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1 Margherita Scarlato (Università Federico II di Napoli) Rapporto al Dipartimento Politiche di Sviluppo e Coesione (DPS), Ministero dell’Economia e Finanze, aprile 2004 Titolo: “Agglomerazioni” Abstract L’obiettivo di questo contributo è discutere le politiche regionali europee orientate al sostegno delle agglomerazioni produttive assumendo come punto di riferimento metodologico i filoni di ricerca della NEG (New Economic Geography) e della NGT (New Growth Theory). Il primo passo è quello di riassumere brevemente i principali risultati raggiunti sul piano teorico individuando i fattori che determinano la dinamica della localizzazione delle imprese e della creazione di nuove imprese, i nessi tra agglomerazione e crescita economica, l’impatto della riduzione dei costi di trasporto e dei costi della trasmissione delle idee. Dai modelli teorici possiamo poi derivare le implicazioni di politica economica. I lavori discussi fanno emergere un trade-off tra obiettivi di equità regionale ed obiettivi di efficienza: le politiche regionali che attenuano le disparità di reddito sostenendo l’attrazione di investimenti nelle regioni povere, possono generare una localizzazione sfavorevole all’innovazione e alla crescita. L’ipotesi di lavoro intorno a cui ruota questa breve riflessione è che le politiche di sviluppo che forniscono un sostegno indiscriminato, “a pioggia”, alle agglomerazioni produttive nelle aree dell’Obiettivo 1 rischiano di risultare scarsamente efficaci perché non permettono di superare questo trade-off. Per raggiungere entrambi gli obiettivi, di equità regionale e crescita economica, gli interventi su un’area delimitata, su un particolare sistema locale di imprese, andrebbero inseriti all’interno di un disegno più ampio, che includa i nessi con territori contigui e che persegua anche finalità di lungo periodo quali la riduzione del costo dell’innovazione e la diffusione delle innovazioni. In un passo successivo, l’analisi teorica viene ricondotta alla realtà del Mezzogiorno d’Italia. L’obiettivo consiste nel verificare se vi è coerenza tra le indicazioni fornite dalla teoria e il percorso seguito dalle politiche regionali “di contesto” condotte in Italia all’interno del quadro di riferimento europeo. Keywords: agglomeration, new economy, infrastructure, regional development policy JEL classification: F12, O18, O31, R58

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Margherita Scarlato (Università Federico II di Napoli)

Rapporto al Dipartimento Politiche di Sviluppo e Coesione (DPS), Ministero dell’Economia e Finanze, aprile 2004

Titolo: “Agglomerazioni”

Abstract

L’obiettivo di questo contributo è discutere le politiche regionali europee orientate al sostegno delle agglomerazioni produttive assumendo come punto di riferimento metodologico i filoni di ricerca della NEG (New Economic Geography) e della NGT (New Growth Theory).

Il primo passo è quello di riassumere brevemente i principali risultati raggiunti sul piano teorico individuando i fattori che determinano la dinamica della localizzazione delle imprese e della creazione di nuove imprese, i nessi tra agglomerazione e crescita economica, l’impatto della riduzione dei costi di trasporto e dei costi della trasmissione delle idee.

Dai modelli teorici possiamo poi derivare le implicazioni di politica economica. I lavori discussi fanno emergere un trade-off tra obiettivi di equità regionale ed obiettivi di efficienza: le politiche regionali che attenuano le disparità di reddito sostenendo l’attrazione di investimenti nelle regioni povere, possono generare una localizzazione sfavorevole all’innovazione e alla crescita.

L’ipotesi di lavoro intorno a cui ruota questa breve riflessione è che le politiche di sviluppo che forniscono un sostegno indiscriminato, “a pioggia”, alle agglomerazioni produttive nelle aree dell’Obiettivo 1 rischiano di risultare scarsamente efficaci perché non permettono di superare questo trade-off.

Per raggiungere entrambi gli obiettivi, di equità regionale e crescita economica, gli interventi su un’area delimitata, su un particolare sistema locale di imprese, andrebbero inseriti all’interno di un disegno più ampio, che includa i nessi con territori contigui e che persegua anche finalità di lungo periodo quali la riduzione del costo dell’innovazione e la diffusione delle innovazioni.

