla crescente domanda di formazio-ne di quadri tecnici e dirigenti per il governo di una società complessa. Per svol-gere con successo le attività e gli impegni che essa richiede occorrono una cultu-ra più moderna e nuove capacità, in particolare capacità di parlare in una plura-lità di situazioni diverse. Le sole abilità elementari del leggere e dello scrivere odel ricordare e citare i versi di Omero o di Esiodo non sono più sufficienti. Piùcomplesse e varie del passato, infatti, sono le occasioni in cui occorre prendere laparola, più impegnativi i problemi che si debbono affrontare. Da qui, oltre anuove conoscenze scientifiche, letterarie, artistiche e giuridico-politiche, sorge la

IL MONDO ANTICO2

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necessità di una più elevata padronanza del linguaggio e, di conseguenza, lanecessità di apprendere l’arte della retorica, cioè quell’insieme di conoscenze etecniche del discorso adottabili a seconda delle situazioni, degli interlocutori edegli obiettivi. Di essa è maestro Gorgia (nato nel 485 ca. a.C.).

Tutto ciò presuppone che – contro le tesi degli áristoi – le conoscenze siano tra-smissibili e, soprattutto, che l’areté sia insegnabile (Protagora, nato nel 486 ca.a.C.). La “virtù”, che per i Sofisti è virtù politica, non è più patrimonio esclusivo diuna parte della società, ma è una possibilità data a tutti gli uomini. Essa consistenel possesso di determinate capacità, in particolare delle capacità di parlare, per-suadere il prossimo, affermarsi come individui nella comunità, nelle assemblee.Compito dell’educazione è quindi quello di favorire il passaggio da un tipo dicondotta ad un’altra considerata migliore, così come il medico favorisce – attra-verso le medicine che prescrive – il passaggio da uno stato di malattia ad uno disalute.

La paidéia socratica

Contro l’uso spregiudicato che i Sofisti fanno, spesso, della retorica e del pote-re “incantatore” della parola, si alza la critica di Socrate prima e poi del discepo-lo Platone.

Socrate (470/469 – 399 a.C.) dichiara di non essere un maestro, di non essereun “sophistós”, un sapientissimo, cioè il portatore di qualche “verità” da trasmet-tere, ma di essere solo la coscienza critica di Atene. Svolge la sua attività soprat-tutto nelle vie e nei centri della vita pubblica della città. Egli stesso si descrivecome un tafàno posto ai fianchi della città, con il compito di stimolare, ogni gior-no, dovunque, uno per uno, gli Ateniesi, per persuaderli a seguire la virtù. Socrateriprende, perciò in modo nuovo, la tradizione dell’adulto educatore dei giovani,propria in precedenza di Atene e di altre póleis.

Anch’egli è maestro di discorsi (lógoi). Ma, a differenza dei Sofisti, Socrate nonli considera un semplice mezzo di persuasione.

Essi sono strumento di dialogo e comunicazione fra persone intente a cercare –insieme – la verità su una determinata questione, e non un’opinione soggettiva emutevole su di essa.

Il suo discorso è breve. Non è ricco di artifici retorici. Socrate insegna a dialo-gare, quindi non solo a parlare, ma anche ad ascoltare, a rispondere e a porredomande, senza mai eludere le questioni sul tappeto. L’interlocutore è un sogget-to attivo, da impegnare in una ricerca comune e non da “conquistare” – con tuttii mezzi – alle proprie tesi.

Il metodo educativo di Socrate si articola in due momenti essenziali, uno criti-co e negativo, l’altro positivo: l’ironia e la maieutica.

Con l’ironia chi interroga si pone come colui che “non sa”, che perciò chiede acoloro che credono di sapere di dire quale sia la “verità” su una certa questione.Interrogando, egli smaschera quella presunzione di verità, dimostra che essa èsolo frutto di un sapere superficiale e di un atteggiamento acritico e dogmatico e,così, fa nascere nell’interlocutore dubbi e inquietudini tali da spingerlo alla ricer-ca. Non l’affermazione presuntuosa della propria competenza e del proprio sape-re, ma il riconoscimento della propria ignoranza, cioè il sapere di non sapere,costituisce il passaggio obbligato per ogni apprendimento della verità.

Al momento dell’ironia segue quello della maieutica, cioè di un’arte simile aquella delle levatrici, che fa partorire “la verità” e opera sugli uomini e sulle“anime partorienti”, non sulle donne e sui corpi.

L’arte socratica non “trasmette” il sapere, ma si limita a comunicare lo stimoloper la ricerca, aiutando ciascuno a generare, cioè a far nascere da sé la verità. Èquindi un metodo della ricerca in comune, una tecnica aperta ma rigorosa di con-versazione fra individui intenzionati a trovare – insieme – la “verità”. Dialogando,il filosofo colloca nell’anima del proprio interlocutore alcuni semi – cioè unacapacità di interrogarsi e di riflettere – che germoglieranno se il terreno è favore-vole e se sarà sempre adeguatamente curato.

Il motto di Socrate è quello della scritta sul frontone del tempio di Delfi: cono-sci te stesso. Egli sollecita gli allievi a condurre la ricerca da se stessi, gli uni congli altri, perché non c’è nessuno capace di farlo meglio di chi ne è l’oggetto.

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276FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

Ambiente educativo ed educazione nella società giusta

Il progetto filosofico di Platone (428 ca. – 348 ca. a.C.) ha una valenza – allostesso tempo – speculativa e politico-educativa.

La filosofia è ricerca di ciò che ci fa vivere bene ed è insegnamento di vita.Filosofare è educare gli uomini a ben vivere e a ben pensare. Non è certo quelloche fanno i Sofisti, che sono dei maestri di tecniche del discorso e non di verità.Con la persuasione retorica delle suggestioni e delle opinioni non producono unaconoscenza vera.

Per Platone, invece, la comunicazione linguistica è psigagogia, “guida d’ani-me” verso la filosofia. Il fine è la verità e la retorica è uno strumento al serviziodi questa. Solo l’arte della dialettica è capace di educare, rendendo migliori colo-ro ai quali si rivolge, in quanto sa “piantare e seminare parole con scientifica con-sapevolezza”.

La ricerca della verità è anche “passione” e “desiderio” della verità, quindi èeros. L’eros filosofico si presenta come un vero e proprio rito di iniziazione.L’iniziatore – il maestro – conduce gradualmente il giovane ad amare la bellezza,prima di un solo corpo, poi di tutti i corpi, dell’anima, delle istituzioni e dellescienze e, infine, lo porta ad amare e a contemplare il bello in sé, fonte di ognialtra bellezza. Eros cerca, ma non possiede l’oggetto del proprio desiderio: così ilfilosofo non sa, ma – come diceva Socrate – sa di non sapere e cerca incessante-mente tale sapere.

Nel modello ideale di Stato, che agli occhi di Platone costituisce l’espressioneautentica della giustizia, l’educazione svolge una funzione essenziale.

Platone elabora un progetto educativo ampio, differenziato in rapporto all’età eai ruoli sociali e rivolto alle donne come agli uomini.

Tale progetto prevede, anzitutto, la realizzazione di un ambiente educativo ade-guato, cioè di una società “educante” (poiché l’educazione è “in ogni dove”) e, insecondo luogo, l’affidamento di compiti formativi a un docente sperimentato.

L’attività educativa è un compito che spetta allo Stato, poiché da essa dipendeche i cittadini siano in grado di assumere e di svolgere i compiti propri a ciascu-no. Sono soprattutto i difensori e i governanti ad essere soggetti a un iter formati-vo lungo e impegnativo.

A tale opera educativa contribuiscono, oltre alla musica e alla ginnastica, anchel’aritmetica, la geometria e l’astronomia e, per i filosofi, la filosofia, come scienzasuprema.

Vanno invece eliminate le suggestioni e le distorsioni della verità presentate daipoeti. Persino l’epica omerica e la poesia esiodea sono considerate diseducative,in quanto forniscono del modelli negativi di condotta e potrebbero, quindi, gene-rare cattive abitudini nei futuri custodi dello Stato.

Malgrado tale critica, Platone ritiene che anche la poesia possa svolgere unafunzione essenziale nell’educazione, purché opportunamente emendata, cioècensurata.

Scholé e conoscenza teorica

Aristotele (383-322 a.C.), al contrario, attribuisce una funzione educativa all’ar-te, in primo luogo alla tragedia. Essa, infatti, coinvolge al massimo lo spettatore,intensificandone le passioni e poi sublimandole nella catarsi. Nella gerarchia delsapere Aristotele ha messo al primo posto le scienze teoretiche, che sono disinte-ressate e hanno il loro fine in se stesse, rispetto a quelle pratiche, che si prefiggo-no la conoscenza o il raggiungimento di un fine esterno immediato, pratico.Anche nell’educazione egli distingue ciò che si fa per conoscenza da ciò che si faperché utile: e pone al culmine degli studi la scholé (letteralmente, l’ozio), rispet-to all’attività, alla formazione del carattere e delle buone abitudini e all’ac-quisizione di abilità nel fare, nel produrre.

Nella sua scuola filosofica e scientifica, il Liceo, Aristotele realizza la più gran-de raccolta di materiale di documentazione mai effettuata fino a quel momento eorganizza ricerche in una molteplicità di campi scientifici.

Dopo la sua morte, gli succederà Teofrasto (IV-III secolo a.C.), che orienterà illavoro della scuola in senso più marcatamente scientifico.

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Educazione e ricerca della saggezza

Nell’età ellenistico-romana, pur cambiando radicalmente il contesto politico-sociale, i modelli educativi della paidéia greca trovano un’occasione di diffusionesu vasta scala. Ad Alessandria vengono fondati la Biblioteca e il Museo, cioè i piùimportanti centri di documentazione e di studio dell’antichità.

Come la filosofia, anche l’educazione assume una dimensione etica, diventaricerca di un’“arte del vivere”. Suo obiettivo è la ricerca della saggezza. Saggio ècolui che diviene padrone di se stesso, conquista cioè una sua autonomia (autar-chía), riesce ad essere interiormente libero in un mondo in cui solo pochi lo sono.

Per Epicuro (341ca. – 270 ca. a.C.) la filosofia è soprattutto ricerca della felicitàe l’azione educativa e filosofica si realizza mediante una specie di pratica tera-peutica, che è ritenuta capace di restituire agli individui la salute psichica e unequilibrio interiore. Essa è un Tetrafarmaco (cioè un “quadruplice farmaco”) cheha l’intento sia di liberare gli uomini dal timore degli dei e della morte, sia di indi-care quale piacere debba essere perseguito e dimostrare che il dolore è breve eprovvisorio.

Per lo Stoicismo, essendo la filosofia esercizio della ragione che mira a raggiun-gere la sapienza, cioè la conoscenza delle cose umane e divine, e la virtù, suocompito principale è lottare contro la “malattia” delle passioni. Essa è una vera epropria terapia delle anime, a cui deve accompagnarsi una profilassi, cioè un’a-zione preventiva, da svolgere organizzando l’esistenza in modo tale da rendere ilsaggio capace di resistere a ogni attacco delle passioni.

Nella Repubblica romana, la rapidità dei processi di conquista suggerisce ai cetidirigenti di rivedere alcuni aspetti della loro antica tradizione culturale e educati-va. Malgrado le resistenze degli ambienti più conservatori (di cui è massimo espo-nente Catone, 234-149 a.C.), alcuni circoli di politici e intellettuali “di avanguar-dia” (ad esempio quello degli Scipioni) si impegnano a “sprovincializzare” la cul-tura romana, attingendo al patrimonio culturale della civiltà ellenica.

Si aprono scuole greche, tenute da schiavi liberati, che allarmano i conservato-ri ma ottengono un crescente successo, favorendo una diffusione della culturagreca nei vastissimi territori che Roma viene conquistando. Progressivamente,comunque, verrà a formarsi una tradizione culturale romana autonoma da quellagreca. Con Cesare e poi con Augusto si istituiscono scuole pubbliche; scuole sta-tali per l’insegnamento della retorica verranno istituite da Vespasiano e Adriano.

Il Maestro interiore e il progetto di una cultura cristiana

Con la crisi dell’impero e la diffusione del Cristianesimo entrano in crisi anchele concezioni educative tradizionali.

Ma è l’educazione che si vede assegnato un compito totalmente nuovo, quellodi tendere a realizzare un ideale di perfezione, che è Dio stesso. “Siate perfetticome il Padre vostro che è nei cieli”. Ma può l’uomo con i suoi soli mezzi realiz-zare questo fine soprannaturale? No, egli ha bisogno della grazia. Comunque,l’educazione è un “viaggio” impegnativo e difficile, che è ascesi e sforzo continuodi miglioramento etico e spirituale. Il valore fondamentale dell’educazione cri-stiana non è, come per la cultura greca, la conoscenza, ma la carità, l’amore.L’educazione cristiana implica l’azione.

IL MEDIOEVO3

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278FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

Nelle comunità cristiane ci si chiede se si può essere partecipi e fedeli dellanuova religione e studiare e formarsi, allo stesso tempo, sui testi della grande cul-tura classica e pagana. Se Giustino (100 ca. – 165 ca. d.C.) risponde positiva-mente, individuando in alcune grandi scuole di pensiero della classicità un’anti-cipazione del lógos cristiano, Tertulliano invece nega quella possibilità, vedendo,ad esempio, nello studio degli dei pagani un ritorno dell’idolatria. In generale, laPatristica greca è più aperta e favorevole all’uso della filosofia per l’elaborazionedottrinale, mentre quella latina è più gelosa dell’autonomia spirituale del Cri-stianesimo.

Grande importanza – anche nel campo dell’educazione – ha la linea suggeritada Agostino (354-430). Egli respinge la cultura pagana del suo tempo perchécaratterizzata da formalismo, estetismo e erudizione ed è accusata di anteporre lavanità dell’eloquenza alla serietà della vita cristiana.

Preoccupazione principale di una cultura cristiana devono essere le cose, i pro-blemi veri, non le parole; il vero sapere, la scienza cristiana, non l’erudizione,nella quale l’uomo, invece di rivolgersi a Dio, si avvilisce in conoscenze di natu-ra inferiore in cui si degrada.

Agostino afferma, quindi, i valori di una cultura nuova, di un nuovo progetto dicultura cristiana, nella quale hanno comunque ampio posto quelle filosofie –come il Platonismo e il Neoplatonismo – che hanno guardato alla trascendenza,hanno posto a loro fondamento l’ascesa dell’anima verso il “divino”, principio diverità e fonte di beatitudine.

L’educazione per Agostino è una questione interna alla filosofia come tale, ne èuna specificazione. La filosofia è dialogo interiore dell’anima e di Dio, il suo scopoè la conoscenza di Dio, cioè la sapienza. Scopo dell’educazione è concorrere allaformazione dell’uomo alla sapienza e alla virtù. Il punto di partenza è quello del“conosci te stesso” socratico, ma il senso e la mèta di questo viaggio sono diversida quelli del filosofo greco. È nell’anima che abita la verità, ma la fonte di questaè al di là dell’anima: è Dio. È Dio che illumina la mente e permette di cogliere leIdee divine, cioè i modelli in base ai quali Dio stesso ha creato ogni cosa. Dunque,senza Dio non potremmo intendere e l’intelletto umano sarebbe immerso nelletenebre. Dio è il maestro interiore. Egli solo comunica verità. Nella comunicazio-ne educativa non è il “maestro” umano che insegna ma Cristo, che intus docet, cheinsegna nell’interiorità dello scolaro. Le parole dell’insegnante non fanno altro chestimolare e suscitare la ricerca della verità nello scolaro. Questa tesi, come altre diAgostino, condizionerà largamente il pensiero educativo medievale.

Scholae e Università

Nel periodo che va dal VII al X secolo d.C., il grande merito della cultura è quel-lo di aver salvato, almeno in parte, molti testi di autori classici greci e latini.

Si determina una nuova sistemazione delle discipline di insegnamento, quelledel Settenario, cioè delle sette arti liberali del Trivio e del Quadrivio (grammati-ca, retorica e dialettica; aritmetica, musica, geometria e astronomia), che Alcuinoe Carlo Magno prescrivono di insegnare come propedeutiche agli studi teologici.Questi ultimi si basano invece sulle Sacre Scritture, su atti e decreti conciliari esulle principali opere dei Padri della Chiesa, in primo luogo di Agostino.

L’educazione è completamente permeata dalla religiosità cristiana. La stessafilosofia dell’Occidente – nell’età del Medioevo – sarà una Scolastica, cioè unafilosofia delle scuole, che sono scuole religiose. In esse lo scopo dello studio edella meditazione di monaci, chierici e dottori è di cercare di comprendere ilsenso ultimo della verità rivelata, per quanto ciò sia possibile all’uomo.

Il metodo d’insegnamento nelle scuole si lega all’idea che la verità sia già data.L’auctoritas religiosa e culturale della tradizione ecclesiastica è indiscussa: è quel-la delle Sacre Scritture, dei decreti della Chiesa e delle interpretazioni che delleScritture hanno dato i Padri della Chiesa.

La lezione è un legere, un leggere a voce alta le opere che permettono di acce-dere alla Verità, al significato nascosto nelle Scritture, ed è un audire, cioè unascoltare e meditare, memorizzare e acquisire quei contenuti di verità.

Il monaco irlandese Alcuino (735-804), sotto il regno di Carlo Magno, istituiscela Schola Palatina, un centro culturale e formativo in cui operano alcuni fra i mag-

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giori intellettuali dell’epoca, con l’ambizione dichiarata di fare di Aquisgrana, lacapitale del Sacro Romano Impero, una “Nuova Atene”.

Con l’XI secolo, in Occidente si ha un grande sviluppo delle Scuole cattedrali o“episcopali”, situate nelle sedi vescovili delle città. Vi si forma un clero più colto,più vicino alle esperienze e alle sensibilità maturate fra i nuovi ceti produttiviurbani.

Del tutto nuovo è il costituirsi di scuole di liberi maestri, la più famosa dellequali è quella di Abelardo (1079-1142). Questi liberi maestri insegnano sia a chie-rici che a laici. Dalle loro scuole si svilupperanno le Università.

Per seguire le lezioni di un dotto famoso confluiscono in città numerosi chieri-ci. Questi clerici vagantes o goliardi sono veri e propri nomadi della cultura, tipi-co prodotto di un’epoca di mobilità geografica e sociale. È dalla loro associazio-ne in un’universitas, cioè in una corporazione simile a quelle delle arti e mestierie che si rivolge a tutti (universi) gli scolari, che si formeranno le Università, sem-pre, comunque, attraverso una licentia docendi concessa dalla Chiesa.

Le università forniscono una preparazione culturale capace di garantire l’eserci-zio di professioni (quella medica o di giurista) o un’ascesa ai gradi più elevati dellecarriere ecclesiastica e amministrativa. Le discipline portanti sono le arti liberali,la medicina, la giurisprudenza e la teologia. Il raggio di azione e di influenza delleuniversità si estende a tutta la cristianità. Le due più importanti sorgono a Parigi ea Oxford. In esse si svolgono lotte per la supremazia dapprima fra maestri “seco-lari” (religiosi non inseriti in alcun ordine) e maestri degli ordini mendicanti e suc-cessivamente fra Francescani e Domenicani.

Nasce nel Basso Medioevo una nuova figura di intellettuale detto clericus, chie-rico, termine usato come sinonimo di intellettuale, perché a esercitare questa atti-vità erano originariamente ecclesiastici. Ma già dopo il Mille questa identificazio-ne di letterati e uomini di Chiesa non è più del tutto valida e si chiamano chieri-ci tutti coloro che appartengono all’apparato delle scuole.

L’intellettuale è magister, professor, cioè erudito, dotto. È un lavoratore specia-lizzato, un artigiano del sapere, il cui mestiere è di studiare, pensare e trasmette-re il proprio sapere mediante l’insegnamento.

In campo teologico e filosofico si viene elaborando il metodo della scolastica.La lectio delle scuole monastiche diviene commento di un testo, in particolaredelle Sacre Scritture e dei Libri Sententiarum di Pietro Lombardo (1095 ca. – 1160)(approvati ufficialmente dalla Chiesa e costituiti da una specie di “prontuario”, diraccolta di schemi di discussione e di risposte su problemi di alto valore specula-tivo) e, nelle facoltà delle Arti, anche commento di un’opera di Aristotele. La lec-tio viene ora integrata con il metodo della quaestio e della disputatio: primadomande e risposte, poi la disputa, consistente nell’esaminare, su ogni problema,tesi contrapposte e argomenti pro o contro una data tesi. Dal commento nasce ladiscussione: al centro viene posta la ricerca della verità. Il maestro non è solo unesegeta dei testi, ma un pensatore che cerca e trova soluzioni. Egli affronta, dun-que, delle Quaestiones, cioè delle discussioni su un tema stabilito e risponde atutte le obiezioni emerse durante la discussione.

Tra gli intellettuali del tempo emerge particolarmente Tommaso d’Aquino(1221/1227 – 1274), il maggior esponente dell’Aristotelismo cristiano. Pur nelquadro di questo indirizzo filosofico, l’educazione ha una sua relativa autonomia.Per Tommaso ogni uomo è educabile, in quanto essere razionale e sociale; com-pito dell’educazione è quello di completare l’opera della generazione, condu-cendo il giovane fino allo stato perfetto dell’uomo, cioè alla virtù. Il docente pro-duce la scienza nel discente, determinando il passaggio dalla potenza all’atto, gui-dandolo gradualmente ad acquisire la conoscenza di ciò che ignorava. A diffe-renza di Agostino, quindi, il maestro umano ha una funzione positiva importante,essenziale nel processo educativo.

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280FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

L’ETÀ MODERNA4

Gli antichi come paradigma educativo

L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento segna un nuovo corso anche nelcampo dell’educazione.

Fioriscono le grandi scuole umanistiche: quelle di Guarino Veronese (1374-1460; la scuola-convitto di Ferrara) e di Vittorino da Feltre (1373/1378 – 1446; laCasa Giocosa di Mantova). Sono scuole caratterizzate da un’attenzione nuova perl’indole e la natura degli allievi. Le attività vi si svolgono alternando la letturadiretta dei testi classici (anche in lingua greca) e lo studio delle arti liberali a eser-cizi fisici e, soprattutto, ad attività all’aria aperta, a giochi e svaghi. Comunque,continua ad imporsi, come nella cultura classica, il primato della cultura disinte-ressata, nucleo portante degli studi.

In queste scuole si afferma l’ideale educativo umanistico, volto a realizzare laformazione dell’uomo nella sua completezza, cioè uno sviluppo armonico ditutte le capacità – intellettive, etiche, estetiche e fisiche – dell’individuo. Si ritieneche questo uomo possa essere formato facendo ricorso alla cultura classica.

Agli occhi degli umanisti, la cultura della classicità, da loro riscoperta e restitui-ta al suo autentico significato, viene a costituire come un paradigma, un quadroideale di riferimento.

Avendo orrore per ciò che è “barbaro” e rozzo, la pedagogia rinascimentalevuole ingentilire gli animi di chi viene educato mediante il contatto con la raffi-nata civiltà classica. In qualche modo questo ideale anima anche la figura delCortegiano di Baldessar Castiglione (1478-1529), opera a cui guarderanno altritrattatisti moderni, come esempio di ideale formativo.

