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MARCO VOLPE RACCONTI ZUM-ZUM

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MARCO VOLPE

RACCONTI ZUM-ZUM

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Intro.

Scusa se non t’ho detto subitoChe m’ero innamorato di teMa ero troppo indaffaratoA rendermene conto

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“Se almeno si vedesse l’autostradaCi porterebbe senz’altro a una città

Oppure proseguire ovunque vada,Meglio che qua”

Daniele Silvestri

L'autostrada.

La casa era giusto al confine tra due strade, una bianca e l’altra grigio scuro. La bianca portava al paese, la grigia nessuno sapeva bene: neppure i vecchi, che pure, se li interrogavi, rispondevano "Lontano, lontano..." muovendo in aria il braccio con un gesto vago. Jack lo ripeteva spesso: "Ragazzi, se un giorno mi sento un po' più forte, un po' più stronzo o un po' più sbattuto, prendo la strada grigia e basta, vediamo che succede." Poi aggiungeva: "Ah, quel giorno lì, chi si trova in macchina con me viene con me, niente storie, sia chiaro." John in quelle circostanze taceva: gli sembrava il tipo di cose che si dicono una vita intera e non si fanno mai. Linda, in genere, canticchiava.Jack, John e Linda: due ragazzi e una ragazza, i nomi parlano chiaro. La casa era di Jack, la vecchia Peugeot verde parcheggiata fuori era di John ma la guidava Jack; di Linda, c'era solo una voce di ragazzina che canticchiava allegre canzonette commerciali. Di solito si trovavano alle tre del pomeriggio fuori casa di Jack, salivano in macchina e prendevano la strada bianca. Arrivavano al centro del paese (non è che ci fosse molto, in paese, oltre al centro e alla casa di Jack), si fermavano al bar del paese (l'unico bar del paese) e passavano il pomeriggio con gli altri ragazzi del paese (tre: due ragazze e un ragazzo, per un curioso gioco di simmetria).Non so se quel giorno Jack si sentisse un po' più sbattuto, un po' più forte e un po' più stronzo, o semplicemente avesse più sigarette e benzina del solito. So soltanto che, uscito dal cancello di casa, imboccò la strada grigio scuro senza dire una parola. John saltò sul sedile ed esclamò qualcosa, ma non si capì bene cosa perchè Linda, da dietro, aveva attaccato a tutta voce un pezzo rock americano anni settanta, di quelli duri.

"L'estate da noi non è mica un periodo felice", fece Jack."No?", chiese John."A te sembra?""Non ci ho mai pensato troppo.""Io preferisco il resto dell'anno. Il paese deserto, il bar con noi tre e gli altri tre. Almeno, è tutto più vero.""Adesso non ti sembra vero?""Per niente. Tutta quella gente che arriva da chissaddove a farsi le vacanze e pare che il paese cominci quando arrivano e finisca quando partono. Come se l'avessero inventato loro e gli altri undici mesi non esistesse. E poi tutte quelle tristissime feste paesane che sembra ti debba divertire per forza, al diavolo. Non la pensi così?""Sai, non è esattamente il genere di cose a cui sto pensando in questo momento.""Ah. E a cosa staresti pensando in questo momento?""Per esempio a dove cazzo stiamo andando.""Di preciso, non lo so. Se può bastarti, diciamo verso un modo diverso di abitare il mondo.""Tipo?""Un posto dove si vive come se non fosse importante."Linda, dietro, si stava sparando tutto il repertorio dei primi Beatles.

"Se almeno si vedesse l'autostrada..."

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"Sì, sì, Jack, abbiamo capito... Se si vedesse l'autostrada vorrebbe dire che c'è una città da qualche parte qua intorno, l'avrai detto almeno cinque volte.""E' colpa mia se qua non c'è che strada e sabbia strada e sabbia strada e sabbia e se ti dice bene montagne in lontananza?"Linda aveva smesso di canticchiare, doveva voler dire qualcosa. John e Jack si girarono e videro lei a bocca aperta e il suo indice teso verso una macchia scura sulla sinistra. Non era propriamente una città, era qualcosa di molto simile al loro paese, giusto un po' più grande, spuntato chissà come da dietro un monticello. Jack deviò dalla loro strada, parcheggiò appena fuori e si avvicinarono a piedi. Le case erano tutte uguali, strette e alte, e con le finestre piccole piccole. La gente non era tanta e andava tutta in una direzione; da quella parte arrivava una musica gioiosa, come di banda, e si scorgeva poco più avanti il campanile di una chiesa.

La chiesa era uguale alle case, ma aveva una croce e due file di finestre, se possibile ancora più piccole. C'era una banda che suonava un motivetto già sentito e gente radunata intorno. E poi varie bancarelle e palloncini e ciambelle e pistole a spruzzo. Jack non impiegò molto a riconoscervi una classica festa paesana e a realizzare che era il caso di andar via, più lontano e veloce che si riuscisse. Fu allora che Linda gli saltò davanti agitando qualcosa in mano: "Non prima di aver assistito all'estrazione!".Era un biglietto di lotteria appena comprato da un banchetto di fianco, l'estrazione ci sarebbe stata la sera. Jack sedette in un angolo sconsolato. Da lì poteva vedere John e Linda che ballavano, ballavano, ballavano. Andarono avanti per un pomeriggio intero e avevano tutta l'aria di divertirsi un mondo.Arrivò il momento dell'estrazione. Linda tratteneva il fiato, John sorrideva, Jack guardava da un'altra parte. Naturalmente vinsero. Un vecchio grammofono di legno e oro finto che sistemarono in macchina sul sedile di dietro, di fianco a Linda. Prima di partire, Jack domandò al presidente del comitato: "Ma secondo lei funziona?""Francamente, credo di no."

"Se almeno si vedesse l'autostrada...", pensava muto il povero Jack, mentre la macchina macinava la solita strada grigio scuro, con la solita sabbia ai lati e le solite montagne sullo sfondo. E poi pensava che alla fine era colpa sua, e che avrebbe tanto voluto i sogni delle persone normali, quelli un po' più leggeri ma che ogni tanto puoi toccare e almeno non ti fanno star male.John guardava Linda dallo specchietto sopra di lui, e pensava che era proprio simpatica, che era proprio carina e certe altre cose che non vorrebbe raccontassi.Linda guardava fisso un punto della strada e si ripeteva maniacalmente in testa un pezzo di una canzone di Vasco, tormentandosi perchè non riusciva a ricordarsi che cosa diavolo facesse rima con coraggio.

A volte succede qualcosa di dolce e fatale. Per esempio, quella volta successe che in un punto qualsiasi di quella strada tutta uguale il motore saltò, uno scoppio secco e arrivederci. Di dolce ci fu il solito indice di Linda che puntava verso una costruzione seminascosta tra due alberi, e che sembrava maledettamente simile a un'officina. John avrebbe giurato che un attimo prima quella costruzione non ci fosse, ma in situazioni del genere sono cose che accetti volentieri e basta, senza star tanto lì a discutere col destino.Venne fuori un tipo grosso e cordiale, con un sorriso enorme e due pesanti chiavi inglesi in mano. Sopra l'officina c'era una casetta, piccola ma graziosa. Il tipo grosso e cordiale era il proprietario, nonché l'inquilino, nonché il meccanico.

"Mi piace guardare la faccia nascosta del sole..."4

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"Come?""No, niente, canticchiavo.""Cavolo, ma ti sembra il momento?""Se vuoi m'infilo sotto la macchina anch'io, ma sarebbe altrettanto inutile e meno divertente."Sotto la macchina, ad armeggiare con molle e bulloni, c'era il simpatico meccanico. Dentro l'auto Jack, che provava a mettere in moto quando il tipo lo comandava. Fuori, John e Linda, a parlottare tra loro."Certo che è un posto incantevole.""Splendido.""Ti piacerebbe venirci ad abitare?""Qui?""Se volete vi vendo la casa", si inserì il meccanico, "cercavo giusto un acquirente. Anche l'officina, s'intende, tutto.""Be', veramente non è che ci capisca troppo di motori...""Oh, se è per questo arriva in media un cliente ogni cinque anni. Ha tutto il tempo d'imparare. PROVI ADESSO!"Jack girò la chiave, ci fu un rombo sincero e un po' di fumo, Linda zompettò e battè le mani. Il meccanico venne fuori da sotto la macchina felice e fiero."Allora? Affare fatto?""Guardi, veramente non è che abbiamo molto denaro con noi.""Per quello non si preoccupi", fece il meccanico guardandosi intorno, "ecco, quel vecchio grammofono andrà benissimo.""A dire il vero, non credo suoni", disse John."Non credo avrò mai voglia di sentirlo suonare."Il meccanico si incamminò portando in braccio il grammofono, come un bambino a cui hanno regalato un orsacchiotto."Scusi", lo chiamò John, "sa mica se c'è una chiesa qua intorno?""Chiese? No, chiese no, mi dispiace. Però c'è un prete che passa ogni tanto, in media ogni tre anni, e se vuole la inzuppa di acqua santa e le fa ingoiare tanta di quell'ostia che sta apposto per un bel po'.""Sa, io e Linda vorremmo sposarci.""Oh, magnifico, non gli sembrerà vero di poter celebrare un matrimonio qui. Vedete, io non gli davo molta soddisfazione. Addio, ragazzi!"Jack si guardava la scena con le mani nei capelli, sarebbe stato pure contento se solo non si fosse sentito così perfettamente smarrito."Cavolo, avrei dovuto capirlo.""Avremmo dovuto dirtelo.""Ma no, avrei dovuto capirlo.""Ma no, avremmo dovuto dirtelo."Avrebbe pouto durare all'infinito. Invece Linda puntò l'indice verso il cielo, dove s'erano addensati un paio di nuvoloni neri e in meno di un secondo arrivò un provvidenziale temporale fintoestivo che lavò via tutti i sensi di colpa e altre cose penose, tipo auguri, congratulazioni e addii.

Linda e John vivono ancora lì, semplici sposati e felici. John si gode il molto tempo libero che il lavoro in officina gli concede, Linda non fa che dire che aspetta un bambino e non ha mai smesso di canticchiare. Adesso è impazzita per l'ultimo di Daniele Silvestri. Quanto a Jack, a me piace pensare che giri ancora su una strada grigio scuro, ragionando sui sogni degli altri e cercando un'autostrada. Del resto, nemmeno Linda e John, che pure erano i suoi migliori amici, sanno nulla di preciso. John dice che ogni tanto, diciamo in media ogni due anni, Linda lo chiama e gli indica qualcosa fuori della finestra, e allora lui s'affaccia e giura che gli sembra di vederla, una vecchia Peugeot verde, con un tizio sopra che sorride, magari saluta, ma sempre prosegue veloce.

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Autogrill.

La ragazza dietro al banco mescolava smorfie e sorrisi, mentre pesava e prezzava confezioni di pesce surgelato. Io ero entrato solo per un pacco di cd vergini e un tubetto di maionese però, mentre vagavo a casaccio tra i reparti, a un tratto avevo incrociato i suoi occhi. Occhi vispi e verdi sotto un caschetto di bruna naturale, il viso ben disegnato, il corpo minuto. Un po' di seno premeva sul grembiule bianco che indossava.Per me, erano giorni di transizione e riflessioni pesanti. M'ero lasciato con Carla da una settimana e stavo ancora finendo di abituarmi alla cosa. Intanto m'ero messo in testa di chiarirmi le idee su diverse questioni che avevo lasciato in sospeso. Il lavoro, la possibilità di un trasferimento, il bisogno di staccare per un po', e poi il motorino da riparare o vendere, la cameretta da rimbiancare. Ma mi interrogavo anche su faccende più impegnative, tipo se fossi felice o meno, quanto credessi in Dio, che senso avesse tutto il casino che girava intorno. Cose che negli ultimi tempi avevo rinunciato a capire, concentrato nello sforzo di capire Carla.Erano giorni di transizione e riflessioni pesanti, quando ad un tratto, mentre vagavo spaesato tra le corsie di un ipermercato, avevo incrociato i suoi occhi.

Bella, d'una sua bellezza acerba, ma non è questo il punto. Nel senso che non si trattò di un colpo di fulmine, di un'attrazione istantanea, di un innamoramento a prima vista. Macché. Fu una cosa più dolce, e candida.Io credo sia dipeso da come mi sentivo dentro in quei giorni. Deve esser stata quella voglia furibonda di capire, che covavo in corpo, unita alla solitudine del distacco con Carla. Ne era venuto fuori un bisogno strano, come di qualcuno con cui condividere il mio stato di ricerca.Lei, la sentii immediatamente vicina, Dio solo sa perché.Voglio dire che non ti aspetti di trovarla in mezzo al frastuono comico di un centro commerciale, dietro il bancone del pesce, odore fisso di vongole e merluzzo, la donna con cui interrogarti sul senso della vita.

Basso il sole all'orizzonte, perché era l'ora di un bel tramonto primaverile, ma dentro il chiuso di quell'ipermercato potevi solo immaginartelo.Come potevi solo immaginarti la vita che impazzava fuori, nei cinema e nei bar a pochi metri da lì, dove coppie si tenevano la mano e gruppi di ragazzi scoppiettavano intorno a un biliardino.Come potevi solo immaginarti che lei lavorasse lì da quando aveva ventun anni, terminata la scuola senza voglia di proseguire, e infilata dietro quel banco da uno zio d'occasione. E che magari non le dispiacesse neppure, quel lavoro, giacché non c'era troppo da ragionare e alla gente poteva dare risposte chiare. Il pesce è fresco, tre chili e mezzo, undici euro e settanta.Come potevi solo immaginarti che lei si fosse lasciata da più o meno un mese con un avvocato di Roma e da allora avesse bramato soltanto uomini di passaggio, coi quali condividere la voglia di risposte chiare, e in ogni caso non avvocati.Come potevi solo immaginarti che quella sera lei non avesse impegni, e un invito a cena da uno sconosciuto con un tubetto di maionese in mano l'avrebbe accettato senz'altro.

Vergognandomi, ma solo un poco appena, le domandai se avessero anche delle seppie surgelate. Lei me le mostrò e mi indicò due differenti qualità. Allora io le chiesi se lavorasse lì da molto. Più o meno un anno, ma non era fissa.- E le piace?- Oh, be', non è il massimo. Però mi piace stare a contatto con la gente.- Capisco. Avrebbe preferito fare la commessa in un negozio di calzature.- A dire il vero, il mio sogno sarebbe lavorare in un autogrill. Gente di tutti i tipi, camionisti, coppie

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in luna di miele, famigliole al completo che se ne vanno in gita, ragazzi in fuga dalla città.- Le piace viaggiare?- Mi piacciono le persone che viaggiano. E mi piace che abbiano un punto di riferimento. Tu sei lì, nell'autogrill, e loro sanno che tu sei lì.- Scommetto che sta attraversando un periodo di transizione e riflessioni, come dire, pesanti...- Gliele imbusto, le seppie?- Come? Ah, sì, certo. Me le imbusti.Tirai fuori il portafogli, feci per pagare.- No, no, non qui. Paga alla cassa quando esce.- Ah, perfetto allora.

Ma nel gioco avrei dovuto dirle: "Senti, io, è un periodo un po' così. E non lo so se mi piace viaggiare, o avere punti di riferimento, o essere un punto di riferimento per qualcuno. Però avrei tanta voglia di parlarne con una ragazza dagli occhi verdi e i capelli bruni. Per provare a capirci qualcosa, mica per altro. Fosse per me, starei a parlarne fino a che fa notte e giorno mille volte, oppure fino a sentirmi così stanco o intelligente da non aver più voglia di capire. Fosse per me, comincerei dal principio. Racconterei di quando ero piccolo e giocavo coi cuginetti, di quando facevo il chierichetto, delle partite a pallone con gli amici, dei primi baci, del liceo, e poi dell'università lasciata a metà, dei lavoretti per campare, di una storia fragile e di un'altra un po' più robusta, e poi di Carla e della camera da imbiancare. Poi toccherebbe alla ragazza bruna con gli occhi verdi, e anche lei parlerebbe a lungo, solo un po' meno perché tante cose me le immagino già.E alla fine cercheremmo di mettere tutto insieme e di tirarne fuori qualcosa di definitivo, qualcosa tipo un prezzo, o un peso. Lei è brava, in questo, per via del lavoro che fa.A dirla tutta, non so se servirebbe a qualcosa, però se stasera sei libera potremmo cenare insieme. Conosco un autogrill sull'autostrada per Firenze che ha un magnifico ristorantino interno..."

Terminò in un cigolio il dialogo che immaginavo da ormai più di un minuto, pressoché immobile davanti al banco, tra gli occhi incuriositi di un cliente.Il cigolio era quello di una porta aperta nel retro, da cui uscì un ragazzotto altissimo anche lui in grembiule da lavoro. Si pulì le mani ad una pezza e poi si tolse il grembiule e lo appoggiò in un angolo. La ragazza lo guardò.- Stacchi?- Eh, sì. Io ho finito. Allora passo stasera.- Ok.Lei gli si avvicinò e, tenendo le braccia larghe per non sporcarlo, lo baciò.Sulla bocca.- A stasera.

E in un attimo, ma come accade spesso, mi sentii ridicolo a sognare ad alta voce.Ripresi a muovermi senza direzione, come una trottola che rimbalza contro le vite degli altri, nel labirinto di un ipermercato.E intanto mi dicevo che abbiamo tutti un autogrill da aprire, da qualche parte, e che dobbiamo darci una mossa se non vogliamo ritrovarci dietro a un banco del pesce.E subito dopo mi dicevo che forse no. Perché mi tornava in mente il volto di una ragazza con un autogrill in testa e un banco del pesce davanti che dopo tutto, a guardarla, non sembrava così infelice.E in ogni caso mi domandai dove fosse il mio, di autogrill- dove andarlo a cercare.Pensieri pesanti.Arrivai per caso al reparto elettronica. I cd sembravano in offerta, ne presi due pacchi e mi avviai verso la cassa.

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Mentre scorreva sul nastro, osservavo la mia spesa bizzarra e mi chiedevo se la maionese stesse bene sulle seppie; così non ascoltai la cassiera che comunicava l'importo.Le porsi più di quello che pensavo d'aver potuto spendere, lei sorrise e me ne ridiede indietro la metà più certi altri spiccetti. Sorrisi anch'io, presi il resto e me ne andai.

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La casa dov’è.

Abbiamo diciannove giorni di Inter-rail infilati nei polpacci e altrove, ma ce li portiamo discretamente. Almeno io, via, che mi sciacquo dappertutto appena posso e ogni due giorni mi rado per forza, fosse pure specchiandomi nei lavandini malfermi dei treni in corsa. Lui pare un po’ più trasandato, ma magari è un atteggiamento.E invece loro sono stanche da morire ma in gamba, si vede, appoggiate con la schiena sulle schiene e paia di calzini umidi a penzolare dagli zaini enormi, e italiane, come spiega la maglietta di Lupo Alberto che porta la più bruttarella. Le altre due sono carine.Chiedo a Blady che si fa, se ha voglia, stavolta tocca a lui.Dice ma sì, chiacchieriamo un po’, se no si addormenta.Allora si alza, s’avvicina con quell’aria canzonatoria che gli riesce bene e fa:- Salve, vendete calzini bianchi per caso?Loro sono un po’ spaesate, sorridono verso di noi.- Sì, ma solo usati e umidi. Due euro il paio…Lo dice la bruttarella, che ci scommetto quello che volete sarà come al solito la più simpatica e disinvolta eccetera. Deve esserci sotto una legge, qualcosa, fattori genetici.Comunque vengono da Lecco, Lombardia, Profondo Nord mentre noi veniamo da Roma, vicino Roma, Caput Mundi.Loro sono Lia, Francesca e soprattutto Giulia mentre noi solo due: l’altro si chiama Blady, che è un nome albanese e non si scrive così.Sotto e intorno c’è la Gare de Lyon, che è la stazione dove parte il treno che ti riporta a casa, se per qualche motivo ti trovi a Parigi e casa tua sta a Lecco o vicino Roma.- Quindi siete di ritorno…- Sì, ci fermiamo a Nizza, forse un paio di giorni sulla costa e poi si torna.- Francia Belgio Olanda anche voi?- E Lussemburgo.- E Lussemburgo. Il biglietto da 22 giorni.- No, noi quello da 12.- Ah, femminucce…- Vabbè, raccontateci qualcosa, no? Vediamo che ci siamo perse in questi dieci giorni in meno.Questo lo dice Francesca, che ha un modo di guardare particolare, molto Nina Moric.Lia invece è bruttarella ma ride sempre e sembra sapere un mucchio di cose; il tipo di ragazza che vorresti per sorella o compagna di banco.Giulia ha una voce bellissima.