In un passo successivo, l’analisi teorica viene ricondotta alla realtà del Mezzogiorno d’Italia. L’obiettivo consiste nel verificare se vi è coerenza tra le indicazioni fornite dalla teoria e il percorso seguito dalle politiche regionali “di contesto” condotte in Italia all’interno del quadro di riferimento europeo. Keywords: agglomeration, new economy, infrastructure, regional development policy JEL classification: F12, O18, O31, R58

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1. Politiche regionali, agglomerazione e crescita economica

Le politiche strutturali europee sono finalizzate ad accrescere la coesione

economica e sociale tra le regioni dell’Unione. A tale scopo, nel periodo 2001-2006

sono stati devoluti 213 miliardi di euro, una spesa che rappresenta un terzo del

bilancio europeo. Alla quota di fondi europei va sommata la spesa che i singoli Stati

europei compiono per politiche regionali e sussidi diretti o indiretti alla localizzazione

di imprese nelle regioni in ritardo di sviluppo (Dupont e Martin 2003).

In termini qualitativi, due sono i temi ricorrenti che fanno da orientamento alle

politiche regionali europee: l’attuazione di interventi che siano sempre più “di

contesto”, cioè che accrescano le esternalità sul territorio, e sempre meno

d’incentivazione diretta alle imprese e, seguendo la stessa logica, il potenziamento

delle azioni mirate alla realizzazione di infrastrutture.

Data la rilevanza della spesa in politiche di sviluppo regionale, appaiono di

grande interesse i lavori che analizzano all’interno di uno schema analitico rigoroso i

vantaggi economici prodotti da tali interventi.

Sul piano teorico, l’approccio della NEG (New Economic Geography) mostra

che il processo di integrazione comporta una tendenza verso l’agglomerazione: la

riduzione dei costi di transazione incoraggia le imprese a concentrarsi

geograficamente per sfruttare meglio esternalità localizzate, di tipo tecnologico e

pecuniario (Fujita, Krugman, Venables 1999, Fujita e Thisse 2002, Baldwin, Forslid,

Martin, Ottaviano e Robert-Nicoud 2003). Recenti modelli dinamici, che fondono i

filoni di ricerca della NEG e della teoria della crescita endogena (NGT, New Growth

Theory), fanno un passo avanti e aggiungono che l’agglomerazione accelera

l’innovazione e di conseguenza innalza il tasso di crescita dell’intero territorio

(Baldwin e Martin 2003).

La concentrazione spaziale delle imprese non andrebbe dunque contrastata

poiché riflette una maggiore efficienza nell’allocazione delle risorse.

Alcuni Autori hanno però segnalato che nel caso delle regioni europee le forze

dell’agglomerazione agiscono in modo peculiare, data la bassa mobilità del fattore

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lavoro. In assenza di flussi migratori, la riduzione dei costi di transazione al di sotto di

un livello critico induce le imprese a concentrarsi nelle regioni del “core” nell’ipotesi

in cui non aumentano i differenziali salariali e i differenziali nei prezzi di input non-

tradeable (come i servizi). In caso contrario, la concorrenza per le risorse immobili

scarse e la congestione nelle regioni ricche agiscono come forze di dispersione: la

pressione al rialzo sui costi di produzione attenua la spinta verso l’agglomerazione e

innesca lo sviluppo di settori industriali nelle regioni povere, seppure in proporzioni

diverse rispetto a quelle del “core” (Krugman e Venables 1995).

Tuttavia, come nota Puga (2002), in Europa la prima ipotesi (salari vischiosi)

appare più realistica poiché la struttura dei salari riflette solo debolmente le condizioni

locali del mercato del lavoro. Questo spiegherebbe perché negli ultimi anni si sono

accentuate la disuguaglianza del reddito e le differenze della struttura produttiva e dei

tassi di disoccupazione delle regioni europee (Overman e Puga 2002, Puga 1999).

Gli interventi strutturali a sostegno dell’attrazione di imprese in aree in ritardo

di sviluppo sono allora giustificati sulla base di considerazioni di equità. I benefici

dell’agglomerazione si distribuiscono infatti in modo diseguale tra le regioni e la

bassa mobilità del lavoro impedisce ai cittadini delle regioni periferiche di godere dei

vantaggi attivati dall’agglomerazione nel “core”, rafforzando la polarizzazione tra

regioni ricche e regioni povere.

Da questi lavori emerge quindi un trade-off tra equità ed efficienza: le politiche

regionali che attenuano le disparità di reddito, sostenendo l’attrazione di investimenti

nelle regioni povere, possono generare una localizzazione sfavorevole all’innovazione

e alla crescita (Martin 1999a, Midelfart-Knarvik e Overman 2002).