A livello europeo il Rinascimento viene ad assumere una sempre più marcataconnotazione religiosa, ponendosi l’obiettivo di recuperare l’autentico spirito cri-stiano. La ricerca dei principali umanisti europei (Erasmo, Lefèvre d’Etaples,Tommaso Moro, ecc.) tende a stabilire una sintesi equilibrata tra cultura classica erivelazione cristiana.

L’educazione attraverso il gran libro della natura

Piena espressione dei nuovi orientamenti educativi è l’opera di FrançoisRabelais (1494-1553), che nel romanzo Gargantua e Pantagruel ripudia l’educa-zione medievale, con il suo studio mnemonico e astratto, che fa trascurare le coseche più contano nella vita. Tale rifiuto si traduce in una purga, con cui l’umanistaPonocrate “libera” il corpo e la mente di Gargantua, cioè tutto l’ingombro dellavecchia cultura. Al centro della nuova educazione è la cura del corpo e dellamente, l’alternanza degli studi con libere attività e giochi. Gargantua conosce gliautori antichi e ne discute. Ma studia ed osserva il “gran libro della natura” e visi-ta le botteghe artigiane, apprendendovi le cognizioni essenziali delle varie attivitàproduttive.

Anche Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) critica una cultura che siapura erudizione e puro esercizio di memoria e l’abuso dei libri e si dichiara a favo-re di un metodo educativo che segua lo sviluppo del bambino e lo faccia cresce-re con l’uso della sua facoltà di giudizio, il confronto con gli altri ed anche con lostudio di alcune grandi opere e figure del passato.

Nell’Utopia di Tommaso Moro (1478-1535) il lavoro è un’attività e un valorefondamentale. A nessuno viene consentito l’ozio, ma ciascuno ha molto tempolibero, da impiegare anche per l’educazione, seguendo le inclinazioni individua-li. L’educazione non è più per pochi, come avveniva ancora nella pedagogia enelle scuole umanistiche e rinascimentali, ma ciascuno viene istruito nelle lette-re, nelle scienze e nella conoscenza delle tecniche fondamentali.

In un’altra utopia concepita molto tempo dopo, la Città del Sole di TommasoCampanella (1568-1639), si accentua la critica dell’educazione scolastica tradi-zionale; si afferma, invece, l’idea che l’apprendimento debba essere effettuato“senza fastido, giocando”, imparando le nozioni fondamentali e la lingua attra-

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verso la loro raffigurazione sulle mura della città, poi studiando tutte le scienze eapplicandosi nelle attività lavorative, poiché (a differenza del senso comune del-l’epoca) è considerato “più nobile” colui che impara il maggior numero di attivitàproduttive e meglio le realizza.

L’educazione nella Riforma protestante e nella Riforma cattolica

Profonde sono le conseguenze della Riforma sul piano educativo: a cominciaredai processi di alfabetizzazione favoriti dal principio luterano del libero esamedelle Scritture, del rapporto diretto fra il fedele e il sacro testo, accostandolo all’e-sigenza tipicamente umanistica di un ritorno ad fontes, alle fonti. L’idea di un taleritorno al Cristianesimo delle origini si trasforma in fatto di massa.

Un ruolo importante viene svolto da Filippo Melantone (1497-1560) autoredella Confessio Augustana e di una riforma degli studi superiori per la quale saràsoprannominato praeceptor Germaniae.

La Controriforma o Riforma cattolica è caratterizzata, fra l’altro, da processi diauto-riforma della Chiesa che sono particolarmente evidenti sul piano educativo.Si riorganizzano le scuole cattedrali e dei monasteri, si istituiscono nuovi ordiniper l’istruzione dei laici e seminari per la formazione dei sacerdoti. L’ordine gesui-tico istituisce nuovi collegi e scuole destinati a laici e si dedica in gran parte allaformazione dei ceti dirigenti. Il modello pedagogico è descritto dalla RatioStudiorum, che regolamenta l’intero sistema degli studi e si sforza di conciliareuna formazione religiosa e dottrinale basata sugli indirizzi del Concilio di Trentocon una formazione culturale di tipo umanistico.

Insegnare tutto a tutti

Nel ‘600 spicca una grande figura di educatore: Johannis Amos Komensky (italia-nizzato in Comenio 1592-1670), uno dei fondatori della moderna pedagogia.

A lui si rivolgono sovrani e governi di diversi Paesi, perché li aiuti a riformare isistemi scolastici. Pensa a una riforma generale dell’umanità, che coinvolga i treaspetti fondamentali della vita umana: l’educazione, la politica e la religione,quindi la scuola, lo Stato e la Chiesa. Ritiene indispensabile (come tutta la cultu-ra e la filosofia del secolo) una rielaborazione dell’enciclopedia del sapere.

A Comenio si deve una concezione che oggi potremmo definire di educazionepermanente: cioè di una formazione che accompagni tutta la vita dell’uomo, dal-l’utero materno fino alla morte. “Tutta la vita è scuola”, afferma.

Egli è inoltre convinto che l’educazione riguardi omnes, omnia, omnino: riguar-di cioè tutti gli uomini e le donne (perché ciascuno possa sviluppare i “semi” cheha in sé), investa tutto il sapere e sia, infine, completa.

Il suo programma educativo è enciclopedico e riguarda una pedagogia dellecose, non delle parole (Res, non verba). Comenio critica le scuole del tempo,accusate di utilizzare una pratica educativa “contro natura”. Essenziale, nell’edu-cazione, è il metodo che viene seguito. Questo deve tener conto delle caratteri-stiche dell’alunno, della sua età, e deve essere “a misura dell’allievo” ispirandosiad alcuni princìpi essenziali:

• non opprimere con un numero eccessivo di nozioni da imparare; • graduare i contenuti dell’insegnamento e la loro difficoltà secondo l’età degli allievi; • impostare la didattica sull’interesse, sul gioco e sull’insegnare dilettando; • andare dal facile al difficile, dal noto all’ignoto, dal concreto all’astratto; • privilegiare l’insegnamento collettivo rispetto a quello individuale. Uno spazio fondamentale viene, inoltre, assegnato all’insegnamento linguistico,

basato sulla connessione tra parole e cose: su tale approccio Comenio redigediversi libri. Ma riconosce anche l’importanza della matematica e delle scienzenaturali.

La critica dell’educazione tradizionale

Nel Seicento si realizzano trasformazioni profonde sul piano della filosofia e dellascienza e maturano nuove idee e istanze sul piano educativo. Nuovi modelli disapere e di educazione richiedono una preliminare critica di quelli vigenti.

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All’alba del nuovo secolo, ad esempio, Francesco Bacone (1561-1626) metteradicalmente in discussione gli idoli che tradizionalmente avevano distorto lo svi-luppo del pensiero; tra questi idoli c’è spazio anche per il ruolo distorcente del-l’educazione, sia di quella formale che informale. Egli, invece, insiste sulla“lezione” dell’esperienza concreta, soprattutto, sul ruolo produttivo della scien-za, sulla sua efficacia pratica. Nell’utopia della Nuova Atlantide egli descrive gliscenari nuovi che uno sviluppo tecnico-scientifico potrebbe aprire e la necessitàche la stessa educazione sappia legare strettamente apprendimenti scientifici eapprendimenti tecnici.

La sfida di Cartesio (1596-1650) alla cultura e all’educazione del suo tempo èradicale. Egli esercita – allo stesso tempo – una critica al sistema educativo e alsistema intero del sapere. Cerca nell’autonomia del proprio pensiero e nel “granlibro del mondo”, in un’aperta e ricca esperienza di vita, ciò che la cultura scola-stica non è riuscita a dargli.

L’insegnamento impartitogli dai Gesuiti a La Flèche viene ritenuto troppo rivol-to al passato e troppo poco al presente. Cartesio sottolinea che “chi è troppo curio-so delle cose del passato diventa, per lo più, molto ignorante di quelle presenti”.In particolare, egli critica il carattere prevalentemente umanistico-letterario di quelmodello educativo, imbevuto di formalismo retorico e poco attento alle esigenzedell’indagine razionale della scienza.

Cartesio ritiene, quindi, di non avere ricavato dalla scuola altro profitto se nonquello di “avere scoperto sempre più la mia ignoranza”. Egli afferma che, se lestrutture portanti dell’edificio della vecchia cultura non sono più affidabili e soli-de, è inutile ogni intervento di restauro, ma è necessario buttar giù il vecchio edi-ficio e costruirne uno nuovo dalle fondamenta.

Solo la ragione, che è uguale per natura in tutti gli uomini, costituisce la nuovaautorità per tutto il sapere. Ma la ragione va allenata ed esercitata, utilizzando unmetodo, adatto a ben condurla.

Decisivo, in tal senso, è il ruolo che gioca l’educazione: essa plasma la mente,rende diverso lo sviluppo di persone, dotate della stessa intelligenza, se sono edu-cate, ad esempio, in Germania o in Francia, oppure fra i Cinesi o i cannibali.

Fra ragione, esperienza e storia

Il pensiero di Cartesio si diffonde in Europa e nasce una mentalità cartesiana,sostenuta da opere aventi un nuovo stile letterario, basato sulla chiarezza espositi-va, sulla ragionevolezza e sull’equilibrio delle argomentazioni, sulla concisione,accessibile anche ad un pubblico più esteso di quello costituito dal mondo dei dotti.

Il Cartesianismo esercita un’influenza anche sull’educazione impartita daiseguaci di Cornelio Giansenio (1585-1638) nell’abbazia di Port-Royal. Essi cer-cano di conciliare il loro orientamento dogmatico e rigoristico con un’attenzionee un’apertura verso il Cartesianismo. L’intento fondamentale della loro pedagogiaè di ordine religioso: difendere l’innocenza dei bambini dalle tentazioni del malee del peccato. Questa opera di difesa richiede la conoscenza del bambino e un’o-pera continua di vigilanza da parte degli educatori. Bisogna insegnare al bambi-no a ragionare per saper distinguere il bene dal male. I Giansenisti, perciò, dannomolto rilievo alla logica. Questo indirizzo logico risulta particolarmente efficacesul piano educativo, poiché il suo intento è educare a “ben pensare”, a ben con-durre la propria ragione in ogni campo, nell’indagine scientifica come nelcomportamento quotidiano e nella vita religiosa.

Un orientamento culturale e formativo di segno diverso si afferma in Inghilterra.Rilevante anche in campo pedagogico è l’opera dell’empirista John Locke

(1632-1704). La sua negazione dell’innatismo, facendo dell’anima una “tabularasa”, assegna all’esperienza e all’educazione un ruolo rilevante nella formazionedell’uomo. Egli afferma che i nove decimi degli uomini sono quello che sono gra-zie all’educazione.

In tale contesto si inserisce il suo scritto pedagogico, i Pensieri sull’educazione,in cui Locke traccia un’educazione del gentleman che deve essere educazionealla ragionevolezza – visto che il bambino è un uomo in fieri, nel quale la ragio-ne c’è, ma va formata e sviluppata con l’esperienza e l’esercizio. Inoltre il gentle-man deve essere educato all’equilibrio nella condotta, al dominio di sé e alla

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capacità di assumersi le proprie responsabilità nel mondo: un’educazione fondatasull’esperienza, su una “cultura reale”, su metodi non costrittivi ma capaci di garan-tire una formazione del carattere. In questa educazione hanno altrettanto rilievo sial’educazione fisica, per avere un corpo robusto, sia quella morale e civile.

Di segno ancora diverso è la linea che si afferma con il pensiero di GiambattistaVico (1668-1744), il quale afferma che la mente umana ripercorre il passaggio sto-rico dell’umanità dall’età della barbarie a quella della civiltà. Per lui, dunque, lanatura del bambino non è identica a quella dell’adulto, come sosteneva Locke, madiversa. Il bambino – come i selvaggi – è tutto senso e immaginazione. Perciò l’e-ducazione deve adeguarsi a questo ritmo di sviluppo del bambino, non deve pro-porgli delle verità astratte.

Importante per l’educazione è rifarsi al modello umanistico-letterario e guarda-re alla lezione della storia, che, d’altra parte, per lui è la vera scienza, quella chel’uomo conosce veramente, perché è opera sua (in base al principio che verum etfactum convertuntur ).

Educazione e riforma della società

L’Illuminismo è un movimento di idee che ha influito non poco anche sulle ten-denze dell’educazione. Il riformismo ha investito anche i sistemi di istruzione.Sono state inoltre formulate idee nuove, o comunque caratterizzate da una piùaccentuata connotazione critica nei confronti della tradizione educativa.

Per molti Illuministi la condotta umana è il prodotto di condizionamentiambientali: quindi può essere cambiata anche mediante l’educazione e la legisla-zione.

Il sensista Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) afferma che le diseguaglianzedi spirito degli uomini sono esclusivamente il frutto della loro diversa educazione.Uniformata la loro educazione, scompariranno anche le loro differenze.

Ma il pensiero educativo che più lascerà il segno nella pedagogia dell’Ottocentoed anche in quella del Novecento è quello di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778).Il suo è un progetto di radicale rinnovamento dell’uomo e della società a tre livelli:etico, politico e pedagogico. Il mutamento deve, infatti, attuarsi nelle coscienze,ma deve anche realizzarsi attraverso la costituzione di una società di uomini egua-li e liberi e attraverso un’educazione che formi individui capaci di crescereseguendo la loro natura, senza costrizioni che la distorcano e la deformino.

Rousseau guarda alla natura umana nella sua essenzialità, come ad un patrimo-nio di capacità potenziali che la società non valorizza e che anzi corrompe edevia. L’armonico sviluppo di tali capacità dovrebbe, invece, costituire il fineessenziale di ogni società. Nell’Emilio, egli descrive l’educazione di un fanciulloeffettuata con metodi tali da permettergli di conservare e sviluppare le sue capa-cità e le sue tendenze spontanee, a differenza della pratica pedagogica tradizio-nale, che tende, invece, a soffocarle e a deviarle, con impacci e vincoli che impe-discono il libero dispiegarsi delle potenzialità degli individui.

L’educazione di Emilio è, inizialmente, negativa, in quanto vuole favorire almassimo uno sviluppo spontaneo del fanciullo, senza anticiparne precocemente itempi (età del senso, dell’utilità e della ragione), ma rispettandone rigorosamentel’ordine di svolgimento.

L’educazione negativa non forza tale sviluppo, ma non è comunque “inattiva”,in quanto prepara il fanciullo alle prove della vita con una forma di “libertà benguidata”, cioè con un attento controllo da parte dell’educatore, evitando nonsolo le interferenze dell’ambiente sociale, ma anche possibili involuzioni e cadu-te dello sviluppo di Emilio. L’educatore deve evitare che l’apprendimento siabasato su una quantità eccessiva di nozioni e che lo sviluppo perda di sponta-neità e si riduca ad abitudine, cioè a comportamenti automatici e passivi. Contala qualità di ciò che si fa apprendere e la capacità di attivare motivazioni profon-de, sollecitare energie nuove, ampliare gli interessi, esercitare e irrobustire lecapacità individuali.

La concezione educativa di Immanuel Kant (1724-1804) è contenuta in unoscritto (La pedagogia), ma è presente – sia pure implicitamente – in alcuni aspettifondamentali della sua riflessione filosofica, in particolare di quella morale.

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284FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

Compito dell’educazione è condurre l’uomo dall’animalità alla razionalità, for-mando uomini in grado sia di pensare che di agire sulla base di una volontà cheoperi, come sosteneva nella sua etica, secondo criteri universali. In questo sforzosi deve affermare la piena autonomia dell’individuo, cioè la sua capacità di esse-re legge a se stesso, di compiere delle scelte di cui si assume la responsabilità.

Il fine dell’educazione, posto nel processo di piena ragionevolezza, prospetta uncompito per così dire infinito, in cui l’uomo può continuamente progredire.

Essa deve essere orientata su chiare finalità di progresso morale e civile dell’u-manità: perché “i fanciulli non devono essere educati conformemente allo statopresente della specie umana, ma per uno stato migliore possibile nell’avvenire ”.

Da qui le indicazioni per una pedagogia che da un lato consenta di affermarel’autonomia e il senso di responsabilità dell’individuo – aiutandolo sin dai primianni ad auto-disciplinarsi – e dall’altro formi la capacità di “pensare”, diapprendere e – per quanto possibile – di imparare da sé.

L’OTTOCENTO5

Rivoluzioni politiche, Rivoluzione industriale ed educazione

L’Ottocento è segnato, sul piano dell’educazione e delle teorie dell’educazione,dai grandi processi – politico ed economico-sociale – che hanno preso l’avvionegli ultimi decenni del Settecento.

Le due grandi Rivoluzioni di fine Settecento – quella americana e quella france-se – hanno costituito un momento di svolta in quanto si sono sforzate di tradurrein realtà le due grandi aspirazioni dei filosofi e dei riformatori dell’Illuminismo:estendere al limite, universalizzare l’istruzione e tradurre anche sul piano educa-tivo le esigenze di riorganizzazione del sapere che si erano espresse conl’Enciclopedia.

La Rivoluzione francese porrà all’ordine del giorno soprattutto la formazione delcittadino e il suo diritto all’istruzione.

La Rivoluzione industriale avrà effetti fortissimi sul piano educativo. Si pensi, adesempio, alla messa in discussione, con la crisi di numerose produzioni artigiane,dell’apprendistato, come tirocinio pratico e conoscitivo legato allo svolgimentodiretto delle attività produttive, che da lunghissima data costituiva l’asse portantedella formazione del popolo. Contestualmente, i rapidi mutamenti tecnologiciinsiti nella produzione industriale, fanno comprendere che l’adattabilità ai muta-menti stessi richiede il superamento della condizione di analfabetismo e ignoran-za dei lavoratori e – in genere – della società. Formazione elementare – che, pergli educatori più avanzati, deve avviarsi sin dai primissimi anni di vita – e forma-zione tecnico-professionale diverranno quindi, nell’Ottocento, due obiettivi difondo della teoria e della pratica pedagogica e delle politiche scolastiche.

Spontaneità della natura e dimensione etico-religiosa dell’educazione

Agli inizi del secolo, comunque, sono soprattutto la cultura e la filosofia delCriticismo kantiano, del Romanticismo e dell’Idealismo a influire profondamentesugli orientamenti educativi, in un costante confronto con l’elaborazione diRousseau.

Esempio tipico è la teoria e pratica educativa dello svizzero Johann HeinrichPestalozzi (1746-1827). Egli ha un orientamento democratico. Assimila le idee diRousseau, ma anche della morale di Kant e Fichte; di Rousseau riprende il richia-mo alla naturale bontà dell’uomo e lo traduce in un’attenzione nuova per lo svi-luppo psicologico del bambino, nella convinzione della necessità di intervenire,con l’opera educativa, sin dai primi stadi di vita, ricorrendo all’“aiuto dellemadri”.

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L’educazione deve favorire lo sviluppo graduale e armonico del cuore, dellamente e dell’arte e si fonda sull’idea che occorra sviluppare – nel bambino – laforza originaria e naturale che gli è insita e per la quale si richiedono non i tradi-zionali mezzi repressivi, ma un metodo educativo adeguato: un metodo intuitivo,basato sull’idea di suddividere ogni materia di insegnamento in parti semplici, daacquisire per intuizione e poi da assimilare organicamente. Il metodo deve asse-condare e sviluppare i naturali interessi, la naturale curiosità infantile con un inse-gnamento intuitivo e graduale, che permetta di allagare progressivamente l’oriz-zonte del sapere, mantenendone una struttura unitaria, poggiante sulle tre facoltàoriginarie della forma, del numero e del suono (quindi come educazione del lin-guaggio, del numero, della musica e del disegno, oltre che del corpo).

In tale progetto, la dimensione etica dell’educazione costituisce l’asse centrale:la stessa educazione professionale dei giovani ha valore come strumento di ele-vazione morale.

Più che a Kant e a Fichte, è al romanticismo e all’idealismo di Schelling che si ispi-ra invece il tedesco Friedrich Wilhelm August Fröbel (1782-1852). Egli apre il primoKindergarten, o Giardino d’infanzia, guardando soprattutto alla necessità di promuo-vere uno spontaneo sviluppo del bambino, sulla base dell’idea che uno stesso prin-cipio divino di vita – quello dello Spirito assoluto – circola nella natura e nell’uomoe che, in quest’ultimo, esso culmina nella coscienza di sé e nel pensiero. Scopo del-l’educazione è condurre l’individuo a una piena consapevolezza di sé.

Essa deve favorire, cioè, nella maggiore misura possibile quel processo genera-le dello Spirito, portando l’essere umano a cogliere entro se stesso “l’essenza el’intima vita delle cose”, la presenza, in sé e nella natura tutta, di una “unità ori-ginaria”, che è lo Spirito e Dio.

Il momento più importante – perché tale processo si verifichi – è costituito daiprimi anni di vita, nei quali si imprimono durevolmente le impressioni e le imma-gini del mondo esterno.

Esse favoriscono – nel bambino – un processo in cui si “rende esteriore l’inter-no ed interiore l’esterno” e si vengono gradualmente a operare delle distinzioninella nebulosa della mente, incoraggiandolo a esprimersi. Da qui le indicazioni dimetodo: la necessità di far leva sulle tendenze spontanee, interiori, del bambino,che si esprimono soprattutto attraverso la fantasia e il gioco. Fröbel assegna, quin-di, il massimo valore educativo al gioco, come attività autonoma del bambino efattore trainante dei processi di crescita, con l’aiuto di doni, cioè di oggetti digioco del giardino d’infanzia. Gli oggetti sono geometrici e dovrebbero essere uti-lizzati dal bambino in attività di costruzione-ricostruzione che lo conducano gra-dualmente a cogliere le leggi della natura.

Era stato soprattutto il poeta e drammaturgo Johann Christoph Friedrich Schiller(1759-1805), in precedenza, a sottolineare la centralità della fantasia e dell’im-pulso al gioco nello sviluppo degli individui. Fantasia e arte ci fanno cogliere l’ar-monia del tutto e ci consentono di raggiungere un equilibrio fra natura e spirito.Nell’impulso al gioco liberamente si muovono, pur opponendosi fra loro, l’impul-so sensibile e l’impulso intellettuale verso la “forma”, cercando nel contrasto unaconciliazione e un’armonia reciproche. Questo ideale di formazione estetica,onnilaterale, capace cioè di valorizzare tutti gli aspetti della personalità degli indi-vidui, viene da Schiller contrapposto a una condizione di scissione fra le diversefacoltà umane, di formazione unilaterale degli individui, quindi di formazione dipersonalità parziali e distorte.

L’educazione nazionale

In un ideale “pendolo” tra formazione dell’uomo come individuo e come cittadino,il pensiero idealistico privilegia quest’ultima e si schiera a favore di un’educazionecompiuta dallo Stato. Perciò un tema portante del pensiero romantico-idealistico edella riflessione sull’educazione nell’Ottocento è quello dell’educazione nazionale.

Nel pensiero di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) l’educazione deve, sì, con-sentire la formazione di soggetti autonomi e responsabili, ma deve anche stabilireun legame di continuità con il passato: deve essere cioè richiamo alla tradizione,recupero delle proprie radici spirituali, possibilità di affermazione dell’identitànazionale di un popolo.