Per esempio siamo stati a Mont Saint Michel, che è un posto con un’abbazia sopra un promontorio, e intorno il mare o la sabbia. Dipende dall’ora, dal periodo, è una questione di maree. In Italia un posto così non esiste.E poi, sempre sulla costa, St. Malo che è un altro must e più giù Biarritz, verso la Spagna. Con degli scogli fantastici, da cui Blady ha potuto esibirsi nella sua specialità ovvero il tuffo carpiato.Le ragazze fanno un oh d’ammirazione molto televisivo. Hanno classe, chi in un modo chi nell’altro.Io le guardo a turno ma ogni tanto concedo un’occhiata bonus a Giulia. Blady intanto ha tirato fuori l’inseparabile mazzo di carte napoletane versione pocket e si sta sparando una briscoletta tete-a-tete con la Francesca.Allora vado avanti io, dico che ovviamente Parigi, con tutto quello che si sa e avranno visto anche loro. E in più una cosa che va raccontata. Una specie d’osteria con un vecchio rivoluzionario corso che prepara delle tartine spettacolose. E quando ti vede col borsone da viaggio non ti fa pagare. Almeno a noi è andata così, giuro.Entriamo, il posto ce l’hanno consigliato all’ostello dicendo it’s worth e qualcos’altro che il nostro

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inglese di scuola superiore non ha afferrato. Ci sediamo a un tavolo in un angolo: io su uno sgabellaccio, Blady direttamente sullo zaino perché le sedie sono occupate, lontane o semirotte. Ma non ci scoraggiamo perché quasi subito viene verso di noi un omaccione coi baffi e senza capelli che sembra simpatico. Ci stende un foglio che è il menu e noi ci affrettiamo a scegliere due cose con l’asterisco accanto e un prezzo abbordabile. Il vecchio fa un mezzo inchino e scompare dietro una tenda che nasconde la cucina. Dovete immaginarvi il locale, non c’è tantissima gente, ma è gente particolare, parecchi ragazzi- quarantenni con l’aria da intellettuali- anziani che sembrano vecchi lupi di mare. Alle pareti manifesti di iniziative che non capiamo a fondo ma hanno un che di politico-sociale, foto in bianco e nero di concerti o altro. In cui riconosciamo spesso l’uomo coi baffi, che per noi sarà da quel punto in poi e per sempre il vecchio rivoluzionario.Insomma niente. Mangiamo le sue tartine spettacolose e gli facciamo segni d’apprezzamento. Quando ci alziamo per pagare, lui incomincia a chiederci delle cose mischiando il po’ di tutte le lingue che conosce: come ci chiamiamo, da dove veniamo, cos’è l’Interrail. Finisce che non ci fa pagare e anzi ci manda via regalandoci due scatolette di tonno e una busta di pane tostato e una pacca sulle spalle e un bon voyage di commiato.Siamo stati anche ad Amsterdam, ovvio. E chi se la scorda quella sera che fumati persi ci siamo messi in testa di chiamare un amico in Italia per spiegargli che lassù è tutta un’altra cosa, altro che chiacchiere, e mi sono ritrovato a fare senza pensarci il numero di casa e a spiegare a mamma che sì avevo già chiamato nel pomeriggio ma volevo vedere se andava tutto bene, no che non ero ubriaco, mi veniva da ridere ma non ero ubriaco. E chi se lo scorda, Blady piegato in due contro la cabina telefonica.Abbiamo visto i mulini ad acqua, una vallata con decine e decine. Perché mica puoi andare in Olanda e non vedere i mulini ad acqua.E poi Bruxelles, con le palle dell’Atomium il ragazzino che piscia e la Grand Platz, che una sera era tutta ricoperta di fiori e ci hanno spiegato che solo una volta ogni due anni, pensa che culo.E ancora tante altre cose, che ne so, un pomeriggio a Ostenda, i castelli della Loira, Lussemburgo, Metz.- Anche Metz? Che ci sta a Metz?- Niente di ipermeraviglioso. Una bella cattedrale gotica e il fiume.- Solo la chiesa.- Vabbè, ma mica è la chiesa di Lecco, voglio dire…Blady, che è proprio un grande anche se a starci venti giorni insieme rompe un po’ le palle, ha coinvolto pure Lia. Gli sta insegnando il traversone, una sorta di tressette all’incontrario che a Lecco non si gioca.Io mi lavoro Giulia dicendole di quando a Nancy, in stazione, abbiamo messo su un Italia-Spagna due contro due con dei ragazzi conosciuti in biglietteria. Che avremmo stravinto se solo non ci avesse interrotto una guardia di parte sul quattro a due per loro.E poi basta, adesso tocca a te che ho la gola secca. Hai una voce bellissima: usala ogni tanto, no?

Loro hanno fatto al contrario: sono partite dal nord, prima Amsterdam e poi a scendere Bruxelles, il Lussemburgo, la Bretagna, Parigi.A Bruges le hanno fregato lo zaino, mentre sedevano su una panchina. Ma l’aveva preso un mezzo pazzo che le guardie conoscono benissimo e hanno fermato subito senza neanche arrestarlo, perché sembra non sia cattivo. Ruba le cose per gioco, le porta un po’ in giro e poi le lascia per strada o le dà a un vigile.Storia strana. Giulia va avanti a parlare ma io mi perdo a guardarle i denti e le orecchie. E mi sorprendo a riflettere su questa ragazza che è partita undici giorni prima da Lecco e magari anche se ha una voce bellissima un ragazzo non ce l’ha, se no dove vuoi che andava dodici giorni per l’Europa con due amiche.E poi me ne vado un po’ per conto mio. Con la testa, dico; il culo sempre poggiato sul pavimento

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della stazione. Penso alla gente che ho incrociato per strada e per caso in questi diciannove giorni imbottiti di roba come i panini che prendiamo il venerdì notte sulla Palmiro Togliatti. Immagino ci vorrà un po’ a digerirli. Penso ai treni che ho aspettato e perso o preso. Ma nella vita, dico, mica st’estate. Mi chiedo se c’è qualcosa di più bello di questo mescolare vite nelle stazioni, e poi lasciarsi per sempre o continuare a mescolarsi, ma di solito lasciarsi per sempre. Mi chiedo se anche Giulia che va avanti a muovere i denti e la lingua dentro la sua bocca di ragazza ventunenne di Lecco è uno di quei treni che passano e si perdono o prendono. Se lo stessi aspettando. Mi immagino un futuro con lei. Io che mi laureo e mi trasferisco a Lecco lavorando in un’agenzia qualsiasi. Io che prendo l’accento di loro del nord e voto la Lega. Noi che di domenica ce ne andiamo in barca sul lago e sembriamo Renzo e Lucia.Giulia sta raccontando di tre ragazzi inglesi con cui hanno passato due giorni a Bruxelles. Le ragazze si guardano maliziose, poi Lia indica ridendo la Francesca.- E la Fra ha rimediato uno splendido braccialetto portafortuna…Al che la Fra mostra da ragazzina il braccialetto di spago colorato e se lo sbaciucchia. Hanno classe, ognuna a modo loro.- Insomma tutto qui-, conclude Giulia.- Hmm… I castelli della Loira meritavano, però, almeno un giorno potevate andarci…- Amboise, te l’ho detto.- Ah, sì scusa, m’è sfuggito.La verità è che basta la voce bellissima di una ragazzetta appena un po’ più dolce della media per farmi girare a vuoto. Sempre. E perdere il filo. E dimenticare che è il caso di occupare un posto sul treno che intanto è arrivato da un quarto d’ora.- Ble, forse è il caso che andiamo a sederci… Se no stanotte si viaggia in piedi. Voi che fate?- Veramente noi abbiamo la prenotazione.- Ah, ma siete delle professioniste, allora…- Anzi, se troviamo la nostra cabina magari vi mettete lì così l’occupiamo tutta.- Great!Ci alziamo tutti insieme coi nostri rispettivi enormi zaini. Opportunamente alternati: una ragazza un ragazzo una ragazza un ragazzo una ragazza. E intanto cantiamo questa è la mia casa, la casa dov’è, come c’ha insegnato Lorenzo Jovanotti. E quasi quasi più che camminare saltelliamo. Io tengo Giulia per mano ma con innocenza. Blady scherza con Lia, s’intendono a meraviglia dall’inizio, si vede. La Fra sta nel mezzo e canta più forte di tutti. Porta un braccialetto portafortuna di tutti i colori. Siamo bellissimi, Signore dell’universo.

***

Se n’è andato.Un anno di vita normale scolato tra Roma e vicino Roma. Vado avanti con gli studi, più o meno lentamente, ho un esame venerdì. E m’arrangio con qualche ripetizione di matematica per tenermi vivo e metter su due spicci per l’estate. Con Giulia ci sentiamo ogni tanto, via e-mail. Ci raccontiamo qualcosa, ricordiamo qualcosa, auguriamo qualcosa- sempre più sintetici.Oppure ci squilliamo. Ci siamo promessi di squillarci ogni volta che uno di noi sale su un treno o passa in qualche stazione, è una specie di rito. Però quello che prendo ogni mattina per Roma non vale. Solo gli altri treni e le altre stazioni.Qualche volta ci siamo anche sentiti, però tutte le volte poi sto male due giorni e allora non è il caso. E’ che per telefono ha una voce proprio insostenibile, sembra quella delle fate nei film per bambini.E a Natale ci siamo visti qui a Roma, è venuta un paio di giorni con la Fra e le ho spiegato i monumenti e insegnato qualche frase in romanesco.Pensavamo di organizzare un giro per l’estate che viene però non lo so. Blady forse inizia a lavorare

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e anche loro non sono certe di potere.E io intanto, non ve l’ho detto, ma mi sono messo con una di qui che si chiama Marina. E le voglio bene bene bene, ve lo giuro.

Perché funziona così, Signore dei viaggiatori. La strada va avanti zigzagando verso un’idea di casa e ci si trova e ci si perde.Tutto quello che puoi è lasciare indietro dei sassi sui tuoi passi, anche solo per te stesso, un domani, hai visto mai.

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Viviamo in un mondodi storie che cominciano

e non finiscono.

Italo Calvino

Cose.

Questa comincia per caso, se vai a vedere cominciano tutte per caso.

Fosse un film, la prima inquadratura sarebbe stretta su un pacchetto di sigarette, quelli che girano adesso con gli ammonimenti che sembrano annunci funebri. Hai mica una sigaretta? A muovere il pacchetto due mani nervose e grosse, di ragazzotto venticinquenne che studia psicologia e il fine settimana fa il cameriere in una trattoria sull’appia. Tirano fuori una sigaretta, poi un’altra. Nell’aria scivola una voce di ragazza dolce e rauca. La voce, dolce e rauca. Di ragazza che fuma. Ora la camera è larga sul cortile della facoltà, lui è seduto sul muretto di un’aiuola, lei è in piedi e si capisce che gliene ha appena scroccata una. Com’è che ti chiami? Intorno qualche voce sparsa, un altro gruppetto di ragazzi, uno che legge da una parte, una ragazza che telefona. E’ così che si presentano. Che c’è scritto sul tuo? Scherzano. Sembrano le barzellette del cucciolone, dice uno dei due. Entra il tintinnio ritmico di qualcosa, è il walkman troppo alto di un ragazzo che esce da una porta e passa via verso la strada. Il walkman lo tiene nella tasca interna del giubbino, il giubbino lo tiene in mano. Non sai mai come vestirti, di questi tempi. Attraversa la strada di fretta, a semaforo giallo. La mattina presto fa freddo, il giorno fa caldo, la sera fa freddo. Va sicuro verso l’edicola. Ce l’ha l’espresso nuovo? I ragazzi della sua età non comprano l’espresso. Non si è neppure tolto le cuffie dalle orecchie. Di solito non lo comprano, magari è per il padre. L’edicolante mette gli spiccioli nel carrello della cassa, ognuno nel giusto scomparto. Guarda la sveglietta che tiene da un lato, dieci minuti e poi via, a pranzo. Viene spesso, quel ragazzo; strano che legga l’espresso alla sua età. Con suo figlio ci prova da sempre, l’edicolante, ma non gli è mai riuscito di fargli leggere più che il guerin sportivo. Vabbè che è piccolo, ancora. Domani fa il compleanno. Il corriere, grazie. Con il libro o senza? A proposito, devo passare in pasticceria e ordinare i tramezzini per domani. Quanti avevamo detto? Arriva una ragazza mora, carina. Prende un tv sorrisi e canzoni e chiede se via po’ è da quella parte. Cammina con due scarpe a tacco alto ma le porta come un paio di superga. Dev’essere l’abitudine. In via po’ passa l’ottantasei. O il sessantotto, non si ricorda mai. Quello ti porta fino in piazza sant’emerenziana, poi c’è da fare un pezzetto a piedi. Da una pizzeria lì vicino esce un odore buono di roba fritta. Lei tira fuori dalla borsa una mela verde e prende a morderla. Eccola, via po’. C’è un sole che sembra settembre, o giugno. L’auto si ferma un po’ più avanti perché c’è una punto parcheggiata male. Semivuoto, l’auto. Strano. L’autista è biondo e col pizzetto tinto, bel ragazzo. Seduto a destra c’è un tipo particolare, sarà sulla cinquantina. Ha trovato una biblioteca dove prestano cd musicali. Lui è un musicista mancato, lavora come idraulico e intanto compone. Musiche per sax, e tromba. Adesso va a restituire due cd presi la settimana prima. Uno è di Duke Ellington, the great Duke Ellington. Chissà se continua anche al piano di sopra, la biblioteca. La biblioteca… Si potrebbe scrivere un pezzo sulla biblioteca, con mille registri diversi, come se i libri parlassero tra loro. Un passante distratto per poco lo investe con la busta della spesa. Dovrei scrivere un pezzo sulla biblioteca, potrei riciclare la linea di basso dell’altra sera, per farci parlare un volume giallo. La biblioteca è dentro una specie di parco; ne girano, di cani. Ce n’è uno attaccato al becco di una fontana. Poi, vai a berci, a quella fontana… Scrolla il capo, il cane, per spruzzare via l’acqua. Adesso corre da un’altra parte. Il padrone gli fischia tre note esatte, deve essere un richiamo. Il cane torna indietro, si avvicina al padrone, gli gira un po’ intorno e poi riparte. Ha qualcosa in testa, perché abbaia in una direzione precisa. Il padrone gli va dietro scocciato. Il sole è sempre quello di settembre. C’è un gatto sopra un ponteggio di lavori in corso, è salito e non sa riscendere. Succede così, coi gatti. Il padrone richiama a sé il cane e lo lega al

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guinzaglio. Il gatto intanto miagola piagnucoloso a un ragazzo lì sotto. Cretino di un gatto. Il ragazzo apre un cancello, è una specie di orto. Il gatto lo segue da sopra il ponteggio e continua a miagolare fastidioso. Poi incomincia a scendere da un albero che s’appoggia ai tubi. Lo fa strusciando sul tronco un po’ a testa in su e un po’ invece no. Comunque ce l’ha fatta. Tante volte, basta indicargli la strada, ai gatti. Il ragazzo richiude il cancello e sale in macchina. Un giorno o l’altro ce lo lascio a marcire, su quel ponteggio, capace che si sveglia. Sta andando a prendere la sua ragazza per accompagnarla all’aeroporto. Parte per l’America, porco giuda. La strada è trafficata ma nell’altro senso. Roba di mesi, mica madonne. Dice che lì fare ricerca è tutta un’altra cosa, è troppo importante per la sua carriera. Sarà, vaffanculo. Oh, quello è Giorgio. Suona col clacson a un altro giovanotto tutto rasato e con gli occhiali. Sta attaccato al cellulare, però se ne accorge e fa giusto in tempo a muovere un braccio in risposta. Continua a vederlo, dallo specchietto di destra. Si domanda perché s’è fermato di colpo, magari gli è caduta la linea. Invece no, a guardarlo da vicino sta ancora parlando. Però intanto s’è fermato e s’è appoggiato al muro. Sta parlando a sua madre, le racconta dell’esame e le dice che non torna per cena. Ho il calcetto con gli amici. Chissà se è vero o ha in testa certe altre cose. Passa un’auto gialla milleeotto cabrio, una favola. Lui ha gli occhi fissi avanti a sé, verso la parete di fronte. Il cielo adesso è un po’ meno chiaro. Sta fissando una finestra, una finestra fra chissà quante. Non si capisce perché. Non è che abbia i panni stesi o un vetro rotto. Non c’è attaccata nessuna bandiera della pace. E’ una finestra come tutte, non c’è motivo.

Dentro la stanza non c’è nulla. Dentro la stanza c’è odore di ciambellone. Dentro la stanza c’è la tana degli scoiattoli. Dentro la stanza c’è il ronzio di un frigorifero. Dentro la stanza c’è il corpo di Aldo Moro rinchiuso in un baule. Dentro la stanza ci siamo io e te, piccola mia.Io ti guardo, tu mi guardi. Siamo complici e non parliamo. Ci siamo detti tutto una sera di queste. Adesso immaginiamo; al massimo facciamo l’amore.E’ come il giorno che cammina, piccola mia. Fuori, c’è il mondo che corre ed è immobile, e esplode e singhiozza. E’ come la notte che s’avvicina, piccola mia. Ci vorrebbe una luna. Ci vorrebbe una stella che indicasse le strade e elencasse le storie.Come io e te che stiamo a giocare, come io e te che stiamo a sognare, come io e te che stiamo a guardaretutte queste cosepassare.

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Te lo giuro sui Bee Gees.

Ah, e chi se lo scorda il primo incontro.Un pub vicino Re di Roma, atmosfera gothic, luci soffuse. La musica dà sul medievale, con arpe celtiche e cori maschili su una lingua strana che non è nemmeno inglese.Il pub è semivuoto, è un martedì o un mercoledì qualsiasi, chissà perché non sto a casa a guardarmi la Champions.Invece la situazione è classica: io sto con un amico, tu stai con un’amica, sediamo a due tavoli vicini.Anche l’approccio è classico.- Scusate, avete da accendere?- Solo se avete una sigaretta in più.- Anche due…Io ti passo l’accendino, tu mi passi la sigaretta, una muratti multifilter che manco mio padre. Intanto i cori misteriosi hanno lasciato il posto all’Unplugged di Eric Clapton.(Erano altri tempi. Io giravo con un accendino in tasca, la gente fumava nei luoghi pubblici, i pub passavano buona musica.)- Ti piace Eric Clapton?- Chi?- Quello che sta suonando.- Ah, sembra bravo.- Questo è l’Unplugged, un capolavoro.- Sì, è vero.Conversazione arenata. Non conosci Eric Clapton, non ti piace quella musica divina, quando guardi negli occhi sei bellissima.Qualche giorno più tardi scoprirò che non sai neppure cosa sia un unplugged; lo confondi con un disco di cover, diomio.Intanto anche il mio amico e la tua amica hanno preso a familiarizzare, ormai siamo seduti al vostro tavolo. Ci pensa lui a far decollare il velivolo.- Che fate più tardi?- Io direi che andiamo a letto. Domani suona la sveglia alle sei e mezzo.- Va be’, cornettazzo, dai…- Cornettazzo?- Eh, cornettazzo…Finisce a scambiarsi i numeri di telefono che sono le due e un quarto, così ci si sente se ci stanno problemi.Altrimenti l’appuntamento è per sabato prossimo, nove e mezzo, davanti la cremeria di Via Albalonga.

Ma se stasera fossi qui, Layla mia, allora sì che sarebbe una festa coi violini e tutto. Faremmo così: io metterei su una cenetta semplice ma efficace, come m’ha insegnato mamma. Il vino sarebbe quel marsala liquoroso che è l’unico che riesci a bere e il servizio di bicchieri quello buono. Il dolce non l’avrei preparato perché senz’altro lo porteresti tu. E parleremmo di un mucchio di sciocchezze, così, come ci vengono in mente, fregandocene dei nessi causa effetto. Mi racconteresti com’è andata oggi, se il contratto te lo rinnovano, a che ora suona la sveglia. E io replicherei con diecimila cose intelligenti e buffe. Sarebbe una festa.Invece sto qui da solo a mangiare dal frigo e ripensarti, cercando di farlo come fosse un dono. Metto su un disco di Baccini che fa sempre bene allo spirito. E accendo una muratti multifilter solo per gioco. Le ho comprate oggi pomeriggio, io non fumo da un anno. Voglio vedere che effetto fa.