I risultati teorici sono parzialmente confermati dall’evidenza empirica che

mostra che i Paesi che hanno raggiunto un elevato tasso di crescita e convergenza

verso il resto d’Europa (Spagna e Portogallo) hanno anche sperimentato un marcato

incremento della disuguaglianza regionale in termini di reddito pro capite e di tassi di

disoccupazione (Martin 1999b). Al contrario in Italia, dove i divari regionali si sono

attenuati (Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione 2004), la performance

in termini di crescita è stata deludente e si sono ampliate le differenze strutturali dal

“core” dell’Europa in termini di esportazioni (Brülhart 2001, Signorini 2004).

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Nel caso dell’Italia, una spiegazione degli scarsi guadagni di efficienza

conseguiti dalle politiche regionali può essere che l’offerta di incentivi alla

formazione di agglomerazioni nelle aree sottoutilizzate si è tradotta spesso nella

ricerca da parte degli Enti locali di un sostegno “a pioggia” per il maggior numero

possibile di settori produttivi, sistemi locali di imprese, territori.

Ad esempio, di recente si è assistito ad una proliferazione di politiche di

sviluppo locale a sostegno di aree distrettuali e Progetti Integrati Territoriali, politiche

attuate senza un chiaro disegno delle finalità di politica industriale perseguite a livello

regionale e senza una valutazione delle implicazioni sul benessere delle altre regioni o

del territorio nazionale considerato nel suo insieme.

La tesi che qui si sostiene è che la politica regionale dovrebbe invece stabilire in

modo più stringente in quali circostanze e per quali settori produttivi il processo di

concentrazione va guidato, inquadrando gli effetti delle politiche di sviluppo locale in

una cornice più ampia, che includa i nessi con i territori contigui e segua una logica di

sistema (l’intera regione, le regioni limitrofe, il territorio nazionale, i Paesi

confinanti).

L’opportunità di adottare politiche di sviluppo che tengano conto

dell’interdipendenza tra settori e territori diversi è del resto confermata dall’analisi

empirica che mostra l’esistenza di spillover geografici tra province e una correlazione

positiva tra i tassi di crescita delle economie locali vicine nello spazio (Pagnini 2004).

Quest’obiettivo richiede una riflessione approfondita sui criteri di selezione di

distretti potenziali/aree territoriali da promuovere. Tali criteri devono discendere sia

dall’analisi teorica, ad esempio attraverso modelli di equilibrio economico generale

che descrivono in che modo variazioni di un tassello isolato del sistema economico si

ripercuotono su più settori e territori, sia da contributi quantitativi sui vantaggi

competitivi di determinate forme di agglomerazione produttiva e sulla loro evoluzione

nel tempo e nello spazio1.

1 Si veda, ad esempio, la recente raccolta di lavori empirici sulle agglomerazioni pubblicata dalla Banca d’Italia (2004). In particolare, si rimanda al contributo di Pellegrini (2004), che testa modelli alternativi di diffusione territoriale delle attività manifatturiere in Italia e al contributo di De Arcangelis e Ferri (2004), i quali analizzano i mutamenti nella specializzazione produttiva dei distretti italiani all’interno

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Anche con riferimento alle politiche per le infrastrutture, un pilastro della

politica regionale europea, l’assenza di una visione sistemica rischia di generare

effetti indesiderati.

Ad esempio, risultati paradossali possono conseguire da politiche che

migliorano le infrastrutture di trasporto interregionale. Tali politiche sono realizzate

allo scopo di ridurre l’isolamento delle regioni periferiche, facilitando l’accesso ai

mercati di sbocco. In realtà, migliori infrastrutture accentuano gli incentivi alle

imprese a localizzarsi dove la domanda è più forte, cioè nei più grandi mercati per

beni intermedi e finali delle regioni avanzate, poiché la riduzione dei costi di

transazione stimola i flussi di scambi verso le regioni povere (Martin e Rogers 1995).

Lo spostamento di enfasi dal trasporto su strada allo sviluppo della linea

ferroviaria ad alta velocità (Trans-European Transport Network, TEN-T) nella

politica europea per le infrastrutture potrebbe accentuare ulteriormente il processo di

concentrazione, specie dei servizi strategici alle imprese, nei grandi centri urbani delle

regioni avanzate. Le grandi città europee rappresentano infatti il cuore della rete di

trasporto ferroviario ad alta velocità e da esse si diramano frequenti collegamenti

diretti con tutti gli altri punti nodali dislocati sul territorio, mentre per i piccoli centri

l’accessibilità migliora solo con riferimento a località vicine (hub effect). In termini

relativi, il divario di accessibilità tra “core” e periferia si accentua (Vickerman et al.