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Primaria è, quindi, la responsabilità dell’intellettuale, del dotto. Egli non è soloun produttore del sapere, ma è anche un educatore. Il fine ultimo della sua opera,nella società, è infatti “il perfezionamento morale di tutto l’uomo”. Un perfezio-namento che può realizzarsi solo se alla parola il dotto unirà l’esempio, se cioèalla visione morale del mondo che egli insegna farà seguire delle scelte di vita pie-namente coerenti. Il dotto è, infatti, un modello per il resto dell’umanità.

Un’analoga ispirazione a favore di un’educazione nazionale muove GiuseppeMazzini (1805-1872). Egli afferma che è attraverso la tradizione storica del pro-prio popolo che la coscienza dell’individuo riesce a cogliere la voce divina ed acomprendere, quindi, quale sia la legge morale, il principio del dovere, a cui egliè chiamato, insieme al popolo a cui appartiene. Attraverso il pensiero e l’azioneavviene l’educazione di un popolo, un’educazione politica che, nell’azione com-piuta per affermare la propria indipendenza, comporta anche il sacrificio di viteumane.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) non ha scritto libri sull’educazione.Il tema dell’educazione nella sua filosofia si può trovare nell’ambito dello spiritooggettivo, nella sfera dell’eticità: l’individuo deve riconoscere la sua più autenticanatura e il suo destino nella vita del proprio popolo, nelle istituzioni storiche dellasocietà di cui è parte. Nell’éthos del popolo vive e va riconosciuta la razionalità.Compito dell’educazione sarà quello di far in modo che gli individui si approprinodi quei valori dello spirito oggettivo, storicamente realizzatisi, in una determinataepoca storica, e che incarnano lo spirito di un popolo. Così all’educazione Hegeldava un forte radicamento storico e un essenziale riferimento sociale.

Herbart: scienza dell’educazione e ruolo della psicologia

Fortemente ancorata alla sua teoria filosofica – il realismo – e ad una valorizza-zione della psicologia, cioè di una scienza che cominciava solo allora a muoverei primi passi, è la teoria dell’educazione di Johann Friedrich Herbart (1776-1841).

Essa costituisce una vera e propria scienza dell’educazione, che si ispira a dueidee direttive fondamentali:

a. l’esigenza che nell’individuo si sviluppi una molteplicità e ricchezza di inte-ressi ben equilibrati;

b. il riconoscimento del valore educativo dell’istruzione: il fatto, cioè, che l’i-struzione debba permettere un’adeguata formazione del carattere, orientandolaverso le idealità morali.

Ad Herbart si deve una delle distinzioni, interne alla pedagogia, ritenute piùimportanti: quella tra l’indicazione dei fini dell’educazione, che riguarda gliuomini come devono essere e, dunque, attiene all’etica, e la scelta dei mezzi, cheriguarda gli uomini come sono, e che è il campo della psicologia.

Così questa scienza, allora molto giovane, si avviava a svolgere un ruolo impor-tante in pedagogia.

La psicologia concorre all’opera educativa fornendo gli strumenti di interventonecessari ad un equilibrato sviluppo della personalità e del carattere dell’individuo.

Herbart nega l’esistenza di facoltà dell’anima. L’anima è immateriale e capacedi interazioni continue. Il suo modo particolare di funzionare si esprime median-te le rappresentazioni, che non sono altro che atti di autoconservazione, modi direagire alle perturbazioni indotte dalle altre realtà. Le rappresentazioni più debo-li cadono al di sotto della soglia della coscienza. Le rappresentazioni possono,inoltre, sommarsi l’una all’altra, formando così delle tendenze (ad esempio, desi-deri, volontà, ecc.) e delle masse rappresentative, che, quando sono dominanti,vengono a costituire il carattere di una persona.

L’azione educativa deve intervenire nei processi rappresentativi dell’anima pro-muovendo la multilateralità dell’interesse, cioè suscitando e sviluppando gli inte-ressi in tutte le direzioni, evitando, quindi, il formarsi di interessi unilaterali. La mul-tilateralità degli interessi richiede, fra l’altro, un equilibrio tra gli insegnamenti scien-tifici e di quelli storico-letterari e un equilibrio fra interessi di conoscenza (studiodei fatti, interesse estetico, ecc.) e interessi di partecipazione (interessi morali, socia-li, religiosi).

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Riformismo educativo nell’età della Rivoluzione industriale

Determinanti, sulle questioni educative dell’Ottocento, sono la Rivoluzioneindustriale e lo sviluppo tecnico-scientifico.

In Gran Bretagna, ad esempio, gruppi di intellettuali riformatori che si richiama-no all’Illuminismo si impegnano in un’azione riformatrice anche in campo scola-stico e educativo. Fra loro, gli “Utilitaristi” (di cui è principale esponente JeremyBentham, 1748-1832) e alcuni esponenti del cosiddetto “Socialismo utopistico”.L’industriale e filantropo Robert Owen (1771-1858), ad esempio, ritiene che un rin-novamento del costume e la lotta all’immoralità passino innanzitutto attraverso unmiglioramento delle condizioni generali di vita delle classi lavoratrici. Occorre una“formazione integrale, nel fisico e nel morale, di uomini e donne che penserannoe agiranno sempre razionalmente”, afferma. Per tale motivo, gli interventi educati-vi devono muovere dalla prima infanzia e realizzare un’istruzione generale di gio-vani e adulti, basata su una formazione integrale, della mente e del corpo.

Suo è il merito di avere per primo realizzato (nel 1816) scuole infantili per i figlidegli operai, che daranno il via al sistema delle Infant’s Schools inglesi.

Agli asili infantili si richiamerà l’italiano Ferrante Aporti (1791-1858), che neaprirà uno in Italia nel 1828. L’educazione etico-religiosa, le attività all’aria aper-ta e le attività manuali organizzate dai maestri (nonché l’avvio di una prima edu-cazione elementare) costituiscono anche per lui un correttivo dell’“educazionespontanea” della società, che per i bambini delle classi popolari è spesso corrut-trice, perché generata dalla miseria.

La cultura positivistica e le nuove esigenze di istruzione tecnico-scientifica

La tendenza fondamentale dello sviluppo scientifico dell’Ottocento è quelladella specializzazione. Lo sviluppo delle strutture formative, a ogni livello, favori-sce in Francia e in Germania una grande crescita dei processi di scolarizzazionee una fioritura delle scienze e delle tecniche.

La cultura e la filosofia del Positivismo tenderanno da un lato a promuoverecambiamenti nei contenuti dello studio spostando l’“asse culturale” a favore del-l’istruzione scientifica e, dall’altro, a dare concretezza agli interventi di riformadei sistemi scolastici e universitari, assegnando un ruolo nuovo all’istruzione tec-nica e professionale.

Un altro aspetto – che avrà effetti duraturi nella teoria dell’educazione – sta nellasaldatura che viene a operarsi fra elaborazione pedagogica e utilizzazione deiprimi risultati della psicologia scientifica e della sociologia.

La pedagogia positivista mirerà soprattutto alla formazione di abitudini utiliall’uomo e ad una sorta di ricapitolazione abbreviata delle conoscenze scientifi-che, proprie dello stadio positivo.

In Italia alfiere di un’educazione positivistica è Aristide Gabelli (1830-1891),convinto della necessità di riformare l’“elemento testa” degli individui abbando-nando l’antica cultura e educazione retorica, tradizionale nel nostro Paese. Alprimo posto, l’educazione popolare, un’educazione elementare non dogmatica,ma guidata da un metodo oggettivo che si fondi sulla realtà dei fatti, a partire daun’attenta osservazione, che è essa stessa “educatrice”, cioè formatrice di un abitoe di un costume nuovi. Tale metodo è, in tal senso, erede della grande tradizionesperimentale galileiana su cui si regge il mondo moderno.

Il Marxismo e il nesso fra istruzione e lavoro

Su un altro versante, quello del Marxismo – anch’esso tutto interno ai problemidella Rivoluzione industriale – il problema dell’educazione si afferma in partico-lare in relazione al rapporto fra istruzione e lavoro.

Nelle posizioni di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) vi ènon solo l’idea della necessità di abolire il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche e digarantire a tutti un’istruzione pubblica e gratuita, ma anche quella di una fortecompenetrazione fra educazione intellettuale, fisica e tecnico-produttiva.Quest’ultima costituisce il punto di maggiore novità. Essa si lega alla posizionegenerale di Marx nei confronti della scienza e della tecnica, alla constatazioneche il “rivoluzionamento continuo dei mezzi di produzione” determinato dal

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capitalismo, cioè lo sviluppo tecnico-produttivo, sia costituito da una sempre piùforte presenza di scienza nei mezzi tecnici. Da qui l’idea di una istruzione cheabbia, come suo asse culturale, l’“apprendimento dei fondamenti scientifici gene-rali di tutti i processi di produzione” e l’introduzione del fanciullo e dell’adole-scente all’”uso pratico” e alla “capacità di maneggiare gli strumenti elementari ditutti i mestieri”. Sarà questo tipo di “unione di lavoro produttivo remunerato, istru-zione intellettuale, esercizio fisico e addestramento politecnico” che “innalzerà laclasse operaia al di sopra delle classi superiori e medie”.

Nel Novecento i temi dell’istruzione e dell’educazione conoscono un ulterioresviluppo e approfondimento, da parte dei filosofi.

Qualificano questo secolo – dal punto di vista dell’educazione – l’impegno acostruire una pedagogia scientifica e il movimento delle “scuole nuove”, cheintendono promuovere un’educazione fondata sulla centralità e sull’attività delbambino e la concezione e la pratica della “scuola attiva”.

Talune interpretazioni del Novecento hanno identificato nella riflessione sull’e-ducazione una corrente di razionalità progressista o di filosofia della prassi da unlato e dall’altro un indirizzo variegato (con forte accentuazione dell’originalità edell’irriducibilità dello spirito), che va sotto il nome di attivismo.

Della grande varietà di tendenze e orientamenti che si sono affermati, qui indi-chiamo solo alcune posizioni.

Dewey: l’educazione democratica

Sicuramente dell’indirizzo razionale, progressista, problematico, aperto, il mag-gior rappresentante è John Dewey (1859-1952), che dà un grande contributo allosviluppo di esperienze educative di avanguardia, inserendole in una concezionefilosofica, lo Strumentalismo, nella quale il pensiero si lega strettamente all’azio-ne, è strumento per l’azione.

Quello di Dewey è un modello di educazione democratica e anti-autoritaria sianei fini che nei metodi. L’educazione, come processo di formazione di personalitàconsapevoli e responsabili, è fattore fondamentale dello sviluppo della democra-zia. È “vita sociale semplificata”, educazione alla democrazia mediante esperien-za di vita comunitaria e concreto esercizio della democrazia. Si basa sul ricono-scimento della centralità e della dignità della persona dell’allievo, sul carattereprocessuale, problematico, sempre attivo, dell’apprendere e sulla necessità chequesto, per essere efficace, poggi sempre su interessi autentici dell’allievo stesso.

L’educazione è sviluppo e liberazione delle capacità individuali in una crescitavolta a scopi sociali. Essa deve fondarsi sulle attività e sui bisogni propri di un indi-viduo e deve concorrere all’eliminazione delle ingiustizie. È formazione all’ini-ziativa personale e all’adattabilità dell’individuo alle trasformazioni dell’ambien-te: obiettivo particolarmente importante nella società contemporanea, che è sog-getta a cambiamenti continui.

In tale ambito, un ruolo essenziale lo gioca l’acquisizione, da parte dell’indivi-duo in sviluppo, di una mentalità scientifica. Questa mentalità, secondo Dewey,lo aiuta a liberarsi da ogni condizionamento dogmatico, lo porta a riconoscere lavarietà dei punti di vista possibili, quindi la necessità della tolleranza e l’esigenzadi sottoporre le proprie convinzioni al banco di prova dell’esperienza.

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La scuola attiva e l’esperienza montessoriana

Sulla linea di Dewey, numerose saranno, negli Stati Uniti, le esperienze educa-tive di avanguardia, di scuola attiva, basata sul principio del learning by doing,dell’imparare facendo: ad esempio il metodo dei progetti di William HeardKilpatrick (1871-1965), il Piano di Dalton di Helen Parkhurst (1887-1959), ilPiano di Winnetka di Carleton Wolsey Washburne (1889-1968).

In Italia, il metodo attivo viene autonomamente elaborato e sperimentato daMaria Montessori (1870-1952). Prima donna laureata in medicina, poi in peda-gogia, opera con i bambini handicappati ed estende successivamente i suoi meto-di alla formazione di tutti i bambini. La Montessori denuncia il fatto che non ci sia“posto per l’infanzia” in una società adulta tutta assorbita dal lavoro, o “nelleristrette case della città moderna, dove si accumulano le famiglie”, né, tantome-no, c’è posto per essa nelle vie, dove “i veicoli si moltiplicano e i marciapiedisono affollati di gente che ha fretta”. Il bambino è come confinato dalla societàadulta. Tutto – a cominciare dai mobili – è costruito su misura delle esigenze del-l’adulto. Riconoscere il ruolo centrale dell’infanzia vuol dire, invece, non soloriconoscere la specificità della condizione dei bambini, ma anche “dare un nuovoorientamento alla nostra vita sociale”.

Il bambino è un essere attivo, ha in sé energie e disposizioni che non devonoessere deviate o represse e deve essere messo in condizione di esplicare libera-mente quelle sue energie e disposizioni. Non basta creare un ambiente “su misu-ra” del bambino, a lui familiare: occorre anche mettergli a disposizione – perchépossa sceglierli e fruirne liberamente – materiali “adatti”, studiati e predisposti gra-zie a indagini scientifiche di ordine psico-pedagogico. È un materiale scientifica-mente elaborato e predisposto anche allo scopo di favorire lo sviluppo intellet-tuale, fino a giungere a quello con cui possano essere appresi i primi elementi delleggere, dello scrivere e far di conto. Occorre rispettare la spontaneità delle scel-te dei bambini, non intervenire con premi e castighi ed accorrere solo se l’aiutoviene da loro richiesto.

L’educazione come autoformazione dello spirito

Di segno diverso è la pedagogia idealistica di Giovanni Gentile (1875-1944).Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Mussolini, nel 1923 Gentile vara lariforma scolastica che porta il suo nome.

La pedagogia studia il processo di autoformazione dello Spirito, secondo le sueproprie leggi, ha il compito di formare l’uomo. Così essa coincide con la filosofia,in quanto “fare lo Spirito” si identifica con il “farsi dello Spirito”. L’educazione èprima di tutto auto-educazione. Il rapporto educativo si presenta come rapportomaestro-scolaro, nel quale, in atto, la mente del maestro e quella dello scolarodivengono una mente sola, si innalzano a una superiore unità, entrambe parteci-pi della vita dello Spirito assoluto.

Nella comunità intima che viene a stabilirsi fra educatore ed educando non vi ècontrasto tra la libertà del maestro e quella dello scolaro: vi avviene, anzi, l’in-contro nell’universalità dello Spirito. Eppure il maestro è depositario di un valorespirituale al quale tutti i valori inferiori e diversi devono adeguarsi. Egli “plasmaanime”, quindi deve guidare l’anima dell’allievo a quei valori spirituali superioriche sono quelli etico-politici dello Stato. L’allievo deve essere portato a volere ciòche vuole la legge dello Stato, che è Spirito, atto.

Queste sono anche le premesse pedagogiche della riforma della scuola del1923. La cultura scientifica e quella tecnico-pratica sono sovrastate dalla sfera delpensiero, rappresentata dalla filosofia e dalla cultura storico-letteraria.

Sarà, invece, Giuseppe Lombardo Radice (1879-1938) – pur dichiaratosi sempreseguace di Gentile – a riproporre su un piano educativo concreto l’idea della crea-tività e spontaneità dello sviluppo infantile, con un’attenta considerazione delleattività (gioco, lavoro manuale, diario, ecc.) che possano realmente favorire talesviluppo.

Egli guarda più alla soggettività concreta (all’“io empirico”) che allo Spirito asso-luto e, nel sottolineare il valore dell’esperienza nell’educazione, si rifà a Kant piùche ad Hegel: “se si toglie l’attività formatrice dello spirito la realtà è cieca; ma sesi toglie la realtà concreta dell’esperienza lo spirito è vuoto ”.

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290FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

Un altro esponente dell’Idealismo, Ernesto Codignola (1885-1965), con l’e-sperienza concreta della Scuola-città, cioè di un’effettiva comunità di vita e dilavoro dei ragazzi, svilupperà l’Idealismo nella direzione delle esigenze di un’e-ducazione democratica e lo porterà ad incontrarsi con i princìpi e le esperienzedell’attivismo pedagogico. La Scuola-città avrà al centro di tutte le sue attività illavoro, concepito come attività di “spiriti liberi”.

Fra la scuola e il lavoro

Nella riflessione sui problemi dell’educazione in campo marxista hanno avutoun grande peso le esperienze compiute nell’URSS dopo la rivoluzione del 1917,in particolare il tentativo di realizzare una scuola unica del lavoro sulla base delleindicazioni di Marx. Così pure ha avuto rilievo l’elaborazione di AntonSemionovic Makarenko (1888-1939), volta a costruire una mentalità collettiva, aeducare i sentimenti (e soprattutto il senso di responsabilità e le capacità di auto-disciplina, all’interno di un “collettivo organizzato”) e a collegare strettamenteistruzione e lavoro.

In Italia, Antonio Gramsci (1891-1937) elabora una teoria educativa che, purbasata su presupposti marxiani, viene inserita in una considerazione più ampiasugli sviluppi della società industriale e sulle funzioni della cultura e degli intel-lettuali nella società contemporanea.

Per Gramsci, nella società contemporanea le scienze si sono intrecciate alla vitae le attività produttive estremamente ramificate in cui si sviluppa la società indu-striale tendono ciascuna a “creare una scuola”, cioè la scuola professionale. Latendenza è di ridurre la scuola “umanistica”, “disinteressata”, a ristrette élite e ainserire tutti gli altri giovani in scuole di specializzazione tecnico-professionale,“in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminati”.

Occorre invertire tale tendenza, se si vuole evitare che la scuola determini unulteriore irrigidimento delle barriere sociali e se si vuole evitare la crisi che lo stes-so sviluppo produttivo (che conterrà sempre più “scienza”, esigenze di conoscen-za nello svolgimento delle attività lavorative) determinerà negli assetti scolasticiche si sono costituiti. L’asse culturale, il principio educativo della scuola, dovreb-be sviluppare un processo di apprendimento che dalla tecnica-lavoro giunga allatecnica-scienza e ad una concezione umanistico-storica. Dopo tale scuola sidovrebbero avere indirizzi specializzati ed esperienze di lavoro produttivo.Questo, secondo Gramsci, dovrebbe costituire un nuovo Umanesimo.

Educazione cristiana, esercizio della libertà e valore dell’esperienza lavorativa

Un contributo rilevante alla riflessione sui problemi dell’educazione da partedel mondo cattolico viene fornito da Educazione al bivio del filosofo franceseJacques Maritain (1882-1973). L’umanesimo integrale di Maritain è sorretto dauna visione educativa che guarda all’integrità della persona umana e intende pro-muovere – nell’allievo – l’amore per la verità, la giustizia, la cooperazione.

Pur criticando taluni aspetti della pedagogia “laica” contemporanea (ad esem-pio lo strumentalismo, l’ignoranza dei fini ultimi dell’educazione, il sociologi-smo), egli ne condivide non pochi aspetti. Anche per Maritain, infatti, il processoformativo è come un passaggio da natura a società, da individuo a persona ed è,soprattutto, conquista della libertà mediante l’esercizio della libertà.

Per Maritain, l’educazione è formazione della persona alla vita democratica. Intal senso, colui che apprende è “l’agente principale”, la “forza propulsiva prima-ria” dei processi formativi. Pur senza essere “permissiva”, l’educazione deve quin-di respingere i tradizionali modelli autoritari di “educazione con il bastone”.

Inoltre, anche per lui, come per buona parte della pedagogia del Novecento, laformazione deve essere in grado di conciliare “educazione” e “lavoro”, proprioperché essa deve costituire una piena formazione umana, formazione capace diarmonizzare le esigenze dell’individuo e quelle della società. Egli afferma che“non c’è posto più vicino all’uomo che un laboratorio” e che “l’intelligenza del-l’uomo non è solo nella sua testa, ma anche nelle sue dita”. Con l’educazione vaquindi riaffermata la dignità del lavoro e il venir meno della separazione socialetra homo faber e homo sapiens.

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Scienze umane ed educazione

Un forte contributo allo sviluppo delle esperienze educative del Novecento lodanno le scienze umane.

Ad esempio, l’antropologia culturale consente di affrontare il nesso strettissimoche esiste fra processi di apprendimento e processi culturali. Questi ultimi sonoconsiderati non solo in termini di prodotto letterario, scientifico, artistico o tecni-co, ma anche in termini di norme, valori, credenze, usi che fanno parte del patri-monio sociale dei diversi gruppi umani.

L’antropologia consente, in particolare, di guardare ai problemi dell’ap-prendimento in relazione ai mutamenti culturali che avvengono sia all’interno diuna comunità, sia dall’incontro di comunità diverse, come avviene oggi in societàche sono – sempre più – multiculturali.

La sociologia pone anch’essa questioni di fondo. Tali sono, ad esempio, le que-stioni del rapporto fra formazione e lavoro, formazione e mobilità sociale, forma-zione e acquisizione di valori sociali, fra selezione scolastica e condizioni socia-li “di partenza” degli allievi, fra formazione scolastica e nuove tecnologie infor-matiche, ecc. Tutti temi, come è evidente, che non sono “esterni” alla scuola, mainvestono direttamente le sue finalità, i suoi contenuti e il suo concreto funziona-mento.

Altrettanto si può dire per la psicologia. Essa tende a porsi come disciplina diconfine, per l’intreccio strettissimo che viene a stabilire fra indagine psicologica eprogettazione educativa. Anche qui, numerosissimi sono i contributi e gli spuntidi riflessione che sono offerti sia dalla psicoanalisi che dalle diverse scuole psico-logiche del Novecento. Riguardo a queste ultime, va tenuto presente che esistonoaspetti molteplici posti in luce dall’indagine psicologica di cui la formazione devetener conto: ad esempio, esiste una dimensione cognitiva dell’apprendimento, maanche una non-cognitiva, legata alle tendenze affettive, alle motivazioni, allecapacità di relazione di allievi e insegnanti.

Delle varie scuole psicologiche, la teoria comportamentista (Behaviourism) hastudiato i meccanismi dell’apprendimento basandoli sul rapporto stimolo-risposta,cioè come risposta agli stimoli ambientali. Su questa base, ad esempio, BurrhusFrederik Skinner (1904-1990) è stato il primo a progettare macchine programma-te per consentire l’apprendimento. A questa teoria è stata però rimproverata unacerta sottovalutazione del ruolo attivo della mente nei processi di apprendimento:la mente non è un “contenitore” da riempire, o una tabula rasa, ma ha dei suoimodi di trattare e rielaborare le informazioni che riceve.

In tal senso, una funzione importante svolgono altre due scuole, quelle della psi-cologia della Gestalt, o psicologia della forma, e della psicologia genetica.