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Da quando te ne sei andata con un imbianchino di Rieti, Layla mia, il cielo è diventato azzurrognolo sporco. Anche quando tutti intorno dicono che è sereno sereno, in realtà se lo guardi bene è azzurrognolo sporco.Invece mi ricordo un giorno di giugno di quell’estate favolosa, eravamo a Terracina. E il mare insomma, ma il cielo era blu per davvero.Stavamo insieme da più o meno un mese, che dici? E già ogni tanto scricchiolava qualcosa.Appena arrivati, che palle, attacchi coi cruciverba. Io allora mi sdraio sul lettino con le cuffie alle orecchie e ti guardo riempire le caselle a tutta velocità.Sei forte coi cruciverba.- Sei forte coi cruciverba.- Li faccio da quand’ero piccola. Ho iniziato con papà.- Ma non t’appallano? Viè qua, che ti faccio sentire qualcosa.- Che ascolti?- The Beatles.- Ah, i Beatles li conosco.- Tieni, prendi la sinistra.- Che è?- Come together.- Hmmm… non ce l’hai Yellow submarine?No, Layla mia, ascoltati in silenzio Come together che è venti volte più bella e non accostarti troppo con quel bikini che altrimenti svengo.Il pomeriggio ci facciamo una bella passeggiata sulla riva.Tu mi racconti del tuo lavoro, fai la cassiera in un centro commerciale e dovrebbero rinnovarti il contratto altri sei mesi. Solo ventiquattro ore la settimana, ma dici che di più impazziresti e la paga è accettabile.Io ti parlo di un libro di poesie che sto leggendo, roba di Neruda, declamo qualcosa, provo a farti sentire il calore e il colore che c’è dietro. M’aiuto con quel po’ di spagnolo che conosco.Arriviamo su una specie di pontile, ti passo un braccio intorno al collo e poi ci baciamo. Tu hai in testa qualcosa, si vede da come guardi l’orizzonte con quegli occhi spettacolari che ti ritrovi.Poi ti giri e fai:- Non mi hai mai scritto una poesia d’amore.E lo dici seria, si vede da come mi guardi con quegli occhi cinematografici che ti ritrovi.Mannaggia a me e quando ho tirato fuori il calore, il colore, e il poeta cileno.- Già, non te l’ho mai scritta…

Ma se stasera fossi qui, Layla mia, allora sì che sarebbe un film di Gabriele Muccino. Metteremmo un ballabile lento nel giradischi rotto che stasera funzionerebbe. Ruoteremmo nel salone come fosse una pista da ballo, frantumando prima o poi un portacaramelle di vetro. Allora raccoglieremmo le caramelle mangiandone la metà e trascurando i cocci. Quindi andremmo ancora ballando verso la camera sussurrando frasi sconce in una specie di spagnolo. Le luci si abbasserebbero, la musica sfumerebbe in lontananza, la camera staccherebbe su un esterno, giorno.Invece sto qui, puffettina mia, interno notte, mani sulla tastiera. E puzza di muratti nell’aria viziata.E strisce di disperato buonumore sulla coscienza, che chissà perché.E’ un mercoledì qualsiasi, di quelli che domani alle sei e mezza suona la sveglia. Finisco di scrivere sta cosa e mi butto sul divano a guardare la Champions.

La vita è una cosa meravigliosa. Per esempio perché le ragazze si fanno promettere che non le lascerai mai e tre mesi dopo ti lasciano loro.

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Siamo a Villa Torlonia, su una panchina a spararci il primo gelato della stagione. E’ maggio, un maggio caldo, più o meno a metà strada tra la sera del cornettazzo e la gita a Terracina. Tu indossi un abituccio già estivo da favola. Si vede parecchio, il resto me l’immagino o me lo ricordo.- La settimana prossima faccio il compleanno, eh…- Lo so benissimo, my darling.- Me l’hai già fatto il regalo?- No, sai, sono contrario a queste abitudini consumistiche.- …- Però pensavo di prendermi una giornata libera e passarla insieme. Ti regalo una giornata di me, non sei contenta?- …- Sì, te l’ho già fatto il regalo…- Bastardo. Non si capisce mai quando scherzi…- …- Non è un disco, ve’?Certo che eri forte, my darling. M’hai lasciato tre mesi dopo, solo tu sai perché. Forse perché non t’ho mai scritto una poesia d’amore. Oppure non t’è piaciuto il regalo. O magari perché continuavo a chiamarti Layla anziché Veronica.Adesso chissà dove stai buttata. Se hai trovato posto in una Gs di Rieti o se lui imbianca le pareti di qualche condominio qui a San Giovanni.E dire che quel giorno a un certo punto avevi gettato via il gelato e mi ti eri seduta sulle ginocchia. Con quell’abituccio già estivo.Io ti guardo con lo sguardo strabico come a dire mio Dio che intenzioni hai.Tu mi guardi con quegli occhi fantascientifici che ti ritrovi come a dire adesso parliamo un attimo seriamente.- Mio Dio, che intenzioni hai?- Adesso parliamo un attimo seriamente.- Vai, ce la metto tutta.- Non ho capito se noi stiamo insieme.- Se stiamo insieme… E’ importante?- Sì, è importante.- Beh, qualcosa del genere.- Ancora non ho capito.- Sì, stiamo insieme.- Perfetto.- …- Allora devi promettermi una cosa.- Te la prometto.- Che non mi lascerai mai.- Ma su…- Non mi lascerai mai.- Non ti lascerò mai.- Non è un gioco, giura.- Giuro che non ti lascerò mai.- Non è un gioco, giura su qualcosa.- Che palle, Layla, te lo giuro sui Bee Gees.- Su chi?- Lascia stare. Su nonno.

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L’ultimo bacio.

C’è una punta d’insofferenza nell’aria che dipende dal meteo, da quest’acqua che ti bagna senza essere pioggia e che gli ombrelli non sanno acchiappare.Chiara, l’ho rivista ieri sera a cena. È più piccola di come avevo preso a immaginarla e il suo viso è un po’ meno pulito. Si muove con grazia, sa sorridere. È un tipo di bellezza, si potrebbe sentenziare.Io non sono particolarmente bravo ad entrare dentro le persone, però so bene guardarle da fuori e lasciarle cambiare.La strada è bagnata come sempre, rivoli d’acqua che scendono ai bordi, sassolini impiastrati. Ho infilato le cuffie alle orecchie, il cappuccio sul capo, e via, per quel less than one mile che ti porta a Penglais, il main campus, l’Università.

Nelle orecchie c’è un pezzo tagliente di Carmen Consoli, quando incrocio un signore distinto in giacca e mocassini che prova a parlarmi. Io lo guardo, mi fermo, sfilo le cuffie. Lui sorride e domanda qualcosa che non capisco.C’è di mezzo un “walking”, e poi un “town”, forse un “direction”.“Sorry?”Avevo le cuffie fino a un secondo prima, ho tutto il diritto di essere un po’ confuso.“Are we allowed to walk to the town?”, o qualcosa del genere.Penso d’aver capito. Stanno facendo dei lavori, qualche centinaio di metri più a valle: il signore vuole sapere se la strada è chiusa anche per chi va a piedi.No, no, vengo io da quella parte, gli rispondo, vada tranquillo.Il signore sorride, io sorrido di rimando perché mi fa piacere incrociare signori distinti che ti domandano se la strada è chiusa anche ai pedoni.Lo guardo andar via a passi svelti e sicuri lungo la discesa. Mi volto, riprendo a camminare, rinfilo le cuffie alle orecchie. C’è un pezzo dolce di Carmen Consoli.

Il signore distinto se n’è andato per la discesa e adesso gira verso la città. Ha un appuntamento con il reverendo, forse con il medico; anzi col giornalaio che vorrebbe assumere suo figlio come paperboy. Ma io non posso saperlo. E non posso sapere che suo figlio ha sedici anni e da grande vuole fare l’avvocato. E non posso sapere che lui si chiama Peter, Peter Smith. O Peter Davies, come usa la gente di qui.

Il figlio invece si chiama Joe. Ha sedici anni e s’è messo in testa che l’estate prossima si farà un viaggietto in Scozia.I suoi non sono d’accordo, mai una volta che lo fossero. Suo padre per tagliar corto ha risposto “trovati i soldi e poi vai dove ti pare”.Joe sarà un pischello ma non è uno sprovveduto, una frase del genere se l’era immaginata. E s’era immaginato una risposta che poteva lasciarli secchi tutt’e due, il padre e la madre. Domani incomincio a lavorare, ho già trovato un posto.Sua madre ha sbandato col vassoio della frutta.Suo padre s’è scolato un bicchiere di vino rosso, che di solito gli dura una cena.

Paperboy vuol dire che ti alzi la mattina alle sei, alle sei e mezzo sei dal giornalaio dall’altra parte di Aber- quello davanti alla chiesa di St.David- e alle otto devi aver finito di consegnare tutto.Lo fai in bici, se solo hai una bici. E Joe Davies, una bici, ce l’ha. È una bici da cross, sembra fatta per tutt’altro che consegnare giornali, però le ha spiegato che se fa la brava quest’estate la porta in Scozia- e allora lei ci sta.

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Il signor Davies entra nell’edicola. Si mette in fila dietro a una signora che sembra americana, aspetta il suo turno.“Una copia del Cambrian News, grazie.”“50 pence.”“Ecco a lei. Grazie.”“Buona giornata. Grazie a lei.”“Sono il padre di Joe Davies.”“Oh, che piacere. Come mai qui? È successo qualcosa?”“No, no. Non è successo niente. Volevo solo una copia del Cambrian News e conoscerla di persona.”“Se aspetta una mezz’oretta, arriva mia moglie a darmi il cambio e possiamo sederci di là. Le offro un tè, le va?”“Ma no, non si scomodi. Vedo che è una brava persona e questo mi basta.”“Oh, anche Joe è un caro ragazzo. Vedrà che si troverà bene.”“La mattina fa freddo. Ma se l’è cercata lui, volevo lo sapesse.”“Oh be’, mi sembra un ragazzo robusto. E poi andiamo incontro alla bella stagione…”“Già. Comunque, non sia tenero con lui. Voglio dire, il lavoro è lavoro. Gli faccia passare la voglia, se crede.”

Chiara, non ci ho mai parlato da solo. Mi piacerebbe.Non so di che parleremmo, dipende da come capita, da dove capita. A un certo punto ci sarebbe una pausa, staremmo un po’ zitti. E allora le domanderei dove ha imparato a sorridere così.Ma lo farei senza malizia, con innocenza, come per scherzo. Penso che verrebbe bene. Non sono tanto bravo a parlare con le ragazze, ma due o tre cose le ho imparate.E glielo chiederei in inglese, perché è un nostro codice di qui. Tra di noi parliamo italiano, ma le stronzate le diciamo in inglese.

Joe s’era preso una mezza cotta per Ann, che è una ragazza di Llanbadarn Fawr. Ann studia nella stessa scuola di Joe, ha le trecce rosse, la carnagione pallida e un anno di più.Era successo tutto a una festa di compleanno, a quell’età succede tutto alle feste di compleanno. Lui le aveva parlato, com’è che ti chiami, dov’è che vivi, sei carina- una cosa diretta. Lei era arrossita ma non l’aveva piantato, si vedeva che Joe le piaceva. Poi c’erano stati dei giochi, una torta, qualcuno aveva messo su un po’ di musica.Insomma erano finiti a ballare insieme. Joe ha sedici anni ma è un ragazzotto, lei un bel viso e già un buon seno. Facevano una bella coppia, ecco.

Un giorno Joe le fa: “Ci vieni in Scozia con me?”“In Scozia?”“Sì, quest’estate.”“Ma dai…”“Perché? Che c’è, non ti va?”“Ma piantala.”“Insomma, che modi. Sai quant’è che ci penso, a questa storia? Se non vuoi venirci spiegami almeno perché non vuoi venirci. Che c’è che non va?”“C’è che io ho diciassett’anni e tu ne hai addirittura sedici. C’è che mio padre non sa che stiamo insieme, e mia madre non vuole che stiamo insieme. Ti basta?”Erano seduti sulla spiaggia di ciottoli in riva al mare. Joe ne aveva preso uno e l’aveva tirato contro l’acqua. Il ciottolo aveva fatto quattro rimbalzi.Il giorno dopo s’erano lasciati.

C’è un campo qui a Penglais, proprio dentro il campus. Un campo di calcio, roba sintetica, però un 19

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bel campo.Ci passo ogni mattina per andare a lezione. Adesso ci stanno sett’otto ragazzi che giocano, mi fermo a guardarli. Sembrano bravi, non è vero che qua fanno solo a tirar la palla lontano, questi ci sanno fare.Mi sarebbe piaciuto giocare a calcio. Giocarci seriamente, intendo. Mica che uno doveva fare chissacché, però segnarsi a una squadra, avere un allenatore, fare i campionati, quelle cose che si fanno da ragazzini con tuo padre che guarda da oltre la rete. Ai miei tempi, dalle mie parti, non s’usava. Non si poteva farlo abbastanza vicino. E allora giocavamo sulla strada fuori casa, o in piazza finché non protestavano; qualche volta ci si avventurava al campo sportivo, che era solo un enorme spiazzo di pozzolana con le porte troppo grosse e mezze sfasciate.Oggi ci stanno squadre lì vicino che prendono ragazzetti di appena dieci anni.È una cosa che m’è mancata.

“Ma che diavolo ti salta in mente? E a scuola quando pensi di andarci?”“Mamma, finisco alle otto. Ho tutto il tempo di tornare, darmi una sciacquata e alle otto e mezzo sto a scuola.”“Eh, voglio vedere come ci arrivi fresco, a scuola. Te ne vai a dormire in classe…”“Ma perché, ma’? Anche il figlio di Jerry, la sera lavora al pub e la mattina viene a scuola. A lui, mica gli fanno tutte ‘ste storie…”“Fallo andare, lascialo perdere, non sa neanche di che sta parlando. Fra una settimana si sarà già stufato di tutta questa storia.”

Eccolo, Joe, col cappuccio del giubbotto serrato sul capo e la bici da cross che fende l’aria lungo i saliscendi di Buarth Road.Pensieri qualsiasi. Il rugby, il vento, Ann.Non si sono più parlati da quella volta del viaggio in Scozia. A scuola la incrocia e fanno finta di non vedersi. È una storia triste.A Joe sarebbe piaciuto portarsela in Scozia e vabbè, non si poteva, ma adesso evitarsi addirittura gli fa male. Sarebbe bello, una volta, portare un giornale da lei, dai suoi, però abitano a Llanbadarn, non può succedere. Sarebbe bello cercarla a scuola, pausa delle undici e dieci, e mangiare un sandwich seduti sul termosifone, come un tempo. Sarebbe bello, una sera, poterla riaccompagnare.Eccolo Joe, mentre sfreccia lungo North Parade, e poi devia verso il mare perché ha cinque minuti d’anticipo, passa davanti alla Marine Terrace, guarda i gabbiani che giocano con le onde, in quel po’ di luce che comincia a venir fuori.Il sole sorge da est, dietro le colline. Peccato perché sopra al mare ci stava bene.

Il Phisical Sciences Building sta vicino a quello di Computer Science, va be’ che l’Università non è grande.Seguo due moduli assieme a un altro studente Erasmus che viene dalla Spagna. Si chiama Guglielmo; cioè Guillermo, o Guillelmo. Io lo chiamo Gu, tanto lui capisce.È uno forte, Gu, ha carisma. Lo vedi da come parla con la gente, da come si muove, da come ripone gli occhiali a fine lezione. Per dire, l’altra sera c’era una festa- ingresso libero, “one pound one beer”, queste cose qua. Lui è arrivato a un certo punto (intanto più tardi di tutti), ha salutato, s’è preso una birra, s’è appoggiato da una parte della sala, ha scherzato con chi gli si avvicinava. Eppure c’è entrato dentro, a quella festa.Io non sapevo bene come muovermi, la musica faceva schifo, non c’era spazio per alzare un piede, a parlare inglese faccio già fatica in condizioni normali; e guardavo lui che senza sporcarsi le mani ci entrava dentro, a quella festa. È una cosa che ti riesce se hai carisma.

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Adesso dovremmo fare un progetto insieme, roba di grafica, io non ci capisco niente ma dico che ci divertiamo.

Mappe della Scozia sul tavolo, giubbotto appoggiato alla sedia, sigarette nascoste nella tasca interna.Assieme alle sigarette il portafogli. Dentro il portafogli, la sua prima paga di paperboy, la tessera dell’auto, la V-Card del Varsity, una foto di Ann.Sopra la mappa, qualche città sottolineata, una specie di percorso segnato coll’evidenziatore, un foglietto appiccicato con gli orari dei treni.Dietro la foto, frasi scritte col pennarello nero a punta fina, un mucchio di esclamativi, qualche disegno. Si distinguono un cuore e un fiorellino.Ogni tanto sono romantico.

- Prometti che mi verrai a trovare?- Non servirà, sarai già fuggita per un paese lontano.- Sì, lontano e diverso.- Non ci credi, come al solito…- -- E sarò fuggita da sola?- Sarai fuggita con uno che ha più carisma di me.- Non è difficile…-- …Avere più carisma di te.- Avevo capito, avevo capito, non serviva…Lei gli fa la linguaccia.Lui le manda un bacetto distaccato.

C’è pure un servizio interno di navette, a capirci qualcosa.Ma se non piove preferisco camminare. Per oggi ho terminato le lezioni, lascio l’edificio di scienze, ripasso di fianco al campo di calcio. Sarebbe bello che a un certo punto uscisse il sole, che le cose prendessero un colore un po’ più azzurro. Anche il mare, per dire; le piante, le case.Il verde è più verde che da noi. Dipenderà dal clima, le piogge, mica è merito loro. Però è un colore più elegante, sta bene su tutto. Vedi un prato e ti sembra sia un prato ben curato, che sia tenuto bene; magari se vai a vedere è solo più verde. Non le metto, le cuffie. Pensieri in libertà, stavolta, senza musica intorno.Chiara somiglia a qualche altra ragazza che conosco e adesso non mi viene in mente. Di lei so poche cose. Chissà che succede a Vicenza quando a Roma tira la tramontana. Chissà se il verde è già un verde più professionale, da quelle parti.Guarda, s’è affacciato il sole. Un flash. Sarà stato quattro secondi.Facciamo due conti. Ci sta Chiara che ha il solo merito di essere dolce.Ci sta Joe che si tormenta dietro un paio di sogni e vorrei aiutarlo a venirne fuori. Se non ci diamo una mano tra noi.E poi ci stanno due che parlano sopra una panchina e ogni tanto mi rivengono in mente coi loro dialoghi inverosimili. Ci stanno posti lontani e diversi. Ad esempio, posti in cui se scrivi una I staccata dal resto, Word immagina che vada maiuscola. E ogni volta lì a correggere.Ci sta il mare. Se non ti fidi, ci vai vicino e lo vedi.Ci stanno piante che ignoro ai bordi della strada, rivoli d’acqua sull’asfalto scuro, una storia che ha bisogno di un finale.

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- …il finale?- Sì, hai presente quando lui le si avvicina lentamente e la bacia sulla bocca?- Be’, bello, no?- Ma che bello… C’è lui che sarà alto due metri e si ripiega tutto su se stesso per arrivare alla bocca di lei… Un impiastro.- Boh.- - Chi è il regista?- Non lo so, sarà un americano.- Va be’, che c’è che non va? Come vuoi che la baci?- Avvicinati e ti faccio vedere.- Ogni scusa è buona, per un bacio.- Non fare la stupida, sto solo cercando di insegnarti a terminare una storia.-- Nel caso servisse.

Joe è un ragazzotto di sedici anni, che a un certo punto trova le palle di fare una cosa. Vai Joe, che si sistema tutto.Lei sta uscendo di casa. Ha addosso un cappotto coi bottoni come quello di Joe e la sciarpa a quadri che le ha regalato lui.“Ann.”“Joe…”“Posso accompagnarti a scuola? Ti va se parliamo un po’?”È uno di quei mattini in cui non piove ma l’aria è ventata e bagnata lo stesso. Ann cammina col cappuccio calato quasi fin sugli occhi.Joe tiene l’ombrello a fiori di Ann puntato davanti perché è da lì che arriva il vento.Sembrano due che hanno trovato il modo per andare incontro al mondo senza farsi fregare.

Io invece rientro in camera che s’è fatto quasi buio.Butto lo zaino in un angolo, apro l’ombrello ad asciugare davanti al termosifone.Guardo la sveglia sopra la scrivania, sorrido, sposto un po’ avanti le lancette perché ogni giorno restano indietro di una decina di minuti.Dò una sciacquata ai denti perché m’è rimasto in bocca l’impasto del panino.Poi mi butto sul letto e mi metto a navigare.

“Che dici se oggi saltiamo la scuola e ci andiamo a prendere una birra da Pier?”“Facciamo un succo d’arancia, va’.”Joe chiude l’ombrello perché tanto non serve più. Invece tira fuori le sigarette e ne accende una.“Vuoi?”“Ma non avevi smesso con queste dannate sigarette?”Fucking cigarettes. Dice proprio così.“Dammi l’ombrello, piuttosto, che mi sto bagnando tutta.”Allora Joe riapre l’ombrello e lo tiene come prima, inclinato verso la strada davanti.Intanto ride e gioca ad abbassarle il cappuccio fin sopra il naso.Ann inciampa.Sembrano felici come due bambini piccoli.Non si dovrebbe fumare, a sedici anni.