1999).

Lo sviluppo delle infrastrutture della comunicazione ha invece un diverso

impatto sulla localizzazione territoriale delle imprese. La migliore trasmissione di

informazioni facilita la gestione a distanza delle fasi standardizzate della produzione,

alleviando nelle regioni congestionate il vincolo costituito dalla scarsità dei fattori di

produzione poco mobili o non-tradeable: compiti di back office e fasi standardizzate

della produzione si possono delocalizzare nelle aree rurali, suburbane, o in quelle

scarsamente industrializzate.

Se da un lato viene stimolata la dispersione delle attività produttive, dall’altro si

rafforzano gli incentivi all’agglomerazione nelle regioni avanzate, ma anche nei centri

del paradigma interpretativo NEG-NGT (concorrenza imperfetta, crescita endogena, integrazione internazionale).

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urbani delle regioni in ritardo di sviluppo, per le funzioni di management e ricerca

così come per i servizi strategici alle imprese (Robert-Nicoud 2002).

Una contrazione dei costi di transazione relativi ai flussi conoscenza opera

quindi da catalizzatore delle forze centrifughe nei settori industriali e delle forze

centripete nei comparti dei servizi e delle attività ad alto contenuto di conoscenza,

conducendo alla formazione di spazi regionali pluricentrici.

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2. New economy e localizzazione delle attività produttive: verso uno spazio

policentrico

La definizione di spazi regionali pluricentrici è un tema che può essere

affrontato adottando un approccio teorico più articolato, in grado di superare alcuni

limiti dei modelli prodotti dall’intersezione tra NEG e NGT.

La NEG enfatizza che il beneficio dell’agglomerazione risiede nella possibilità

di acquistare i beni, intermedi e finali, prodotti localmente. Lo svantaggio associato

all’agglomerazione consiste invece nei costi di trasporto sostenuti per vendere i beni

altrove. La tensione tra queste due forze, la prima centripeta e la seconda centrifuga,

si compone in una configurazione spaziale di equilibrio dell’attività economica.

Tuttavia la riduzione nei costi di trasporto e nell’importanza delle produzioni di

beni materiali a favore dei servizi e beni sempre più immateriali, impone di ripensare i

modelli della NEG fondati sul ruolo centrale dei costi di trasporto di beni fisici come

fattore di dispersione dell’attività economica (Glaeser e Kohlhase 2003).

Il movimento delle merci è sempre meno costoso mentre la mobilità del lavoro

non avviene a costo zero: i costi di trasporto connessi al movimento delle persone,

dovuti anche al tempo impiegato e al costo-opportunità del salario perduto, non si

riducono sensibilmente con le nuove tecnologie e infrastrutture fisiche.

Lo sviluppo di Internet e delle nuove tecnologie può sicuramente ridurre la

domanda di contatti face-to-face, ma le interazioni elettroniche non possono sostituire

rapporti personali basati sulla fiducia né consentono la diffusione di spillover di

conoscenze tacite, non codificate.

Nei settori che forniscono servizi ad alto contenuto tecnologico e servizi

personalizzati, si rafforzano gli effetti positivi dell’agglomerazione collegati al

beneficio che deriva dalla prossimità alle persone, specie quelle dotate di conoscenze

specifiche, dal risparmio di tempo necessario per attivare flussi di conoscenze.

Tutto ciò significa che il parametro che guida il cambiamento strutturale nella

dinamica di localizzazione delle imprese non è costituito dai costi di trasporto ma è

invece il costo di trasmissione delle idee o costo di diffusione della tecnologia.

Per quanto riguarda invece i settori manifatturieri tradizionali, la congestione

delle aree urbane e ad alta industrializzazione, sempre più estese grazie al

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miglioramento delle infrastrutture di collegamento e ai trasporti pubblici, può avere

un forte impatto negativo sulla produttività delle imprese.

In questo scenario, le regioni diventano policentriche: mentre i servizi e le

produzioni di beni immateriali, ad alto contenuto di conoscenza, si localizzano via via

nelle aree con elevata densità abitativa, in prossimità dei consumatori finali e dei

fornitori di input specifici, le attività manifatturiere trovano un incentivo forte a

localizzarsi nelle aree scarsamente industrializzate e quindi a disperdersi a macchia di

leopardo sul territorio.

Un altro limite della letteratura su agglomerazione e crescita endogena è che i

lavori che integrano NEG e NGT si fondano su modelli a due regioni. Le ultime

considerazioni che abbiamo avanzato possono invece essere pienamente sviluppate

solo costruendo modelli in cui lo spazio è formato da un continuum di potenziali

centri di agglomerazione/dispersione di imprese (Quah 2000, 2002).