Per la psicologia della forma gli stimoli esterni vengono acquisiti dalla menteattraverso forme globali o princìpi di organizzazione e unificazione. Ad esempio,i dati delle percezioni visive sono inseriti in un campo percettivo che costituisceun tutto, cioè il principio di organizzazione delle diverse parti che compongonouna determinata visione.

La psicologia genetica, di cui è massimo esponente Jean Piaget (1896-1980),ricostruisce la dinamica delle strutture mentali di ogni persona, dalla nascitaall’età adulta. Piaget ha scoperto, nei bambini, idee che non avevano né appresoné ereditato, ma erano state da loro “costruite” utilizzando sia l’esperienza che lestrutture mentali. Ne ha perciò concluso che la nostra intelligenza organizza ilcontenuto dell’esperienza. Inoltre le strutture mentali che organizzano l’esperien-za sono esse stesse il risultato di uno sviluppo.

Le funzioni cognitive, dall’infanzia alla maturità, passano attraverso fasi diverse,che egli distingue in quattro stadi di sviluppo: 1. dell’intelligenza senso-motoria(da 0 a 36 mesi d’età); 2. dell’intelligenza intuitiva (3-7 anni); 3. del pensiero ope-ratorio concreto (7-11 anni); 4. del pensiero ipotetico-deduttivo (11-14 anni).Quest’ultimo è lo stadio in cui i processi mentali permettono al pensiero di fun-zionare adottando la logica simbolica e, con essa, segni e regole sempre più com-plesse. Le strutture mentali del bambino sono, dunque, diverse da quelle dell’a-dulto e non devono quindi essere considerate come una loro copia imperfetta.

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292FILOSOFIA ED EDUCAZIONE

I problemi della filosofia dell’educazione, pur costituendo un corpo a sé, sono statisempre tradizionalmente collegati a quelli dell’etica e della politica, poiché la tra-smissione di conoscenze, valori e linguaggi da una generazione all’altra ha semprecostituito una questione di vastissima portata sociale. Indichiamo qui alcune dellequestioni attualmente più sentite.

1. Anzitutto il duplice problema della conservazione e del rinnovamento del patri-monio culturale. Uno dei fini essenziali dell’educazione è costituito dall’esigenzadella conservazione di conoscenze, tecniche e valori, per garantire la stessa continuitàstorica di una comunità. Ad essa si accompagna un’esigenza di segno opposto, relati-va alle capacità di adattamento e cambiamento che devono essere anch’esse acquisi-te dalle generazioni più giovani perché possano fronteggiare eventuali cambiamentidelle situazioni storiche di vita della comunità. Questa seconda esigenza, divenutapressante ai giorni nostri, entra in conflitto con la prima e apre conflitti inter-genera-zionali di ordine sia culturale che etico-politico, che periodicamente si sono manife-stati – e si manifestano – nella nostra società.

2. In secondo luogo il problema del rapporto fra metodi e fini dell’educazione. Solo nel-l’età moderna la diffusione dell’istruzione e l’aumento della complessità sociale hannoposto in modo determinato il problema del rapporto fra finalità e mezzi dell’educazione.

3. Di qui un terzo problema, che è costituito dal progressivo differenziarsi di scien-ze dell’educazione sempre più articolate e specialistiche (psicopedagogia, metodolo-gia, didattica, sociologia dell’educazione, pedagogia speciale, metodi di valutazione,docimologia ecc.) e che si pone come problema del rapporto fra tali scienze e la teo-ria pedagogica generale. Vi è una duplice tendenza: quella di sostituire alla pedagogiagenerale le tecniche speciali frutto dell’applicazione e della sperimentazione scien-tifica in campo educativo; e quella, contrapposta, di sovrapporre alla riflessione sulletecniche una considerazione generale su finalità e contenuti generali dell’“educare”,ribadendo un “primato concettuale” dell’educazione. Il rischio, così, è di frammentaregli interventi formativi in un uso empirico sempre più specialistico di tecniche didatti-che e di lasciare, allo stesso tempo, il pensiero generale sull’educazione, la pedagogia,a ruotare intorno a se stesso e a consolidarsi e a irrigidirsi come ideologia precostitui-ta, incomunicante con altre. Taluni propongono di ricomporre il quadro d’insieme inun’epistemologia pedagogica. Altri ritengono invece che occorra accettare l’antinomi-cità delle tendenze in corso e impegnarsi sistematicamente a stabilire – nella riflessio-ne teorica come nella concretezza empirica dell’insegnare e dell’apprendere – un rap-porto di comunicazione fra gli interventi specialistici e le riflessioni sulle finalità ge-nerali in cui l’intervento didattico rientra.

4. Si è inoltre posto, nella varie epoche storiche – e resta tuttora apertissimo – il pro-blema di come si debba intendere la formazione dell’individuo: se come formazionespecialistica, addestramento ad un “sapere” e ad un “saper fare” specifici, ristretti adati ambiti di attività, oppure come formazione onnilaterale, cioè come sviluppoarmonico di tutte le sue capacità, mentali e fisiche.

5. Tale problema ne ha però posto un altro: quello dei contenuti della formazione,in particolare il problema del rapporto che deve costituirsi fra formazione storico-let-teraria, formazione scientifica, formazione tecnico-pratica e educazione fisica. Unrapporto che, nella storia dei sistemi educativi, è apparso sempre squilibrato e unila-terale, favorendo ora l’uno ora l’altro aspetto della formazione culturale dei giovani.

6. Ad esso si lega, infine, molto strettamente quello della disuguaglianza dei model-li educativi. L’ideale della formazione onnilaterale deve essere affermato solo per unaparte dei giovani (quella ritenuta più “dotata” intellettualmente o socialmente), garan-tendo a tutti gli altri l’addestramento tecnico-professionale? oppure deve valere pertutti? In questo secondo caso, come è possibile realizzarlo, date le differenze che esi-stono fra i diversi ambienti socio-culturali e fra gli stessi individui?

Tali interrogativi sono ancora attualissimi e animano ancora oggi il dibattito sull’e-ducazione.

TEMI DI RIFLESSIONE NEL MONDO CONTEMPORANEO7

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“FARE”FILOSOFIA3 “FARE”FILOSOFIA3

Theo van Doesburg: Composizione in bianco e nero, 1918. Basilea, Kunstmuseum.

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METODO E STRUMENTI

294METODO E STRUMENTI

La filosofia è una materia difficile?

Se tecnicamente consideriamo la filosofia come la capacità di inventare,costruire, comporre e scomporre concetti, un tipo specifico di concetti, la filoso-fia non dovrebbe presentarsi come una materia difficile, dato che altre materiescolastiche richiedono l’uso e la comprensione di concetti.

D’altra parte si è visto che la filosofia affronta spesso problemi che sono presentiall’attenzione, alla preoccupazione e alla riflessione di molti.

Ma è anche vero che il livello di astrattezza che è richiesto dai concetti che usala filosofia è un motivo di difficoltà, perché si lega alla necessità di passare dallafilosofia spontanea e implicita, che ciascuno – in qualche misura – segue, alla filo-sofia come discorso esplicito, coerente, rigoroso e motivato, che si avvale, perquesto, di una strumentazione tecnica specifica.

La filosofia è difficile anche perché sui suoi concetti poggia – o comunque adessi fa riferimento – l’argomentazione, o meglio fanno riferimento i diversi model-li di argomentazione. Va detto che da questo punto di vista l’insegnamento e l’ap-prendimento della filosofia devono esplicitamente porsi l’obiettivo di costruireconcetti e argomentazioni, a partire da quelli – in parte ingenui e in parte riflessi– già posseduti.

A questa difficoltà tecnica di lavoro sui concetti si aggiunge quella derivante dalfatto che – come è stato detto – la filosofia appare quasi come un “mondo capo-volto”. Il discorso filosofico, infatti, spesso capovolge e contraddice la visioneimmediata delle cose, rovescia atteggiamenti consolidati, mette in discussionequello che appare scontato al senso comune. Così, la filosofia pone problemidove problemi a molti non sembrano essercene; sembra mettere in crisi certezzee verità quasi per il gusto di farlo, come se vi fosse una volontà di complicare erendere tutto più astruso e difficile. Da questo punto di vista la filosofia chiedetempo e... pazienza, perché si capisca il punto di vista del pensatore che vienestudiato, se ne colga il senso. Ma chiede anche la disponibilità a mettere in discus-sione la propria “visione del mondo”, le proprie verità, le proprie certezze.

Non si deve dimenticare, infine, che la filosofia, come e più di altri linguaggi altiche sono entrati a far parte dei contenuti della cultura scolastica, fino a pochissi-mo tempo fa apparteneva a una cultura per pochi, patrimonio di una ristretta élite.

Come studiare un autore?

Vorremmo ora avanzare qualche suggerimento per lo studio della disciplina.Con questo, ovviamente, non intendiamo affatto sovrapporci ai criteri di lavorodidattico che l’insegnante pone a fondamento della sua proposta agli studenti.Riteniamo utile, piuttosto, fornire qualche indicazione di lavoro

• per proporre alcune linee di metodo generale;• per meglio utilizzare questo manuale, tenendo conto dell’impostazione che –

in esso – è stata data alla presentazione dei singoli autori.

GLI AUTORI E I TESTI1

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a. Il contesto storico-culturale Innanzitutto è fondamentale collocare ogni autore nella sua epoca. Si tratta di

una questione non solo cronologica, poiché investe il problema del livello di par-tecipazione di ogni filosofo alle vicende e ai problemi del suo tempo.

Nel nostro manuale, è nei paragrafi iniziali che sono contenute gran parte delleinformazioni utili per questa attività, ma non solo in essi. Infatti la presenza delcontesto nelle idee e nelle questioni affrontate da ogni filosofo attraversa e, percosì dire, colora tutta la trattazione del suo pensiero. È bene ribadire, comunque,che l’impostazione storica non è un “cappello” messo in testa al capitolo su ogniautore e poi dimenticato per immergersi in un pensiero senza tempo.

La storia della filosofia non si riduce a una frettolosa “carrellata” di filosofi, o aduna “staffetta” nella quale determinate idee siano consegnate da un filosofo all’al-tro (come avviene con il “testimone” di una staffetta, appunto). Del contesto sto-rico è parte integrante il contesto culturale: dall’organizzazione della culturaall’enciclopedia dei saperi, alle idee-chiave, ai problemi cruciali. Di ciascun fi-losofo si indaga – o comunque si fa cenno – in quale modo prenda parte all’or-ganizzazione culturale, in che modo faccia propri e prenda posizione rispetto aidee e a problemi, se e come se ne differenzi: insomma il rapporto che egli isti-tuisce con il proprio tempo dal punto di vista culturale.

Naturalmente questo lavoro è particolarmente rilevante per il contesto filosofi-co. L’autore fa suoi problemi e concezioni della filosofia del suo tempo? come liripensa o li riformula? se ne allontana, li critica, li rifiuta? perché ?

b. L’interpretazioneQuando si entra nel merito della filosofia dell’autore, si pone una questione fon-

damentale. Una considerazione “unica” e “oggettiva” di un indirizzo di pensieroo di un filosofo non si può dare. Letture nel corso dei secoli ne sono state datediverse.

Ad esempio si dice che ogni epoca abbia il suo Socrate. Comunque, bisognascegliere. In questo manuale di ogni autore vengono fornite una lettura ed unainterpretazione scelte tra quelle che ne sono state storicamente date, ma vi è unimpegno costante, che poggia non solo su quello che è detto nel testo del capito-lo dedicato ad ogni indirizzo e ad ogni autore, ma anche sui brani di storiografia:quello di prospettare diverse interpretazioni che potranno riguardare o l’interacorrente di pensiero o il filosofo nel suo complesso o una parte della sua filosofiao una sua tesi.

Andranno – in questo senso – ricercate le ragioni di ognuna delle interpretazio-ni date e le argomentazioni riportate a giustificazione dell’interpretazione. L’invitoimplicito in questa scelta è quello di continuare, soprattutto nel corso di lavori diapprofondimento, ad attenersi a questo “stile” di approccio: fare riferimento adiverse interpretazioni e, poi, provare a indirizzarsi, in maniera motivata, versouna di queste.

c. Le questioni e le idee-chiavePer ogni autore vi sono alcune questioni e idee-chiave attorno alle quali ruota

tutto il pensiero del filosofo; ve ne può essere anche una soltanto. Una volta chesono state individuate si ha una bussola sicura per viaggiare attraverso gli autori.

Dove si possono cercare? Per i “grandi” una prima traccia può essere fornita dauna breve apertura del rispettivo capitolo ed inoltre, per loro come per tutti glialtri, può essere trovata in uno dei paragrafi iniziali (solitamente il secondo pa-ragrafo del manuale), che presenta una sintesi del pensiero o dei temi di ogni filo-sofo (o indirizzo filosofico). I paragrafi successivi a quello consentiranno diampliare e articolare problemi e idee.

Ma la ricerca dell’idea-chiave, del tema dominante può e deve essere la busso-la con cui affrontare ogni autore.

Qual è stato il tema centrale della sua filosofia? Qual è stata quell’“unica” veritào messaggio che ci ha voluto comunicare? Perché per lui quello si è posto comeil problema o il tema dominante?

Naturalmente va ribadito che questa ricerca può dare risposte diverse, tutte, inlinea di principio, egualmente valide, purché ci si faccia carico di trovare e daremotivazioni di quello che si afferma a proposito di un pensatore o di un indirizzodi pensiero.

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d. I concetti: non solo una definizioneLa filosofia è una trama di concetti, dunque il concetto è un oggetto privilegiato,

un protagonista del lavoro didattico. Attenzione: soprattutto inizialmente si può cor-rere il rischio di attribuire al concetto, che si incontra e si sta analizzando, il signi-ficato che in qualche modo si ha già in testa, con rischi di fraintendimenti facil-mente comprensibili, che porterebbero a deformare il senso delle tesi di una filo-sofia o di un filosofo. I concetti filosofici non sono gli stessi già posseduti da noi.Essi devono quindi essere costruiti come se si trattasse di imparare un nuovo lin-guaggio; devono esserlo, anche se i concetti che possediamo costituiscono pur sem-pre un punto di partenza per quell’opera di costruzione, in quanto tale opera è voltaa cambiare, sostituire o sviluppare il significato “spontaneo” dei concetti origina-riamente posseduto. Dunque, il primo compito è trovare una definizione del con-cetto. È un primo passo, importante ma non sufficiente, visto che il concetto puòessere considerato come un “mondo” nel quale sussistono complesse relazioni trale diverse parti che lo compongono. La definizione può essere considerata, quindi,un punto di partenza per andare alla ricerca degli elementi che compongono il con-cetto e delle relazioni interne che legano tali elementi. Dopo aver definito e ana-lizzato diversi concetti di una filosofia, si potranno cercare le relazioni che leganoquesti concetti tra di loro.

e. Ricostruire argomentazioniUn tratto specifico fondamentale della filosofia è che ogni affermazione, ogni

tesi debba essere giustificata, cioè sostenuta da ragioni valide. Nel ricostruire perogni autore le argomentazioni principali si dovrebbe capire il carattere logico,coerente, rigoroso della filosofia. Come si è detto per i concetti, la capacità di rico-struire argomentazioni filosofiche non è posseduta fin dall’inizio, ma è il risultatodi un lavoro graduale. Si imparerà, dunque, per qualsiasi autore, di che tipo sia ilnesso che lega le diverse parti dell’argomentazione. Per questo lavoro, evidente-mente, la costruzione di mappe concettuali (vedi pagg. 311-314) può essere unprezioso aiuto.

Come si legge un’opera filosofica?

Nel corso degli studi di filosofia c’è la possibilità di leggere una o più opere diautori diversi. È importante avere alcune indicazioni di lavoro in rapporto alla let-tura di un testo filosofico, perché sono in gioco abilità che saranno usate anche nel-l’analisi di un brano.

Innanzitutto, per ogni testo, ci si dovrà domandare: • di che tipo di testo si tratta? è un dialogo? un racconto? un saggio? Perché è

stata scelta dall’autore proprio quella forma testuale?• Come ogni testo appartenente alla storia della cultura, anche quello filosofi-

co è stato prodotto pensando ad un pubblico particolare: quale? • A chi si rivolgeva il testo, chi era, per così dire, il suo lettore ideale, quali

caratteristiche gli erano attribuite? • Qual è l’intento che muove l’autore in rapporto al suo lettore ideale: critica-

re, persuadere, sollecitare, spingere alla ricerca? • Quale autore si profila dall’analisi del testo? cioè non l’autore in “carne ed

ossa”, ma, in qualche modo, la sua immagine ideale: quali caratteristiche eviden-zia, quale atteggiamento, quale punto di vista?

Entrando nel merito del lavoro sul contenuto del testo le attività sono molteplici.La prima può riguardare la risposta a una domanda apparentemente semplice:

di che cosa tratta il libro? Questa domanda può implicare diverse risposte, perchéci si può chiedere di quale argomento si occupi (un problema filosofico generale,una scienza filosofica o una parte della filosofia), di quale problema e posto in chetermini. Soprattutto si può rispondere cercando che cosa l’autore intenda soste-nere sull’argomento e sul problema affrontato. È evidente che al lettore si chiedenon solo di compiere un lavoro lineare di analisi del testo nel suo sviluppo, maanche di tenere sempre aperta la domanda sul senso complessivo dell’opera, suciò che essa vuole dire.

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A tal fine sono determinanti: • la ricerca di idee-chiave e l’analisi dei concetti fondamentali;• l’individuazione di nessi tra concetti o tra parti dell’argomentazione; • il riconoscimento del tipo di argomentazione.

Per arrivare gradualmente a definire ciò che l’autore vuol dire si potrà anche fareriferimento alle tecniche che si usano per le schematizzazioni e il riassunto. Unutile strumento di supporto sarà rappresentato dalla mappa concettuale (di cui siparla in seguito), dalla costruzione e dalla revisione e riscrittura continua (senecessario) di una o più mappe concettuali.

Un lavoro specifico riguarderà la terminologia filosofica, l’individuazione delsignificato specifico – per quell’autore e in quel contesto – di alcuni essenziali ter-mini filosofici adottati. Si deve, perciò, in parte conoscere e in parte costruire ocomprendere meglio un lessico filosofico di base, per l’autore di cui si analizzaun’opera specifica.

Come leggere un’opera: alcuni esempi

È bene precisare subito che quelle che qui saranno fornite sono solo alcunedelle indicazioni relative alla lettura di un testo filosofico. Indicazioni che in partesono quelle che si possono dare per la lettura di testi in genere, a cui ne sono stateaggiunte altre che sono proprie del testo filosofico e che saranno specifiche perquel testo filosofico.

Chiaramente, i livelli di lettura e di comprensione di ogni opera e, in particola-re, di un testo complesso come quello filosofico sono molteplici. Qui ci si atterrà,dato l’intento didattico, ad un primo livello di comprensione, già di per sé signifi-cativo e non privo di problemi e difficoltà.

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PLATONE: APOLOGIA DI SOCRATEESEMPIO A

“Prima” della lettura– La contestualizzazione dell’opera. Le fonti di queste informazioni possono essere molteplici, dal

manuale all’introduzione preposta, in genere, alle edizioni scolastiche dell’opera. Volendo andare oltre,si può utilizzare qualche Storia della filosofia antica, strumento sempre importante di consultazione.

Ci domanderemo a quale periodo della vita e dell’attività filosofica di Platone possa risalire questotesto. Sappiamo che Platone lo scrisse dopo la morte di Socrate, probabilmente dopo che lo stessoPlatone era tornato in Atene. Passato il timore che, oltre al maestro, si volessero colpire anche i suoi di-scepoli, egli scrisse questa Apologia, questa difesa di Socrate,

Dagli studiosi questo testo viene considerato tra i primi della produzione scritta di Platone, forse ilsecondo, dopo la composizione dell’Eutifrone. Appartiene dunque a pieno titolo ai “dialoghi socratici”,alle opere giovanili nelle quali è più forte la risonanza e la forza dell’insegnamento socratico.

L’ambientazione storicaDopo la caduta dei Trenta Tiranni e il ritorno della democrazia in Atene, viene intentato un processo

a Socrate, accusato di essere uno – o il principale – dei cattivi maestri che erano responsabili delle scia-gure di Atene, dalla sconfitta nella guerra del Peloponneso fino, appunto, alla tirannide dei Trenta.

TitoloApologia di Socrate. “Apologia” sta a significare “discorso in difesa”, “scritto a difesa”. Difendere

Socrate: da quali accuse? Quelle che lo avevano portato in giudizio? Ma Socrate non era già morto,a seguito della condanna che gli era stata inflitta? Che senso ha, allora, una difesa di Socrate postmortem?

Prefazione e indiceNon ci sono nell’opera originale né l’uno né l’altra, ma si possono trovare “Sommari” del testo come

quello che qui parzialmente riportiamo.

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298METODO E STRUMENTI

Primo discorso di Socrate: egli è rimasto sgomentato dall’abilità oratoria deisuoi accusatori; essi, però, non hanno detto nulla di vero, mentre Socrate diràtutta la verità, anche se in quella maniera in cui è solito esprimersi nelle sueabituali conversazioni. È necessario perciò che i giudici badino solo alla veritàdi quel che viene detto (17a-18a). Distinzione tra accusatori recenti e accusato-ri più antichi: questi ultimi sono più pericolosi dei primi, perché hanno avutomolto tempo per spargere le loro calunnie senza che ci fosse nessuno a con-traddirli e perché non è possibile trascinarli in tribunale (II 18a-19a). Qual è l’ac-cusa più antica: Socrate investiga le cose che sono sotto terra e quelle che sonoin cielo, tenta di far apparire migliore la ragione peggiore e insegna tutto que-sto agli altri; l’eco di queste accuse si trova anche in Aristofane. Ma Socrate nonsa nulla della scienza della natura (III 19a-d). Socrate non insegna queste cose,e tanto meno si fa pagare. Elogio ironico dei sofisti, maestri di virtù ed educa-tori (IV 19d-20c). Ma come sono nate queste calunnie? La sapienza umana diSocrate ed il responso dell’oracolo di Delfi: «nessuno è più sapiente di Socrate»(V 20c-21a). Socrate vuole provare il senso di questo responso: egli sa che ildio non può mentire, ma sa anche di non sapere. È per questo che Socrateinterroga quelli che hanno fama di sapienti, e per primi i politici: ed il risultatoè che questi credono di sapere, ma non sanno, e forse per questo sono menosapienti di Socrate, che non sa, ma neppure crede di sapere, cioè sa di nonsapere (VI 21b-c). Eguale conclusione dei colloqui con i poeti (VII 21e-22c).Eguale conclusione dei colloqui con gli artigiani (VIII 22c-e). È da questa ricer-ca ed investigazione che sono nati gli odi e le calunnie; interpretazione dell’o-racolo: massima sapienza per l’uomo è sapere che non sa (IX 22c-23c).

Lettura rapidaQuesto tipo di lettura potrà mostrarci la struttura narrativa dell’opera, che consta di tre discorsi pro-

nunziati da Socrate a sua difesa dinanzi ai giudici. Quindi ha l’andamento di un’arringa difensiva chetante volte abbiamo visto fare da avvocati in film e telefilm. Nel nostro caso è lo stesso imputato (Socrate)a difendere se stesso, come sembra abbia fatto Socrate durante il processo.