Chiudo a chiave la porta. Busso a Borges, lo spagnolo che m’abita di fianco.Non risponde nessuno, sarà già andato a mensa.

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Allora m’incammino pure io verso il Padarn Restaurant.

“Aspetta, prima che entriamo. Quella storia della Scozia.”“Lascia stare, non fa niente.”“No, no. Voglio dire… Se è una cosa che ti senti, vacci. Vacci da solo, che te ne frega.”“ ”“Poi la sera mi chiami e mi racconti.”“ ““E io intanto m’immagino com’è la Scozia.”“ ““E magari vendo i giornali al posto tuo…”“Sì, papergirl…”“Perché, che c’è?”“ ““Davvero, vacci.”“Va be’, su , poi vedo.”

Grande, Joe.Adesso un po’ di silenzio. Al limite un violino suonato dal vento.Lui le prende le mani, si guardano, si avvicinano.È tutto molto rigido. Non passa nessuno. Dietro c’è la porta chiusa del bar.Lui è più alto di lei. Mica tantissimo, mezzo palmo, tre quarti di palmo.Si avvicinano uno all’altro, rigidi e dritti nei loro bellissimi cappotti coi bottoni.Le mani di lui sopra i fianchi di lei, le mani di lei sopra i fianchi di lui. Perfettamente simmetrici. Se non fosse per quel tre quarti di palmo.Gli occhi fissi davanti, il capo eretto. Una specie di danza.Ancora più vicini.Si baciano.Senza flettersi.Le labbra di lui sulla fronte di lei. Tra la fronte e l’attaccatura dei capelli.Le labbra di lei contro il petto di lui.The end.

Dopo cena, scendiamo al pub.Ci sono Borges, Gu e un ragazzetto inglese che ho conosciuto stasera a cena; si chiama Joe ma è più basso di me.Il pub è quasi vuoto: il solito gruppetto davanti allo schermo, i soliti due tipi intorno al biliardo, la solita ragazza dietro il bancone.È un finale imperfetto, come un cerchio a cui manchi qualche radiante per riacciuffare la storia dal principio. Vengono fuori così, in queste sere diverse e gallesi in cui manca la luna. In cui ogni cosa che ti viene in mente, non puoi farla o la stai già facendo. In cui è tutto un po’ meno importante di come vorresti. In cui sembra che basti una scura, a chiarire le cose.

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Come d’autunno.

Se alzo gli occhi, io vedo qualche nuvola scura.Ma non sono quelle nuvole invernali che minacciano pioggia. E neppure le bianche che promettono neve. E nemmeno le giocose e primaverili, cariche di tuoni. E tutt’altro che nuvole estive, di quelle che compaiono puntuali al pomeriggio, ormai da un par d’anni, e dicono si tratti di mutamenti climatici, tendenze al tropicale.L’uomo cammina solo e leggero, come se avesse appena incominciato, a calpestare il mondo. La strada non esiste; la strada è sassi e sabbia, così da millenni. L’orizzonte non esiste; l’orizzonte è una linea retta e gialla, che separa l’ocra della terra dall’ocra del cielo.Ti viene da alzarli, davvero, gli occhi.Da bambino, devo aver imparato a camminare, come tutti. Devo aver cominciato a pecoroni, e poi solo sulle gambe e sbardellando un po’, finché devo aver imparato. Però non me lo ricordo, non so se qualcuno si ricordi, di quando ha iniziato a camminare.L’uomo non arriverà da nessuna parte che sia degna di un cammino, questo lo capisce anche un cieco. Andrà avanti così, fino a quando ne avrà dentro. Potrei chiedergli perché. Ma mi risponderebbe girandomi indietro la domanda, e io non saprei rispondere.Quando ho incominciato a camminare, devo esser sembrato impacciato e goffo. Finchè ho imparato bene, e allora devo esser sembrato leggero. Solo e leggero.Ogni tanto sente il bisogno di riposarsi, perciò prende a correre. Chi ha detto che occorre fermarsi, per riposare?La donna non c’è; la donna non c’è ancora. Arriverà, se un dio vuole.Sembra un film di Sergio Leone oppure un quadro di De Chirico. Però, più un film di Sergio Leone.

Io mi dico “la vita non si spiega a parole”.Eppure mi ostino a provarci, perché alla fine stiamo per questo. Se dai retta, non ha senso più niente. L’uomo è più contratto del normale, forse aspetta qualcosa.Non ha senso il lavoro, non ha senso la rabbia, non ha senso grattarsi, non ha senso baciare.Arriva all’improvviso, la donna. Magari è uno di quei momenti in cui hai alzato gli occhi, perché non c’era e poi riguardi ed è lì.Cammina, la donna, e non è così diversa dall’uomo. Solo un po’ più bassa e un po’ più dolce.Io non so se sia stato un caso, merito tuo, o addirittura merito mio. Ho smesso di domandarmelo una sera d’estate. E invece continuo a volerti bene. Come se ce ne fosse ancora bisogno, adesso che basterebbero il rispetto e il buonsenso. Vanno avanti con un filo di voglia negli occhi, e ogni tanto stanchezza. Mi domando se sia una cosa che hanno scelto loro.Glielo chiedo. Mi risponde la donna. E’ una cosa che hai scelto tu?Non lo so, non so rispondere. E’ una cosa che si deve, può darsi dipenda dai geni, dico.Guardarsi, non si guardano mai. Oppure lo fanno quando alzo gli occhi al cielo.Tutte le volte che abbiamo fatto l’amore è stato per paura, questo non dimenticarlo. E non dimenticare che ti voglio bene, persino adesso che non servirebbe.L’uomo e la donna camminano affiancati; la donna mezzo passo indietro.Sotto c’è una musica di pianoforte. Oppure silenzio. Oppure frastuono di battaglia.

Si sta come d’autunno.Il tempo scivola rapido oppure è immobile, come sempre.

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Sabbia e sassi, finché riesco a guardare.Certe speranze.L’uomo cammina e a volte corre.Ti domandi se sia stato per paura.Anche la donna, cammina.Io mi dico che il tempo è più spesso immobile, quando sosto a guardare. E’ stato per paura, te lo giuro. Ma non pensarci più, finirà tutto e non sarà valsa la pena.Due ombre incastrate nel semibuio di un tramonto.Viene da chiedersi se finirà mai.Non lo so ma non credo.

Quando il sole mi bacia, ne conservo il candore.Sono baci innocenti sulle gote, oppure sul naso, qualche volta sul collo. Senza desiderio. Il sole cerca di insegnarmi la fatica del calore, e vorrei spiegargli che non c’è bisogno. Ho lavorato per cinquant’anni in un’industria siderurgica: del calore so tutto. Ci sono anche alberi, irti e seminudi. Sembrano messi lì apposta a significare qualcosa.L’uomo cammina. Però vorrei si capisse che non lo fa per abitudine, c’è un bisogno sempre nuovo che lo muove.Guardo l’uomo, guardo gli alberi, guardo le mani dell’uomo. Sono mani lisce e senza rughe, a forza di stringere il niente.Lo so, che avrei potuto più calore. Ma, ti prego, non pensarci.Fossi nato mill’anni fa avrei fatto il fabbro, e può darsi forgiato spade. Rinascessi, sarei soldato. Perché è quello che resta. Gli alberi sembrano lì apposta a significare qualcosa. Mi domando che cosa.Siamo come quegli alberi, pensa la donna; è il suo istinto di madre. Siamo come le foglie, piuttosto, mi verrebbe da dire.Fa un caldo cane, che s’appiccica alla sabbia e ai sassi.Ogni tanto, la donna tira fuori da chissaddove un fazzoletto umido e si bagna la fronte e bagna la fronte dell’uomo e sorride. Allora sembra tutto un po’ più sopportabile. E’ una cosa che sanno fare loro e noi non impareremo mai.L’uomo cammina.Le foglie vibrano e attendono.Perché se è combattere che dobbiamo, tanto vale farlo da armati.

Come pietra di fiume, levigato per sempre, affonda i passi pesanti nella sabbia. Neanche portasse sulle spalle il mondo.Io lo vedo da dietro, ma m’immagino gli occhi. Devono essere chiari e scavati, secchi e vivi, dolci e stanchi. Quando è morto mio padre, avevo trentott’anni. Non esiste età giusta per veder morire un padre, però è una cosa che capisci meglio quando hai un figlio, perché allora lo guardi e ti sembra non finisca mai di aver bisogno di te.C’è un bambino tra l’uomo e la donna. E’ più biondo dell’uomo e cammina impacciato.Quando è morto mio padre, tu eri già perfettamente lontana. A quell’epoca ti volevo bene con malinconia, era un modo corretto di farlo.Non c’è traccia dell’uomo. A segnare la strada, un bambino e una donna. Devo aver perduto uno spazio, un intervallo, una foglia nel vento. Ma, del resto, era scritto nei sassi. Mio padre, fosse stato per lui, non avrebbe smesso mai di calpestare il mondo.Il ragazzo e la donna proseguono muti. E’ un cammino e una guerra.Ci deve essere un senso, oltre quell’orizzonte giallo che non esiste oppure dentro di noi. Comunque

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arriva il giorno in cui non trovi più la forza di star lì a far programmi, o non cogli più il filo, o ti sembra sia sciocco. Pure resta il bisogno di andare.Alzo gli occhi. Nel cielo intatto, qualche nuvola scura.Li riabbasso e non trovo la donna.L’uomo cammina, solo e leggero, nel deserto senza tempo che è questa parte d’universo certe sere di giugno del cazzo.La donna arriverà, se un dio vuole.Non bisognerebbe mai alzare gli occhi.A esserne capaci, sarebbe quello, forse, il solo modo per capirci qualcosa.

Si sta come d’autunno.Sugli alberi, le foglie vibrano a ogni colpo di vento.Tutta la solitudine che posso.Certe inadeguatezze.Per esempio i miei occhi, incapaci di leggere certe distanze.E’ un cammino e una guerra.Fossi qui, stasera, ti farei dono della mia provvisorietà. Certo, che sarebbe per paura.La terra trema, ma magari è un’impressione. Il cielo è denso e plumbeo.Sembra l’ultimo giorno del mondo, invece è il principio di tutto o una sera qualunque. Dipende dagli occhi.La luce si confonde, il giorno volge a sera.Cammina, l’uomo.Tutt’intorno nessuno, solo rabbia e silenzio.Non capisco più niente, e mi scuote ogni colpo di vento.Alzo gli occhi per forza.Conosci un modo per salvarli dalle solite visioni, vaghe e spoglie?

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Dir che ti pensoE’ un controsenso

Perché sei sempre qui

Paolo Conte

Il treno va.

*** roma, gennaio 2004

S'avvicina la partenza, domani c'è da discutere con Bottoni un progetto che funziona uno schifo, ho incontrato e rincontrato Giada B.- che è una carissima ragazza anoressica.Scrivo da cani e perdonatemi, ma stasera mi sento a pezzi come non accadeva da un po'.Non è una questione di stanchezza. Si tratta di qualcosa d'altro.Dubbi. E un filo di paura. E anche un pacco di voglia, a complicare le cose.

***

Bottoni c'ha messo 29 e comunque è una grande persona. Per me, è una grande persona.C'è una borsista, quest'anno, con due tette mica male. E anche un bel viso. E un didietro abbondante.Io ho una voglia pazza di palpare forte il mondo. In ogni punto, in tutti i modi che mi vengono in mente.Sarebbe tempo di far bilanci, riflettere su questa cosa che parto. Invece quello che mi ritrovo davanti è una tesina di Information Retrieval da cominciare a scrivere, e finire entro domani sera. Al massimo mercoledì mattina, ma non cominciamo ad allargarci, che complichiamo solo le cose.Lei è carina per davvero ed ha di bello che non sembra finta come certe altre. E' una di quelle che incontri per strada, e poi in un laboratorio, e poi magari ti sono sorelle e cugine, e la sera vanno a letto stanche e la mattina si alzano spettinate.Giada invece è una carissima ragazza anoressica, che se posso fare mezza cosa per lei la faccio.E Bottoni è in gamba, a me sembra proprio un grande.E io sarebbe tempo di far bilanci.

*** aber, aprile 2004

Voglio bene un po' a tutti.Davvero, chi piu' chi meno.

E non è vero che non mi piacciono i sogni. E' solo che a un certo punto devi piantarla di girare a caso e scegliere una strada. E questa è una cosa che coi sogni c'entra poco; più che altro ha a che fare con la vita normale.Quella delle persone che incontri per caso per strada e hanno un marito due figli tre bagni la casa in campagna.

Chiara è forte.E' una che saprebbe piacermi, se solo lo volesse.Lei è innamorata di uno che si chiama Giuseppe e guarda le cose da un punto di vista sbagliato e terreno.Studia ingegneria edile, per dire.

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Elise è simpatica. Mi piace scherzarci.E' una di quelle che mi piace scherzarci.Mi piacciono le ragazze che mi piace scherzarci.E' un modo semplice di passare le serate, e magari la vita.

La vita, non lo so.

Thyge è il più forte di tutti. E' l'unico con cui riesco a cazzeggiare come fossi in Italia.Pierre è gentile ma rompe le palle.Frank è un genio.Julia è bellissima.Gli spagnoli sono brave persone.

Il tempo se ne va con semplicità, più veloce che può.Le stelle dovrebbero mostrare la strada, invece si nascondono o brillano a caso.La pioggia è più bagnata che in principio, quando almeno c'era il buonsenso di ripararsi sotto un ombrello o una tentazione.Per il resto mi guardo intorno, squillo a Giada ogni due giorni, dico bugie a mamma e papà.

*** roma, giugno 2004

Cinque mesi.Cinque mesi pieni di tanta di quella roba che gira la testa e tremano le gambe.Eppure se mi guardo intorno, e dentro -che è una cosa che faccio, ogni tanto- sembra come non sia cambiato niente.Davvero.

Per dire, continuo a studiare per finta ed avere una fifa nera quando gli esami s'avvicinano.E ad aver paura di guidare dentro Roma.E a rimandare telefonate pesanti.E a toppare telefonate importanti che ricevo.

Chiara aveva una voca da ragazzina che parlava veloce.Ma forse sono cose che non andrebbero dette ad una ragazza di ventitre anni che è stata carinissima a chiamarti. Invece gliel'ho detto, è stata quasi la prima cosa che le ho detto.

Avrei dovuto chiederle di sua sorella Claudia, e di Giuseppe, ma m'è sfuggito di mente.Claudia è una brava ragazza un po' troppo grossa e imperfetta.Giuseppe deve essere in gamba, per stare con una come Chiara. Anche se a volte non vuol dire.

***

Io non lo so, se sono cambiato.Continuo a fare male o benissimo le cose di sempre e lascio giudicare gli altri.Che in generale dicono che non sono cambiato.O che non cambio mai.O che non cambierò mai.

Sarebbe bello che fosse tutto più semplice e bastasse voler bene a qualcuno per sentirsi a posto.

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***

Dice grazie che siete venuti. Come se fossimo stati noi a farle un piacere.Hanno questo di meraviglioso, le ragazze. Che gli basta un filo di voce e due occhi verdi per capovolgere le cose intorno.

Dice scusa se parto domani.Poi sale su un treno con prenotazione obbligatoria e sparisce per sempre o torna il Natale prossimo.E il treno va.

Oppure sono io che salgo sopra un treno scelto a caso e scompaio dietro le nuvole bionde con tutti i miei dubbi di acrobata idiota.Oppure sopra il treno ci stiamo noi tutti e dieci cento mille quanti siamo e ce ne andiamo a cercare un posto più ventilato, dove stendere le lacrime e i propositi per farli asciugare più in fretta.Oppure ci stanno tutti gli altri meno che io e te e qualche amico.

E' una di quelle cose che devi sempre finire di capire.Non ci arrivi mai.

Di sicuro c'è un treno.

***

Ad Aber c'era la luna, ogni tanto.Il vento tirava spesso, invece.E in mezzo c'eri tu. All'inizio tutta imbacuccata con cappello e sciarpa. E poi meno. E alla fine addirittura dentro qualche t-shirt, a lasciare immaginare le cose.La luna ad Aber era qualcosa di speciale. Io me la ricordo una notte che ero mezzo ubriaco e tornavo a casa da solo in bici.Stava lì, sonnecchiava, suggeriva.Ti portava a pensare.

***

Io adesso provo a scordarti, ok?E poi un giorno del novembre prossimo incontro una brava ragazza di Roma, zona Eur, che sembra addirittura più dolce di te e dice di volermi bene come se io fossi l'unico uomo del mondo.E allora può darsi che mi riesca anche meglio.Tu intanto vai avanti a studiare colla semplicità e l'umiltà che a me non m'hanno messo dentro. E continui a macinare esami e a farti baciare dal tuo Giuseppe e a partecipare a pizzate tranquille con altre tre coppiette- che io è una cosa che spero di rifuggire sempre.E io a questa qui dell'Eur mica le parlo per niente di te. No, a che servirebbe. Invece parleremo di futuro prossimo e faremo l'amore con tutta la confusione che ci riesce.Perché va bene la dolcezza ma poi dipende dai momenti. E tu continuerai ad insegnare ai tuoi ragazzi di parrocchia tutte le cose buone del mondo. E Giuseppe continuerà a suonare il tamburo e spiegarti i monumenti e non capire un cazzo del resto.Delle cose che s'impicciano senza spiegarsi, per dire. Ma non sarà colpa sua, accadrebbe a chiunque avesse certe fortune. Crederei alle fate anch'io.E comunque io mi laureerò sei mesi dopo di lui. O giù di lì.E te lo dirò via e-mail e forse soltanto allora ti racconterò pure di questa qui dell'Eur. E tu dirai che bello ma sotto sotto un po' ti dispiacerà, perché sotto sotto un po' t'ero entrato dentro o non c'ho

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capito un cazzo e allora un filo di gelosia è normalissimo. Oppure non è normale per niente e sonocose che proprio non ti toccano se vuoi bene a un giuseppe qualsiasi e io non lo so perché non m'è capitato mai e di nuovo non c'ho capito un cazzo.E insomma magari sarai pure contenta.E poi mi chiederai com'è che si chiama perché io t'avrò scritto solo che abita all'Eur.E allora ti risponderò Francesca.Si chiama Francesca.Si chiama Francesca ma potrebbe chiamarsi Anna Maria e sarebbe la stessa cosa.

***

Giada è una carissima ragazza anoressica che si merita tutto il calore del mondo.Lei una volta disegnava, le piacevano i paesaggi col ruscello e i tramonti. E faceva tutto coi pastelli, come i ragazzini delle medie.Io mi sono trovato in mezzo ma non so se sono capace.Intanto ha messo su un chilo e tre negli ultimi venti giorni, che Dio la benedica.

***

Chiaré, se una sera di queste mi chiami ti racconto un mucchio di roba.Sennò prima o poi ti chiamo io.

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La pioggia di marzo.

Mah. Forse neppure ci sarebbe bisogno di raccontarla, questa storia qua.Lo faccio perché stasera ho il sospetto balordo che il bisogno non ci sia mai.E perché sembra che questa sia una storia un po' speciale.Una storia inventata che ne contiene mille vere, sembra.Lo faccio perché, come dice qualcuno, stiamo qua per questo.

(È che stiamo qua per questo, altro che balle.Di giorno raccogliamo bacche, come perfetti cretini.La sera facciamo l’amore o ascoltiamo storie o raccontiamo storie.Stiamo qua per questo.

)

C’era una volta una vallata buffa, con il fiume, gli scoiattoli e tutto il resto. Magari c’è ancora, da qualche parte nel mondo. Bisognerebbe essere piloti per trovarla; oppure paracadutisti o uccelli. Quando tu voli, le cose le trovi subito. Bisognerebbe essere esploratori; oppure vagabondi o biciclette. Quando ci passi in mezzo, alle cose, fai un po' fatica a distinguerle. Però ti arrivano addosso i suoni, gli odori, le coincidenze. Ti aiuta l’alito degli animali, il fruscio delle piante, il rimbalzo dell’eco.

(Il rimbalzo dell’eco, il rimbalzo dell’eco, servirebbe il rimbalzo dell’eco...Tu sei lì, tiri fuori una cosa qualsiasi e quella fa il giro del mondo e ti torna indietro a intervalli regolari.Il rimbalzo dell’eco.Nella vita normale mica funziona.Tu lanci le cose e quelle s’infilano da qualche parte e le hai perse per sempre.

)

C’era una volta una vallata buffa. Ci abitavano ventisette uomini e ventisei donne. Raccoglievano bacche e di quelle vivevano, finché vivevano. Le ventisei donne erano regolarmente maritate a ventisei dei ventisette uomini, uno restava fuori e faceva a turno l’amante di qualcuna.