Come sottolinea Quah (2001a), considerando la localizzazione delle imprese in

uno spazio continuo è possibile indagare il percorso di diffusione delle attività

produttive nello spazio e possono essere affrontate questioni più complesse: perché la

densità spaziale dell’attività economica presenta numerosi picchi, seguendo una

distribuzione più diseguale rispetto alla distribuzione di skill e altre caratteristiche

regionali? perché alcune localizzazioni transitano tra stati di sviluppo e stati di declino

delle attività economiche? perché in alcune regioni l’intensità dell’attività economica

declina rapidamente attraverso lo spazio mentre in altre regioni ciò accade solo

gradualmente?

Un’ipotesi interessante sui cui costruire un modello policentrico è che la

formazione di cluster industriali avverrebbe ad ondate che periodicamente vengono

generate dalla tensione tra spillover ed esternalità da domanda, che accrescono la

produttività delle imprese che si agglomerano, e le rigidità connesse alla disponibilità

di fattori di produzione specifici.

L’industrializzazione avverrebbe dunque attraverso fasi successive in cui si

susseguono agglomerazione e dispersione delle imprese, secondo un processo di

diffusione a macchia di leopardo, tipico dello sviluppo dei distretti industriali italiani.

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E’ dunque possibile individuare le condizioni che caratterizzano le fasi cicliche

di sviluppo del territorio cioè l’alternanza di ondate in cui ha luogo l’agglomerazione

di nuove attività economiche intorno ad alcuni centri produttivi ed ondate di

dispersione delle attività manifatturiere.

Ad esempio, Duranton e Puga (2001a, 2001b) ipotizzano una stretta

correlazione tra ciclo di vita del prodotto e distribuzione spaziale della produzione: le

attività sperimentali inizialmente nascono in grandi centri urbani dove possono

condividere processi di fertilizzazione incrociata con altre attività produttive e

successivamente, quando la produzione diventa standardizzata, le imprese

delocalizzano gradualmente gli impianti verso piccoli centri urbani ad alta

specializzazione.

Per quanto riguarda quindi i servizi e la produzione di beni nel comparto

dell’ICT, la dinamica della localizzazione opererebbe nella direzione di una

concentrazione nei grandi centri urbani di attività innovative per le quali i confini tra

produzione di beni e produzione di servizi sono molto sfumati.

Nei centri urbani la concentrazione di attività ad alta tecnologia si

accompagnerebbe inoltre ad un approfondimento della diversificazione produttiva

grazie alle esternalità di scopo trasversali a più settori. Si parla in questo caso di

esternalità tecnologiche intersettoriali o esternalità à la Jacobs (Jacobs 1969),

contrapposte alle esternalità dovute alla specializzazione settoriale, del tipo Marshall-

Arrow-Romer.

Altre possibili dinamiche della distribuzione spaziale delle imprese tra diversi

centri regionali possono essere individuate e spiegate (si veda anche Fujita, Krugman,

Mori 1999).

In conclusione, il risultato dell’interazione tra infrastrutture di trasporto,

infrastrutture della comunicazione e informazione e agglomerazione produttiva è uno

spazio regionale policentrico e la nascita di distretti plurispecializzati, accanto ai

tradizionali distretti industriali marshalliani monospecializzati.

L’analisi dei fattori che guidano questa tendenza verso uno sviluppo

policentrico permette non solo di fornire un contributo alla spiegazione del fenomeno

della diffusione territoriale dei sistemi locali di imprese ma anche di individuare

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politiche di accompagnamento e di orientamento della sua evoluzione in armonia con

gli obiettivi dello sviluppo economico.

In particolare, la diffusione della New Economy modifica profondamente la

relazione tra localizzazione produttiva e crescita economica e fa sorgere nuovi temi di

riflessione e nuovi problemi di policy: lo sviluppo di ICT e le agglomerazioni di

imprese ad alta tecnologia meritano un sostegno mirato e perché? va promossa

l’agglomerazione di imprese tradizionali o piuttosto la dispersione del settore

manifatturiero di tipo tradizionale è funzionale all’agglomerazione di imprese che

producono conoscenza?

Con riferimento alla prima domanda, l’evidenza empirica mostra

un’associazione robusta tra l’intensità di investimenti in ICT e l’attività di R&S

condotta nelle imprese. Poiché la R&S accresce la produttività totale dei fattori di

produzione, gli investimenti in ICT sono associati a settori con forti potenzialità di

crescita che fanno da traino allo sviluppo dell’intero sistema economico (De

Arcangelis, Jona-Lasinio e Manzocchi 2004).