La lettura rapida può fornirci una prima informazione sul tema su cui verte l’Apologia, su alcune paro-le-chiave che la caratterizzano e una prima loro chiarificazione.

Ma quella prima lettura soprattutto ci può fornire un’immagine di Socrate, dell’uomo e del pensatore.Chi è Socrate, questo ateniese accusato di colpe gravi nei confronti della città e dei suoi concittadini? Èresponsabile di ciò che gli viene imputato? Quale è l’immagine che di lui hanno dato gli accusatori equella che fornisce lui stesso di sé?

Quali sono le parole-chiave? • Innanzitutto sapienza. Di lì sono nati l’odio e l’avversione verso Socrate, contro la sua “sapienza”.

“Sapienza” ha due accezioni, a seconda che si parli della “sapienza” di coloro che si consideranosapienti o di quella di Socrate, il quale dice che la sua sapienza è un “sapere di non sapere”.

• L’altra parola-chiave potrebbe essere la missione di Socrate: in che cosa consisteva? chi gliela avevaassegnata?

• La terza parola-chiave è vivere, anzi vivere bene, vivere rettamente. • La quarta e ultima parola-chiave è morte, quella che ora aspetta Socrate, ma che aspetta anche ogni

uomo. Che cosa è la morte? il peggiore dei mali oppure no? • Possono però essere scelte anche altre parole-chiave, ad esempio accuse e difesa, le accuse rivolte

a Socrate e le argomentazioni con le quali Socrate risponde a queste accuse. • Oppure potrebbe essere scelto anche un taglio di lettura particolare come: Socrate e Atene.

Lettura analiticaSe la prima lettura ci ha fornito una prima e rapida visione di situazioni e temi, una “lettura lenta” deve

servirci per approfondire e per mettere alla prova anche le parole-chiave prescelte, oltre che a riconsi-derare l’“immagine” di Socrate che abbiamo percepito. La “lettura lenta” è analitica: consisterà in unleggere-e-rileggere facendo ipotesi di interpretazione. Al centro della nostra analisi ci sarà la domandache ci siamo posti nella lettura rapida: qual è il tema, l’argomento di cui tratta l’opera e che cosa vienedetto di questo tema o di questo argomento?

Si procede, in questo caso, gradualmente, identificando volta per volta i passaggi del testo, gli snodidel discorso, dell’argomentazione. In questa sede si possono fare solo degli esempi.

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Ora qualcuno potrebbe intervenire: “Ma insomma, Socrate, qual è l’attività che svol-gi tu? Da dove ti sono venute queste calunnie? Perché, sicuramente, se tu non aves-si fatto nulla fuor dall’ordinario rispetto agli altri non ti sarebbe venuta questa famacon queste dicerie, se tu non avessi compiuto nulla di diverso da tutti gli altri. Riveladunque a noi che cos’è mai questo, perché noi non vogliamo prendere in esame iltuo caso, così, senza ponderazione.” Se qualcuno parla in questo modo a me pareche dica bene e io tenterò di dimostrarvi che cos’è quel che mi ha procurato que-sta nomea e queste voci calunniose. Ascoltatemi dunque. E forse a qualcuno di voisembra che io scherzi; ma voi sapete bene che io dirò tutta la verità. Io dunque, cit-tadini Ateniesi, mi sono procurato questo nome per una certa sapienza. E qual è poiquesta sapienza? Quella che viene considerata sapienza umana: e in realtà io rischiodi essere saggio in questa sapienza. Quelli invece, di cui parlavo poco fa, potrebbe-ro essere saggi in una sapienza che è più grande rispetto a quella umana, oppure ionon so che cosa dire. Io, in realtà, questo tipo di sapienza non la conosco e se qual-cuno invece lo afferma, mente e parla per spargere calunnie sul mio conto. E ora,cittadini Ateniesi, non fate trambusto, neppure se sembrerà che io dica qualcosa ditroppo grande, perché non è la mia parola che io dico, ma io riferirò che chi parlaper voi è ben degno di considerazione. Della mia sapienza, se pure essa è sapienzae quale, io chiamerò testimone davanti a voi il dio di Delfi. Voi avete certamenteconosciuto Cherofonte. Egli fu un mio compagno fin da ragazzo ed è pure amico allavostra parte popolare e, insieme a voi, prese parte a questo esilio, e con voi feceritorno. E voi sapete anche che uomo era Cherofonte e come era ben determinatoverso quello che si volgeva a fare. Ed ecco una volta che egli recatosi a Delfi osòfare all’oracolo questa domanda, e, come vi chiedo, non rumoreggiate cittadini, face-va appunto domanda se vi era qualcuno più sapiente di me. E la Pizia rispose chenon v’era nessuno che fosse più saggio. E di queste cose suo fratello che è qui pre-sente potrà farvi da testimone, perché lui è morto.Considerate dunque i motivi per i quali io vi dico queste cose: voglio dimostrarviinfatti donde è nata la calunnia contro di me. Dopo aver udito questo responso, ioragionai così fra me e me: «Che cosa mai intende significare il dio? Che cosa mai sot-tintende ai suoi enigmi? Perché io, per quel che mi riguarda, so di non essere sapien-te, né molto né poco. Allora che cosa mai vuol dire affermando che io sono il piùsapiente di tutti gli altri? Perché, sicuramente, egli non mente, giacché non è lecito alui mentire». E per lungo tempo io fui incerto su che cosa volesse dire. Poi, per quan-to contro mia voglia, mi misi a farne una ricerca così. Mi recai da uno di quelli chegodono la fama di essere sapienti, perché in questo modo avrei potuto confutare l’o-racolo, facendo conoscere al vaticinio quanto segue: «Ecco costui è più sapiente dime, mentre tu affermavi che lo ero io». Mentre dunque stavo esaminando questo tale,non vi è alcun bisogno che io ve ne dica il nome, era uno dei politici esaminando ilquale e dialogando con lui, io provai questa esperienza: mi sembrava che quest’uo-mo avesse la fama e fosse sapiente per molti altri uomini e, in particolare modo, perse stesso, ma che in realtà non lo fosse; e allora tentai anche di fargli intendere checredeva di essere sapiente, ma che in realtà non lo era. Da quel momento dunquefui odiato non solo da lui, ma anche da molti di quelli che erano presenti. E mentreme ne andavo via da lui consideravo tra me e me che ero più sapiente di lui: eramolto probabile che nessuno di noi due sapesse nulla di bello e di buono, ma costuicredeva di sapere, pur non sapendo, io invece, poiché non so, non penso nemme-no di sapere. Mi sembrò dunque di essere più sapiente di lui, proprio di questopochettino, perché io, quel che non so, non credo nemmeno di saperlo.

da Apologia di Socrate, a cura di Gino Giardini, Newton & Compton Editori, Roma 1997

Le cosiddette prigioni

di Socrate, Atene.

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300METODO E STRUMENTI

Partiamo, come spesso accade nel discorso filosofico, da una domanda, in questo caso implicita, a cuiSocrate risponde: c’è una “sapienza” di cui Socrate riconosca di essere sapiente? Ha già escluso chequesta sapienza sia quella dei Sofisti, che a pagamento sanno insegnare la “virtù dell’uomo e del citta-dino”. La scena di questa parte del discorso – ricordiamolo – è quella della arringa difensiva che sareb-be stata pronunziata da Socrate. Più che ai giudici Socrate si rivolge ai cittadini di Atene. Afferma che lasua è una certa sapienza umana. In che cosa consiste questa sapienza umana? Socrate non ce lo dice.Se ci aspettavamo che lo spiegasse subito, saremo rimasti al momento delusi. Socrate riprende il riferi-mento ai Sofisti (“Quelli invece di cui parlavo poco fa...”): essi sono sapienti di una sapienza più cheumana. Socrate è più interessato a distinguere, anzi a separare nettamente la sua “sapienza umana” dalla“sapienza più che umana” dei Sofisti.

Socrate vuol dire di sé che non è un Sofista, che non gli si possono attribuire le accuse rivolte ai So-fisti (“far apparire la ragione peggiore migliore”, diceva in precedenza riferendo una delle accuse chegli venivano rivolte).

Rivendica per sé: “la sapienza di costoro non la conosco” chi lo sostiene mente ed è un calunniatore. Riassumendo, di che “sapienza” è sapiente Socrate? Di una sapienza umana, che non deve essere

scambiata con la sapienza più che umana dei Sofisti.Ora nel discorso di Socrate c’è una evoluzione. Anche stilisticamente egli la annunzia: “E ora, citta-

dini ateniesi, non fate trambusto, [...] chi parla per voi è ben degno di considerazione”.

La comprensione delle informazioni necessarieAnche l’Apologia contiene nomi e riferimenti a situazioni che è necessario conoscere, per poter com-

prendere in tutto il loro significato le affermazioni di Socrate. Questo vale per ogni altra opera. Chi è Cherofonte, che cosa c’è a Delfi, di quale dio si tratta, chi è la Pizia, che cosa è un oracolo. Nei

testi di storia o in enciclopedie ci dovrebbero essere informazioni su tutti o quasi questi aspetti oppuredovremo acquisirle altrove.

Di Cherofonte forse ci possiamo accontentare di quello che scrive Platone. Uomo “ben degno di con-siderazione” lo definisce Socrate, “amico alla vostra parte popolare”, quindi della parte democratica. Sisa che fuggì come altri democratici al momento dell’insediamento dei Trenta Tiranni e che ritornò, conTrasibulo, quando ebbe termine quella dittatura. Dunque Socrate riferisce la testimonianza sì di un suoamico, ma che è persona di fede democratica e degna di fiducia.

Delfi è per i Greci un luogo molto importante. Non solo è la sede di un santuario del dio Apollo, a cuimolti Greci sono devoti, ma è soprattutto il santuario a cui le póleis si rivolgevano per ottenere oracolirelativi all’insediamento di nuove colonie fuori della madrepatria.

L’oracolo è il responso che il dio faceva ottenere attraverso i sacerdoti o le sacerdotesse del tempio di Delfi. La Pizia era una di queste sacerdotesse. Dunque, il responso che viene dato al quesito posto da

Cherofonte è particolarmente significativo e rilevante: viene da un’autorità religiosa che tutti i Greci rico-noscono. Dunque, Socrate è stato dichiarato il più sapiente di tutti gli uomini dall’oracolo di Delfi.

L’individuazione e la rassegna dei concettiMa di quale sapienza Socrate è il più sapiente?Torna il concetto centrale di “sapienza”, ma Socrate, abbiamo visto, distingue nettamente la sua

sapienza da quella degli altri. Dunque dovremo definire la sapienza di Socrate, quella dei Sofisti, poiquella dei poeti, quella dei politici, quella degli artigiani.

Più in generale, in questa, come in ogni altra opera filosofica individuare, riconoscere e definire con-cetti è fondamentale.

È consigliabile, in un quaderno di appunti, dedicare una apposita sezione alla raccolta di definizionio affermazioni relative ai concetti. Facendo attenzione, però, che non si confondano tra di loro aspettiappartenenti a diversi concetti: la sapienza di Socrate non va confusa con quella dei Sofisti. Anche inassenza di una esplicita definizione del concetto, è possibile – riordinando logicamente le diverse affer-mazioni – giungere a una definizione del concetto in questione.

Per esempio, della sapienza di Socrate si dice... (e si vanno a cercare citazioni nell’Apologia di Socrate).

La ricostruzione dell’argomentazioneTorniamo alla nostra domanda di fondo e di partenza: di che cosa parla l’opera e che cosa viene detto

di questo tema? Nella “lettura analitica” si segue passo a passo lo snodarsi del testo cercando conti-nuamente risposte. A tal fine facciamo un lavoro che ci può aiutare: paragrafiamo e sottoparagrafiamoil testo, dando titoli sia ai paragrafi che ai sottoparagrafi.

Come testo ci riferiamo a quello riprodotto a pag. 299.Proponiamo alcuni titoli, ad esempio quello che corrisponde alla domanda che Socrate si pone dopo

aver saputo il responso dell’oracolo: che cosa vuol dire il dio? Ma si potrebbe titolare anche La sapien-za di Socrate, oppure ancora So di non sapere. Come si potrebbe suddividere il testo in sottoparagrafi equale titolo dare a ciascuno?

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Il primo riguarda le prime righe e il titolo è sicuramente la domanda prima citata: Che cosa vuol dire il dio?Il secondo passaggio corrisponde a una sola frase (ma che frase!) che può anche essere il secondo titolo:

Certo il dio non mente, perché non può mentire. Oppure più direttamente: Il dio non mente. Dunque, So-crate è il più sapiente di tutti gli uomini! Poi inizia la fase della ricerca. Possiamo titolare questo sottopa-ragrafo La ricerca oppure Alla ricerca del senso dell’oracolo. Il primo che Socrate incontra è un uomopolitico. Titoleremo La “sapienza” dell’uomo politico oppure Esaminando la sapienza del politico.

Il passaggio successivo potrebbe essere: secondo Socrate il politico presume di essere sapiente.Potremmo anche togliere il titolo precedente e dare alle righe in questione quest’ultimo titolo. Socratesa bene che per aver cercato di convincere il politico di non essere sapiente si è attirato odio. Titoleremo:Odio contro Socrate.

Se non si volesse paragrafare andando, per così dire, passo a passo (ma in una prima fase di questotipo di lavoro per chi non è esperto è bene farlo) si potrebbe titolare tutta la seconda parte del paragrafo,ad esempio, Vera e falsa sapienza, essendo il tema del racconto di Socrate quello da cui emerge che ilpolitico credeva di essere sapiente e non lo era e Socrate non era sapiente, ma neanche credeva di esser-lo: sapeva di non sapere.

Ma perché chi sa di non sapere è sapiente, anzi, perché Socrate che sa di non sapere è il più sapien-te di tutti gli uomini?

A questo punto saremmo in grado di mettere il titolo al paragrafo, riguardando i titoli attribuiti ai diver-si sottoparagrafi. Vanno bene i titoli qui proposti per il paragrafo? Vanno modificati o cambiati total-mente? Perché?

Il significato dell’operaDi che cosa parla l’Apologia? È la difesa di Socrate? La si può considerare una trascrizione più o meno

fedele dei discorsi pronunziati da Socrate in quella occasione? Il personaggio principale è “Socrate”: machi parla è il Socrate storico, oppure è Platone? Quelle che vengono riportate sono le idee e le posi-zioni di Socrate o quelle del suo pur bravissimo ed eccezionale discepolo? Siamo in grado di stabilireciò che è di Socrate e ciò che è di Platone?

Per provare a rispondere a queste intricate questioni dovremmo andare in direzione di due ricerche ditipo, come si dice in linguaggio tecnico, co-testuale. Cioè dovremmo analizzare altri dialoghi platoniciappartenenti o attribuiti al primo periodo platonico, quello socratico appunto, per ritrovare temi, impo-stazioni, concetti e problemi analoghi a quelli dell’Apologia. Poi dovremmo tener conto anche di altreopere, filosofiche e non, come la commedia Le Nuvole di Aristofane e gli scritti di Senofonte (anch’egliscrisse un’Apologia di Socrate). Molti, dopo la morte di Socrate, si considerarono i continuatori del pen-siero socratico, ma chi fu l’autentico erede e interprete del pensiero socratico?

Quale scopo Platone voleva raggiungere con la sua Apologia? Voleva difendere la figura e l’opera diSocrate? riprendere e continuare la sua “missione”, presentarsi come il vero interprete e continuatoredella missione e del pensiero di Socrate? A chi si rivolgeva? Chi erano i lettori del suo testo? i cittadinidi Atene? il gruppo dirigente democratico? i discepoli di Socrate? quei cittadini di Atene che intendeva-no o potevano essere convinti a prendersi cura della loro anima e delle sorti di Atene?

La figura di SocrateQuale “Socrate” viene proposto nell’Apologia? Quale delle immagini di Socrate Platone vuole pro-

porre? il Socrate anomalo, quello che inquietava anche Senofonte? oppure una figura meno difficile daaccettare, più accomodante? No, non sembra che Platone intenda smussare gli angoli di un personag-gio e di una attività che spesso avevano suscitato odi ed avversioni, che vengono ricordati. In più di uncaso nell’Apologia sappiamo, “sentiamo” che gli Ateniesi protestano e si indignano per alcune afferma-zioni di Socrate, che, per parte sua, riconferma il suo ruolo di “tafàno”, che sollecita, stimola e criticapungendo ai fianchi la città, ma che rifiuta di essere accusato di non aver voluto e cercato il bene dellacittà. Egli, invece, di tale ricerca ha fatto la sua prima preoccupazione, quella a cui tutto ha sacrificato.

Lo stile dell’ApologiaTutto il testo dell’opera è nella forma del discorso diretto, poiché vuole presentare i discorsi pronun-

ziati da Socrate in sua difesa, in occasione del processo. Intende riprodurre proprio quelle modalità deldialogare socratico che erano uno dei tratti distintivi di questo pensatore, con quel domandare equell’argomentare capace di mettere in difficoltà e sconcertare l’interlocutore.

Nella parte centrale dell’opera “Socrate” riproduce quegli incontri e quei dialoghi con poeti e politiciche gli hanno attirato tanta avversione. “Socrate” si difende, ma spesso contrattacca, conferma le suescelte e la validità del suo impegno.

Platone riesce a scrivere un’opera dandole un ritmo incalzante, attraverso un dialogo teso e dramma-tico tra Socrate e gli Ateniesi. Sembra di sentir aleggiare la domanda che Platone più volte si è posto eavrà posto: come è stato possibile mandare a morte il più giusto di tutti gli uomini?

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302METODO E STRUMENTI

Il titoloTitolo “facile”, almeno all’apparenza. Un’opera sul “metodo”, ma quale metodo? Il titolo completo

dell’opera è più esplicito: Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la veritànelle scienze. L’accento, oltre che sul metodo, cade su “ragione” e su “scienze”. Che rapporto c’è tra leune e l’altra? Notiamo anche che, invece del più impegnativo titolo di Trattato sul metodo, viene usatoquello di “discorso”, che è più colloquiale, che fa pensare a un testo in cui il tema non sia sviluppatoin modo sistematico.

Il contesto del DiscorsoCartesio aveva poco più di quarant’anni quando terminò quest’opera (era nato nel 1596). Era ormai

definitivamente tornato in Olanda, sua patria d’elezione, abbandonando così la Francia. L’Olanda è perlui un posto più tranquillo e meno dispersivo e mondano di Parigi e della Francia, e ha una tradizionedi tolleranza. Anche se vive in un Paese calvinista, Cartesio è attento a non mettersi in urto con la Chiesadi Roma: già si è fatto una fama di pensatore innovatore e di critico del sapere tradizionale.

Cartesio, comunque, è inserito a pieno titolo nel clima culturale del Seicento francese, molto vivo eanimato da fermenti e nuove idee.

Ma in Francia la Scolastica è ancora forte e ben radicata: non solo nelle Università e nella cultura dellaChiesa cattolica, ma anche nei Collegi, essa è l’asse della formazione dei giovani. Lo scontro tra inno-vatori e conservatori è forte. Le notizie che provengono da Roma non sono incoraggianti: Galileo è statocondannato per la sua difesa dell’eliocentrismo e costretto all’abiura. Il Sant’Uffizio e il tribunaledell’Inquisizione sono controllori arcigni e intransigenti dell’ortodossia tridentina, contro ogni presa diposizione che possa far sospettare un ulteriore attacco alla dottrina cattolica.

Lo stesso Cartesio sarà indotto, anche dalla condanna di Galileo, a non stampare l’opera intera di cuiil Discorso doveva essere solo una parte, poiché nella parte più propriamente scientifica (uscita, poi, conil titolo Il mondo) si schierava a favore dell’eliocentrismo.

Prefazione e indiceAl testo vero e proprio dell’opera non viene premessa una prefazione, ma un testo breve in cui

Cartesio descrive molto succintamente le sei parti in cui ha suddiviso lo scritto. Tali parti riguardano:

1. considerazioni relative alle scienze, prevalentemente considerazioni critiche sul sapere dominantenel suo tempo;

2. le regole del metodo;

3. le regole della morale provvisoria;

4. la metafisica con riferimento all’esistenza di Dio e dell’anima;

5. questioni di fisica;

6. indicazioni necessarie per andare avanti nello studio della natura.

La prima considerazione da fare è che nell’opera non si parla solo di “metodo”, anzi che una sola delleparti è dedicata a questo tema. Ma è il titolo stesso dato da Cartesio a sottolinearne la centralità.

Oltre la suddivisione in queste sei parti, di cui Cartesio ha indicato il contenuto, manca un indice che,in maniera più dettagliata e circostanziata, ci descriva il contenuto di ognuna delle parti dell’opera.Possiamo, però, utilizzare la scansione e la titolazione dei paragrafi fatta, ad esempio, dal curatore diuna delle tante edizioni italiane dell’opera.

CARTESIO: IL DISCORSO SUL METODOESEMPIO B

Discorso del metodo[Premessa dell’autore]

Parte primaIntroduzione. Il buon senso – I sentieri incontrati dall’autore. – Scopo del pre-sente scritto. – Gli studi giovanili del Cartesio. – Osservazioni particolari sullediscipline studiate. – Esperienza del mondo. – Verso la solitudine.

Parte secondaRitiro invernale. Prime riflessioni – Risoluzione critica del giovane filosofo eriserve che la circondano. – I fondamenti del nuovo metodo. – Prime applica-zioni di esso. – Nuova risoluzione del filosofo.

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Parte terzaQuattro massime di «morale provvisoria». – Nuova esperienza del mondo ... –... e nuovo ritiro in solitudine.

Parte quartaLe meditazioni cartesiane. Dalla negazione di ogni sapere al «cogito ergo sum».– Dall’affermazione del pensiero alla scoperta dell’anima. – Il criterio di cer-tezza. Dal dubbio alla scoperta di Dio. – Lo spazio e la materia. – Critica dellaconoscenza sensibile. – La sola evidenza razionale è decisiva.

Parte quintaEffetti delle meditazioni cartesiane. Sommario di un trattato «sulla natura dellecose materiali». – Ipotesi sulla creazione del mondo. – Dell’organismo umano.– Spiegazione del movimento del cuore e del sangue. La circolazione del san-gue. – Altre nozioni di fisiologia. – Psicologia degli animali irragionevoli. – Illinguaggio: prerogativa umana. – Dell’anima ragionevole. – Sua immortalità.

Parte sestaPerché il Cartesio non pubblicò il suo trattato «del mondo o della Luce». –Intendimenti del Cartesio quanto alla nuova fisica. – Pensieri intorno alle espe-rienze. – Ragioni che indussero l’autore a non rendere di pubblica ragione i suoistudi di fisica. Ragioni soggettive. – Dubbi sulla utilità della pubblicazione. –Avvertimenti al lettore. – Conclusione: propositi dell’autore per l’avvenire.

a cura di Antonio Lantrua, Editore Laterza, Bari

Siamo d’accordo con la paragrafazione fatta e con i titoli dati a ogni paragrafo? Dove riteniamo oppor-tuno fare cambiamenti e perché?

Emerge dal lavoro del commentatore e del curatore una linea interpretativa? Quale?