(Mica è colpa mia se le ragazze ci hanno tutte il ragazzo o un valido motivo per non avercelo.…Questa l’ho letta da qualche parte, può darsi sulla porta di un cesso.

)

Le bacche, non le raccoglievano insieme. Durante il giorno usavano stare da soli, giravano i boschi della vallata, riempivano ceste di frutti selvatici. Non si capiva perché, però nessuno se lo domandava.Nessuno a parte Pedroqq- il ventisettesimo, l’ultimo, il single.Girava da solo, comunque, Pedroqq, anche quella mattina che era ancora quasi notte, quando i suoi occhi si piantarono su qualcosa che brillava nell’erba.Qui da noi, se trovi qualcosa che brilla nell’erba sono i resti di una siringa o i cocci di una bottiglia di birra.

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Ma in quella vallata buffa, se trovavi qualcosa a brillare nell’erba, potevi esser certo di aver trovato una conchiglia di vetro. Ce n’erano, alcune, perdute nei boschi della vallata. Mica tante.La leggenda raccontava di un giorno lontano in cui degli dei imprecisati avevano fatto dono a un popolo lontano, che abitava la vallata, di quel prezioso tesoro che veniva da lontano.Nessuno sapeva meglio. Quello che importava era che ora potevi trovare alcuni esemplari di trasparentissime conchiglie di vetro, posate a caso sull’erba della vallata.Non era cosa di tutti i giorni, ma se abitavi lì, almeno una volta nella vita, ti capitava.A Pedroqq capitò una mattina che era ancora quasi notte, mentre vagava tra la luna e i falò (era un tempo lontano in cui convivevano la luna e i falò; un posto lontano, conversavano la luna e i falò) e rifletteva sul sonno e la morte (oppure combatteva il sonno riflettendo sulla morte, oppure scacciava via la morte ragionando sul sonno).

(Ho un sonno da morire, questa è la verità.Carla se n’è andata a dormire, dice che basta, per stasera.Sta scrivendo un essay sul diritto romano. Sulla stipulazione di contratti, secondo il diritto romano.Quando lavora al computer si lega i capelli con un nastro.Un giorno o l’altro le dico che sta proprio bene, coi capelli legati.

)

Se trovavi una conchiglia di vetro potevi fare due cose: esprimere un desiderio e sotterrarla poco distante, oppure rinunciare al desiderio e regalarla a qualcuno.Il desiderio di Pedroqq era trovare una fanciulla tutta per sé, era stufo di fare il ventisettesimo.Avrebbe potuto esprimere il suo desiderio e punto, sotterrare la conchiglia, confidare negli dei imprecisati. Invece pensò che avrebbe regalato la sua conchiglia di vetro alla ragazza giusta, il giorno in cui l’avesse incontrata.Gli venne così.Non si trattava di credere o no alla leggenda, né d’essere altruisti o sciocchi o romantici.

(- Ti va di passare con me il resto della tua esistenza?- Sembra una proposta interessante.- Lo è.- Quanto posso pensarci su?- Dodici secondi.- …- …- …- Sei secondi.- E perché dovrei fidarmi di te?- Ho una busta di conchiglie di vetro.

)

A volte, nella vita, le cose succedono tutte insieme. Passano giornate e giornate, anni interi di quasi niente- e poi succedono le cose tutte insieme.Pedroqq s’era appena messo in tasca la conchiglia di vetro, quando alzò gli occhi e vide una creatura normalissima, si chiamava Dorè, era lì da sempre, una delle ventisei.Epperò non l’aveva mica vista mai con questa luce qua, con quei capelli là, con quella voglia dentro.Capì tutto in un istante: era l’ora.

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Le si avvicinò coi passi più leggeri che gli riuscì di immaginare (non si poteva avvicinare una fanciulla di prima mattina- c’era da raccogliere bacche, perfettamente soli).Le disse Dorè mi sono innamorato di te, ma stavolta sul serio, non come le altre volte. Le disse prendi questa conchiglia di vetro, è il mio dono di fidanzamento. Le disse lo so che sei maritata, ma a volte le cose succedono tutte insieme. Le disse ti va di fuggire domani mattina con me, saranno tutti alla fiera, non ci vedrà nessuno, saliremo sulla prima nave che va verso le Indie, ci sposeremo e saremo felici per sempre. Le disse non dirmi di no, ti prego.Lei riunì i capelli in un nastro, dietro la nuca. Le stavano proprio bene.Poi raccolse una margherita di campo, la guardò con passione e la porse a Pedroqq.Poi bisbigliò qualcosa che si portò via il vento.Poi alzò la testa e gli disse sì.

(Scusa se continuo a sbagliare le domande.E scusa se ne faccio troppe tutte insieme.E scusa se non aspetto che tu finisca le risposte.Però mai una volta che alzassi la testa e dicessi sì...

)

Non potevano amoreggiare a lungo, qualcuno li avrebbe scovati. C’era un fiume da quelle parti: se raggiungevano la riva lontana, nessuno li trovava più.Sedettero sotto un albero che non c’entrava niente, magari era un cedro.“Tu sarai il mio Artù.”“Perché?”“Così.”“Così?”“Ahi!”“Cosa?”“Niente.”“Senza una ragione?”“C’è una ragione, forse, in quello che stiamo andando a fare?”“Tu sarai la mia fata Morgana, allora…”Avrebbe potuto continuare così per sempre, a darsi nomi che non c’entravano sotto un albero che non c’entrava.

(Margherite che non raccolgo, sulla strada del campus.Mi fanno pena, i fiori, quando qualcuno li sradica. Non ha senso.Mi guardo intorno, ho voglia di star solo.Attraverso il ponte, raggiungo l’altra sponda del torrente.Pecore soltanto.Mi siedo e comincio a cercar parole, ad incastrare suoni, a dar nomi alle cose.

)

Scende un magico pomeriggio preprimaverile, di quelli in cui le cose intorno hanno odore di maggio e freschezza d’inverno.Artù e la sua fata Morgana si tengono stretti nell’erba. Passa un cervo, qualche nuvola, una folata di vento. Lui la prende in braccio e la fa volteggiare nell’aria, come sull’onda dell’altalena. Si dicono delle cose.C’è dolcezza e felicità e malinconia.È un pomeriggio che non si capisce bene. Succede, quando cominci a mescolare la voglia e la

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paura. Il mistero profondo dell’amore, la piccola pena dei distacchi.Tutt’intorno, la magia dei primi di marzo. Cervi, nuvole, vento. Tramontana dai monti.

(Dare nomi alle cose come ordinare la biancheria.È solo sforzarsi di capire- una mezza sconfitta, un modo di difendersi.Tutt’intorno, le pecore e la paura del possibile.E insieme la voglia. Perché è un reato, un grande reato dire di no.

)

Arriva la sera, come sempre, dopo tutti i pomeriggi più o meno magici: credere alle favole non serve a niente.Sarebbe una domenica sera perfetta e pregna, piena di senso di definitivo, stanchezza di ripartire, voglia di ripartire. Ci sarebbero il ritmo giusto e la giusta elettricità. Sarebbe una domenica sera perfetta e pregna, se solo fosse domenica.Dorè ha davanti a sé un’idea di futuro che la fa rimpicciolire e poi tremare e- alla fine, dopo un lungo momento- pensare.

(Ti guardo dritto negli occhi, madamadorè, e penso che porco giuda potrei essere io qualche anno fa.Io mi ricordo certe domeniche sera che veniva da buttarsi sul letto vestiti e implorare pietà. Era un tempo diverso, si viveva a sbalzi irregolari, un pezzo scomodo, un ritmo sincopato.La settimana serviva ad aspettare una domenica, la domenica a render vana una settimana. Se c’era un momento vero, in quel modo folle di mangiarsi la vita, era la domenica sera.-Adesso c’è Carla.

)

Il vento ha portato nuvole, le nuvole porteranno pioggia. Non solo metaforicamente.Dice mi sono innamorato di te, dice prendi la conchiglia, dice lo so che sei maritata.Dice la fiera, la nave, le Indie, felici per sempre.Dorè guarda la finestra che incomincia a raccogliere schizzi, e intanto valuta se l’abbacchio sopra la fiamma sia ben cotto, se sia il caso di mollare tutto e andarsene via, se quella che sta arrivando sia una burrasca vera o cosa.Valuta il contro e il pro; è il momento della prosa.

(Piove, notte, vento.A un certo punto è il momento della prosa.Quando devi renderti conto che lei vive a Padova e tu a sessanta chilometri da Roma, che il posto al ministero è una palla, che intorno intorno c’è degli impedimenti.Sarebbe bello che tutte le ragazze del mondo avessero un ciondolo con l’ancora.

)

C’era una volta una vallata buffa, con cinquantatré anime ad abitarci dentro e il tempo, come ovunque, a passarci sopra.Quella era una sera di marzo, per dire.Dorè in una stanza stretta e lunga, a guardar fuori dalla finestra e mescolare la sua voglia di primavera alla pioggia che scende.

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C’era una volta una vallata. La gente ci viveva serena e inconsapevole: mangiava, sognava, faceva l’amore- ogni tanto prendeva decisioni.Dorè stringe tra le mani una conchiglia di vetro, pensa ad artù, pensa a suo marito, pensa alle Indie, esprime un desiderio.La conchiglia è perfettamente trasparente.Dorè sta piangendo.Era una vallata buffa.

(M’immagino Carla che guarda fuori dalla finestra e stringe tra le mani un ciondolo con l’ancora e intanto piange.Ma forse confondo le ragazze.M’immagino Carla che a un certo punto esprime un desiderio e da quel momento le cose cominciano a girare in maniera buffa.Ma forse confondo le storie.M’immagino Carla che si scioglie i capelli e mi dà un bacio tra gli occhi e le orecchie e mi chiede se non è quello che volevo.Ma forse confondo le ragazze.

)

C’era più animazione del solito, quella sera: era vigilia di fiera. Pedroqq andava dritto per la sua strada come non avrebbe mai fatto, quando ancora non si chiamava Artù. Come avrebbe continuato a fare, se solo non avesse magicamente iniziato a scendere quell’acqua di marzo che colorava via ogni cosa, persino certe inattaccabili idee di futuro con una fanciulla chiamata Morgana.Entrando nella tabaccheria, inciampò in uno scalino che c’era o non c’era. Dipendeva da te.- Due biglietti per le Indie.- Due?- Sì.- …- Anzi no.- No?- Uno.- Un biglietto per le Indie…?- Un biglietto per le Indie.Uscì fuori, senza inciampare, nel buio complicato di una sera di marzo che avrebbe potuto essere domenica sera. Rifletteva su quanto fosse buffa quella vallata, e magari la vita. Poi guardava le cose e si meravigliava del mondo com’era. Intanto s’immaginava una lettera che cominciava con “Mia amata Madamadorè”.Intorno intorno, pioveva acqua di marzo. Poteva essere una burrasca passeggera o venir giù per sempre. Dipendeva da te.

(Ti tornavano in bocca tutte le parole sbagliate che avevi finito col mandar giù. La radio passava canzoni d’amore cattive e la tele i gol della giornata.Certe volte pregavi. Era un tempo diverso in cui ogni tanto ti veniva di pregare.Tu eri piccolo piccolo.Lei era bellissima.Poi passava o non passava, dipendeva da te.

)

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Al mattino, non c’era più pioggia. Anche metaforicamente.Pedroqq camminava coi passi confusi di sempre ma verso una direzione precisa, ammesso che esista una direzione precisa che ti porta alle Indie.Nel frattempo: una rondine al nord si domandava se non fosse il tempo di migrare, la cicogna e la gru guardavano la terra con distaccato interesse, un torrente invidiava l’acqua oligominerale di una fonte. Le cose di sempre.Dorè invece sbadigliava una mattina diversa, sarà stato per via della fiera. Nel far colazione regalò al gatto siamese una briciola in più. Era una torta con le albicocche e la cannella, il gatto siamese apprezzò.Poi uscì fuori, Dorè, a prendere acqua per il pranzo. Continuava a sbadigliare una mattina diversa. Tirò su due anfore colme, sospirò, si sporse a guardare il fondo del pozzo.E allora gli parve di vedere, davvero, disegnata sul pelo dell’acqua, una nave che parte.

(Continui a guardare le cose col tuo sguardo di cicogna.C’è un torrente immaginario, tra i tuoi occhi e le mie ali.Che un giorno o l’altro si decideranno a migrare.-Conosci mica la strada per le Indie?

)

Era una mattinata senza pioggia né nuvole, il mare era pieno di pesci, la terra di buoni propositi.E una nave si muoveva con delicatezza, trasportando con sé motivazioni varie di viaggio. C’erano avventurieri in cerca di fortuna, coppie in luna di miele, studenti erasmus, uomini di mare, gente di mondo.C’erano anche un paio d’avvocati, qualche marmocchio felice, una mamma stanca, un viso col broncio perché stava in disparte.Adoro le partenze.

(Adesso lo so.Lui ha in mano un paio d’auricolari, indossa il giubbino della tuta, ha i capelli rasati quasi a zero. Lei li porta raccolti in un nastro.- Ciao!- Ué, quasi non ti riconoscevo, coi capelli legati…- Eh, esagerato.- No, stai bene, comunque.- Graz!- Come va con l’essay?- Ffff… lascia stare, va…- Stai bene, sul serio, potresti provare una cosa più estrema.E nel dirlo indica la sua povera testa, mentre lei sorride e bisbiglia qualcosa.Fuori piove piano piano.Adesso lo so, perché- a una certa- uno prende e decide di partire.

)

Mia amata Madamadorè,spero che la colpa di quanto accaduto- a voler trovarci una colpa, nel casino che è accaduto- sia serenamente tua.Perché sarebbe per me uno sbaglio troppo grande da mandar giù. Un reato, come m’ha detto una volta una persona.

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Te lo scrivo adesso, quando sei mesi da quell’acqua di marzo e da quel biglietto singolo per le Indie non sono bastati a trovarmi una risposta.

(ciao carla!!! com'è andata la prima settimana di vita italiana? qua è un mezzo casino, inizio a rendermi conto che non sto + in galles ma non ho ancora realizzato pienamente che sto a casa. domani passo all'università e cerco di sistemare le questioni burocratiche (formalmente sono tornato ieri sera.. ;-) e sarebbe il caso di rimettersi a studiare. per il resto tutto bene. ho rivisto + o - tutti quelli che dovevo e m'ha fatto piacere. solo non capisco perché tutti si sforzino di dirmi che sono cambiato o che non sono cambiato. senza che io chieda niente. boh, sarà normale.(…)

)

Mia amata Madamadorè,credo che la colpa di quanto accaduto- a voler trovarci una colpa, nel casino che è accaduto- sia completamente tua.Ci ho riflettuto a lungo, su questa storia qua. Ed ho concluso che sarò pure un cretino vigliacco, però stavolta non c’entro. Io, in quella tabaccheria, c’ero arrivato con l’idea nitida di tirarne fuori due biglietti di qualsiasi classe e se le cose andarono poi diversamente è perché successe qualcosa- qualcosa di meraviglioso e un po’ magico- nell’istante esatto in cui inciampai in un gradino che, giuro, non c’era.Scommetto che ci stanno di mezzo un desiderio tuo e una conchiglia di vetro.

(Pigio sulla tastiera, sotto la luce giallastra di questa cameretta dove sono cresciuto un po’ per volta.E potrebbero tornarmi in mente diecimila momenti diversi che ho passato qua dentro. Ce n’è di roba, se ci penso.E invece quello che mi viene in mente sono certe serate speciali in una computer room a settemila chilometri da qui. Entravi e trovavi una luce bianco ghiaccio. La connessione era veloce, infilavi gli auricolari e potevi ascoltarti qualche radio online. Le tastiere erano strane, quelle sì. Per dire, eri costretto a usare gli apostrofi al posto degli accenti.Accenti in su, accenti in giù… Diventavano tutti apostrofi.C’è voluto un po’ a riprendere la mano.

)

Mia amata Madamadorè,certe volte faccio una conta per stabilire di chi è la colpa. Me l’ha insegnata una ragazza di colore, tu non la conosci.Lamalamalabè, lamalamalabé… Comincia così.Comunque esci sempre tu, viene fuori sempre che è colpa tua.Io non ce l’ho con te, ci mancherebbe, però se va avanti così finirò col crederci.I primi tempi mi distruggevo pensandoci sopra, a questa storia. Adesso evito di perdere tanto tempo e fatica e m’affido alla sorte.

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Lamalamalabè, lamalamalabé…

(Che poi questa cosa degli accenti l’ho scoperta un po’ di tempo fa, mica tanto. Per me erano accenti e basta; voglio dire: non ci avevo mica mai fatto caso che il perché c’ha l’accento in su e il tè ce l’ha fatto all’ingiù.Me l’ha insegnato Eleonora mentre scrivevamo una relazione per qualche progetto.Eleonora. Lei è un’altra che studia informatica e con l’informatica c’entra poco. Tutti io, li trovo. Adesso s’è messa in testa che diventerà un web designer.Io sorrido e faccio il tifo per lei.

)

Mia amata Madamadorè,non ti ho mai scritto che alle Indie non ci sono più andato. Che ci va a fare, da solo, nelle Indie, uno che ci ha delle cose da capire?Quella mattina, ho chiesto al fattorino se mi cambiava il biglietto ma non ha voluto. Allora sono salito sulla nave di Acxab, quella col fattorino cieco. M’ha strappato il biglietto senza fare storie.Un paio di ragazzi, dietro di me, si sono imbarcati con una tessera del tram scaduta, pensa te.La nave andava in Occidente, che è un unico grande paese senza conchiglie di vetro, e a bordo ho conosciuto una ragazza di colore e un vecchio con la pipa.La ragazza mi ha insegnato una conta magica che se parti sempre dalla stessa persona e il numero di persone è sempre lo stesso dà sempre lo stesso risultato.Il vecchio invece ha ascoltato la mia storia e poi mi ha consigliato un modo meraviglioso per scriverne un racconto. Dice che è anche un modo per scriversi il futuro, prima di andare a viverlo. Non ho capito benissimo, però dice che se sei bravo a farlo poi il futuro viene da sé, come una goccia che stilla dalla roccia.Wooowwww.

((…)ci sentiamo. intanto ti mando una foto che forse non c'hai, perché è dell'ultima o penultima sera. buono studio, in bocca al lupo, a prexto, marco_

)

Pedroqq ripone la penna, ripiega il foglio sulla sua metà, lo infila in una busta bianchissima. Appiccica un francobollo bagnandolo con la lingua e richiude la busta. L’indirizzo non lo scrive. Poi si alza e si dirige a passi lenti verso la finestra. Guarda fuori, quello che c’è fuori. L’aria è limpida, il panorama è un bellissimo panorama occidentale, francamente un incanto.Poi Pedroqq si gira, solleva la busta con cura e la getta nel camino acceso.

(- E di scrivere, ti capita mai?- Sì, sì, mi capita e mi capitava.- Poesie?- Hmmm… pensieri, neanche proprio poesie. Ce ne ho un cassetto pieno.- Deve essere bello rileggerli poi, dopo un po’ di tempo.- Ma che. Una rabbia, ogni volta.

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- Rabbia?- Per quello che pensavo, mi dico guarda che stupida che ero.- Brucia tutto, allora, no?- Ehh, non c’ho coraggio. Ma prima o poi finisce che lo faccio.

Il dialogo risale al giugno 2000.I nomi sono frutto della fantasia dell’autore.Il dialogo, invece, è vero dall’inizio alla fine.

Già. Ora che ci penso non ci sono nomi.)

E adesso il futuro.Una volta c’era una vallata buffa, un uomo, una mattina particolare, un incontro e insomma tutto quello che s’è raccontato.Adesso c’è lo stesso uomo che scrive una lettera al giorno e brucia una lettera al giorno, così da più o meno sei mesi. Il fuoco lo tiene acceso apposta: è fine settembre, mica fa freddo.Il futuro bisognerà inventarlo.

(Adesso mi laureo e vado a lavorare più lontano che posso perché ho proprio bisogno di smuovere l’aria. E poi ogni anno cerco di cambiare sede perché è una cosa che fa bene allo spirito e comunque non voglio abituarmi a niente. E intanto imparo senza sforzo sette lingue perché se ti sposti spesso finisce così.Oppure conosco una brava ragazza di Viterbo e ci compriamo una casa col mutuo in qualche parte di Roma. E ci mettiamo le radici e conosciamo tutta la gente del seminterrato, tanto che a lei dopo un po’ la eleggono amministratrice di condominio. E abbiamo due figli, un maschietto e una femminuccia, che litigheranno per chi deve dormire nel letto vicino la finestra.Oppure imparo finalmente a suonare la chitarra e faccio le serate con un complessino jazz delle mie parti. E non mi sposo mai perché mi sarò messo in testa che devo fare la vita dell’artista. E mi trovo un lavoretto umile tipo addetto alle pulizie o aiuto barista per tirar su qualche soldo nei periodi di magra.Oppure faccio il web designer, hai visto mai. Oppure niente, m’accontento di fare i concorsi pubblici come tutti e finisco impiegato alla regione entro tre quattr’anni se mi dice bene.