La nostra ipotesi è che i settori high-tech sono molto sensibili alla disponibilità

in loco di imprese che domandano innovazioni e di bacini di offerta di competenze

qualificate (skill, università, centri di ricerca) in grado di dialogare con il sistema

produttivo2, condizioni che difficilmente possono emergere spontaneamente, in

assenza di incentivi adeguati.

La forte connotazione territoriale delle esternalità di conoscenza e di rete così

come la necessità per le imprese che investono in ICT di attuare una profonda

riorganizzazione dei processi produttivi e dell’organizzazione aziendale, giustifica

l’adozione di una politica regionale che concentri le risorse sulla realizzazione di

distretti digitali in un numero molto circoscritto di centri urbani in cui sono presenti

dei requisiti minimi di competenze diversificate.

Questa osservazione presuppone che il processo di agglomerazione di imprese

innovative sia trainato principalmente dalle esternalità dovute alla varietà produttiva,

cioè da esternalità à la Jacobs3.

2 Al riguardo, si rimanda a Pagnini (2002) per un’analisi empirica sulle determinanti della localizzazione delle imprese relativa alle regioni italiane. 3 Con riferimento alle esternalità di urbanizzazione, si rimanda a Duranton e Puga (2004) per un’analisi teorica, Rosenthal e Strange (2004) per una rassegna sull’evidenza empirica. Si veda inoltre Usai e Paci

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La piccola dimensione delle imprese e la loro limitata esperienza manageriale

rendono questo tipo di esternalità, anche dette “economie di urbanizzazione”,

particolarmente rilevanti per le imprese innovative meridionali.

Per quanto riguarda invece i settori manifatturieri di tipo tradizionale, le

politiche regionali dovrebbero basarsi su forme indirette di sostegno, come le

politiche per l’emersione e le politiche di integrazione all’interno del territorio

regionale (infrastrutture infraregionali, di connessione con i centri urbani, e

infrastrutture ICT a rete, per la diffusione di conoscenze) piuttosto che frammentarsi

nella promozione di una miriade di sistemi locali di imprese o puntare sugli effetti

benefici dovuti alla realizzazione di infrastrutture pesanti interregionali, effetti che

non sono affatto automatici e che potrebbero non materializzarsi mai.

Ciò perché, adottando un’ottica globale che tiene conto delle conseguenze

dinamiche, spaziali e temporali, delle modifiche sul territorio che si intende

promuovere, la dispersione del settore manifatturiero appare come l’altra faccia della

medaglia del processo di concentrazione di attività ad alto contenuto di conoscenza e

della nascita di spazi regionali policentrici.

(2001), Mion (2003), Cingano e Schivardi (2004), Pagnini (2004) per un’analisi empirica sulla rilevanza delle esternalità spaziali nelle regioni italiane.

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3. New economy, agglomerazione e sviluppo economico locale: opportunità e

rischi per il Mezzogiorno

Lo studio della dinamica delle strutture produttive nelle regioni italiane in

ritardo di sviluppo, le regioni del Mezzogiorno, fa da complemento all’analisi teorica.

L’esperienza dell’Italia, un Paese caratterizzato da forti e persistenti divari territoriali,

costituisce infatti il laboratorio ideale di verifica degli effetti dell’integrazione europea

e delle politiche regionali europee e nazionali sulla localizzazione delle imprese e la

crescita economica.

I lavori discussi mostrano che il trade-off tra obiettivi di equità ed obiettivi di

efficienza può essere risolto attraverso politiche regionali che tengano conto:

degli effetti di lungo periodo, quali la diffusione delle nuove tecnologie e le fasi

cicliche delle relazioni tra dinamica produttiva e crescita;

degli effetti di contagio tra territori contigui;

delle esternalità trasversali tra settori diversi;

Possiamo ora compiere un passo ulteriore e domandarci se un’area arretrata,

come il Mezzogiorno, presenta vantaggi specifici ad ospitare distretti tecnologici.

L’evidenza empirica sulla localizzazione delle imprese utilizzatrici di ICT e

imprese high-tech in Italia è ancora limitata e lacunosa, ma numerosi contributi

mostrano come l’evoluzione di cluster di imprese ad alta intensità di conoscenza non

debba necessariamente rafforzare il divario Nord-Sud.