La lettura veloceCartesio scoraggia chi intende fare una lettura veloce del Discorso già nelle primissime righe del testo,

quando dice che il discorso è troppo lungo per essere letto tutto in una volta.Pur senza avere questa pretesa, possiamo ricavare da una lettura veloce, fatta a tappe, alcuni temi e

questioni-chiave che non appaiono dall’elenco delle sei parti.Innanzitutto il carattere autobiografico dell’opera: Cartesio fa frequenti riferimenti al suo itinerario

intellettuale. Ma questo non significa che intenda autocelebrarsi. Al contrario, egli vuole smorzare l’im-patto della sua posizione, presentando il suo metodo non come quello che tutti debbano seguire, macon il solo intento di far vedere come ha cercato di condurre la sua ragione. Successivamente una que-stione centrale della sua filosofia: quella del dubbio. Un dubbio scettico? Un dubbio metodico? Perchémettere tutto in dubbio? Anche le scienze?

Nella quarta parte, relativa alla metafisica, il tema che emerge è prima quello del Cogito ergo sum, l’e-videnza nel suo fondamento. Il “Cogito” è la parte di un ragionamento? di un sillogismo? Come si passadal “Cogito” all’affermazione di una res cogitans? Sempre nella metafisica vi è la prova dell’esistenza diDio: dall’idea di Dio si può arrivare all’esistenza di Dio? Quale funzione viene assegnata a Dio nellafilosofia cartesiana? e nella fisica cartesiana, oggetto della quinta parte? Il meccanicismo da Cartesioviene esteso anche all’uomo? Tra corpo e anima, res cogitans e res extensa, strettamente uniti: comespiegare il rapporto di due sostanze eterogenee?

La lettura analiticaScegliamo per la lettura analitica la Prima parte, in cui gli argomenti principali sono due: il buon

senso, cioè la ragione e la critica della cultura del suo tempo. Quanto al primo tema, selezioniamo le affermazioni che Cartesio fa sulla ragione.Sulla ragione (il buon senso) dice che:• è “la cosa meglio distribuita al mondo”;• “ciascuno pensa di esserne ben provvisto”;• è “la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso”;• “è naturalmente uguale in tutti gli uomini”;• “non è sufficiente aver un bell’ingegno: la cosa importante è applicarlo bene”;• “è la sola cosa che ci rende uomini e ci distingue dalle bestie”.

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304METODO E STRUMENTI

Domandiamoci quali di queste affermazioni si presentino come nuove e quali, invece, abbiamo tro-vato più volte nel corso della storia della filosofia. C’è già una affermazione che rimanda al metodo ealla sua importanza: non è importante avere un bell’ingegno (l’esprit bon), ma applicarlo bene.

Di seguito, Cartesio analizza criticamente la cultura del suo tempo. A questo riguardo parla di “studiletterari”, ma bisogna tener presente che gli studi umanistici (Litterae humaniores) allora prevedevanooltre, ad esempio, alla retorica, alla poesia, alla morale e alla metafisica, anche la fisica e la matemati-ca. Ancora una volta questo ci ricorda che per la comprensione di un testo abbiamo bisogno di dispor-re di informazioni specifiche, come questa appena citata. Se attribuissimo a “studi letterari” il significa-to attuale, ne potrebbero derivare fraintendimenti.

Vi sono state acquisizioni positive per Cartesio come risultato di questi studi? Sembra di no: “avevoscoperto sempre più la mia ignoranza”. Cartesio è uno studente, meglio un ex-alunno, molto critico neiconfronti della scuola: egli, però, non critica la scuola in cui ha studiato, ma il curriculum degli studi.Ma procediamo gradualmente a ricostruire l’argomentazione cartesiana in alcuni passaggi.

Non è tutto negativo quel che Cartesio ha tratto dal suo studio: “continuavo ad apprezzare gli eserci-zi ai quali ci si dedica nelle scuole”. Ad esempio, egli sa che le lingue sono importanti per comprenderei libri antichi, che la poesia ha una dolcezza e una delicatezza che incantano, e così via.

Ma fin troppo tempo Cartesio ha dedicato a queste attività. Non si può “viaggiare” troppo nel passato.È importante conoscere usi e costumi di altri popoli, ma se si passa troppo tempo a viaggiare nel passa-to “si finisce per diventare stranieri nel proprio Paese”. Anche in questo Cartesio potrebbe andare d’ac-cordo con gli studenti di oggi che chiedono più spazio per la cultura e la storia contemporanea. Alloraquale mentalità dava grandissima importanza e molto spazio alla cultura degli antichi? Di nuovo – maqui saranno tutte le considerazioni di Cartesio a renderlo necessario – la piena comprensione di questeaffermazioni rimanda al contesto, alla convinzione, di cui la parte più avanzata della cultura moderna eraportatrice, che la modernità fosse più importante dell’antichità, che i moderni fossero superiori agli anti-chi. Non è ancora questa la tesi cartesiana, ma sicuramente vengono denunziati i limiti della cultura uma-nistica: più ci si preoccupa di conoscere le cose del passato, più si rischia di restare ignoranti di quelledel nostro tempo. Oltretutto non si tratterà di “favole” che fanno ritenere possibile ciò che non lo è?

Continua a parlare di un modello di cultura umanistica? Vediamo. Dichiara stima per l’eloquenza, laretorica e la poesia. Ma coloro che ragionano meglio o elaborano meglio i loro pensieri, non hannobisogno della retorica per essere persuasivi, si può essere buoni poeti senza conoscere l’arte poetica.Qui, decisamente, la critica colpisce due capisaldi della cultura umanistica.

Ma se non avessimo saputo che la retorica e la poesia nella cultura umanistica... Il ricorso alla nostra“enciclopedia” è molto importante per avere una comprensione adeguata del testo. E se queste infor-mazioni e conoscenze le abbiamo dimenticate o non le abbiamo chiare o ne manchiamo del tutto, dob-biamo recuperarle o acquisirle.

Anche il passaggio successivo ce lo conferma. Vi si parla delle matematiche. La considerazione che leriguarda è positiva: i loro ragionamenti sono evidenti e certi. Conosci queste due parole? In Cartesiosono due parole-chiave, soprattutto la prima, l’evidenza. Per averne conferma basta andare alla primaregola del metodo cartesiano: non accetterò mai niente per vero che non sia evidente alla mia mente. Eallora che cosa non va nelle matematiche? Hanno fondamenti fermi e solidi, ma con questi non si ècostruito nulla di più rilevante. La critica allora riguarda l’uso delle matematiche. Fa un passo avanti inquesta direzione Cartesio? Dove, nelle pagine seguenti del Discorso, l’autore considera il loro modo diprocedere quasi un modello? e perché?

Il lettore, sia quello esperto sia chi non lo è, si pone, si deve porre molte domande, formulando ipo-tesi, cercando nel testo le risposte.

Chi sono i destinatari del Metodo?Possiamo ricostruire a chi si rivolgeva Cartesio da alcune indicazioni che, naturalmente, ricaviamo dal

testo.Innanzitutto il fatto che l’opera sia stata scritta in francese, ci fa capire che il lettore a cui pensa

Cartesio, più del latino, che era stato ed era ancora la lingua della cultura dotta (ma anche di una cul-tura tradizionale), conosce il francese, forse la sua lingua madre, oppure una lingua che ha appreso eche preferisce. Il francese cominciava ad affermarsi allora come lingua “internazionale”. La scelta delfrancese fa pensare a un lettore moderno, aperto al nuovo, un lettore colto, ma non un dotto, o ad unospecialista.

Uomini dotati di “buon senso”, cioè uomini che hanno tanta razionalità quanta ne serve e che nellaragione hanno fiducia. Alla ragione, di cui “ciascuno pensa di esserne così ben provvisto che anche ipiù difficili da accontentare, non hanno l’abitudine di desiderarne più di quanta ne abbiano”, è signifi-cativamente dedicata l’apertura del Discorso. La ragione non era un principio “neutro”, pacifico: nonlo era particolarmente allora, tempo di intolleranze religiose, di conflitti di fede. E, forse, allora di “buonsenso”, pensava Cartesio, ce ne sarebbe stato bisogno.

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Uomini “aperti”, ma moderati, non dei rivoluzionari. Cartesio li tranquillizza con la prima regola dellasua morale provvisoria: “obbedire alle leggi e ai costumi del mio Paese”. Quindi si rivolge a un suddi-to rispettoso delle leggi e dello Stato. Ma forse anche a un credente, a cui Cartesio pensa quando aggiun-ge che intende osservare “costantemente la religione nella quale Dio mi ha fatto la grazia di essere edu-cato fin dall’infanzia”. Infine, precisa che vuole regolarsi “secondo le opinioni più moderate e più lon-tane dagli eccessi”. Si è detto anche che si rivolge a un uomo pratico, visti i continui riferimenti all’im-portanza dell’esperienza nella vita.

Ma forse tra i suoi lettori pensa che vi saranno anche personaggi autorevoli e forse non sempre bendisposti verso di lui e le sue idee. Cartesio intende tranquillizzare anche costoro e smussare dubbi e cri-tiche. Ma da quello che scrive nella sesta parte, si capisce che egli scrive anche pensando ai posteri cheleggeranno la sua opera e li invita a non credere che vengano da lui certe tesi se non le ha divulgate eglistesso.

Quale immagine di sé vuol dare l’autore?Sarebbe importante selezionare tutte le espressioni significative presenti in questa opera (che si pre-

senta con un chiaro taglio autobiografico e che è scritta, dunque, in prima persona) per far emergere connettezza l’immagine di sé che Cartesio vuole comunicare. Individuiamo alcune delle espressioni che sitrovano già nelle prime pagine.

• “Non ho mai presunto che il mio ingegno fosse in nulla superiore a quello dei più”;• “Penso di aver avuto molta fortuna nell’essermi imbattuto fin da giovane in certi percorsi [...] da cui

ho formato un metodo”;• Egli parla anche della “mediocrità del mio ingegno”;• “Nei giudizi che do di me stesso io cerco di inclinare piuttosto verso la diffidenza che verso la pre-

sunzione”;• “Può darsi che io mi sbagli”, “so quanto siamo soggetti a sbagliarci”;• “Il mio scopo non è di insegnare il metodo che ciascuno deve seguire [... nella sua ricerca ...] ma

di far vedere in quale maniera ho cercato di condurre la mia”.

Quale immagine di sé vuol comunicare? Quella di una persona che ha un ingegno “mediocre”, che èstata fortunata, che non è presuntuosa, che sa di poter sbagliare. Non propone un metodo per tutti, nonvuole insegnare il metodo, ma dire quale è stato il suo. Modestia, cautela, moderazione, nessuna pre-sunzione, disponibilità a mettersi in discussione: questa la sua autopresentazione.

Ma è tutto qui? Ci sono anche affermazioni che ci danno un Cartesio consapevole dei suoi mezzi,della sua fama e dei risultati raggiunti o che può raggiungere? Fai attenzione, ad esempio, al fatto che,pur essendosi premurato di presentarsi come uomo di capacità e ingegno medi, egli, nella prima partedell’opera critica radicalmente tutto il sapere dell’epoca. Mostra di non voler essere presuntuoso, ma nelsuo intento di critica radicale sa di mettersi “al di sopra” della cultura del tempo, è convinto di poter darluogo a un nuovo edificio del sapere.

Cerca le espressioni che comprovano questa seconda linea interpretativa. Quale aspetto prevale? Qualiespressioni sono più frequenti? Quale ipotesi puoi fare su questo doppio registro di presentazione di sé?

Lo stile del DiscorsoGià nel titolo dell’opera Cartesio evita di parlare di Trattato sul metodo, opta per un più modesto

Discorso, che è meno impegnativo sia per chi scrive che per chi legge. Un “discorso”, quasi una riflessione ad alta voce. Comunque, anche il titolo preannunzia uno stile col-

loquiale, discorsivo, di dialogo con i suoi lettori. Lo stile, in qualche modo, concorre a smorzare lanovità del contenuto, ma non impedisce di cogliere a pieno la novità dell’impostazione e delle tesi chevengono presentate.

L’autore parla di sé: anche dal punto di vista stilistico è evidente il taglio autobiografico, cioè il fattoche ci troviamo all’inizio di una biografia intellettuale. Quasi ogni capoverso inizia facendo riferimen-to, con varie scelte stilistiche, all’“io” dell’autore. Citiamone alcune: “Per quanto mi riguarda...”; “Nonho alcun timore di dire...”; “Tuttavia può darsi che mi sbagli...”; “Il mio scopo non è quello...”.

Ma non è solo nella prima parte che vi è questa scelta stilistica. La seconda apre allo stesso modo,ancora con un taglio biografico: non come una biografia intellettuale, ma con riferimento a vicende per-sonali. “Ero allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che ancora non sono finite”. In maniera blan-da, quasi indiretta, parla di quella che la storiografia chiamerà la “Guerra dei Trent’anni”. Lo stile con-tinua a muoversi su questo registro personale e colloquiale: “Consideravo anche che i popoli...”, “Cosìpensai che anche le scienze dei libri...”. Questo stile consente a Cartesio di fare affermazioni e consi-derazioni senza dar loro mai un tono di definitività, di assolutezza, di validità universale. Sta parlandodi sé, delle proprie esperienze e delle proprie considerazioni; esprime il suo punto di vista.

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Nello stile è evidente, dunque, la centralità del soggetto, del “soggetto” Cartesio, ma anche del “sog-getto” umano. Anche così si manifesta uno degli aspetti più significativi della modernità, che lo stessoCartesio contribuirà a consolidare ed espandere.

Qual è lo scopo dell’opera?Lo scopo o gli scopi possono essere dichiarati esplicitamente nel testo, oppure si possono ricavare da

ciò che viene detto, anche tenendo conto del contesto in cui l’opera si inserisce: i temi, i problemi, idibattiti e le polemiche all’ordine del giorno. Per capire lo scopo dell’opera serve far riferimento nonsolo al testo, ma anche al contesto.

Nel nostro caso uno scopo viene dichiarato già nel titolo e nel sottotitolo: presentare un metodo perben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze. Ma oltre a questo scopo, che è sicu-ramente preminente, ve ne sono altri: presentare la sua morale, sia pure provvisoria, la sua metafisica ealcuni tratti della sua concezione della natura e dell’uomo, tutti aspetti che in qualche modo hanno ache fare con il metodo o perché vi si richiamano, o perché ne rappresentano una applicazione, o per-ché appartengono a una impostazione che con il metodo condivide aspetti anche fondamentali: adesempio, il fondamento razionale da dare al sapere.

Cartesio vuole presentare la sua filosofia nei suoi aspetti autentici, volendo evitare che gli si attribui-scano tesi che non gli appartengono.

Non basta. Cartesio vuole criticare e superare l’impostazione della Scolastica che ancora era neglistudi letterari la cultura dominante, ma lo era soprattutto nella cultura della Chiesa cattolica.

Criticare la cultura del suo tempo, quella che era il fondamento dell’asse educativo, significa proporre, so-prattutto in campo filosofico e scientifico, la sostituzione della Scolastica con l’impostazione cartesiana,razionalista e scientifica, presentandola, però, come non pericolosa per la fede, per le gerarchie della Chiesa,già così diffidenti e preoccupate che le novità della cultura possano scalzare le verità della Chiesa.

Intento “rivoluzionario”, quindi, quello di Cartesio, che, tuttavia, cerca di convincere che non è pe-ricoloso, eversivo.

Ma non sono esauriti così gli scopi dell’autore. Ve n’è uno, che ancora una volta riguarda il metodo,a cui Cartesio tiene molto e di cui parla nella sesta parte. Qual è?

Si può considerare On Liberty (Saggio sulla libertà) un best-seller della storia della filosofia. Ha avuto– nel corso di più di un secolo – edizioni in molte lingue e ancor oggi viene considerato un testo attua-le, ripreso e meditato da pensatori politici contemporanei. Dunque, senza alcuna forzatura, questo testoci consentirà di operare anche sul versante dell’attualizzazione e della problematizzazione.

La contestualizzazione dell’operaA più livelli si può e si deve fare la contestualizzazione di questa opera. Innanzitutto sul piano per-

sonale, con riferimento alla vita di John Stuart Mill. Era stata la moglie a esortarlo a scrivere un saggiosulla libertà. Nel 1855 comincia a pensare a quest’opera, che viene edita nel 1858, poco dopo la mortedella moglie avvenuta nello stesso anno. È dedicata alla moglie amatissima, chiamata “ispiratrice e, inparte, autrice di tutto il meglio della mia opera”.

Mill considera la libertà “la fiaccola della civiltà occidentale” e ritiene questo scritto – come dicenell’Autobiografia – quello, fra i suoi, che probabilmente sopravviverà più a lungo di qualunque altro.

Ma il solo piano personale, ovviamente, non basta. Un altro livello di contestualizzazione, quello sto-rico-politico, è necessario ed ha un ampio respiro. La vicenda di Mill è anche quella di chi ha svolto atti-vità politica in prima persona, sempre su posizioni “progressiste”, sia come pioniere delCommonwealth, cioè dell’autogoverno dei dominions inglesi, sia come intellettuale impegnato a garan-tire un’adeguata rappresentanza parlamentare alla classe operaia, o a difendere i diritti degli Irlandesi,o a riconoscere il diritto di voto alle donne. Queste battaglie avvengono in uno dei Paesi dove – in quel-l’epoca – il livello delle libertà civili e politiche è tra i più avanzati, se non il più avanzato: basterebbericordare il Reform bill del 1832 o la legislazione sulla tutela del lavoro.

Un livello ulteriore di contestualizzazione riguarda la dimensione politico-culturale. Questa ha a che farecon le riflessioni preoccupate che i primi segni, avvertibili solo in alcuni Paesi, di una civiltà di massa pote-vano suscitare. Se ne potrebbero citare diverse anche in pensatori non politici, come ad esempio in So/renKierkegaard.

Ma i referenti a cui lo stesso Mill guarda sono il tedesco Humboldt e il francese Tocqueville, autorequest’ultimo di una delle opere più famose e citate sull’America, appunto La Democrazia in America, sucui Mill pubblica una recensione.

JOHN STUART MILL: ON LIBERTYESEMPIO C

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Quale tema appassiona e preoccupa questi pensatori? La “tirannia della maggioranza” sull’individuo,tirannia che la società e l’opinione pubblica possono esercitare, limitando sempre più la libertà dell’in-dividuo.

Che cosa sosteneva, ad esempio, Tocqueville nella sua opera sulla democrazia americana? che la fedenell’opinione pubblica è in America una sorta di religione e la maggioranza è il suo profeta. Una lettu-ra “parallela” delle due opere, o, comunque, un riferimento ampio all’opera del pensatore francese,sarebbe auspicabile.

Il motto di On LibertyIn un testo, anche il motto posto in apertura può dirci molte cose del senso di questa opera. È il caso

particolarmente di questo scritto. Mill vi premette una frase di Humboldt, pensatore liberale del primoOttocento, tratta da un’opera il cui titolo è già significativo: Idee per un saggio sui limiti dell’attività delloStato.

“Il grande principio, cui direttamente convergono tutti gli argomenti sviluppati in queste pagine, è l’as-soluta ed essenziale importanza dello sviluppo umano nella sua più ricca diversità”.

Scriveva Mill nella sua Autobiografia che il suo scritto sulla libertà voleva sottolineare l’importanza perl’uomo e per la società di una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana diespandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti. Si noti che l’accento non viene posto tanto sullo svi-luppo umano, quanto sulla “più ricca diversità” che lo deve caratterizzare. Anzi si precisa che la natu-ra umana si deve espandere in direzioni innumerevoli e contrastanti. Perché questa sottolineatura delcontrasto e della conflittualità? La ricchezza delle diversità umane è posta come il fattore positivo dellosviluppo umano. Ma quale pericolo può insidiare questo sviluppo e come si può combatterlo?

Indice e prefazioneL’indice ci dà informazioni preziose sul contenuto di un’opera. On liberty è suddiviso in cinque capito-

li. Di questi il primo contiene l’Introduzione, e avremo modo di parlarne tra poco. Seguono quattro capi-toli. Togliendo l’ultimo, intitolato Applicazioni, restano i seguenti: Della libertà di pensiero e di discussio-ne; Dell’individualità come elemento del bene comune; Dei limiti all’autorità della società sull’individuo.

Se ne possono ricavare tre nuclei tematici: l’individuo, la libertà, la società, nei quali il primo e ilterzo sembrano se non in opposizione, certo in qualche modo alternativi l’uno all’altro. Si parla infattidei limiti da porre all’autorità della società sull’individuo, della necessità di salvaguardare l’individuo.Eppure l’individuo non viene contrapposto alla dimensione sociale e collettiva della vita, poiché si diceche l’individuo è “un elemento del bene comune”. Ma in che senso l’individualità è parte del benecomune? Non è un controsenso affermarlo? Quali sono i limiti da porre all’autorità della società (atten-zione: autorità della società, non dello Stato)? Non vi sono anche dei limiti da porre all’individuo?Perché è messa così in rilievo la libertà di pensiero e di discussione, cioè quali aspetti di novità presen-ta un tema come questo, che non è certo nuovo nel dibattito culturale e politico dell’Occidente? Comeva inteso e che rilevanza può avere in Mill?

Scopo dell’operaLo scopo dell’opera si trova già in queste domande. Ma possiamo esplicitarlo selezionando due affer-

mazioni, tratte dall’Introduzione che qui di seguito verrà analizzata. La seconda, come si vedrà, defini-sce esplicitamente lo scopo del saggio.

1. “Vi è in generale nel mondo una crescente inclinazione a estendere indebitamente i poteri dellasocietà sull’individuo, [...] a rafforzare la società e diminuire il potere dell’individuo, [...] a imporre aglialtri, come norme di condotta, le proprie opinioni e tendenze”.

2. “Scopo di questo saggio è formulare un principio molto semplice, che determini in assoluto i rap-porti di coartazione e controllo tra società e individuo”.

Analisi dell’IntroduzioneDedichiamo all’Introduzione sia la lettura veloce che quella analitica. Cercheremo, analizzando il

testo, di ricostruire i temi trattati e il loro sviluppo; metteremo a fuoco i concetti principali e a tal fineselezioneremo tesi e passaggi.

La questione di fondo sta già nelle prime righe ed è dichiarata con chiarezza. A proposito della libertàcivile o sociale ci si domanda (l’abbiamo formulata noi come domanda, ma era implicita): qual è la natu-ra e quali sono i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull’individuo?

Profeticamente, e forse giustamente, Mill dichiara che questo sarà “il problema fondamentale del futu-ro” (dunque, il problema fondamentale del XX secolo).

La lettura veloce mostra, nella prima parte dell’Introduzione, una ricostruzione storica delle tappe fon-damentali della lotta tra libertà e autorità. Attraverso quali passaggi e fasi è passata questa lotta e checosa si è inteso con libertà?

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Allora (alla metà del XIX secolo) il rapporto tra libertà e autorità stava per cambiare, il problema siponeva in modo diverso. È la società che rischia di essere il “tiranno degli individui”. Come opera que-sta tirannia? Come è possibile difendersene? Fino a dove possono arrivare l’interferenza e l’autorità dellasocietà sull’individuo?

La tesi principale di Mill è che il potere della società può esercitarsi solo per evitare danno agli altri.Per tutto il resto, per tutto ciò che riguarda soltanto lui, non devono essere posti limiti.