Scusate.Stavo solo cercando d’inventarmi il futuro per raccontarlo a un vecchio con la pipa.

)

Sarà ancora quasi notte, quel mattino lì, con Pedroqq a vagare tra la luna e le ciminiere di una città occidentale, senza avere una meta precisa.Avrà sentito la sera prima in tivvù che un po’ di footing di prima mattina è quello che ci vuole per tenersi a posto, e allora sarà lì, con la sua tutina aderente e un po’ da donna, nel bel mezzo di una città deserta e di un mattino che non è ancora giorno, a vagare troppo spaesato per iniziare sul serio a correre.Sarà una mattina che gli ricorderà un’altra mattina, non meglio precisata; girerà senza meta.Finché gli sembrerà di scorgere, all’angolo di una strada, il fruscio di qualcosa, nemmeno un oggetto, giusto l’ombra di un gesto.Pedroqq si muoverà in quella direzione, guidato da una magia che avrà perso per strada un mucchio di esperienze prima. E, voltato l’angolo, tutto ciò che gli riuscirà di vedere, di magico o assurdo o

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almeno un po’ strano, sarà qualcosa che brilla nell’erba del marciapiede.Si avvicinerà col cuore che fa casino dentro e le labbra seccate dal ricordo, imprecisato, di un’altra mattina. Si chinerà furtivo, scosterà un ciuffo d’erba, e poi raccoglierà distrutto un coccio di bottiglia di birra.

(Uno pensa che certe magie, di tanto in tanto, si ripresentino.Invece dipende.Io una volta ho abitato per quattro mesi e mezzo un mondo provvisorio e parallelo. Le cose succedevano, scivolavano, attraversavano i sensi e ogni tanto la coscienza. Le auto transitavano al contrario, la birra era solitamente chiara. Non pensavi potesse finire tanto naturalmente.-Adesso cammino sopra i pezzi di vetro, in tutti i sensi che vi vengono in mente.E ascolto radiocittàfutura, e leggo gli editoriali con divertimento.Ogni tanto brilla ancora qualcosa nell’erba, ma chi ci fa più caso.

)

Pedroqq si sarà fatto nel frattempo un’idea più precisa del mattino che è qui.A svegliarlo sarà la sveglia che trilla, tutte le sante mattine tranne la domenica e le feste comandate. Si sarà trovato un paesino di provincia per andarci ad abitare, perché le città, a partire da una certa mattina, gli saranno cadute in antipatia.Vita contadina: la legna sul fuoco, il pane a cuocere nel forno, la biada per il cavallo, l’insalata dell’orto, la caraffa di vino appena mutato.E dopo cena, quando non sarà stanco stanco, si metterà alla scrivania e scriverà racconti noir.Una volta raccoglieva bacche e basta.

(- E tu?- Io che?- Perché scrivi?- Bella domanda…

E’ che non m’andava proprio di tirar fuori storie tipo che è una cosa che uno sente dentro e deve buttar fuori, un bisogno che in qualche modo si deve soddisfare e a me viene di farlo così. E nemmeno m’andava di dire che lo faccio perché è un modo di guardarsi dentro e provare a capire le cose. O perché mi aiuta a non prendere sul serio la mia aspirazione al potere- che è una cosa che penso, ogni tanto.

- …- Secondo me tu scrivi perché ci sono delle cose che vuoi comunicare e non ti riesce semplicemente di dirle. Io ti conosco, tu tieni un sacco di cose per te, durante il giorno. Vorresti dirle ma non ci riesci. E allora in un modo o nell’altro le scrivi.- Non è che tutti gli scrittori siano timidi…- Non ti sto spiegando perché la gente scrive. Ti sto dicendo perché scrivi tu.

Il dialogo risale a oggi pomeriggio e non ci sono nomi.Io non sapevo bene che rispondere, le ho detto che dovrebbe fare la psicologa e che ci avrei pensato. Poi ti faccio sapere, se trovo una risposta.Invece avrei dovuto dirle che stiamo qua per questo.Raccogliere bacche, raccontare storie e altre due o tre cose. Altro che balle.

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)

E poi, qualche tempo più avanti, ci sarà una donna con gli occhi dal taglio orientale e i capelli come la velina di striscia. Quella mora.Cammineranno fianco a fianco, Pedroqq e lei: alle vetrine gli addobbi di Natale, intorno il viavai della strada. Parleranno di rock e fumetti, come fanno gli adolescenti di questo pezzo di mondo quando si sono conosciuti da poco e non sanno se sia una cosa seria- e di un progetto di casa, come fanno quelli un po’ più adulti, quando comincia a sembrare una cosa seria. Lui nel suo impermeabile a collo alto, lei con la giacca di pelle e lo scialle di lana che le avrà regalato lui per l’ultimo onomastico. E poi che faranno? Si racconteranno le vite passate, le professoresse del liceo, gli amori immaturi, quella volta che s’è rotta la macchina a cento chilometri da casa nel mezzo della notte. Lei sarà brillantissima e divertente, sembrerà non aver fatto altro che raccontare il passato, in vita sua. Lui se lo inventerà, un passato plausibile, perché non gli andrà proprio di fare la parte di quello che racconta stronzate. E poi dove andranno? Andranno a vedersi un concerto al palalottomatica, ecco. E sarà uno spettacolo occidentale coi controfiocchi, una meraviglia, un incanto, un incanto cantato.

(Sei nata un giorno di settembre dell’ottantuno, quando io avevo già imparato a camminare a pecoroni.Tua sorella ti faceva i dispetti perché era gelosa, tuo padre cazzeggiava ogni volta che poteva, tua madre insegnava matematica alle scuole medie.A te piacevano le materie letterarie e l’educazione fisica. Anche i dolci ti piacevano, però c’è di buono che non ingrassi facilmente.Hai iniziato ad andare in skate che eri ancora piccola, and you were pretty good, me l’hai detto mille volte.Anche la religione te l’hanno infilata dentro sin da piccola: il catechismo, l’oratorio, comunione e confermazione, il gruppo parrocchiale. Strano che t’abbiano risparmiato gli scout.E poi il liceo e la danza moderna, l’estate nella casa al mare, le gite con la famiglia e poi con gli amici.L’università, Filippo, l’erasmus.Oppure Filippo, l’università, l’erasmus.Io ti voglio persino più bene di quando eri l’unica donna del mondo.-Stavolta non ce vengo a vedé Guccini. Non insistete.

)

L’andana è lo spazio fra due filari d’alberi.L’altana, invece, è una loggia o un terrazzo coperto sopra il tetto di un palazzo.Allora immaginatevi quest’incrocio di scene:Dorè sarà seduta, da sola, sull’erba di un’andana, tra due filari di alberi di melo dentro una vallata buffa. Ve la ricordate Dorè, no? Una creatura normalissima, una delle ventisei. La sera starà scendendo impercettibilmente e lei avrà finito da un pezzo di raccogliere bacche, ma preferirà indugiare ancora un po’. Così, non c’è un motivo.Invece Pedroqq si troverà, da solo, sull’altana di un palazzo che non è il suo. E’ un appartamentino sull’Appia che gli piacerebbe acquistare per andare a viverci con una ragazza dagli occhi scuri e i capelli acconciati all’orientale. Avrà chiesto le chiavi al proprietario per andare a dare un’occhiata e lui gliele avrà date. Boh, magari lo conosce.Insomma così: Dorè sarà sola in quel modo lì, Pedroqq in quest’altro modo.Per il resto sarà per entrambi una sera di metà marzo, il mare calmo o distante, il cielo sereno.

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(Eccoci qua, è tutto pronto.Suonano alla porta.L’albana è una varietà d’uva bianca, ma anche il vino che se ne ricava.Col pescespada, è la morte sua.Ne verso nel bicchiere del mio ospite attento a non far gocciolare, e poi nel mio.Allora alla nostra salute, dico.L’ospite non risponde ma solleva il bicchiere e sorride bonario.Invece l’albanella è un uccello.

)

Sarà una sera di metà marzo, non so quanti anni più tardi del duemilaequattro. (Le date contano poco quando si racconta una storia che ne contiene mille vere.)Il cielo sereno, il mare calmo o distante.A volte succedono le cose tutte insieme e non capisci un cazzo e altre volte non succede niente e in quel niente riesci a distinguerci e spaccare a mezzi tutte le cose del mondo.Sul serio.Può essere così per una donna seduta tra i meli di chissaddove come per un uomo in piedi su una terrazza di Roma, zona Appio Tuscolano.Come quando dicono che in punto di morte tutta la vita, in un secondo o quasi, ti ripassa davanti agli occhi, episodio per episodio, persona per persona, sbaglio per sbaglio. Eeeehhhh. Addirittura che riesci a capire due o tre cose in più di quelle che fino ad allora.Io non lo so, se sia vera, questa faccenda qua. Se vai a vedere non lo sa nessuno. Però vi giuro che da vivi può succedere. Voglio dire: anche quando hai ancora una vita davanti da sbatterti. Succede e magari all’inizio è un giorno come gli altri. Può darsi un giorno di marzo del duemilaequattro più qualcosa. Mettiamo che a una certa all’improvviso prende a piovere, sì, il cielo era sereno fino a poco prima e però poi niente: prende a piovere. Avete presente la pioggia di marzo, no? E allora, insieme con l’acqua, tutte immagini a passeggio davanti agli occhi, immagini passate ma con le spiegazioni dentro, come avessero i sottotitoli. E poi altre cose, e queste sono meno passate- almeno non te le ricordi. Facile sia il futuro, piuttosto.Finché si dilatano e scompaiono e riappaiono e non sono più solo immagini, ma granelli di mercurio dentro un grande buco bordeaux che dio solo sa quello che è.Poi esplode qualcosa, oppure non esplode niente e succede tutto con religiosa armonia. I granelli schizzano via e sono polvere al riflesso della luce che non c’è più. Perché non solo ha smesso di piovere ma neppure è più giorno.E la polvere, se fai attenzione o conosci uno straccio d’astronomia, sono stelle e costellazioni, le vedi? E magari, visto che è una storia inventata, ce n’è pure una che è furbescamente più luminosa delle altre, sensibilmente più luminosa. Le persone come me e voi direbbero che quella è Venere o una stazione radar o una supernova.E invece è la speranza di vita che porti con te, pensa.

(La cena è finita, il vino è buono, la strada è lunga.Come al solito.L’ospite tira ancora due boccate dalla pipa e finalmente stacca gli occhi dal manoscritto e lo poggia sul tavolo.Dice che ha bevuto troppo ma non lo pensa.Io penso che alla sua età non dovrebbe fumare ma non lo dico.Poi mi guarda dritto negli occhi.

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- Probabilmente non vincerà un premio letterario ma ce n’è abbastanza per vivere con gusto quel che le resta.Sembra uno di quei saggi delle favole; invece è solo un vecchio ubriacone tabagista che s’è letto qualche libro. A me sta simpatico.- Ci rivediamo?Lui mi guarda come a dire la cena è finita il vino è buono la strada è lunga. Poi ridacchia e mi fa:- Take care.Che in generale vuol dire un mucchio di cose, e in questo caso pure addio.

)

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Stanco e perduto.

Stanco e perduto, coi pensieri a mollo in due bicchieri di whisky e il sedere poggiato su una Toyota che negli ultimi cinque anni ho imparato a guidare a sinistra.Piove l’acqua ventata di sempre, quaggiù, cioè quassù, e non mi riesce di pensare ad altro che alla tua voglia di lampone sotto il naso. Portata con grazia e leggerezza come un abitino di percalle buono.La tua voglia di lampone che una notte ho baciato per ventiquattro volte di seguito e tu nemmeno te lo ricorderai. Che un mattino di mare salato ho fotografato con una luce talmente giusta da farla sembrare la cosa più dolce e provocante del mondo. La tua voglia di lampone che posso solo immaginare, e ricordare, e vagheggiare, da ormai quasi due anni.Due anni.Due anni.Londra. Lungofiume tra London Bridge e Tower Bridge. Quasi tramonto.E’ aprile, sto con Joe che è un tipo di Liverpool che ho conosciuto per lavoro e una volta ogni due o tre mesi ci becchiamo da qualche parte nel Regno Unito per vederci una gara di Premier League e farci due pinte di chiacchiere. Adesso camminiamo ai bordi del Tamigi, senza sforzo o fretta o la curiosità di certi turisti intorno. Parliamo di Chelsea-Liverpool 2 a 0. Quando compari tu- capelli neri e occhi verdi, seduta su una panchina con un’altra ragazza che neppure guardo in faccia perché quella sei tu, diosanto, capelli neri occhi verdi e voglia sotto il naso, quella sei tu.- Chiara!- Marco…L’altra ragazza è tua sorella, siete arrivate ieri, state una settimana, ti sei lasciata con Luca.Così. Come in certi film americani del cazzo.Io dovrei partire il giorno dopo ma ci metto un attimo a cambiare programma e propongo a Joe di fare lo stesso. La sera ce ne andiamo a cena in un Pizza Hut del centro, Joe e tua sorella cominciano a flirtare con una facilità che farebbe schifo anche a un regista americano e io e te ci raccontiamo tutto degli ultimi tre anni.In sostanza, passiamo la settimana più o meno per conto nostro, io ho impiegato un secondo a rinnamorarmi di te o ad accorgermi che non m’è passata mai, tu si capisce meno bene ma diciamo che ci stai, si vede che hai voglia. Le ultime tre notti lo facciamo, io incomincio a pensare al futuro, sì, insomma, vieni tu su, vengo giù io, quando mi arriva una martellata che me la ricorderò finché campo.Senti, io non ce la faccio a ricominciare questa storia, non lo so che ti sei messo in testa tu, ma io non ce la faccio. Ho bisogno di stare da sola da sola da sola. Diciamo che è stata una settimana bella e folle punto e basta, ok? Poi magari tra tre anni ci ribecchiamo e sarà carino ma non fare che adesso prendi a chiamarmi e messaggiarmi perché m’incazzo.Lo dici mentre fai la valigia perché è il giorno che riparti.Io fisso per dieci minuti la stampa di Picasso sulla parete e non capisco niente.Sembra un altro addio.Poi mi alzo e vengo a baciarti sulla fronte e esco.Diciamo che è stata una settimana bella e folle. Divertiti, da sola da sola da sola.

Le colline sembravan fantasmi neri quel giorno che partii di casa all’alba e presi il primo volo ragionevole per Londra Stanstedt. Era ancora mezzo buio; non c’era vento ma freddo sì, perché era gli inizi di gennaio.E tu chissà dov’eri. Dormivi, presumibilmente. Presumibilmente avvinghiata a un ragazzo in gamba. Io avevo altre storie per la testa, altre voci, altri numeri, altri mezzi amori.Ero un ragazzino, a dirla tutta. Mi piacevano i fumetti di Schulz e le canzoni di Jovanotti. Che poi

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sono due cose che adoro ancora adesso, se vai a vedere. Però ero un ragazzino, come negarlo. M’ero inventato quella storia dell’erasmus perché le cose di Roma non mi bastavano più, volevo che la vita mi schizzasse in faccia controvento e quello mi sembrava un bel modo.E non si può dire non abbia funzionato, no, solo che a un certo punto mi sei schizzata in faccia tu e mi ti sei infilata dentro fino alla radice delle ossa e allora è stato tutto un po’ più complicato. Partire da Roma per andare in Galles a innamorarsi di una ragazza di Roma è una carambola che ti riesce una volta ogni mille vite. Normale che poi tiri fuori storie strane, tipo il destino i disegni le congiunzioni. Normale che poi ti risulti difficile accettare che lei, cioè tu, sia soltanto una stazione di passaggio.A me non è mai riuscito, almeno. E, non lo so, magari non me lo dirò mai con chiarezza, però è capace che se m’è presa di ripartire e di farlo sul serio- che saranno ormai cinqu’anni- ci stai di mezzo tu e il fatto di non poterti sapere nella mia stessa città, ecco. Te lo ricordi il primo incontro?Galles, Aberystwyth.Io sono arrivato da mezza giornata, tu sei lì da qualche mese.Entro nella reception del campus e stai appoggiata a una colonna; carina, penso io. Avrei un mucchio di roba da chiedere ma so che il mio inglese non è un granché e non vorrei bruciarmi subito con te, preferirei un maschio brutto per fare pratica.Invece sei tu che mi vedi un po’ perso e t’avvicini.“Da dove vieni?” (In inglese.)“Roma, Roma…” (In italiano.)“Da Roma, wowww. Anch’io!” (In inglese.)“Anche tu? Splendido!” (In inglese!)“Sei qui per il secondo semestre?” (In inglese.)“Come dici? Scusa ma l’inglese lo capisco ancora poco…” (In italiano.)

Proprio l’altro giorno un vecchio amico mi manda un’email carica di quell’ironia italiana e un po’ romana che ho scordato per forza di cose e Dio sa quanto mi manchi. Dice che è partito per l’Australia perché sente il bisogno di capire quello che gli sta accadendo dentro e perché gli faceva piuttosto schifo quello che vedeva accadergli intorno. Dice che è partito perché vuole imparare una lingua per davvero, che oggi senza le lingue non vai da nessuna parte. Dice che è partito perché all’estero gli italiani acchiappano che è una bellezza.Ci ho messo mezza lettera a capire che mi stava coglionando e in realtà mi scriveva dal solito bilocale di Centocelle che divide amorevolmente con Tati.Nell’altra metà della lettera dice che il pub del Pigna a San Lorenzo è ancora aperto e cercano qualcuno che vada a suonarci i venerdì e le domeniche, se torno, quando torno, come butta. Se infine ce l’ho fatta a trombarmi quel pezzo di collega gallese che gli ho raccontato l’ultima volta.Dice write soon, regards, Rocco.Devo ancora rispondere, Rocco mio, ma come te lo spiego che io mi sa che quasi quasi ho sbagliato tutto e finisce che un giorno di questi prendo e torno sul serio?Piove l’acqua ventata di sempre e io mi immagino Rocco a casa con la sua Tati e il figlio piccolo che ho visto solo in foto perché tornare per un battesimo andava contro i miei stronzi principi. Me li immagino in quella casa che è piccola ma si scalda subito, dove per un mese ho abitato anch’io, un paio di secoli fa. Me li immagino mentre discutono di trovare qualcosa di più grande, col mutuo si può fare, il piccolo non può crescere in quel buco.Mi immagino Rocco che lo piazza con le sue manone nel lettino coi cavallucci che dondolano, lo bacia sulla fronte e poi raggiunge Tati in cucina. Si sistemano sul divanetto, girano un po’ a casaccio tra la rai la mediaset e le locali e poi fanno partire il video di Balla coi lupi. L’avremo visto dodici volte solo insieme, quando eravamo pischelli; a lui piaceva l’inizio, a me l’ultima parte.

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E io che posso fare, qua che continua a piovere e fa freddo e ci ho delle lastre così di malinconia dentro lo stomaco. Vediamo.Uno: parcheggiare in uno di quei sentieri isolati che conosco bene per averli percorsi in bici e distruggermi di pippe fino a sentirmi a posto o farmi pena.Due: tornare a casa, accendere tutte le stufe che trovo, fare un bagno caldo, bere una tazza di latte caldo, infilarmi nel letto caldo, metter su il video di Balla coi lupi partendo da quando lui sta già con gli indiani. E poi dormire, al caldo, il sonno dei giusti e degli sfigati.Tre: tornare al pub appena un attimo prima che chiuda, prendere di petto il telefono e chiamare lei. Cioè chiamarti. Dirti scusami se t’ho svegliato ma avevo un bisogno folle di sentire la tua voce, sono due anni che vi penso, a te e alla tua voglia di lampone, dimmi che anche tu non fai che pensare a me e alla mia voglia di baciarti. E poi dirti se è così non preoccuparti della distanza, domani metto la colla stick sulla sedia del direttore mi faccio licenziare in tronco e prima di venerdì sto a casa. Cioè a casa tua.Però pensa se non ci sei. Peggio: pensa se mi risponde lui- che ne so chi- uno con la barba e i tatuaggi e la voce incazzata di chi stava dormendo o trombando.No, non se ne parla, piuttosto l’ultima ipotesi: Quattro: niente, faccio il solito giro sul lungomare, parcheggio all’altezza del Pier, scendo e mi siedo su una panchina a guardare le onde i lampioni la luna e fumare l’angoscia.