Mentre le industrie tradizionali del Made in Italy (come quelle del tessile-

abbigliamento, gioielli, gomma, mobilio) appaiono fortemente concentrate in aree

territoriali delimitate, cioè nei distretti industriali, con punti di forza storicamente

rappresentati dalle regioni del Centro-Nord, le province italiane che presentano tracce

di agglomerazioni nei comparti dell’ICT non sono localizzate esclusivamente nelle

aree avanzate del Paese (Maignan, Pinelli e Ottaviano 2003, Bellini, Ottaviano e

Pinelli 2003, Viesti 2003).

Similmente, a livello europeo, Paesi periferici quali Finlandia, Irlanda e Svezia

risultano tra i principali produttori e utilizzatori di beni ad alto contenuto di

conoscenza (Quah 2001).

Poiché allo stato attuale in Italia non sono presenti segnali di specializzazione

produttiva in ICT né sono emerse chiare differenze territoriali nell’utilizzazione e

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dinamica degli investimenti delle imprese in ICT, in questo settore le regioni

meridionali non partono da una posizione di svantaggio comparato rispetto alle altre

regioni del Paese.

Ciò significa che la creazione di cluster digitali nel Mezzogiorno rappresenta

un’opportunità concreta di sviluppo, in linea con l’obiettivo della creazione di uno

spazio europeo pluricentrico individuato dalla Commissione Europea (European

Commission-Commitee on Spatial Development 1999).

Sulla base dell’analisi della distribuzione spaziale delle imprese che producono,

o meglio che utilizzano ICT, appare utile verificare in che misura i nuovi strumenti di

sviluppo locale (Patti Territoriali, PIT-Progetti Integrati Territoriali, Contratti di

localizzazione ecc.) rispondono o potrebbero rispondere alla necessità di sostenere le

agglomerazioni spaziali innovative.

L’approccio di sistema promosso dalla nuova “progettazione integrata”, il suo

carattere intersettoriale e il dichiarato orientamento prioritario a favore della

“creazione di beni collettivi e di condizioni di contesto ad essa favorevoli”, appaiono

aspetti che rendono questi strumenti particolarmente adatti ad affrontare un obiettivo

complesso quale la creazione e la diffusione di conoscenze sul territorio.

Quest’obiettivo richiede infatti un forte coordinamento delle decisioni di agenti privati

(imprese, lavoratori) ed istituzioni pubbliche (Enti Locali, Università, centri di

ricerca).

Un discorso analogo vale con riferimento ai Contratti di localizzazione, sia

perché si tratta di contratti che affiancano la concessione di incentivi alla

realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali, sia perché rientrano nella

cassetta degli attrezzi della Società Sviluppo Italia come strumento di attuazione di

una più vasta strategia di marketing territoriale ed attrazione di IDE (Investimenti

Diretti Esteri).

Di particolare rilievo è la valutazione dei risultati potenzialmente conseguibili

attraverso la realizzazione di PIT dedicati all’area tematica delle innovazioni.

Nel V Rapporto DPS 2001-2002 (DPS 2003b) si legge che i PIT nascono non

come nuovo strumento di politica di sviluppo ma come “modalità operativa di

attuazione” di un Programma regionale, che consente di integrare e collegare

interventi eterogenei finanziati dalla Regione. L’obiettivo è far convergere molteplici

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interventi regionali su pochi obiettivi e fabbisogni del territorio. A differenza dei Patti

Territoriali, i PIT prevedono inoltre una maggiore allocazione di risorse a iniziative

infrastrutturali e di servizio.

Nella nuova programmazione dei Fondi europei, i PIT possono dunque svolgere

un ruolo cruciale per il conseguimento di obiettivi regionali quali Formazione,

Ricerca, Società dell’Informazione.

Allo stato attuale, sono necessari ancora molti aggiustamenti nella gestione della

progettazione integrata territoriale, data anche la breve storia nell’esperienza delle

Istituzioni e nei soggetti economici coinvolti.

I PIT sono stati avviati dalle Regioni nel triennio di programmazione

comunitaria 2000-2001 attraverso modelli diversi che variano per l’intensità di risorse

assegnate, le modalità di raccolta delle proposte (procedure a bando o negoziali) e i

meccanismi di selezione, il grado di delega delle responsabilità dei progetti ai livelli

subregionali.

L’interpretazione generale che le Regioni hanno adottato è comunque orientata

verso una parziale “territorializzazione” di una quota delle risorse dei Programmi

regionali. Ciò appare in netta contraddizione con le finalità stesse dei PIT

(realizzazione di progetti che, per la loro complessità, richiedono una gestione

integrata).