Ricostruiamo ora nella lettura lenta i “passaggi del testo”, cioè lo sviluppo degli argomenti, facciamola “rassegna dei concetti” e della loro “trama”. Insomma mettiamo assieme quelle attività sul testo che,negli esempi precedenti, abbiamo distinto.

Ovviamente sappiamo che il fulcro del discorso è la libertà. Ma, che cos’è la libertà, o meglio, checosa è stata?

Mill ricostruisce la storia della liberà civile in Occidente, nelle sue fasi principali. Sarà possibile vede-re come e perché il concetto di libertà è cambiato e come si pone oggi.

Si faccia attenzione alla distanza tra la definizione iniziale e finale di libertà. C’è un minimo comundenominatore nelle definizioni di libertà che si incontreranno?

Prima accezione di libertà civile: protezione dalla tirannia dei governanti. • Perché proteggersi dai governanti? Perché sono considerati “antagonistici al popolo” e perché il loro

potere è pericoloso. • Come mai? Perché c’è il rischio che i governanti usino il loro potere contro i propri sudditi. • Ma perché ricorrere a governanti che, invece di operare per il popolo, lavorano per il proprio in-

teresse? Per tenere a bada gli avvoltoi, che volevano depredare e tormentare i più deboli, afferma Mill,si è dovuto ricorrere al “re degli avvoltoi”. Ma anche da lui bisogna difendersi, perché potrebbe attac-care il “gregge” dei deboli.

Ecco come si è arrivati al primo concetto di libertà per i cittadini: “porre dei limiti al potere sulla comu-nità concesso al governante”. Come? Cercando di ottenere libertà, cioè diritti politici e creando vincolicostituzionali, ad esempio un organismo che esprima il consenso della comunità agli atti del potere poli-tico.

Per la “rassegna dei concetti”, a quello fondamentale di libertà possiamo collegare quelli di gover-nante, di popolo, di diritti politici e di vincoli costituzionali. La rete di rapporti che li collega l’abbiamovista. Possiamo anche visualizzarla con una “mappa concettuale” oppure disegnando i rapporti tragovernanti e governati.

Ma poi, secondo la ricostruzione di Mill, la situazione è cambiata e il testo ce lo segnala: “tuttavia, aun certo punto del progresso umano, gli uomini cessarono di pensare che i governanti dovessero neces-sariamente essere un potere indipendente”. Cambia la situazione, cambia la concezione del potere poli-tico e il concetto di libertà.

Ora il potere politico (afferma sempre Mill, guardando naturalmente al sistema liberale):• non è indipendente (rispetto ai governati);• non ha interessi opposti (a quelli dei governati);• è concesso in esercizio (dal popolo ai governanti);• è revocabile a piacimento dalla comunità.

Ne deriva la richiesta di un “governo temporaneo ed elettivo”.Ma a questo punto c’è un’ulteriore evoluzione: non più la limitazione del potere, ma “l’identificazio-

ne dei governanti con il popolo, la coincidenza del loro interesse e volontà con quelli della nazione”.Appare un nuovo concetto, una nuova protagonista: la Nazione.

Va ridisegnata la rete dei concetti. Ora è la “Nazione” ad essere al centro di una ideale mappa con-cettuale. Dalla sua volontà dipende il potere; è lei che affida il potere; è nei suoi confronti che i gover-nanti sono responsabili, è da lei che loro sono amovibili.

In sintesi, il potere del governo è il potere della Nazione, ma questo è anche il governo del popolo:siamo alla concezione democratica.

Anche se non lo dice esplicitamente, Mill pensa che in questo passaggio che identifica popolo e pote-re si sia fatto un errore, un grave errore. Ormai coloro che ammettono limiti al governo sono “delle bril-lanti, isolate eccezioni tra i pensatori politici del Continente”.

Il ragionamento dei sostenitori della democrazia è il seguente: se il potere è del popolo, nelle manidel popolo, che bisogno c’è che il popolo lo limiti?

A questo punto, però, vengono formulate le critiche rivolte alla democrazia. “Il ‘popolo’ che esercita ilpotere non coincide sempre con coloro sui quali quest’ultimo viene esercitato”. “La volontà del popolosignifica in termini pratici la volontà della parte più numerosa”. “Il popolo può desiderare opprimere unapropria parte”. Mill pone così il tema della “tirannia della maggioranza” come rischio della democrazia.

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Si ricordi che il lavoro di contestualizzazione ci ha fatto sapere che chi scrive non è un pensatore rea-zionario, ma un progressista, il quale, proprio nella recensione alla Democrazia in America diTocqueville, afferma che “ove lo spirito pubblico non venga coltivato grazie a una partecipazione esten-siva dei più agli affari del governo” il carattere di un popolo sarà essenzialmente volgare e servile. Maquesto non gli impedisce di cogliere i rischi che – afferma – si possono avvertire in un processo di demo-cratizzazione della società.

Comunque, non ci sarebbe novità nella ripresa di uno degli argomenti che sono stati più volte usaticontro la democrazia. Dov’è allora la novità della posizione di Mill?

Sta nella sua convinzione che dove la società è tiranna, questa sua attività non si ferma solo alladimensione politica, ma entra in campi in cui non dovrebbe entrare “rendendo schiava l’anima stessa.”La tirannia della maggioranza è divenuta “tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti, dellatendenza della società a imporre come norme di condotta [...] le proprie idee e usanze”. Qual è l’intentodi questa “tirannia”? “Ostacolare lo sviluppo – e prevenire, se possibile, la formazione – di qualsiasi indi-vidualità discordante, e costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello”.

Ricordate il motto di Humboldt? Ora si capisce perché Mill lo abbia premesso a questo saggio sullalibertà. Proprio lo sviluppo dell’umanità “nella sua più ricca diversità” è a rischio.

Bisogna mettere un limite all’interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale.Bisogna trovare un equilibrio tra indipendenza individuale e controllo sociale, identificando alcuneregole di condotta.

Ma quale sarà il principio su cui poggeranno queste regole? Mill lo dice dopo qualche pagina.“L’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiun-que soltanto al fine di proteggersi”, solo “per evitare danno agli altri”. Tolto questo aspetto, per ogni altroche riguarda soltanto l’individuo la sua indipendenza è, di diritto, assoluta.

Alla fine di questo ragionamento – ma anche di un excursus storico – quale definizione viene data dilibertà?

Mill la chiama la regione della libertà umana, che è composta di:• libertà di coscienza, cioè libertà di pensiero, di sentimento, libertà di opinione in tutti i campi; • libertà di espressione;• libertà di gusti e occupazioni;• libertà di modellare il piano della nostra vita, secondo il nostro carattere;• libertà di agire come vogliamo, purché le nostre azioni non danneggino gli altri.

Possiamo chiudere con due affermazioni di Mill in qualche modo riassuntive della sua posizione:

“Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute, sia fisica sia mentale e spirituale”.

“Gli uomini traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio chedal costringerlo a vivere come sembra meglio agli altri”.

Lo stile dell’operaLo stile di un’opera è importante come ulteriore elemento che ci parla del messaggio che contiene.Qual è lo stile di Mill nel Saggio sulla libertà? Uno stile lineare che pone con chiarezza i problemi, le

tendenze e le soluzioni possibili. Lineare è la sua argomentazione, che procede individuando alternati-ve ben delineate, tra le quali non vengono proposte mediazioni o confusioni.

Mill non pensa tanto a fare un discorso “oggettivo” sulla questione, quanto a prendere posizione,impegnando se stesso. Così parla spesso in prima persona, affermando con nettezza i propri dissensi ele proprie idee. Anche così mostra il grado di coinvolgimento e di identificazione con il tema e con letesi sostenute. Nel suo scritto si espone direttamente, manifestando il suo dissenso verso una posizioneche sa molto diffusa e sempre più forte e, quando parla delle poche brillanti eccezioni tra i pensatoripolitici che vogliono ancora mettere limiti al potere politico, sta probabilmente parlando anche di sé.

Problematizzazione e attualizzazioneTra le varie operazioni che possiamo compiere sui testi, particolarmente sul testo filosofico, vi è quel-

la di far nostri, almeno in via d’ipotesi, le domande e i problemi che lo stesso pensatore si è posto. Può essere una problematizzazione che supera il contesto in cui quelle domande si sono poste, for-

mulandole, intendendole o riformulandole come questioni che conservano valore anche oggi. Oppure,ed è il nostro caso, il testo stesso presenta questioni che così come sono formulate e per il contesto incui si inseriscono, mantengono pienamente la loro attualità. Può essere che “domani” si pongano inmodo diverso, per il mutamento della situazione o della riflessione.

Proprio Mill ci ha detto che quello del rapporto tra autorità sociale e indipendenza individuale era (perlui) un problema del futuro. Ora il suo futuro è il nostro tempo, perciò possiamo porre a noi stessi quel-l’interrogativo che Mill poneva.

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• Come conseguire l’equilibrio tra indipendenza individuale e controllo sociale?• Su che cosa e fino a dove può operare il controllo sociale? • Quali sono le forme specifiche in cui – oggi – sembra esercitarsi con più forza il controllo sociale?• Dove possono essere tracciati i confini della libertà individuale? • È accettabile la sua concezione di libertà dell’individuo? • Quali potrebbero essere le “regole di condotta” che stabiliscono il confine tra lo spazio della col-

lettività e quello dell’individuo? • Chi è chiamato a “scrivere” queste regole?Che cosa pensare di certe limitazioni che lo stesso Mill pone alla sua dottrina? Questa non vale, infat-

ti, per i bambini, e non dovrebbe valere neppure per i “giovani che per legge sono ancora minori d’età”,perché sono tra coloro che devono essere protetti dalle proprie azioni e dalle minacce esterne.

Per lo stesso motivo, afferma, la dottrina non va bene per le società arretrate che sono – per così dire– “minorenni”. Come si vede, vi sono non pochi aspetti della concezione di Mill che vanno problema-tizzati, o che sono stati da più parti contestati, come interni a una visione eurocentrica o addirittura“coloniale” del rapporto fra Paese “avanzato” e Paese “arretrato” e “minorenne”.

Fa, inoltre, riflettere un’affermazione come la seguente: “La libertà, come principio, non è applicabilein alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attra-verso la discussione libera e tra eguali”, e, ancor più, può suscitare dubbi e perplessità quest’ultima affer-mazione: “Il dispotismo è una forma legittima di governo, quando si ha a che fare con barbari, purchéil fine sia il loro progresso”.

Alcuni pensatori, comunque, hanno ritenuto On liberty un testo ancora valido proprio perché pone unforte principio di limitazione dell’intervento statale in tutti gli ambiti della società civile. Quello cheviene temuto, perché visto o intravisto nel nostro presente, è l’uniformità di modi di vita, di opinioni, diinteressi. Come ci si può difendere da quest’onda montante, pericolosissima e che “rende schiava l’ani-ma”? “Impedendo che un potere regni incontrollato”, diceva Mill auspicando che gli uomini siano ec-centrici, che venga salvaguardata la pluralità dei percorsi; perché la libertà mantenga il suo ruolo di fon-damentale fattore di progresso è indispensabile che “i potenziali centri indipendenti di irradiamento delprogresso siano tanti quanti gli individui”. Ma questi potenziali centri di indipendenza elaborano sullequestioni una pluralità di punti di vista e, dunque, sembra che il conflitto, il dissenso svolgano, comegaranzia di una “società aperta”, un ruolo fondamentale. Può essere, come sostengono oggi alcuni pen-satori, che, trovato il consenso su alcune istituzioni di base della società, tutto il resto sia campo del dis-senso? Si possono contrastare con la ricetta di Mill le spinte all’omologazione e all’omogeneizzazioneche vengono dalla società?

Come vedi, questi temi sono alcuni fra quelli più rilevanti per la cultura attuale. La lettura dell’operainevitabilmente porta a chiedersi: è così – o è solo così – che si difendono libertà ed individuo?

Come si legge un brano?

Nelle parti antologiche dei vari tomi di questa storia della filosofia si leggeranno solo dei brevi brani. Ilimiti quantitativi di tali testi, che spesso saranno riportati in una versione opportunamente ridotta (facen-do in modo, ad esempio, che da quattro pagine di testo si arrivi ad una pagina e mezzo) rendono insiemepiù semplice e più complicato il lavoro di analisi e di comprensione. Proprio perché manca la comple-tezza del testo, sarà necessario avere o acquisire alcune informazioni preliminari sull’opera da cui il branoè tratto: non solo la data di composizione e di pubblicazione, ma la fase di elaborazione del pensiero del-l’autore a cui appartiene, le questioni che vi sono affrontate, il contesto di eventuali dibattiti – o di pubbli-cazioni di opere consimili – in cui si inserisce.

D’altro canto, il brano potrà risultare relativamente più semplice, perché al suo interno saranno statemesse a fuoco una affermazione, una tesi, un’argomentazione ritenute importanti. Le domande sono lestesse che si pongono a proposito dell’opera intera: di che cosa parla l’autore e che cosa dice su questoargomento? L’ipotesi formulata all’inizio della lettura regge all’analisi dei periodi successivi del testo?Come procede l’argomentazione e di che tipo è?

Nel caso del brano, il lavoro di analisi può essere più accurato e analitico, frase per frase, periodo perperiodo, al fine di seguire ogni passaggio di un ragionamento, di un’argomentazione.

Uno spazio più ampio, per forza di cose, avrà il lavoro di connessione tra ciò che è nel testo e ciò chenel testo non c’è – o non è spiegato – e fa parte (o dovrebbe far parte) delle conoscenze già possedutesull’autore, sui problemi che affronta ecc. Si tratta, quindi, di fare un lavoro continuo che va dal testod’autore all’insieme delle conoscenze che andrebbero possedute per averne una comprensione ade-guata. Ad esempio nel testo d’autore si usano concetti dei quali non è dato il significato o ne viene for-nito uno solo parziale, relativo ad un passaggio, a un’affermazione. Se mancasse la conoscenza delsignificato complessivo di un concetto, la comprensione del testo potrebbe essere deformata o ridotta.

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Che cos’è una mappa concettuale

Che cosa sia una “mappa” è noto: è una rappresentazione cartografica. Però iltermine mappa ha anche un significato figurato, quello di rappresentazione sche-matica di una situazione. Una mappa concettuale è una rappresentazione di que-sto tipo che riguarda le connessioni di significato tra concetti, così come sonoespressi nelle proposizioni. Se dico: il ferro è un metallo, questa è una proposi-zione in cui è stata stabilita una connessione tra due “concetti”, appunto ferro emetallo.

È abbastanza evidente quale possa essere l’interesse di usare e far usare mappeconcettuali in filosofia, che è una materia tutta costruita su elementi e contenutiastratti, su “concetti”.

A chi e a che cosa possono servire tali mappe? Servono per mettere a fuoco leidee-chiave e le loro relazioni, per mettere in evidenza concetti e proposizioni.

Di Talete possiamo rappresentare il pensiero nel seguente modo:

TALETEafferma che

l’acquaè

principiodi tutte le cose

“Acqua” e “principio” sono concetti, “afferma” ed “è” sono parole-legame.

“Vedere la filosofia”: sembra quasi un voler giocare con le parole. La filosofia, infatti, non si dovreb-be poter “vedere”. È il campo dell’astrazione, spesso dei discorsi e dei ragionamenti più rarefatti, piùlontani da ciò che è visibile. Dunque, a meno di non voler utilizzare una accattivante metafora, si po-trebbe concludere che la filosofia non è visibile: visibili, anche nei nostri comportamenti, sono solo (enon è poco) certe sue affermazioni.

Ma la conclusione sarebbe troppo sbrigativa. Una visibilità al ragionamento filosofico si può dare enon è da pensare che sia una scorciatoia di dubbia legittimità, da riservare, comunque, a chi non è ingrado di seguire la strada maestra del ragionamento astratto e delle sue argomentazioni.

Anche perché per poter comprendere e fare le “visualizzazioni” della filosofia bisogna prima avermesso in funzione il pensiero, trovato concetti portanti, idee dominanti, imparato a connettere concettitra di loro, a ripercorrere argomentazioni. “Vedere” aiuta, favorisce la “messa a fuoco” dei passaggi neiragionamenti, dei temi comuni, delle dimostrazioni e delle spiegazioni.

Il discorso filosofico può essere rappresentato nella trama dei concetti che lo attraversa, nei nodi pro-blematici che lo caratterizzano, nelle differenze tra le tesi dei filosofi, nella messa in evidenza dei pro-blemi principali e delle loro soluzioni.

Si può accompagnare il ragionamento astratto con la sua visualizzazione. Non è una diminuzione: èun’altra modalità di presentazione, altrettanto valida di quella che usa il codice verbale, mentre questautilizza il codice visivo, assieme a quello verbale.

Si tratterà di usare e, soprattutto, di costruire mappe concettuali, schemi, raffigurazioni, di capire comesono fatti e come si fanno. Al solito quelle che seguono sono solo alcune indicazioni sul versante delfare e del “leggere” e utilizzare.

“VEDERE” E VISUALIZZARE LA FILOSOFIA2

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312METODO E STRUMENTI

Oppure posso dire:

Per TALETE

L’ACQUAè

un principio

materiale viventeche genera

tutte le cose

Ma, particolarmente in filosofia, non vi sono solo diversi modi di rappresentaregli stessi concetti o le stesse connessioni: vi sono anche interpretazioni diverse deifilosofi e queste, a loro volta, danno luogo a mappe diverse.

Ad esempio, se alla precedente mappa aggiungo come connotazione del “princi-pio” acqua, oltre a “materiale” e “vivente” anche “divino” (con riferimento al fram-mento attribuito a Talete in cui si afferma che tutto è pieno di dei) il significato dellafilosofia di Talete cambia, assumendo una coloritura “religiosa”.

Se produco, invece, una mappa come la seguente, accentuo l’aspetto scientifi-co della filosofia di Talete

TALETEseleziona

tra i fenomeni naturali quelli relativi all’umido

dei qualiprincipio

èL’ACQUA

L’importante è che non si pensi e non si intenda che per ogni concezione o tesivi sia una sola mappa possibile.

Si possono costruire, invece, – è bene ribadirlo – tante mappe quante sono leinterpretazioni possibili dell’autore, oppure quante sono le prospettive teoricherelative ad un problema.

Nei vari tomi del nostro corso di filosofia per lo più troverai mappe che inten-dono aiutare a capire le connessioni tra vari concetti.

Visualizzazioni grafiche

Con le mappe si “vede” la filosofia, ma utilizzando prevalentemente parole. Inquest’altra proposta che analizziamo sono le immagini ad essere protagoniste.Consideriamone alcune, “leggiamole” e facciamo alcune considerazioni.

Platone – L’Idea del Bene (il paradigma del Sole)Quella del Sole, utilizzata per provare a “spiegare” quale funzione svolga l’Idea che è al sommo della gerarchia

delle Idee, l’Idea del Bene, è una delle immagini più famose.La raffigurazione è suddivisa in due parti: quella inferiore riproduce il paradigma del Sole che illumina e rende

possibile all’uomo percepire con la vista gli oggetti. Quella superiore mostra, invece, l’Idea del Bene, che, affermaPlatone, conferisce essere e conoscibilità alle Idee. Una freccia dall’Idea del bene arriva fino alla mente dell’uomoa significare che questa Idea consente la conoscenza, illuminando la mente umana e facendogli vedere le Idee.Così c’è anche una freccia che dalla testa dell’uomo va fino alle Idee, che l’uomo può conoscere. Ma tra le dueparti della raffigurazione passa anche la differenza tra il mondo delle Idee e il mondo sensibile. Si usa il termine“partecipazione” per significare la modalità del rapporto tra le Idee e le cose.

Fin qui la lettura dell’immagine. La si può migliorare? Integrare? Proviamo. Si può aggiungere, ad esempio, chenel paradigma platonico c’è anche il sole che “riscalda” e questo sta a significare che l’Idea del bene conferiscevalore a ogni Idea.

Oppure, visto che il paradigma del Sole è tratto dal mito della caverna, si potrebbe raffigurare il filosofo-schiavoliberato che uscendo fuori dalla caverna vede il Sole, con la possibilità di marcare la differenza tra mondo dellacaverna-oscurità e mondo del Sole-luce.

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Le tappe dell’emanazione secondo PlotinoL’immagine rappresenta immediatamente la struttura gerarchica e verticale della realtà secondo Plotino, con

l’Uno a occupare la posizione più elevata. Come prima notazione critica si potrebbe dire che l’Uno meriterebbe un carattere ancora maggiore rispetto a

quello usato per lo Spirito, che sembra addirittura maggiore di quello usato per l’Uno. Comunque la catena Uno-Spirito-Anima-materia è ben visibile. E anche la collocazione della materia ai livelli più bassi di realtà e con carat-teri grafici minori rispetto a quelli degli altri gradi risultanti dall’emanazione è chiara. È la materia “prope nihil”,quasi niente.

Accanto alla via dell’exitus c’è anche quella del reditus, cioè dell’ascesa dell’uomo verso l’Uno con la media-zione dell’Eros, l’arte, la forma e il pensiero.

Ma le frecce che collegano internamente Uno e Spirito e Spirito e Anima sono poco chiare. Nel primo caso – pro-prio per mettere in evidenza l’emanazione – la freccia in giù dovrebbe essere messa più in evidenza, mentre è piùvisibile una freccia in su, con la scritta “si dirige verso” che riguarda lo Spirito, che però è lontano dalla freccia.

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314METODO E STRUMENTI

Come costruire mappe, schemi e altre visualizzazioni

Come abbiamo potuto notare, la tecnica della costruzione delle mappe e delle visua-lizzazioni, non è complicata. La complicazione, se mai, sta nel dotarsi degli “ingre-dienti” necessari a costruirle, poiché avere questi ingredienti esige un lavoro di com-prensione profonda, di semplificazione e di essenzializzazione concettuale.Bisognerà stabilire innanzitutto a quale livello si vuole porre la nostra costruzione

visiva:• si può ricostruire la struttura di un singolo concetto; • si possono evidenziare le caratteristiche di una parte della filosofia, dall’etica allametafisica, ecc.; • si possono mettere in evidenza le suddivisioni fondamentali della filosofia di unpensatore; • si può confrontarla con quella di un altro o di altri; • si possono delineare i caratteri principali del pensiero di un secolo, di un’età, diuna civiltà;• si può ricostruire l’intero percorso di un problema, ad esempio quello della cono-scenza, in tutto il pensiero occidentale. Ognuna di queste scelte impone vincoli e pone difficoltà specifiche; confondere ipiani o sovrapporre concetti e parti delle filosofie, genererebbe confusione o sarebbesintomo di confusione. I “mattoni” dell’edificio da costruire sono parole-chiave, con-cetti essenziali, relazioni tra concetti, connessioni tra parole-chiave. Una volta raccolti questi elementi costruttivi, ci vuole un “progetto”, un disegno d’in-sieme, come in un’opera di architettura. Ancora una volta si tratterà di avere in menteun disegno della filosofia, dell’indirizzo di pensiero, della parte della filosofia che sivuole rappresentare.Il lavoro di visualizzazione – almeno fino a quando non si diventerà esperti – e forseanche dopo – è un lavoro per tentativi, per successive fasi di approssimazione all’ideache abbiamo in mente o a una rappresentazione adeguata di ciò che vogliamo visua-lizzare. Si deve sempre tener presente – lo si è già detto per le sole mappe concettua-li, ma in filosofia questa raccomandazione è essenziale – che non c’è una sola rap-presentazione valida e corretta, perché diversi possono essere i punti di vista, le inter-pretazioni, le prospettive che si vogliono evidenziare. L’importante in filosofia è “giu-stificare”, “spiegare”, “argomentare”, “fondare” quel che si afferma. Il lavoro di visua-lizzazione si potrà prolungare in un discorso, in una “legenda”, ma potrebbe rimane-re anche “senza parole”, come un messaggio che ha in sé tutti gli elementi necessari.È appena il caso di dire che questo lavoro grafico-visuale può trovare nel computer unprezioso e valido “aiutante”, che suggerisce nuove possibilità espressive e rende piùfacile il prova e riprova.