E ora questa storia sembra un vecchio ritornello. Quella che all’inizio m’inventavo fosse libertà adesso è una specie di prigione senza rabbia, che si sfilaccia ogni sera in uno dei sette pub di questo posto meraviglioso e cattivo- perché è qua che t’ho conosciuto- e poi va a stingere nelle curve che disegno con la Toyota quando, stanco e perduto, mi ritrovo a cercare un pezzo di pace sul lungomare. Fosse anche d’inverno, fosse anche che fa freddo e piove l’acqua ventata di sempre.I gabbiani gracchiano striduli come le rane.Tiro fuori la bustina del tabacco e mi preparo una sigaretta. Le faccio da me, perché quelle confezionate costano troppo e perché rollarle mi rilassa almeno come fumarle.Tiro su anche il cappuccio. Capelli al vento, acqua nei capelli.L’ombrello non lo porto mai perché quassù non serve a niente. Ma questo lo impari subito, io l’ho capito al primo mese d’erasmus.Diomio. Sono arrivato che avevo ventitre anni e non ti conoscevo. La prima volta qui sul lungomare, me la ricordo come fosse adesso. Eravamo un bel gruppo, appena usciti dal Rummers, con qualche birra portata da casa. Poi spuntò una chitarra. Feci un paio di pezzi anch’io, di quelli internazionali, Bob Marley, i Pink Floyd, roba così. Me la cavavo, negli ultimi tempi a Roma avevo girato pure qualche pub con Rocco e un altro amico. C’eri anche tu quella sera, sì. Ma eri una tra le altre, non m’avevi ancora stregato. Io andavo appresso a una francese, tu avevi due danesi alle calcagna. Ogni tanto scherzavamo in romano.Ci siamo messi insieme l’ultimo mese, poi siamo tornati a Roma e ci siamo rimasti per un anno e qualcosa. Quindi m’hai lasciato, secondo te non funzionava più. Senza astio, avevamo qualche amico in comune e ogni tanto capitava di vedersi. Io dissimulavo il disagio, tu non l’ho mai capito. Dicevamo a tutti che s’era deciso insieme, ma non era vero.Verso novembre ti sei messa con Luca, che è un ragazzo di Ciampino che vaffanculo t’avevo presentato io l’estate prima. Io ho finito l’università e, non lo so, magari non mi dirò mai con chiarezza il motivo, però a una certa ho preso e ho deciso di partire.Aberystwyth, lo stesso posto meraviglioso e cattivo dell’erasmus, chissà perché, mi piaceva tornarci, mi sembrava una sfida. Ho trovato quasi subito un posto come programmatore in una ditta di consulenze informatiche. Qua non è difficile, se appena hai una laurea.Il resto è questa storia qua che sembra un vecchio ritornello. Un paio di ragazze che m’hanno fatto

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compagnia per qualche mese, storie leggere, qualche nottata allegra. E poi Londra, una settimana bella e folle, un altro addio.Eccomi qua. Ho comprato una bici, nel weekend provo a salvarmi la pelle pedalando per i sentieri di cacca di pecore. E la notte rollandomi sigarette sul lungomare e accendendole prima che si bagnino troppo.Mi sento solo. E stanco e perduto.Tu chissà con chi stai. Se c’è qualcuno me l’immagino colla barba e i tatuaggi.Verrà il giorno in cui se pure sarai un rimpianto sarai un rimpianto di quelli normali, ed io saprò pensarti con dolcezza e senza dolore, e salutarti con un bacetto sulla fronte e metterti con cura dov’è il tuo posto, tra tutte le poesie i folletti i pazzi gli amori persi e diventati nostalgia.

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Swatch.(Parabola sul tempo in tre tempi)

Guardò ancora l’ora sul quadrante dello Swatch. Ok, perfetto, non sgarrava di un millesimo. Doveva solo aspettare che passassi a riprenderlo, intascare il denaro, chiudere la bottega, lanciarsi sulla tangenziale verso casa. Fece tre passi malfermi e si risistemò sulla sedia, provando sul suo polso troppo grosso e imperfetto quello swatch giallo e fuxia da quattordicenne primi anni novanta. Fra un quarto d’ora si chiude, pensava intanto, vuoi vedere che mi tocca aspettarlo con la saracinesca semiabbassata.Tirò fuori dal cassetto la solita settimana enigmistica. Prese a riempire le caselle. Non leggeva neppure le definizioni, lo divertiva incastrare parole di senso compiuto tra gli spazi neri, parole qualsiasi. Non è detto sia più facile.E per ogni parola che incastrava gli venivano in mente diecimila altre cose confuse e connesse. Gli venne in mente Casablanca, il finale di Casablanca quando lui e lei si salutano dalle sponde opposte di un fiume. Gli venne in mente Firenze e Siena, quando c’era stato con sua moglie Elvira e avevano bruciato il motore. Forse non era Casablanca.Tre lettere. Inizia con b e finisce con u. E comunque tra cinque minuti avrebbe chiuso. Cominciò a serrare le vetrine e attivare l’antifurto. Bau. Come fanno i cani. Gli venne in mente Axor, il pastore tedesco morto un anno e mezzo prima, la cuccia di cerqua, le volte in campagna, la strada coperta di cacche. Gli sarebbe piaciuto andarci a vivere, in campagna. Doveva chiudere il negozio e convincere Elvira, non era complicato.Aspettava me, che l’avevo chiamato sarà stato un’ora prima- ma in realtà c’era dell’altro. In realtà aspettava di trovare il guizzo la forza le palle di piantare tutto (orologi ciondoli tutto) e trasferirsi in campagna a riempire le caselle dei cruciverba.Ripose la settimana enigmistica nel cassetto con la mente ancora intenta a inventarsi una parola di sei lettere con un ett in mezzo. Quindi abbassò a metà la saracinesca un po’ affamato e scocciato.Io intanto mi stavo scapricollando in bici per una discesa tre isolati prima, coi freni dietro che fischiavano e non frenavano.

Guardo ancora l’ora sul quadrante dello Swatch. Le diciannove e quindici. E salvo sorprese tra un’oretta saremo a cena in una pizzeria che conosce lui e a me non piacerà.Dal metrò escono branchi di gente d’ogni tipo e mi sembra di voler bene a tutti, davvero, sarà l’aria finalmente estiva che si inspira con gusto; sarà l’impressione di un mondo migliore.Giovanni, non lo vedo da quattro mesi e mezzo ma mi sembra un anno. Una volta era tipo il mio migliore amico, quello che se a scuola ti davano un tema sul tuo migliore amico, ci pensavi un po’ e poi parlavi di lui. Adesso non so, potrebbe pure esserlo se solo non ci si vedesse ogni quattro mesi e mezzo in media.Al telefono aveva una voce impastata di birra o di sonno, lui dice di birra. Il lavoro gli va bene, ha iniziato a farsi un nome e allora la gente lo chiama: amici di clienti, genitori di clienti, ex fidanzate. Ha detto proprio così, armato della solita propensione al cazzeggio. L’ha chiamato Luisa, per intenderci: ciao Gio come và, ti ricordi in Versilia, fai ancora jogging, ho il bagno che perde. Ecco qua.Io mi ricordo eccome, in Versilia. S’erano messi insieme e c’erano rimasti per qualche mese, quattro, cinque, così. Che tra l’altro era stata proprio Luisa a presentarmi Monica, uno di quei mesi lì. Dicembre. Duemilaedue.Un’altra ondata dal metrò ma niente, lui non c’è. E dire che il non puntuale sono io, storicamente. Prendi le sere che ci si trovava in casetta, giù alle sorgenti, solo per tirar tardi, e io raramente stavo lì prima di mezzanotte; ho avuto sempre l’ambizione molto femminile d’esser l’ultimo. Adesso

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vorremmo risistemarla, la casetta. Il grosso dovrebbe farlo Giovanni, da bravo idraulico che sa un po’ di tutto, però gli servono un paio d’operai, dice, e io ci sto.Sarebbe bello si riuscisse a rimetterla in piedi per passarci qualche serata allegra come ai vecchi tempi. Una volta volevamo aprirci un pub, pensa, dividere il salone, ricavare una mezza cucina e aprirci un pub.Con Monica funziona abbastanza, capace che è la volta buona che si fa sul serio. Però ho sentito troppo spesso di storie funzionanti che si gonfiano si gonfiano fino a soffocare la tua propria, di storia. E perciò aspetto una scappatoia, una via di fuga, diciamo solo un motivo d’equilibrio tra la storia funzionante e la storia mia propria. Prima di lasciar che tutto si gonfi e sgonfi e modelli naturalmente. Può darsi sia la casetta alle sorgenti ma faccio per dire.Guardo ancora l’ora. Le diciannove e trentacinque, boh.Gli faccio uno squilletto che significa dove cazzo stai. E’ libero, quindi non è in metro. Però non squilla indietro come a rispondere ci sono sto arrivando.Con Monica funziona abbastanza, però non s’è ancora mai parlato di far le cose sul serio. Chissà, forse aspetta lo faccia io, o solamente anche lei sta persa nella ricerca di un motivo d’equilibrio per certe idee che s’è costruita, parallele alle mie. Forse è una cosa che succede nelle storie tra trentenni, quando si ha un pizzico in più di esperienza e paura e senso del valore delle cose. Non si vuole graffiare i tempi, rischiare i tempi, sfibrare lacci. Non lo so, prima di avere trent’anni non avevo mai avuto una storia tra trentenni.

Avrà guardato l’ora sul quadrante dello Swatch, cinque volte negli ultimi cinque minuti.Il tempo è quello delle cose che succedono, un giorno, ma dopo ne arrivano subito delle altre. Lei si chiamerà Gioia, se nasce femmina e Monica è d’accordo. Perché si capisca già dal nome che non ha ripreso da suo padre.Avrà quindici anni e i capelli biondi come Monica, oppure le orecchie a sventola che porto io, oppure gli occhi verdi di una ragazza che ho incontrato una volta. Siederà su un’architettura di ferri ai bordi della strada, dove in genere legano le bici.Davanti a lei ci sarà un pub, che si chiamerà le tre lanterne e di lanterne ne avrà quattro, sopra l’ingresso. Come a testimoniare la distanza tra i vocaboli e le cose.Gioia sarà una ragazza piena di buoni propositi, con idee ingenuo-rivoluzionarie a sgualcire con grazia i suoi quindici anni. Il tipo di ragazza di cui io sarei stato in grado di innamorarmi, modificate è ovvio le condizioni di contorno, senza neanche interrogarmi sul colore dei suoi occhi.Di lei si sarà innamorato un diciassettenne che a me non piacerà, invece, intellettuale narcisista biondo che la farà star male. A partire da questo pomeriggio denso, in cui lei avrà già guardato l’ora dieci volte, appoggiata com’è ad un’architettura di ferri vecchi.Penserà che non è giusto, cavolo, non funziona così. Sono le ragazze a farsi aspettare, nei film e dovunque, vabbè che lei è diversa e ingenuo-anticonformista però sta cosa non le piace. Penserà che sta sbagliando tutto, è caduta in un gioco sbagliato come certe pedine di fortuna. Come certi carrarmati del risiko che si ritrovano a percorrere bastioni e viali di un monopoli. Sarà una mezza poetessa, la nostra Gioia, e anche le sue attese ovvie da quindicenne sopra ferri qualsiasi si annoderanno in immagini così e magari rime.Il pub invece sarà grazioso, prima di cena covo di under diciotto e poi locale vivo e vario, live music il venerdì. Ci staranno queste lanterne con luce giallo carico, disseminate un po’ ovunque e in nessun caso tre. Ci staranno tizi simpatici al bancone, tutti gli analcolici che vuoi, bagni puliti. Dire che lì un tempo c’era un orologiaio con una pancia così.Mentre intanto saranno le sette e mezza e anche arrivasse adesso giusto il tempo per un saluto. Gioia mia penserà che ha preso male la mira o mirato a vuoto; cambiare bersaglio e ritentare, tutto qua. Tanto lei, da ingenuo-determinata qual è, avrà già capito che non si tratta di volerle e basta, le cose. Certe volte c’è bisogno di pazientarci sopra, portare a spasso il mirino in attesa di segni migliori, aspettare anche i trent’anni, se è il caso, vero pa’?Passerà l’ennesimo motorino che non c’entra, con sopra un bulletto anintellettuale, che però, Gioia

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ci giurerebbe, non avrà mai fatto aspettare una tipa in vita sua. Passeranno pensieri, risate da dentro, un’amica delle medie che fa ciao con la mano ma non s’avvicina, pezzetti di musica, occhiate, centosessantatre verso la stazione. Dargli un altro quarto d’ora o andare via?Io nel frattempo mi starò sparando, con degli amici che a parte Giovanni non conoscete, una di quelle commoventi e dolorose partite a calcetto tra quasi cinquantenni. Provando invano un dribbling a uscire, come adesso so farne ancora e bene.

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Tanto al cubo.

Tu sei un ragazzo di colore del Congo Belga. Sei arrivato qui perché t’è sembrato un posto più indicato per uno che deve interrogarsi sul senso della vita e strappare un pezzo di pane ogni giorno. Ci conosciamo da tre anni, tre anni e qualcosa.Una volta ti ho prestato un cavo di prolunga per il pc e non me l’hai mai restituito ma non ti voglio male per questo; ti voglio bene per altre cose e ti voglio male per altre cose.Studi e lavori. Lavori, e ogni tanto studi. Come la tua donna e i tuoi amici, di colore. Non deve essere semplice, mi rendo conto, adesso torna l’inverno e fa freddo.Mi ricordo un sacco di cose.Mi ricordo la prima volta che hai guidato la macchina usata appena presa per due soldi e la facevi partire di seconda in salita. E’ stato il viaggio più pericoloso e incredibile della mia vita, sono sceso che ridevo e tremavo.Mi ricordo quando abitavi di fronte a mio nonno e l’hai riaccompagnato a casa quella sera che aveva perso la strada e diciamo un po’ il senno. Eri e sei fortissimo quando racconti di nonno e provi a imitarlo e usi certe bestemmie che non ho mai sentito neanche in bocca a lui.Mi ricordo la sera che sei venuto a casa perché ti servivano dei soldi e cercavi di spiegare la situazione a me, alzando la voce perché sentisse anche mio padre. Però lui fece capire che non era cosa. Fu un momento strano, mi dispiacque ma alla fine ci conoscevamo appena e davvero non potevi pretendere.E poi le tante volte sulla corriera per Roma o da Roma, quando parlavamo di Baggio e Del Piero o cercavamo di dormire o ti facevo ascoltare gli mp3 di Ivan Graziani.Quando io stavo fuori Italia e tu consolavi mamma e scherzavi con uno dei miei amici dicendo che lì avrei trovato un sacco di figa. Quando ci siamo rivisti appena tornato e credevi fossi stato a Londra tutto il tempo.Mi ricordo le volte che sei venuto a casa per controllare la posta su hotmail e scrivere frasi incomprensibili in inglese o francese. L’ultima è stata l’altro ieri.Perché ci conosciamo ancora e ogni tanto frequentiamo. Non sono stracontento d’incontrarti per caso o sentire la tua voce al citofono perché, boh, ti serve sempre qualcosa. Però da un altro lato mi fa piacere, giuro, s’è raggiunto un grado di complicità gradevole. Si cazzeggia con discreto successo.Io ti chiedo se non è ora che torni al Congo Belga, che adesso hai studiato e imparato le cose e puoi essere utile. Tu mi chiedi se non è ora che mi trovi un lavoro invece di continuare a farmi mantenere da Franco e Marcella. E poi parliamo di Marina, quando cazzo vi sposate, che c’ho proprio voglia di un bel pranzo africano. E allora tu mi chiedi che fine ha fatto quella biondina dell’altro giorno. Dove l’altro giorno sarebbe circa due anni e mezzo fa, e la biondina una che avrò visto quattr’ore in tutto e mi sembra si chiamasse Sara ma neanche sono sicuro.Ogni tanto parliamo pure seriamente, di passato prossimo o futuro semplice: com’era la situazione giù da te, com’è stato lasciare tutto, torni a casa l’anno prossimo o te ne vai a lavorare in Francia.Io ti parlo dei miei dubbi e sogni e casini e mi piace farlo con te; non so perché ma c’è un senso di provvisorietà nel rapporto che mi permette di inventare o tacere mezze cose senza sentirmi in colpa o far male a qualcuno. Mi sembra faccia bene alla testa, a parte tutto, seguire le tue direzioni e velocità mentali differenti per forza. Per cui quando ti pare io sto qua, ecco; magari avvisa prima.E se ti riesce, evita di chiedermi come va il mondo.

Che stai facendo?Studio.E nel tempo libero?

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Scrivo, vivo, queste cose qua…Credi in Dio?Ma che è, un’intervista?Credi in Dio?Credo in te e in me.E basta?Credo in tutto ciò che c’è, di mortale.Quindi non credi in Dio…Credo che sarebbe bello che tutto ciò non fosse mortale e basta.Allora diciamo che speri in Dio?Spero in Dio… Bella, questa. Diciamo che spero in Dio.Mai stato a Tahiti?Mai.Quando l’hai fatto per la prima volta?Intendi bere birra?Quindici anni?Credo dodici.T’è piaciuto?Poco.Perché?Avevo dodici anni, ho vomitato. Preferivo la coca cola.Ti piacciono le frasi sui regali?Non mi piace il modo che hai di porti.

Tu invece sei un ragazzo di qui dell’età mia. Un amico d’infanzia, si può dire.Hai avuto qualche problema coi tuoi. Si sono separati quindici-sedici anni fa e da allora è stato un casino, sempre di più man mano che crescevi. Certe volte penso che è già tanto se non sei finito in qualche giro brutto, di malavita o droga o simili. Forse se vivevi in città anziché in questo posto piccolo salutare e di merda andava diversamente.Quando eravamo piccoli giocavamo alla guerra, con le macchine, coll’acqua, a pallone. Ci siamo insegnati a triangolare in velocità, a muoversi senza palla, a calciare con tutti e due i piedi. Sei andato a vivere a Prato per tre anni con tua madre; noi ci vedevamo l’estate e provavamo a fare le cose da dodicenni o tredicenni quali eravamo diventati. Quindi sei tornato, a vivere con tuo padre. Funzionava ancora tutto, almeno a vederla da fuori; andavi con lui a vedere la Lazio all’Olimpico e t’eri rituffato nella vita paesana di prima. Abbiamo fatto insieme gli esami di terza media.Il casino è scoppiato verso i diciassett’anni. Ti sei ritrovato a metà tra tuo padre e tua madre, sbattuto come un palloncino gonfiabile nelle mani di due ragazzini vivaci e incazzati. Hai staccato con la scuola, ti sei chiuso in te stesso oltre che in casa, fatta eccezione per quella bici che alla fine t’ha fatto più bene che male, penso. Io ci ho provato a tirarti fuori, un po’ ci ho provato. Però, se vado a vedere, sempre con un filo di distrazione e mai con tutta la determinazione che serviva.E insomma non ce l’ho fatta, poco da dire. Fosse stato per me, staresti ancora buttato dentro quella specie di palude o galleria. (Tu dici sempre che non è vero, ma io sono cattivo e la penso così.)Invece è successo qualcos’altro, che è venuto da fuori e t’ha preso e portato via. E’ successo che è arrivata l’età da militare, qualcuno t’ha trovato un posto nel servizio civile e sei finito a Tivoli, Villa d’Este, dal lunedì al sabato, sei ore al giorno.E questo t’ha aperto un mondo nuovo, che poi era il mondo vecchio, questo mondo qua, quello di sempre incredibile e stronzo, dove quasi vent’anni prima avevamo imparato a calciare contro porte di fortuna. T’ha costretto a uscire di casa, dal paese, a vedere gente e posti.A ridarti un ritmo vitale che non fosse quello inumano dei palinsesti televisivi nel quindici pollici di camera tua.

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Insomma hai fatto il servizio civile, preso un diploma qualsiasi e seguito un corso di computer della regione. Quel genere di cose che ti fanno stare in qualche senso a posto col mondo intorno, una sorta di certificazione di normalità.Adesso c’è tutto un resto di roba da tirar fuori. Trovare un lavoro, una donna, una casa. Tutto quello che ti pare, ma insomma è una storia più comune e meno dolorosa.Noi continuiamo a vederci, non spesso ma ogni tanto sì.Siamo due cultori del dialetto di qui e lo usiamo, insieme, ogni volta che possiamo.Sarebbe bello che una sera arrivassi qua sotto e mi chiamassi, come se tutto il tempo fosse passato invano. Raccontami ancora una volta di quando hai rotto lo xilofono per saltare l’interrogazione. Fatti mostrare le foto del Galles. Convincimi che dovrei votare Berlusconi o descrivimi la tua isola ideale. Domandami se sono felice. Spiegami che vuol dire avere una casa per quattro persone da dividere con tuo padre soltanto.Però non chiedermi come va il mondo.