Nel complesso, i punti critici emersi nella progettazione dei PIT riguardano: la

difficoltà delle Regioni di individuare specifiche priorità territoriali, l’assenza di

progetti diretti ad intere filiere regionali coerenti con i contenuti di una chiara

strategia di sviluppo, gli intoppi nel raccordo del Governo Regionale con il proprio

territorio. Debolezze molto simili erano state già riscontrate con riferimento ai Patti

Territoriali, gli interventi di sviluppo territoriale integrato che hanno fatto da

battistrada ai PIT (Dipartimento delle Politiche per lo Sviluppo 2003a)

Queste inefficienze potrebbero ridursi se le Regioni svolgessero un ruolo più

forte di stimolo e di coordinamento per indirizzare la progettazione integrata verso la

realizzazione di azioni articolate inserite all’interno di un disegno ampio, che includa i

nessi con territori contigui e le finalità di sviluppo di lungo periodo.

Al riguardo, vale la pena citare il rapporto di ricerca sull’efficacia dei Patti

Territoriali del DPS con riferimento all’innalzamento dell’efficienza delle iniziative

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centrate sul manifatturiero: “ esso è (…) probabilmente connesso alla presenza di

investimenti imprenditoriali in attività nuove per l’area (che non è facile suscitare), ad

esempio in attività connesse alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione,

che possono avere connessioni con il tessuto economico preesistente O ancora, in

iniziative volte a suscitare imprese in settori con barriere all’entrata normative o

conoscitive, come nelle attività di servizio alle persone ed in genere in attività che

possono essere condotte da imprese no-profit. O ancor più, in iniziative collettive

miranti alla diretta generazione di economie esterne, quali centri per la diffusione

dell’innovazione o consorzi per la qualità o marchi territoriali. Una possibile

implicazione riguarda ad esempio la necessità di qualificare ulteriormente i progetti

da sostenere, anche in campo manifatturiero, limitando o escludendo l’uso degli

incentivi a singole aziende che siano svincolati da progetti specifici di cooperazione

tra imprese, o tra imprese e soggetti pubblici, per interventi a forte contenuto

innovativo e ad elevata interdipendenza” (DPS 2003a, pp.36-37).

Assumendo i criteri richiamati come punto di riferimento, sembrano esserci

ampi margini di miglioramento nell’attuazione delle politiche regionali territoriali

nella direzione di un rafforzamento delle attività produttive manifatturiere ad alto

valore aggiunto, della formazione, della realizzazione di infrastrutture a rete e, infine,

della ricerca e innovazione tecnologica.

Alla luce di queste riflessioni, il primo argomento da sottoporre ad un esame

approfondito è come catalizzare, in particolare attraverso i PIT, le esternalità collegate

all’accumulazione di capitale umano e alla produzione di nuove idee all’interno di

realtà industriali dominate da imprese di piccole dimensioni, con vocazioni produttive

di tipo tradizionale.

Il secondo tema di rilievo è la valutazione degli interventi territoriali e di

sviluppo locale realizzati di recente in relazione all’obiettivo, a nostro avviso

rilevante, di colmare i salti che impediscono l’attivazione di esternalità non solo

intrasettoriali ma anche e specialmente intersettoriali.

Negli ultimi anni la politica economica svolta dalle Regioni e da altre Istituzioni

locali delle aree sottoutilizzate ha affiancato misure di sostegno delle agglomerazioni

produttive nei comparti tradizionali (turismo, cultura, tessile-abbigliamento e

16

calzature), alla promozione di cluster digitali, al potenziamento di infrastrutture, poli

logistici e di trasporto.

Tali interventi andrebbero esaminati verificando la coerenza rispetto al Quadro

Comunitario di Sostegno di ciascuna regione e agli obiettivi dichiarati, individuando

la relazione tra strumenti di sviluppo diversi che agiscono sullo stesso territorio,

eventualmente proponendo criteri più stringenti di selezione delle agglomerazioni

spaziali e delle infrastrutture in corso di programmazione così come dell’ordine di

priorità da assegnare ai progetti presentati.

Infine, non andrebbe trascurato che uno sviluppo locale qualificato, ad alto

contenuto di conoscenza e innovazione tecnologica, richiede l’integrazione tra

politiche attuate su scala diversa: locale, regionale e nazionale. Sarebbe dunque

auspicabile un maggior coordinamento tra soggetti responsabili della politica

economica che agiscono ai differenti livelli di competenza4.

4 Al riguardo, si veda Sforzi (2004).

17

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