Andrea Cascella, Giove, 1964. St. Louis, USA.

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Arte e filosofia

Anche la storia dell’arte occidentale è ricca di rappresentazioni di filosofia edella filosofia in generale, come dimostrano le immagini presenti nei vari tomi delnostro manuale.

Alcune di queste sono diventate addirittura emblematiche ed hanno assunto unsignificato simbolico universale. Analizziamone alcune come esempio.

Il Rinascimento celebrerà il trionfo della filosofia e della concezione neoplato-nica del mondo, attraverso l’arte, come nella Scuola di Atene di Raffaello (StanzeVaticane, Roma).

Visualizzazioni artistiche del De Civitate Dei di Agostino.Le immagini riprodotte (uno dei tanti esempi del periodo medievale, miniature tratte dal codice del De Civitate

Dei, Scuola di Canterbury, XI-XII sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana) assurgono a simboli della conce-zione agostiniana, capaci di comunicare anche ai “non filosofi”, al popolo pio, ma non colto, in una sorta di inse-gnamento per immagini, che accompagnerà per secoli il magistero ecclesiastico.

1. La Città terrena: le fatiche dell’uomo.2. La Città terrena: le disgrazie dell’uomo.3. Il giudizio particolare dell’anima.

1. La Città celeste: la Chiesa.2. La Città celeste: i vari ordini degli eletti.3. La Città celeste: il Cristo.

Raffaello – La scuola di AteneForse è una delle immagini più famose relative alla filosofia. Platone e Aristotele sono ritratti al centro della

raffigurazione come i due paradigmi del pensiero filosofico: Platone con la mano e il dito indica la direzioneche porta verso il mondo delle Idee, verso la trascendenza oltre il mondo del divenire, indicazione che mostraall’uomo la via di un mondo soprasensibile, del “vero” mondo; Aristotele, invece, indica il mondo terrestre,quello del divenire, il mondo delle sostanze, quella che per lui è la realtà, la dimensione in cui il pensieroumano deve operare.

Ma nell’affresco viene riprodotto l’intero olimpo della filosofia greca: Eraclito, Parmenide, ecc. L’arte qui testimonia l’intera operazione intellettuale operata dal Rinascimento italiano, di recupero e reinterpre-

tazione della classicità, in una forma insuperabile.

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Parmenideo Empedocle

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Un altro esempio concreto di come l’arte rinascimentale si appropri e valorizzisimbolicamente i concetti e le atmosfere culturali della filosofia può essere quel-lo dell’opera di Sandro Filipepi, detto Botticelli (Firenze, 1445-1510), in partico-lare la Nascita di Venere, oggi interpretata come l’esaltazione della Retorica, o LaPrimavera, che diventa l’allegoria di un mondo neoplatonico perfetto in cui la bel-lezza delle forme è espressione dell’armonia e della perfezione spirituale.

Anche l’arte post-rinascimentale continuerà ad ispirarsi alla filosofia, ai suoi pro-blemi, ai valori da essa esaltati, anche contro quelli imposti dal potere costituito.

Così, con la nascita della scienza, l’arte si impadronirà dei nuovi simboli (la geo-metria, la nuova concezione copernicana dell’Universo) e rappresenterà, ad esem-pio, la “pluralità” dei mondi. Sarà così per l’età illuministica che produrrà un’artetesa alla celebrazione allegorica della Ragione, rappresentata in moltissime imma-gini e sarà così, in particolare, per l’arte contemporanea della fine del XIX e ditutto il XX secolo.

Il Novecento si apre simbolicamente con L’urlo di Edvard Munch (1863-1944),pittore norvegese che, nelle sue tele, racconta il dramma dell’uomo, la sua solitu-dine, le sue angosce: “Ho sentito questo grande grido venire da tutta la natura”,afferma.

Eraclito

PlatonePitagora Senofonte

Socrate

Aristotele Euclideo Archimede

Tolomeo

Zoroastro

Plotino o unNeoplatonico

Diogene il Cinico

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Da poco la grande arte delle Avanguardie aveva iniziato, in parallelo o antici-pando le problematiche culturali e filosofiche dell’Occidente, a porre in crisi qual-siasi principio di ordine, proporzione e simmetria, per immergersi in un camminodiverso: quello della libertà d’espressione e della scomposizione critica degli stes-si fondamenti del linguaggio artistico.

Le grandi categorie filosofiche e culturali del progresso, del nichilismo, dell’in-conscio diventano i presupposti delle nuove esigenze espressive.

Una storia filosofica dell’arte (se è possibile) è ancora tutta da scrivere. Sarebbeun percorso affascinante da costruire insieme all’Insegnante di Filosofia e a quel-lo di Storia dell’arte. Con una importante avvertenza: l’arte è un linguaggio auto-nomo, che non accetta nessun approccio di tipo attribuzionistico, che assegni cioèall’arte significati che non ha e non può avere. Questo discorso vale ancor più perl’arte contemporanea. Tuttavia, per analogia e capacità di comunicazione simbo-lica anche l’arte può essere letta e vista con l’occhio e la prospettiva del filosofo.Così può avvenire per le opere del Simbolismo, della Metafisica di Giorgio DeChirico (1888-1978), del Surrealismo (di René Magritte, 1898-1967, di SalvadorDalì, 1904-1989, ecc.) del Futurismo, del Cubismo, su fino al Post-modern di oggi.

Ma già avanza all’orizzonte la nuova arte del Cyberspazio di Internet: qualeimmagine e quale arte per la filosofia del Nuovo Millennio?

Edvar Munch,L’urlo, 1893.Oslo, GalleriaNazionale.

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318INDICE DEI NOMI

Abbagnano Nicola, 95Abelardo Pietro, 41, 43, 75, 108, 279Adorno Theodor Wiesengrund, 28, 96, 126, 127, 153,

227, 249 Agostino di Ippona, 40, 41, 74, 75, 107, 108, 134, 159,

181, 217, 236, 256, 279, 315Alberto Magno, 181Alcuino, 278Alembert Jean-Baptiste Le Ronde d’, 220al-Farabi, 42, 43Alhazen, 181al-Kindi, 43Althusser Louis, 206, 226, 270Anassagora, 37, 38, 104, 178, 179, 215Anassimandro, 36, 66Anselmo d’Aosta, 41, 43, 75, 108Apel Karl Otto, 101, 270Aporti Ferrante, 287Archimede, 216, 316Arendt Hannah, 100Aristarco, 180Aristofane, 298, 301Aristotele, 17, 30, 34, 36, 37, 38, 39, 41, 43, 44, 45, 66,

72, 73, 75, 100, 106, 110, 133, 134, 138, 154, 156,158, 160, 161, 163, 176, 179, 180, 181, 182, 184,186, 214, 216, 235, 238, 255, 276, 279, 315, 316

Austin John Langshaw, 175Avempace, 181Averroè, 42, 43Avicebron, 42Avicenna, 42, 43, 181Ayer Alfred Jules, 175Bachelard Gaston, 206, 209Bacone Francesco, 47, 79, 110, 136, 137, 160, 161,

185, 186, 219, 220, 239, 259, 282Bacone Ruggero, 108, 182, 217Banfi Antonio, 94Barthes Roland, 246Baumgarten Alexander Gottlieb, 232, 239, 240Bencivenga Ermanno, 12, 16, 26Benjamin Walter, 249Bentham Jeremy, 86, 87, 98, 142, 152, 222, 287Bergson Henri, 58, 59, 91, 121, 203, 225, 247Berkeley George, 48, 114Bernardo di Chartres, 257Bernardo di Chiaravalle, 41 Bernstein Eduard, 96, 149Berti Enrico, 66Bloch Ernst, 96, 149, 226, 250, 269Blondel Maurice, 64, 97Bobbio Norberto, 152Bodin Jean, 136Boezio Severino, 108Bohr Niels, 199Bolzano Bernhard, 166Bonald Louis-Gabriel-Ambroise de, 141Bonaventura da Bagnoregio, 43, 76Bontadini Gustavo, 64Boole George, 167Boutroux Etienne-Emile-Marie, 197Boyle Robert, 188Bracciolini Poggio, 218Bridgman Percy William, 126Bruno Giordano, 11, 45, 47, 78, 110, 184, 218, 259Buridano Giovanni, 182

Burke Edmund, 141Calvino Giovanni, 77, 137, 218Campanella Tommaso, 45, 110, 136, 137, 218, 280Cantor Georg, 167, 262Carlyle Thomas, 262Carnap Rudolf, 65, 124, 173, 174, 206Carneade, 107Cartesio, 46, 47, 49, 61, 62, 63, 66, 79, 111, 112, 113,

161, 175, 185, 186, 187, 188, 220, 232, 240, 259,282, 302, 303, 304, 305, 306

Cassirer Ernst, 121, 250Castiglione Baldessar, 280Catone, 277Cattaneo Carlo, 141, 142, 193Chenu Marie-Dominique, 225Clistene, 132Codignola Ernesto, 290Cohen Hermann, 120Comenio, 272, 281Comte August, 53, 87, 119, 144, 166, 192, 194, 195,

201, 222, 264Condillac Etienne Bonnot de, 114, 162Condorcet Jean Antoine Nicolas Caritat de, 260Constant Benjamin, 141Copernico Niccolò, 58, 183, 184, 189, 210Croce Benedetto, 59, 92, 121, 122, 147, 248, 250,

267, 268Cusano Nicola, 45, 110, 183D’Agostini Franca, 27Darwin Charles Robert, 58, 194Dedekin Richard Julius, 167 Democrito, 37, 38, 73, 104, 157, 178, 179, 180, 215, 255Della Volpe Galvano, 248De Morgan Augustus, 167Derrida Jacques, 28, 172Dewey John, 60, 93, 125, 148, 170, 204, 224, 248, 288Dilthey Wilhelm, 60, 92, 122, 203, 204, 266, 267Diogene il cinico, 316Dummett Michael A. E., 175Duns Scoto Giovanni, 42, 44, 76, 109Durkheim Emile, 91, 146, 201Ecateo di Mileto, 215, 254Eco Umberto, 67, 247 Einstein Albert, 123, 199Empedocle, 37, 38, 104, 254, 316Engels F., 55, 56, 88, 119, 144, 149, 166, 263, 264, 287Epicuro, 39, 73, 107, 134, 277Eraclito, 36, 37, 66, 104, 156, 157, 178, 315, 316Erasmo da Rotterdam, 77, 258, 280Erodoto, 178, 215, 255Erone, 216Esiodo, 36, 132, 214, 235, 254, 274Euclide, 180, 193, 316Eudosso, 180Fechner Theodor Gustav, 195Feyerabend Paul K., 209, 210Feuerbach Ludwig, 55, 56, 165Fichte Johann Gottlieb, 51, 52, 59, 84, 117, 142, 164,

221, 262, 284, 285 Ficino Marsilio, 45, 77, 238Ford Henry, 224Fourier Charles, 87, 143Frazer James Georges, 201Frege Friedrich Ludwig Gottlob, 168, 173Freud Sigmund, 58, 64, 88, 89, 90, 97, 146, 150, 199,

INDICE DEI NOMI

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319INDICE DEI NOMI

200, 225, 246Fröbel Friedrich Wilhelm August, 285Fromm Erich, 97Gabelli Aristide, 287Gadamer Hans Georg, 16, 23, 24, 99, 100, 129, 171,

172, 250, 251, 270Galeno Claudio, 180 Galilei Galileo, 47, 110, 186, 187, 189, 191, 205, 220,

302Gentile Giovanni, 59, 91, 92, 94, 121, 147, 247, 289Giansenio, 282Gioberti Vincenzo, 53Giustino, 278 Gödel Kurt, 168, 199Goethe Johann Wolfgang, 50, 116, 191, 221, 241, 242Gorgia, 37, 157, 234, 275Gramsci Antonio, 16, 22, 23, 96, 126, 149, 226, 268, 290Gregorio di Nissa, 75Grozio Ugo, 138Guarino Veronese, 280Guglielmo di Champeaux, 108Guglielmo di Ockham, 42, 44, 76, 109, 135, 160, 161, 182 Habermas Jürgen, 66, 101, 153, 270Hamann Johann Georg, 163, 241Hare Richard Mervyn, 99Harsanyi John, 98, 99, 152Hartmann Nicolai, 61, 127Hayek Friedrich August von, 99, 152Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 51, 52, 55, 56, 59, 60,

66, 84, 92, 94, 118, 126, 142, 143, 144, 147, 160,164, 165, 191, 221, 222, 226, 243, 263, 264, 265,266, 267, 286, 289

Heidegger Martin, 10, 32, 61, 62, 66, 94, 95, 128, 171,205, 227, 228, 250, 251

Heisenberg Werner Karl, 199Heller Agnes, 100, 101, 226Helvétius Claude-Adrien, 283Herbart Johann Friedrich, 53, 195, 286Herder Johann Gottfried, 163, 164, 262Hilbert David, 168Hobbes Thomas, 47, 80, 112, 138, 139, 140, 161, 188Holbach Paul-Henri Dietrich di, 48, 82, 189Hölderlin Friedrich, 221, 242, 249Horkheimer Max, 96, 127, 227Humboldt Karl Wilhelm von, 141, 164, 169, 306, 307, 309Hume David, 48, 49, 50, 82, 98, 114, 115, 189, 239Husserl Edmund, 61, 63, 94, 127, 128, 204, 205, 227Hutcheson Francis, 82, 239Ipparco, 180Jacobi Friedrich Heinrich, 116Jakobson Roman, 247James William, 60, 93, 125Jaspers Karl, 16, 20, 30, 62, 63, 94, 128, 205Jevons William Stanley, 196Jonas Hans, 100, 229, 271Jung Carl Gustav, 200, 246Kant Immanuel, 9, 10, 16, 20, 31, 32, 44, 49, 50, 51,

54, 59, 63, 67, 68, 82, 83, 84, 85, 91, 94, 102, 109,115, 116, 117, 118, 120, 139, 140, 141, 143, 160,163, 169, 190, 191, 193, 239, 240, 241, 247, 250,261, 263, 266, 283, 284, 285, 289

Kelsen Hans, 146, 148Keynes Maynard John, 202Keplero Giovanni, 183, 184, 191Kierkegaard So/ren Aabye, 28, 54, 55, 86, 243, 250, 306Kilpatrick William Heard, 289Korsch Karl, 126Kuhn Thomas, 209

Labriola Antonio, 268Lacan Jacques, 169, 246Lakatos Imre, 209, 210Lamarck Jean-Baptiste de Monet de, 194La Mettrie Julien Offray de, 48, 82, 189Laplace Pierre-Simon de, 194Lefèvre d’Etaples, 280Leibniz Gottfried Wilhelm, 48, 55, 61, 113, 162, 173, 185Lenin Nicolaj, 126, 149Leonardo da Vinci, 110, 183, 219Lessing Gotthold Ephraim, 262Lévinas Emmanuel, 101Lévy-Bruhl Lucien, 201, Lévi-Strauss Claude, 169, 201, 270Locke John, 48, 49, 112, 113, 114, 138, 139, 141, 161,

282, 283Lombardo Pietro, vedi Pietro LombardoLombardo Radice Giuseppe, 289Luhamnn Niklas, 152, 153Lukács György, 96, 101, 126, 149, 206, 226, 249, 269Lullo Raimondo, 160Lutero Martin, 77, 137, 258Luxemburg Rosa, 149Lyotard Jean-François, 28Mach Ernst, 198Machiavelli Niccolò, 136, 147, 149, 258Maine de Biran François-Pierre, 53, 85Maistre Joseph de, 141Makarenko Anton Semionovic, 290Malinowski Bronislaw Kaspar, 201Manzoni Alessandro, 164Marcel Gabriel, 64, 97Marcuse Herbert, 97, 150, 227, 249Maritain Jacques, 64, 97, 150, 225, 290Marsilio da Padova, 135Marx Karl, 28, 55, 56, 58, 64, 88, 96, 97, 101, 119,

126, 143, 144, 150, 165, 166, 193, 196, 223, 226,244, 263, 264, 270, 287, 290

Mazzini Giuseppe, 141, 142, 164, 262, 286Meinecke Friedrich, 92Melantone Filippo, 281Menger Karl, 196Merleau-Ponty Maurice, 95Mill John Stuart, 54, 87, 98, 119, 145, 166, 167, 192,

195, 306, 307, 308, 309, 310Monaco Carlo, 16, 25Montaigne Michel Eyquem de, 81, 280Montesquieu Charles-Louis de Secondat barone di La

Brède e di, 139Montessori Maria, 289Moore George Edward, 98, 99, 123, 174Morgan Lewis Henry, 201Moro Tommaso (More Thomas), 77, 136, 218, 280Morra Gianfranco, 16, 19Morris Charles, 155, 170, 247Mosè Maimonide, 42Mounier Emmanuel, 64, 97, 150, 225Muntzer Thomas, 136Natorp Paul, 120Neurath Otto, 173, 207Newton Isaac, 48, 113, 116, 185, 188, 189, 191, 198Nicola d’Autrecourt, 182Nicola di Oresme, 182Nietzsche Friedrich Wilhelm, 28, 57, 58, 62, 64, 88,

89, 120, 146, 197, 224, 225, 243, 265, 266Nozik Robert, 99, 152Ockham Guglielmo di, (vedi Guglielmo di Ockham)Omero, 233, 235, 274

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320INDICE DEI NOMI

Origene, 75Osiander Andreas, 184Owen Robert, 87, 143, 287Pareto Vilfredo, 146, 202Parkhurst Helen, 289Parmenide, 36, 37, 39, 66, 67, 104, 156, 157, 178,

315, 316Parrini Paolo, 13Parsons Talcott, 202Pascal Blaise, 10, 46, 81, 111, 185, 186, 259Pavlov Ivan Petrovic, 200Peano Giuseppe, 167Peirce Charles Sanders, 60, 93, 125, 170Pelagio, 75Pestalozzi Johann Heinrich, 284Piaget Jean, 200, 291Pico della Mirandola Giovanni, 78Pietro Abelardo, (vedi Abelardo Pietro)Pietro Lombardo, 279Pisistrato, 274Pitagora, 237, 316Planck Max, 199Platone, 11, 19, 38, 39, 62, 66, 71, 75, 105, 106, 133,

134, 156, 157, 158, 160, 176, 179, 180, 216, 234,235, 236, 238, 275, 276, 297, 300, 301, 312, 315, 316

Plotino, 39, 41, 73, 107, 235, 236, 237, 238, 313, 316Poincaré Jules-Henri, 123, 194Polibio, 256, 258Pomponazzi Pietro, 45, 77Popper Karl Raimund, 66, 124, 152, 208, 209, 210, 269Prigogine Ilja, 229Prini Pietro, 10, 16, 31, 32, Prodico, 157Protagora, 37, 71, 104, 132, 157, 215, 255, 275Proudhon Pierre-Joseph, 143Rabelais François, 219, 280Rawls John, 99, 151Reale Giovanni, 66Reinhold Karl Leonhard, 116, 118Ricardo David, 196Rickert Heinrich, 92, 120Ricoeur Paul, 171, 246Roberto Grossatesta, 181, 217Roscellino, 108Rosmini Antonio, 53, 85, 141Rotry Richard, 28, 250, 251Rousseau Jean-Jacques, 20, 139, 140, 162, 189, 220,

261, 283, 284Russell Bertrand, 9, 123, 168, 173Ryle Gilbert, 175Saint-Simon Claude-Henri de Rouvroy conte di, 87,

143, 195, 222Santyana George, 13Sarpi Paolo, 258Sartre Jean-Paul, 63, 95, 226Saussure Ferdinand de, 169, 198Scheler Max, 94Schelling Friedrich Wilhelm Joseph, 51, 52, 60, 84,

117, 118, 164, 191, 242, 262, 285Schiller Johann Christoph Friedrich, 84, 221, 241, 242,

249, 285Schlegel August Wilhelm von, 169, 242Schlick Moritz, 124, 206

Schopenhauer Arthur, 18, 54, 85, 89, 118, 191, 243Schroder Ernst, 167Schulze Gottlob Ernst, 117Schumpeter Joseph Alois, 146, 202Scoto Eriugena Giovanni, 42, 75Searle John Roger, 230Senofane, 215Senofonte, 301, 316Serres Michel, 100, 211, 229Sesto Empirico, 107Severino Emanuele, 16, 29, 67, 227Shaftesbury Antony Ashley Cooper di, 82, 239Simmel Georg, 92Skinner Burrhus Frederik, 200, 291Smith Adam, 82, 189, 196, 220, 222Socrate, 11, 38, 57, 62, 71, 75, 105, 133, 157, 179,

234, 275, 276, 295, 297, 298, 299, 300, 301, 316Solone, 132Spencer Herbert, 54, 88, 119, 145, 193, 195, 201, 264, 265Spengler Oswald, 265Spinoza Baruch, 19, 47, 80, 112, 138, 139, 187, 188Stein Edith, 61Suarez Francisco, 137Taine Hippolyte, 244Talete, 11, 311, 312Taylor Frederick Winslow, 224Telesio Bernardino, 45, 79, 110Teofrasto, 276Tertulliano, 278Tocqueville Alexis-Charles-Henri Clérel de, 141, 306,

307, 309Tolomeo, 180, 184, 316Tommaso d’Aquino, 42, 43, 44, 64, 75, 76, 108, 135,

176, 181, 237, 279Trasibulo, 300Troeltsch Ernst, 92Tucidide, 178, 255Tylor Eward, 201Valla Giorgio, 238Valla Lorenzo, 79, 160, 258Vanni Rovighi Sofia, 16, 24Vattimo Gianni, 251 Veca Salvatore, 9, Vico Giambattista, 112, 113, 114, 122, 162, 189, 239,

240, 248, 259, 262, 283Vitruvio, 216Vittorino da Feltre, 280Voltaire, François-Marie Arouet detto, 81, 261Walras Leon, 196Washburne Carleton Wolsey, 289Watson John, 200Weber Max, 92, 96, 122, 126, 146, 148, 204, 206,

224, 227, 267Weierstrass Karl, 167Weischedel Wilhelm, 20Winckelmann Johann Joachim, 241 Windelband Wilhelm, 92, 120, 203, 204, 266Wittgenstein Ludwig, 28, 65, 66, 98, 123, 124, 172,

173, 174, 207Wundt Wilhelm Max, 195Zenone di Cizio, 107Zenone di Elea, 156Zoroastro, 316