Sei felice?Sto bene, tiro avanti, m’accontento. Sono anni che non piango.E a casa?Tutti bene, grazie.Ti piacciono i regali?Solo se non è il mio compleanno, il mio onomastico o il Santo Natale.Ne fai molti?Abbastanza, però non li incarto mai e allora la gente neanche capisce che sono regali.Cos’altro ti piace?I lanci di Veron.Le zanzare?Anche.Gli assoli di sax tenore?Sì.Ti piace tutto?Le cose mortali.Quanto?Tanto. Tanto, tanto.Hai un segreto da confidarmi?Il segreto è vivere tutto come se fosse fondamentale e inutile.Innamorato?Eh…E lei ti ama?Lei chi?La storia?Siamo noi.Il tempo?E’ denaro.Le mezze stagioni?Ma tu chi sei?Le domande le faccio io.

Tu sei tipo la ragazza più dolce del mondo conosciuto, sciarpa intorno al collo.Sei anche stata in questa casa, qualche tempo fa. Ed hai poggiato il culo su questa stessa poltroncina in cui adesso poggia il mio, intento come sono a pigiare sul portatile nuovo.Sei innamorata perdutamente di un ragazzo che conosco appena e mi sembra obiettivamente una brava persona. Credi nei sogni e nei miracoli ma non ti sembrano fondamentali.

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Non lo so, se ci vedremo mai più. Lo dico così come mi riesce e con tutto lo struggimento che puoi immaginarti, però devi ammettere che può darsi. Le vite si annodano in certi punti precisi e poi mano a mano si sciolgono per forza e per conto loro. Noi non c’entriamo niente. Siamo due fili che procedono troppo distanti e paralleli perché il nodo di una volta e basta possa trasformarsi in un qualche intreccio. Insomma non lo so, se ci vedremo mai più.Forse continueremo a scriverci e sentirci per un po’. Una volta al mese, e poi ogni due mesi e poi non più. Finché forse un giorno mi chiamerai o ti chiamerò e verrà fuori una conversazione sbagliata e unilaterale, con troppi silenzi e domande inutili, perché uno di noi non si aspetterà affatto quella chiamata e la vivrà con imbarazzo e inadeguatezza.Oppure un giorno ci rivedremo perché la vita è imperfetta. E anche lì sarà un po’ sbagliato, è un incontro che fatico pure a immaginare. Il dialogo più bello l’abbiamo avuto in macchina mentre tornavamo da Roma ed era un sabato notte finito tardissimo. Io ero al volante, tu parlavi per tenermi sveglio, mentre altri due, dietro, dormivano uno sull‘altro. Scopristi di me alcune cose che non sapevi ancora ma in fondo potevi aspettarti; io invece non scoprii niente di nuovo ma ero contento lo stesso perché mi bastava la tua voce appoggiata sul buio coreografico dell’autostrada, sull‘intimità della situazione e sul filo di musica dello stereo.Adesso è pomeriggio e piove. Io ho i soliti doloretti al ginocchio di quando cambia il tempo, tu ovviamente non ci sei.Dov’è che sei finita? Come passi il tempo libero? Sei certa che siamo felici? Sei più stata a pattinare in centro? Ti piacciono le riviste di meccanica? Ce l’hai ancora sulla scrivania, quella foto che t’ho regalato una volta senza incartarla? Credi nei sogni nei miracoli e nelle fate? Quanto cazzo sei forte, da uno a dieci?

Come va il mondo?

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Certe notti.

Ci siamo messi a pisciare a pochi metri dalla provinciale, l’auto parcheggiata male sul bordo, le quattro frecce accese ad alleggerirci la coscienza. E’ un rito.Il freddo ci solletica il cazzo, a me forza un brivido sugli avambracci. Sono le tre e un quarto di una notte che sembrava più morbida, a guardarla dallo specchietto retrovisore della Fiesta di Gigi. Invece fa un freddo boia, l’erba è bagnata, le paninoteche chiuse, le ragazze a letto, la luna uno spicchio sbilenco. Ma anche questo fa parte del gioco, serve a farci sentire più uniti. Sembriamo la pubblicità del Montenegro.

Rientriamo in macchina in tre, Rocco è ancora fuori che piscia. E’ così tutte le volte, una cosa da non crederci: o ha una vescica della madonna o fa finta.- Ohé, che facciamo? Ripassiamo più tardi?- Ho finito, ho finito…- Rock, certo che sei una cosa incredibile.- Il cazzo più lento del far west.- Ma che la fai una volta la settimana?- Eh, sì, che volete… a me esce solo il sabato notte sulla provinciale. Ma piantatela…

Gigi gioca con gli abbaglianti, li abbassa quando arrivano macchine e li rialza subito dopo.Cesco fuma e tiene una striscia di finestrino aperto.Rocco the Rock scrive un sms di buonanotte alla sua dolce metà. Stanno insieme da un anno e tre mesi!Io me li guardo e fischietto la musichetta di Tiziano Ferro che la radio passa impietosa.

Mi piacciono questi momenti: è come se la vita per un po’ la piantasse di far domande sceme e tu potessi buttar lì un discorso con parole tue. Pensieri semplici, mica chissacché.Poi Cesco fa per ciccare fuori e Gigi gli chiude il finestrino col pulsante. Cesco fa appena in tempo a ritirare il mozzicone, fa finta d’essersi schiacciato un dito e dà uno spintone a Gigi. Anche questo è un classico.In testa vortica ancora un filo d’alcol, giusto quel po’ che ti fa sentire a posto.Io non so dire, però se qualcuno mi chiedesse che cos’è l’amicizia, che è una delle domande più stronze che si possano, io risponderei che l’amicizia è un po’ questa cosa qui. Una macchina lanciata contro una notte che sembrava più morbida, con quattro tipi dentro che hanno appena pisciato ai bordi della provinciale e adesso si sentono a posto. E non è vero che gli amici veri si vedono nel momento del bisogno, balle, gli amici veri si vedono il sabato notte.Oppure risponderei ma vaffanculo.

Arriviamo al paese che è dieci alle quattro. Cesco propone una pasta da lui ma lo pisciamo tutti. Io sono gonfio di sonno, mi sa pure gli altri.Invece gli concediamo un’ultima sigaretta insieme, appoggiati alla macchina con lo stereo che accompagna da dentro. Io non fumo però me li guardo e va bene lo stesso. Adesso sembriamo un film di Ligabue.Poi rimontiamo dentro e Gigi fa il giro delle case e ci scarica e saluta ognuno con un colletto. Per le viuzze del paese, la Fiesta curva che è uno spettacolo. Gigi è un grande al volante e poi quello che guida resta sempre più lucido degli altri. Non siamo mica dei pivelli.Mentre salgo le scale di casa rifletto sull’infinito, pensa te.

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Ad una ragazza che ha gli occhi verdie certe sere i capelli legati.

(Però giuro che è l’ultima voltache le dedico qualcosa)

Il cd con le cover di Giorgia.

M’hai mandato gli auguri per l’onomastico, io manco ci pensavo.Adesso stai guardando incantesimo su raidue mentre tua sorella è di là che parla al telefono con un ragazzo che non conosci. Una volta ci sono stato, in quella casa, però faceva un caldo che sembrava finto e texano e tu eri semplicissima e non stavamo mai da soli. Sotto casa tua c’è una specie di giardino, con una specie di fontana ed una specie di sedia a dondolo. Di quelle coi cuscini consunti dall’aria aperta e le intemperie. Ma forse confondo i giardini. Comunque si parlava, io te e un’altra persona, in quella specie di giardino là.- Di che?- Del futuro.- Del tuo futuro?- No, no, intendevo del tuo.- Vabbe’, è facile. Mi laureerò in legge entro sei o sette anni… e poi mi sposerò e avrò tipo sedici bambini.- Caspita. Le idee chiare.- Macché, scherzavo. Non più di due bambini. E forse neanche mi sposo. E comunque non mi laureerò mai.- Sicura?- Boh, veramente i bambini mi piacciono troppo. E tu?Io non lo so. Adesso ci penso. Comunque grazie degli auguri.

Non è un periodo di quelli iperfelici, mancano delle cose. Non dico il tempo, semmai la rabbia di giorni più caldi. Passeggio come un idiota per le strade del mio centro, che se vai a vedere è la periferia di qualcun altro e il posteggio di un terzo. Perché viviamo mondi diversi e circostanti o paralleli, o invece lo stesso mondo con geografie diverse.Comunque la rabbia e la voglia di giorni più caldi stanno sepolte dentro cimiteri di che cosa; mentre rimane questa cazzo di indolenza e non è un periodo di quelli iperfelici.

Adesso per esempio dovrei scriverti un’email ma che ci scrivo.Una volta ero più bravo, le costruivo per bene e parevano naturali. Ormai è il contrario, mi sforzo di non pensarci e sembrano tirate su a martellate.Posso spiegarti che parto fra tre giorni e sarebbe stato bello farlo insieme. Che qua di colpo è arrivato il caldo e sembra i primi di luglio e le mezze stagioni non ci sono più sul serio e allora che cazzo di mondo è diventato se persino i luoghi comuni sono veri.Posso raccontarti che poi ci sono uscito, una sera, con quella ragazza dell’università che ti dicevo. E che per me è stato bello ma per lei evidentemente no, perché non m’ha più cercato e quando l’ho fatto io m’ha detto scusa sto impicciatissima ti richiamo tra mezz’ora ok?Posso confessarti che tutta la faccenda del papa m’ha fatto un po’ schifo. Provando a farlo con delicatezza perché so che ci credi più di me e magari te la prendi.O giusto chiederti come va, la danza gli esami le cose. E soprattutto quella storia delle fitte al braccio. Come si dice, la salute innanzitutto.O ricordarti che ho ancora una cena da restituirti, una sera che verrà, non far finta di niente e comincia a scegliere il dolce che al resto ci penso io ;-)

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Poi un giorno arriva la primavera e s’aggiusta tutto.Almeno negli ultimi tempi ripetevo e mi ripetevo questa frase e in qualche modo, qua la mano, facevo la pace coi casini che ronzavano intorno. And now? Niente più scuse, gli uccelli cinguettano, i ciliegi sono in fiore, sull’auto verso casa la gente ha ripreso simpaticamente a sudare. Mi sorprendo nei labirinti mentali di qualche primavera fa, quattro, sette, chi sa dirlo, e questo non va bene. Fra tre giorni parto e d’accordo, però come torno mi prendo e mi porto via.

Invece alla fine ti manderò una cartolina con qualche chiesa mezzo gotica e le nuvole sullo sfondo.E magari la scriverò in inglese per fare il simpatico.Come quando fuori pioveva e noi ci si incontrava alle undici di sera per prendere il tè e giocare a carte o fare conversazione. Lo chiamavamo il teatime ed era il nostro modo di prendere per il culo tutto quello che di britannico ci girava intorno. Cinque o sei persone c’erano sempre.Era i primi di maggio come adesso è fine aprile. Gli esami si avvicinavano minacciosi in quel mondo specialissimo e provvisorio in cui gli esami non c’entravano niente. Si iniziava a provare a studiare e non era mica semplice, con le teste rotte dalla disabitudine che ci ritrovavamo.Così la sera m’ero inventato questo teatime, per rilassare i muscoli del cervello e non perdere proprio tutto della magia che s’era creata- ore undici, cucina del Cletwr Building, sei differenti qualità di tè.- Bello. Tutte le sere?- Beh, almost.- E come faccio a saperlo?- By the light. Quand’è accesa… diciamo dalle undici meno dieci, allora è teatime.- Ok. Se non mi addormento prima, vengo volentieri.E poi venivi, volentieri, una sera sì e tre no.E io facevo il padrone di casa, e tu avevi i capelli legati dietro e una specie di pigiama ed eri bellissima ed era bellissimo.Le altre sere non lo so. Ti addormentavi prima o andavi a troieggiare in qualche camera del campus o ascoltavi da sola al buio il cd con le cover di Giorgia.

A un certo punto ho smesso di dirmi che ti voglio bene e ho ripreso a guardarmi intorno con un senso di meraviglia e la mia naturale voglia di conoscere.Perché va bene la testardaggine ma mica puoi aspettare le cose per sempre. Fuori gocciano lacrime e modi di dire, però è sempre meglio che sangue.Mentre l’acqua di marzo continua a portarsi dietro un macello di cose, la pioggia d’aprile a lavare anime e strade ed io aspetto con trepidazione certe notti di maggio.

A un certo punto ho smesso di dirmi che ti voglio bene, però certe cose mi piace ancora ricordarle.E’ metà giugno come adesso è fine aprile. Tu vesti un abituccio leggero, con del rosa del rosso e dell’avana. Il fondo è bianco. E il tutto ha un qualcosa di orientale, con un laccio bianco semplice come di scarpa sul davanti a tenerlo insieme.Ed io penso due cose. Che quest’abito te l’ho già visto addosso almeno un’altra volta e che avrei una voglia smodata di scioglierti quel laccio sul davanti. Non mi ricordo in che ordine le penso.- Allora, eccoci alla fine.- Già.- Vabbè, ma mica è la fine. Ci rivediamo, no?- Certo, io sto a Roma, quando ti pare.- Vicino Roma…- Vicino Roma, bravissima. Comunque sul serio, un fine settimana, o dopo gli esami, poi ci si sente, dai…Ti guardo negli occhi ma tanto lo so già che sono verdi. Poi guardo il laccio sul davanti del tuo vestito. Sotto c’è un petto appena accennato che però su di te è perfetto.

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- Che guardi?- Niente, niente… Stavo pensando che questo vestitino te l’ho già visto un’altra volta…- La sera del Rummers.Ecco quando.Hai scelto il vestito della sera del Rummers per venirmi a salutare.- Che si fa? Ci abbracciamo?Ci abbracciamo. E mentre ci abbracciamo ci sussurriamo i rispettivi nomi propri. E ci stringiamo forte forte come due che in qualche cazzo di modo si vogliono bene ma hanno già capito che un giorno smetteranno di dirselo. Ed è un abbraccio che ricordo sempre con piacere. Molto italiano, per dire.- A che ora c’è l’hai, il volo?- Twenti past.- Squilla quando arrivi, eh…A me dispiace un po’ tutto quanto. Però non sembriamo tristi, e anche a vederlo da fuori non deve essere un addio lacrimoso, dai.Certo che ti squillo. Se trovo una frase carina capace che ti messaggio pure.

Dopodomani parto per il Belgio, dove vado a trovare un amico che sta a Bruxelles ed è mezzo frocio e particolarmente in gamba. Lo conosci anche tu, lo sai che ha le idee chiare. S’è laureato in law, si sta specializzando in questioni internazionali, sogna di entrare nella commissione europea, nel parlamento, un posto di quelli.Se la maggior parte delle vite sono fiumi e tu sei un lago, io è più facile che sia un porto di mare.

ciao!!! viaggio ok, niente imprevisti. contento di risentire voci romane. mamma è 1 po’ ingrassata ma nn gliel’ho detto. a prex, m_

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Ghost track.

Resta sempre qualcosa.

Certe volte mi piacerebbe piantarmi in mezzo alla strada, guardare l’orizzonte come gli attori fighi nei film, girare il culo e tornare indietro con fermezza. L’università, per esempio. Gente intorno lacrima che sta scoppiando non ne ha più non vede l’ora di finire. Io certe volte vorrei ricominciare daccapo. Sul serio. Piantarmi in mezzo alla strada, girare il culo e ripartire da un mitico ottobre romano dell’anno novantanove di nostra vita.Ripartire da lì con la schiena dritta la testa alzata e le persone qualsiasi che incontro. Non dico cambiare strada, cambiare studi, cambiare laurea. Basta storie del tipo, che si è venticinquenni. E a un certo punto ci si rende conto che le strade sono tutte uguali, dannatamente uguali, perdutamente uguali. Imboccarne una che ricorda qualcosa, poi percorrerla con buonsenso e leggerezza e concentrazione- ecco cosa si deve.No che cominci a zigzagare come un acrobata idiota.

Oppure il futuro. Domani, dopodomani, il 2015. Chissà che c’è dentro, può darsi una donna e dei figli, un posto alle poste, una città della Nuova Zelanda. Coi canguri intorno. Quando non sono impegnato a lavare i piatti o raccogliere bacche o fare l’amore e non ho nello stomaco un grado di malinconia sufficiente a lasciarmi distruggere sopra il passato, allora ragiono sul futuro. Certe volte vabbè, mi immagino le cose- come fanno i bambini e le persone normali. Io da grande farò l’astronauta, lei mi bacerà una notte colle stelle e i grilli, la Nuova Zelanda. Certe altre invece rimpiango al futuro, che è un esercizio inutile, doloroso, eccetera. Si tratta di figurarsi uno scenario, coi personaggi le battute e tutto, e mettercisi dentro. E quindi immaginarsi di non fare ciò che si dovrebbe, sbagliare i tempi, i modi, qualcosa. Rimpiangere al futuro- folle. Al passato ok, si capisce: ah, quella volta che avrei potuto dovuto e invece. Ma al futuro. Ah, quella volta che capiterà e io invece. Non è neanche facile a esprimersi, servirebbe un condizionale futuro che non esiste e se nessuno l’ha mai inventato ci sarà un motivo.Chissa se ci stanno, i canguri, in Nuova Zelanda.

Oppure per esempio resta che a volte ho bisogno bisogno di scrivere e niente da scrivere. Non so dove iniziare, non c’è uno spunto forte, epperò il bisogno sì.Allora faccio così, appiccio lo stereo, metto su un pezzo che mi piace o un pezzo che trovo e ci scrivo sopra. Quello suona, canta e suona, e io ci scrivo sopra.Come dire che c’ho dentro un ammasso concentrato di parole, che spinge per andar fuori e io lo sento eccome e però non trova una strada. Allora ne imbocco una a caso o una bella, e via. In piena libertà, non è che pretenda di rispecchiare il senso della canzone o cosa. Caso mai le regole le stabilisco ogni volta e valgono finché ho voglia.Non so come chiamarli. Si può dire racconti musicali, in qualche senso; però la musica sta prima e fuori e invece così sembra stia dentro e invece se sta dentro è solo per vie traverse. Song tales suona bene, ma ho imparato a diffidare delle cose che suonano bene. Sennò racconti-canzone, però l’ho già sentito da qualche parte e poi mi ricorda Gaber.Allora facciamo che li chiamo racconti zum-zum, che non suona proprio benissimo e mi ricorda solo cose sciocche.

Oppure gli amici. Che una volta ho provato a scriverne e ho fatto mezza pagina.Io se fossi nato a Bergamo o Boston avrei amici diversi. E non è vero che gli amici che ho sono persone speciali, è solo che ho bisogno di pensare che i miei amici sono persone speciali. Gli amici veri non esistono. Esiste il bisogno di avere amici veri ed esiste il bisogno di sentirsi amici veri. Si può scrivere più di mezza pagina su una cosa così?I miei amici veri, purtroppo o per fortuna, amano il calcio o le poesie di Baudelaire o i fumetti di

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Pat Labor o sono donne e mai due di queste cose insieme. Io gli voglio troppo bene.Pensa se nascevo a Bergamo o a Boston.

Oppure lei. O lei, o quell’altra, o quell’altra prima ancora. Tutte quelle ragazze con gli occhi verdi che un po’ esistono e un po’ no. Una canticchiava, un’altra pesava il pesce. Una faceva i cruciverba e non aveva gli occhi verdi. Una m’ha insegnato delle frasi bellissime che poi ho ripetuto a quella dopo. Mi piace colorare le ragazze, un bel soggetto. Però un po’ esistono. Mica ti innamoreresti di una ragazza che canticchia e non esiste, dai.Però un po’ no, perché hai voglia a dire ma se non ci fossi stato io a muoverle bagnarle e colorarle, avrebbero continuato la loro esistenza reale e cretina per sempre.Adesso ce n’è una che sembra uscita da un racconto zum-zum e invece è vera, giuro. Lei è tipo la ragazza più dolce del mondo conosciuto. Se un giorno di questi mi chiama le racconto un mucchio di roba e sennò prima o poi la chiamo io.

Resta sempre qualcosa.Per quanto uno cerchi, qualcosa resta fuori.Ci sono dei dischi che quando hanno finito di dire quello che hanno da dire continuano a ruotare nel lettore, le cifre dei secondi vanno avanti, le casse riproducono il silenzio.Tu stai leggendo un libro, battendo al computer, sbucciando le patate. Con la mente da qualche parte che non c’entra. Capace che sei arrivato in Nuova Zelanda.Quando avviene una specie di magia. A una certa riparte qualcosa, una voce, una base, dei suoni avanzati nella testa dell’artista.Perché resta sempre qualcosa da tirar fuori e allora ci si prova anche così, come piccoli falegnami laboriosi e un po’ disperati, non fosse altro che per ammettersi l’impotenza.

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